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Monday, November 18, 2024

GRICE ITALO A/Z D DO

 

Grice e Dòdaro: la ragione cconversazionale e il convito, ossia, tracce di un discorso amoroso – scuola di Bari – filosofia barisese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bari). Filosofo barisese. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Bari, Puglia. Grice: “Dòdaro is an interesting one – totally cryptic of course! It is as if he were Nowell-Smith, Austin, and Donne, combined into one! Recall Nowell-Smith’s challenge to Austin: “Donne is incomprehensible,” “He surely ain’t!”  Costretto a riparare a Turi per sfuggire ai bombardamenti. A Bari si legò a Maglione, Castellano, Piccinni e, assieme allo zio Silvio, prendeva parte agli incontri artistici e letterari del caffè-pasticceria Il Sottano (in quegli anni frequentato da Moro, Albertazzi, Scotellaro, Bodini, Calò ecc.), fondato da Scaturchio, e agli incontri di Laterza e del circolo La Scaletta di Matera. Nello stesso periodo conobbe Nazariantz, il quale rappresentò per Dòdaro una sorta di guida, fu lui, infatti, a introdurlo per la prima volta agli incontri del Sottano dove ebbe modo di stringere amicizia con Bodini, Calò, Scotellaro. Abbandonò presto Bari, tentando una prima fuga a Parigi, città in cui sarebbe tornato a vivere altre volte, prima di tornare a Bari per poi trasferirsi a Lecce. Altre tappe, prima del trasferimento a Lecce, furono Milano e Bologna. Divenne allievo di Morandi, presso l'accademia, infatti, prime espressioni della sua attività artistica furono la pittura, praticata per una manciata di anni, e il teatro, poi diluito nelle successive esperienze poetiche e narrative. Come pittore produsse alcuni quadri in cui all'informale materico univa le combustioni, applicate, di fatto: Verri riporta in suo intervento: arriva con la novità dei colori "bruciati". Di questo ciclo di opere faceva parte "Svergognato incantesimo di barca", che gli valse, successivamente, la segnalazione presso il premio "Il maggio di Bari". Prima del trasferimento a Lecce, lavora presso l'ufficio stampa della Fiera del Levante, a stretto contatto con Fiore, figlio di Tommaso, venendo influenzato dal meridionalismo. Sempre nel clima della Fiera del levante, strinse un ottimo legame con Tot. Al suo arrivo a Lecce riallacciò i rapporti con Bodini e Calò, oltre che con Suppressa, conosciuto in occasione del premio Il Maggio di Bari, entrò, inoltre, in contatto con quelli che sarebbero stati poi suoi amici e compagni artistici: Durante, Massari, Candia, Pagano. Ebbe frequentazioni con Bene e strinse importanti sodalizi amicali e letterari con Verri, Gelli, Caruso, il quale, in corrispondenze private, ebbe modo di rinominare la loro amicizia e collaborazione come il "sodalizio Caruso-D.". A Leccesi rese protagonista, con Candia, di un grande falò in cui i due bruciarono tutti i quadri realizzati fino a quel momento. Per quanto riguarda l'opera pittorica  "Svergognato incantesimo di barca", insieme a pochi altri, si salvò dal falò perché all'epoca custodito presso la casa dello zio Silvio. Dopo questo iniziale periodo di ricerca e sperimentazione, abbandona la scena artistica per circa vent'anni, anni in cui si dedicò allo studio intenso nel tentativo di scoprire il perché del linguaggio, rompendo il silenzio con la fondazione del Movimento di Arte Genetica con sede a Lecce, Genova e Toronto. Con tale movimento, rintracci l’origine dell’italiano o romano nel battito materno ascoltato in età fetale, teorizzando il romano o italiano come una congiunzione volta a rifondare la dualità dell’essere umano non un regressus ad uterum, bensì la coppia, la dualità, ovvero la dimensione originaria della comunione con l’altro e come lutto, annodandolo alla mancanza di Lacan. Il movimento si doterà di due riviste: “Ghen”, giornale modulare ideato da D. con sede a Lecce, e “Ghen Res Extensa Ligu” con sede a Genova e diretta da Mignani. L’idea del modulo come unità di misura sarà alla base della struttura modulare di “Ghen” oltre che della concezione dello spazio, mutuata sempre dagli studi sulla dimensione pre-natale, fino a sfociare nel manifesto "Incliniamo l’orizzonte”. L’italiano o il romano diventa una congiunzione, una dichiarazione onomatopeica in cui si alimentava il trionfo del lutto e la mancanza. L’orizzonte diventa orizzonte mediale: poesie per i treni, per gli altoparlanti e più in là romanzi in tre cartelle, romanzi su cartolina, collane spaginate, poesie e poesie visive da proiettare per le strade, poesie per internet, net.poetry, narrazioni su leaflet, romanzi da muro-narrativa concreta, romanzi di cento parole da pubblicare in store, nelle vetrine dei negozi. Al Movimento di Arte Genetica aderirono, o ruotarono attorno alle sue riviste e attività, un numero considerevole di autori provenienti dalle sperimentazioni poetiche e poetico-visive, performative, sonore, plastiche: Miccini, Marras, Mignani, Fontana, Munari, Fiore, Dramis, Perfetti, Pagano, Gelli, Noci, Greco, Lorenzo, Marocco, Massari, Miglietta, Center of Art and Communication (Toronto), Giorgio Barberi Squarotti, Toshiaki Minemura, Xerra, Sicoli, Souza, Alternativa Zero, Experimental Art Foundation (South Australia), Block Cor (Amsterdam), Genetet-Morel, Lepage, Martini, Valentini, Restany, Etlinger, Caruso, Verri, Miglietta, Nigro ecc.  Con la nascita del movimento di Arte Genetica, avvia una personale riflessione sull'oggetto-libro e le sue modalità fruitive, avviava il progetto "Archivio degli operatori pugliesi", per una catalogazione degli operatori estetici e culturali. Crea e anima «il centro di ricerca  (strutturato, nel nome, sulle coordinate della Classificazione Decimale Dewey, ad indicare i percorsi di ricerca: filosofia, linguistica, arte, letteratura), ospitato dalla Libreria Adriatica di Lecce, e con il quale coinvolge numerosi operatori del territorio (docenti universitari, il gruppo Gramma, il Centro ricerche estetiche fondato a Novoli da Greco e Lorenzo, il gruppo Oistros di Durante e Santoro, gli autori del gruppo di Arte Genetica da lui fondato ecc). Ha diretto la casa editrice Conte di Lecce, ha fondato a Lecce, il movimento letterario New PageNarrativa in store. La sua attività letteraria ed editoriale è  stata caratterizzata da uno spiccato senso per la formazione di gruppi e la ricerca di autori da lanciare, rappresentando sul territorio pugliese un autentico volano per operazioni di ampio respiro che andavano spesso a coinvolgere autori del panorama letterario internazionale. Idea e dirige una mole notevole di collane editoriali volte al rinnovamento dell’oggetto-libro, fra queste: «Scritture» (Parabita, Il Laboratorio), «Spagine. Scritture infinite» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) scritture di ricerca formato poster, spaginate, «Compact Type. Nuova narrativa» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) ovvero romanzi in tre cartelle, «Diapoesitive. Scritture per gli schermi» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) scritture di ricerca da proiettare, «Mail Fiction» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) romanzi su cartolina, «Wall Word» (Lecce, Conte Editore,)tradotta in giapponese ed esposta all’Hokkaido Museum of Literature di Sappororomanzi da muro, ovvero collana di narrativa concreta, «International Mail Stories» (Lecce, Conte Editore), «Internet Poetry» (Lecce, Conte Editore) una delle primissime esperienze italiane di net poetry, «Walkman Fiction. Romanzi da ascoltare» (Lecce, Argo), «E 800 European Literature», in 5 lingue (Lecce, Conte Editore), «Pieghe narrative» (Lecce, Conte Editore), «Pieghe poetiche» (Lecce, Conte Editore), «Pieghe della memoria» (Lecce, Conte Editore), «Foglie nude» (Doria di Cassano Jonio), «Locandine letterarie» (Lecce, Il Raggio Verde), «Romanzi nudi» (Lecce) in unico esemplare, «Carte letterarie» (Lecce, Astragali), Mail Theatre (Lecce, Astragali), «New Page. Narrativa in store», (Lecce) narrativa breve, poi anche poesia e teatro, in cento parole, collana che guarda alla comunicazione pubblicitaria con i testi applicati su crowner, pannelli cartonati in uso nella comunicazione pubblicitaria, ed esposti in store, nelle vetrine dei negozi.  Nell'ambito della poesia verbo-visiva e del libro-oggetto, è presente in numerose manifestazioni di «Nuova scrittura»: Ma il vero scandalo è la poesia. Un salto di codice, Ferrara, Ipermedia; Attorno a noi poeti in gruppo, Strudà (Lecce), Ospedale psichiatrico; Dentro fuori luogo, Casarano, Palazzo D'Elia; Centro internazionale Brera, Documenti di gestione alternativa. Appunti sulla Puglia, Milano, Chiesa San Corpoforo; Artigianare '81, Lecce; Cercare Bodini, Bari / Lecce, Ab origine, Martina Franca; Parola fra spazio e suono. Situazione italiana, Viareggio; Le brache di Gutenberg, Caruso, Visco, Livorno; Far libro. Libri e pagine d' artsta in Italia, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Il segno della parola e la parola del segno, Milano, Mercato del sale, Breton et le poeme-objet, Ugo Carrega, Milano, Mercato del sale, Le porte di Sibari, Sibari, Visibile Language. Numero speciale sulla poesia visuale. Sezione Italia, E. Minarelli, USA; Cartoline d'artista, Livorno, Belforte, Terra del fuoco. Intersezioni per Adriano Spatola, QuartoNapoli, La parola dipinta. Rassegna di poesia visuale, Belluno, Comune di Gallarate Civica galleria d'arte moderna. Casa d'EuropaSede di Gallarate, Pagine e dintorni, Libri d' artis ta, Gallarate,L. Pignotti, “La poesia visiva”, L'immaginazione (Lecce), S-covando l'uovo, Firenze, Terra del fuoco, QuartoNapoli, Musei Civici di Mantova, Poesia totale. Dal colpo di dadi alla Poesia visuale. Mantova, Sarenco, Palazzo della Ragione, Archivio libri d' artista. Laboratorio, G. Gini e F. Fedi, Milano, È presente in Musei, Biblioteche, Archivi. Tra i più importanti: Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze“Libri e pagine d'artis ta”con l’opera Mar/e amniotico, 1983; Galleria d’arte moderna di Gallarate, con le opere Mourning Processes. The word, e Processi di lutto. Notizen: dis; Museo S. Castromediano di Lecce, con l'opera Matram psicofisica, Archivio Sackner, Miami Beach, e Archivio Della Grazia di nuova scrittura, Milano, con varie opere; Hokkaido Museum of Literature, con la collane “Wall Word”, nteramente tradotta in giapponese; Imago mundi-Visual poetry in Europe (Fondazione Benetton, ) ecc.  Altre opere: Dichiarazione onomatopeica (Lecce); Progetto negativo (Lecce,); Disianza Congiuntiva (Livorno); Disperate Professore (Parabita); dis/adriatico (Caprarica di Lecce); Tracce di un discorso amoroso (Caprarica di Lecce); Compact Type. Nuova narrative Con Verri, (Caprarica di Lecc); Sconcetti di luna (Caprarica di Lecce); Mail Fiction. Free Lances Con A. Verri(Caprarica di Lecce); Navigli (Caprarica di Lecce); Void Fiction (Sibari,); Street Stories (Lecce)tradotto in giapponese(SapporoJapan); Parole morte. Dead Words (Lecce); L’addio alle scene (Lecce); Antonio Verri. Schegge del contestocon M. Nocera (Lecce); 18 i titoli pubblicati su leaflets (Lecce), 16 «Pieghe narrative» e 2 «Pieghe poetiche»: “Pieghe narrative”: Vento, vento, I colombi della clausura, Il figlio dell'anima, La Balilla, Graziato, Il monumento, Dove volano i gabbiani, La mimosa, Ricordanze zigane, Franco, Cocker, All'ombra del grande vecchio, Reparto «P», Il tradimento, 27 marzo, L'esame. “Pieghe poetiche”: Rosa virginale, Il solista; Dichiarazione d'innocenza (Lecce); 7 i «Romanzi nudi», titoli in unico esemplare (Lecce, Dis, Era d’autunno, Il falò, L’Objet trouvé, Silenzi, Why, Ballata migrante, Uscita in marasma (Lecce); Di viole. D’incanti. Astragali teatro (Lecce ); New Page: In un bosco di frammenti (Lecce), La parola tramava (Lecce); Le prime notti stellate (Lecce) interrogatorio violento (Lecce, ) I suoi ramaggi (Lecce, ). Grigiori dell’anima (lecce, ), Di un solstizio d’amore (Lecce, ), Maria la magliaia (Lecce), Teresa. L’Altrove, (Lecce), La mer. Ma mère (Lecce), Una notte senza stelle (Lecce). Le distese di grano, (Lecce), Gastronomia da asporto (Lecce), Una sua lettera (Lecce), Trincee matricali (Lecce), Compagno d’accademia (Lecce). Tra i gabbiani (Lecce), Cioccolatini di Chicago (Lecce), Cantata duale (Lecce). La tromba dell’altrove (Lecce), Il nipote violoncellista (Lecce); ‘Operatori culturali contemporanei in Puglia. Archivio storico divulgativo, Lecce); “Ambivalenze genetiche”, Ghen (Lecce) ora in “Genetic Ambivalencie”, Art Communication Edition, Toronto-Canada) “Links”, Ghen (Lecce), “Il complesso di Edipo e quello di Caino”, Quotidiano (Lecce); “I processi di lutto. La Weltanschauung ghenica” in, La parola tra spazio e suono. Situazione italiana, Viareggio, “Codice yem: le origini del linguaggio, ovvero la rifondazione della coppia”, Ghen (Lecce) (ora in Regione Puglia, Creatività e linguaggio. Atti del Convegno, Maglie); “Dis-astro”, in A. Massari, Dis-astro. Loos, Lecce, “L’area inter-media”, in F. Gelli, Transitional Objects. Mutter Fixerung, Lecce; “Ipotesi interpretativa del fenomeno droga, formulata da una coscienza che opera nella poetica. Della scissione. Della prevenzione” in Tossico-dipendenza: progetto di lotta Centro studi giuridici M. Di Pietro. Convegno. Lecce; “Mater externata”, in L. Caruso, Mater: poesia. Madre e signora dell’acqua, Lecce; “Lontananze genetiche. Ad cantus enclitico”, in Manifesto mostra gruppo Ghen, Milano; Progetto negativo, Galatina (ora in Ab origine. Presenze pugliesi nell’arte contemporanea, Roma-Bari); “La letterarietà di Caruso”, in E. Giannì, Poiesis: Ricerca poetica in Italia, Arezzo; “La poesia totale di Spatola. Il convegno di Celle Ligure”, On Board, Lecce; “Wall Word: parole da muro, romanzo da muro”, in F.S. Dòdaro, Street stories, Lecce; “Dodici haiku. Dodici punti di rilevamento”, in E. Coriano, A tre deserti dall’ultimo sorriso meccanico. Three deserts from the shadow of the last mechanical smile, Lecce; “Una pagina diversa, up to date”, in Pieghe narrative, Lecce; Schede d'arte contemporanea. Implicatura e Mappatura schedografica degli Autori contemporanei, Lecce; “L’ampliamento della flessione”, in Archivio libri d’artista. Laboratorio 66, Milano; “Le anime narranti di Alberto Tallone”, in Tallone. Manuale tipografico, Alpigiano (Torino), New Page (Lecce); L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in New Page (Lecce). Francesco Aprile, Già così tenera di folla, in Intrecci, Napoli, Oèdipus,  Edoardo, un cavaliere senza terra, su bit. Antonio Verri, Edoardo, Un cavaliere senza terra, su bit.  Francesco Aprile, Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce, su Puglia libre, Testi di teoria letteraria/editoriale, su utsanga.  Archivio di nuova scrittura, su verbo visual virtuale.org.  Cantata duale, Imago mundi-Visual poetry in Europe, su imagomundiart.com.  Antonio Verri, Una stupenda generazione, SudPuglia, Antonio Verri, Edoardo, un cavaliere senza terra, SudPuglia, Aprile, Già così tenera di folla, Napoli, Oèdipus,  Francesco Aprile, La parola intermediale: lineamenti di un itinerario pugliese, in Aprile F.-Caggiula C., La parola inter-mediale: un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca Rizzo,  Aprile, Fra parola e new media, in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese (atti del convegno), Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo,  Cristo Caggiula, Intersezioni asemiche nel movimento di Arte Genetica, in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca Rizzo,  Visual poetry: A short anthology, in utsanga, L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in utsanga, Testi di teoria letteraria/editoriale,  Codice Yem, le origini del linguaggio: ovvero la rifondazione della coppia, in utsanga, Letterarietà di Caruso, in utsanga, La poesia totale di Spatola/Il convegno di Celle Ligure, in utsanga Francesco Aprile, Il rapporto D.-Verri attraverso la critica, in utsanga Francesco Aprile, Dal modulo all'internet poetry, in utsanga, Aprile, L’Arte Genetica, in utsanga, Aprile, New Page: Narrativa, Poesia, Teatro, Scavi in store, in utsanga, Aprile, New Page: la poiesi come approccio etnografico, Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo, Aprile, New Page, collana di critica letteraria, Sondrio, Edizioni CFR,  Intervista a Vincenzo Lagalla, Francesco Aprile, in utsanga Lamberto Pignotti, Introduzione, L'addio alle scene, Lecce, Argo,ora in utsanga Lamberto Pignotti, Rebus, iper-rebus. Parole da vedere, immagini da leggere, in utsanga, Caruso, Frammento, in utsanga Julien Blaine, Omaggio alla "O" in D., in utsanga Ruggero Maggi, Dedica, utsanga Alessandro Laporta, cercarlo dove non appare, in utsanga, Mignani, Ghen against again. Risarcimento dei supporti o della signatura dei segni, in utsanga Egidio Marullo, F. S. Dòdaro. L'ultimo mentore, in utsanga  Omaggio, in utsanga  Cantata plurale, materiali 01, Caprarica di Lecce, Utsanga. AP01-L0T30R0 g lift rhe mi domandate, U-» [U quello che « svista, mi   Inon son pre molto ch’io mi   trovavo a risali   Filerò, in città-, ed ecco, . j.^^-jania da   staimi riaonosctoo J d.=«o ^ ^ H,,e- 1 fu/rirt™ 't-irràT ,t   punto poco fa, che ^ guita tra Agatone   contarmi la conversazione seg  e Socrate e Alcibiade ® ‘j discorsi, sai, di  allora parte al convito ^S)> ^ perché me gli  Amore; o che vi si disse C ^ ggntiti da Fe-  rapportati un altro che g detto che   nice, figliuol di Filippo (7)> B  Convito    li conoscevi anche tu. Ora, egli non nii  dir nulla di chiaro. Sicché ridimmeli tu  tu sei proprio quello a cui si conviene rifèr’'''^  discorsi deir amico tuo. E per prima cosa,  mi domandò a quella conversazione t-r; Ed io gli risposi :  Si vede davvero, che di¬  te ne ha fatto il racconto, non t’ha rapporta/'  nulla di chiaro, se tu credi che la conversazióne  della quale mi chiedi, sia succeduta da poco  tanto che io ci avessi potuto essere. Ma si.   0 come mai, Glaucone, — dissi io ; — o non  lo sai, che sono anni parecchi che Agatone non è  più tornato qui? Mentre da quando io ho dimesti¬  chezza con Socrate,' e ho fatto mia cura di sapere  giorno per giorno ciò ch’egli fa o dice, non  sono ancora passati tre anni: Prima giravo a  caso di qua e di là, e immaginandomi di far  qualcosa, ero l’uomo più misero del mondo,  non meno di te ora che credi di dover fare qua¬  lunque altra cosa piuttosto che filosofare.   E lui — Non celiare, — disse: ma dimmi:  quando ebbe luogo quella conversazione?   Ed io Mentre eravamo ancora ragazzi —  risposi quando Agatone vinse per la prima  solta nella gara della tragedia, il giorno dopo  e ie egli e i coristi celebrarono il sacrifizio di  ringraziamento.   Un gran pezzo, dunque, si vede. Ma chi  'Socrate stesso?   B niVff-' ^ ~> “ 1“cl medesimo che a Fe-  un certo Aristodemo, Cidateneo, un omet- 29   !h“”"   ^ adatta a a‘s _   in t^'^'' ’ „ ai auei discorsi, C   ““'?'cosi »»'!»”“> ''"'“rircipio, "O" P"?.   f. com« 'i'“''° "' ’^" t nUssario che io h   siccità’ Se duirque ta ^, >50 quanto   alla sprovvista. Cli 'O.! fuor di misura; ment q gente   1 discorsi, e in ispecie a e, me. e   ; acca e d’affari, e 1. ne ru ,   1 sento compassione ,,uUa. E forse,   pare di far qualcosa 1 gtimate me uno sfor-   c>»-.-"*jtrc-cdi«e il vero-, ,e  lunato; e credo, c ^-«do ma lo so.   non die io di voi non lo credo, ni   amico dici   Sei sempre lo stesso, Apollodor ^   sempre male e di te nic esimo ^^iseri, da  par propriamente, die tu £ di dove   :ratciii fuori, conlinciando * • io   ti sia venuto il soptamm ^osi   dnvvero ; ma cer ne’ discorsi; aspro con te e coa-1! .   .... fu-    con Socrate. " ‘“'o fuorci,(, ^   APOLLODORO   E Già s’intende, carissimo; perchè ia  e di me e di voi, sono furioso e deUro^*”  AMICO   Non mette conto, Apollodoro, qugsj-  ora di ciò; però, quello di cui t’abbjan°”'"-‘^  chiesto, fòlio e non altrimenti, ma raccontac'i T  discorsi si fecero. APOLLODORO   Furon su per giù di questo tenore. Ma piut¬  tosto (9) mi proverò a raccontarvi ogni cosa dal  principio, come quello fece a me.   Egli, dunque, mi raccontò, d’essersi incontrato  con Socrate, lavato (io), e anche calzato, cosa  che a Socrate non succedeva spesso; e  d avergli domandato dove s’avviasse così rimbellito; e quello gli rispondesse: A cena da Aga-  Olle. oiche ieri a’ sacrifizi del ringraziamento  0 scansai, per paura della gente; ma gli pro-   son ^   d» un bello Ma'em'   è il tur, r- disse, —che sentimento   tato? (12) mudare a una cena non invi-   ^d m — disse ..* .   vuoi. '•sposi: Quello che tu   perchè noi’si mm? fiFtese — anche   proverbio, sicché dica che      buono P^r guerriero, C   ”? aue«o '»=“" ,otetò il ré*'»'"^ ^he io, Socrate, cor presentarmi,   f»"''“£i,.» “"’= “Tcinvuó di un ,a-   ‘r;.«ona di P““.““°,ó- Guarda tu d,e m. D  uomo, non mvi^ ^hì;, quanto a  *0^,6 rveici non inviuro, bensì   italo da te.  ^^nsuUerem V »»   ,::t:;tdi'ci6 “he .«=0,0 , dire, su, an-   Scambiate che si furono queste  narono. ' Ora, Socrate ^soenava,   siero, fermandosi per istrada, ^ ® che   gli ordinava di andar pure innanzi. trovò   quando fu giunto alla casa di Aga o ,   aperta la porta, e gli venne”incontro   caso ridicolo (i6). Perchè gh ^   Un ragazzo e lo condusse dove e » Convito i   giacere, e ii colse, che stavano per nf-  cenare (17). E appena Agatone T j   disse : O Aristodemo, tu arrivi in punt°°^ '"'sto  nare, s’intende, insieme con noi.  venuto per qualche altra cosa, rimettila  Anche ieri t’ho cercato per invitarti ^  m’ò riuscito di vederti in nessun luogo (ìst  come mai non ci conduci Socrate? '   Ed io  disse  mi voltai addietro e non • •  in nessun luogo Socrate che mi seguisse; Si  risposi che io ero venuto appunto con Socrate  invitato qui a cena da lui. Hai fatto bene — ripigliò Agatone, ~  lui dov’ è ?  Dianzi, egli era per entrare dietro a me - 0  dov’è? Son tutto stupito.   Ragazzo, o non t’affretti a guardare, riprese  Agatone  e non ci meni qui Socrate? e tu, Ari¬  stodemo, dice, sdraiati accanto a Erissimaco,    E, mentre il ragazzo gli lavava i piedi,  perchè si mettesse a giacere, un altro dei ragazzi,  raccontava, tornò annunziando, che questo Socrate, ritiratosi nel vestibolo della casia accanto,  se ne stava li fermo, e per quanto lui lo chia¬  masse, non era voluto entrare (20).   0 che strana cosa tu dicil — disse Aga¬  tone. 0, dunque, non lo chiami da capo (21)  e non seguiti?      Ma nientaffatto  lasciatelo stare.  riferiva d’aver detto; —anzi  Perchè lui ha quest’usanza-;  dovunque si trovi,   ..•'‘“‘ira («"’" Ja las»»“'° ripresa   1» "’fs"-» » 1 dStènoùUsi. iP»:   “ M» "'’ÈbbePe.«Sf he vói volete, gi»e*“   tg»'°"'=7urittura ?rleervi-, il dte io «on   siedili fate COMO   ìSSU’’^’ . epoi mai • invitati da voi,   'C’ppe»” *'T *S°ve 11- eSble»" a l°to'-   ìttateci iti ssi principiarono a   c, raccontava, ess p ^„atone pm   ^ m Socrate "°^X'"socrate, ma Aristo-   è 'r^ór óhft.ie.ilopo «hmd»S‘“   .oaonlope™'* ,„a ,emte; s era   tanto lungo, con ^ Aratone- si.   che a mezzo della . Qua, So¬  piva solo a giacere ti ^   e _ disse idea sapiente, che   vXlo; giacchi. ^   ?::róhtóvó.a,euti-ip™'"  " mosso. ^ S.,rebbe pur bene, — dis-  • Socrate sede, e — Sa V  -Agatone , se la saptcì .   rete dal più P''™ t ,ei Wechtol l’«‘l“i'r  tdo ci tocchiamo; come p,u   „„ filo di latta, scotte ^ P'“ ^ j rosi, io  0 (,4). Chi, se 1'“'’= “*: forchi di molta  ;o molto lo starti a ’ ^jj,|,j,pito da te.  Ila sapienza io sarò, pcn sarebbe   tti, la mia, quando j. siccome un so-   -hina c disputabile, g'^c rigoglio la   mentre ò splcmhda e pien, ^   1., ITONE, Voi. /-Vt    Convito   tua, che da te ancor giovine ha sf„i  COSI gran Juce ed ha brillato diana^'® co  pm d. trentantila Elleni per testiSo?'*   Tu sei un impertinente, Socrat ^’ 5 ). ‘  Agatone; —se non che questa dell^. f'^Ose .  quistione che decideremo anch’essr  qui a poco (26), prendendo Dioniso^”  ce (27); ora, per prima cosa, mettif^'^'^   “ a cena.  Dopo ciò, raccontava, Socrate si mettessi-  giacere ; e quando lui e gli altri ebber finito a -  cenare, facessero le libarioui, e cantato l’innò  all Iddio, e compita ogni altra cerimonia ('28') si  voltassero al bere; ma qui Pausania principisi  a parlare in questo tenore:   Bene sta, amici — disse — come faremo a  bere fi p,u a comodo? Io vi so dire in ve-  ità che mi sento molto aggravato dal bere di   cri.*' "POSO, e cosi,   vate ’ ’ g'^^chò jeri ci era-   bere •! in che modo potremmo   bere fi pm a comodo.   bene rispose : — Di ciò tu dici certo   nel bere"“''"'^. ‘comodità   •li jeri ' vocile io sono degli annaffiati   ^euiiieno ^^“tito Erissimaco figliuolo di   uùa cfsf ~ bene davvero;   si sente in fnr,,'”* ‘f°gna sapere da voi, come  per bere Agatone?     c    neanclie io   ^rispos^^' ^   f““^oC.„.„--rep«‘'>®Sre’p«   (tra» per me e po ne   una . ^„3tra, P .entissrmt ne   rci''’^ • se v°' ’ ' } • ntianto a nor > „   ci alto. perche, q^t^n ^i m   t strac"'''Socrate e aU’altra,   :>:rradatto ^'7:,n."to, delP-i,  si chiamerà dunque,   li arante^ o 1 altra. • g-i senta vogha   ? a eh nessuno tie’fcse^   Olfo vi.», ? r*= sia vai.™- ^   * ° aire la medicina La ta«o   %5lS'3sri-"   giorno innanzi. j^pse Fedro   acanto a me, " di obbedirti,   prendendola parola   massime, in . ;';^bediranno anche gh altri,   medicina; ma ora ti odo  se si consigliano bene. unti di non   Sentite queste della lor rm-   fare dell’ubriacarsi il ^ piacere ’   nionc, ma di bere cos   VI   ^ poiché s’e   Or bene, - ripigliai ^'"'^^'"Jo^.pole, e non a  deciso che ciascuno beva q _ pp’ altri   sia nulla di forzato, fo dopo proposta; cd è che si congedi la son •  trata or ora; lei suoni per conto suo"^''®  piace, alle donne di dentro, e noi si n’ °  il nostro tempo a conversare. E su qn^p  getti, se siete contenti, ve lo proporrei•’   AI che tutti diceva acconsentissero c 1°'  tasserò a fare la sua proposta; sicché Eriss'  riprendesse: II principio del mio disco^r!  conforme alla Menalippe di Euripide (30) • h >  non è mia, bensì di questo Fedro qui, la /  che son per dire. Fedro, di fatti, se'ne lag  sempre meco. Non è intollerabile, dice, 0 Eris''  siraaco, che ad altri Dii si sian composti da’ poeti  inni e peani , e all’Amore, che è cosi antico  e cotanto Iddio, nessun poeta mai, di tanti che  B ce n’è stati, abbia composto un elogio; aiui  se vuoi guardie a quei bravi sofisti, scrivano’  si, gli elogi di Ercole e di altri eroi in prosa  per esempio l’eccellentissimo Prodico ; è  questa è anche meno da stupire, ma io stesso mi  sono g.à imbattuto in un libro d’un sapien-  l’mTfA’ lodato soprammodo per   c drpcV simili cose tu ne ve-   conto 'Tiolte.(33). Fare un cosi gran   al mond ^ l’Amore, nessun uomo   <i“esto inneggiarlo fino a   così! (ir') n ' Uu tanto Iddio trascurato   «n ragione ’ Fhk^   ^'PPosgio  e\l'l"’-'°   „ P‘*'’e, che nelli „ ^ ^ ‘ e insieme mi   ''°1 che siamo occasione s’addica, a   . se pare eli l’ecidio. Sic-   =>nchca voi, c’intratterremo   Erissi"'^‘'°;rLrto l^on ti direi di  ó»®.ri»' Ù™^™ì di niente   sostengo di «ot j, Agatone c   ® ,U amore U?-» .-^„fone.    t,e sostengo u. . . ^gaiuL^v- -   '°’ fi di cose di Vende, Aristofane,   ! e neanche, /,, nè alcun altro E   Mutto Dioniso e A to 1 ^^unque la par¬  afa io vedo qui. f Jo l'ultimo   CsiaP-VP-ritrimi avranno detto    ,.tiPlU Clic . Ug auDiuiiw   ;’n.« rie peri P« iranno detto   nsto- se non che, _ , Su via, con   bbastanz» oa (S)’   ,uona fortuna C39;> P   'Amore. . assentirono tutti, e fe-   A ciò anche gh Però, di tutte   cero lo stesso invito di Aristodemo si ri-   le cose che omscun > „,ia, di   cordava appuntino, t° P_^ P^^   tutte quelle che npet* _ ' ehe a me parve   di memoria e i discorsi d quelli c  fossero tali, un per uno (.qOA VII   discorso di FEDRO   , a-,co raccontava che   E per il primo, come dm ,   Fedro cominciasse a un n maravighoso tra   grande Iddio fosse l’Amore, e mar 3 ® • r*   Convito   gli uomini e tra d;:  7 '“   B 1 essere tra i più antichi T la- g’AMORE ni vi sono, ni si citano j, ''S'"itotì di  nè prosatore nè poeta; Està  prima fosse il Caos, dice,    nni I ^ terra   Dal largo petto, d'ogni cosa sede'  In eterno sicura e Amor.    Afferma, che dopo il Caos queste dn.  nascessero, Terra e Amore. Pannenide  che la Generazione Pnraissimo l’Amor di tuttiquanti  Iddìi pensò.  con Esiodo s’accorda Acusileo ; da tante   i'chiss°“''''"'- antichissimo.   Antichissimo, poi, com’egli è. ci è causa dei   nulfa^dr ’Op eli certo, non so   di un appena giovine giovi più   diunorr”!-^^' ^ all’amante   viro di tri ^^PPoichè ciò che deve ser-   '’ene Qiip f * intera vita a chi sia per viverla  la ricchezza” Parentela, nè gli onori, nè   benencll’nn* ^ "'ont altro può insinuarlo cosi  tiuesto? La'”° come l’Amore. Ora, che è egli  'azione nei brutti, l’emu-   * nè privato qualità nè    C‘tlà nè privato • ' v—*.. «u,. ijuam.i *>   c belle Opere pui S^ado di compiere grandi  i o ' ac è tróv affermo che un uomo   ^ *°"crarla da ^ qualche brutta cosa  ti senza difendersi per vi    hcri«.''° ^ dagU amici nc n^c-   che egli soprattutto da E   li^ ,/da ^i-U’amato, che ^ Q^to   vediamo neh , d esser   feria' Pantano, n.i Sechi:, se aie«   > ‘" vi »'*   '(•«f ts. P"*» Ji »"»>•;.   iiez^a esercito si c P modo di reg   T^’non ci i-orc di quello di co-   n uS»‘“‘‘"tre I Sauendo gli 11 ” ' i;c=r;bbcro, s.o pe, dire,   li accanto a„ ^mjni tutti quanti ( 44 )-  Idre in ponW S'' esser sdsro disertsre   i,è un nonio che * ’/.e'» lo ammetterebbe   Vsr» » * he eWrrrrriue nitro i   1.,,. persoir» "direbbe morire più volre^   ; prima che questo, ^ in un pencolo   I serro, «bbnmlo"«r^„"„” „ ehe   aon dargli ajuto, no .^g^be d’un divino   l’Amore di per se P di pm va-   spirito di virtù da che Omero B   lorosa indole (46). E, coraggio m   dice, nvere un Idd P^ ^p,,ato   taluni croi, questo 1 An  da lui negli amanti.   Vili   fi sono disposti a  E si, che soli . 8 " “"Xe uomini, r"»”*'’  morire per sli-^i"?''^'’testimonianza, quanto  le donne. E di ciò ( 4 ^) ‘ ,-,inla di Pelio, che  basta, agli Elleui Alceste Sglmola  C sola consenti a morire per il marito s  pure aveva padre e madre; i quali essa, pe°f  d’amore, tanto superò nell’affetto da farl-°*^^‘^  rere estranei al figliuolo, e non appartenen  lui che per il nome. E per aver compiuto a ^  st’atto, parve n’avesse compiuto un cosi bei['  agli uomini e agli Dei, che, avendo pur niohi  compiuto molti e belli atti, ad assai ben pochi det  tero gli Dei quest’onore, di ricondurne quassù  l’aninia daH’Inferno, ma la sua la ricondussero  D compiaciuti dell’atto suo. Tanto anche gli Dg;  pregiano sopra ogni altra l’osservanza e la virtù  di Amore (49). Invece, Orfeo, figliuolo di lagro,  lo rimandarono via dall’inferno a mani vuote  mostrandogli un fantasma della donna per la  quale era disceso, anziché dargli questa stessa,  poiché, come un citaredo che era, s’era chiarito  di animo molle, e gli era mancato l’ardire di  morire di amore come Alceste, anzi s’era ingegnato d’entrare vivo nell’inferno. Sicché per  questo gl’inflissero una pena, e lo fecero mo-  E rirc per mano di donne; in quella vece  Achille, figliuolo di Tetide, onorarono e man¬  darono alle isole de’ beati; perché egli, sa¬  puto dalla madre, che, se avesse ucciso Ettore,  sarebbe morto, dove, non uccidendolo, avrebbe,  tornato a casa, finito vecchio i suoi giorni,  80 osò prescegliere, andando in ajuto a Patroclo  amante suo e traendone vendetta, non solo morire per lui, ma soprammorire(53) ^ lui già uscito   * causa gli Dei, soprammodo   anci essi compiaciuti di lui, l’onorarono partico-  rmente, perchè egli aveva tenuto in cosi gran  Conv‘‘<’ racconta fia-   Bd Escbf "^\„,ante di   i o^di Patrono era  te?'®? col d>*’‘=’ non solo -j^n. :!^àoi^^\fdcgy^ ^ZXo^to, come dice   %eUe> giovi»® ^Lhe‘-llE>cio»o’'^”°   : “ AMARE ; per6   0""°‘n arato >1“““ „uage dell’amante, an   :.3"‘ ''“mv *0 a f   r»“''”ri 17) E P« “? Setok de’beati.   - » S^te^idS   ret ato e in morte W).   Di questo tenore /“ùssero termi altri ehe  „. , dopo im ei li saltando recr-   ,sìrieordav.gran ta m. ’.j^„,l, dicesse,  a il discorso di t'ausa    oisoonsQ m  DlSCUi<e2>v   \ e ci si sin   lon bene, o Eetoo- ^ P-'J,èssere  ,osto il soggetto f ^ i,re Amore. Foi  plicemcnte invitati ad elog^^^^^e bene , ma  %e l’Amore fosse uno^^^ ,gU uno,   0, e’ non è uno. or ,    n    lSi    Convito   coiivieii meglio dire prima qual^ i •  amndi io „,i sforzerà a corregge^ cloanrc quale Aurore bisogna lodare P-i»;  ,n erodo degno dell'Iddio. Perche ,m’,f‘“"•d.  che Afrodite non è senza Amore PP'=''^o  fosse una, uno sarebbe Amore-  due C6o), anche due è necessità che ^  siano ( 60 . E come non son due le De ?  più antica e senza madre, figliuola di Ciel„  appunto nominiamo celeste - l’altra  da Giove e Dione, che appuntò chiamTainr^l  gare (62). Quindi, è necessario, l’Amore J  deU’una, chiamarlo a buona ragione volcrare ^1°  leste l’altro. ^   Ora, gli Dei si devono bensì lodare tutti (6A-  pure, ci si deve provare a dire le qualità sortite  da ciascuno dei due. Imperocché (64) ogni  azione ha questa natura; di per sè nè buona è  ne cattiva. Ciò per esempio che noi facciamo  o il bere 0 il cantare o il discorrere, son cose  di cui buona non è per sè stessa nessuna; ma  ne -tra, per il modo com’è fatta, riesce tale;  perche fatta bene e rettamente diventa buona,   così appunto l’amare  im ^ buono c degno d’elogio;   quello che bene incita ad amare. L’Amore,  veracemente   •icello con cui    ^ veracenii  quello CC   IL    X   adunque dell’Afrodite volgare è  vo gare, e opera a caso; ed esso è  amano gli uomini abbietti. Amano      cUc i S'O'.   iricoo 1*^ ^ piuttosto I   costo^°''%i che più stoUa-   c P‘='^ ^àrdavtdo che a sod-  o non ng^'^^'^Xintenù. Onde   Dtr' i,e P°^^°\orc, se V occasione,   sen'-"'’"'^ ,cUo di cn' ' il contra-   fa"”®’ //>! ^Perocché es ^p\\’altra, e   p.<-   oca  „„iH nascita sua celeste da   contro >’A'".“'%Tfe«,mto, .00 "“t'p * "“"tési" 0 poi   cruna e „,aschio  > P appunto si rivol   5°"'"'° li lascivia ( 69 ) •• prediligendo   "““dtscl.io 8Vispi.“^Tme8'lo «lofo   , fc per natura pw forte  iigenaa. ^ ^l'^^^^rnte riconoscere jelh   ‘T afooo® i,c“oaiotcn- 1>   t®""' “Scindono gii “'"“?„'lata.'>r>-   “ Sfitto,SO«g.-J»;jSrrro««»   pcchò q»o»i. frisoUtto 0 ot»«   ad amare, sono P““""„„„,e l’intera '.to.  col tancinllo e vvere n co orto   e non gii,dopo «'f»;»;” “óra di senno ,0.  come giovine, co P uotsi di corsa  prendersi beffe di 1». = 'ol ,,,o, fan   altro. Vi dovrebbe ““'' "on fosse i" «“   cMli non si amino r afffncbl n^^,,^ ^ a   cosa spesa di mo ta cuta^ P .poanto a ' "0   fine dei tandnlli dove 6»“ ’ ora. >   e virtù d’animo e d. corpo         Convito   mettono essi questa legge a sè  proprio volere; se non che bi‘sogneS‘ lor  cotesti amanti volgari, come appunta  ,82 il pm che per noi si possa, a non .  libere (73). Chò essi son quelli  volto l’amore in vituperio, tanto che tal  dire che turpe cosa sia il gratificare T  ti C74). E dicon così, avendo l’occhio V  di cui vedono l’intempestività ed  poiché, di certo, nessun atto compiuto ordin  mente e conforme alla legge potrebbe co.rrT  gione arrecare biasimo.   E appunto la legge, che governa  1 amore nelle altre città, è Exdle ad intendersi    poiché nei! concetto uno solo ; ma qui varia. Dappoiché nell’Elide e nella Beozia e    dove non sanno ragionare, unica legge è questa  che é bene gratificare gli amanti, e nessuno^  nè giovine nè vecchio, direbbe che sia male ; af¬  finchè, credo, non abbiano a durar fatica a per¬  suadere i giovani con ragioni, inabili come'sono  ^ ragionare; invece, in molti luoghi di Ionia,  c m molti altri è riputata cosa turpe, tra quelli  lutti che son soggetti a’ barbari (80). Di fatti,  Ira 1 arbari, per ragione delle tirannidi, si reputa  ^ turpe questo, e così ancora ogni studio di sapienza e di GINNASTICA. Poiché quivi, m’im-  giova a chi governa, che si gene-  o alterigie grandi nè amicizie   d’offnt g^giiarde, quello che, non meno  prattuttn l’Amore so-   ’^sperienzrfirr^^^' ii^parato per   ini anche di qui; chò l’amore di       45   ^ -.rnona- Cosi dove   disciolse la lor sig ^^^^fjcare gli  salda, di cosa sia il g ^,.^,,c7.^a   r SSo delUsoverchlena   jiriaa^'’ ' l’hanno effemminatezza dei   dei quella vece, dov^_ a   sia in ^n«n V.cposto hanno (84)-   "fo di quelli che cosi dispo^ p.,   bella, e com   XI   I,uperocchè (85) chi   nJii bello r amare aper ottimi,   :s„!esop„«»«o>£frs  -. e   ancorché sieno pm cabile incoraggia-   "altra parte, chi -a nqualcosa   mento da tutti,un innamo-   dibrutto; c che il co brutto, e la   rato par bello, non cO q lode,   legge ha dato licenza a chi j quah,   ;?ndo sia per conquistar^ ;«^\,„que altra   chi osasse fare per correr raccoglierebbe   ca da '“'dfppoUtó, s= P“ ''^   i maggiori biasimi,-•• , q q averne u   di cavar denaro a qualc^'^J^ ^solvesse   fido (90) o un altro g^Jo I 9 amati, 1   a fare quello che g > un  quali nelle lor richieste ‘ dormite sulle   implorazioni e giuramenti C  i)   ), e servono "" '   servo tollererebbe serv,v   ^ dagli ann-ci e’daC,'''  sua adulazione e abL ‘^“elli vJ  monendolo e arr^ ^“'^'ezione fq.x '“Petatid!   f-- «li cosrreT"'' “«*= .?«>-   «li i- P=rn.«„ Sr,^   «me a q„dIo che effetti L '   ^«to. E il pii, tecribile“"r'"“ '"“S  a meno dice )a geme, s„,o J,,? “”' 'l«, co».   gli_ Dei perdonano, se trasgredisci  poiché giuramento Afrodisio i   f^. CosihannoefhDefri,°"""°"«‘-   licenza accordato a chi ama ogni   legge di qui. Da questo lato   terrebbe, che nella citf\ nn«t* ’• ' ““*1“®’ “«o n-   e l’amore7- ‘'"''«simo   e amore e il mostrarsi amici agli amanti. Ma   Jlh VV’ P^dri, preponendo peda-   S g I 3 gh amati, non permettono che di¬  scorrano cogli amanti, e i coetanei e gli  amici ) \ itnperano quando vedano succedere  qualcosa di simile, e i vecchi, d’altronde, non  inter icono cotesti censori, nè Ji biasimano, come  se non dicessero giusto, uno, che per opposto  ^ardi^ a tutto ciò, stimerebbe che qui una simile  cosa si reputi bruttissima. Ebbene, la cosa, credo  IO, sta così ; non è a mi solo modo ; eh’ è ciò  e ie s è appunto detto in principio, eh’essa non  sia bella nè brutta; ma fatta bellamente bella,  ruttaniente brutta (100). Ora, bruttamente è,  belT^ ° gratifichi un malvagio e in malo modo;  niodo^'^'^p'^* quando un uomo probo e in probo  malvagio è quell’amante volgare, che      Convi‘0 „on   L» i « r<‘>'"^^' „;, la »ìia. P»''"'^ * '   1*** • /Ilfscors* f fprmo Ip IpfTffC    l>    ' nresto, perchè s'   L' r esser preso p crrutinitore, *   truuo 1 esse p scruti   tempo — Aprp da denari e ua- P   l ' òl il lasciarsi prendere da s, sgo-   ;;Ucii è brutto, sia eh (loa) non   menti e non resista, s^ e par   disprezzi. senza dire che da   cJ sia nè ferma nè stabile, s .^^Ha   i «sauna nobile “rbellan.entc deve   leiTge nostra una sola y Dappoiché a noi   Saio gratificale "n.i d   questa è la legge; ^'f°"^^Vrervitù verso l’amato   servire spontanei qualunq ^^ulazione, cosi   s’è concluso, che non ,està non vitupe-   un’ altra servitù sola spon * oggetto-   rcvole, quella che ha la v'rtn p  Chò appunto ò ammesso n  quando uno si risolva a niH ^ ‘ii noi ,  perchè egli creda di diventa^r^m" ài',''-   di lui o in sapienza o in qualun virtù, questa servitù spontanea no"   pur essa brutta, nè sia piaggeria ?• ?" "«P-   queste due leggi, - quelf ch^ regf/?   « dei fanciulli e quella che regge Pai  sapienza e di ogni altra virtù (foj) IT4  correre al medesimo, chi voglia che to™^?'  Il compiacere l’amato all’amante. Chè qual?  insieme s’incontrino l’amante e l’amato, ree nt  ciascuno la sua legge - quello che qualunque  servizio egli renda agli amati che lolompTc!  ciono, giustamente lo renda, questo, che a chi  sapiente lo faccia e buono, qualunque ufficio egli  presti, giustamente lo presti, e l’uno, po¬  tente d’intelligenza e d’ogni altra virtù, ne dia,  a tro manchevole in coltura e in ogni altra sapienza, ne acquisti, — allora si, queste due  concorrendo in uno, egli accade, e sol-  tamo cosi, che bello sia il compiacere l’amato  all amante, ma in altro caso no. In questo, persino il trovarsi ingannato non è punto  • ùi ogni altro, o che tu sia ingannato 0   ^,0. ti porta bruttura. Perchè, se uno che a\-  ricco avesse per ragion di ricchezza  perto*i?'"'^°’ ^™vasse deluso per essersi sco-  n^en brutto^-^'^^ Povero, non perciò gli sarebbe  ’ perchè un siffatto uomo dà a di-    B    I anin .0 suo. a>ep«   perché buono c P .j„y;ore egU stesso,   diluì diventare   Lll’»'"'^ ' poi deluso, P bello l’ÌBga’^’^°’   anche questi da a divede^_^^^ ^   I,£t«0 V P™"“ “ ^T'r^   ''^.1 diventare mighore 5 ^-^.^ontro, e la   ‘ • ter chicchessia; e quest . bello per   *'. ?ella cosa di tutte. Cosi,   £ di virtù comptacere ^ Celeste,   I '"Questi ù r Autore della D   1 di gran pregio alla \ amante   ' ài .Uri»"-»"   sopra dì st q“»"“ ' volgare. E qaesK   sono dell’ultra Deu.d ^ all’improvviso   sono, 0 Fedro, le ’ ^ er la mia parte.   intorno all’a\more IO t arreco p   „ aiacchè i sapienti Fatto pausa assonanze - avrebbe   m’insegnano a fare di q a. ^ere Aristofane;   dovuto, disse Aristodemo discorre ^  se non che gli era o per _ p ^  altra causa venuto il • ^aco il medico: --   di parlare, sicché disse ^ ^^i — O EriS’si-   questi giaceva nel letto op cessare (m)   maco, il dover tuo e ^naié   il singhiozzo, o di P^^' Erissimaco rispose;  non mi sia cessato „..rché parlerò m   E io farò tutteddue le cose, l n'» ™cc, c  sato, in vece mia, p „pi , SP'onao li .  guarda se il f P» che ì« jg r«.   nendo ,1 fiato per „„ peaaetto .t”S'   E gargarismi coll’acqua. Se "o. fa'^   lascia vincere, e   letichi il naso e starnutisci ; e quando ®ol-   qiiesto una volta o due, ti cesserà   molto forte. _ O parla d„„,re   Stofane io farò così. ^n- Ed Erissimaco principiò a dire : — Dunque,  siccome Pausania, prese bene le mosse del di-  i86 scorso suo, non l’ba compiuto a dovere, mi par  necessario che io mi deva provare a metter la  fine al discorso. Di fatti, che l’Amore sia duplice,  pare a me si sia distinto bene; però, eh’esso  non risieda soltanto negli animi umani nè abbia  soltanto i belli per oggetto, ma molti altri siano  gli oggetti suoi, e risieda anche altrove, nei corpi,  cioè, di tutti quanti gli animali, e nelle piante  della terra, e per dir cosi, in ogni cosa che  viva, a me pare averlo appreso dalla medicina,  1 arte nostra, come grande e maraviglioso Iddio  egli sia, c a tutto si distenda e per le umane e  le divine cose(ii2). E comincierò a dire dalla  medicina, anche per fare onore all’arte. La  natura dei corpi ha il duplice amore aneli’essa,  cd è questo: il sano nel corpo e l’ammalato       Convito 5 *   .-no per consenso di tutti, cosa diversa e dissi-  rnile- e il dissimile desidera ed ama cose dissi¬  di i • sicché altro è l’amore che ha sede nel sano.   -Itrò t quello che nell’ammalato. Siccome,  dunque, secondo ha detto or ora Pausama e  bene gratificare i buoni tra gli uomini, male i  Snaiosi; e cosi anche ne’corpi é bene grati¬  ficare quanto v’é di buono e di sano in ciascun  Spo e si deve, - e questo fe ciò che si chiama  arte medica - e invece male il gratificare quanto  v’é di cattivo e di morboso, e gli si ^^«ve far   brS 0 amore, questi è l’uomo sopra tutu inten¬  derne d medicina. E chi sa farli mutare, in modo  dm in ricambio di un amore si acquisti J  • Mi; ;n cui l’amore non sia, ma bi-  tro, e in farcelo nascere, o, quando   sogni generarlo. , -uesti sarebbe davvero   un valente artenc • i,- ip rose che vi sono   di "f7^°^n-unaanù l’altra nemicissime, e la -nnnste il freddo   0 „ «U»™»»'» ,  'vi» vi. «-sr aX «   tra tali „„asti(ii7) PO^ti ed   pio, secondo la   L credo, dico io, è   T ,.a\rco.«» r=   gìnnaSca O'ii e l’agricoltura. La musica poi.  Convito' per poco che ci si badi, si vede chi.  stesso tenore, come forse anche p ’deiu  .87 dire;chè, quanto alle parole, egh^n ”  me bene. Giacché dice che l’uno  si accorda con sé, come armonia  lira. Ora, é grande assurdità 17 ° «i'  un’armonia discordi n rieri,,: j. “"’c, che    B    discordanti.    tuttora    derivi da cose tu  Se non che forse voleva dir  sto, eh’essa nasca dall’ acuto e grave discordi;  priiTiii e dopo consenzienti per opera dell* *  musicale; ché, certo, armonia non nascerebb"^  dall’acuto e grave discordanti tuttora; ché armonia é consonanza, e consonanza é un consenso; ora, consenso è impossibile che provenga  da cose discordanti, finché discordano; e quello  d’altra parte, che discorda e non consente, è  impossibile che armonizzi : appunto come il ritmo  nasce dal veloce e dal lento, discordanti da prima  e poi consenzienti. In tutte queste cose é la musica quella che mette il consenso, come in quelle  altre la medicina, generandovi un amore e concordia vicendevole. Sicché la musica, alla sua  volta, é scienza dell’amoroso nell’armonia enei  ritmo. E nella composizione stessa dell’armonia e del ritmo non è punto difficile discernere  l’amoroso, né costì v’è il duplice amore :  ma quando bisogni usare del ritmo e dell’armonia  cogli uomini, sia componendo, — che e  quello che chiamano niclopea — sia usando ret¬  tamente di melodie e metri composti ciò che s’é detto educniione — qui  c é la difficoltà e c’ é bisogno di buono artefice.  Poiché torna da capo lo stesso discorso, che gl>      Convito   fine che diventino più  uomini J non son tali in tutto,   perbene quelli che « tenerlo caro, e   bisogna_ gffceleste, l’amore della ce- E   invece quello di Polimnia leste Musa Ci 7 j> jj deve amministrar con   t il volgare, n qnm ci col<»a bensì   cautela a chi 3’, ?n-eneti punu incon-   11 nostrale gran cosa l’usar   tinenza, i-ome nei -scinte dall’arte della   rettamente nè colga il piacere   .cucina, per modo e nella musica   : dJsrdS’1=“-™-'^ “   X.IV   ^'^enl^l^X'ddu^qtes\e indura-^  JlTrquando le co^   caldo e il freddo, coll’altra, e for-   in un «'ontempéranza sapiente.  nVmo un’armonia e una coma ^   vengono apporta ne ^ pinate, e   agli uoniiiu c ‘ «nrln in quella vece   non fanno punto diventa il più fo«e   rumore infetto di molte cose c fa   nelle stagioni dell ann ^ jogUono esser generate  danno. Di lam» P malattie diverse   d. ..di cagiom. d."<>, “ le piade; c 1»  tanto negli aiiiniali c _gù« miscono dal   brinato = 1= '';„"„*Labpr0PP  V accesso e disordine risp  amorose, la cui scienza de'  jielle stagioni degli anni si' c1h;‘ as^i ^   Di pu. ancora, ci sacrili.! tutti e  presiede I arte divinatoria, p  ® a cui  vicendevole comunione degli dei'èoar'a  non hanno altro oggetto, se non Pose.  risanamento di Amore. Chè “ >'   suol generarsi, quando uno non grati£  ordinato, e onora e venera in ogni suo  questo, ma l’altro, si rispetto  o VIVI 0 morti, si rispetto agli Dei; dove aT  punto è commesso all’arte divinatoria di vigilare  gli amori e sanare; sicché, da capo, 1>arie  divinatoria è operatrice di amicizia tra gli Dj!  c gli uomini mediante la scienza di quali tra le  propensioni amorose di questi tendono al lecito e quali all’empietà. Cosi molteplice e grande, anzi, in breve, una  universale potenza ha ogni Amore; però la mag¬  gior potenza la possiede, si presso noi e si presso  gli Dei, quello la cui sodisfazione è nel bene ac¬  compagnato di sapienza e giustizia; esso  appresta ogni felicità, e ci mette in grado di  convivere gli uni cogli altri e diventare anche  amici agli Dei, migliori di noi. Ora, ancor  io (136) forse nel lodare Amore tralascio molte  cose, non però di proposito. Ma se ho tralasciato qualcosa, spetta a te, Aristofane, di sup¬  plire; o se tu hai in mente d’elogiare l’Iddio in  qualche altro modo, e tu 1’ elogia ; ché ti é anche  cessato il singhiozzo.   Q.UÌ, Aristofane, presa la parola, cominciò)  raccontava, a dire: Si, è appunto cessato, non  file io ali abbia applicato lo star-   : richiedi iili roihoti e ptent, quii l   tr ;Ó Lrnu.0 . Pd"» ‘ ’W'”   ho dppliccto lo su,™».   “ «c nW - g«»“p » 1“"“ d"'   ';“';'i "™“rl sV 'per cominci»™ » P»*'" >“ '   Tu burli, man ^ ^j^ella al discorso tuo,   ’^ioTcX Vdire' qualcosa di ridicolo, mentre ^   avresti potuto parlare bene,   E Aristofane, ridendo, "P istare   Erissimaco, e sia per non   a farmi che me n esca   SI stanno per . che sarebbe un gua-   rg“o to’S;.™ »>i» «'“»   _ e or» cedi di f“p 'dj ('»>  r:.:o„rpdrrr.rm-.p».Mn.»»d  stare.  Discorso di Aristofake   cominciò a dire  E in vero, ménte di discorrere in   Aristofane — lO q^jella che tu e   una maniera diversa ^ pare che gh   Pansini» «die fitto. pottor»   uomini non abbiano pu  Convito   di Amore, chè. se l’avessero con,„  mnakato in onorsuo i maggiori '""fcbbcf,  e celebrato i maggiori sacd£i, noS  che di tutto questo non gli si fa  SI dovrebbe fare più che altra cosa D Perchè è, tra gli Dei, il più amico dcel  essendo soccorritore loro, e medico di ^  dalla cui guarigione deriverebbe la felicur  giore al genere umano. Io, adunque, mi sCf^ .  a dimostrarvi la potenza di lui, e voi ne sarct  maestri agli altri. Ma vi bisogna per prima cosi  intendere la natura umana, e i casi di essa. Ab  antico, di fatti, la natura nostra non era quella  medesima d’ora, bensì diversa. Chè da prima  E erano tre i sessi umani, non due, come ora, ma¬  schio e femmina; ma vi se ne aggiungeva un  terzo, partecipante di tutteddue questi, del quale  resta oggi il nome, ma esso stesso è scomparso.  Allora, di fatti, v’era e la specie e il nome  uomo-donna che partecipava di tutteddue, ma¬  schio e femmina ; ora non ne resta che il nome  a vituperio. Di poi, l’intera figura di ciascuna persona era rotonda, colle spalle e  i fianchi tutt’intorno, e di mani n’aveva quat¬  tro, c gambe quante le mani, e sul collo tondo  due visi, simili da ogni parte ; su ciascuno poi  de’ due visi posti 1’ uno di rincontro all’ altro una  ‘90 sola testa, e quattro orecchi, e due mem¬  bri, e il rimanente, quale da ciò si può con¬  getturare. Camminava poi si ritto, come ora,  per il verso che voleva, e si quando si metteva  a correre, reggendosi sulle sue otto membra  andava via lesto facendo la rota, a modo di    57   Convito   quelli che, \MssT,'’poi.«=^"° ^   s"’ "Xchè il Maschio fu in origine pro-   tre e siffatti, p , della terra, e il terzo   genie del sole, ^ ^^eddue, della luna, giac¬  che partecipava “ d’i quello e di que-   sta)- "^^gVianza co’loro progenitori,   cammino, per ® ® terribili per forza e per   Sicché in principio grandi e assalirono   gli Dei.  r .litri Dei si consultarono  Sicché Giove e g i ^ stavano   che cosa occorresse loro^dj in dubbio ; che nc a fulminarla   nt di farne J“"P^^^bhero scomparsi insieme  come t celebrati dagli uomim; e   gli onori, e 1 ‘ imoerversare. Infine,   „ea„d,= volevano If “f 'X" ,4  E' mi pa-  Giove si formò a fané. uomini esi-   re  disse  avere un LholffU?). cessino  stano e insieme, P"ra - disse - H spar-   dalla petulanza. Giacdr tirò ciascuno m dtie, ^ noi per-   ranno pib deboli, e mstenmj^diritti  ché cresciuti di nunier^ , . ^j^e conti-   sopra due gambe. Ght P luiino a imperversare, e non vogliano stare  quilli, e io,  disse,  li segherò da capo**'''  due, sicché cammineranno sopra una gamba s 7  saltellando. E detto questo, tagliò gli ° ®  mini per il mezzo, come quelli che tagliano ]  sorbe per salarle 0 quelli che tagliati le povj  E col capello (149): e a quelli che tagliava, comanda ad Apollo di girargli il viso, c  metà del collo dalla parte del taglio, peròhù  r uomo, guardando il taglio fatto di lui, si con¬  ducesse con pili misura; il resto lo medicasse. E Apollo girò il viso, c col tirare da ogni parte  la pelle verso il ventre, come si chiama ora, vi  fece, a modo delle borse a nodo scorsoio, una  sola bocca, c la legò nel mezzo del ventre,  tgi quello che si dice ora l’ombelico. E le altre  grinze  ve n’ era rimaste tante — le spianò, e  rassettò le costole, servendosi di un istrumento,  su per giù come quello dei calzolai nello spianare  sulla forma le grinze delle pelli, e ne lasciò al¬  cune poche, nel ventre e nell’ombelico, per ricordo dell’antica jattura. Or bene, quando la  creatura umana fu tagliata per il mezzo, ciascuna  metà desiderando l’altra le si faceva incon-  gittandole attorno le braccia, e avviticchiandosi runa all’altra, poiché si strugge-  H vano di risaldarsi, morivano di fame e d’ogni  altra sorta d’ozio per non voler fare nulla l’unO  senza dell’altro. E ogni volta che una delle  metà morisse, e l’altra sopravvivesse, la soprav¬  vissuta ne ricercava un’altra c le si avviticchiava)  0 che s’imbattesse in una metà d’una intera  onna,  quella ^i^g chiamiamo donna    Mio,. Giove,  «omo; 0 “ ° I o '' ^ «li* • oerchc sino   avendo»® oonip pudende, pej   "°rfn terra, come le che me-   Sin^e, così sul negli nlm,   diante quelle la femmina  niediame .tll’abbraccio. se un uomo   con questo fine, eh onerasse, e la specie   s> imbatteva J^ttesse maschio con   esistesse, e se im ^^are insieme,   maschio, venisse 1°’'° ^ a operare.epren-   e smettessero, e si rnolg dulia vita.  \\ Tini è un contrasse"   Ciascuno, dunque, come le gno d’un uomo, ulte eia-   sogliole; uno due. S inten   scuno cerca il contrassegno insieme   uomini che sono come un taglio di qu  che allora si chiamava i(omo-ioM«a, son ‘  di donne e i piti degli adulteri da questo sess   son proveiiun; e così q^- "sesso    , Convito   6o   sono taglio di donna, le non badano di molto  a^Ii uomini queste, ma hanno piuttosto il cuore  alle donne ed il sesso loro è quello da cui prò.  vengono le tribadi, aitanti poi sono taglio di  maschio, vanno dietro al masclùo ; e sinché sono  ftnciulli, come particelle che sono di maschio,  amano gli uomini e si compiacciono di giacere  - con questi e tenerli abbracciati, e son costoro  ’ i migliori fanciulli e giovinetti, chè non v’è  nature più virili di loro. E v’é chi afferma,  che questi sieno degli svergognati! bugiardi;  non è già per svergognatezza che cosi fanno,  ma per ispirito di ,baldanza e virilità e ma-  sciiiezza, appetendo il simile a sé. Una gran prova  n’è questa; soltanto costoro fatti giovani rie¬  scono uomini da attendere agli affari pubblici E diventati maturi, mettono amore ai fan-  li ciulli, c di nozze o di far figliuoli non si danno  pensiero di per loro, ma la legge ve li costringe; quanto ad essi, son contenti di vivere  gli uni cogli altri senza ammogliarsi. Sicché un  siffatto uomo diventa addirittura amante (i i)  di fanciulli od amato, appetendo sempre nei due  casi quello che gli è congenere. Ora, poi, quando   C un amante di fanciulli, o chiunque altro s ini   colla sua propria metà di prima, allora è una  maraviglia come si struggano di amicizia e m  trinsichezza ed amore, tanto da non volere, per  cosi dire, separarsi gli uni dagli altri neancie  per un minuto. E questi son coloro, che riman  gono insieme l’intera vita, e non saprebbero  neppur dire, che cosa mai vogliono che per opera  dell’uno succeda all’altro. Giacché non pn'"'     t Siòn” r-   insien''® . .v, ciascuno dei esprimere,   Lm"^ralcos’ altro, cbe tjo ^ ^-ee   ‘^’ 'Tl nrc%ti"‘="^°/' eoel’instr'if^''""   „ia ha £ se Elesto, cogl   in cnimm sopra di > {. rnai,   niano, si domandasse  onera del-   I.icceda all’altro? ^dasse da   incerti della risposta, ^.^^nrel’uno   nello stessissimo luogo n nt notte - potervi lasciare l’un liqnefarvi e eoa-   chè se desiderate ° nhe siete, diven-   ^ilarvi insieme, ,n   tiate uno, e sinché > morti,   comune come uno " \i,m invece di due   anche laggiù nei reg ^^^^^date. se è questo   morti uno solo (i6 ^^ddisfatti, quando lo   che ’ inmo bene, che, sentito ciò,   nessuno, proprio nessun darebbe di avere   strerebbe di volere altro, . ^ desiderava pure  propriamente sentito qu ,j, ^to diventare   da un penzo, unito e fuso coll ^to   di due uno. E la causa nò questa, cne   , nostra natura era si   desiderio, adunque, e all.   d;\ nome amore. eravamo uno; E prima d’ora, come dico,   i ora, poi, per la malizia nostra, sia  paniti di casa dalla mano di Dio, come i-  Arcadi da quella dei Lacedemoni. Sicchfc^ '  cogli Dii non ci si conduce come si conviene*^  v’è da temere, che si possa essere segati da capo’  e si vada attorno, come le figure delineate dj  rilievo sulle tombe, tagliate per il me^o  dei nasi, diventati a modo di dadi cotisunti. Anzi  per questa cagione bisogna che ogni uomo esorti  B ogni altro a condursi piamente verso gli Dei,  perchè alcune si sfuggano, altre si conseguano  delle cose, a cui Amore è guida e capitano. A  cui nessuno faccia nulla in contrario; e fa in  contrario chi s’inimica gli Dei  — giacché  diventati amici dell’Iddio e rimpaciati con lui,  ci succederà di ritrovare- e incontrare i propri  amati nostri, il che ora accade a pochi. Ed  Erissimaco non mi s’immagini, per canzonare  il mio discorso, che io parlo di Pausania e di  C Agatone; forse, anche loro sono di quelli, e  tutteddue maschi da natura ; se non che io parlo  di tutti, e uomini e donne; chè così la stirpe  nostra diventerebbe felice, se dessimo perfezione  all’amore, e ciascuno s’incontrasse nel proprio  suo amato, tornando nell’antica natura. E se  l’ottimo 6 questo, è necessario, che di quanto  è oggi in poter nostro, ottimo sia quello che  più vi si avvicina. E ciò è il ritrovare un amato,  fatto secondo il proprio cuore. Del che, se s’inneggia autore un Iddio, Amo¬  re è quello a cui a ragione spetterebbe l’inno.  Amore che ci è di moltissimo giovamento nel  presente, poiché ci riconduce nel proprio, e ci dà le  maggiori speranze per l’avvenire, se però noi  ,i .-.età v=W sii   a»   Só-'r-'   xvin   j» il mio discorso   • tr.rno ad Amore, di'crs ^ ^ canzonatura, t   ‘„%c p-»g*;». "r, ‘=’’' '“ir-   .„d,c a pari»"" ° P'""-""   quelli che rimangono P ^ Socrate,   rimangono, di fatti, § , racconta che Ma io taro a tuo n»do^ j,, ,1 „o   rispondesse Enssimaco ^P ^^p^ss,   discorso sono valenti in cose   che Socrate e A^a dovessero es-   d’amore, temerei g'"^" ^-ose oramai si   sere impacciati a ’ ‘ ^ro fiducia,   son dette e cosi perchè   E Socrate rispose; dóve sono «94   tu te la sei quando avrà discorso   ,ira..uraro, perché io mi turbi, °   che il teatro sia in grande aspettazion  me, che io debba discorrer bene. Sarei d^avvero uno smemorato, Agatone,  soggiunse Socrate,  se, avendo visto 1  raggio e Palterczza con cui tu sali su pa^ co  insieme cogli attori, e guardi in accia ^  gran teatro, quando tu devi rappresentare 1 componimenti, e non ti mostri sgomento  un poco, ora credessi, che tu ti debba  a cagione di questi pochi che siamo   Ma che !, riprese Agatone, non mi cred  Socrate, cosi pieno del teatro, da ignorare ne  che a un uomo di mente fanno più paura n  persone di senno che molte senza. Certo, Agatone, non farei bene, ripigliù Socrate, — se pensassi di te nulla men che gentile  Anzi io so bene, che se tu t’imbattessi in-persone  che tu reputassi sapienti, ne saresti in maggior  pensiero che della folla. Ma, bada, che noi non  si sia già di quelle; perchè noi ed eravamo in  teatro e facevamo parte della folla. Però, se tu  t’imbattessi in altri sapienti davvero, ne sentiresti  tu rossore, quando tu credessi di fare qualcosa  di brutto? (170) o come l’intendi?   Dici il vero rispose l’altro.   E della folla tu non ti vergogneresti, se tu  credessi di fare qualcosa di brutto?   Dove Fedro, raccontava, interloquendo— Caro  Agatone mio, — dicesse — quando tu risponda  a Socrate, non gl’importerà più nulla di nulla,  di quello che qui succeda comunque succeda,  purché abbia soltanto con chi conversare lui, specie con un bell’ omo. Ora, Socrate io lo sento  conversare volentieri ; ma a me è necessario aver  cura dell’elogio di Amore, e riscuotere da  ciascun di voi il suo discorso. Dopo sodisfatto  ddio ciascuno conversi poi quanto vuole.   Ma tu parli bene, Fedro, — disse Agatone —  c niente m impedisce di parlare ; non mancherà  poi occasione di conversare con Socrate.   ‘.v«mponÌ!n,tntt, c non li mostri   ‘T pocoi ohi credessi, chr f.® r®"*®     ,, ^<^“^chc:t;Td:vTiÉ^   cagione di questi pochi che l- ^ ^WÈÉ  iS^. . •MucheJ—rbrese Agatont’'    Socrate, cOS\ rneno del teatro, da'i'!" '  f^. -cheuun nòmo di munte.(anno p®, '   itrn> ''.ihr rt» \ ^ P'I Jf      m Futdjo che: molte-   -ci Jo. A.-atc-uc, nonfiiiti htne, - nv'l ,>   -.MJ.S - se p*s«*«I di :c nalla uicn chè£ - t  so bc«^ , cho se tu l’imbattessi-   • fe?:tB r.epntf. -i rapanti, ne Sare.sti inV,.’-1  r^’ero che deiia folla. M.s, bada- die  .UU fiJ, d! c, parchi noi cl  tuati-0 e fflceaamo parte della folla. Petò,fc.,r» ^  •t’iaib.ittcssì M :iln-it;.»p{cnti davvero-, nc scw.h»-  tu t-o$.sore, quando in crcdtssi di -fare quaì.   -li brullo?  o come rintendi?   rtk'ci 11 Tcro — rispose Taltro. . il   - • j- . .in f>>}lii tu non ti vergognerusti, t* •* ti  i di f.)ro qualcosa d! brutta? »   4 -’’ l odro, raccontava, inierioquetido->~‘  <S^’j^'t‘UO, -- dicesse — quando tu ris;-  V v^:Tàfé. jpon priuaporteri più nulla^ji '   • f iUo che ani succeda coinunqyu .^ucc '•M  ,-i.!: «hb abbia s-^tanto con.chi convcrj.at5glui5^sj^^'   • ::;con un bairomo. Ora, Sgcirate/lo  converj^ret'oitn litri ; ma a me è jiccessarww^^  «tra ik'ir elogia di'Amore (tyt) ^ erlscuoicr  -ciascun di voi il suo disco^-'; .C>opc?»C^*^  l'Iddio clascuuci conversi poi qyaj 4 l?   J Ma in p,i. li bene,.Fedro,   c niente m’impedìsfc di parlarci nph-manv: ,  poi occasione di cons*etsare cori .Socrate.  „ ni AGVrONE   Discorso   o’ priwa ha? discorso   T’c'ct  > P^'^°""^’%arabbiano l’ldd\o   poi dire Cn ^ non ,. .. ^o dei beni,   pvand gli uomini nup\e essendo i   --“"'Chiusi l’Iddio; r/ntsuno l’ba   di n tutti cotesti beni   ^%*ure, d’ogGi lode go quale di   quali cose E cosi è g^Jf egli   u discorso sia 075; ^ • stesso quale eg   bello, egli ^^/osiff^to. D P^ ge d   più giovine degli Dei, g foggu di   'quesm suo tratto eg smsso, P ,e,oce b   fuga la vecchiaia, P dovere ci arrii   almeno assai pih pres p aver a   a’ fianchi. Ora, P neanche di lontano,   iu odio e non le si acco , ^ ^ ^^^6) ; -b   E sempre co’ giovani usa e « sempre   bene sta 1’ antica "oute»- . consen   col simile s’accompagna ( questa non   ziente con phio in   conscio, che lui g-   c di lapeto O?»)-  C vanissimo tra gl’ Iddii c gio\  gli antichi fatti intorno agh  Parmenide dicono (179), esse     di Necessità, e non di Amore, se pur  sero il vero; chò non si sarebbero viste ‘  tazioni e legamenti vicendevoli ed altri  violenti atti, se Amore fosse stato tra lor^b^’ ®  amicizia e pace, come ora, dal di che  sopra i Numi regna. Dunque giovine eguT  P e oltreché giovine, delicato: solo un poetà  gli fa difetto quale Omero, che mostri la deli¬  catezza di lui. Ché Omero afferma, che Dea  Ate sia e delicata, almeno delicati sieno i piedi  di lei, poetando:   I piè di lei son delicati; e il suolo  Non tocca; dei mortali ella sui capi  Cammina.   Ora, è buono argomento a mostrare la deli¬  catezza sua, ch’ella non sul duro cammini, ma  E sul tenero. E lo stesso useremo noi argo¬  mento a provare di Amore che delicato egli è.  Che nè cammina sul suolo, nè sui crani i quali  punto teneri non sono, ma nelle più tenere cose  e cammina e dimora. Perocché nelle indoli e ne¬  gli animi degli Dei e degli uomini la dimora pone,  e nè in tutti gli animi del pari, ma dove in uno  s’imbatta d’indole dura, va via; dove di tenera,  vi s’accasa. Poiché egli, dunque, e co’piedi e  con ogni sua parte è a contatto delle più tenere  g(5 tra le tenere cose, è necessario che delicatis¬  simo sia. Sicché giovanissimo è e delicatissimo,  e di giunta fluido di forma. Ché non sarebbe neU’en-   U»»' («!?'. C»«o *« s»p» o^.   iorf“"”“ , M«, ‘l“‘''?Si AmP« pos*'"''’   ,jvveoen='^ „nso di ^ guerra sempre.   .!•" °«P»“ “ T Wer. d=irM» "*   chè f del colore, “ ad anima e   ctó.a So.e o cta   ' K' I soggetto la Amore; e dove   f ner£, non s’accoppa A ,   Todoroso loco sia, 1» P   fiorito c ou  perniane-   j iiMddio e basta sin   Orbene, della 0'“““‘‘Jella vlrtì d’A»ore   qui e molto resta a g U principalts-   conviensi dopo quella P ^ offesa nt   sinio è. cito Amore ^ ^,84>   di Dio o a Dto nc * -tUre eo'U stesso, s  Perché nfc per violenza non tocca ^   qualcosa patisce; - eh ^ volontario   i; in tutti il servigio ' ^ jj^ reme (t 5) >   assente a volente, h legSh , giustizia,   affermano che giusto sm- ^ ^i^sinaa. Peroc;  è provvisto di temperanza ora^^ ^ ^esidern  chè si consente che vince P non   sia temperanza, e che p gè sono da me,   v’abbia piacere «essuno- O questi   è forza che sien soverchiati soverchi : ma se piaceri e desidp  t.(. E quanto a coraggio adr^°P^^tut   pure Are contrasta. Chi « n«(,  Amore, ma Amore Are possied^'^am^ Afrodite, secondo è fama (188) • or ’l • di  tiene in poter suo il posseduto é  più coraggioso d’ogni altro, debbe esli  certo il più coraggioso di tutti ^'?®5'  della giustizia e temperanza e coraggio dS'r?  d.o s’è toto; resta ddk sapiens,; SI può, bisogna provarsi a non ometterla (looT  E da prima, perchè io per la mia parte lodi l’LÌ  nostra, come Erissimaco la sua, poeta è l’Iddio  sapiente per modo che rende tale altrui; almeno diventa poeta, « ancorché pria fosse di Mm  privo, quello cui tocchi Amore. Il qual  suo tratto ci si addice usare a testimonianza che  Amore, in somma, è artista buono in ogni creazione che attiene alle Muse (192); dappoiché le  cose, che uno o non ha o non sa, non mai le da¬  rebbe ad altri, nè le insegnerebbe ad alcuno. Oltreché la creazione degli animali tutti, chi vorrà  contradire, che non sia sapienza d’Amore, quella  per cui opera gli animali tutti e nascono e crescono? Ma nel magistero delle arti, non sappiamo,  che quello di cui questo Iddio si sia fatto maestro,  rinomato è riescito ed illustre; quello, cui Amore  toccato non abbia, oscuro è rimasto? L’arti del  saettare e del sanare e del divinare Apollo trova, guidato da desiderio e da amore sicché anche questi discepolo saria d’Amore, c  le Muse ne appresero musica, ed Efesto l’arte  « Zi‘^^ ’ le cose dCo' amore, s m   c ' • onpoirto 1 ft-i genererò, vive   d'.C ''chfe^rn brutte..^   ’‘jf di bellez5-a. priircipro ^ o-   ;ndc> ,„„onzi, _An SI narra (, ai bellez^-'*'’, principro u- --   »"«•  inna®'. si ^ ;   terribili eventi, -t^ecessità % «   i“nsi s»  ;«/»« ts -s"'   Vantare Amore, es-o Fedro, a \ ^ e ottimo, dipoi   1 sr:   Ji* ,. ., mar cairn»,‘‘='"   „ ai,caco, . »s> D   attesti <i’0B”i „ empie che cl at-   vttOta, e d'ogni mgunate degli tttt.   tmelia, egli. ’S"ttnSsero, aeUe «e   cogli altri instttttl che s, «o ,gli m. ezaa   „ei coti, nel saenfien g, benevolenza inspira, selvatichezza sband .^^^i^ordioso ai   largo, di “lenabile,   buoni (zoo), a sapm ^ custodito d   bile-, invidiato da chi n F . dilettosa,   na’rlcco, di re»').'’»'*''';,"'?» grazie, di brama, i ^ ; m trav g >   tore dei beni, timoniere,   ' paure, in pencoli, m ^°^tore ottmm, di   I marinaro, commilitone quanti gli Dii c uomini adorm  bellissimo e ottimo, che ad ogni'?,?"'’ seguire innepiando e prendendo pa??  canzone, eh egli, molcendo ]’intellel  gli Dn e degli uomini, canta (203) ‘«'ti   auesto discorso, dice, o Fedrh sia  parte offerto in voto all’Iddio, dove di s^T  dove di misurata seriet.^, in quanto ir,  perato. duando ebbe finito Agatone, tutti, disse Aristodemo gli astanti esclamassero, che il giovi-  netto avesse discorso in maniera degna e di sé  e dell’Iddio. Sicché Socrate, volto ad Erissi-  maco, dicesse : O figliuol d’Acumeno, ti par egli  che un timore da non intimorire m’intimorisse  poco fa e non fossi invece profeta nel dire  quello che io ho detto dianzi, che Agatone avrebbe  parlato mirabilmente ed io mi sarei trovato nel¬  l’imbarazzo ?   DeU’una cosa — rispondesse Erissimaco — mi  pare che tu l’abbia indovinata, che Agatone par-  B lerebbe bene; ma che tu ti troveresti imbaraz¬  zato, non lo credo.   E come, beat’uomo — ripigliasse Socrate —  non mi troverei imbarazzato cosi io come chiunque altro, che dovesse prendere la parola dopo la  recita di un cosi bello e svariato discorso ? E il  rimanente non ò stato altrettanto maraviglioso;  tua sulla fine, quella tanta leggiadria di vocaboli  ® __ me. di clràdo di dir nulla,   scndr'^- non sarò “ ^^^i^zza, per poco   - s> ^-’Cia ^lla vergogna, se C   sono t'^g? Vaiscorso m’ha rrchu- = \ia. Giacchi-_ occorso   1 caso d’ Omero (ao/b   Agatone lanciasse^ e nu fa-   GORGIA, E ho capito   >»''X s.»->^r:“'?dS” "^  “1 stato davvero ndmo , q p^^te   rSHiSSi    che    D Sa";=S==S   lualunQue cosa. biso'^ni dire il '   ì, _ m’immaginavo, che o   "ila cosa, quale si s-^nto; pd, scelto del   ; che questo fosse 11 ^ia acconcio vero il meglio, «pot ° ^ ,He avrei di   E presumevo gran c del ino   scorso bene,  ). Invece, si vede d  di lodare ogni cosa ^ era gì-   cose V’ha “1 VVt 'nenzognere, età cosa^^a mila. Giaccnc s - f. , ‘ v Amore, o  dascuno di noi paia di lo razzolando a   che lo lodi, n »1'P““° X cono ed A« °  .  ogni patte, e tale, e aotote i   c affermate eh egli  :rj.r   ^"T™' “"n b=|,.S”i-l.£-    M» io noncoò»c;:o'rn,“H''“* '   chè non lo conoscevo, mi so°no"i!°''"'®’P !"   r°I ?ì»*» “"''io all, M “,S” V   3 (zio),   questo modo; non nma chè la lingua ha promeslò” la  Adunque, addio elogio; che ì„  odare a questo modo ; non potrei. plT"  lete, il vero, si, non ricuso di dirlo di nr^®'  e non rispetto ai discorsi vostri perché  S. rida dietro. Ora, tu, o Fedr^'^guarj™f  discorso COSI ti fa prò ; sentir dire il vero di Amore  c n quei vocaboli e quella giacitura di senteme  che mi verrà per prima alla bocca.   E a questo, raccontava, Fedro e gli altri Pili-  virassero a parlar pure nel modo, che a lui pa¬  resse di dover fare. Ebbene, Fedro Socrate riprendesse permettimi anche, che io faccia qualche piccola inter¬  rogazione ad Agatone, affinchè prima io mi abbia  C alcune concessioni da lui, e poi, così, discorra.   Ma si, lo permetto; — rispondesse Fedro  interroga pure. Dopo di che oramai Socrate  avesse cominciato, su per giù, di qui. Di certo, Agatone caro, tu ti sei introdotto  bene, m’è parso, nel tuo discorso col dire che  prima bisogni mostrare quale egli è, l’Amore, poi     E    7 ^   . . „vi va a gen'O  . Q^^^sto in ogni altra   ,re Ji . via, esposto qnaW   HS»- °'S’e.WB"’'^“Teg'''r? D  up questo • t- ^8 ^ nulla ^ D   f»'*. L>»' di q0»'*“ “ *d,c o di »«   ma ad’a^f jj padre e cgir P. ondere a dolere.   fp^rfi' ° 5““ t ma'drd del pat>’ p anche a questo. jjspondinti    Assentiss ^ . y^^sse gallo ciò   I Or bene, -- tu intenda me„   poche altre cose^ P ^^^.«dassi : O   'r;srid^c;.-o.t-e,,o,.tr   'qualcuno o no? Rispondesse, c   D’un fratello oDicesse di si. domandasse   dis^SSSaSrsulVatttore.^^  Di^qualcosI ciottissimo- .^„gesse So-   tanto questo. 1  lo desidera o “O Di certo  r'sp'^  Ora, desidera egli e ai  sesso della cosa che desidera"^ j.  sedendola? ^ nr,-,-.    ama;,    'aoti    Pos.    B V    D  Non possedendola, par naturale  Guarda-riprendesse Socrate  natura e, non sia necessario, che  dera desideri ciò di cui è manchevoI ^  desidena dirittura, quando non ne l "“''o   role. Tu non puoi, Agatone, immagi„are“’'‘*’'-  5 aia necessario a mw • ^ Quanto    grande,    es-    paia necessario a me; o a te pare?   E anche a me — dicesse. Dici bene : vorrebbe forse chi è  ser grande, o forte chi è forte?   Impossibile, dietro l’intesa.   Perchè, appunto, non sarebbe-manchevole di  tali qualità chi le ha.   Dici il vero.   Percliè, se uno che è già forte, volesse esser  forte — ripigliasse Socrate, — e veloce uno eh’è  veloce, e sano uno eh’è sano... giacché qual¬  cuno potrebbe credere, che queste e simili qua¬  lità, quelli che son tali e le hanno, desiderano  quelle stesse che hanno; sicché questo io lo dico,  peichè non ci lasci trarre in inganno or bene,  costoro, Agatone, se tu la intendi, devono pure  avere nel presente ciascuna delle qualità che  hanno, o le vogliano, o no, e queste, oh citi mai  le desidererebbe?. Però, quando uno di¬  cesse : Io che son sano, voglio anche esser  sano; ed io che son ricco, voglio anche esser  ricco, c desidero appunto queste cose che ho, —  noi gli risponderemmo — Tu, amico, che possiedi  ricchezza e sanità e forza, vuoi possederle anche        7 >   o »   tu le l’^'- .,,,o qtiello eh e   ^JpSesse ' V untare   ^ ^ O non t in proi^“’ Z   che non si ^ ancora t P^ aò   l^!^ il inantenerntt pe r  ksic^®’ j presente?   '‘*‘0° «no -- *'’°“‘'Tchi«nque altro il 1 “»'' ^  E questi, Lello che non tiene   desUeri tuttavia, desi  J „on ha e   t mano e al cui h manchevole.   ”.e egli d i desiderio e Vamotc-   ‘n”Sr- -tSse. ^ ,„cr.te-ri.ssu-   ^LLvia.-coimlnd-Socm^^  mianio quello d. OT poi, di co   in primo luogo, e u  di cui patisca difetto   Si - affermasse. ^ente, Jt che   Ora, per ^etto che l’Amore sia.   tu nel tuo discorso hai „,ente im   Anzi, se vuoi, te giù questo; che   Tu hai detto, credo ,assetto per via d   agli Dei le cose ^ ^i bruttezza non   amore di bellezza-, g‘a detto su p   potrebb’ essere amore.   giù cosi? rispondesse Agatone-   Si che l’ho detto - risp   par]: da galantuomo .  e, ora, se è rnci ,>^ 4 )    Socrate;  ora e» "““*0 Acconsentisse. “   ' «on s’è rimasti d’arr« a   CIÒ di cui è in difetto, e che “«0 am   Si - dicesse. >ia?   É in difetto, dunque, di bellezza a  non l’ha? ^aiore, ^   Necessariamente — affermasse  Che dunque? quello che è in difetto di 1,,  lezza, e non possiede bellezza per ness^ì^"'  oh lo dici tu bello? ^ ^sunmodo^   No davvero.   Ebbene convieni tu ancora, che Amore sia  bello, s’egh è cosi?   E Agatone — Risico, dicesse - 0 Socrate,  di non avere inteso nulla di ciò che ho dettò  dianzi.    Eppure hai squisitamente parlato, Agatone -  C Socrate ripigliasse. — Ma dimmi ancora una pic¬  cola cosa: il bono a te non pare anche bello?   A me si. Se, adunque, Amore difetta di bellezza e se  bontà è bellezza, anche di bontà, dunque, esso  difetterebbe?   Io — rispondesse non saprei come con¬  tradirti; sicché sia pure come tu dici.   Alla verità, amato Agatone — concludesse —  ^ tu non puoi contradire; chè a Socrate non i  punto difficile.  e U discorso in- ^   « io giorno d» Dio-   £ ora „ r-he sentii nn ^ ^    ,rno iteXe cose, e una  Tdeila peste, fece, col  àP“^''\gli Ateniesi, pt'ttj ^tardasse loro di  olia agli _ .ricrifizio. cbe la_n^e m    quella appunto cit ^ g, eh’essa  jgcianni,qu ^ ^ discorso, outi fra   ose d’antore, punti cou   tenne, lo, roverò a ripetervel ,   p Agatone, nu P c g’intende, Ag   "' e il «#> *' “impano la via. teogo»   “ .1 modo che tu hai ape   VTcorrere chi l’Amore J facile £   fcriiua discor ^ che P .   ?! lco.,amo si. quello,^»   -t°iroono,e,io-og»^'^=„,es.^  Tma Agaldno a me, *'^"“"Èlei,   cose che ora Ag bellezza. _   f'"'do me'còlle stesse ragioni con cui^t^^^^   sSo cosmi, «., ne   n°d^o. come l'inmo^“;r=   tinta; ò brutto, adunque, ^.^p^tto? ”   D lei-'' o°-“/;Sp ciré non s.a belio,   rese — o credi, clte 4 brutto?   Icbba necessariamente esser   Certissimo.  O anche quello che  rante? o non senti, che  tra sapienza e ignoranza    Coni     E che mai?   L’opinar rettamente e senz’essere •  di dar ragione, non sai, dice, V"  sapere; poiché come sarebbe mai coV^-"°'‘  naie la scienza? E neanche é ignoranz'"''"®'  che apporsi al vero, come mai sarebbe  ranza? L’opinione retta è appunto cosi'®,?'  cosa di mezzo tra intendere e ignorare ’   Dici il vero — risposi io.   B Non forzare, dunque, ciò che non è bello a  esser brutto, o ciò che non è buono, cattivo. E !  così anche l’Amore, poiché tu stesso convieni  che non é buono né bello, non credere per ciò  che deva essere brutto e cattivo, ma una cosa  di mezzo, dice, tra questi.   Eppure, — diss’io — si conviene da tutti, che  é un grande Iddio.   Da tutti quelli, intendi tu, che non sanno o  da quelli che sanno?   Da tutti quanti a dirittura.   E lei ridendo — O come, Socrate, — disse —  converrebbero che è un Iddio grande coloro, i  0 quali dicono ch’egli non è neanche un Iddio?   Chi costoro?  dissi io.   Uno tu, risponde, e uno io.   E io domandai : Come mai dici tu questo ?   E lei — Facilmente — rispose : perchè, dimmi ;  tutti gli Dei non dici tu die sono felici?   O che ardiresti tu dire, che alcuno degli Dei non  sia felice?  io no " possiedono   'A'„ oo»v.n»to, *= »   Di non to’ desidera, appunto,   «a'^" ,4 e boto"''   eoo « "““t in dite»»’   0 come   ‘Tni^ r^nt:” oto aneto » A»-   To'^aedi un Dio?    . dissi    .sarebbe maiVa^more?    Che, dunque,  tortale?   r*f;“'''ltpto''e-un eto di metto  Come prima V   "" rti!«to,Dio.i’’»>^ inno B   il demoniaco e un   il mortale. - diss’^-   E quale possanza ^gU ^ei   D’intetpmte '.«““f oni, degU um,"  nomini, agli uomn ^ n^^jjjjii, deg’^  smettendo preghi ^^rrifizh . . pgr   mandi e rieambii de. a fb ,,„i, nenipm pe   t nel meato tra gl’ n    20 *^    Convito   modo che il tutto resti colleentr.  simo. Attraverso di lui pasfa “'r? I   na tutta quanta e quella de’ sacS" '   saenfizu c le iniziazioni. Dio non si ^ ì   uomo; però ogni conversazione e coll  Dei cogli uomini, sia desti, sia addormì°  per mezzo del demoniaco che la si fa p‘> ^ i   che è sapiente in simili cose, è uomo d ^ ^   chi è sapiente in ogni altra cosa o dUrr'^'°'  mestiere, ò un manuale. ^    urte 0 (li   0^a,di questi demoni   , 1 Amore è un   , 1 ~ ^ CS^i   ò suo padre - dissi io - e chi suà    ve ne son molti e diversi :   E chi  madre ?   É lunghetta, risponde, a narrare; pure te   10 dirò. Quando nacque Afrodite, gli Dei cele¬  brarono un banchetto, e v’era cogli altri Poro   11 figliuolo di Meti (218). Quando ebber cenato,  ecco che arriva Penia per accattare, perchè era  luogo di scialo; e girava attorno alle porte. Ora,  Poro briaco di nettare, chè il vino non c’era    peranche, — era entrato nell’orto di Giove, e vi  s’era, sopraffatto dal sonno,-addormentato; sic-  C chè Penia, macchinando per la miseria sua di  avere un figliuolo da Poro, gli si mette a giacere  accanto e concepisce Amore. Ed è per questo che  l’Amore diventò seguace e ministro di Afrodite,  perchè fu concepito nel giorno natalizio di lei,  e insieme è di sua natura amante del bello, poi¬  ché anche Afrodite è bella. Perciò come fi¬  gliuolo di Poro c di Penia, l’Amore s’ebbe  questa sorte ; prima eh’ egli è sempre povero, c  tutt altro che delicato c belio, come i più cre¬  dono, anzi duro, e squallido e scalzo, e senza     8i D    10 +    . dormendo avanù   |°«* r nò oi   i-sofist* ’ ^ e\io stesso g' mudre e p   Inta ^ada bene del padre,   '“T rVa" »-   Ìe<l»»"“ ?‘Sero Aii«>'''"‘"“ Chi h t*'"’   « ''‘®"°”ret=“° e -- “^TXìSn:   ““Se.' tr“fi-   "S>s;=.»“»sri'S-“‘‘°   Sf'“ :.,.eh..o.e.-   0„ _ disse - ^ V»e -li ‘ ole-   „„ raBSs». q»e ^ apP»'» ^jd't»"»'!  um e altri, e d q cose pmbell ^rio   clic Amore sla filosofo, Convito   egli sia un che di mezzo tra sapiente e •  rante. E di ciò gli ò causa anche la  sua; perchè lui viene, si, da padre sapiente'*^'’!?  molti ripieghi, ma da madre non sapiente e se  ripieghi. Questa, dunque, è, amico SocrateT  natura del demone; e l’aver tu ritenuto  Amore fosse quello che tu hai detto, è stata una  C svista da non doverne fare le maraviglie.  credevi, come a me pare congetturando dalle  tue parole, che Amore fosse l’amato, non gii  l’amante. Perciò, credo io, l’Amore ti appariva  bellissimo. Chè di fatti l’oggetto dell’ amore è  il veramente bello e il delicato e il perfetto e  il beato ; invece, quello che ama, presenta un’ altra  idea, quale l’ho discorsa.   Ed io ripigliai — Sia pur così, forestiera: chè  tu parli bene. Ma se è tale l’Amore, di che  uso è agli uomini?   D Q.uesto, Socrate — rispose — mi sforzerò d’in¬  segnartelo ora. Dunque è tale l’Amore, e nato  a questo modo, ed è, come tu dici, amore di  bellezza. Ora, se uno ci domandasse — O So¬  crate e Diotima, che è egli mai l’Amore di bel¬  lezza? Ma lo dirò più chiaro cosi: — Chi ama  la bellezza, che ama egli mai? Ed io risposi Che la diventi sua.   La risposta — dice — desidera quest’ altra in¬  terrogazione : Qjuello, a cui la bellezza diventa  sua, che n’avrà egli? Io A rispondo'' 1' uundo, si sei- ^   i. 8'*'“ f p sé '«'*! S bello e li down-   '.rd;iééoo>d,'“rs«"  . Socrate, su.   diventi suo ^ Snti suo, che n’avrà   ,.,,nriparpihage- aos   3 sarà felice.  possesso del bene  Di fatti. -- dtsse domandare   son feli<^'‘ ' vuole esser felice; an«   Trite ^bbia qui termine.   "^'’dIcì la rquesto amore, credi   Ora, questa vo uomini, e eh   ? -noTav t "empfe il bene? o come  tutti desiderino di avi.   dici tu? , rnmune a tutti.   Cosi - dissi to _^-jsse lei non dt-   0 perchè mai, Socrate lo   clamo che tutti diciamo che amano   stesso e sempre, ma di alcuni   e di altri no? ._anche io.   Me ne maraviglio -- dissi ^ noi.   Ma non te ne maravig i i^ chiamiamo   sceverando una specie e .^ig q nome t   col nome del tutto, ass g nomi.   amore; e per le altre usiamo al   Come che? - poUsis (aai) Come questo. Tu sa atto eh   cosa di molto comples causa che una cosa qualunque passi dal n  sere all’essere, è poiesis; sicché le operazic^"^  pendenti da qualsiasi arte sono poieseis  operatori poieiai tutti. ’   Dici il vero.    Eppure, tu lo sai dissé, non si chiamano  tutti poietai, ma hanno nomi diversi; e una par  tirella della poiesis sceverata da tutte le altre  quella che ha per oggetto la musica e i metri’  si domanda sola col nome dell’intero: giacchi  questa sola .si cloiama poiesis, e poieiai quelli che  possiedono questa particella.   Dici il vero, diss’ io. Ora è appunto cosi dell’ amore ; la somma n’ è  ogni desiderio del bene e dell’esser felice;  ma quelli che vi si avviano per un’altra delle  molte vie, del guadagnare, poniamo, o dell’eser¬  citarsi in ginnastica o del filosofare, non si dice  che amino nè che sieno amanti; invece, quelli  che mirano a una sua specie, e a questa pongono  il cuore, prendono il nome dell’intero, amóre e  amare e amanti.   Risichi diss’io di dire il vero.   E v’é — disse — un certo discorso, che quelli  amino i quali cercano la metà di sé stessi;  ma il discorso mio dice, che l’amore non sia nè  della metà nè dell’intero, quando, amico mio,  non si trovi essere un bene; dappoiché gli uomim  si tagliano volentieri e mani e piedi, quando le  membra lor proprie le credano malandate. Giacché non è il proprio, credo io, quello che ciascun  uomo ha caro, se già uno non chiami pròprio  il bene, altrui il male ; comecché non sia altro iciò no-'nspos“°-   te P»'     <”'r'di iri - S*pu6 di» s'”'P'‘'   dtól- j„e aggl»«8«« -   ‘'sTiv. aSS'ffSdd - di   £ non . sempre ^   Verissimo —   x:^v   I Ora, poiché l’amore^ ^fo^zo^^dT^chi'vi corre  I riprese lei. la cura chiame-   • dietro, in che modo e m q ^o sai   rcbbe amore? che opera e mai q   tu dire? . ^isgi — taato, o Diotima,   Non t’ammirerei- di« ^.   per la tua sapienza, m- « q  parare appunto questo. ^ . l’opera é par-   Ma te lo dirò io -- tisp j-ome   torire nel bello, nei rispetti   deir anima. l’indovino; che mai   Ci vuole — diss io   vuoi tu dire? hlon ‘^°™P^^“-egherò pih chiaro.   Ma io-disse lei -telo spiega Oh uomini, dice, tutf  corpo e nell’anima, e  la natura nostra ha desiderio di partorire nel brutto non può 0   E cosa divina è questa - e^in’ siO   tale, questo è inmtomi;, il co»"”* .'2;  rare Ora. l’uno e l’al„„ j  succedano nel disarmonico. E il *'*’'•« cht  monico da tutto quanto il divino  bello. Sicché Bellezza é Moira ed’Flir°"Ì.^'‘^  alla generazione. Perciò, quando la?  pregna s’ accosta al bello, diventa ilare  gioia sdilinquisce e partorisce e genera i qu? !  invece al brutto, si rannuvola e per il dolore •  raggomitola (229), e si raggrinza e non genera'  ma, poiché vieta al feto d’uscire, se ne sente  male e qui appunto è la causa che la creatura  pregna e già smaniante è presa da ansietà molta  alla vista del bello, perchè questo libera da gran  doglia chi lo possiede. Giacché Socrate, — dis¬  se l’amore non è del bello, come tu credi.   Ma e che?   Della generazione e del parto nel bello.   Sia pure — diss’io.   Certissimo — rispose lei — ; ma 0 perchè della  generazione ? Perchè la generazione è un gene’  rato sempiterno, e, per mortale, immortale,  Però, dietro quello che s’ è convenuto, è neceS’  sario che dell’immortalità l’amore senta si desi  derio, ma accompagnato dal bene, s’esso èamotf  dell’ aver seco il bene sempre. Sicché, conformi  a questo discorso, è necessario, che l’amore anchi  dell immortalità sia amore.  ,pnti dunque, mi dava  . nesti insegnami’’ ’ J A,more;  nfS S,i. o Socrate.   '8”' "ia mi ‘>»®”taesto .mote e iel deM-  : sia causa di 0 ° violenta disposi-   it'*, O non „• jllorchè deside-   *'"1 enttano gU ““.t “'ti q».»» i «olaf''. ^   S8rlS’m«reomotosamenm^“;'   ifcoSattere i per proprio   . . p si a venir meno aeiw qualun-   quealtro atto? ^ facciano per virtù di   “';'“''’-o' S # animali, qoale d c   raziocinio, o g rnsi? Lo sai tu dire ^  struggersi d’amor saprei.   Ed io da capo diss ^ ^ai di-   in cose dimore, se non mteod,   J'^'^^Ma^ppunto per J^j 2 so''chrho bisogno  or ora, io vengo da te, peretóso ^   di maestri. Ma dimmela m  e di tutt’ altro nelle cos amor   Ebbene, se tu credi eh P ^ pib vohe»   sia di quello che abbiamo c ^^.^a il »   non te ne ^ale cerca essere, P   L discorso, la natura m ‘gitale -  quanto può, sempre può solo per questa via, per la via dell    razione, perchè lascia sempre un n'^”'^'  invece del vecchio ; giacché anche nel tratt'o°'^°  tempo che ciascun animale si dice vivere e  rare il medesimo, come, per esempio uno T  fanciullo insino a che sia diventato vecchio t  detto il medesimo ; però è cliiamato il  desimo, quantunque non conservi mai b st ig  stesse cose, ma parte si rifaccia sempre giovine    parte alcune cose le perda e nei capelli c nella,  carne e nelle ossa e nel sangue e in tutto quanto  il corpo. E non solo nel corpo ; ma anche nel-  l’anima il tratto, i costumi, opinioni, desiderii,  piaceri, dolori, paure, tutte le disposizioni siffatte  non sono mai presenti le stesse in ciascuno, ma  quale nasce e quale muore. E, cosa più bizzarra  ancora, le cognizioni non solo alcune nascono  c altre muoiono, e non siamo mai neppur rispetto  alle cognizioni i medesimi, ma anche ogni sin¬  gola cognizione è soggetta allo stesso. Giacché  quello che si dice meditare, ha luogo perchè la  cognizione va via; dimenticanza, di fatti, è di¬  partita della cognizione : meditazione, invece,  ingenerando una cognizione nuova in luogo di  quella che se n’è ita, salva la cognizione  tanto da parere la stessa. Chè a questo modo  tutto il mortale si salva, non col restare sempre  in tutto e per tutto lo stesso, come il divino,  ma col lasciare quello che se ne va e invecchia,  qualcos’ altro nuovo, quale esso era. Con questo mezzo o Socrate — dice — il mortale par¬  tecipa della immortalità, così il corpo come ogni  altra cosa: impossibile in altro modo.,  „»r n.»'* 08 “  r,o • siacchè per   .8» xxvn   me nc   . ««ito q»““ *!“I!°;dio-s»pi“-   dubi»^*^’ . j^.dare all’ amor stupore,  •'?irfagio'^‘'''^°-h aie io ho  uoiuim» . ^ niente ci i>j.jnore del di-  o come si struggono d amor  concependo ccn^^ e di  ventare rin ‘ ^ eterno,   lasciar di se g ^gnl pericolo   e son pronti per e consumar le so-   norto a PATROCLO « ^f^no, se non avessero  figliuoli per salvar loro il reg  creduto, die una immorta ppuiito conser-   • a; loro, come apF _anzi>   rimasta memoria ^j^vvero — ’   viamo noi oraf i  io credo. per imniortal virtù         Convito   e per siffatta «gloriosa fama,, ,   cosa, tanto più, quanto mieiin   sono dell’immortale innamorar pS   Ora quelli — disse —, che so ^   poralmente, si voltano piuttosto" allff^  diventano amorosi a questo modo e   diante la generazione dei figliuoli, ’ ^   « Immortai vita, insin che il tem,^ ^   « Procurando », ^urì,    secondo credono,  e felice e ricordata;   i pregni invece nell’anima... giacché vi sonopu,  quelli, dice, che concepiscono nelle anime  anche più che nei corpi, le cose che all’anima  s addice e concepire e partorire. E oh! che le  SI addice? La sapienza e ogni altra virtù, cose  appunto di cui sono generatori i poeti tutti, e  quanti v ha artisti che si dicono inventivi: però  d ogni intendere — dice — il maggiore e il più  bello è quello il cui oggetto sono gli ordini delle  città e delle case, a cui si dà nome di temperanza  e di giustizia. E quando poi uno, essendo  divino, sia da giovine pregno di tali cose nel-  1 anima, e, giunta l’età, desideri oramai di par¬  torire e di generare, cerca, credo io, anche lui,  girando attorno, il bello in cui generare ; giacché  uel brutto non genererà mai. Sicché, come pre¬  gno eh’ egli è, si compiace de’ corpi belli piut¬  tosto che de’ brutti; e quando s’incontri in una  Della anima e generosa e di buona natura, si  compiace, e di molto, dell’insieme, e subito con , honda in „ ^he studii prò- ^   ersona poomo buon venuto   ^ette a educarlo.^ ^„„,ersando con   della beila ^15 di cui era   ^ntan° credo, e gener   {Ìa.pa^^;\cnin> " ^'^to insieme con quella,   %< e alleva il ^ggior comunanza   jU^^^’:,rcbe una molto gVi um   "’f figlinoi' (ai?)- ! poicbt in pm   cbe e amicir-ia prn accomunati.   '‘ immortali ftgbn®^’ " ^ lui nascessero   nTe avrebbe caro .^ando e a D    chet:   0 se ti piace, ".f " ^.^eutone, salvatori d ^   I lasciò Licurgo m L 1 EUade.    I tcedemone, 0, per Solone per la g^n   ! E presso di voi °"°;Xi valenti uomini in altri  ' aione delle leggi, ed altr ^ ^.bari,   luoghi parecchi, e tra g^^f/^.ueratori di virtù  autori di molte e belle «per , ^ furono   si.   eretti per via di tali 5  umani sinora a nessuno. E ,ta qui, qu““ A”"' cui   i.. coi torso, So««“.’!''y„ìtivo (oi® “  k; ma in quello P"'' queste, quando uno procede bene  IO non so se tu saresti capace. Te  dunque, io — dice, — e ci metterò tuttrirb*®"*’  voglia ; e tu provati a tenermi dietro, se ti •  Giacché — dice — chi vuol mettersi per la  via a simile impresa, deve cominciare da gì  ad andare incontro ai bei corpi; e da  quando chi lo guida, lo guidi rettamente, ama'r*'*’  uno di quelli, e quivi generare bei pensieri^  e di poi intendere, che il bello di qualunque  corpo è fratello con quello di un altro corpo-  e se bisogna andare in cerca di ciò eh’è bello  in genere, sarebbe una stolteaza grande  non riputare una e medesima la bellezza su tutti i  corpi; e quando abbia inteso questo, renderlo AMATORE di tutti i corpi belli, e rallentargli quello  struggersi violento per uno solo, facendoglielo  sprezzare e tenere a vile; e di poi reputare la  bellezza nelle anime più preziosa di quella nei  corpi, di maniera che, se anche uno, ben fatto di  animo, abbia del rimanente poca venustà (241),  egli se ne contenti e lo arai e n’abbia cura e  partorisca pensieri e ne cerchi di tali, che fac¬  ciano migliori i giovani; affinchè da capo e’sia  costretto a contemplare il bello negrinstituti e  nelle leggi, e vedere com’esso è tutto connatu¬  rato con se medesimo; c dopo gli instituti  lo meni alle scienze perchè di novo veda la bel¬  lezza delle scienze ; e guardando ormai a un bello  già copioso, non sia, servendo al bello in una  singola cosa come domestico, un’abbietta e me¬  schina persona, che s’attacca alla bellezza d’un  fanciulletto 0 d’un uomo o d’un instituto unico.   dclbcUoccontcm-   discorsi e ma   rivo''° “'torist^^ filosofia infinita, smo   k>' CV' >VTeS»cWto,n<.n;.s»’-ga  fcf.a J- *e SU sc.c« *   r^‘'’';Su -'SS. E gù, E   •. ctato educsito sin qui   alle cose Qgpetti, pressoch   srs* “"ss “qSii» “pp””®’. °   • rrp<;ce nfe scema, e a y e ora no,   tncii cresce u^i-»i-tn ne or*^ j.   verso e per e brutto in un JJ   nt bello in un ”spu«o g neanche il bello   qua bello e qua brutto come un   si presenterà alla sua . p ^tecipa il corpo,   visS 0 mani o nient’ altro cm par   neppure come un discorso .^,erso, m u   c eppure come m qual ^ ,ieio o m   animale, per esempio, uniforme s   altro, ma esso stesso di P belle tutte   stesso in sempiterno, e che   partecipanti di esso pe periscono, ess   queste altre si generano uà patisce   diventa punto maggior  nulla. Sicché, quando uno, per aver am  fanciulli nel buon modo, risalendo dallp .. *   quaggiù cominci a vedere cotesto bello all  si può dire che tocchi la meta. Giacchi  sto è nelle cose di amore procedere o essT^'  condotto bene da altri ; movendo da’belli sensu^  di quaggiù salire sempre sempre attratto dal bello  di lassù, montando come per gradini, da uno a  due e da due a tutti i bei corpi e dai bei corpi  ai begl’ instituti e dai begl’ instituti alle belle di¬  scipline, e dalle discipline terminare in quella    disciplina, che di altro non è disciplina se non  appunto di quel bello ; e conosca terminando ciò  che ò per sè bello (244). Questo, se altro mai, —  disse l’ospite di Mantinea, — è il punto della  vita, degno che l’uomo ci viva, contemplando  il bello in sè; il quale, quando tu una volta lo  veda, non ti parrà da metterlo nè con oro, nè  con veste, nè con bei fanciulli e con giovanetti,  che vedendo tu ora sei tutto sgomento, e sei  pronto, e tu ed altri molti, se possibile fosse,  guardandoli, questi amati vostri, e vivendo sempre con loro, a non mangiare nè bere, ma solo  contemplarli e stare insieme. O che cosa, dice, pensiamo, che debba essere, se uno abbia  la sorte di vedere il bello per sè, sincero, puro,  inmisto, e non già ripieno di carne umana e di  colori e d’altra molta inezia mortale, ma possa  riguardare esso il divino bello di per sè uniforme? O credi tu, — dice — che sia spre¬  gevole la vita dell’uomo che guardi colà, e quello  contempli sempre e stia insieme con esso? O  non intendi, dice, che quivi soltanto, ri-   9>   con coi C   il W'“> "" „“n immagini di »«<,  li non vp.ra.    , Kiio con * a .W,   ..aa'»'" ' li parto*" ” " ma vitti vera,  tocc^^ una virtù vera e   ncca il ^di diventare amico di   ““ ^   ^'riisse aVf anche gli ^1“*»   r 70 di persuader *_ potrebbe da nessuno  siffatto non si p   ""TC aiuto all’ umana u«umj^.   Moro. '"‘'•«“'“J’l'onoro io atasso (a4«).   uomo onori Auu°" esercito soprattutto e   c nelle cose di am^ ^ ^^.omio la   v’esorto gh ^e a tutto mio pot«e.   potenza discorso tu ritienilo C   Or bene, o ,d Amore’, se no.   detto, se ti piace, m ^^^ba.   e tu dagli quel nome, che  Finito ch’ebbe   raccontava, lodassero , parlando aveva   a dire qualcosa, perch jq ecco all'im-   alluso al discorso di lui- q sentire   provviso la porta del au yseiù da^ un   un gran rumore come i ^ una flautista,  banchetto, e si ode ^ '^^ „g 22 Ì, non andate  Sicché Agatone dicesse. o entrare se   a vedere? e se è uno di casa  no, dite, che nbbiamo finito di ber  • E di li a poco si udì nellS,,,! ci   :0 frarlirìn    urlando    SI riposa   di Alcibiade briaco fradicio, che  domandava dove è Agatone, e ordinav^'j  tasserò da Agatone. Sicché la flautista  reggeva e alcuni altri della compagnia^ j  tarono da loro ; e, coronato di una coróna f  di edera e viole e tutto coperto il capo dì  infinità di nastri (248), lo fermarono sulla po''*'*  ed egli disse: Amici, vi saluto; un uomo, bria*’  proprio fradicio, lo pigliereste con voi a bere 0  ce ne dobbiamo andar via, dopo avere soltanto  coronato Agatone, eh’ è quello per cui siamo ve¬  nuti ? Giacché -io — dice — jeri non ci potetti  essere, ma vengo oggi, coi nastri in capo, perché  dal mio capo quello del più sapiente e deh più  bello io ne recinga. Forse, riderete di me  perché son briaco? Ombè, io, quand’anche voi  ridiate, pure so bene che dico il vero. Ma dite  su, a questi patti entro o no? Beverete 0 no  con me? E qui tutti strepitarono e gridarono  che entrasse e si sdrajasse, e Agatone ve lo in¬  vitò: ed egli, condotto dalla sua gente, venne;  e, poiché a un tempo si levava di capo i nastri  come per incoronarne altri, non s’accorse di So¬  crate, che pure gli stava davanti agli occhi, ma  si messe a sedere accanto ad Agatone in mezzo  tra Socrate e questo ; giacché Socrate s’era  tirato da parte per fargli posto: — c cosi  sedutoglisi accanto fece riverenza ad Agatone  e lo coronò. E Agatone qui disse : Ragazzi, le¬  vate le scarpe ad Alcibiade, perchè si metta a  giacere in terzo con noi. Sicuro — rispose Alci-     compagno no jo’   .uj è questo te Socrate, e al   •e- - voltato»' f ^   &"<r6 "" Dunque, da capo   L«'°. ii! 5°““'“ Tkf”' '» P““’ “”"l   Pi qui sdtaU'^®.^,improvviso dove meno   '"'ffpoi ti sei messo a g^ace^   ^P''lcaJto ad Ma tanto hai   a«o o qua dentro. _ uarda   luauti sono q Agatone — disse, ^&   E Socrate, cerchi: l’amore che to P   . nii vieni in aiuto ; P un affar   fili è diventato per m , m-   :;rDifatti, dal tempo <^e m   *or..o '»i. “"„rp«-a D   ”' dTco”o«“re Ln o-,»no V sto  nessuna, ne di c invidioso fa cos   qui ingelosito di ^ "“"J.peri, e poco manca  strabiliare e mi copr Addosso. Guarda,   che non mi metta le m^n  dunque, che non faccia un d  ,na metti pace tra ° ^el furore di costui   lenza, difendimi tu, perd è addirittura   e del suo innamoram -pigliò Alcibiade:   Pace fra te e me ^ jto io ti g^»«'  no davvero. Se non ehejer p,,te   girerò poi; ora, Agatone questa testa qui   L nnstri, P»cM .0 «e J   maravìglìosa di ’ oronaw 'e. nien«*=   pioverà, che io 1'“ “f ji,cofii, noi sol¬  ete viiiee tuni gli 7   Platone, Vo/-    9 ^ Convito   tanto dianzi, come tu, ma sempre   renato. ’ ho   E qui, prese i nastri, ne cinse So  mise a giacere.   E quando si fu sdraiato: Su via, amici  disse — a noi ; mi sembrate gente che non T  ancora bevuto; questo non va, bisogna bere; cllè  cosi è l’accordo nostro. Or bene, io scelgo a  re del bere, insino a che voi abbiate bevuto ab¬  bastanza, me stesso. Agatone porti, se  v’è, un gran tazzone. O piuttosto non occorre-  porta qua, ragazzo, quel bigonciolo vedendo che conteneva più di otto cetili. E  riempitolo, tirò giù tutto prima lui; poi, ordinò,  che si mescesse a Socrate, e insieme disse: Con  Socrate, amici, l’invenzione non mi giova a nulla;  questi può bere quanto uno vuole, e non v’è  caso che si ubriachi mai. E Socrate, quando il  ragazzo gli ebbe mesciuto, bevve. Qui Erissima-  co, — Che modo è questo, dive, Alcibiade ?  cosi nè discorriamo di nulla sul bicchiere, nè  c’intoniamo un canto; oh! berremo proprio come  assetati ? E Alcibiade di rimando : O Erissi-  maco, ottimo figliuolo di ottimo e sapientissimo  padre, salute. E anche io a te — rispose Erissimaco; — ma che s’ha egli a fare? Il piacer  tuo ; giacché ti si deve obbedire.   Un medico vai solo uomini molti;   1   sicché comanda ciò che tu vuoi.     t)   „ • a   tS»aS» 'TSsfAS:: °»   ‘T .Coe ’l‘»”‘> Ti Tjo che «»»   fu W» So»»"-»"*'   parli bene; però bad , non hanno   di fronte a discorsi ^ aguale. E insieme,  bevuto, può non esser p S gocrate ha   b-ruomo. appunto «>«   addosso. , __ disse Socrate?   Ti vuoi chetare Alcibiade -, non   Affé di Posidone - "P‘P^ f non v’ è   ci metter bocca; che io in faccia a te, no   nessuno al mondo che o crei.   Ebbene, tu fa’ cosi, — riprese i.   se tu vuoi, loda de_? S’ha a fare.   Come dici -ripetè Alcibiade Erissimaco ? Che io dia *   lo gastighi davanti a ^ che hai tu   O tu — interruppe Socrate • ^   per il capo? Mi loderai per canzo  farai?    r\ir<S W vprn. Convito An^i, il vero Io permetto, e t!  dirlo. *1 comando d-   Son pronto — disse Alcibiade - • ’   Se io dico qualcosa di non vero ^osl   a mezzo, se vuoi, e di che quella 6  giacché di proposito bugie non ne .“Sia;   = '5 però le cose io le dico, secondo mi c. .  in mente l’una dall’altra, non ti stup°*’’’'““°  non è punto facile, a un uomo in quesm  lo spiegare alla lesta e per ordine roriginar°à   B  c  Socrate, amici, io mi proverò a lodarlo cosi  per via d’immagini. E forse questi crederà, che  io lo canzoni; ma l’immagine in verità avrà per  suo motivo il vero, non lo scherzo. Io dico  dunque ch’egli è somigliantissimo a cotesti (254)  Sileni esposti negli studii degli scultori, che gli  artisti fanno con zampogna o flauti in mano;i  quali aperti in due mostrano aver dentro imma¬  gini di Dii. E dico per giunta, ch’egli s’assomigli  a Marsia il Satiro. E, che tu sia di aspetto simile  a questi, neanche tu, Socrate, ne faresti  questione (256) ; ma come tu somigli anche nel  resto, sentilo ora. Sei tu petulante o no? Ché,  quando tu non lo confessi, presenterò testimoni.  Ma non flautista forse? Anzi molto più niira-  bile; l’altro, di fatti, attraeva gli uòmini  colla potenza, sì, della sua bocca, ma attraverso  istrumenti, e anche ora, chi suona le cose di  ui, giacché quelle che Olimpo sonava, io le      D    lOI   Convito   . o di Marsia, .f^eseguisca un buon   , cenate di quello, o fi ^ causa,   Si ““   uno si »»'* l’S ’ta'bisogno degli Di'   ;^ono, f\u gli vai tanto innanzi,   d’iniziazioni. ^«ieni quel medesimo   che senza istrumen . c y Almeno, noi,   S.0 =0» f““ “« uii™- Ti   quando si ode discorrer^ ^i   dicitore anche nulla, vi so dire, a   un altro, non ne impor te, o un altro   nessuno; • gè anche chi li reciu   che reciti i discorsi tuo , ^na   sia proprio un uomo a P^ ^ restiamo sba-  d„„L d ua uomo o se non   lorditi 0 '“V,, per briaco, vi rac- velessi passare addinttur p   cornerei con giumme»»; fpoSsento tuttora,  risentito dai suoi   Che, quando'’SÌ'"   XìltnSmi àendo Pericle e altri buoni   parlatori, io ero anima mi   ma non provavo nulla di sim ,   “siTer^nrTa’i “r^esto Marsia gui  mMtanno pib volte fatto tale   renili, non sacrate, tu non dirai ai6   nel mio stato. E ciò, o S , , mscienza che non sia vero. E   che, se volessi prestare sforza   ma mi seguirebbe il medesimo. a convenire, che, con tanti mancamenti ,  trascuro me, e attendo agli aflfari  Sicché io, turandomi le orecchie si  Sirene, mi fo forza (261) e fuggo vir°'”^  invecchiare seduto accanto a costui  quest’uomo m’ò seguito quello che nessuno    erederebbe di me, vergognarsi di uno. Io di  solo mi vergogno. Giacché sento dentro    di non poter contradire, che non bisogni far  quello a che lui mi esorta; ma poi, appena io mi  son staccato da lui, ecco, la voga dell’aura po  polare mi vince. Sicché io lo scanso e lo fuggo-  e quando lo vedo, mi vergogno di ciò che si t  caduto d’accordo. E tante volte io vedrei vo¬  lentieri che non fosse più tra gli uomini; ma  d’altra parte, se ciò accadesse, so bene che me  ne rincrescerebbe assai più, per modo che di que¬  st’uomo io non so che mi fare.     Dunque, dalle sonate tanto io che molti altri  abbiamo provato tali effetti, da questo satiro. Il  resto, sentite da me, com’egli è simile a quelli  a cui l’ho raffigurato, e la potenza ch’egli ha,  come sia maravigliosa. Perché siate ben persuasi  che nessun di voi lo conosce ; ma ve lo scoprirò  D io, giacché ho cominciato. Voi vedete che So¬  crate ha tenerezza pei belli, c gira loro sempre  d intorno e n’ è tutto fuori di sé come mostra  la sua figura (262); e non è da Sileno cotesto?  Eccome 1 Giacché e’se l’é avvolta per di fuori’  '"ù Sto» scolpi»; »»   B 8 “'» ''°' o>‘‘“s"r-  %A rhe son levai'- «ì^rp e noi altri   Ma quapi»   canzonare la ^ ^ erto, io non so se   si mette sul seno ed t • p jo gl*   qualcuno ha visto t s'rnulaar^^^ ^   ho visti una volta, doversi far m   aurei e bellissimi e m ^;,enendo   tutto 50 della mia bellezza,   che sul seno si fo^s^ ^ inaspettato c una mia  lo giudicai un guada S P . modo,   ,„„„„a "«"tS,.; d' «pptendera .«.o ci 6  : compiacendo Socrate ore   i che costui sapeva, già ^ Sicché, con   ! ne tenevo non vi so <\ solito di   ' CS4) " ursenza uno accompagna-   d- allora io P». ^,o^.a B   toro e me no “i™,“ ' ° bone attenti, e se   dire tutta f sbàttimi. Adunque, io   mentisco, tu, bocrate,   me ne stavo, amici, ^ meco nei didevo eh’ egli sarebbe su i o * amato   scorsi che un innamorato questo non   a quattr’occhi, e ne 8° 5^0^52 meco come   ne fu nulla, proprio nu s , .era solito, e dopo, passata cou me tutta nata, se n’andò. Di poi lo .  ginnastica (265); troverò quivi il bL" ^   ' ;->g-avo. Ebbene fece ginnasdcrt ’«’-  lottò spesse volte, senza che ci fo«  nessuno. E che s’ha a dire? No  un passo avanti. Poiché non venivo"  nessuna di queste vie, mi parve cheV*^dovesse assalirlo alla gagliarda, e una voir°u‘  nn ci ero messo, non smettere, ma  oramai che affare é questo. Sicché lo inlv  a cenare meco, tendendogli un agguato propri!  come un innamorato all’ amato. E neanche 0 •  diede retta subito; pure col tempo s’arrese. Ora  la prima volta eh’e’ci venne, volle, finito dì  cenare, andar via. E per quella volta io ebbi  vergogna e lo lasciai andare; ma la seconda,  fatto il mio piano, dopo che ebbe cenato, con¬  versai con lui molto avanti nella notte, e siccome voleva andar via, col pretesto che fosse  tardi, lo forzai a rimanere. Ora egli si mise a  riposare sul letto vicino al mio, su cui aveva cenato, e nella stanza non v’ erano altri a dormire,  fuori di noi. E, sin qui, è un discorso da potersi  fare a chiunque; ma di qui avanti non mi  sentireste parlare, se, prima, dice il proverbio,  il vino non fosse veritiero coi fanciulli e senza  1 fanciulli: e poi mi pare ingiusto, una  volta che mi son messo a far l’elogio di Socrate, di nascondere un suo superbissimo atto.  E per di più l’effetto del morso della vipera ha  luogo anche in me. Giacché raccontano, che la  persona che l’ha provato, non vuol dire com’ egh‘  k stato, se non a’morsicati, poiché questi soli    Convito _ j   -inno e compatiranno, 'siccht i   -r. £ o-» do-   ite"‘”s°to'’fare e dire doloroso   (jorso fl P potesse essere   fTX "®.°e'-e'morso da discorsi  ‘ me gli s‘ ^ ' no neggio d’una vipera,   ffamio operare Agatoni, Ens-   , rte vedendomt davmi Aristofam-   simachi, Pausami, ^nsto ^jj^inarlo, e   Socrate stesso, che ^ e dal delirio tanti altri? Che sen.   della filosofia siete m voi  B  Poiché, dunque, amici, p^^ve^ che io   ; i ragazzi furono usciti, a P  lon dovessi pigliarla larga con ^jgsi;   libera quello ^^tto - quello rispo-   Socrate, dormi? ^ Che cosa?-   se - Sai tu che cosa ho ^ciso   disse. A me diss to » „ g ti vedo esitare  innamorato «ùo degno ' questa di-   a farmene parola. tJr , grande il   sposizione-, io ritengo . g y’è altro che   non compiacerti anche melò e se  ti faccia bisogno della sostane-,  amici miei. A me nulla è di . ° deei:   quanto diventare il migliore che iT'' ''‘"4  CIÒ io credo, che nessuno mi sìa aium à   di te. Ora, a non compiacere un  tua fatta io mi vergognerei assai più dav °persone di senno, che non davanti alla ge  stolidi a compiacerlo. E lui ebbe ascoltato, con aperta ironia, e proL°io'’"  è solito, risponde: O caro Alcibiade rTw  m realtà di essere un uomo non dappoco: cade che sieno vere le cose che tu dici di’  v’è in me una potenza per cui tu potresti diven¬  tare migliore ; una infinita bellezza tu avresti  scorto in me, e superiore di molto alla venustà  eh’ è attorno a te. Sicché se tu, avendola vista,  tenti di accomunarti con me e barattare bellezza  con bellezza, non è piccolo il vantaggio che tu  pensi di prendere sopra di me, anzi in cambio  dell apparenza tu cerchi di acquistare la realtà  del bello, e pensi di barattare davvero « oro con  ferro. Ma, beat’uomo, guarda meglio;  che io non sia nulla e tu t’inganni. Appunto, la  vista della mente comincia a vedere acuto, quanto  quella degli occhi prende a scemare del vigor  suo; ora tu sei ancora lontano da questo. E  io, sentito ciò. Quanto a me — ripigliai —, le  mie disposizioni son quelle, nè se n’ è detto nulla  diversamente di come penso : decidi poi tu come  tu credi meglio per te e per me. Ma di ciò   riprese tu dici bene ; sicché a suo tempo ci  consiglieremo insieme e faremo quello che ci  parrà il meglio cosi in questa, come in ogni Convito cpntite e   Ora io. P'' “'lomTsaW'.'’*®   loi”' “reaovo aver lanca» ni la-   fi'"' /'“Vr“iu. 5o réti C   Latori' P‘“jJ era <1 ly™ le mairi   alvino   (attorno a q ^ cosi l’m^era no • £b-   ffrtrbtare aire,   ::tiot-r:it:'t'rpt   venustà mia e la P   giudici che valesse qualcosa fJ / x\o di Socrate chè voi siete affidigli Dn. affé delle   giacché sappiate, che 1 , dormito con   Dee, mi levai da avessi dormito Socrate, “ to maggiore. I con mio padre 0 coi   xxxv   Ora i^oPO f  *'par;»   ; rr lataft e la -e^po-a ' U co^»   di lai, io che m'ero “"rX;°,„ai, goanto  come non credevo ?orcr }^conn^. l^^^niera che   a saviezza e fortezza d’animo? Dima   10 non sapevo, come ad » neanche vedevo   I rinunziare alla sua compag ’ . conoscevo il modo di conciliarmelo. invulnerabile   bene, che al denaro egli mezzo   da ogni parte che Aiace al ferro, e    1   io8 invito   con cui solo credevo che si  ni era sfuggito di mano. SiLSf P^end  zato, e fatto schiavo da quest’uo'° ’‘nbaf“‘  mai nessuno da nessun altrui- <:ome   casi m-aran ,„.i seguì»   cenimo tuttedduela compagna f'   quivi fummo compagni di mensa   cominciare, non solo nel durar ‘le  mi vinceva, ma in ogni altra cosa  ogni volta che - son casi che succedonot'’^““-  ra - intercettati in alcun posto, eravamo os^oT-  a rimanere senza cibo, gli altri, quanto Tre?  stervi, non valevano un ette. E d’altra narto banehetti , non c’ era chi sapesse goderne Se ®  lui, cosi 111 tutto il resto, come anche nel bere-  e non ci ha gusto —, s’ei v’era costretto, vinceva  tutti; e quello che è più maravighoso,  Socrate briaco non c’ è uomo al mondo che l’ab¬  bia visto mai. E del resto mi pare che di ciò  s avrà la prova subito. Q.uanto poi a resistere  al freddo e là gl’inverni sono terribili  fa cose mirabili in tanti altri casi, e una volta,  essendo gelato come peggio non si può, e tutti  o non uscendo fuori, o, se pure, coperti tanto  da fare stupire, e calzati e coi piedi rinvoltati in  feltri e pelli di pecora, ecco lui, con un tempo  di quella sorta, se n’esce con un mantello come  quello che soleva portare anche prima, e scalzo  camminava per il ghiaccio meglio che gli altt*  calzati. I soldati lo sogguardavano come uno  che li sprezzasse. D  'tee e tollerò l’uom forte   or che merita di sentirlo. Ve-   „ giorno all’esercrto^ m un   r un pensiero stett   r! iJettendo,epof ;;teri E   Csniesse. nta ^ /nomini se n’accor-   g;; maravigliati ^l^'^tuminando qualcosa.   ente dall’t^lba J r^g), - poicltè era se-   finirla' alcuni Joni era   » io--'   a’estate  1 \nsieroe per spiare, se lui sa   all'aria fresca, e si, in ^ ghette   •ebbe stato ritto ^ non si fu levato   ritto, sino a che non  j^ra al sole il sole; di poi, fatta la preg. baua-   se n’andò via. E ’ - giusto che gh si   glie-giacche questo men^^ ,  renda -, quando accadd  es-   generali dettero la_ palma PP^^^ nou   sun altro uomo '"i salvò volle abbandonarmi ferito. '50 Socrate,  c le armi c me. E j». S»»"“ ’ si desse la  sin d’allora dichiarai a g rimp^vero   palma a te, e di ciò tu n avendo i gene- e non dirai che io «tentisco- e covali riguardo al mio gta facesti premura   lendo dare la palma a endessi io e non   anche piò dei generali che i* F no tu. Ancora, amici, valse  templar Socrate, quando ]  in fuga da Delio; g  sente a cavallo, lui da f  sbaragliati già tutti, egl     Lachete, e io m’imbatto per li à   esorto subito a star di buon animo  loro di non abbandonarli. Or hf’no  crate mi dette più bello spettacolo che in p   dea — giacché quanto a me stavo meno in pa?'  per essere a cavallo prima, in ciò ch’egb  perava di molto Lachete, quanto all’essere p«-  B sente a sè; poi a me pareva, o Aristofane,-  sai, la tua frase che anche li egli camminasse  come qui, « in sussiego e guardando di scan-  cio » (282), sbirciando tranquillo, e lasciando scorgere a tutti, persin da molto lontano, che,  se uno lo toccherà, e’ farà difesa ben gagliarda  quest’ uomo. Perciò se ne andava via sicuro e  lui e l’altro; giacche quelli che in guerra mostrano questa disposizione, non li toccano, sto  per dire, neppure; invece quelli che fuggono  C alla dirotta, questi sì, gl’inseguono. Ora, di molte altre cose e mirabili uno potrebbe lodare Socrate, però in altre parti si po¬  trebbe forse dire lo stesso anche di altri, ma quel  non essere simile a nessuno nò tra gli antichi  nò tra i presenti, questo a me par degno di ogni  maraviglia. Giacché Brasida  e altri uno se  li potrebbe figurare come fu Achille; e come  D d’altronde e Pericle, così Nestore e Antenore; t ve ne sono diversi ; e gli altri uno se  li potrebbe figurare del pari; ma uno fatto in originalità, e lui e i suoi f ;tono. P“/““ ‘S ù.   r‘*‘Jbe’ neppn^® a meno che non si as-   non a nessun uomo, ma  . vho tralasciato sinora-, che   Glacchèquesto to somigliantissitni a. E   nche i discorsi di 1 volesse   Sileni che s’aprono. prima gli pat'   jS.«p ‘ ‘r'” tts^òl p»°'p ' >'   rebbero da ridere, tal propriamente di   I So»i 1“„S i “t   Satiro petulante, p sempre   e calzolai e ’ ^lodo, sicché ogni per-   stesse cose nello smss aerebbe   sona inesperw e priva 3,   beffa dei suoi discon . rima   le vede aperti e p j^^nno   lì „ov«à i soli .<!?'“' in sè «pia   poi dmn®n» ' „.i,o an«   di simulacri di Virtù, conviene meditare con mira a tutto per bene,   a chi voglia essere una p lodo   Queste, o amici, son . quelle di   Socrate; e in <^he egli m’ha   cui lo biasimo, v ho questo sol- B   offeso. E, in fede nnn.non .^ne   tanto a me, ma anche tantissimi   e ad Eutidemo di Diocle ^  altri, ai quali lui dando ad intendere di v 1 essere ramante, se n’è fatto l’amato in camk-'^  d’amante. È appunto quello che dico anche*°  te, Agatone; non ti lasciare ingannare da lup  ma ammaestrato da’ casi nostri, tienti in guardia*  e non imparare, secondo il proverbio, come un  ragazzo, a tue spese. Quando Alcibiade ebbe finito di parlare, si  fece, raccontava, un gran ridere della franchezza  con cui egli si dava a divedere tuttora innamorato di Socrate. E Socrate O Alcibiade dice, tu non sei per niente briaco, mi pare;  altrimenti non ti saresti provato, rigirando il di¬  scorso con tanta finezza, ad occultare la  causa per cui hai detto tutte queste cose ; e l’hai  messo poi come di passaggio, in fine, quasi non  D avessi detto ogni cosa per metter male fra me e  Agatone, giacché, a parer tuo, io devo amar te  e nessun altro, e Agatone deve esser amato da  te, e da nessun altro al mondo. Ma ti sei fatto  capire; chè cotesto tuo dramma satirico e Silenico s’è scoperto. Ma, caro Agatone, ch’egli  non ne profitti punto; anzi, fa proposito, che  te e me non ci separi nessuno. E Agatone risponde: Certo, o Socrate, tu risichi di dire il  E vero: e lo argomento anche da questo ch’egli  s’è messo a giacere fra te e me, appunto per  separarci. Or bene, egli non ne profitterà niente  affatto; anzi, ecco, mi levo e mi metto a giacere, dice Alcibiade , q proposto   Jm’ba a dare lascia,   to"'" Iffarnii in wtto. Ma se ^  d' lomo che Agatone si lodato   niirabd u^'!: Socrate    u capo nie, in uomo, lascia   ria me? (^9°^ ^ ’ onesto giovinetto che sia   re e non invidiare  f^pto desiderio di   lodato da me; chè . y, -soggiunse Agatone -, no^ mai. di mutar posto,   risoluto, ora P" siamo alle sohte   esser lodato da g^^ate, b mtpos-   rispose Alcibiade , P belle per   sibila a chiunque altro di g persuasivo sene. E »«' « p^cUi «stm »   ha trovato e con clie u  giaccia vicino a lui  1 Agatone, dunque   dar a sdraiarsi accanto S ^ue   .ir improvviso s i, uscita di uno, si   [ porte; e trovatele aper P ^ ^ g,^eerc, l fecero avanti m ver . ^i a bere vino   I c tutto andò sossopra e SI tu o quello che dicessero, Aristodemo dichiarasse?  non ricordarsene nel resto; poiché non v’aveS  D assistito da principio, e sonnecchia ; ma la som?  ma, diceva, era, che Socrate li costringeva a  convenire, che appartenga allo stesso uomo il  saper fare tragedia e commedia, e chi per virtù  d’arte (291) sia autor tragico, sia anche comico;  del che costretti a consentire, senza seguire gran  fatto, prendessero sonno, e prima si fosse addormentato Aristofane, poi, a giorno fatto, Agatone. Quanto a Socrate, dopo averli messi a  dormire, si levasse e se ne andasse via, e  lui, com’era solito, lo seguisse; e andato al  Liceo, lavatosi, vi si trattenesse come al¬  tre volte, il rimanente della giornata, e trat¬  tenutosi cosi, andasse poi la sera a riposare  a casa. Francesco Saverio Dòdaro. Dodaro. Keywords: tracce di un discorso amoroso, mappatura, signature, segnatura, cantata duale, cantata plurale, cantata duale, origine del romano, edipo, caino, mancanza di Lanca, communicazione inter-mediale, communicazione inter-mediale e luto, immagine e segno, senso, sensibilia, visibilia, Freud, Jakobson, Levi-Strauss, Magritte, “silenzo silenzo silenzo silenzo” Catullo poema rima ritmo batto cuore figlio madre padre orale genitale ma-ma etymology of ‘altro’ – Hegel on conscience of ego and conscience of alter, Sartre on ‘nous’ and love affair – infinito – lingua a codice – codice come ripetizione – ripetizione dei suoni del cuore – ontogenesi ripete filogenesi – commune, vacuum del ventre della madre, etimologia di termine chiave, fonema, unita etica, unita emica, Speranza, Schultz, unita emica come classe di unita etica – criterio: un accordo o codice di relevanza – l’intenzione del mittente. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dòdaro” – The Swimming-Pool Library. Dodaro.

 

Grice e Dolabella: la ragione conversazionale all’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.Publio A follower of the philosophy of the Garden, and the son-in-law of Cicerone. The achieved the distinction of being pronounced a public enemy by the Roman Senate. He ordered one of his soldiers to kill him. Publio Cornelio Dolabella. Dolabella.

 

Grice e Dommazio: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A  philosopher, known only from a surviving bust. Dogmatius. Dommatio. Dommazio.

 

Grice e Donà: la ragione conversazionale e la sessualità – scuola di Venezia—filosofia veneziana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice: “Well, Donà has philosophised on almost anything – I drank wine; he philosophises on it – ‘bacchiana,’ he calls it – he has also philosophised on ‘eros’ for which he uses the very Italian idea of ‘sesso.’ – And he has also punned with ‘di-segnare’ – ‘di-segno’ – In sum, a genius!” Si laurea a Venezia sotto Severino, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Venezia, iniziai a pubblicare diversi saggi per riviste e volumi collettanei, partecipando, lungo il corso degli anni ottanta, a diversi convegni e seminari in varie città italiane. A partire dalla fine degli anni ottanta, collabora con Cacciari presso la cattedra di Estetica a Venezia e coordina per alcuni anni i seminari dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Venezia. Sempre a partire dalla fine degli anni ottanta, inizia la sua collaborazione con la rivista di architettura Anfione-Zeto, della quale dirige ancora oggi la rubrica Theorein. In quegli stessi anni, fonda, con Cacciari e Gasparotti, la rivista Paradosso. Negli anni novanta, invece, ha insegnato Estetica presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia. Attualmente insegna Metafisica e Ontologia dell'arte presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È inoltre curatore, sempre con Gasparotti e Cacciari, dell'opera postuma del filosofo Emo. Dirige per la casa editrice AlboVersorio le collane "Libri da Ascoltare" e "Anime in dettaglio" ed è membro del comitato scientifico del festival La Festa della Filosofia. Ha scritto diversi saggi e articoli per riviste, settimanali e quotidiani di vario genere. Collabora con il settimanale "L'Espresso".  Attività musicale In qualità di musicista, dopo aver esordito, ancor giovane, con Giorgio Gaslini e con Enrico Rava, forma un suo gruppo: i Jazz Forms, di cui è leader. In seguito sviluppa il suo linguaggio trasformando l'idioma ancora bop dei primi anni in una scrittura più articolata in cui entrano in gioco elementi tratti dalla musica rock e da molte esperienze etniche maturate nel frattempo con diversi gruppi musicali. Si esibisce in diverse città italiane con un sestetto, in cui ad accompagnarlo sono una chitarra, una batteria, un basso, delle percussioni e una tastiera. Nasce così il D.  Sextet. Suona con musicisti che sarebbero diventati protagonisti della scena musicale italiana. Suona in jam session anche con alcuni padri storici del jazz, come Gillespie, Brown, Gordon e Drew. Riprende a suonare professionalmente e forma un nuovo gruppo: il D. Quintet, con il quale si esibisce in Italia e all'estero. Il quintetto diventa quindi un quartetto; che è la formazione con cui Donà suona da almeno tre anni. A tutt'oggi il nostro ha all'attivo ben sette CD incisi con suoi gruppi. La sua etichetta di riferimento è sempre la "Caligola Records", il cui responsabile artistico è Claudio Donà, fratello di Massimo e importante critico musicale jazz. Altre opere: “Il 'bello, o di un accadimento. Il destino dell'opera d'arte” (Helvetia, Venezia); “Le forme del fare” (Liguori, Napoli); “Sull'assoluto (Per una reinterpretazione dell'idealismo Hegeliano” (Einaudi, Torino); “Aporia del fondamento” (La Città del Sole, Napoli); “Fenomenologia del negative” (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli); “Arte, tragedia, tecnica” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “L' Uno, i molti: Rosmini-Hegel un dialogo filosofico” (Città Nuova, Roma); “Aporie platoniche. Saggio sul ‘Parmenide’” (Città Nuova, Roma); “Filosofia del vino” (Bompiani, Milano); Magia e filosofia (Bompiani, Milano); Joseph Beuys. La vera mimesi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano); Sulla negazione, Bompiani, Milano); Serenità: una passione che libera, Bompiani, Milano); La libertà oltre il male” (Città Nuova, Roma); Il volto di Dio, la carne dell'uomo, con Piero Coda, AlboVerosio, Milano); Dell'arte in una certa direzione” (Supernova, Venezia); “Filosofia della musica, Bompiani); Il mistero dell'esistere: arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di Magritte” (Mimesis, Milano); L'essere di Dio. Trascendenza e temporalità” (AlboVersorio, Milano); Dio-Trinità. Tra filosofi e teologi” (Bompiani, Milano); Arte e filosofia” (Bompiani, Milano); “L'anima del vino. Ahmbè, Bompiani, Milano); “Non uccidere” (AlboVersorio, Milano); L'aporia del fondamento, Mimesis, Milano), “I ritmi della creazione” (Bompiani, Milano); La "Resurrezione" di Piero della Francesca, Mimesis, Milano); Il tempo della verità, Mimesis, Milano; Non avrai altro Dio al di fuori di me” (AlboVersorio, Milano); “Il conciliabile e L'inconciliabile. Restauro Casa D'Arte Futurista Depero” (Mimesis, Milano-Udine  PANTA decalogo” (Bompiani, Milano); Filosofia. Un'avventura senza fine, Bompiani, Milano); Comandamenti. Santificare la festa” (il Mulino, Bologna  Abitare la soglia. Cinema e filosofia, Mimesis, Milano-Udine); “Eros e tragedia, AlboVersorio, Milano); “Il vino e il mondo intorno. Dialoghi all'ombra della vite” (Aliberti, Reggio Emilia  Figure d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger” (AlboVersorio, Milano); “Le verità della natura, AlboVersorio, Milano”; “Filosofia dell'errore” – errore vero, la verita come errore relative – “Le forme dell'inciampo, Bompiani, Milano); “Parmenide. Dell'essere e del nulla” (AlboVersorio, Milano); “Eroticamente: per una filosofia della sessualità” (il prato, Saonara (Padova)  Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi, Bompiani, Milano); “Pensare la Trinità. Filosofia europea e orizzonte trinitario” (Città Nuova, Roma  Erranze (Gatto), AlboVersorio, Milano); L'angelo musicante. Caravaggio e la musica” (Mimesis Edizioni, Milano-Udine); “Parole sonanti. Filosofia e forme dell'immaginazione” (Moretti & Vitali, Bergamo  J. Wolfgang Goethe, Urpflanze. La pianta originaria; Albo Versorio, Milano); La terra e il sacro. Il tempo della verità, Luca Taddio, Mimesis, Milano); Teomorfica. Sistema di estetica” (Bompiani, Milano); “Sovranità del bene. Dalla fiducia alla fede, tra misura e dismisura, Orthotes, Salerno); “Senso e origine della domanda filosofica, Mimesis, Milano-Udine); “La filosofia di Miles Davis. Inno all'irrisolutezza” (Mimesis, Milano-Udine); “Dire l'anima. Sulla natura della conoscenza” (Rosenberg e Sellier, Torino); “Tutto per nulla. La filosofia di Shakespeare” (Bompiani, Milano); “Pensieri bacchici. Vino tra filosofia, letteratura, arte e politica” (Edizioni Saletta dell'Uva, Caserta); “In Principio. Philosophia sive Theologia. Meditazioni teologiche e trinitarie, Mimesis, Milano-Udine); “Di un'ingannevole bellezza. Le "cose" dell'arte” (Bompiani-Giunti, Milano); “La filosofia dei Beatles” (Mimesis, Milano-Udine); “Un pensiero sublime: saggi su Gentile” (Inschibboleth, Roma); “Dell'acqua” (La nave di Teseo, Milano); “Essere e divenire: riflessioni sull'incontraddittorietà a partire da Fichte” (Mimesis, Milano-Udine); “Di qua, di là. Ariosto e la filosofia dell'Orlando Furioso” (La nave di Teseo, Milano); “Miracolo naturale. Leonardo e la Vergine delle rocce” (Mimesis, Milano); "Arte e Accademia", in Agalma; New Rhapsody in blue, Caligola Records; For miles and miles, Caligola Records; Spritz, Caligola Records; “Cose dell'altro mondo. Bi Sol Mi Fa Re, Caligola Records); Ahmbè, Caligola Records; Big Bum, Caligola Records; Il santo che vola. San Giuseppe da Copertino come un aerostato nelle mani di Dio, Caligola Records  Iperboliche distanze. Le parole di Andrea Emo, Caligola Records. Il mistero della bellezza svelato da Massimo Donà. Intervista Alberto Nutricati, in L'Anima Fa Arte Blog e Rivista di Psicologia Video-intervista sul mistero dell'esistenza, su asia. "Arte e Accademia", in Agalma, Wikipedia Ricerca Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita socialmente e culturalmente, anche se alcuni comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati. Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di dibattito. Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico maschile, poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche maschili.   Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture e periodi storici. Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità, forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività. Il machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un disprezzo per le conseguenze e la responsabilità.  Il suo opposto può esser espresso dal termine effeminatezza. Uno dei sinonimi maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.  Contesti storici e culturali L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme; la figura del dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard moderni.  Le norme tradizionali maschili, così come vengono descritte nel libro del Dr. Ronald F. Levant intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto maschio). Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti appartenere di diritto al genere maschile.  Lo studio accademico della mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse, con corsi universitari che si occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di costruzione sociale del genere.  Natura ed educazioneModifica  Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni.  La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata "Fattore di trascrizione SOX9" la quale aumenta l'ormone antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione.  Vi è ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto fondamentale della mascolinità.  Altri invece suggeriscono che, mentre la mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a radersi.  Mascolinità egemonicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Maschilismo.  Esempio di maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo anche il comando e la leadership[23]. Raewyn Connell ha etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne. Pleck sostiene che una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità, distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo per finta. Kimmel promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.  CriticheModifica Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per femminilizzarsi.  Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella pubblicità. Jackson scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo. Il lavoro meccanico in fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi. La crisi è anche stata spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza.  Altri vedono il mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la necessità e domanda di forza fisica. Tendenze contemporaneeModifica  L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo definitivo.  Secondo un documento presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi. Uomini e donne possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi disturbi alimentari.  Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa). Terminologia I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità. Constance L. Shehan, Gale Researcher Guide for: The Continuing Significance of Gender, Gale, Cengage Learning, .google. com/books/about/ Masculinity_and_ Femininity_in_ the_MMPI_2 l?id=5 KLPlmrwhat+masculinity+and+ femininity +are%22 google.com/ books/ about/ GenderNature_and_Nurture.html?id=R6OP AgAAQBAJ&q=%22biology+contributes %22+%22 masculinity+ and+femininity %2 2about/The_Sociology_of_ Gender.html?id=SOTqz UeqmN MC&q=%22+ biological +or+genetic+contributions Ferrante, Sociology: A Global Perspective, 7th,  Belmont, CA, Wadsworth, What do we mean by 'sex' and 'gender'?, su who.int, World Health Organizationbooks .google.com/books? id=jWj5OBvTh1IC&q=%22 meanings+of+man hood+vary%22/ sk.sagepub. com/ books/ theorizing- masculinities/n7larchive.org/ details/ femininitymascul co.uk/books?id=-RxIUDYIuiIC&pg=PT24 8britannica. com / E  Bchecked/topic machismo Roget’s II: The New Thesaurus, Houghton Mifflin,Treherne, The Warrior's Beauty: The Masculine Body and Self-Identity in Bronze-Age Europe, Journal of European Archaeology Reeser, Masculinities in Theory: An Introduction, Wiley, Levant e Gini Kopecky, Masculinity Reconstructed: Changing the Rules of Manhood—At Work, in Relationships, and in Family Life, New York, Dutton, Dornan, Blood from the Moon: Gender Ideology and the Rise of Ancient Maya Social Complexity, Rolla M. 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Connell, Masculinities, Polity, Beynon, Chapter 4: Masculinities and the notion of 'crisis', in Masculinities and culture, Filadelfia, Open Reeser, Masculinities in theory: an introduction, Malden, MA, Blackwell, Connell, 3, in The Social Organization of Masculinity, Berkeley (California)-Los Angeles, Polity, Levine, Gay Macho. New York: New York Stibbe, Health and the Social Construction of Masculinity in Men's Health Magazine." Men and Masculinities; Strate, Lance "Beer Commercials: A Manual on Masculinity" Men's Lives Kimmel, Michael S. and Messner, Michael A. ed. Allyn and Bacon. Boston, London: Situazione attuale Arrindell, Masculine Gender Role Stress" Psychiatric Times Ashe, Fidelma The New Politics of Masculinity, London and New York: Routledge. bell hooks, We Real Cool: Black Men and Masculinity, Taylor & Francis 2Broom A. and Tovey P.  Men's Health: Body, Identity and Social Context London; Wiley. Burstin, What's Killing Men". Herald Sun (Melbourne, Australia). Canada, Geoffrey "Learning to Fight" Men's Lives Kimmel, Michael S. and Messner, Michael A. ed. Allyn and Bacon. Boston, London: Connell, Masculinities, Cambridge, Polity Press, Courtenay, Will "Constructions of masculinity and their influence on men's well-being: a theory of gender and health" Social Science and Medicine, Donovan, The way of men, Milwaukie, Oregon, Dissonant Hum, Meenakshi Durham e Oates, The mismeasure of masculinity: the male body, 'race' and power in the enumerative discourses of the NFL Draft, in Patterns of Prejudice,  Galdas and Cheater Indian and Pakistani men's accounts of seeking medical help for angina and myocardial infarction in the UK: Constructions of marginalised masculinity or another version of hegemonic masculinity? Qualitative Research in Psychology Juergensmeyer, Why guys throw bombs. About terror and masculinity Kaufman, Michael "The Construction of Masculinity and the Triad of Men's Violence". Men's Lives Kimmel, and Messner, ed. Allyn and Bacon. Boston, London: Levant & Pollack A New Psychology of Men, New York: BasicBooks Mansfield, Harvey. Manliness. New Haven: Yale, Reeser, T. Masculinities in Theory, Malden: Blackwell, Robinson, Not just boys being boys: Brutal hazings are a product of a culture of masculinity defined by violence, aggression and domination. Ottawa Citizen (Ottawa, Ontario). Stephenson, Men are Not Cost Effective: Male Crime in America.  Simpson, Male impersonators: men performing masculinity, Londra, Cassell, Walsh, Fintan. Male Trouble: Masculinity and the Performance of Crisis. Basingstoke and New York: Palgrave Macmillan, Williamson, Their own worst enemy" Nursing Times: Wray Herbert "Survival Skills" U.S. News & World Report Masculinity for Boys, su unesdoc.unesco.org, pubblicato dall'UNESCO, Nuova Delhi, 2006. ( EN ) Bonnie G. Smith e Beth Hutchison, Gendering disability, Londra, Rutgers University Press,  Stephany Rose, Abolishing White masculinity from Mark Twain to hiphop: crises in whiteness, Lanham, Lexington,  Nella storia Michael Kimmel, Manhood in America, New York etc.: The Free Press A Question of Manhood: A Reader in U.S. Black Mens History and Masculinity, edited by Earnestine Jenkins and Darlene Clark Hine, Indiana, Taylor, Castration: An Abbreviated History of Western Manhood, Routledge 2002 Klaus Theweleit, Male fantasies, Minneapolis : University of Minnesota and Polity, Stearns, Be a Man!: Males in Modern Society, Holmes & Meier Shuttleworth, Disabled Masculinity. Gendering Disability. Ed. Smith and Hutchison. Rutgers, New Brunswick, New Jersey, Voci correlate Modifica Androgino Bromance Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) The Men's Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies, bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity, accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità. Portale Antropologia Effeminatezza termine  Michael Messner (sociologo) sociologo statunitense  Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi derivante solamente dal loro sesso. Massimo Donà. Dona. Keywords: sessualità, eroticamente, per una filosofia della sessualità. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donà” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Donatelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’esperienza – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Donatelli – his titles can be too expansive, like the one about ‘philosophy and common experience,’ as a subtitle, which incorporates the all too controversial notion of experience simpliciter!” L’etica, la sua storia e le problematiche contemporanee sono al centro dei suoi interessi. Studia a Roma, dove ha conseguito la laurea e il dottorato. Insegna alla Luiss Guido Carli. Insegna a Roma. La sua ricerca spazia dalla ricognizione dei classici dell’etica alla filosofia morale contemporanea. Si occupa della riflessione sulla vita umana, in bioetica e nel pensiero teoretico e politico, e del pensiero ambientale. Nel dibattito bio-etico ha difeso una concezione laica delle istituzioni. La sua proposta si situa nella filosofia di ispirazione wittgensteiniana (Cavell, Diamond, Murdoch) che fa incontrare con i temi del pensiero democratico e perfezionista nella scia della filosofia di Mill. Dirige la rivista Iride. Filosofia e discussione pubblica (il Mulino). È membro di numerosi comitati, tra cui del comitato scientifico di Bioetica. Rivista Interdiscliplinare ed Etica e Politica. Altre opere: “Filosofia morale. Fondamenti, metodi, sfide pratiche” (Milano, Le Monnier,  Il lato ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune” (Bologna, il Mulino, Etica. I classici, le teorie e le linee evolutive, Torino, Einaudi); “Quando giudichiamo morale un’azione?” (Roma-Bari, Laterza); Decidere della propria vita, Roma-Bari, Laterza); “La vita umana in prima persona duale” (Roma-Bari, Laterza); “Manuale di etica ambientale” (Firenze, Le Lettere); “James Conant e Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, Roma, Carocci); “Mill, Roma-Bari, Laterza); “Virtù” (Roma, Carocci); Immaginazione e la vita morale, Roma, Carocci); La filosofia morale, Roma-Bari, Laterza); Wittgenstein e l’etica, Roma-Bari, Laterza);Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni” Milano, LED,I destini dell'etica  Bioetica e progresso morale dell'Italia, su ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.  Bioetica Consulta di bioetica   The Italic branch consists of Latin on the one  hand and of the Urabrian-Samnitic dialects, on the other.   Latin, with which the little known dialect Sf Faleriv is closely related. So long as the language is confined to Latium, there exists  no dialectical differences of any importance. The contrast between the popular and the literary language, which arise from  Livio Andronico – up to Cicero -- becomes sharper in the classical  period, and the further development of the former is almost  entirely lost to our observation until the Middle Ages, when the popular Latin of the various provinces of the Roman  empire meets us in a form more or less changed and with a  rich development of what we know call Italian. We should also consider the development of the Latin of antiquity. Cp. Corssen Uber Aussprache, Vocalismus und Betonung der lateinischen Sprache, Leipzig Kuhner Ausfiihrliche Grammatik der lateinischen Sprache, Hannover, Stolz and Schmalz Lateinische Grammatik, in Muller’s Handbuch  der klass. Altertumsw. IThe Umbrian-Samnitic dialects are known to a certain extent through inscriptions, and through words quoted  by Roman writers. We are best acquainted with Umbrian  (Breal Les tables Eugubines, Paris Biichelor Umbrica, Bonn) and Oscan (Zvotaieff Sylloge inscriptionum Oscarum,  Petersburg- Leipzig). Of the Volscian, Picentine Sabine, Cp. Budinszky Die Ausbreitung der lat. Sprache uber Italicn  und die Provinzen des rSmisohen Reiches, Berlin, Cirober in the  Archiv fur lat. Lexikographie g KeUio; Aequiculau, Yestinian, Marsian, Pelignian and Marrucinian  dialects we have only very scanty remains (Zvetaieff Inscriptiones Italiæ Mediæ dialecticæ, Leipzig). All these  dialects are forced into the background at an early period by  the ifitrusion of Latin. The Sabines, who receive citizenship, seem to have been the first to become romanised. The s^west to give way was Oscan, which in the mountains does not perhaps become fully extinct. Cp. further Bruppacher Osk. Lautlehre, Zurich, Endoris Yersuch einer Formenlehro der osk. Sprache, Zurich. Piergiorgio Donatelli. Donatelli. Keywords: esperienza, let’s cooperate (cooperiamo), let’s make the strongest utterance; let’s trust each other; let’s be relevant (siamo relevanti), let’s be perspicuous (siamo perspicui), prima persona, prima persona duale – noi – nostro – numero nel verbo greco: singolare, duale, plurale, Mill,  virtu, Conant, ambi, both – the dual – Both conversationalists must cooperate towards a mutual goal. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donatelli” – The Swimming-Pool Library. Donatelli.

 

Grice e Donati: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del fra – scuola di Budrio – filosofia budriese – filosofia bolognese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Budrio). Filosofo budriese. Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Budrio, Bologna, Emilia-Romagna. Grice: “I like Donati; most of what he says is very basic, and he says it from what he thinks is a scientific perspective – but then he writes about morality and you start to wonder – anyhow, his central concept is that of reflexitvity, which he multiplies into goal-centred, rule-centred, means-centred, and value-centred – Since my oeuvre dwells on rellexivity I feel a lot of affection for Donati and his approach!” Nella sua filosofia occupano una posizione centrale la tematica epistemologica inerente alla ri-fondazione della ‘sociologia filosofica’, re-interpretata alla luce della "svolta relazionale”. Su tali basi, vengono svolte l'analisi del concetto di ‘cittadinanza’, del fenomeno associativo della società civile e della politiche di welfare state nelle società altamente differenziate; l'analisi del ruolo dell’istituzione sociale che emergono dai processi di morfo-genesi sociale, in particolare nelle sfere di terzo settore; l'apertura di una nuova prospettiva negli studi sul capitale sociale e sui processi di “riflessività” in rapporto alla legittimazione di nuove forme di democrazia deliberativa. L'elaborazione di una ‘sociologia filosofica relazionale' è andata di pari passo con la fondazione filosofica di un nuovo e più generale ‘paradigma relazionale' che si pone come superamento della contrapposizione fra realismo e costruttivismo, fra l’individualismo o intersoggetivismo metodologico e olismo o collettivismo metodologico. Questa prospettiva porta alla elaborazione di nuovi concetti come quelli di “critica della ragione relazionale” e bene relazionali, come soluzioni rispettivamente dei problemi inerenti a idiosincrasie culturale e alla mercificazione del welfare nelle società.  L'etichetta "sociologia filosofia relazionale" viene usata, oltre che da D., da vari filosofi. Emirbayer ha scritto un ‘Manifesto di sociologia relazionale' elaborato in maniera del tutto indipendente rispetto a D. Crossley usa la medesima etichetta. Alcuni studiosi assimilano la sociologia relazionale alla network analysis (Crossley, Mische ), altri tracciano delle differenze fra questi due modi di intendere l'analisi della società (D., Terenzi, Tronca). Indipendentemente dalla filosofia di Donati, esistono gruppi e reti di sociologia relazionale in vari paesi, tra cui il Canada (si veda il sito della Canadian Sociological Association,, l'Australia (si veda il sito della Australian Sociological Association,). In Italia, gli filosofi vicini a Donati si riconoscono nel network Relational Studies in Sociology,). Donati ha prodotto numerosi saggi di carattere teorico ed empirico. Propone una teoria generale per l'analisi della società: la “sociologia filosofica relazionale”. Insegna a Bologna, direttore del Centro Studi di Politica Sociale e Sociologia Sanitaria). Presidente dell'Associazione Italiana di Sociologia. Direttore dell'Osservatorio Nazionale sulla Famiglia. Ha fatto parte del comitato scientifico di Biennale Democrazia. Fondatore e Direttore della Rivista “Sociologia e politiche sociali”, editore FrancoAngeli. Membro del Comitato Scientifico della Rivista "Sociologia", Istituto Luigi Sturzo, Roma. Ha ricevuto il riconoscimento dell'ONU come membro esperto distinto nel corso dell'Anno Internazionale della Famiglia. Premio Capri San Michele per  "Pensiero sociale cristiano e società post-moderna" (Ave, Roma). Premio San Benedetto per la promozione della Vita e della Famiglia in Europa. Attraverso la sua filosofia, Donati mostra con specifiche indagini empiriche in che modo la società possa essere conosciuta e interpretata come una semplice “relazione sociale” diadica -- e non come un prodotto culturale. La sociologia relazionale (o teoria relazionale della società) viene per la prima volta esplicitata con “Introduzione alla sociologia relazionale”. Questa “Introduzione” è nata come una sorta di “Manifesto della sociologia relazionale”, anche se da allora pochi se ne sono accorti. I punti essenziali di quel Manifesto sono varie. La sociologia relazionale consiste nell'osservare che una società, ovvero qualsiasi fenomeno o formazione sociale (la famiglia, una impresa o società commerciale, una associazione, una società nazionale), la società globale, non è né una idea (o una rappresentazione o una realtà mentale soggetiva) né una cosa materiale (o biologica o fisica in senso lato), ma è una relazione sociale – una intersoggetivita. L’intersoggetivo è né un “sistema”, più o meno pre-ordinato o sovrastante i singoli fatti o fenomeni, né un prodotto di una azione soggetiva, ma un altro ordine di realtà. L’intersoggetivo è relazione. L’interosggetivo è fatto di una relazioni fra un soggetto S1 e un soggetto S2, che distinguono la forma e i contenuti di ogni concreta e specifica “diada. L’intersoggetivo – la relazione intersoggetiva -- deve essere concepito non come una realtà accidentale, secondaria o derivata dall’altre entità: il soggetto S1 e il soggetto S2), bensì come un levello ontologico differente sui generis, appunto, ‘l’intersoggetivo’. Affermare che “la società è relazione” può sembrare quasi ovvio, ma non lo è affatto ove l'affermazione sia intesa come presupposizione epistemologica generale e quindi si abbia coscienza delle enormi implicazioni che da essa derivano. Ogni filosofo parlano dell’intersoggetivo della relazione di una diada fra soggeto S1 e soggetto S2 (Aristotele: ogni uomo e politico, Marx, Durkheim, Weber, Simmel, Parsons, Luhman, Grice), ma quasi nessuno ha compiuto l'operazione che viene proposta dalla sociologia relazionale: partire dal presupposto che “all'inizio c'è la relazione”, ossia che ogni realtà sociale emerge da un contesto di relazioni e genera un contesto di relazioni essendo essa stessa ‘relazione sociale'. Ciò non significa in alcun modo aderire ad un punto di vista di relativismo. Si tratta esattamente del contrario: la sociologia relazionale si fonda su una ontologia dell’intersoggetivo relazionale, e dunque su una ontologia dell’intersoggetivo della relazione che vede nella relazioni il costitutivo di ogni realtà sociale seconda la loro propria natura. La sociologia relazionale e una forma del relazionismo filosofico. Per l’intersoggetivo (la relazione) intende l’intersoggetivo nel spazio-tempo, dell'inter-umano, ossia ciò che sta fra un soggetto agente S1 e un soggetto agente S2 chi collaborano, o cooperano. e checome tale costituisce il loro orientarsi e agire reciproco (o riflessivo, al modo di Grice), per distinzione da ciò che sta nel singolo attore individualo o collettivo considerati come poli o termini della relazione. Questa «realtà dell’intersoggetivo – che D. chiama ‘il fra’ -- fatta insieme di due soggetti che collaboron, è la sfera in cui vengono definite sia la distanza sia l'integrazione dei due soggetti che stanno in società: dipende da questo ‘fra’ – fra tu e me -- (la relazione sociale in cui le due soggetti si trovano) se, in che forma, misura e qualità le due soggetti può distaccarsi o coinvolgersi rispetto agli altri soggetti più o meno prossimi, alle istituzioni e in generale rispetto alle dinamiche della vita sociale. La teoria relazionale della società ha elaborato nuovi concetti che sono stati utilizzati non solo da filosofi, ma anche in altri campi, come il diritto, la legislazione sociale, l'economia. I concetti originali elaborati da D. sono varie. Il concetto di ‘privato sociale’ e applicato in molte leggi dello Stato italiano. Il concetto di ‘cittadinanza societaria è stato utilizzato dal Consiglio di Stato (Sezione consultiva per gli atti normativi, Adunanza, N. della Sezione: in importanti deliberazioni. Il concetto di ‘beni relazionali’ è stato ripreso in campo economico da filosofi come Zamagni e Bruni. Il concetto di un ‘servizio relazionale’ è stato ripreso nella legislazione regionale e nazionale in Italia, anche in relazione alla buona pratica nelle politiche familiari analizzate con le ricerche svolte per l'Osservatorio nazionale sulla famiglia. Il concetto di ‘lavoro relazionale’ e il concetto di ‘contratto relazionale’ sono importanti. Il concetto di ‘welfare relazionale’ e usanto in buona pratica nei servizi alle famiglie (utilizzato dal Centro studi Erickson). Il concetto di differenziazione relazionale si applica in particolare alla problematica della conciliazione fra lavoro e famiglia. Il concetto di una critica della ‘ragione relazionale’ e dato come una possibile soluzione ai problemi dei conflitto. Il concetto di capitale sociale come relazione sociale con una ridefinizione degli studi sociologici si applica nel capitale sociale. Il concetto di "riflessività relazionale" si applica per superare il concetto puramente soggettivo di riflessività come mera riflessione interiore. Il concetto di "genoma sociale della famiglia" s’applica nella evoluzione. Ha affrontato una serie di tematiche di ricerca il cui sviluppo è ancora in corso. La prima e più estesa riguarda la tematica della sociologia della famiglia. Si vedano I saggi di D., Lineamenti di sociologia della famiglia. Un approccio relazionale all'indagine sociologica, Carocci, Roma, D., Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari). Si vedano anche i Rapporti Cisf sulla famiglia in Italia, per gli aspetti applicativi: Sociologia delle politiche familiari, Carocci, Roma, è il più recente D, "La famiglia. Il genoma che fa vivere la società", Soveria Mannelli, Rubbettino. Un'altra tematica è quella della salute: si veda Donati  Manuale di sociologia sanitaria” (La Nuova Italia Scientifica, Roma); Sui giovani e le generazioni nella società dell'indifferenza etica: “Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società eticamente neutral” (il Mulino, Bologna); Sul cittadinanza e welfare: La cittadinanza societaria, Laterza, Roma- Bari); Sul welfare state e le politiche sociali, “Risposte alla crisi dello Stato sociale” (Franco Angeli, Milano); “Lo Stato sociale in Italia: bilanci e prospettive” (Mondadori, Milano); “Sul privato sociale o terzo settore e la società civile: Sociologia del terzo settore” (Carocci, Roma); sulla società civile: “La società civile in Italia, Mondadori, Milano; Generare “il civile”: nuove esperienze nella società italiana, il Mulino, Bologna); Il privato sociale che emerge: realtà e dilemmi, il Mulino, Bologna, Sul lavoro: Il lavoro che emerge, Bollati Boringhieri, Torino); I rapporti fra sociologia relazionale e pensiero sociale cristiano: Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice Ave, Roma, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli. Sul capitale sociale: Donati, Terzo settore e valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e attori, Angeli, Milano, D., I. Colozzi, Capitale sociale delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole statali e di privato sociale (FrancoAngeli, Milano). Attraverso queste saggi, la sociologia relazionale ha sviluppato un nuovo quadro teorico e ne ha dimostrato la validità sia sul piano della ricerca empirica, sia sul piano delle applicazioni concrete (in termini di legislazione e di programmi di intervento sociale). La conoscenza sociologica che la sociologia relazionale intende perseguire non rifiuta a priori nessuna teoria, né vuole “unificare” tutte le teorie sotto un'unica bandiera, ma tutte le prende in considerazione e le valuta per mettere in evidenza quelle verità, anche parziali, che ciascuna di esse contiene. Tuttavia, perché di solito una teoria offre una visione limitata, se non riduttiva della realtà, la sociologia relazionale è in grado di inserire ogni teoria in un quadro concettuale più ampio, nel quale ritrovare le verità parziali ad un livello più elevato, coerente e consistente di conoscenza della realtà sociale. Terenzi, Percorsi di sociologia relazionale, FrancoAngeli, Milano,.  Luigi Tronca, Sociologia relazionale e social networks analysis. Analisi delle strutture sociali, FrancoAngeli, Milano.Enzo Paci, Dall'esistenzialismo al relazionismo, D'Anna, Messina-Firenze. Per un nuovo welfare locale “family friendly”: la sfida delle politiche relazionali, in Osservatorio nazionale sulla famiglia, Famiglie e politiche di welfare in Italia: interventi e pratiche.  I, il Mulino, Bologna, Politiche sociali e servizi sociali di fronte al modello sociale europeo: lo scenario del “welfare relazionale”, in C. Corposanto, L. Fazzi, Il servizio sociale in un'epoca di cambiamento: scenari, nodi e prospettive, Edizioni Eiss, Roma, Quale conciliazione tra famiglia e lavoro? La prospettiva relazionale, in Donati, Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, La valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e attori Donati, I. Colozzi, FrancoAngeli, Milano, Altre opere: “L'enigma della relazione” Mimesis, Milano); “La famiglia. Il genoma che fa vivere la società” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno, il Mulino, Bologna); “I beni relazionali. Che cosa sono e quali effetti producono (Bollati Boringhieri, Torino); “La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli); “Teoria relazionale della società: i concetti di base, FrancoAngeli, Milano); “La società dell'umano, Marietti, Genova-Milano); “Il capitale sociale degli italiani. Le radici familiari, comunitarie e associative del civismo” (FrancoAngeli, Milano); “Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Laterza, Roma-Bari); “Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari); “Sociologia delle politiche familiari, Carocci, Roma); “Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati Boringhieri, Torino); “La cittadinanza societaria” (Laterza, Roma-Bari); Teoria relazionale della società, FrancoAngeli, Milano, La famiglia come relazione sociale, FrancoAngeli, Milano, La famiglia nella società relazionale. Nuove reti e nuove regole, FrancoAngeli, Milano); “Introduzione alla sociologia relazionale, FrancoAngeli, Milano); “Risposte alla crisi dello Stato sociale. Le nuove politiche sociali in prospettiva sociologica, FrancoAngeli, Milano); “Famiglia e politiche sociali. La morfogenesi familiare in prospettiva sociologica, Angeli, Milano); “Pubblico e privato: fine di una alternativa?” (Cappelli, Bologna).  Der Dual ist ein Numerus, der sich in indogermanischen wie nicht-indogermanischen Sprachen findet. Die indogermanistisch zentralen Sprachen Altgriechisch und Altindisch haben diesen Numerus in allen flektierenden Wortarten; andere Sprachen haben ihn nur in einer Wortart. Die Minderheitensprachen Ober- und Niedersorbisch pflegen den Dual bis heute. Auch im Bairischen gibt es noch formale Dualrelikte.  Das Buch bietet eine Darstellung der einzelsprachlichen Dualsysteme in der Indogermania und Rekonstruktionen der Dualsysteme der Zwischengrundsprachen und des Ur-Indogermanischen. Neben dem genealogischen Vergleich wird auch der typologische Vergleich mit Dualsystemen anderer Sprachgruppen wie etwa Finno-Ugrisch, Semitisch und Bantu angestellt. Der Leser gewinnt so einen Überblick über die Entwicklung einer typologisch markierten grammatischen Kategorie und einen Einblick in die kognitiven Prozesse, die zum Werden und Schwinden des Duals im Wandel der Sprachen führen.  Rezensionen "" Salvatore Scarlata in: Kratylos, Pinault in: Bulletin de la Société de Linguistique de Paris, Pierce in: Journal of Historical Linguistics, Bohumil Vykypel in: Linguistica Brunensia,  http://hdl.handle.net"" Remo Bracchi in: Salesianum, Lühr in: Germanistik, Heft, Duale (linguistica) numero grammaticale Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento grammatica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Il duale in linguistica è una delle possibili realizzazioni della categoria morfologica del numero grammaticaleche può essere espressa tanto nel nome (sostantivo e aggettivo) quanto nel pronome e nel verbo. Benché sia meno diffuso di singolare e plurale, il duale è presente in molte lingue del mondo.  Esso è presente nelle più antiche lingue indoeuropee, come il sanscrito o il greco antico, nel lituano, nello sloveno moderno, nel friulano e anche nelle lingue semitiche, come l'arabo - che ne fa tuttora uso nelle sue varietà moderne, sia pure limitatamente al nome - l'ebraico e nell'egizio.  Il duale è frequente per indicare parti doppie del corpo, per esempio le mani, le narici, le gambe, ma nelle lingue che lo possiedono non è raro il suo uso anche per indicare oggetti a coppie o semplicemente coppie di oggetti o persone casuali: due persone, due anni, ecc. ("duale occasionale").  Mentre in francese, in tedesco, in italiano o in spagnolo, tutte lingue che non presentano la forma duale se non per tracce come per esempio in italiano ambo, si è soliti anteporre al sostantivo plurale l'aggettivo numerale che ne indica la quantità esatta (due uova, due amici, ecc.), nelle lingue che posseggono il duale questo può bastare per indicare una quantità pari a due. Per esempio in arabo sanah "(un) anno", sanatayn "(due) anni".  La mu'allaqa di Imru l-Qays, una delle più famose poesie arabe, esordisce con un imperativo duale: Qifâ, nabki... "fermatevi (voi due) e piangiamo...", riferimento al fatto che il poeta si rivolgeva a due suoi compagni.  Bibliografia Modifica Albert Cuny, Le nombre duel en grec, Paris, Klincksieck, Fontinoy, Le duel dans les langues sémitiques, Paris, Les Belles Lettres, Molinelli, Il numero duale nel greco antico, Roma, Fritz, Der Dual im Indogermanischen, Heidelberg, Winter, Grammatica Morfologia (linguistica)   Portale Linguistica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di linguistica Salvatore Talia Numero (linguistica) categoria grammaticale  Grammatica lituana regole della lingua lituana  Articoli del greco antico Wikipedia Il contenuto. Grice: “In my seminars I explained explicitly that we would be dealing only with conversational DYADS!” Grice: “This was my nod to the Old Latin dual!” – Grice: “Austin used to say that no distinction is too fine, or too nice. The origin of the Latin fifth declension out of the dual number – We can provide an EXPLANATION of the appearance of the Latin fifth declension (e stems) as a result of the LOSS of an earlier dual inflection, whose main feature is the suffix jk (full grade ej) . The dual character of the Latin -ies (series) forms can be demonstrated on the basis of their ‘semantic’ development. The dual number in the Indo-European languages. The most ancient Indo-European languages had three number categories: the singular, the dual, and the plural. In the Indo-European languages, the dual number was typically used for NATURAL PAIRS (‘oculi’, the ‘same’, two hands), sometimes also for an accidental or artificially arranged pair (‘two men’ (andre), two horses pulling one carriage, two oxen in one yoke), and possibly for two objects of the SAME kind (two fires, two lime trees). Elliptical usage of the dual is also attested, ‘two fathers’, as when Homer refers to ‘Ayax and his brother’ or Latin ‘octo, ‘eight’, originally, or literally, two sets of four finger-tipes Wackernagel, Campanile, Malzahn, Clackson). The degree of preservation and PRODUCTIVITY of the dual in the Indo-European languages differ considerably. Traces of the dual in Latin. The dual number as a separate CATEGORY was presumably lost by Latin and the other Italic languages already in the pre-historic period (Buck). Lat. ‘duo,’ ‘two’ < IE duwo < PIE duwo-hj (Tagliavini). Lat. ‘okto’ ‘eight’ < IE okto, ‘8’ < PIE hkekto-h0. Lat. viginti, ‘twenty’ (< IE wiknti < PIE dwi-dknt-ih), literally, ‘two tens.’ A few Latin forms – ambo, duo -- have a specific inflexion which may be the result of the transformation of the dual form within a declension. Thus we have masc. nom. ‘ambo’ , duo; gen. ‘amborum’, duorum; dative-ablative ‘ambobus’, duobus; and acc. ambos/ambo, duos/duo. Lat. masc. ‘ambo’. The inflection of ‘ambo’ and ‘duo’ keeps the original dual ending in the nominative. It does not show the dual ending in the other four cases – where it adops the regular PLURAL ending. Here we have a case of an ADAPTATION (SUBSTITUTION_of the dual inflection by the plural inflection. Traces of the dual number in Latin are restricted to ‘ambo’ , ‘both’, and the numerals (‘duo, octo, viginti) – while some have traced other dual forms in declesions – Danielsson). The question of a dual form, e. g. ‘Pomplio,’ (Lat. Pompilio, nom. du. ‘two of the Pompilius family’), attested in epigraph CIL I 30: M. C. POMPLIO NO. F. DEDRON HERCOLE = ‘Marcus and Gaius Pompilius, the sons of Novious, gave (this) to Hercules.’ The interpretation of the form POMPLIO as dual may be implicatural rather than semantic. The form POMPLIO need not be a dual form  -- it may be just the nominative singular with the final s by custom omitted when there is a formal agreement with the second prae-nomen, though belonging to both. Dual endings in the Indo-European languages. In proto-Indo-European hl forms the basic dual ending, which may have a strong form (ehl or hle) in animate nouns. It is assumed that the numeral ‘two’ has the form ‘duwo-ehl’ (literally, ‘two persons, or animals’), which later develops into the masculine form. IE ‘duwo, m. Latin for some time kept the dual ending -e (PIE ejl). The loss of the dual causes the proto-Latin forms ending in -e (once dual forms) to generate a separate group: a fifth declension. From a variant dual ending -e, the -e- would have to have formed in the oblique cases. The genitive dual ending in Indo-European is -es (PIE ejls gen. du). Both a dual inflection with -e (gen. du. -es) and -e (gen. du. -es) would have ensured the stabilization of the feature -e- after the loss of the dual number in the Italic languages. The cause of the loss of the dual number in Latin. Most probably, the loss of the dual as a separate CATEGORY takes place within the a- stem and the -o- stem declensions. In the nominal paradigm, a specifically Latin innovation causes a change in the infection system. This innovation is the loss of the old plural ending -os, which are well attested in the other Italic languages, along with the adaptation of the enings of the PRO-nominal system -oi -- whence Latin ‘-i.’ – cf. nom. sg. m. -os > -us. Nom. du. M. -o (ambo, octo, duo). The PLURALISATION of the dual in the -o- stem declension  happens largely without a problem – providing you keep a Griceian ‘eye’ – Cf. ‘pater,’ father. nom. sg. m. pater; nom. du. m. ‘patere’. nom. pl. m. ‘pateres’. As Austin pointed out to me, the loss of the dual in the Indo-European languages suchas Latin did not happen solely via the good old pluralisattion of the dual form, but also by way of a ‘singularisation’: i. e. the dual inflection is re-fomed into the SINGULAR inflection. This way of the elimination of the dual number is very much attested in Latin, in all the forms ending in -ies, for example. Then we have the dual forms of the Lat. viginti type. The Latin cardinal number ‘viginti,’ ‘twenty,’ is a remnant of the dual number. ‘Viginti’ represents the IE archetype wiknti nom. acc. du. ‘twenty’, from PIE dwihl-dknt-ihl, literally, ‘two tens’. Since, unlike ‘duo,’ it represents a numeral higher than 4 – and all Latin numerals from ‘quattuor’ up to ‘mille’ did not decline --, ‘viginti’ simply keeps the shape of the nominative dual. Some dual forms with no singular form underwent a singularization (or sometimes a collectivization). As a result of such an adaptation, the dual is re-constructed morphologically, and re-interpreted pragmatically via implicature. This singularization (but sometimes collectivization) of a dual form creates the need to establish a declension. The literally DUAL character of some Latin expressions ending in -ies may be explained through a detailed pragmatic calculation. Pierpaolo Donati. Donati. Keywords: il fra, relazionalismo, internal conversation, l’intersoggetivo, realta fra, il fra, fra tu e io, intersoggetivismo metodologico, communicazione come realta fra, implicatura, reflessivita, reciprocita. Ambidue. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donati” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Dondi: la ragione conversazionale e ’implicatura conversazionale -- l’astrario – iter romanorum – colonna giulia – la colonna del circo neroniano di Buschetto -- petrarca – scuola di Chioggia – filosofia chioggese – fiolosofia veneziana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Chioggia). Filosofo chioggese. Filosofo veneziano. Filosofo Veneto. Chioggia, Venezia, Veneto. Grice:  “I like Dondi and I like a watch chain!”. Figlio di Jacopo, studia FILOSOFIA a Padova. Insegna a Padova. Si trasfere a Pavia. Dopo un periodo a Firenze, vi ritorna come filosofo di corte dei Visconti. Insegna a Pavia. Scrittore di rime, amico e corrispondente di PETRARCA (si veda), è anche tra i pionieri dell'archeologia. In occasione di un viaggio a ROMA, descrive e misura monumenti classici, copia iscrizioni e trascriv i dati rilevati nel suo ‘Iter Romanorum.  La sua fama è legata soprattutto all'astrario da lui progettato a Padova e costruito a Pavia, dove, è conservato, nel castello di Pavia, presso la biblioteca Visconteo-Sforzesca.  L'astrario è un orologio astronomico che mostra l'ora, il calendario annuale, il movimento dei pianeti, del sole e della luna. Per ogni giorno sono indicati l'ora dell'alba e del tramonto alla latitudine di Padova, la lettera domenicale che determina la successione dei giorni della settimana e il nome dei santi e la data delle feste fisse della Chiesa. L'orologio astronomico (o astrario) di D. è andato distrutto, ma è ben conosciuto perché il suo ideatore ne dette una particolareggiata descrizione nel saggio Astrarium, trasmesso da due manoscritti. Si tratta di un congegno mosso da pesi, di piccole dimensioni (alto circa 85 cm, largo circa 70), racchiuso in un involucro a base eptagonale. Grazie ad una serie di ingranaggi l'astrario riproduce i moti del sole, della luna e dei cinque pianeti. Esso indica anche la durata delle ore di luce alla latitudine di Padova. Come misuratore del tempo esso, oltre all'ora, indica (forse per la prima volta tra gl’orologi meccanici) anche i minuti, a gruppi di dieci. La presenza di trattati di astrologia nella biblioteca di D. fa sospettare che la progettazione sia stata influenzata da astrologi antichi. L'orologio astronomico che si può tuttora ammirare sulla torre dell'orologio, Padova, in piazza dei signori, è una copia non dell'astrario di D., ma dell'orologio costruito dal padre Jacopo. Secondo la tradizione è stato D. ad introdurre a Padova la gallina col ciuffo, oggi nota come gallina padovana. In realtà, il giornalista padovano Holzer in una sua ricerca ha potuto stabilire che non vi è documentazione alcuna che attesti che D. ha mai avuto contatti con la Polonia o che l'abbia mai visitata. A lui è dedicata una delle statue che adornano il prato della valle a Padova. Il circolo numismatico patavino gli ha dedicato una medaglia commemorativa opera dello scultore bellunese Facchin. Ai D. è dedicata la ballata iniziale di Mausoleum. Siebenunddreißig Balladen aus der Geschichte des Fortschritts di Enzensberger. Altre opere: Rime, Daniele, Neri Pozza, Vicenza; “Astrarium, E. Poulle, CISST;  Opera omnia D., corpus pubblicato sotto la direzione di Poulle. Padova. Andrea Albini, Op. La Biblioteca Visconteo Sforzesca, su collezioni. Musei civici pavia. Albini, L'astrario di D., su Museoscienza. Ricerche d'Archivio riguardanti la famiglia D. Di Holzer. Albini, Machina Mundi. L'orologio astronomico di D., Create Space, Astrario, Gabriele D. Università degli studi di Padova. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Replica in scala 1/2 dell'Astrario, su clock maker. Replica in scala ¼, su pendoleria. com. (Di Cjiovauui Odo ndi òalf'Otcfcgto, TTtedico eli Padova, e Dei uiouumeutv antichi da fui animati a ctonia, e di afcuui ceitti inediti def medesimo. rt  A FILIPPO SCHIASSI CAHOMCO MILLA CHIESA MAGGIORE DI BOLOCRA, E PROFESSORE DI archeologia bella criverbitì. JL u non ignori certamente , o amatissimo Schiassi,  cum io faccia di le gran cubitale per la somma erudi-zione archeologica che possedi , e per la forbitezza dello  scrivere latino , nella quale con pochi vai distinto ; e come poi io non sia ad alcuno secondo nell'osservanza ed  amore verso di te per le doti singolari dell'animo tuo. In verità io ho sempre desiderato mi fosse pòrta occasione di farti noto pubicamente questo mio volere; ma  quella mi fallì maisempre, o, a meglio dire, non ebbi  mai ardimento di abbracciarla, parendomi da non doversi indirizzare a te cose che non fossero parlo d'in-  gegni maturi, fra' quali per fermo non è da riporsi il  mio. Tuttavolta altre ragioni m'inducono ora a prendere  contrario divisamento. Il perchè, in arra di rispetto e di  benivoglienza, ho deliberalo di spedirti questa Lettera intorno a D., e publicarla intitolata al tuo  nome ; indotto anche da ciò, che in essa circa l’obelisco  vaticano, della cui traslazione tu di fresco con scienza  e perizia ne hai scritto ho io allegate alcune cose , dalle  quali appare essere ora per la prima volta manifesto  come il medesimo nel medio-evo sia stato atterrato , e  non guari appresso di bel nuovo ristabilito, non altri-  menti come sono di comune consentimento i più accreditati scrittori delle cose passale: de’ quali in ispezialità  qual sia il giudizio da tenersi tu puoi decidere. Io intanto a te sottometto di tallo cuore e senza cerimonie  la mia opinione , qualunque ella siasi: ritieni poi , che  con animo a tc per intiero affezionatissimo mi dispongo  a ciò fare. V enezia  v>die PETRARCA (si veda) abbia scritto di D. suo amico non meno con verità die con magnificenza, essere egli stalo d'ingegno sì sublime e potente, che ito sarebbe alle stelle, se rattenulo non lo avesse lo studio della Medicina,Jo capiranno coloro specialmente, i quali siano a giorno come il medesimo  siasi reso distintamente celebre nelle scienze mediche, FILOSOFICHE ed astronomiche; c, di più, conoscano come in altre discipline, a dir vero non comuni,  fosse egli oltre l’ usato erudito. Peritissimo ancora  in scienza morale, nella cognizione dei monumenti  antichi, e nel linguaggio delle Muse italiane : le quali  cose, come disse Celso in altra occasione, quantunque  non costituiscano il Medico, tuttavolta lo rendono più  atto alla Medicina, e fanno sì che abbia a  primeggiare fra i dotti del suo tempo. Ed in vero, che non si possa lare un pieno uso  della Medicina nella maggior parte delle malatie del  corpo, se quelle dell’animo del pari non si curino, è  chiaro di già abbastanza per concorde dottrina degli  antichi e recenti filosofi, suffragata dalla sperienza.  Intorno a ciò sono manifesti i sentimenti del LIZIO, d’ Ippocrate, di Galeno, e di altri ; come pur anco Lettera III. a Sancse data in  luce a Venezia. ne fanno chiara prova quelle cose che sopra lo slesso  argomento ci hanno lasciato in appresso uomini sa-  pientissimi. Che poi da un’accurata osservazione degl’antichi monumenti, e dalla lettura delle iscrizioni ne vengano singolari ajuti onde conoscere più diffusamente l’ arte medica, ce lo dimostrano le Opere dei valenti  in quella, cioè di MERCURIALE (si veda) intorno alla GINNASTICA, il quale tratta anche del sito più salubre  alla costruzione delle fabbriche e circa gli strumenti  chirurgici; di Sicco e di Baccio  intorno ai bagni termali; di Bartolini sopra l’antico puerperio: ai quali libri se ne  potrebbero facilmente aggiungere altri di tal fetta,  cioè di Bellonio, Gioberti, Cagnato, Reinesio, Rodio, Patino, Sponio, Trillerò, Ilundertmarki, Cocchi, e altri; cosicché niuno deve  maravigliarsi del progetto di Bartolini nel  comporre l’opera intitolata Antichità necessarie ad un medico, del cui apparecchio, in appresso incenerito  dalle fiamme , lo stesso autore ne diede breve compendio in una Dissertazione stampata in Hafnia sopra l’incendio della biblioteca. Le moltissime sue lodi, scritte in prosa ed in verso, ci fanno ampia testimonianza che lo studio della  poesia giova a meraviglia per fecondare e ricreare  l’ ingegno, per aggiungere fregio alla lingua ed allo  stile, e per fare acquisto di altre doti richieste ad un  uomo di lettere; nè vi sarà al certo chi ignori che i Medici versati nella medesima n’ andrebbero stimati  da più che gli altri, e si leggerebbero con più di di-  letto le Opere loro. Noi conosciamo ancora che gli  stessi scrittori dell’arte medica, distinti fra gli antichi, Ippocrate ed Areteo, succhiarono da Omero il  loro bello; il primo de’ quali fu detto d’Eroziano  uomo omerico quanto allo stile (Glossar . Hippocr. Praef., edit. Lips.); e Trillerò fa vedere che al  secondo giovò d’assai la lettura dello stesso autore (Opuscula medico-philologica): il che  chiaro apparisce parimente di Galeno e di altri. Eccellente si è la cura posta da Bartolini nel trattare che fece di questo argomento nella Dissertazione intorno ai Medici-poeti, publicata in Hafnia; ed ora se ne potrebbe formare un soggetto con assai più di splendore. Sono poi da tenersi  in gran conto quelle cose che furono scritte da Fracastoro, uomo grande nell’ una e nell’ altra  facoltà, ad Amalteo, medico non meno che  poeta celebre del suo tempo; cioè andare di gran  lunga errati coloro i quali avessero per niente la  poesia, e la stimassero cosa incompatibile colla Medicina: che anzi dichiara apertamente con Andrea  Navagerio, essere inetti a toccare il fondo di ogni  scienza, o a gustare appieno le bellezze di qualsiasi  arte meccanica, coloro i quali andassero privi e mancanti di vena poetica (Fracast. Opera edita Corniti). D. per coltivare l’ animo in questi studj, indotto dall’ esempio ed  intrinsichezza del Petrarca, il quale nei medesimi  avea tocco l’ apogèo della gloria, consegnò allo scritto monumenti non dubj di questo studio, commettendoli  ai posteri; ma quelli inediti, ed appena conosciuti in  un codice cartaceo di quella età, posseduto un tempo  dallo stesso autore, toccò per avventura a me solo di  vederli presso Papafava, figlio d’Albertino,  fregiato della primaria nobiltà fra i Padovani e Patrizio Veneto, il quale mi onorava di singolare cortesia;  nel qual codice io stesso ho letti gli scritti inediti del  Dondi senz’altro giudizio od altro ordine, da quello  in fuori con cui qui li riporto. Vi sono nel codice Lettere intorno a diversi  argomenti, scritte dal Dondi a varie persone ; cioè: A PETRARCA (si veda). Si protesta tornargli a grande  vantaggio 1’amicizia di lui, per arricchirsi a perfezione della morale filosofia ; il che osserva essere assai conforme all’ insegnamento di Seneca nella Lettera <08 a Lucilio intorno al conversare co’filosofi. Nel dipartirmi da te (scrive egli) ne riporto ogni giorno  frutti novelli, e alla tua presenza mi si ricrea l’animo  d' insolita gioja. Ad Aquila fisico (Padova). Annunzia e mostra allo cordoglio per  la morte del Petrarca, d’ improviso avvenuta la notte  antecedente. E morto un personaggio unico, a dir vero, ed ammirabile tra i pochi di ogni età; ma a’nostri giorni il solo, a mio giudizio, che v’abbia su tutta  » la terra, e da non potersi trovare in qualsivoglia  » parte di essa: uomo da essere ricordalo e tenuto a  » venerazione da tutti i secoli. Fatale disgrazia e lagrimevolc a tutto il genere umano, ma assai più amara a buon diritto all’Italia, della quale non  » senza gran merito egli n’ era amante perduto, e in ogni circostanza partigiano caldissimo ; sopra tulli  per altro a me e a te, ai quali era legato con nodo  » strettissimo d’amore e di singolare benevolenza. Manca un uomo senza dubio grande, ottimo, soavissimo, amantissimo di noi ; ma non per altro cessò del tutto, poiché anzi diede principio a vita migliore, richiamato dall’ esiglio alla patria: se vero è che gli offici di questa vita mortale, la Religione di continuo venerata e studiosamente coltivata, l’opera assidua agli sludj unicamente onesti e lodati, dieno fidanza di alcun premio nella vita a venire. A Leniaco, uomo di singolare  ingegno. Ad Argentino (Arsendino) da Forlì, e a Paganino da Sala padovano, Dottori in legge. A Ravenna, fisico.  A Geminiano, fisico di Cesa. A Broaspina di Verona c Hai pòrto materia, nella quale mi ricordo di essere stato titubante aneli’ io, mentre scorreva la  »> Lettera a Lucilio di quell’ eccellente e tutto nerbo  » Anneo, maestro mio e tuo, e di tutti i buoni amici in generale. A Gasparo, che lo dimanda di quelle  cose che Seneca scrive nella settima Lettera a Lucilio sopra gli spettacoli dei Romani, gli dà spiegazione abbastanza chiara, come portavano quei tempi  sì riguardo alla materia, come pur anco alle parole;  vi adoperò eziandio dell’arte critica a motivo delle  scorrezioni del testo, per colpa in gran parte della ignoranza degli amanuensi, e dell’audacia di coloro che vi posero mano alla emendazione. A Mazio di Verona, fisico egregio. A Petrarca (Padova) Una lunga Lettera circa il metodo di vita  da seguirsi dal Petrarca, la quale i precettori del Seminario di Padova avendo ricevuta da me, che la  trascrissi dal codice soprallegato, non dal Marciano,  come porta l’edizione, aggiuntane un’altra del Pe-  trarca al Dondi, fu da loro data alle stampe. A Lombardo Serico, cittadino padovano.  Al frate Guglielmo da Cremona, teologo. Fa  vedere gl’ ingegni degli antichi di gran lunga supe-  riori ai moderni sì in fatto di lettere, come ne fa  chiara testimonianza PETRARCA (si veda), non meno che riguardo alle opere famose delle arti più belle, coll’esempio alle mani di un insigne scultore soprafatto  di ammirazione alla vista di monumenti antichi. A Leniaco, cittadino veronese. A Cremona, maestro nelle arti liberali. Ad un suo intimo amico, uomo singolare ed  egregio.  A Caselle, cittadino padovano.  Aromatario. A Paganino da Sala, Dottore in legge e  uomo di milizia. Con queste si congratula della dignità di Cavallicre conferita di fresco a Paganino;  così per altro, che ne fa di molto più stima dell’onore ottenuto dall’alloro in Diritto civile, dal quale egli  traeva di già vantaggio e lode.  A Nicolò Alessi, Protonotario e Vice-Cancelliere del Signore di Padova. Ad Andreolo Arisio Cremonese. Biasima e si fa beffe della scarsezza che v’ è nelle biblioteche  di Francia dei libri specialmente di Filosofìa morale,  di cui era tenuto a giorno per lettere di Arisio cola  dimorante. Al frate Guglielmo, Vescovo di Pavia. Ad Albertino Salso, precettore di Fisica. AdAngarano di Vicenza. Data in  luce in uno all’ Opera del Pondi intorno alle Fonti  calde nel Territorio padovano, al Maestro Giacomo Vicentino, fra i Trattati di vari autori circa i Bagni,  stampati a Venezia Panno Ai Professori direttori di Medicina e delle  Arti nello Studio di Padova. Fa loro avere un libro  da lui composto, del quale dà contezza con queste  parole: » Ricevete un Trattatello che vi darà per  » ispiegato P ordine oscuro di Galeno nella distinzione  » delle disposizioni dei corpi umani, il quale ei ristrinse con brevità nel libro di Microtegno, asse-  n gnandovene le reali differenze fra quelle, tranne  » poche che vollero accennare sin qua di volo altri  » espositori, ma in molte colle relative differenze. Al maestro Guidoni (di Bagnolo) in Venezia,  nomo egregio, fornito di molto sapere e virtù. Padova, Cappelli, cittadino cremonese. Intorno a Pasquino, Cancelliere di Galeazzo Visconti Principe di Milano, ne fece parola  Pietro Lazerio nelle Miscellanee cavate dai libri manoscrilti nel Collegio Romano dei Gesuiti. Pasquino avea fatto richiesta delle Lettere  scritte dal Dondi a diversi; e D. si argomenta a  tutt’uomo per dissuaderlo che quelle Lettere non  erano tali che meritassero a pezza le sue dimande.  Poscia scrive molle cose circa i rotti costumi degli  uomini del suo tempo, degne alla scorza di un va-  lente filosofo.   Queste Lettere sono piene a ribocco di sentenze  morali, siccome quelle che furono composte da un au-  tore che metteva ogni cura nel leggere le Opere di  Seneca, e ne avea anche dilucidate le di lui Lettere a  Lucilio, con annotazioni allegate circa alle medesime  da Gasparino Barzizio nel suo Commentario, da me  veduto scritto a mano.   Di qual desiderio ardesse D, di vedere monumenti antichi, ne fa aperta testimonianza il viaggio di lui a Roma, ad unico oggetto di venire in pieno conoscimento dell’antico e nuovo stato della città. Del  qual viaggio non rimane alcuna traccia dalla publica  autorità confermata ; tuttavolta ho letto io stesso nel  codice manoscritto, di cui feci menzione di sopra, le  annotazioni dello stesso D. intorno ai principali  monumenti dell’ antichità nel viaggio e nella dimora  che fece a Roma, esaminati, credo  io, da lui appassionatamente ; delle quali annotazioni  ei fa fede così dal principio : « Ilo riportato queste cose scritte in lettere quando fui reduce da Roma. «   Non è prezzo dell’opera il rescrivere qui le anno-  tazioni del D., nelle quali v’hanno anche difetti  di scritturazione, potendosi avere alla mano scrittori famosi per molto sapere, i quali ci hanno chiarito dei  medesimi monumenti con mollo più «li accuratezza e  dovizia. Ci piace di riportare qui sotto la prima sol-  tanto, la quale versa circa l’ obelisco valicano, poi-  ché mollo è stimala per singolare novità, facendoci  vedere un distico da nessuno, per quanto io sappia,  riportato, c del quale importa se ne faccia ricerca.  Quella poi suona così. In Roma La colonna Giulia a quattro lati, che si eleva di  costa a S. Pietro, ha di grossezza presso l’ estremità  di mezzo, lunghesso ciascun lato, otto piedi all’ in-  circa ; di altezza poi, secondo un buon calcolo, ascen-  de a 00 piedi, ossia a dieci pertiche. Ma un prete ac-  casalo lì vicino affermò che un tale l’aveva misurata  con uno strumento ad ombra , e la trovò di braccia. Martino nella Cronaca dice che la sua lun-  ghezza va a un dipresso a 120 piedi; ed Eutropio  afferma la stessa cosa. Svetonio poi dice eh’ è di pie-  tra di Numidia. E vi sono poi ne’ suoi due lati lettere  incise di tal maniera:   Divo Cnesari Divi Julii F Augusto Ti Cacsari Divi Augusti F Augusto  Sacrimi. Intorno alle antichità romane sogliono premettere  alcune cose più memorabili di Martino Polacco, Cronicista  dei Pontefici e degl’imperatori, specialmente nei codici ma-  noscritti. Quelle poi che trovansi aggiunte come tratte da  Eutropio e da Svetonio, falsamente vengono loro attribuite. ir» Al di sopra della mela di questa colonna Giulia  vi sono scolpili questi due versi:   Ingenio Buzeta tuo bis quinque puellae  Appositi s manibus itane erexere columnam. Plinio {Hi storia Nat..), e Svetonio (nella Vita di  Claudio) dimostrano apertamente che l’in-  signe obelisco sia stalo trasportato dall’Egitto a Roma per comando di Cajo Caligola ; e in séguito, mes-  sa a fondo da Claudio nella costruzione del porto di  Ostia la nave su cui era stato trasportato, la più me-  ravigliosa di quante mai si fossero vedute solcar ma-  ri, il medesimo sia stato collocalo nel circo di Ne-  rone ; ned è da entrare in forse che il medesimo, fregiato di quella cospicua iscrizione ne’ due lati, non  sia quello stesso che sempre fu tenuto per l’obelisco  vaticano. Di questo attestano tutti gli scrittori più  accreditati, che non sia mai stato mosso da dove per  la prima volta fu inalzato, nè in alcun tempo atter-  rato, fino a tanto che, volendolo Sisto V. Pont. Massimo, trasportato dal luogo, dove pri-  ma era posto, mediante un congegno di macchine maravigliose di Domenico Fontana del contado di Campo  Novocomese, nella piazza di S. Pietro, dove al giorno  d’oggi si trova. Di tanto unanimemente ne stanno  mallevadori in particolar modo Decembrio,  Poggio Fiorentino, Vegio, Alberiino,  Bargeo, Panvinio, Marliano, Pigafelta, Palladio, Gamuccio, Mercato, Nardinio, Kirhero, Fontana, Bellorio, Fontana, Bonanno,  Bandinio, Milizia, Cancellieri, Winckelmanno, Fea, Zoega; l’ultimo dei quali, che ci da un’opera perfettissima sopra gli obelischi,  impressa a Roma, come a nome di tutti  gli altri scrisse di quello con facondia. Questo dei romani obelischi il solo superstite alle rovine della città, si tenne in piedi nel Circo vaticano fino a tanto che l’architetto Fontana, per comando di Sisto Pontefice Massimo, lo trasferì nella piazza di S. Pietro. Quindi non è da  prestarsi credenza a Ciampinio, a Molineto, a Vitlorellio, a Ficoronio, a Marangonio, a Guattanio, e a  pochi altri, i quali affermarono che il medesimo era  di già abbattuto e steso al suolo allorché si fece la  sua traslocazione sotto il Pontefice Sisto V. Tuttavia, giudice e testimonio D., ora ci si  para innanzi all’ impensata il distico da tempo scolpito sopra l’ obelisco, dal quale non fuori di propo-  sito n’ è lecito far congettura eh’ esso avesse incontrata cogli altri la stessa sorte, e poscia nel medesimo sito, dove dapprima era posto, sia stato di bel  nuovo inalzato ; ovvero, se non fu ritrovato intiera-  mente abbattuto e steso a terra, fosse almeno così  piegato, che il suo inalzamcnto si avesse a tenere in  conto non altrimenti che di fatto assai meraviglioso, e da tramandarsi con lode alla memoria dei posteri  per mezzo d’ un monumento cospicuo cesellalo a Roma; al quale in séguito, come sarà a vedersi dalle  cose che qui sotto si diranno, se ne aggiunse un altro di simile a Pisa. Per verità, tostochè lesesi questo  distico, ci ricorre alla memoria quel tetrastico sopra  quella grandissima mole di marmo, tradotta per mare  ed inalzata dalle mani di dieci fanciulle, per il sommo ingegno del chiarissimo architetto Buscheto; il quale tetrastico si vede scolpito nel medesimo tempo sopra il di lui sepolcro, che fronteggia il  tempio maggiore di Pisa, e parla così, Quod vix mille boum possent juga junctn movere,  Et fuod, vix poluil per mare ferve ralis, Busketi iiisu, quod crat mirabile vini, Dena puellarum turba levabai onus. Del qual tetrastico, siccome è noto, furono fatte  tante e così scipite interpretazioni, che il fatto delle  dieci fanciulle si spacciò per una favola ; quasi che  quelle parole non si potessero applicare all’ inalzamene della gran mole, portato a termine per opera  di Buscheto con tale perfezione, che dieci donzelle  colle sole loro mani sarebbero state da tanto a quell’impresa, e che a loro in certa guisa sembrasse do-  versi attribuire la grande erezione. Pare che P opinione popolare abbia condotto in errore tutti coloro  che di questo fatto hanno discorso per iscritto ; cioè  che il contenuto in quei quattro versi accennasse alle  macchine costrutte da Buscheto nella fabbrica del  tempio pisano ; perchè il medesimo, ma in altri versi,  vi si leggeva in lode di Buscheto sulla facciata di  quel tempio. Per quanto poi si  sa, nessuno avrebbe sospettato se sia da intendersi lo  stesso intorno al lavoro eseguito in Roma. Se non che quelli che giudicano imparzialmente  de’fatti, e sono di parere che P obelisco nel medio-evo sia stato atterralo, e poco dopo novamente inalzato da Buschelo, sembra ciò possano fare senza taccia di errore, se specialmente considerino che tutti  quegli aggiunti, rappresentati ab antico colle stesse  parole intorno al trasporto dell’ obelisco sopra una  nave d’una meravigliosa grandezza, e la maniera  stessa adoperata nel suo secondo inalzamento, acqui-  stano insieme chiarezza e fede ; altrimenti non veggo  quello che se ne possa dire di vero e di ragionevole  su questo fatto. Che l’obelisco sia stato fermo in piedi presso la Cappella della  Basilica Vaticana, nel qual luogo sino dal principio  era stato posto , è chiaro dalla Bolla di Leone, per Li quale viene confermato il fondo ai Canonici della Basilica medesima, nel cui terzo lato (disse) corre un'altra via dall'aguglia che si nomina sepolcro di GIULIO (si veda) Cesare; colla qual denominazione sol-  tanto apparisce sia stato in uso nel medio-evo d’ indi-  carsi questo monumento (Collezione delle Bolle della  Basilica Vaticana di Roma. Tennero dietro quei lagrimevoli tempi, ne’quali  per la discordia di Enrico e Gregorio, che  tra loro si combattevano, toccò a Roma di patire  moltissime calamità, nonché assedj, incendj, smantel-  lamenti e distruzioni di fabbriche anche in quella  parte che si chiamava Città Leonina, in cui stava  l’obelisco: le quali cose tulle noi leggiamo testimo-  niate publicanienle da scrittori di quell’età, c di già  scritte da storici accurati d’ Italia di tempo posterio-  re nei loro divulgati lavori, senza che mai ne accada  per avventura di vedere da essi fatta alcuna menzione  dell’ obelisco ; onde sorge qualche probabilità, che  ad esso pure sia toccata in quel tempo la medesima  disgrazia d’essere rovesciato. Questo certamente cade  ora in taglio di osservare, che niuno di quelli de’quali  abbiamo gli scritti circa le antichità di Roma, o di  quelli de’ quali abbiamo le collezioni da gran tempo  date in luce delle antiche iscrizioni, ha fatto mai cenno del distico intorno a Buscheto; non pure eccet-  tuato lo stesso Petrarca, che sappiamo aver egli stu-  diosamente esaminato gli antichi monumenti, e dell’obelisco aver fatto parola soltanto secondo la voce  del popolo ( Epislolæ familiares, edit. Genev.). Noi pertanto andiamo  debitori al Dondi, siccome a quello che forse primo  di tutti ci diede una giusta conoscenza del tetrastico  pisano, e la notizia della mole insigne ultimamente  alzata in Roma, la quale è di moltissimo vantaggio  per far conoscere la storia delle arti meccaniche del  medio- evo in Italia : soggetto di un voluminoso ed  utilissimo scritto.   Un silenzio così durevole ed universale non può  essere di certo a molti senza ammirazione ; ma ove  essi considerino che l’ obelisco di bel nuovo inalzato era stato a cielo scoperto bersaglio delle ingiurie dei  tempi per il giro di quasi tre secoli avanti D,, e  che mostrava quel distico a lettere sfuggevoli, sebbene ab antico scolpite, difficili alla lettura per la  sconvenienza del sito, talché siasi preso Buzeta per  Buscheto ; e che finalmente nel secolo XV. le medesime erano del tutto scomparse, non avranno più luogo  sì fatte meraviglie. Senza dubio Decembrio Opera ripiena di scelta erudizione e poco conosciuta, scritta circa la metà di quel tempo, intitolata  hibri selle di polizia letteraria , c data ai tipi in Augusta, ce lo rappresenta tanto ridotto a mal termine, che non dee fare  stupore sia esso sfuggito a’curiosi indagatori degli antichi monumenti, ed abbia indottoVeronese  a parlare in tal foggia. Quel lato eh’ è posto a Mez-  » zogiorno viene corroso ogni dì più dai continui vapori dell’ Austro e dalle procelle ; e i geometri e gl’architetti tutti del nostro tempo ne trovarono tanto  di logoro, che ritengono sia scemato da imo a sommo quasi duecento libre. E il Bembo nel Dialogo ad Ercole Strozio intorno la zan-  zara di Virgilio e le favole di Terenzio, impresso la  prima volta a Venezia con altre sue Operette, mette in bocca a Barbaro Ermolao questi delti. Appena si può descrivere a parole la grave colpa  » che hanno i Romani per quell’ obelisco vaticano,  i quali, quasi invidiando che sopravivesse una qualche opera alla nostra età, cui lunghezza di anni o  » durata di tempo non valesse a distruggere, adoperarono sì che fosse quasi tolto alla publica vista per  » mezzo di ammonticchiati rottami e murate easupole. »Ma che D. si abbia procurato colle osservazioni sulle romane antichità cognizioni per dare a  buon diritto lodi secondo le azioni, n’ è prova la Letlera diciottesima a Paganino Sala, decoralo poco in-  nanzi della dignità di Cavalliere : nella quale difende  che la scienza delle leggi è da tenersi in maggiore  estimazione che l’arte militare, scrivendo: « Che il senato e il popolo romano avessero operato secondo questo parere di CICERONE, lo attestano alcune facciate, le quali sino al giorno d’ oggi si conservano nella città scolpite in marmo, alcune delle quali,  ) nè m’ inganna la mia memoria, ho lette io stesso,  » dove vengono anteposti in ordine di scrittura gl’uomini famosi in pace per consiglio a quelli che travagliarono nella guerra. A’ piedi della rupcTarpéa si conserva uno splendido arco trionfale di  » marmo, che tiene inscritti due grandi uomini, vale  » a dire Lucio Settimio e Marco Aurelio, sopra cui  « dopo una lunga serie si offrono a lettera alcune  » cose in proposito, le quali, tienle a mente, sono  » queste: Ob rem publicam restitulam itnperiuinque  » populi romani propagatimi insignibus virlutibus eorum domi forisque. Ecco preferirsi il publico interesse  » consolidato per senno alla conquista dell’imperio,  » e i grandi in pace a’ grandi in guerra, quantunque  » senza dubio l’ una e l’ altra sia cosa gloriosa. Così  » il titolo di Dottore avuto per scienza in Diritto civile, colla quale si amministrano bene in pace i  » publici affari, si giudica doversi anteporre al titolo  » di Condoiliere d'eserciti , colle armi de' quali si gover-  ni nano le cose al di fuori. » Posciachè D. ebbe  osservate le rovine della romana antichità, nella Let-  tera duodecima al frate Guglielmo da Cremona ne  scriveva in tal modo, Quantunque poche ne sieno rimaste delle opere degli antichi ingegni, pure se alcune qua e là se ne conservano, vengono ricerca-  » te, esaminate, e tenute in gran pregio dagli appassionati in tal genere; e se vorrai mettere a para-  » gone queste dei giorni nostri con quelle, ti sarà  » chiaro come gli autori di quelle sieno stati più avvantaggiati dalla natura e dall’ ingegno, e più dotti  » nel magistero dell’arte. Parlo di edifizj antichi, di  » statue, di sculture, e d’altre cose di simil fatta, alcune delle quali, con diligenza osservate dagli artelici di questa età, li fanno dare nelle meraviglie.»  Nella qual Lettera stessa, dopo di avere trattato dif-  fusamente sulla eccellenza degli antichi, aggiunse anche le seguenti cose, spettanti allo studio degli anti-  clii monumenti. Io avrei credulo che tu ti avessi occupato con piacere a leggere di quando in quando scritti di tale specie, o almeno alcuni dei principali tra essi, ed in quelli ne avessi considerato in  > molte parti, non senza stupore, i costumi e le azioni dei tempi andati: perchè se vorrai con giustizia  » raffrontare quelli con questi che di presente conosciamo, sarai costretto a confessare che la giustizia, il valore, la temperanza e la prudenza hanno avuto  » certamente un seggio luminoso nei loro animi, e  » dall’ impulso di quelle virtù si hanno procacciato  » alcun che di magnifico a gran lunga superiore alle  » più larghe mercedi. Del resto, prova di ciò sono  » quelle cose che, ordinate una volta per onorare  » gloriose intraprese, durano ancora nella città di Roma. Conciossiachè sebbene molle e delle più preziose ne abbia mandalo a male il tempo, e di alcune   » sieno mostrate soltanto le rovine, che ci presen-  ti tano alcune tracce di ciò che per lo innanzi erano; tuttavia quelle poche e a meraviglia stupende che  ne restano, sono più che bastanti onde fare testimonianza che coloro i quali le decretarono, non poteano essere che dotati di somma virtù, e che coloro a’quali venivano dedicate ad eterna ed onorevole ricordanza doveano avere operato gesta magnanime e strepitose. Voglio dire statue che, fuse in bronzo o scolpite in marmo, durarono fino al giorno d’ oggi ; e mollissimi pezzi sflagellati a torli ra, ed archi trionfali di pietra di gran lavoro, e co-  li lonne storiate di memorabili imprese, ed altre cose moltissime di tal genere, messe alla vista di tutti onde onorare personaggi illustri o per avere stalibilita la pace, o scampata la patria da sovrastante  » pericolo, o disteso il dominio sulle vinte nazioni. E siccome mi sovviene eli’ io vi leggeva con molto mio compiacimento, così voglio sperare che tu pulì re, passandovi sopra qualche fiala, le avrai considerale, e fatto sovr’esse alcun segno di meraviglia, ed avrai detto per avventura teco stesso: Queste per fermo sono prova d’ uomini grandi. Resta che a fornire l’elogio di D. io lo dimostri anche amante dello studio poetico, onde sia  manifesto com’ egli abbia occupato un luogo cospicuo  fra i Medici del suo tempo. Anche i meno esperti di  tali cose sapranno che delle sue composizioni italiane una sola ne fu data alle stampe, indirizzata a PETRARCA (si veda), la quale con altre dello stesso autore suolsi  vedere congiunta, e ne fu fatta memoria nel Dizionario degli Academici Fiorentini della Crusca. Ma nel  codice manoscritto, di cui sul principio ho fatta menzione, se ne leggono quaranta del genere di quelle  che con vulgare vocabolo è invalso chiamare Sonetti. Queste trattano di varj argomenti, e specialmente dell’ amore alla virtù, della malvagità dei costumi  del suo tempo , della lode e del biasimo di alcuni  Principi allora regnanti, di città vedute nel suo viaggio per Roma, di risposte ad amici; e di amorose assai poche, ben diversamente da quello che portail  suo secolo. Le poesie volgari du D. furono scritte a PETRARCA (si veda), e a quelli amatori delle Muse che a lui erano legati in istrelta amicizia ; cioè a Broaspitia veronese, a Vanozzi,  a Melchiore e Benedetto parimente veronesi, a Pace padovano, al frate Guglielmo da Cremona, a Giovanni di Venezia suo condiscepolo, a Campo, e Castellione Aretino.  D. visitando la tomba del Petrarca in Arquà  scrisse forse il primo di tutti su tale argomento una  composizione, imitato poscia da uomini dotti d’ogni  nazione e d° ogni tempo ; cosicché coll’ andare degli  anni io ho raccolto versi in gran copia sopra questo  soggetto, i quali potrebbero uscire in luce con generale approvazione. La poesia usata da D, non è sempre sciolta e  facile; tuttavia è fornita di gravità e di eleganza: gli  piaque di framischiare sovente versi latini ai volgari,  come sappiamo su IP esempio degli antichi poeti es-  sersi usalo fare da alcuni moderai con vano sforzo. Nella sua giovinezza atlendeva con piacere a verseggiare, come scrive a Guglielmo da Cremona: Già nella vaga elade de’ prim’anni   Mi piaque udir e dir talvolta in rima, Benché con grosso stile e rude lima: Poi che l’alma vestir di miglior panni   Mi piaque più, perch’io conobbi i danni  Dei persi di, lasciai la via di prima. Prendendo quel che piu prezzo si stima  Con maggior cura e studiosi affanni. I codici scritti a penna assai di rado ci offrono versi di D., ed io ne ho veduti se non pochissimi  in due soltanto: uno de’ quali trovasi nella Biblioteca  del Seminario di Padova, un tempo posseduto dal  Facciolati ; l’ altro squarcialo, e mal difeso dalle in-  giurie dei tempi, fu da me rinvenuto poco fa nell’ul-  tima stanza della Basilica di S. Marco in Venezia, e  portato nella Biblioteca regia : il perchè non dee parere fuori di ragione eli’ io ponga qui appiedi di que-  sta Lettera, come per saggio, sei componimenti volgari  di esso Dondi.   Da tutto il fin qui detto risulta, che presso i giusti estimatori degl’ingegni il Dondi andò fornito di  tanta e sì svariata dottrina, che v’ha onde tenerlo del  tutto eccellente fra i pochi periti in Medicina del suo  secolo, e che perciò non ho gettato inutilmente il tempo e la fatica nel farlo riconoscere per tale. Venezia,  Se’l veder torto del vostro Giovanni Mira la region terrestre ed ima. La gente ricercando in ogni clima,  Ebrei, LATINI, Greci ed Alemanni, Regni comuni, e sudditi a’tiranni; Al mal son pronti, e per quel si sublima,  Spenta è virtù, e la fortuna opima  Col vizio sta su gloriosi scanni. Ito è il tempo che fu col buon Augusto,  Rari son quei che per virtù guadagna;  Astuzia e frodo regna con bugia. A cui dunque direm del calle angusto, Per qual si va con la virtù compagna? Degno è del mal così lagnarsi pria. Oli puzza abbominabil di costumi! Oli maledetti dì di nostra etade! Oli gente umana senza umanitade!   Più che senza splendor oscuri fumi! Convien che ’l mondo in breve si consumi.  Poiché giustizia ed innocenza cade; E sol quell’arte e studio par che aggrade.  Per qual l’un l’altro offenda, inganni e schiumi. Qual’ cieli infortunati, qual’ figure. Qual’ mimiche stelle o gravi segni  In ogni nostro ben or s’è disperso?   Quanto beate fur più le nature   Nell’imperio d’ Augusto, quando ingegni, Virtute e pace ebbe l’Universo! Cantra insolenliam Fenetorum inferentium  guarani Amino Paduae. Se la gran Babilonia fu superba, Troja, Cartago, e la mirabil Roma, Che ancor si vede, e quell’ altre si noma.  Ma dove sletler pria stan selve ed erba;  E se altra possa fu mai tanto acerba  A metter sopra altrui gravosa soma.  Tutte san già quant’ogni orgoglio doma  Al fin colei clic a sè vendetta serba.   Però qualunque è maggior signoria  Dovrebbe rifrenar con più misura  Fraterna di giustizia sua potenza; Di aver con suoi minor consorte pia. Non arrogante, ingiuriosa e dura,  E temer sopra sè dal Ciel sentenza.  Cum visitasset sejiulchrum Domini Fraudici PelrarcUae  in A rquada. Ilei sommo cielo con eterna vita  Gode P alma felice tua, PETRARCA;  Quindi di sodo sasso in nobil’ arca  La terrena caduca parte uscita. La fama del tuo nome già gradita  Sonando va con gloriosa BARCA – la barca di PETRARCA --, Di vera lode e d’ogni pregio carca,  Per l’Universo in ogni canto udita. Nelle scritte sentenze tue si vede  La gentilezza dell’ingegno divo,   E qual sii stato in cattolica fede. Forò chi anco t’ama non è privo  Ancor di te; c chi morto li crede  Erra, ch’or vivi e sempre sarai vivo. Y. Joannes ile Domiti socio et eoiuliscipulo tuo Joanni de  Fenetiis studenti in Medicina, qui tcripseral eidem  quondam tmlgares rhythmos.  Le tue parole mi par belle tanto,   E sì bene ordinate tutte quante.   Qual se dette le avesse o Guido o DANTE ALIGHIERI (si veda), Ovvero esaminate in ogni canto. Però quando fra me mi penso alquanto, Parmi che tu non sei molto distante Da color che tu imiti, buon rimante,   E che han vestito di quell’arte il manto.   Ond’io ti prego che scrivi talvolta,   Sì che svegli il mio piccol ingegno,   Per te sottratto dalla turba stolta.   Onor ti renderò, che sei ben degno. Più che’l fanciul al maestro ch’ascolta.  Guardando a te col balestriere <0 al segno. Così il codice.  Dica contra chi vuol: il saper vale   Più che il folle ardimento, cd ogni schiera  Produrrà a torto quantunque sua fiera:  Per ragion giusta, dee terminar male.   E chi per van conforto d’altrui sale  Oltra quel che convien a sua maniera.  Degno è che non governi ben bandiera,  Nè ben cavalchi alcun sotto sue ale. Adunque imprenda pria quei che non sanno,  E non ardisca saltar di leggieri; Contra s’alza a baldezza di vesciche.   Chè chi è corrente ha più volle le fiche,  E scaccomato in mezzo il tavolieri,   Sì ch’ei riporta la vergogna e ’l danno..tK*rCP odiatene di »oti 300 esemplati. BUSCHETO di Isa Belli Barsali - Dizionario Biografico degli Italiani - Pubblicità BUSCHETO (Busketus, Buschetto, Boschetto). - Si ignorano l'origine e gli estremi biografici di questo architetto attivo a Pisa tra il terzo venticinquennio del sec. XI e i primi del XII. Compare in due soli documenti certi (pubblicati dal Pecchiai), e come operarius di S. Maria. È l'ideatore del progetto della cattedrale pisana e come tale infatti è ricordato ed esaltato, nel paragone con Ulisse e con Dedalo, nell'iscrizione che si legge sulla sua tomba collocata nella prima arcata a sinistra della attuale facciata (trasferitavi da quella primitiva): "Non habet exemplum niveo de marmore templum. Quod fit Busketi prorsus ab ingenio. Una più tarda iscrizione elogiativa aggiunta sul sarcofago in occasione del trasferimento della tomba dalla vecchia alla nuova facciata (al tempo cioè dell'architetto di quest'ultima, Rainaldo) esalta del B. soprattutto le capacità tecniche: "Quod vix mille boum possent iuga iuncta movere / Et quod vix potuit per mare ferre ratis / Busketi nisu quod erat mirabile visu Dena puellarum turba levabat onus. Accenti assai simili aveva un'epigrafe romana, ora scomparsa, trascritta da G. Dondi, che celebrava un "Buzeta" per aver nuovamente eretto l'obelisco nel circo neroniano: "Ingenio Buzeta tuo bis quinque puellae / appositis manibus hanc erexere columnam". Questa somiglianza di tono nelle due epigrafi, pisana e romana, indusse il Morelli a proporre l'identificazione di "Buzeta" con Buscheto.  Non risulta certo che sia da identificare con il B. che compare nel 1076 e 1078 in due atti della canonica del duomo di Pistoia (L. Chiappelli, Storia di Pistoia..., Pistoia). Per altre ipotesi (B. del fu Giovanni giudice dei signori di Ripafratta, Monini), basate su documenti presunti o per documenti (Pecchiai) poinon rintracciati, si veda Scalia.  I lavori della cattedrale pisana, iniziati nel 1063 al tempo del vescovo Guido da Pavia, proseguirono, sostenuti da donazioni, tra cui quelle di Enrico IV e della contessa Matilde. Gelasio consacra la cattedrale, forse non ancora del tutto compiuta. Dopo questa data, l'edificio venne ampliato con il prolungamento a ovest del corpo longitudinale della chiesa, di circa quindici metri, che portò di conseguenza alla costruzione dell'attuale facciata (per il Sanpaoles. Per le fondazioni della prima facciata si veda Bacci).  L'individuazione, ovviamente fondamentale, dell'attività di B. nella parte più antica del duomo, ha avuto un lungo iter critico. Alla luce degli studi recenti è da credere che il B. progettasse e iniziasse la costruzione in età ancor giovane, proseguendone poi la fabbrica fino al primo decennio del sec. XII.  Molte ipotesi sono state avanzate sui tempi e i modi della fabbrica del duomo durante la direzione di Buscheto (Dehio-von Bezold; Salmi, 1938;Sanpaolesi). Una documentazione indiretta aiuta solo parzialmente. Accettando l'ipotesi del Burger, che l'epigrafe con data 1085 murata sulla porta della pieve nuova di S. Maria del Giudice (Lucca) vada riferita al completamento dell'abside di questa chiesa - anteriore stilisticamente alla sua facciata - il1085verrebbe ad essere anno ante quem per il completamento di una parte dei lavori al duomo pisano attribuibili a B., dato il rapporto esistente tra il duomo di Pisa e l'abside della pieve nuova di S. Maria del Giudice: la chiesa del contado lucchese sarebbe anche il più antico edificio derivato dalla cattedrale pisana.  I forti pilastri interni all'incrocio del transetto delineano le dimensioni della cupola e autorizzano a ritenere che B. progettasse anche questa parte (Sanpaolesi), anche se poi è possibile che i lavori si protraessero. La cupola originaria - poggiante su un tamburo con monofore ad archetto e su trombe coniche venute in luce durante i restauri del secondo dopoguerra - indica rapporti con l'architettura del Mediterraneo orientale e della Sicilia.  Un problema aperto è quello della forma della facciata di B., forse già compiuta nel 1118 quando fu consacrata la chiesa, certo già esistente quando nella chiesa fu tenuto un concilio, e disfatta probabilmente dopo la costruzione della nuova. Ipotesi ricostruttive possono trovare appoggio nell'esame analitico e comparativo di alcune facciate di chiese pisane (S. Frediano di Pisa, la pieve di Calci già aperta al culto, la pieve di Vicopisano) e lucchesi (le due pievi di S. Maria del Giudice), tutte in contatto con la cattedrale pisana. Queste facciate mostrano una ricorrente tipologia ad archi ciechi su due ordini, che si presenta in logico e armonioso rapporto con quella soluzione ad archi ciechi che compare nei fianchi del duomo di Pisa.  Il linguaggio di B. non è certo riconducibile ad una tradizione locale, ed è estremamente colto. Accettando l'ipotesi di identificazione con il Buzeta dell'iscrizione romana, il soggiorno a Roma illuminerebbe sul sottofondo classico della sua cultura: l'impianto dell'edificio e i grandi colonnati basilicali, i capitelli foggiati ad imitazione dell'antico, la quasi completa assenza di decorazioni figurate rivelano infatti la conoscenza e lo studio delle opere romane; è significativo che anche il neoclassico Milizia ne notasse "le proporzioni del tutto non... spregevoli" e la sodezza. Nello stesso tempo B. è a conoscenza dell'architettura lombarda e dell'architettura orientale, dalla bizantina all'araba. Contatti e rapporti culturali sono d'altronde superati in una unitaria visione di grande respiro, che fa di B. uno dei massimi architetti.  La cattedrale pisana è capostipite del romanico pisano. All'opera di B. e del suo continuatore Rainaldo si rifece non solo la generazione a loro più vicina, ma una folta scuola, estesasi nella Lucchesia, nel territorio fiorentino, e nelle zone politicamente o commercialmente in rapporto con Pisa (in Sardegna e in Puglia), scuola che ne mantenne alcuni tratti essenziali, pur modificandosi nel tempo e nei diversi centri.  Fonti e Bibl.: B. Maragone, Annales pisani, in Rerum Italic. Script., a cura di Gentile; Sardo, Cronaca pisana, a cura di Banti, Roma,  D., ITER ROMANVM, in CODICE TOPOGRAFICO DELLA CITTA DI ROMA, cur. Valentini-G. Zucchetti, IV, Roma, Milizia, Mem. degli architetti antichi e moderni, Parma; Morrona, Pisa illustrata, Pisa, Morelli, Operette, Venezia; Grassi, Descriz. Stor.-artistica di Pisa, Pisa, Parte storica; Parte artistica; Fleury, Les monuments de Pise au Moyen Age, Paris, Rossi, Inscriptiones christianae Urbis Romae, I, Romae, Dehio-Bezold, Die kirchliche Baukunst des Abendlandes, I, Stuttgart, Monini, B. pisano, Pisa; P. Schubring, Pisa, Leipzig Venturi, Storia dell'arte italiana, Milano; J. B. Supino, Arte pisana, Firenze, Pecchiai, L'opera della Primaziale pisana, Pisa, Papini, Pisa, I, Roma, La costr. del duomo di Pisa, in L'Arte, Bacci, Le fondaz. della facciata nel duomo di Pisa, in Il Marzocco, Tronci, Il duomo di Pisa, cur. Bacci, Pisa; M. Hauttmann, Die Kunst des frühen Mittelalters, Berlin, Salmi, L'architettura romanica in Toscana, Milano-Roma, Toesca, Il Medioevo, I, Torino, Guyer, Der Dom zu Pisa und das Rätsel seiner Entstehung, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, Salmi, La genesi del duomo di Pisa, in Boll. d'arte, Thümmler, Die Baukunst in Italien, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte, Ragghianti, Architettura lucchese e architettura pisana, in Critica d'arte,  Burger, L'architettura romanica in Lucchesia e i suoi rapporti con Pisa, in Atti del Seminario di storia dell'arte, Pisa-Viareggio, Sanpaolesi, La facciata della cattedrale di Pisa, in Riv. dell'Ist. d'archeol. e storia dell'arte, Il restauro delle strutture della cupola della cattedrale di Pisa,in Boll. d'arte, Burger, Osservazioni sulla storia della costruzione del duomo di Pisa, in Critica d'arte; Barsotti, B. e Rainaldo, in Cattedrale di Pisa (catal. della mostra), Pisa, Delogu, Pistoia e la Sardegna nell'architettura romanica, in I Convegnointernaz. di storia e arte,Pistoia Scalia, Ancora intorno all'epigrafe sulla fondazione del duomo pisano, in A G. Ermini, Spoleto, Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, s.v. Busketus. Circo di Nerone Circo scomparso della Roma antica Circo di Nerone (o Vaticano) Sito archeologico Roma Nero Circus Ricostruzione del Circo di Nerone in un disegno di Pietro Santi Bartoli Civiltà Civiltà romana Utilizzo Circo Localizzazione Stato Città del Vaticano Mappa di localizzazione  Il circo di Nerone era un impianto per spettacoli dell'antica Roma lungo 540 metri e largo circa 100, che sorgeva nel luogo dove oggi si trova la basilica di San Pietro in Vaticano, in una valle che correva da dove si trova la parte sinistra della basilica fino quasi ad arrivare al Tevere. L'area dei Carceres, da dove partivano le bighe, era situata nel punto dal quale la Via del Sant'Uffizio lascia piazza Pio XI, mentre quella del lato curvo va rintracciata qualche decina di metri dopo l'abside della basilica di San Pietro.  StoriaModifica L'opera, iniziata da Caligola e completata da Nerone, era stata costruita all'interno della villa di Agrippina Maggiore, villa che alla morte della madre di Caligola passò in eredità a Nerone.  Nel circo privato dell'imperatore si tenevano corse di cavalli, bighe e quadrighe, molto popolari a Roma, tanto che in alcune occasioni l'imperatore, che normalmente vi assisteva solo con la sua corte, fece aprire le porte del circo al popolo romano. È probabile che l'impianto non dovesse contenere più di 20.000 spettatori.  Qui ebbero luogo, forse per la vicinanza all'adiacente necropoli, alcune esecuzioni dei cristiani giudicati colpevoli di aver causato il grande incendio di Roma. Nerone, secondo Tacito, aggiunse lo scherno al supplizio. Come avvolgere gli uomini con pelli di animali perché fossero dilaniate dai cani, o inchiodarli alle croci, o destinarli al rogo come fiaccole, che illuminassero l'oscurità al termine del giorno. Nerone aveva offerto i suoi giardini per lo spettacolo, e vi aveva organizzato giochi circensi, mescolandosi alla folla in abito d'auriga o guidando un carro da corsa. In tal modo si aveva pietà di quei condannati, benché colpevoli e meritevoli del supplizio, perché venivano sacrificati non per l'utilità pubblica ma per la crudeltà di uno solo.[1]  Il circo fu abbandonato già verso la metà del II secolo d.C. e l'area fu suddivisa e assegnata in concessione ai privati per la costruzione di tombe appartenenti alla necropoli. Tuttavia pare che fino al 1450 ne sopravvivessero ancora molti resti, distrutti con la costruzione della nuova basilica vaticana.  L'obelisco, che era posto al centro della spina del circo, era stato per volere di Caligola trasportato fin qui da Eliopoli, dove si trovava nel Forum Iulii. Qui rimase fino a che  papa Sisto V lo fece spostare al centro di Piazza San Pietro.   L'area dove sorgeva anticamente il Circo di Nerone. Publio Cornelio Tacito, ''Annales, Basilica di San Pietro in Vaticano Via Cornelia Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su circo di Nerone. Portale Antica Roma   Portale Architettura   Portale Roma Necropoli vaticana Ager Vaticanus Via Cornelia Strada romana antica  Wikipedia Il contenutoGrice: “I thought it was a good idea of the Anglo-Normans to retain the Anglo-Saxon idea of ‘time’ (as stretch – a rather English root – cf. German ‘zeit,’ our ‘tide’ --, and borrow from Latin, ‘tempus’, which gives us ‘temporary’, as I use in my ‘Personal Identity,’but also ‘tense’ – This tense is better than by vice/vyse, since vice and vyse are both cognate with violence. But tense and tense are not. One is cognate with Latin tension. The other is just a mispronounciation of Fremch ‘temps,’ Latin/Roman ‘tempus’ – So as Cicero would have it, it’s ‘tempus’ we should care about!” -- Giovanni Dondi dall’Orologio. Giovanni De Dondi. Dondi. Keywords: l’astrarium, Leibniz’s Law, time-relative identity, total temporary state (Grice: “I’m thinking of Hitler”); Wiggins, Myro, The Grice-Myro Theory of Identity, sameness and substance, Mellor, filosofia del tempo, Prior, Creswell, Mellor – logica cronologica, ‘tense logic’ ‘tense implicature’ -- “iter romanorum”. Refs: Luigi Speranza, “Grice e Dondi” – The Swimming-Pool Library. Dondi.

 

Grice e Dorfles: la ragione convversazionale e l’implicatura conversazionale  del kitsch – scuola di Trieste – filosofia friuliese -- filosofia italiana  – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo trestino. Filosofo friulese. Filosofo italiano. Trieste, Friuli – Venezia Giulia.  Grice: “Must say my favourite Dorfles is his ‘artificio e natura,’ on the doryphoros!”. Nato a Trieste nell'allora Austria-Ungheria da padre goriziano di origine ebraica e madre genovese, si laurea a Trieste. Si dedica allo studio della pittura, dell'estetica e in generale delle arti. La conoscenza dell'antroposofia di Steiner, acquisita grazie alla partecipazione a un ciclo di conferenze a Dornach, orienta la sua arte pittorica verso il misticismo, denotando una vicinanza più ai temi dominanti dell'area mitteleuropea che a quelli propri della pittura italiana coeva. Isegna a Milano, Cagliari e Trieste. Fonda il Movimento per l’Arte Concreta (vs. arte astratta). del quale contribuì a precisare le posizioni attraverso una prolifica produzione di articoli, saggi e manifesti artistici. Prende parte a numerose mostre in Italia e all'estero: espone i suoi dipinti alla Libreria Salto di Milano e in numerose collettive, tra le quali la mostra alla Galleria Bompiani di Milano, l'esposizione itinerante, e la grande mostra "Esperimenti di sintesi delle arti", svoltasi nella Galleria del Fiore di Milano. Risulta componente di una sezione italiana del gruppo ESPACE. Diede il suo contributo alla realizzazione dell'Associazione per il Disegno Industriale. Si dedica quindi in maniera pressoché esclusiva all'attività critica. Con la personale presso lo Studio Marconi di Milano, torna a rendere pubblica la propria produzione pittorica. L'arte non prescinde dal tempo per esprimere semplicemente lo spirito della Storia universale, bensì è connessa al ruolo delle mode e a tutti gli ambiti del gusto. Considerevole è stato il suo contributo allo sviluppo dell'estetica italiana, a partire dal Discorso tecnico delle arti, cui hanno fatto seguito tra gli altri Il divenire delle arti e Nuovi riti, nuovi miti. Nelle sue indagini critiche sull'arte contemporanea si è sovente soffermato ad analizzare l'aspetto socio-antropologico del fenomeno estetico e culturale, facendo ricorso anche agli strumenti della linguistica. È autore di numerose monografie su artisti di varie epoche (Bosch, Dürer, Feininger, Wols, Scialoja). Pubblicato due volumi dedicati all'architettura (Barocco nell'architettura moderna, L'architettura moderna) e un famoso saggio sul disegno industriale (Il disegno industriale e la sua estetica). è il primo a vedere tendenze barocche nell'arte moderna (il concetto di neobarocco sarà poi concettualizzato da Calabrese) riferendole all'architettura moderna in: Barocco nell'architettura moderna. Contribuisce al Manifesto dell'antilibro, presentato ad Acquasanta, in cui esprime la valenza artistica e comunicativa dell'editoria di qualità e il ruolo del lettore come artista. A Genova si occupa anche del lavoro di Costa. Partecipa alla presentazione del libro Materia Immateriale, biografia di Costa, Miriam Cristaldi, di cui Dorfles ha scritto la prefazione. L'editore Castelvecchi ha pubblicato Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, in cui analizza come la scoria massmediatica ha soppiantato le attività culturali; Conformisti e Fatti e Fattoidi. Pubblica un inedito d'eccezione, “Arte e comunicazione”, in cui mette la teoria alla prova con alcune applicazioni concrete particolarmente rilevanti e problematiche come il cinema, la fotografia, l'architettura.  è uscito Irritazioni: un'analisi del costume contemporaneo, uscito nella collana Le navi dell'editore Castelvecchi. Con la sua ironia ha raccolto le prove della sua inconciliabilità con i tempi che corrono. Nel saggio c'è una critica sarcastica e corrosiva all'attuale iperconsumismo. NComunicarte Edizioni, pubblica 99+1 risposte di Dorfles nella collana Carte Comuni. Un'intervista "lunga un secolo" con la quale il critico ripercorre la sua vita e alcuni incontri d'eccezione: da ISvevo a Warhol, da Castelli a Fini. La Triennale di Milano ospita la mostra "Vitriol, disegni" Aldo Colonetti e Luigi Sansone; V. I. T. R. I. O. L.  è un simbolo alchemico, acronimo del motto rosa-crociano “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem”. Assieme ad artisti e autori come Anceschi, Enrico Baj, Marchesi, Mulas e Niccolai, partecipa al numero quattordici di BAU..  Muor e a Milano, nella sua casa di piazzale Lavater. Zio di Piero Dorfles, critico letterario della trasmissione televisiva Per un pugno di libri (il padre di Piero, Giorgio, era fratello di Gillo).  Tra i riconoscimenti ricevuti: Compasso d'oro dell'Associazione per il Design Industriale, Medaglia d'oro della Triennale, Premio della critica internazionale di Girona, Franklin J. Matchette Prize for Aesthetics. È stato insignito dell'Ambrogino d'oro dalla città di Milano, del Grifo d'Oro di Genova e del San Giusto d'Oro di Trieste.  È stato Accademico onorario di Brera e Albertina di Torino, membro dell'Accademia del Disegno di Città del Messico, Fellow della World Academy of Art and Science, dottore honoris causa del Politecnico di Milano e dell'Università Autonoma di Città del Messico. Palermo gli conferì la laurea honoris causa in Architettura. Ricevette dall'Cagliari la laurea honoris causa in Lingue moderne.  Onorificenze Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana nastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, Di iniziativa del Presidente della Repubblica» Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte. Altre opere: “Barocco nell'architettura moderna” (Studi monografici d'architettura, Libreria Editrice Politecnica Tamburini, illustrazioni); “Discorso tecnico delle arti, Collana Saggi di varia umanità, Pisa, Nistri-Lischi,Il pensiero dell'arte, Milano, Marinotti); “L'architettura moderna, Collana serie sapere tutto, Milano, Garzanti); “Le oscillazioni del gusto e l'arte moderna” (Forma e vita, Milano, Lerici); “Il divenire delle arti, Collana Saggi, Torino, Einaudi, ed. accresciuta, Torino, Einaudi; Collana Reprints Einaudi, Bompiani); “Ultime tendenze nell'arte”, Collana UEF, Milano, Feltrinelli); XXVII ed., UEF, Milano, Feltrinelli); “Simbolo, comunicazione, consume” (Torino, Einaudi, Il disegno industriale e la sua estetica, Bologna, Cappelli, Kitsch e cultura, in Aut Aut, Nuovi riti, nuovi miti” (Torino, Einaudi, Milano, Skira, L'estetica del mito (da Vico a Wittgenstein), Milano, Mursia, Kitsch: antologia del cattivo gusto, Milano, Mazzotta); “Artificio e natura” (Torino, Einaudi); Milano, Skira, Le oscillazioni del gusto. L'arte d'oggi tra tecnocrazia e consumismo, Torino, Einaudi, Milano, Skira, “Senso e insensatezza nell'arte d'oggi, ellegi edizioni, L'architettura moderna. Le origini dell'architettura contemporanea; I quattro grandi: Wright, Corbusier, Gropius, Rohe); Dall'espressionismo all'organicismo razionalizzato, dall'ornamented modern al brutalismo, ai più avveniristici tentativi attuali, I Garzanti, Milano, Garzanti, Dal significato alle scelte, Torino, Einaudi, Massimo Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Il divenire della critica, Collana Saggi, Torino, Einaudi); “Le buone maniere, Milano, Mondadori, Mode & Modi, Collana Antologie e saggi, Milano, Mazzotta, II ed. riveduta, Mazzotta, Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie” (Torino, Einaudi, L'intervallo perduto, Collana Saggi, Torino, Einaudi, Milano, Skira, I fatti loro. Dal costume alle arti e viceversa, Milano, Feltrinelli, Architettura ambigue. Dal Neobarocco al Postmoderno, Bari, Dedalo, La moda della moda, Collana I turbamenti dell'arte, Genova, Costa e Nolan, La (nuova) moda della moda), Costa & Nolan, Elogio della disarmonia: arte e vita tra logico e mitico” (Milano, Garzanti, Milano, Skira, Itinerario estetico, Milano, Studio Tesi, Itinerario estetico. Simbolo mito metafora, Luca Cesari, Bologna, Editrice Compositori); “Il feticcio quotidiano” (Milano, Feltrinelli, Massimo Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Intervista come auto-presentazione, con tavole di Paolini, Collana Scritti dall'arte, Tema Celeste Edizioni, Preferenze critiche. Uno sguardo sull'arte visiva contemporanea, Bari, Dedalo, Design: percorsi e trascorsi” (Design e comunicazione, Bologna, Lupetti, Fulvio Carmagnola, Lupetti, Conformisti, Roma, Donzelli, Fatti e fattoidi. Gli pseudo-eventi nell'arte e nella società, Vicenza, Neri Pozza, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Irritazioni. Un'analisi del costume contemporaneo, Collana Attraverso lo specchio, Luni, Carboni, Roma, Castelvecchi, Scritti di Architettura, L. Tedeschi, Milano, Mendrisio Academy, Puppo, D. e dintorni, Milano, Archinto, Lacerti della memoria. Taccuini intermittenti, Bologna, Compositori, L'artista e il fotografo, Verso l'Arte, Conformisti. La morte dell'autenticità, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Horror Pleni. La inciviltà del rumore, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi); “Arte e comunicazione: comunicazione e struttura nell'analisi di alcuni linguaggi artistici” (Milano, Mondadori Education, Inviato alla Biennale, A. De Simone, Milano, Scheiwiller, 99+1 risposte, Lorenzo Michelli, Trieste, Comunicarte Edizioni, Movimento Arte Concreta, Sansone e N. Ossanna Cavadini, Milano, Mazzotta, Poesie, Campanotto Editore, L'ascensore senza specchio, Quaderni di prosa e di invenzione, Milano, Edizioni Henry Beyle, Kitsch: oggi il kitsch, Colonetti et al., Bologna, Compositori, Arte con sentimento. Conversazione,Meneguzzo, Collana Polaroid, Milano, Medusa, Essere nel tempo, Achille Bonito Oliva, Milano, Skira, Gli artisti che ho incontrato, Sansone, Milano, Skira, La logica dell'approssimazione, nell'arte e nella vita, Aldo Colonnetti, Estetica senza dialettica. Scritti, al, Luca Cesari,Milano, Bompiani, Paesaggi e personaggi, Rotelli, Milano, Bompiani, La mia America, Sansone, Milano, Skira; "Interviene D.", in alterlinus "Calligaro: parole e immagini", in Preferenze critiche, Dedalo, "Né moduli, né rimedi", in Agalma,  "Disarmonia, asimmetria, wabi, sabi", in Agalma,  "Feticcio", in Agalma,  "Barozzi", in Da Duchamp agli Happening. Il Mondo di Pannunzio e altri scritti, Campanotto Editore, Traduzioni Rudolf Arnheim, “Arte e percezione visive” (Milano, Feltrinelli, Arnheim, Guernica. Genesi di un dipinto, Milano, Feltrinelli); Addio a D. «La mia vita infinita da Giuseppe agli smartphone», su corriere. Cazzullo: la mia vita infinita da Giuseppe agli smartphone, Corriere della sera, il Redazione, Novità formali e riesumazioni di precedenti esempi, il contemporaneo è un linguaggio nuovo di un sapere condiviso, QM, su quid magazine, biografia sul sito delle Edizioni Il Bulino, Galliano Mazzon, Mostra antologia: Civico Padiglione d'Arte Moderna, Milano, Civico Padiglione d'Arte Moderna, Mostra antologia di Mazzon: Civico Padiglione d'Arte Moderna, Milano,Caramel, Arte in Italia, su Dioguardi Gianfranco, Processo edilizio e progetto: vecchi attori alla ricerca di nuovi ruoli, Milano: Franco Angeli, Studi organizzativi. Fascicolo, Corriere della Sera, Cfr. la raccolta degli scritti raccolti in Architetture Ambigue: Dal Neobarocco al Postmoderno, Dedalo, Bari Di Giovanni, Il corpo, nuova forma: la “body art”; Cheiron: materiali e strumenti di aggiornamento storiografico. Lecta web, arte e comunicazione. Vitriol Triennale, Sussidiaria: GPS/GaPSle Forbici di Manitù (BAU14). Celeste Prize BAU 14 Gnoli, D. il rivoluzionario critico d'arte, La Repubblica,  Bucci, Morto, critico poliedrico. Corriere della Sera, Addio ad Alma D., signora di cultura, Il Piccolo, Sito web del Quirinale: dettaglio decorato., su Quirinale, dettaglio decorato., su Quirinale, Intervista su conoscenza.rai. Mandelli, Capire l'arte contemporanea su youtube.com D., «Mi sveglio, lavoro. Amo il vino», in Corriere della Sera, Cazzullo,  la mia vita infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone, in Corriere della Sera.  Natura insieme degli esseri viventi e inanimati considerato nella sua forma complessiva Lingua Per natura si intende l'universo considerato nella totalità dei fenomeni e delle forze che in esso si manifestano, da quelli del mondo fisico a quelli della vita in generale.   Paesaggio naturale Storia del concetto Natura (filosofia). Il termine deriva dal latino Natura e letteralmente significa "ciò che sta per nascere": a sua volta deriva dalla traduzione latina della parola greca physis  Il concetto di natura come una totalità che va a comprendere anche l'universo fisico è una delle molte estensioni del concetto originale; sin dalle prime applicazioni di base della parola φύσις da parte dei filosofi presocratici, esso è entrato sempre più nell'uso corrente.  Questa concezione è stata riaffermata con l'avvento del moderno metodo scientifico negli ultimi secoli.  Natura e ambiente Ambiente (biologia).  I boschi fanno parte del gruppo della Natura. La "natura" può riferirsi alla sfera generale delle piantee degli animali, ai processi associati ad oggetti inanimati, al modo in cui determinati tipi di forme esistono ed ai cambiamenti spontanei come i fenomeni meteorologici o geologici della Terra, la materia e l'energia di cui tutte queste realtà sono composte. Viene inteso come ambiente naturale il deserto, la fauna selvatica, le rocce, i boschi, le spiagge, i mari e gli oceani, e in generale quelle cose che non sono state sostanzialmente modificate dall'intervento umano, o che persistono nonostante l'intervento dello stesso. Ad esempio, i manufatti e le trasformazioni umane in genere non sono considerati parte della natura, venendo preferibilmente qualificati come una natura più complessa.  Più in generale, la natura comprende i seguenti contesti e dimensioni della realtà. La Terra è il luogo primigenio degli esseri umani, che ospita la vita come da noi concepita e conosciuta. Sulla sua superficie si trova acqua in tutti e tre gli stati (solido, liquido e gassoso) e un'atmosfera composta in prevalenza da azoto e ossigeno che, insieme al campo magnetico che avvolge il pianeta, protegge la Terra dai raggi cosmici e dalle radiazioni solari.  La sua formazione è datata a circa 4,54 miliardi di annifa. Vita Le piante (Plantae Haeckel) sono organismi unio pluricellulari, che comprendono tutti i vegetali, soggetti a nascita, crescita, riproduzione e decesso. Gli animali comprendono in totale più di 1.800.000 specie di organismi classificati, presenti sulla Terra dal periodo ediacarano. Il numero di specie via via scoperte è in costante crescita, e alcune stime portano fino a 40 volte di più la numerosità accertata. Delle 1,5 milioni di specie animali attuali, 900 000 sono appartenenti solo alla classe degli Insetti. Ecosistemi. Una tempesta. Gli ecosistemi sono costituiti da una o più comunità di organismi viventi (animali e vegetali), e da elementi non viventi (abiotici), che interagiscono tra loro; una comunità è a sua volta l'insieme di più popolazioni, costituite ognuna da organismi della stessa specie. L'insieme delle popolazioni, cioè la comunità, interagisce dunque con la componente abiotica formando l'ecosistema, nel quale si vengono a creare delle interazioni reciproche in un equilibrio dinamicocontrollato da uno o più meccanismi fisico-chimici di retroazione (detti anche "feedback"). Troll, dall'esame di alcune serie storiche di foro aeree, notò che gli ecosistemi mostravano una tendenza ad aggregarsi in configurazioni unitarie (denominate principalmente Macchie, Isole e Corridoi). Ricordando la dizione di Humboldt, Troll chiamò tali formazioni "paesaggi". L'ipotesi Gaia è la teoria, inizialmente avanzata da Lovelock, ma già anticipata da Keplero, secondo la quale tutti gli esseri viventi sulla Terra contribuirebbero a comporre un vasto ed unico organismo (chiamato Gaia, dal nome della dea greca), capace di autoregolarsi nei suoi vari elementi per favorire a sua volta le condizioni generali della vita.  Naturale e artificiale. Natura e artificio. Il concetto più tradizionale della natura, che può essere usato ancora oggi, implica una distinzione tra naturale ed artificiale: con "artificiale" si intende cioè che è stato creato dall'opera o da una mente umana. A seconda del contesto, il termine "naturale" potrebbe anche essere distinto dall'innaturale, dal soprannaturale e dall'artefatto.Bottega dello scultore, miniatura che raffigura l'opera umana di modifica degli elementi e degli arredi naturali Le difficoltà nella definizione stessa della naturacomportano un'ambiguità nel rapporto tra uomo e natura. Alle volte il concetto è usato in senso derivato per riferirsi a quelle zone create dall'uomo, ma dove grande spazio è riservato alle popolazioni vegetali e animali. Si può parlare ad esempio della natura di una foresta, anche se coltivata e sfruttata da secoli. In tal caso ci si riferisce a una modalità di gestire l'ambiente da parte degli umani, piuttosto che all'assenza di intervento umano.  L'idea di natura è stata rielaborata dalla cultura urbanache ha formulato la mitica nozione di barbarie per definire tutto quanto si pone al di fuori della civiltà. Il fatto che il termine selvaggio vienne usato da un lato come sinonimo di naturale, dall'altro per denotare certi atti come particolarmente violenti o efferati, mette in evidenzia una certa tendenza ideologica, piuttosto inconsapevole, a considerare parte della natura come estranea alla culturadominante, come qualcosa di primitivo se non di malevolo. Paradossalmente accade anche che, in altri contesti, la parola «naturale» possa venire usata nel linguaggio corrente come sinonimo di normale, legittimo o logico, come la fonte cioè dei principi più retti dell'uomo civilizzato. Lo sviluppo della scienza e della tecnologia negli ultimi due secoli è stato a sua volta in gran parte accompagnato da una certa contrapposizione ideologica tra uomo e natura; la conoscenza viene generalmente considerata uno strumento di dominio della natura piuttosto che un mezzo per vivere in armonia con essa. L'epoca moderna ha visto d'altra parte lo sviluppo della teoria della legge naturale, che pone in risalto i diritti dell'uomo, il quale sarebbe stato dotato dalla natura di prerogative inalienabili; in tale contesto si fa riferimento ad una natura umana senza implicare necessariamente l'appartenenza ad una natura ancestrale. Tutela della natura. Lo sfruttamento del suolo e il problema dello smaltimento dei rifiuti procede di pari passo con la crescente urbanizzazione. La crescente industrializzazione ed urbanizzazione del pianeta ha posto il problema della conservazione della natura in forme nuove e sempre più urgenti. Agli ambienti naturali si sono andati via via sostituendo paesaggi artificiali, che oltre a distruggerne l'amenità, ne hanno alterato la loro peculiare storia ecologica. Sin dalla preistoria l'uomo è intervenuto a modificare il paesaggio naturale, attraverso disboscamenti e l'introduzione di colture e animali di importazione, con grave danno per la flora e la fauna locali, oltre che di quelle non addomesticabili. Ma è stato soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale che l'umanità si è dotata di mezzi molto più invasivi, che deturpano gli ambienti fino a provocarne spesso la desertificazione. Fra le principali cause della distruzione della natura vi sono:  inquinamento, ed emissioni di gas serra; sfruttamento delle risorse naturali, deforestazione, agricoltura intensiva con uso di pesticidi, pescamassiccia; estinzione di numerose specie viventi; ignoranza dell'ambiente biofisico, mancanza di cultura ecologica. Alle alterazioni della natura ha contribuito inoltre la crescita esponenziale della popolazione umana, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo.[2]  Con la ricerca scientifica si riesce soltanto a rimediare per lo più parzialmente ai danni, cercando di razionalizzare lo sfruttamento del suolo, arginare la diffusione dei parassiti e limitare l'inquinamento. Per il resto, la lenta crescita di consapevolezza dell'importanza di tutelare la natura nei paesi industrializzati ha portato a provvedimenti come l'istituzione dei parchi naturali. Dopo la seconda guerra mondiale sono sorte alcune organizzazioni internazionali per la difesa della natura come l'IUCN, il WWF, l'UNESCO, l'UNEP. Dagli anni ottanta le varie nazioni del pianeta hanno iniziato a partecipare a delle conferenze su scala globale per trattare soprattutto dei problemi del clima, con risultati di scarsa efficacia. Ducarme e Denis Couvet, What does 'nature' mean?, in Palgrave Communications, Springer Nature, Natura, su treccani.i Newman, Age of the Earth, in U.S. Geological Survey's Geologic Time, Pianta, su treccani Baccetti B. et al, Trattato Italiano di Zoologia nsect Species, su infoplease. Rawls, Lezioni di storia della filosofia morale, Feltrinelli, Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Feltrinelli, Brevini, L'invenzione della natura selvaggia. Storia di un'idea dal XVIII secolo a oggi, Bollati Boringhieri, Pollo, La morale della natura, Belardinelli, La normalità e l'eccezione: il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Rubbettino. Voci correlate Ambiente naturale Ecologia Filosofia della natura Ipotesi Gaia Natura (filosofia) Naturalismo Scienze naturali natura, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. natura, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Natura, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere riguardanti Natura, su Open Library, Internet Archive. Natura, in Catholic Encyclopedia, Appleton. Ducarme e Couvet, What does 'nature' mean?, in Palgrave Communications, Springer  Portale Ecologia e ambiente   Portale Scienza e tecnica Ecosistema porzione di biosfera delimitata naturalmente  Ecologia branca della biologia che studia le interazioni tra gli organismi e il loro ambiente  Ecosistema terrestre Madre Natura personificazione della natura Lingua Segui. Madre Natura è la personificazione della natura. Werner,  Diana di Efeso come allegoria della Natura, circa Caratteristiche Madre Natura, figura dal trattato Atalanta Fugiens Essa (a volte conosciuta come Madre Terra) è la comune personificazione della natura focalizzata intorno agli aspetti di donatrice di vita e di nutrimento, incarnandoli nella figura materna. Immagini di donnerappresentanti madre natura, o la madre terra, sono senza tempo.   In età preistorica le dee erano venerate per la loro associazione con la fertilità, la fecondità e l'abbondanza agricola. Le sacerdotesse mantenevano il dominio di vari aspetti religiosi delle civiltà Inca, Algonchina, Assira, Babilonese, Slava, Germanica, Romana, Greca, Indiana e Irochese per millenni prima dell'inizio delle religioni patriarcali.  Talvolta viene indicata come la sposa di Padre Tempo. Grande Madre Gea Tellus Mati Zemlya PachamamaTeteoinnan dea azteca della guarigione, e dei bagni di vapore.  Madre Russia personificazione nazionale della Russia  Padre Tempo personificazione del tempo. Gillo Dorfles. Angelo Eugenio Dorfles. Dorfles. Keywords: filosofia del kitsch, “Artificio e Natura, natura, artificio, communicazione, mito, simbolo, segno, linguaggio, interpretazione, semiotica, disarmonia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dorfles” – The Swimming-Pool Library. Dorfles.

 

Grice e Doria: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --  scuola di Genova – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo geovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “I love Doria: a nobleman who should be sailing off Portofino, is writing a ‘progetto di metafisica’ after discussing the ‘filosofia degl’antichi’ – you HAVE to love him! Plus, he philosophised WHILE sailing!” Figlio di Giacomo e Maria Cecilia Spinola, appartenente alla nobile casata dei Doria Lamba dalla quale provennero ben quattro dogi della repubblica di Genova, ha un'infanzia travagliata segnata a cinque anni dalla morte del padre. L'uscita dalla famiglia delle tre sorelle lo fa rimanere solo con la madre che influenza negativamente il suo carattere melanconico ma vivace, il suo desiderio di virtù e Gloria. La madre, che egli accusa esser stata de' miei errori la prima e principal cagione, si era disinteressata del figlio limitandosi ad affidarne l'educazione a filosofi bigotti che lo fano crescere con la paura delle malattie e della morte, che gli viene indicata dai suoi educatori gesuiti come un positivo castigo all’uomino re. Divenne quindi vivace e grazioso nelle conversazioni affabile con tutti, facile e condiscendente con gli amici e allo stesso tempo pieno di sé e fatuo divenendo un Petit Maitre disinvolo e alla moda, e prende per idea di virtù vera ed esistenta ogni vanità e molte volte prende con l’idea di virtù il vizio ancora! Pieno di sé e fatuo. Compì con la madre il “grand tour” – Firenze, Capri, Girgentu -- dei ‘viri’ ben nato dal quale ne usce libero dall’inibizione religiosa, ma con un nuovo abito di un anima viziosa, la quale lo fa mirare come idea di virtù la rilassatezza nel senso, la prepotenza con i deboli e la vendetta. Tornato a Genova, la trovò bombardata dal mare dalle navi di Luigi XIV. In quell'occasione conosce il conte di Melgar che l’avvia nell’arte militare e lo introduce nel giro del patriziato mondano. Innamoratosi fortemente di una meritevole donna che muore poco tempo dopo, cadde in depressione e per distrarsi dal dolore riprese i suoi dispendiosi viaggi. Ridotto in ristrettezze economiche si reca a Napoli per recuperare certi suoi crediti ma dove lottare per districarsi dalla palude di leggi e cavillose procedure al punto che si mise a studiare filosofia con un certo profitto per ottenere dal tribunale quanto gli spetta.  La sua fama di spadaccino gli fa guadagnare la simpatia del patriziato napoletano che ritiene massime di cavagliero che fusse atto di disonore e di vergogna il non punire un uomo a sé inferiore quando si ha da quello qualche offesa ricevuto, e che il perdonare generosamente fusse vergogna. Ma poscia era massima d'estrema vergogna il non chiamare a duello un nobile a sé uguale quando da quello si era qualche offesa ricevuta. Si diede quindi a duellare per qualsiasi puntiglio cavalleresco tanto da essere messo in prigione aumentando così la sua fama di duellista e vendicativo presso la nobiltà locale. Comincia a disgustarsi di questa sua vita fatua e falsa trasformandosi in filosofo metafisico ed entrando nella cerchia degli intellettuali cartesiani e gassendisti che caddero sotto l'attacco della Chiesa preoccupata che il loro sensismo approdasse a un conclamato materialismo. La posizione della Chiesa fu esplicitata dal grande processo contro gl’ateisti, quegli intellettuali che si erano illusi di poter modernizzare la dottrina cattolica.  Si schierò con questi frequentando il salotto filosofico Caravita che si era già battuto contro l'Inquisizione e che era divenuto il centro di diffusione della filosofia cartesiana. Qui D. ha modo di conoscere il protetto di Caravita, quel VICO (si veda) che scriverà del genovese che «fu il primo con cui poté cominciare a ragionar di metafisica nella quale si intravedevano «lumi sfolgoranti di platonica divinità. Per organizzarsi contro le polemiche dei tradizionalisti, sostenuti dalla Chiesa cattolica, il Caravita pensò di fondare un'associazione di intellettuali modernisti che, dopo diverse difficoltà, finalmente vide la luce col nome di Accademia Palatina e che annoverava fra i 18 soci fondatori anche Doria che pronunzia in quella sede lezioni concernenti la teoria politica (Sopra la vita di Claudio imperadore) dove sostene la superiorità della nobiltà per virtù e non per nascita, e dove contestava la base valoriale dell'aristocrazia fondata sull'uso delle armi (Dell'arte militare, Del conduttor degl'eserciti, Del governatore di piazza, Della scherma). La guerra, scriveva D., non e un privilegio della nobiltà di spada ma un'attività che richiede l'applicazione di una tecnica e il comando affidato a ufficiali competenti nel dirigere l'animo umano (Il capitano filosofo, Napoli)  Pubblica la Vita civile e l'educazione del principe, criticata da alcuni per alcuni fraintendimenti sul pensiero di Cartesio. Non ha inteso il Cartesio, o  ad arte ne tronca o perverte il senso. Critica la politica di Tacito e Machiavelli sostenendo che questa va basata non sopra l'idea degli uomini quali sono ma sulla virtù, il giusto e l'onesto». Lo Stato anda guidato, come dettava l'insegnamento platonico, dal filosofo facendosi così sostenitore, secondo le nuove idee riformatrici che cominciavano a circolare in Europa, di un assolutismo moderato nel Regno di Napoli. Doria cominciò ad interessarsi a temi scientifici mandando alle stampe le sue Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili e de' corpi insensibili (Augusta) e una Giunta d iM. Doria al suo libro del Moto e della Meccanica. Opere queste, dove si critica il metodo di GALILEI (si veda) e si mette in discussione la distinzione cartesiana fra res extensa e res cogitans in nome del principio neo-platonico dell'Uno immateriale, che non ebbero il successo sperato e vennero anzi aspramente criticate da più parti. Divenne un personaggio ambito da nobili e femmes savantes che lo invitavano nei loro circoli culturali dove riceve numerosi attestati di stima. Per ricambiare le nobili dame, sue discepole, pubblica i Ragionamenti ne' quali si dimostra la donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all'uomo inferior. La donna ha gli stessi diritti naturali dell’uomo e puo governare e fondare grandi imperi ma non e adatte fisiologicamente a formulare leggi per le quali occorre una sapienza storica e filosofica. Cartesio infatti aveva errato nel credere che Dio avesse dato a tutti eguale abilità per intender le scienze, mentre iddio non ha ugualmente a tutti gli uomini distribuito e perciò vediamo che molti non son capaci nelle scienze. Quindi la donna che egli ammirava moltissimo e che lo ricambiavano con tante lodi, deve tuttavia accontentarsi di poter dirigere lo stato ma non puo essere legislatrice. Un rapporto questo con l'altro sesso che rimase problematico per Doria che non volle mai sposarsi ritenendo il matrimonio una legge dura che non trova precisa corrispondenza nella teologia. Si considera ormai un filosofo metafisico e mattematico che adottando il platonismo ha pressoché distrutto li saggi di filosofia di Locke ed in parte ancora la filosofia di Cartesio. Compiva un capovolgimento delle sue convinzioni moderniste passando nel campo degli antichi quando il suo Nuovo metodo geometrico (Augusta) e i Dialoghi ne' quali s'insegna l'arte di esaminare una dimostrazione geometrica, e di dedurre dalla geometria sintetica la conoscenza del vero e del falso (Amsterdam), furono aspramente criticati da parte della rivista Acta eruditorum. Ancora più aspre le contestazioni ricevute a Napoli che gli costarono un sonetto denigratorio che così recitava. Di rispondere a te nessun si sogna /de' nostri, e strano è assai che Lipsia mandi/ risposta a un uom che 'l matto ognun lo noma.  Illustrazione alla recensione pubblicata sugli Acta Eruditorum al Capitano filosofo. Gl’Oziosi, dove profuse tutte le sue energie nel criticare i moderni, seguaci del pensiero filosofico di Locke, dell'Accademia delle scienze di Celestino Galiani che aveva detto di lui «il Doria ha ristampato tutte in un corpo le sue coglionerie. Con l'avvento del re riformista Carlo III di Borbone nel Regno di Napoli, si trova completamente isolato col suo platonismo pratticabil che continua a difendere scrivendo “Il Politico alla moda”. Si rendeva ormai conto di come fosse irrealizzabile il suo ideale di un governo ad opera del concetto di “sovrano virtuoso” e di “filosofe legislatore.” Il magistrato, il capitano, il sacerdote e tutti gli ordini che governano hanno diviso la filosofia dalla politica per unire alla politica la sola prattica; ormai i principi scriveva vogliono governare lo stato colla politica del mercadante, e non con la politica del filosofo. Constatava come vi fosse ormai una generale crisi dei valori perché in questo nostro tempo si corre dietro solamente alla perniciosa filosofia di Locke e di Newton e si pratica solamente la politica mercantile. Completamente ignorato dall'ambiente intellettuale, D. malato e in difficoltà economiche muore indicando nel suo testamento la volontà che fosse pubblicata a spese di un suo cugino, a saldo di un debito da questi contratto, l'opera “Idea di una perfetta repubblica”. Quando il saggio e infine edito fu condannato dai revisori ad essere bruciato per il suo contenuto contro Dio, la religione e la monarchia. In realtà contesta il celibato ecclesiastico, l'indissolubilità del matrimonio, la castita, l'eternità delle pene inflitte ai dannati e l'ideologia etico-politica dei gesuiti.  Il governo perfetto doveva essere a imitazione di quello della Roma repubblicana, perché posto il governo in mano agli uomini, è forza che sia moderato da un magistrato ordinato alla difesa del popolo contro la tirannia. Gli unici a esecrare il rogo del saggio furono proprio i giuristi napoletani difendendo i libri di quel savio e cordato vecchio di D., di cui s'infama la venerata memoria. E al centro del saggio “La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli”. Si argumenta che il governo nell'azione di depredazione del Regno di Napoli ha spogliato i loro sudditi della virtù e della ricchezza, introducendo al posto loro ignoranza, infamia, divisione e infelicità. Altra azione, che si rivelerà in seguito disastrosa per la società napoletana e in genere per il Mezzogiorno, fu lo smantellamento dei rapporti inter-personali di fiducia tra le diverse classi, necessari per lo sviluppo dei commerci e dell'iniziativa privata e l'introduzione di una cultura dell'onore attraverso l'infoltimento dei ranghi nobiliari, il rafforzamento dell'Inquisizione, l'inasprimento della segretezza dell'attività di governo, l'incremento delle cerimonie religiose e di devozione ritualizzata, l'aumento della diseguaglianza davanti alla legge e infine l'indebolimento apertamente perseguito del rapporto armonioso che si era creato in passato tra i diversi ordini del Regno: tutto ciò al fine di scoraggiare, minando la fede pubblica, l'ascesa di una classe imprenditoriale-commerciale che avanzasse i propri diritti e rompesse l'equilibrio dei poteri tra la corte e il patriziato locale che gli spagnoli intendevano mantenere. Tutti questi fattori, lesivi di quel rapporto di fiducia tra le classi necessario per l'avvio e il consolidamento dell'attività di co-operazione e di intrapresa economica, non tarderanno a produrre effetti duraturi sulla società meridionale, non solo a livello mentale-culturale, e di converso a livello economico, costituendo uno dei fattori prodromici dell'arretratezza socio-economico-culturale del Mezzogiorno d'Italia. Altre opere: “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili, e de' corpi insensibili, In Augusta [i.e. Napoli?, Hopper); “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de'corpi sensibili, e de' corpi insensibili. Giunta, In Augusta [i.e. Napoli?, Daniello Hopper; Dialoghi, Amsterdam, Esercitazioni geometriche, In Pariggi, Duplicationis cubi demonstration” (Venezia); “Discorso apologetico” (Venezia); “Soluzione del problema della trisezione dell'angolo” (Venezia); “Vita civile” (Napoli, Angelo Vocola. Pierluigi Rovito, Dizionario Biografico degli Italiani.  “L’arte di conoscer se stesso, in De Fabrizio, Manoscritti napoletani. Autobiografia, in Cristofolini, Opere filosofiche, R. Ajello, Diritto ed economia, Vita civile, ed. Augusta, S. Rotta in Politici ed economisti del primo Settecento. Da Muratori a Cesarotti, V, Milano-Napoli, L'arte di conoscere se stesso. Eugenio Di Rienzo, GALIANI, Celestino in Dizionario Biografico degli Italiani, V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, Manoscritti, La Politica mercantile, Manoscritti, Idea di una perfetta repubblica  "accorato"  Ajello. Segnatamente: Del commercio del Regno di Napoli, in E. Vidal, Il pensiero civile di D. negli scritti inediti, Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma; Della vita civile, Torino; Massime del governo spagnolo di Napoli, V. Conti, Guida, Napoli Contenuto nel volume miscellaneo Gambetta, Le strategie della fiducia, Einaudi, Torino, D. Gambetta, Rovito, «DORIA, Paolo Mattia», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scazzieri, Il contributo italiano alla storia del Pensiero Economia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Belgioioso, Il Contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Vidal, Il pensiero civile di D. negli scritti inediti, Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma. Fondatore di Roma e primo re de' romani. Romolo fu il primo re de’ romani e padre della romana republica. Uomo primieramente d’ardentissimo animo e per le armi grande. E così fatto certamente l'aveva disposto la fortuna a quello che dovea seguire. Per  la cui opera, in tratante minaccie di vicini , di spinose montagnie surgesse il fondamento dello’mperio che dovea crescere infino al cielo. Perchè  non si potea porre sicuramente tanta  grandezza in debole fondamento. Sì  gran cosa richiedea terra salda e duca  d’alto animo. E così e, che dove  prima a pena e assai erba per lo armento d’Ercole, e dove prima a pena solea essere assai fronde per le capre di Faustulo, in quello luogo puose la fortezza di tutte le terre e  la somma signoria delli uomini. Dunque costui CON REMO SUO FRATELLO (e  insieme con Rea Silvia, la quale e chiamata Ilia, madre senza dubio)  creduto o fitto FIGLIUOLO DI MARTE, incontanente com’elio nacque prova la  crudeltà di Amulio, re dell’albani, e  non solamente contro alla madre, ma eziandio contro a sé e CONTRO AL SUO FRATELLO. Dal quale Amulio e comandato eh' ellino fossero gittati NEL TEVERE. E a caso elli sono liberati, o che fosse per divina provedenzia, la  qual cosa è lecito di credere dello  imperio che dovea essere sì grande, quella provedenzia apparecchiante non  sperato cominciamenlo alle grandissime cose. Soperchiando il fiume a  caso le ripe e non potendosi andare  a quello, furono gittati quelli fanciulli presso alla ripa; e, partendosi li famigliari del re, i quali li avevano gittati, rimasono salvi. A questo luogo, TRATTA DAL PIANTO DI QUESTI FANCIULLI,  venne una lupa (o eh' ella fosse vera o ch'ella fosse cosa finta, dell'una  e dell' altra è nominanza), e, com’ella avesse compassione, venne a questo luogo, del cui latte elli sono nutricati , traendo con li labri il latte delle tette della detta fiera, infino che furono trovati da Faustulo pastore del re, il quale di sopra avemo nominato, e la lupa similmente,  essendo discresciuto il fiume; e in fino agli anni della pubertà coli' amore  del padre sono nutricati. Ma allora  più di dì in dì il suo vigore si mostrava e per effetto diventava Famoso. Già sono cari da ogni parte e ampiamente sono terribili, ogni cosa ardivano; già il suo notricatore, per le  opere informato, comincia a fermarsi in quella openione ch'egli aveva  pensalo, cioè quelli essere figliuoli  del re. Questo celato per alcuno tempò, finalmente apparve: preso Remo da' famigli del re e datogli pena, per  consolare la ingiuria fu dato a NUMITORE suo avolo per parte di madre,  nel cui terreno tramendue i frategli  avevano fatte correrie. Il quale veduto, non mosso ad ira, com'è usanza, per l' ingiuria ricevuta, ma mosso verso di quello con una nascosa dolciezza, e udito ch'elli sono due, considerato da l'una parte l'etade di quelli,  da l'altra l'aspetto nobile e non di pastori, vennegli a memoria i suoi  nipoti; e , dimandando pianamente  delle circostanzie, trova poco  meno che costui e l' uno de' suoi  nipoti, e di questo non dubita. Però  elio il tene in più libertà, e non  come preso ma come suo , come veramente elio e. E questa e più  diritta via a distruzione del re, perchè manifestato a Romolo non solamente la condizione del presente stato  del fratello, ma la nazione di tramendue nascosta infino a quello tempo;  ammonendoli colui, ch'e tenuto padre, ch'elli non sono suoi figliuoli  ma sono di schiatta reale; e, spostali  per ordine l’ingiuria di quegli e con  questa l’ingiuria di suo avolo e di  sua madre, fatto Romolo più animoso , conosciuto il fatto , dispuosesi non  solamente a LIBERARE IL FRATELLO, ma  vendicare sé e '1 fratello e l'avolo e  la madre, non manifestamente perchè  era dispari in possanza , ma pianamente mandati alcuni giovani di qua e di là, i quali si trovassono a una ora nella casa del re. Così disposti gl’agguati, e a tempo accorrendo Remo, corsono contra Amulio, il quale non  si guarda e non pensa sì fatto  pericolo. Morto Amulio, NUMITORE fratello di quello, e innanzi cacciato da  lui, fu ristituito nel regno, essendo  allegro, non meno per la condizione  de'trovati nipoti, che per avere acquistato il nonne sperato regnio. Da poi,  perchè elli erano di grande animo, e '1 regno di suo avolo gli paree picciolo, lassano Alba all'avolo. E, amando il luogo della sua puerizia ovvero  del suo pericolo, procurarono di fondare nuova terra in quello luogo. E  così, per buono agurio, edificarono  aspera e, acciò ch'io dica più propriamente, pastorale casa in SUL MONTE PALATINO. E fu posto alla terra il nome di Romolo solamente, essendo vinto il fratello nello agurio: il quale  nome e temuto poi al mondo da li  popoli e dai re. Poi, o che tra quelli fosse nata discordia, o che fosse perchè egli avesse dispregiato il comandamento del fratello, Remo, avendo  passato il nuovo muro, E MORTO. O  che e per cupidità della signoria, o per rigore di giustizia, la credenza  è varia nelle cose antiche. Romolo,  avendo presa la signoria, ordina sacrifici della patria e forestieri, e prende  abito di re e ornamenti, e ordina  XII littori, e compone la legge.  Solo a fermezza del popolo e fondamento di pace e di concordia tre cose  sommamente li pare di provedere :  il consiglio , e io accrescere della cominciata città, e la durabilità; perchè era in picciola terra pochi abitatori. E per questo gli e speranza  di brevissimo tempo, mancando la  cagione del generare de' figliuoli. Dunque primieramente furono eletti C  antichi al Senato, chiamando questo  ordine dalla etade, perchè il nome  de' padri e detto dallo amore e da la  cura della republica. Secondo, intra  due boschi fu posto uno tempio chiamano asilo -- i greci il chiamano santo -- il quale stando aperto, grande  turba incontanente venne di vicini  paesi; la terza cosa parea che si dove fare con matrimoni -- perchè soli  i maschi non poteano durare se non  una etade -- ; la qual cosa , perchè e negata da' vicini superbamente e vituperosamente, si fa per forza e per  ingegnio. Perchè in questo mezzo,  non mostrando l'ira e il dolore d'essere rifiutato, il re apparecchiò di fare solenni giuochi a Nettunno , e comanda di fare dinunziare il dì per li popoli vicini. II quale poi che sopravenne, molti maschi e femmine delle  terre vicine a Roma vennero per vedere i giuochi, e non meno per cupidità di vedere quella nuova terra  quasi nata di subito. Nel mezzo de’ giuochi, essendo ogni uomo attento  con gli occhi e con l'animo, diliberatamente SONO PRESE TUTTE LE FANCIULLE,  non a fine di sua vergognia, ma di  tenerle per mogliere e per avere figliuoli. Dunque confortate con buone  parole, tra lo isdegno e le lacrime, pelle lusinghe di quegli li quali l'aveano  prese, prima Romolo, e poi gli altri , una per uno ne tolseno per moglie: e questo e cagione e cominciamento di molte battaglie. I padri e  i parenti di queste fanciulle, lamentatisi della forza e della malvagità de'  suoi osti, dai quali ellino, invitati a  giuochi, sono stati offesi per gravissima ingiuria, incontanente uscirono fuori della terra e tornarono a casa;  e, moltiplicando le lamentanze, aggravarono l'offesa, e pigliarono l'arme  e apparecchiaronsi di fare la vendetta.  E di lutti i popoli si fece una raunanza a Tazio re de' sabini, perchè questi avevano più possanza e  aveano ricevuto più ingiuria. Ma perchè la presuntuosa ira non può indugiare né ricevere consiglio, e perchè  l'apparecchiamento alla guerra pare pigro per rispetto dello ardore dell'animo, ciascheduno, non aspettando l'uno l'altro, andarono alla battaglia. E innanzi a tutti i ceninesi con l' oste corsero nel terreno de' romani : contro  ai quali venendo Romolo, mise in  rotta i nimici, e UCCIDE ACRONE, re  di quelli, venuto alle mani con lui in  singolare battaglia; e, con lieve assalto, prende la terra di quelli, la quale  era impaurita per la morte del re e  per la fuga del popolo. E, tornando  a Roma vincitore, porta in Campidoglio l'armi del re ed edifica lo primo tempio in Roma e sacrificollo sotto il nome di GIOVE Feretrio -- dove  i capitani de' romani non portano,  quando sono vincitori, se non la  preda de' capitani vinti in singolare  battaglia, la quale elli chiamano  grassa robarìa. Dunque in quello  luogo egli appicca l'armi del morto re, per esempio del tempo da venire,  rado ma grande dono di quelli che  venieno dietro. I secondi che corsono nel terreno de'romani furono gli atennati; e questi sono vinti e perderono la terra. Ma per prieghi di Ersilia, moglie di Romolo, la quale e una di quelle sforzate che porta a  gli orecchi del re i prieghi e i desideri dell'altre, ricevuti a misericordia, venneno ad abitare a Roma. Da  poi i crustumini, movendo elli la  guerra, sono vinti leggiermente,  crescendo ogni dì la virtù di Romolo; e, venuti a Roma quelli chi sono vinti, crescendo Roma per li danni  de'nimici. E più a fare colli sabini,   i quali quanto più tardi tanto più  maturamente si moveano: presa la  rocca di Campidoglio, per tradimento  d'una donzella figliuola di Spurio Tarpeo, il quale era castellano della delta  rocca, dal quale ancora è nominato  quel monte in mezzo di Roma, e  dubiosa battaglia, combattendo quelli  dal luogo di sopra. Nella quale battaglia mancando Osto Ostilio, il quale  e arditamente per la parte de' romani infino ch'elio puo, la gente de'  romani tutta si cessò in dietro, cacciando indietro eziandio Romolo il  quale li contrasta. E elli, non sperando già più della forza umana, dirizzando al cielo le armate mani, chiamando  Giove com' elio e presente, pregando o che gli togliesse la vergogaia del fuggire vilmente, o eh' elli  fortificasse gli abbattuti animi de' suoi  con celestiale aiutorio, fa voto di  fare in Roma uno secondo tempio a  GIOVE STATORE, secondo che piace agli  scrittori; e, quasi ricevuta la promissione dal cielo, fatto più ardito ristoroe con sollecita mano la battaglia  già caduta, dicendo a'suoi chiaramente  che Giove comanda così. Per questo  la sua gente, seguendo lo esempio  del suo re e il comandamento di Giove, torna contro a'nimici, da' quali  non speravasi ch'egli tornassino; e  combattendo innanzi a gli altri aspramente Romolo, essendo già mutata la  condizione della battaglia, quelli che  incalzavano cominciarono a fuggire.  Intra i quali MEZIO CURZIO, secondo  dopo il re de' sabini , uomo famosissimo e in quello di 'nanzi a tutti gli  altri in fatti e in virtù molto ardito, non sostenne il furore. Una palude,  ch'era presso, e pericolo e salute a  lui, nella quale spaurito il suo cavallo furiosamente salta con grande  paura de' suoi, ma confortandolo elli  e mostrandogli la via, usce fuori. E  di questo nacque il nome di quella  palude, cioè, lago Curzio. Uscitone  fuori costui, gli animi crebbono a'   suoi, e ancora, bene che con varia  fortuna contro a' sabini, corsono insieme. E, sendo in questo stato, la  pietà trova via di non sperata pace. Combattendo dall'una parte i mariti,  da l'altra parte i padri, vennero tra  questi quelle eh' erano state sforzate;  e, non considerando sé essere femmine , non temendo il pericolo, con prieghi pieni di lagrime e misero abito,  pregarono che fosse posto fine alla  guerra. E se voleano pure andare  dietro, volgessono le spade più tosto contro a quelle, le quali erano cagione della guerra , che, uccidendosi  insieme, bruttassono se di presente  e per lo tempo a venire bruttassero li figliuoli di quelle -- dall'una parte  essendo i figliuoli, dall'altra essendo  i nipoti --- e dessono eterna infamia a  quelli che ancora non poteano peccare. Dall' una parte e dall' altra si piegano gli animi e l'ira s'abbattè e,  che maraviglia è a dire, subitamente  nell'una oste e nell'altra fu arrestato il romore dell'armi e il gridare de’ combattitori, sì umile ammirazione e intrata per quelle rabbiose menti!  E non potè lungamente stare nascosta: le affezioni mutate incontanente  uscirono fuori, e lo riposo segue  a la pietà , e la pace segue al silenzio; la concordia e fatta toccandosi i re le mani, e Roma maravigliosamente crescette per lo venire  de' sabini. E non meno crebbe Y amore dell'una parte e dell'altra verso di  quelle valenti donne, e innanzi a gli  altri di Romolo, il quale rendè loro  grandi e debiti onori. Ancora restano due guerre. L'una colli fìdenati li  quali, temendo la potenzia della signoria di Roma, la quale cresce,  e avendola sospetta , per sé fecero la  pruova che gli altri aveano fatta. Entrando elli nel terreno de'romani come  nimici, Romolo li anda incontro, e  puose il campo non lungi dalla terra  de' nimici; e, mostrando maliziosamente temere, conduce i nimici nelli agguati, e di questo e una non proveduta paura e uno subito fuggire,  in tanto che , mischiati insieme i vinti  e i vincitori, le guardie delle porte appena discerneano i suoi cittadini da’ nimici; e, entrati dentro, e presa la  terra. L'altra guerra e con quelli da Veio, li quali si mossono per amore de’ fìdenati e per odio de’ romani, e  questi, vinti in campo, e guasto il  paese, dimandando pace, fecero triegua per cento anni, perdendo parte  del suo terreno. Questi furono i cominciamenti di Romolo, questo e il  corso di sua vita e l’ordine de’ suoi fatti; per li quali, appresso quella salvarla generazione d' uomini e non  ancora assai ammaestrati animi del  vulgo, egli merita essere creduto avere alcuna divinità per lo padre e per  se. Uomo al quale non manca animo né ingegnio, in battaglia glorioso, in  casa savio: ordina centurie del popolo e di cavaglieri, acciò che in ogni  tempo di pace e di guerra elio e   niuno nega ch'elio non e inolio  amato. Le opinioni di questa cosa sono varie. Alcuni dicono ch'elio e portato in cielo e posto nel concilio delli  dei. Ma questo è gran salto a uno  uomo armato e gravato di peccati,  bagniato di sangue e ignorante del  vero Iddio e della via del cielo. Ma  lo ardente e non temperato amore sì  fa credere ogni cosa. Dunque, achetata la tempesta, essendo risposto da'  senatori -- eh' erano stati d'intorno -- al  popolo -- disideroso di vedere il suo  re e a pruova cercandolo -- eh' elio e andato in cielo, affermando uno eh' e' lo ha veduto, e creduto. E  quello  e GIULIO PROCULO, uomo di  grande nominanza appresso a' suoi,  secondo che si trova, e di grande santitade e, che manifesto è, di gran nobilitade, come colui che, nato di re  albani, venne a Roma con Romolo ed e cominciamento della giente de’ Giuli -- il quale, ardito di venire in  palese, da parola d'allegrezza al popolo eh' e in tristizia , dicendo che in quello medesimo dì Romolo, discéso da cielo in abito più che d'uomo, e stato con lui, affermando eh'  ha comandato a lui, con grande tremore non ardito di guardare  la sua facia,  questo, cioè eh' egli  dicesse a' suoi cittadini che onorassino l'arti delle battaglie, essendo certi  che ogni potenzia umana è diseguale  alla sua in fatti d'arme; e che la sua  città, così piace alli dei, sarà capo  e donna di tutte le terre. E, dette  queste parole, levatosi da gli occhi  monta in cielo. E queste cose sono credute a GIULIO il quale le conta e giura, e lo dolore della morte e mitigato con lo consolamento della  divinità, e l'ira, la quale il popolo  ha concetta per la morte di sì caro  re, e umiliata: così ogni uomo crede leggiermente quello ch'elli desidera. Ma altri pensano che e morto  da' senatori, veduto il buon destro  per la tempesta del tempo, e ch'elli   il nascosono nel pantano della palude,  acciò CHE NON APARE ALCUNO SEGNIO DELLA SUA MORTE. Questa, chente dice  Livio, è oscura fama, ma, come  piace a chiarissimi scrittori, certamente è vera; bene che, come dice quello  nel medesimo luogo, quell' altra fu  nobile per l'ammirazione dell'uomo  e per la presente paura. Puossi forse  credere ancora quello che alcuni hanno  pensato, eh' elio non e portato per  divinità in cielo né in terra morto come uomo, ma eh' elio fu morto per  la lempestade e per lo furore della  saetta -- la cui forza è ineffabile, e  l' operazione è nascosa --. E questo essere avvenuto a tutti quegli sono con lui, i quali, quanto elli sono più  presso, tanto sono smarriti più e  impauriti. E la libertà è di molte mani nelle cose dubbiose, ma la verità  è una sola, e questa è profondamente  nascosta della morte di Romolo come  in molte altre cose. Paolo Mattia Doria. Doria. Keywords: co-operazione, duelo – duel, the duelists, cooperation – il sensismo, roma repubblicana, la aristocrazia romana, Romo, Romolo, aristocrazia.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Doria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Dosseno:  la ragione conversazionale alll’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. A follower of the sect of the Garden. Seneca mentions a monument to him with an inscription testifying to his wisdom.

 

Grice e Dottarelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Musonio – scuola di Bolsena – filosofia bolsenese – filosofia viterbese – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bolsena). Filosofo bolsense. Filosofo viterbese. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Bolsena, Viterbo, Lazio. Grice: “I like Donatelli; he is an Etruscan, from Balsena, and it’s only natural that he is obsessed with the one and only Etruscan philosopher, Musonio!” Si è formato alla Facoltà di Filosofia dell'Perugia, dove ha studiato con Cornelio Fabro e si è laureato con una tesi sul dibattito epistemologico del Novecento (Popper, Feyerabend, Lakatos, Kuhn) sotto la guida di Baldini. Si è poi specializzato in Filosofia all'Urbino, dove ha avuto come maestri Italo Mancini e Salvucci, con cui ha discusso una tesi sulle implicazioni epistemologiche della filosofia di Kant. Ha insegnato nei Licei ed è stato docente a contratto di Filosofia della scienza, Filosofia morale, Bioetica nelle Università della Tuscia, di Macerata e Firenze.  Ha sempre coniugato il lavoro didattico e di ricerca con l'impegno civile. Per 13 anni consecutivi è stato Sindaco della città di Bolsena (VT). Eletto la prima volta con una lista civica di sinistra, è stato successivamente confermato. Direttore generale della Provincia di Viterbo e in tale veste, oltre al coordinamento e alla sovrintendenza della gestione complessiva dell’Ente, ha avuto la responsabilità diretta della formazione e organizzazione delle risorse umane, del percorso di certificazione EMAS, del processo Agenda 21 locale e del progetto Arco Latino, strumento per la definizione di una strategia integrata di sviluppo dell’area del Mediterraneo. Con Picone, filosofo e psicoanalista junghiano, nel 2004 è stato cofondatore della Società Filosofica Italianasezione di Viterbo, di cui è attualmente vicepresidente. Nel  ha costituito il Club per l’UNESCO Viterbo Tuscia, di cui è presidente.  I suoi interessi teorici si sono rivolti all'epistemologia, all'etica, alla filosofia politica e alla pratica filosofica. In Popper e il gioco della scienza ha svolto un'analisi critica dell'epistemologia falsificazionista, mostrando come l'ultimo Popper, pur rendendosi conto della coerenza dello sviluppo evoluzionistico della propria epistemologia, arretrasse e resistesse dal trarne le estreme conseguenze, restando fedele al paradigma del razionalismo critico, difendendolo sino in fondo, ma con ragioni sempre più deboli. Nei suoi lavori su Immanuel Kant (Kant e la metafisica come scienza, Abitare un mondo comune. Follia e metafisica nel pensiero di Kant) ha evidenziato sia il proposito kantiano di fondare come una scienza rigorosa la metaphysica generalis, prima parte della metafisica come era intesa nella tradizione razionalistica tedesca, sia il carattere che viene ad assumere la metaphysica specialis, dopo la critica: un pensare congetturale e analogico che è anche prassi, vita. In questa prospettiva la filosofia kantiana viene valorizzata per la sua peculiare dimensione "cosmica", come «scienza della relazione di ogni conoscenza e di ogni uso della ragione umana con lo scopo essenziale di essa», e viene ricollegata alla filosofia come era praticata soprattutto nell'antichità: arte di vivere, esercizio spirituale. Il filosofo pratico, il maestro di saggezza tramite l’insegnamento e l’esempio, è così «l’autentico filosofo», che, nel quadro della complessiva ed originale riorganizzazione kantiana dell’orizzonte utopico di derivazione platonica e rousseauiana, diventa esso stesso un ideale regolativo, al quale colui che più si è avvicinato è stato Socrate, per via della sua esemplare coerenza di vita. In Freud. Un filosofo dietro al divano, il lavoro del fondatore della psicoanalisi viene letto come un episodio della lunga tradizione che ha interpretato la filosofia come "medicina per l'anima". Il rapporto di Freud con la filosofia si nutre di una profonda ambivalenza: da un lato un'irresistibile attrazione; dall'altro quasi la necessità di rassicurare se stesso e gli altri su una propria «incapacità costituzionale» (Autobiografia) alla pura speculazione e sulla sua ferma volontà di sottrarsiproprio lui, formidabile affabulatoreal fascino delle narrazioni filosofiche. La riflessione di Freud non trascura nessuna delle dimensioni fondamentali della ricerca filosofica. Neanche quella teoretica, volta a costruire visioni complessive dell’uomo e del mondo; quella che gli appare la più rischiosa, perché la più astratta, la più esposta alla frequentazione della metafisica e della religione, sempre in procinto di cadere nella trappola della verità assoluta. Più a suo agio Freud si sente invece nel lavorare lungo un'altra linea d’impegno tradizionale della filosofia: la riflessione critica sui saperi e sulle pratiche umane. Nell'opera di smascheramento dei meccanismi con cui le ideologie e le prassi individuali e sociali ammantano la loro miseria “umana, troppo umana”, le potenzialità della psicoanalisi si esprimono al meglio. Masecondo l'interpretazione di D. la fatica intellettuale di Freud trova la propria collocazione più appropriata nella dimensione della ricerca filosofica che interpreta se stessa come un’attività in cui l’uomo si dedica alla cura e alla fioritura di sé, alla coltivazione della propria umanità. Questa dimensione della filosofia come arte di vivere è stata approfondita da D. attraverso la ricostruzione della vita e del pensiero del filosofo stoico Musonio Rufo nella monografia su Musonio l'Etrusco. La filosofia come scienza di vita. Testimonianza della vitalità della tradizione culturale etrusca in epoca romana, la filosofia di Musonio è espressione significativa di quel crogiolo di idee ed esperienze di ricerca della felicità che è l'ellenismo della tarda antichità, in cui si rispecchierà poi la civiltà medievale e soprattutto quella umanistico-rinascimentale. Musonio ha dato il tono di fondo all'impegno prevalente nella tradizione filosofica della Tuscia: ricerca di una scienza di vita, studio di perfezione, imitazione di Dio, àskesis, esercizio per sviluppare la conoscenza e la coltivazione di sé, finalizzata alla fioritura dell’autentica esistenza umana. L’adesione del filosofo di Volsinii allo stoicismo è decisamente sotto il segno di Socrate: la filosofia può proporsi come arte regia in quanto, in primo luogo, è arte di governare se stessi. L’ideale dell’autosufficienza del saggio si traduce nella predilezione per l’agricoltura, come attività più appropriata per il filosofo. «La terra in effettiaffermava Musonioricambia con i frutti più belli e più giusti coloro che si prendono cura di essa, dando molte volte tanto quel che riceve ed offrendo grande abbondanza di tutto quanto è necessario per vivere a chi ha la volontà di faticare: e tutto questo con decenza, nulla di ciò con vergogna». Ad un analogo sentimento di appartenenza al cosmo e ad un profondo rispetto per gli altri esseri umani e per tutti i viventi, sono ispirate anche le sue riflessioni sui rapporti sociali, sulla schiavitù, sulle donne, sulla nonviolenza, sull'alimentazione, sul vestire e sull'abitare. Riflessioni che Musoniosecondo la concorde testimonianza dei contemporaneiseppe tradurre con coerenza esemplare in una efficace pratica di elevazione spirituale, diretta a coinvolgere, insieme, il corpo e l’anima. Sobrietà, rispetto, universalità e condivisione sono le parole di riferimento di una visione etica che anticipa in modo sorprendente istanze fondamentali della moderna sensibilità ecologista. La visione della filosofia come arte di maneggiare gli assoluti è approfondita nel libro Maneggiare assoluti. Kant,  Levi e altri maestri. La filosofias ostiene D. anche quella più incline a farsi coinvolgere nell'impresa di estinguere la sete dell’assoluto, contiene in sé, nella propria vocazione alla ricerca di una comune verità mediante il dialogo, un antidoto indispensabile al rischio distruttivo che può annidarsi in ogni tentativo umano, tanto umano di cogliere la totalità, l’infinito, Dio. Anche le grandi tradizioni religiose, quelle che da secoli sono impegnate a tracciare sentieri, trovare parole, celebrare liturgie per saziare la fame di assoluto che agita il cuore e la mente degli uomini non possono fare a meno di intessere un intenso dialogo con questa tradizione di ricerca, soprattutto nei momenti cruciali, quando diventa urgente addomesticare i dèmoni che una frequentazione inadeguata del sacro può evocare. Dèmoni che portano il nome di fanatismo, intolleranza, totalitarismo e di cui la storia degli uomini alla ricerca della verità assoluta, della totalità autentica ed incondizionata, dell’esperienza integrale è purtroppo costellata. La consapevolezza che anche la filosofia non possa dichiararsi storicamente innocente, non cancella ma spinge a ritrovare sempre di nuovo la vocazione più profonda di quest’originale forma di esercizio spirituale: una ricerca appassionata del bene e della verità, capace di resistere alla suggestione del possesso compiuto e di mantenersi in quella apertura alla possibilità dell’errore che è presidio di autentica libertà per sé e per gli altri».  Altre opere: “Il gioco della scienza” (Massari); “Metafisica non scienza” (Massari); “Abitare un mondo comune: follia e metafisica nel pensiero di Kant (Introduzione al Saggio sulle malattie dell’anima di I.Kant” (Massari); “Utopia e ragione come luoghi del incontro dell’ego ed il tu”, in  Le ragioni della speranza” (La Piccola Editrice); “L’assoluto e il relative” (Il Prato); “Musonio” (Annulli Editori); Freud. Un filosofo dietro al divano, Annulli Editori,  Riverberi Di Tuscia e d’altro, Annulli Editori); “La farfalla dell’anima e la libertà, Armando Editore.  ETRUSCO   MUSEO CHIUSINO DAI SUOI POSSESSORI PUBBLICATO  CON AGGIUNTA DI ALCUNI RAGIONAMENTI  DEL DOMENICO VALERIANI   E CON BREVI ESPOSIZIONI  DEL CAV.   ai© smagata POLIGRAFIA FIESOLANA A SUA ECCELLENZA IL SIG. MARCHESE   ANGELO CHIGI LUOGOTENENTE GENERALE E GOVERNATORE  DELLA CITTA E STATO DI SIENA CAVALIERE DELLA LEGION D’ ONORE DI FRANCIA  CONSIGLIERE INTIMO ATTUALE DI STATO, FINANZE E GUERRA  CIAMBELLANO DI S. A. IMP. E REALE   IL GRANDUCA DI TOSCANA  PRESIDENTE DELL’ ACCADEMIA DEI FISIOCRITICI  E DELLA DEPUTAZIONE DEL PIO DEPOSITO DI MENDICITÀ’  CHE LO SPLENDORE DELLA FAMIGLIA NOBILISSIMA DA CUI DISCENDE CON TANTE EGREGIE DOTI  SOSTIENE ED ACCRESCE  E DELL’ARTI LIBERALI CULTORE E FAUTORE CALDISSIMO SI MOSTRA  QUESTA RACCOLTA D’ETRUSCHI MONUMENTI CHIUSINI  CANDIDAMENTE E CON GIOIA  0. D. C. GL’EDITORI  P. B. C. C. F. S. C. A. M. P. F. D. ri  si trova itna mirabile abbondanza di marmi finissimi consistenti in colonne antiche di granito nero e dell’ Elba e  d’Egitto, di granito rosso del più compatto, di cipollino  orientale, e d’altri marmi duri e fin anche di breccia d’ E-  gitto, di che va ricca ed ornata la cattedrale, ove son poste in uso con antichissimi capitelli di gusto squisito. Anche  sparsamente per la città s’incontrano in copia marmi duri  o eretti in usi decorativi o depositati a parte e non ancora  posti in opera. Non mancano monumenti di romana scultura di raro pregio in basso e tondo rilievo, tra i quali splende un sarcofago colla caccia di Meleagro, ed una assai  bella testa di Augusto nel palazzo episcopale, e nelle case  Paolozzi. Le antiche iscrizioni lapidarie son pur frequenti  per la città sparsamente. E poi sorprendente il numero dei  sotterranei che s’incontrano sotto le fabbriche del paese, e  sono per ordinario eseguiti di ben connesse pietre quadrate assai grandi. Rieca è pure la città di avanzi di fabbriche antiche romane, parte delle quali si giudicano bagni. Ed  in vero non sembra che di tali pubblici comodi mancar dovesse un paese, ove si trovano s or genti ab b ondantis s im e di  acqua potabile, e delle quali non ha guari e stata fatta bella scoperta dal nobile sig. Flavio Paolozzi, in alcuni spaziosissimi sotterranei, da luì aperti, ove non ancora si è  osato avanzarsi attesa la co nfu sione dei loro sentieri numerosi e feraci di sorgenti, che per via di canali antichi  di piombo somministravano per quanto apparisce, acque abbondanti e perenni all' antica città.   Ma ciò che maggiormente sprona la curiosità degli eruditi è il visitare nel territorio di Chiusi gli etruschi sepolcreti, dove fu trovato quanto di più mirabile conserviamo  nei nostri musei, mentre non senza una qualche almen lo tana emulazione col famigerato sepolcro di Porsenna eretto  un tempo in questa nostra patria, presero i suoi citladini  etruschi l'esempio di rendere le lor tombe in vario modo as-   J-Ja dovìzia dì antichi monumenti d’arte nell'etrusco città di Chiusi nostra patria, non ha guari trovati, e nei nostri  musei custoditi, ci ha fatto sospettare che saremmo giustamente ripresi, qualora tal dovizia si tenessè fra noi medesimi inosservata ed inutile all’ incremento della scienza archeologica. A ciò credemmo sufficiente riparo di offrir libero accesso a chi volesse que’ monumenti osservar con a-  gio nelle nostre private collezioni. Ma riflettendo poi che  la più gran parte degli eruditi, cui non è dato il potersi recare personalmente a Chiusi, restavan privi del bene di co¬  noscere questo ramo speciale di etruschi monumenti: cosi  a sodisfare anche questa numerosissima classe di eruditi,  non crediamo che trovar si potesse miglior divisamento di  quello da noi già compito, di far disegnare con fedeltà massima i monumenti più ini ere s santi, che possediamo, e quindi a nostre spese farli incidere in rame in dugento sedici  tavole distribuiti , raccomandandone l'edizione al cavalier  Francesco Inghirami. A tale nostro invito egli non solo ha  cortesemente aderito c oli’ ine arie ar s ene per nostro conto, ma  si è compiaciuto inoltre di venir più volte da Firenze a  Chiusi per confrontare i disegni coi monumenti originali,  e ci ha fatto inoltre il dono da noi gradito delle brevi interpetrazioni che abbiamo apposte a ciascun monumento, al  che abbiamo aggiunto anche alcuni ragionamenti, donatici  dall’egregio sig. prof. Valeriani nostro concittadino. Chi ha per le mani l’ opera che ora pubblichiamo, non  creda già di conoscere, p e' suoi rami, tutti i monumenti antichi di Chiusi, mentre n’ è assai più dovizioso il paese. Qui ì  ti dì quei di Tarqui ni a, fo rse perchè ne fu inventore un diverso architetto. Nell’annoverar che facciamo de monumenti antichi più insigni di nostra patria, non è da pretermettersi che in vicinanza della città rèsta sotto una collina di tufo breccioso  verso l Oriente un cimitero antico di cristiani, eh’è noto  sotto la denominazione di Catacombe di s. Mus tio la Vergine e Martire, inclita patrona della città e della diocesi-  Questi sotterranei non solo servivano alla sepoltura de’ cristiani, e in specialità dei martiri, ma nel giorno di festa e  nel natalizio dei Santi vi si raccoglievano per celebrarvi i  divini misteri, ivi oravano, ivi stavano refugiati nel maggior impeto della persecuzione, a scansar la rabbia dei tiranni, come descrive un nostro concittadino che di tali sotterranei h a ragiona to eruditissimamente, L'abbondanza delle  cristiane iscrizioni che spettano a questorispettabile sotterraneo, notante dal prelodato relatore, lo rendono anche più  degno dell'attenzione d'ogni erudito. Il libretto che a  memoria di ciò egli ha scritto con somma eleganza e dottrina, dove si trova incisa inclusive la piant a dell 1 2 ampio  sotterraneo, oltre le iscrizioni ivi adunate e illustrate ',e  l’altro libretto di non inferior merito, scritto da vari eruditi, circa il già nominato monumento sepolcrale del Poggio al-moro 1 , forma insieme colla presente opera l’ informazione di quanto crediamo ess er su ffidente ad erudire i cultori dell' archeologia circa le antichità osservabili di Chiusi nostra patria. 1 Pastumi, Relazione di un antico cimitero di cristiani, in vicinanza della città di Chiusi con le iscri¬   zioni ivi trovate. Montepulciano Sepolcro Etrusco Chiusino illustrato nelle sue epigrafi dal Prof. Gio. Batt. Vermigliolì, con l’aggiunta   di una memoria del sig. Giuseppe del Rosso sulla parte architettonica dello stesso monumento ed  una lettera del sig. Dolt. Francesco Orioli. Sta anche negli opuscoli del Vermigliolì ec., Perugia sai magnifiche e ricche d' oggetti d'arte. Si è reso celebre  fra gli altri l ipogeo situato in un possesso della g ra ridu¬  cale fattoria di Dolciano, il quale conserva in se stesso un  antico modello rarissimo di fabbrica etrusco, perchè a differenza degli altri scavati nel tufo, questo vedesi edificato  di travertini tagliati regolarmente, e situati senza cemento m volta arcuata di tutto sesto, e da varie urne cinerarie  occupato, le quali hanno in fronte sculture vaghissime ed  epigrafi etru s che, dalle quali resulta essere stato questo sepolcro a più famiglie comune. Altri non meno importanti ipogei scavati nel tufo si osservano in varie pendici del monticello, sul quale era ed è  tuttora la nostra città. In alcuni di essi, con animo di sodisfare Valtrui erudita e commendevole curiosità, i proprietari lasciarono in parte i monumenti meri facilmente amovibili, acciò sia noto come e con quali riti vi fossero depositati fin da quando ve li posero gli Etruschi.   Fra questi ipogei, mediante le nostre indagini fin ora scoperti, due soli noi trovammo scavati regolarmente nel vivo  tufo m guisa di camere e dipinti : l’uno aperto nel maggio  del 1827 in un podere chiamato P o gg io-al-moro , l altro in alt ro podere detto il C olle , le cui pitture son riportate in quest’ opera. Pare che lo stesso pittore  li dipingesse ambedue, ma l’ ultimo aperto si conserva assai  meglio, forse perchè l’adiacente suolo è men’ umido . I soggetti quivi dipinti son pure i me des imi in amb edue gl’ ip 0 gei ;  nòdi {feriscono granfatto, si nello stile, si. nel metodo del dipinto,  e sì nel s og g ett o iv i Ir att ato dalle pitture dellegrottecornetane,  che si altamente sono state encomiate . E probabile che in  questi due sotterranei dipinti vi fossero depositati oggetti  di prezzo ragguardevole, e perciò dagli stessi antichi derubati, perchè non vi è stato trovato quasi nulla, specialmente  in quél sepolcro che l’ultimo è stato scoperto. È poi singolare, come i soffitti intagliati nel tufo sieno più elegan- lei il loro cognome anche gli altri re etruschi, cosi esprimendosi quel dotto  ed ingegnoso poeta .   Nomina videbis, modo namque Petulcius idem,   Et modo sacrifico Clusius ore vocor.   Questa già potentissima città, che fu detta Camars nella lingua dei nostri  padri, ( il qual vocabolo però significa lo stesso che il più moderno Clusium,  imperocché le dué voci ca, e mar, o mars, che lo compongono, vengono interpetrate, chiuso dalle paludi ); Che la nominarono pure Chiamarle, e Camarsoli, Livio, Eutropio , ed Antonio Sabellico, diede luogo a molte dispute fra  gli eruditi per determinare se annoverar si dovesse fra le dodici antiche città  etruschs, capi di origine-, ma le ragioni addotte in contrario non montano a nul¬  la di fronte all’ unanime consentimento di tutti i più accreditati scrittori antichi,  e moderni, che lo affermano. Ed lo sorto persuaso che non manchino autorità  bastanti a provare, che non solo ella fu una delle dodici città capi d’ origine,  delle quali era composta la famosa, ed antichissima confederazione etnisca residente a Fiesole, che risale per autorità di molti gravissimi scrittori, a 2o5o. anni circa prima dell era volgare, ma che avesse puranco l’onore di tener lunga  stagione lo scettro sii tutta l’Etruria, come lo afferma il dottissimo Dempstero,  che sostiene avervelo ella tenuto per 5qo anni di seguito-   Di fatti anche Virgilio, parlando di Chiusi -, nomina un suo re chiamato Osi-  nio, la cui età è molto antica, essendo quello stesso che trovassi impegnalo nel¬  le guerre eli ebbe a sostenere il Frigio Enea in Italia, contro Turno, ed i Rullili , prima di stabilire i suoi penati in questa bella, e da tutte le straniere nazioni ambita penisola. Ma anche molto avanti che quel Troiano quà navigasse,  aveva avuti Chiusi i suoi regnanti, poiché si annovera Osinio trentesimo sesto  * dei regi Etruschi. Ciò che basta a togliere l’onore della fondazione di tal città, a  Tirreno, a Telemaco, e a Clusio . Che poi continuasse Chiusi a fiorire in potenza, ed in ricchezze, ed anzi  Salisse ognora a maggior altezza nell' una e nelle altre, dai tempi troiani fino  a quelli in cui fu scacciato dal trono Tarquinio Superbo, ne fanno chiara fede  gli storici, ed. i poèti. Imperocché Livio nel secondo libro della prima deca,  narra che i Tarquinii espulsi da Roma, eransi rifugiati presso Larte Porsena re  di Chiusi. Ed aggiunge lo stesso storico, al luogo citato, che giudicando quel valoroso monarca nobilissima impresa per lui l’ includere quella metropoli nei suoi  domimi, mosse a quella volta con poderoso esercito grandemente inanimito contro i Romani, ed avendo posto il campo sul Gianicolo, cinse la città et assedio, e tanta costernazione vi sparse, che mai prima d’ allora sì gran terrore  aveva invaso il senato, ed il popolo romano. Cotanto formidabili erano in quel  tempo le genti chiusine, e sì grande e temuto suonava per le terre italiche il nome di Porsena . DELL’ ANTICA CITTA DI CHIUSI  li impresa malagevole assai quella di rintracciare le origini delle antichissime  città italiche, i cui fondatori si perdono, per lo più, nel buio delle età favolose. E  quanto furono esse più cospicue, e più potenti, per valor d'armi, e per senno dei  loro abitanti, per sapienza, e per arti belle, tanto cresce la difficoltà di poterne  rinvenire con sicurezza , e fissare i cominciamenti Avvegnaché i poeti singolarmente, seguiti poi dagli storici ancora, assumendosi l' incarico di celebrarne i  pregi, e cantarne le lodi, pare che siansi fatto uno studio esclusivo di nasconderci  il vero. Questa sorte pertanto è comune con molte altre anche alla nostra famo¬  sa Chiusi.   Tuttavia, benché io non dissimuli a me stesso, che ben aspro e certamente  il cammino, in che sono entrato , e tale forse ancora da non trarmene fuori  senza pericolo di smarrirmi tra vìa -, pure non so astenermi, spintovi da quel  caldo amor patrio, che mai non tace negli animi bennati, dallo scrivere alcuna  cosa intorno alla città di Chiusi . E tanto più volentieri lo faccio, m quanto  che pubblicandosi un'Opera ove non sono raccolti che antichi monumenti chiusini ,  non giudico disdicevole che vi si legga, cosa fosse nei vetusti tempi quella si  splendida, e si rinomata città.   Lasciando pertanto da parte , come, e quando cominciasse ella ad esistere, se  Tirreno, o Telemaco ne ponesse le fondamenta, come pretesero alcuni scrittori,  o sivvero Classo re degli Etruschi, che si vuole da altri che fosse figlio di un  secondo Tirreno, e se ne riguarda come il fondatore esso pure, ( ed io lo  direi meglio arnpliatore, e ristauralore della medesima, benché s’ ignori in qual  secolo ciò avvenisse ), egli è fuor d' ogni dubbio che questa città risale ad  una remotissima origine . Lochè peraltro discoprire volendo, e stabilir con certezza, sarebbe lo stesso che mettersi a navigare in un mar senza sponde.   Per lo che, scenderò ad epoche meno lontane, e più certe, quando già la  città di Chiusi teneva ampio dominio sull' antica Etruria. Mentre pare da un  distico che si legge nel primo libro dei Fasti d Ovidio, che prendessero da  Elr. Mas. Chius. zo coll' uccisione del Console Lucio Cevìlio , e di 3 ooo soldati, furono dalla  valida l'esistenza dei Chiusini obbligati ad abbandonarne l'impresa, e spingersi a  sciogliere il freno ai loro furori contro Roma. Lo che narrasi da Lucio Floro  nel primo libro della storia romana , e possono consultarsi ancora su questo proposito, Diodoro Siculo, e Polibio. Ne fa pure un cenno Plutarco nella vita di  Numa Pompilio, e ne parla più a lungo in quella di Camillo. Anche la risposta , che lo storico di Cheronea fa pronunziare con barbara  confidenza da Brenna condottiero dei Galli, agli ambasciatori romani, che s'erano  a lui recati per chiedergli ragione a nome del Senato, del suo procedere verso  i Chiusini, infestandone i possessi, disertando i campi, e minacciando la città,  ne fa viepiù chiara testimonianza intorno alla celebrità, ed opulenza della medesima, essendosi cosi espresso quél fiero conquistatore. Ci fanno manifesta in¬  giuria i Chiusini, come coloro che ambiscono di possedere una estensione di  compagne, molto maggiore di quella che possono coltivare, e superbamente ricusano di concederne una porzione a noi forestieri , che siamo in gran numero , e poveri.   Circa la fertilità poi dell’ agro chiusino, leggasi Plinio,  ove ne loda il frumento, cosi per la qualità sua, come per la quantità che ne  produceva. E Marziale erasi prima di lui nell ottavo epigramma del i 3 .° libro  espresso in tal guisa « Imbue plebejas clusinis pultibus ollas jj.   Moltissime altre autorità di antichi scrittori avrei potuto raccogliere , onde  mettere in più chiara luce, ed evidenza, la grandezza, e V opulenza della città  di Chiusi iti remotissimi tempi, la potenza dei suoi re, il valoroso coraggio,  e l'operosa industria dei Suoi abitanti, t libertà del suo territorio, e lo splen¬  dore che la rese tanto famosa per lunga serie di secoli ,• ma stimo che bastino  le già riferite, ed i pochi cenni che ne ho dati, per farne concepire, a, chi  vorrà leggere questo ragionamento, una giusta, e non umile idèa. Nè poteva  d’altronde dilungarmici gran fatto, attesa V indole di quest' Opera, e la brevità della periferia , cui ho dovuto perciò ristringermi nel comporlo. Mi contenterò dunque di aggiungere, che venendo puranco ad epoche a noi  più vicine, dopo lo smembramento dell impero romano per opera dei Longobardi, ebbe Chiusi, benché decaduta immensamente dall’ antico suo lustro, il titolo  di Ducalo; leggendosi presso Anastasio bibliotecario in s. Zaccaria, che Liutprando mandò ad ossequiarlo il suo nipote  Agiprando, 0 come leggesi in altro codice Adelprando, duca di Chiusi. Il qual  fatto viene riferito egualmente dall’ autore dell’ Etruria Regale.   Ed anche giunta la citta di Chiusi all estrema sua umiliazione, rimase ogno¬  ra città vescovile, come lo è tuttavia, e fregiata di assai privilegi. E si legge in  un manoscritto che tratta di cose etnische, e conservasi nella libreria Rondoni  JlcJlklh che circa di n' era vescovo un tal Teodosio.  Ricavasi pc-i dal decreto di Gregorio, cap. 9.° delle costituzioni, che l' anno  3   II qual fatto confermano, oltre Polibio, Dionisio d’ Allea mas so , ed altri  Storici, anche sant’Agostino nella sua Città di Dio , Sidonio Apollinare, Chilidiano, Orazio Fiacco, Marziale, Tzétze , e molti altri.   Nè parrà strana una si gran potenza dei chiusini, ed una tanta opulenza , a  chiunque facciasi a riflettere ai magnifici e sontuosi edifizi, dei quali Chiusi  adornavasi. E basterà riferire a questo proposito la descrizione del labennto  fattovi costruire dallo stesso Porsena, perchè gli servisse di sepolcro, e che si  legge in Plinio al capo decimo terzo del libro trentesimo sesto , ove riporta,  co/n’ ei dice, le parole stesse di Marco V àrrone.  Fu sepolto , scrive egli, questo monarca, sotto la città di Chiosi ove erasi  fatta inalzare una tomba di larghe pietre quadrate, e compresa da quattro lati,  o muri, ciascuno dei quali estendevasi per trecento piedi in lunghezza, avendone cinquanta di altezza. Nell’ area interna di nove mila piedi, raggravasi  un inestricabile laberinlo, nel quale chi si fosse introdotto senza un gomitolo  di filo, non avrebbe potuto ritrovare la strada onde uscirne. Ergevansi poi  sopra il vasto quadrato cinque piramidi, quattro negli angoli , ed una nel mezzo,  larghe alla base, ciascuna setlantacinque piedi, ed alte centocinquanta. Slava  nella cima dì ognuna di esse un grosso globo di bronzo, sovrappostovi un petaso,  dal quale scendevano varie catene, cui vedevansi sospesi dei campanelli mobili,  e sonanti quand’ erano agitati dal vento, come raccontasi pure del tempio di Do-  dona. Sulla cima delle grandi piramidi ne sorgevano altre quattro alte cento  piedi', sopra le quali era praticato un piano, ed in esso pure si alzavano altre  cinque maggiori piramidi, che secondo gli annali degli Etruschi veduti da f ar¬  ro nc, erano tanto alte, quanto il rimanente dell’ edifizio.   Ora domando io : a qual potenza, ed a quanta ricchezza doveva esser sa¬  lita la città di Chiusi, onde concepir potesse un suore , e condurre ad effetto  la superba idea di fare erigere una fabbrica di questa sorte, per servirsene di sepoltura , quando ancora si voglia credere esagerato un tal racconto ! E  veramente, o esagerazione, o stranezza vi è certo, nella surriferita descrizione,  giacché è più agevole il disegnare quelle piramidi sulla carta, come saviamente riflette anche il Pignotti, che il trovar la maniera di farle stare in piedi. Tuttavia però , benché debbasi ridurre la cosa a più ristretti, e più giusti limiti', conviene non pertanto ammettere, che la tomba di Porsena fosse una  fabbrica sorprendentissima, e tale da superare di gran lunga quanto di più  grandioso fece ammirare V umana vanità nei trascorsi tempi, o si ammira pure nei nostri, presso le altre nazioni, se non per altro per la singolarità della  sua costruzione, e per la gigantesca sua mole-, poiché tal cose possono ingrandirsi bensì dai narratori di esse, ma inventarsi non mai. Nè meno splendida è da credere che fosse la nostra città, nè inferiore la sua  potenza 284 anni più tardi, quando scesero in Italia i Galli Senonio Avvegna ché avendola quei barbari cinta d’ assedio, dopo aver battuti i Romani ad Arez- 5 iig8, il pontefice Innocenzo III scrisse al vescovo di Chiusi, benché se ne  taccia il nome nel luogo donde ho tratta questa notizia.   E finalmente narrano, il Surio tomo l\ , e 1 Usuando nel Martirologio, che  il dì 3 di luglio, imperando Aureliano, vi conseguirono la palma del martirio i  santi Mustiola cugina dell' imperator Claudio ed Ireneo diacono, i cui corpi sono esposti alla venerazione dei fedeli nella stessa città. Non solamente gli antichi monarchi , ed i  grandi Chiusini avevano le loro tombe gentilizie ; ma le private famiglie eziandio , e  queste più c meno grandiose, a seconda del¬  la propria condizione e ricchezza, come ne  fan fede tutti quegl ’ ipogei, che sortosi in  buon numero dissepolti finora. E non dispiacerà , cred’io , agli amatori delle cose  etrusche , il sapere in qual modo discopronsi  cotali sepolcreti. Nei trascorsi tempi era stato il solo caso l'autore di simili ritrovamenti , poiché ì contadini arando la terra si abbattevano di tempo  in tempo in alcuno di essi, senza cercarne.  Ma da varii anni a questa parte , la cosa  ha cangiato d 3 aspetto e si è determinata  la maniera di rinvenirli a colpo sicuro , ed  eccone il metodo.  Avendo osservato alcuni signori Chiusini, come , e dove erano situati gl ipogei discoperti  dal caso, pensarono di fare dei tentativi, saggiando il terreno, per discoprirne degli altri espressamente cercandoli , ove se ne riscontrasse del sovraimpostoj ed i primi saggi   \ per essi sperimentati, sortirono un felicissimo effetto.   Questi diedero loro animo a procedere ai secondi , e quelli ai terzi , e così ad altri di mano in mano. Di modo che nel corso di pochi  anni se ne scoprirono in tal quantità , che  alcuni dei sullodati signori, come fra gli  altri, Casuccini, e Sozzi, arricchirono, o  formarono di pianta, ragguardevoli collezzioni , di urne funebri , vasi , specchi mistici,  idoli , sitale , scarabei, ed altre interessantissime anticaglie. Le quali collezioni si  vanno pure di giorno in giorno aumentando, mediante i nuovi scavi che si continuano sempre a fare con caldissimo amore di  patria , e senza risparmio di spese. La qual  cosa, se e lodevole in un governo, lo è molto più nella condizione privata. Che al nascimento del cristianesimo, ed al tempo della propagazione di esso , fosse Chiu¬  si tuttavia una rispettabile città , e fra le  prime ad abbracciare la fede evangelica, si  deduca ancora da quanto sono per dire. Nelle catacombe che si trovano situate alla  distanza di circa un mezzo miglio dalla città medesima , e delle quali fanno menzione,  V Ughelli , il Boldetti , ed altri, essendosi di  recente intraprese delle escavazioni , che si  vanno proseguendo con ardore, sono stale  riaperte molte strade, ove si è rinvenuto un  numero considerevolissimo di sepolcri murati  a più ordini , che saranno ben presto formalmente aperti. Nei quali, se per mancanza di autentiche non si potrà asserire con  sicurezza che vi siano siati sepolti corpi di  Santi Martiri , non può dubitarsi però che  abbiano servito di tomba ad individui della  primitiva cristianità. In alcuni di essi trovati discoperti si è osservato essere state deposle in ciascuno le ossa  d{ due o tre individui : lo che mostra ad  evidenza che fosse grande in quei tempi il numero dei cristiani in Chiusi , venendo ciò  infermato dall ’ essersi colà diretti dalla  stessa Roma, diversi seguaci della nuova religione , fra i quali la surriferita Vergine  Mustiola, e dall 3 avervi spedito l* imperatol e  Aureliano un suo Prefetto per nome Pardo A promano, affine di perseguitarvi i cristiani -, e non pochi di essi vi subirono il  martino , come t due santi nominati qui  sopra  le anime goduto dopo ch’elleno son separate dal corpo. Furon varie presso gli antichi  le maniere di figurare un simile godimento, e noi vediamo frequentemente nelle  pitture dei vasi fittili, e ne’bassirilievi alcune imbandite mense, i cui commensali  starinosi lautamente bevendo a! suono di piacevoli strumenti, poiché prevaleva  presso di loro la massima che il premio concesso alle anime beatificate era il  godimento di una eterna ubriachezza. Al pari dissoluta sembra l’altra massima  degli Etruschi i quali fanno consistere tal beatitudine nel libero consorzio di  ogni senso, per cui si vedono replicatissime pitture nei vasi etruschi d’un satiro  ed una menade, ai qual soggetto si dà nome di baccanale. Men dissoluta è 1’ immagine del Chiusino scultore antico di quest’ara, ove al suono di variati strumenti ci rappresenta una mimica danza, replicato soggetto nelle sculture più antiche di Chiusi. Il rilievo di questa è bassissimo, al pari dell’antecedente, e il  disegno è parimente un terzo del suo originale.  JSum. j. Tra le molte immaginette in bronzo che trovaronsi nelle terre degl’Etruschi rappresentative della SPERANZA se ne incontrano alcune alate come la presente. Le ragioni che mossero questi popoli ad AMMETTERE LE ALI ALLA SPERANZA,  son da me dichiarate nello spiegare i monumenti etruschi, non meno che il significato della veste che tiene scostata dal fianco. Qui soltanto ripeterò brevemente, che gl’3truschi hanno spesso confuso LA SPERANZA colla Nemesi, dando  all’ una ed all’altra le ali MA LA SPERANZA, A DIFFERENZA DI NEMESI, CONTRAE LA VESTE PER AVER PIU SPEDITO IL PASSO, ONDE MOSTRARE CON QUANTA ANSIETA L’ATTENDE CHI SPERA. La mano elevata suole averè altresì qualche simbolo o significato, ma  di questa nulla diremo per esser guasta; e solo avvertiremo esser questo disegno  uguale in grandezza al suo originale.   JSum. 2 . Lo scarabeo rappresentato in questo num. 2 , ha una figura scolpita  rozzamente al segno da mostrare una sola gamba, sebben sia nuda in tutto il  corpo. Il petto è delineato in guisa che addita esser donna,- e qualora interpetrar  si volesse quel che tiene in mano, direbbesi non impropriamente un pomo granato, sicché il combinare con tutto ciò l’atto di stare assisa ci potrebbe far creder che fosse Euridice o Proserpina, entrambe dimoranti all’ inferno, dove figurasi assiso chi vi è destinato, per mostrar cred’ io la stanchezza di quella dimora.  Così Teseo condannato all’ inferno fu non solo così rappresentato dagli Etruschi 6 ,   1 Ivi, ser. i, 4i2. 5 Ivi, Ragionamento ìv , p. 17 5 , sq., e cap. u,   2 Micali, Monuments ant. pour l’ouvrage inlilulé p- 110. sq.   l'Italie av. la dommation des Romains, Lanzi, Saggio di lingua etrusca, tav. Monum. Etruschi; ser. nij p. 202, sq. n. 2, p. lai»   4 Ivi, p. ao 5 ETRUSCO 2D2IL2.1 S&TftiL2  Non vi è soggetto che abbia tanto occupato il genio degli artefici  scultori nei monumenti ferali, quanto i Dioscuri. Noi vediatno soventi volte nei  cassoni mortuali i simulacri di quei due giovani allegorici, posti simmetricamente  alle due estremità delle cotriposizioni, senza che abbiano colle composizioni  medesime nessuna connessione storica o favolosa ivi posti manifestamente  non solo per ornamento, ma per allusione speciale al passaggio dalla vita alla  morte, e nuovamente dalla morte alla vita, come dicevasi dai Gentili che i Dioscuri ebbero da Giove il vicendevole dono della immortalità 3 . Or poiché il pre¬  sente bassorilievo è in un’ara di quattro facce, ove da ognuna di esse ripetesi a  guisa d’ornato il soggetto medesimo di due giovani equestri, e poiché questo monumento è stato ritrovato in una tomba sepolcrale, così non credo erronea 1’interpetrazione ch'io dò a tal soggetto dei due dioscuri, ripetuti simmetricamente  per ogni faccia dell’ara. Il rilievo della scultura è bassissimo, eseguito in pietra  tofacea, la quale si lavora con molta facilità per esser fragile. Il disegno è un  terzo dell’ originale. È frequentissimo al pari dell’antecedente soggetto quello che l’osservatore trova  in queste 4 Tavole distribuito, non altro ivi raffigurandosi che il gaudio mistico dal-    i B. rii. del Mus. Borgia riportato dal Millin ,  Galler. Mythologique Pian, lxxx, n. 53o. Cori , Inscript. Antiq. in Etruriae urbi bus ex-  iati., Pars ni, Tab. x. et xGxrti, 2 Inghirami, Monumenti Etruschi, r   nuovo negli oggetti ferali l’augurio di prosperità che i vivi facevano ai morti,  nella fiducia che godessero una vita migliore. L’altezza di questo vaso è un  terzo dell’ originale.   tavola. Ecco un saggio dei tanti vasi di bronzo che si trovano a Chiusi. La grandezza del disegno è pari a quella del suo originale , ed ha ornamenti siffatti, che  non disdirebbero ad un’opera di fusoria dei migliori tempi dell arte; specialmente  se consideriamo quel manubrio a cui si leggiadramente vien data la forma d un  giovine in atto di riposo. Un altro genere d’ utensili tutto diverso dai fin qui esposti, occupa la Tav.  X, ove pure è diverso in tutto lo stile del disegno che ne traccia la rappresentanza; talché sarei per dire che altri fossero gli artefici e la scuola di scultura,  altra quella di plastica, altra quella di fusoria, altra quella gliptica, altra quella  di grafito in Chiusi, e che tutte separatamente si vedono in queste dieci tavole. Nel presente disco manubriato di bronzo rappresentansi fuoi d ogni ub io  i Dioscuri: soggetto ripetutissimo in simili oggetti, che perciò diconsi spec  chi mistici; e su questi e su quelli ho scritto abbastanza, ragionando dei Menu  menti etruschi *. Uno dei giovani colla mano portata in alto accenna il cielo,  l’altro l’inferno col braccio al basso: attitudine che a meraviglia esprime 1 al tei -  ila loro posizione, come dicemmo spiegando la tavola prima. Onde qui mi resta  da notar brevemente, che questi mistici utensili si trovano tra i cadaveri come  un amuleto relativo al transito delle anime da questa all’ altra vita. Una gran parte di figure in bronzo quasi esattamente simili alla presente si  trova in vari musei d’ Etruria ; e poiché io ne vidi alcune che sostenevano un  gran disco con una incassatura al lembo di esso, così mi detti a credere che in an¬  tico siano stati specchi di toelette, il cui disco lucido era probabilmente incastrato nella ghiera del disco di bronzo ade r ente alla anzidetta figura, che gli serviva di manico 3 , e della grandezza di questo disegno, eh'è uguale al bronzo archetipo. Non è dunque inverisimile che essendo questo un vero specchio da toe¬  lette, sia quel manico dal quale è retto, la figura di Veneie.3 Ivi, tav. g   ma descritto in simile attitudine anche da Virgilio *. La stessa Euridice si vede rap¬  presentata all’inferno sedendo per terra, in atto d’esser liberata da Orfeo * 11  pomo granato nelle mani delle persone infernali è superstizione che usavasi anche  tra gli Etruschi, rappresentati nei coperchi delle loro urne cinerarie 3 . Ma in tanta  goffaggine chi decide?   Num. 3. Lo scarabeo di questo num. sarà spiegato con altro d'ugual soggetto.  mrriensa varietà di forme che s’incontra nei vasi sepolcrali, ve ne son  1 • j C | 6 ^ 6r °® n ' r ‘o uar do meritano d'esser fatte conoscere coi rami per la  H’ r t0 s ‘ n S°^ ar ‘ ta ; e per quanto non potremo in quest’opera dar   0 °. °o nuna di esse, pure non sapremmo astenerci dal farne conoscere le più  a™’- 3 ' H t0 r >r *. nc T a ^ menl:e riguardo alla utilità che queste nuove forme poscaie a e aiti meccaniche, ed al miglioramento degli utensili domestici.  t . . Pj ente ,n questa VII tavola figurato è di terra cotta di color rosso, si-   rorrisn 3 m6nte sn P ra a ^ tr ' quattro vasetti insieme uniti al disotto, ed ai quali  • . . n on° quattio fori nel recipiente maggiore praticati, onde potrebbero   ntrodurvs. quattro diversi liquidi, come si vede chiaramente nel disegno superate " 6 ^ ° recc liette c ^ e servono di manichi nel vaso di mezzo sono trafoche ' C ° me Se V1 fo8Se P assa t a una cordicella per appendere tutta la macchinetta,  per ques o aggiunto sembra essere stata di qualche uso.    tavola Vili.   annoverare preSeiUe è da re P u tarsi antichissimo, qualora non vogliasi   mento eli occh' imi ^ tlV0 delIe antiche opere plastiche. I profili con gran   ’ g a Ì a pert.ss,m. ne. volti che vi son modellati, e quei veli che hanno   nera anche^nfll* *' mm< \ tnche Sono caratteristiche di grande antichità. La terra  sa che tende al ern ° 6 tenuta P er mater ia di antica manifattura. La forma stes- Quegli animali m ° St ™ Ua 8:11810 non raffil)at ° dal progresso dell’arte.   Ses^r r^ neOrHanOllC0r P°’ C0Ì1 ’ 6SSer S6nZa °^ tt0 "1*^ indicano  tav XII eiarrh' T ™ tUr ‘ A j ma del significato loro dò cenno spiegando la   mina in’ una « 6 ^ una leonessa o tigre che sia, con la coda che ter-   sta sull’ fi A r Pe ’ f ebbeS ‘ quest animale riguardar per un mostro. Il gallo che , , ° e vaso e un au o ur ^° pel morto che fu cornane fra gli Etruschi e dei  ,»], ho trattato anche altrove i. Solo ,ui r.m.L.o "    i Virgil. Aeneid., lib. vi, y. 6iy.  l Monum. etruschi cit , «er. vi, l,v. C5, n. i.  Etr. Mas. Chiùs. Tom. I.    3 Ivi, ser. vi, lav. Ha, unni   4 Ivi, ser. i, p. 3 I0 . P- I#?.  SULLA LINGUA ETRUSCA  O e egli è vero, come nessuno può dubitarne, che le lingue sono molto più  antiche di tutti i monuménti delle nazioni, sarà vero del pari che lo studio delle  medesime, e particolarmente lo studio comparativo, possa contribuire più di ogni  altra cosa, a rintracciare con sicurezza le origini dei popoli, le loro affiliazioni, ed  i loro mescolamenti, non meno che le divisioni, e successive riunioni di essi, e le  varie peregrinazioni, cui sono i medesimi andati soggetti nel corso dei tempi. Ed  infatti, chi non vede a primo colpo d'occhio, per esempio, osservando la gran  somiglianza che passa fra i primitivi vocaboli della lingua samscritica, con altrettanti dell antica persiana, della greca, della teutonica, della illìrica, e della latina, che tutte queste lingue, o debbono procedere in prima origine da un medesimo,  fonte od esservi stato in epoche da noi lontanissime un mescolamento, o per emigrazioni o per cagion di commercio, di tutti quei popoli che le parlarono ?  Oltre di che, sarebbe veramente un voler andare a ritroso, pretendendo che  possa dipendere dalla semplice casualità un lavoro così metafisico, e così profondamente pensato, quale è quello dei significamenti dati ai vocaboli di antichissime  lìngue, e che furono parlate da popoli tanto lontani fra loro per geografica posizione e tanto differenti per indole, per costumi, e per usi religiosi, e civili, piuttosto  che attribuirlo, o ad una sorgente comune, o ai mescolamenti dei varii popoli in  remotissime età, per qualunque cagione, ed in qualsivoglia maniera siano questi  avvenuti. Ciò premesso, e venendo a parlare più di proposito dell’ etrusco, dirò  liberamente che non giungono a persuadérmi nè punto nè poco ì sistemi formati, e  adottati finora dagli archeologi, intorno a questo antichissimo, e presso che del  tutto perduto idioma, benché io professi una profondissima stima per ognuno di  essi. E vaglia il vero, benché il Cori, ilMajfei, il Guarnacci, il Dernpstero, gli  accademici di Cortona, ed il chiarissimo Abate Lanzi, abbiano fatto ogni loro  sforzo per diradare le tenebre nelle quali giaceva involta la nazione etrusca, e  piu ancora la sua lingua, e ci abbiano aperta colle opere loro una strada onde  poter fate nuovi passi, e nuove scoperte in questa interessantissima parte della  antiquaria, non possiamo tuttavia dissimulare, che le oscurità non siano peranche  grandissime, e singolarmente intorno alla lingua, primo fondamento di tali studii,  e unica face atta ad illuminare le nostre archeologiche indagini, sulla origine,  sulla remotissima antichità, sui monumenti, e su qualunque vogliasi oggetto,  nguar ante questa nazione perduta. E benché ancora, dopo quei celebri nomi-  Nell' esporre questo pregevole vasetto di terra nera a quattro anse con coperchio, mi fo pregio di riportare la notizia che annettono al disegno gli zelantis¬  simi editori di quest’ opera del Museo etrusco chiusino. « Si crede, essi dicono,  che i vasi di questa terra non siali cotti, ma solamente disseccati al sole, poiché  infondendovi dell’acqua li compenetra, e si disfanno. Cotal genere di vasi non si  son trovati fin ora che a Chiusi e nei suoi contorni ». Questa è la loro avvertenza. L’ animale che vi si vede espresso è chimerico a rammentare i mostri caotici  che precedettero l’ordine della natura. In dimostrar ciò non mi estendo, perchè  abbastanza scrissi altrove onde far conoscere la frequenza di simili soggetti cosmo¬  gonici >, espressi dagli antichi nei monumenti sepolcrali. Avverte chi ha fatto  eseguire’questa tavola, che sotto al vaso è copiato un ornato d’oro dalla  parte anteriore, il doppio dell’ originale, e sotto è disegnata la parte posteriore di  esso, della grandezza del monumento, ed aggiunge che le due sfingi rappresentatevi  sondi un lavoro mirabilmente finito e minuto. ISCRIZIONI FUNEBRI ETRUSCHE   Quanto saviamente dichiarasi dal eh. pr. Valeriani nel secondo suo dotto ragionamento che segue, mi dispensa dall’onere di spiegare le iscrizioni fu¬  nebri che trovansi nei cinerari etruschi di Chiusi, perche scritti in una lingua  perduta. Tuttavia quel barlume che le moderne indagini dei dotti sopra di essa  ci fan vedere, sarà posto a profitto dall' eruditissimo sig. prof. Vermigiioli il più  meritamente accreditato in simile materia, onde in fine di quest’opera trovisi qual¬  che notizia di queste iscrizioni funebri chiusine, che ove lo concede lo spazio vi  si distribuiscono, senz’ altro dirne per ora. V* : IHd-M 3 Pi -O J I-   :ian 0qm v : Pi +i fì® 11 •   A? 3 d-flq = i anq V >/ di.   yfìMRY/\ IV.  =3 Dliaq => --1 Mti™ V V - , Mooum. Eu.. , set. m.  36» >4   dì^ìosamcnte remota , dice il Pejleuttier nella sua storia dei Celti, gli antichi popoli  di questo nome, o i Cello-Sciti, la cui lingua se non è primitiva in un senso assoluto, 10 è per lo meno relativamente a quasi tutte le lingue conosciute, sì furono sparsi  da una parte nell Asia occidentale, e dall altra nell Europa, si estesero in quest ul¬  tima regione, gli uni al Settentrione, e gli altri lungo il Danubio. La posterità di  questi poi rimontando quel fiume, pervenne in seguito alle sponde del Reno, le  quali oltrepassò, e riempi delle sue numerose popolazioni tutto l’ intervallo che   si estende dalle Alpi ai Pirenei, e ai due mari. Laonde ovunque la lingua dei Celti mescolandosi agl’ idiomi indigeni, formò delle combinazioni, ov’ ella dominò sen¬  sibilmente . Ed anche in quei contorni che aveva trovati deserti, o dai quali aveva  fatto scomparire gli abitanti, il celtico si conservò nella sua purità originale. Alcuni secoli dopo la popolazione sempre crescente di questi Celti, o Galli, li costrinse a  passare i Pirenei, e le Alpi. In Italia, dopo avere occupato da prima tutto il  paese posto al piede delle montagne, eglino si estesero di mano in mano, nel-  l'Insubria, nell’Umbria, nel paese dei Sabini, in quello degli Etruschi, degli Osci, dei Sanniti, ed in tutto il resto della penisola al dì qua del Garigliano. Nel medesimo tempo alcune colonie greche approdarono all’ estremità orientale d’Italia, e vi  formarono degli stabilimenti. Lasciami poi ben presto le sponde del mare , e  spingendosi sempre avanti, incontrarono finalmente i Celti, che continuavano pure  dal canto loro ad avanzarsi ancor essi • Dopo alcune guerre, poiché questo è sempre   11 primo caso dei due popoli che s incontrano j sì riunirono nell’ antico Lazio, e  non vi formarono più che una sola società, che prese il nome di popolo latino. Allora le lingue delle due nazioni si mescolarono insieme, e si combinarono  con quelle dei primitivi abitanti. Nè bisogna dimenticarsi di osservare che in  quest' amalgama aveva il celtico un gran vantaggio. Il greco, che non è allora, o a grandissima distanza, la lingua di Omero,  di Platone, doveva dal canto suo il nascimento ad un miscuglio di mercatanti fenìci,  d’ avventurieri di Frigia , di Macedonia e d’ llliria, e dì quegli antichi Celto-Sciti,  che mentre i loro compatriotti si precipitarono in Europa, eransigettati sull' Asia  occidentale, donde erano discesi in seguilo fino al paese che fu poi la Grecia.  Eravi dunque del celtico alterato nel greco, che si combinava di nuovo col celtico. Dalla qual moltiplice combinazione nacque la lingua latina, che rozza nella  origin sua. ripulita poi, e perfezionata col tempo, divenne in fine la lìngua di Terenzio, di Cicerone, di Orazio, e di Virgilio. Ed è questa medesima lingua latina, che  dopo un si bel regno terminato con un sì lungo e tristo tramonto, veniva ad amalgamarsi ancora un’altra volta col celtico : sorgente comune dei barbari dialetti dei  Goti, dei Lombardi, dei Franchi, e dei Germani, per divenire poco tempo dopo la lingua di Dante, di Petrarca, e di Boccaccio. Per tali considerazioni, e per quelle già riferite in questo ragionamento, io credo che si debba battere un cammino  diverso da quello che si è battuto finora dagli archeologi, nell’ investigazioni intorno gli antichi Etruschi , ed al loro linguaggio. E non già perdi’ io abbia la nati dì sopra, molta gratitudine dobbiamo avere ai Signori, Vermiglìolì, Zannoni, Mleali. Orioli, Ciampi, e più particolarmente all’ infaticabile cav• In-  giurami, per i tentativi che tutti questi hanno fatto, onde aggiungere dal canto loro  nuovi lumi, affine di condurci vie più addentro nei penetrali delle cose etrusche,  non ci siamo non pertanto finquì partiti, quanto alla lingua, dal punto dove eravamo cinquanta, o sessanta anni, per non dire quasi un secolo addietro. Nè qui sarebbe per avventura fuor di proposito lo stabilirese la nazione etrusco debbasi avere assolutamente nel numero delle perdute, e nel caso affermativo  determinare il come, e il quando sia questo avvenuto, oppure considerare la dob¬  biamo come trasfusa nella romana , o combinata con tutte quelle che invasero a  piu riprese l’Italia. Ma siccome cotali ricerche mi farebbero deviar troppo dallo  scopo che mi sono prefisso in questo discorso, e mi trarrebbero troppo in lungo,  cosi le serbo ad altro tempo, e ad altro lavoro. E per istringermipiù dappresso  al mio soggetto, dovremo noi riguardare la lingua etnisca, o come primigenia, e  indi genia dell antica Etruna,o come proveniente da altro più vetusto idioma italico-, o  sivvero come un composto di più dialetti stranieri, combinati coll’indigeno, quali sarebbero, il pelasgo, il lidio, il celtico, il greco antico, il traco-frigio, ed altri, qua por¬  tati a diverse epoche dalle varie colonie che si venneroa stabilire nelle nostre belle  contrade. Riflettendo che tutti gli archeologi, i quali procacciarono di rischiarare  questa materia oscurissima, hanno ben poco, o nulla concluso finora circa l’intelligenza dell antica favella dei nostri padri, e quelli che pretesero di trarla  dall’ Oriente senza alcun altro soccorso, e quelli che la vollero derivare dai greci  e i fautori dell antico latino $ pare che ne inviti la sana critica, e ne sproni il  buon senso, a tentare un’ altra via, per vedere se si giungesse finalmente a scio¬  gliere questo famoso nodo gordiano. Ed io penso che giovandosi di quanto si può  raccogliere di antichissimo italico , donde procede in gran parte il vècchio latino,  non trascurando il greco , per le ragioni che svilupperò altrove, e ricorrendo pure  ai dialetti annoverati qui sopra , si possa con sicurezza avanzare qualche passo,  e forse ancora giungere a fissarne un compiuto alfabeto , e quindi a bén leggere, ed intendere, tutto quello che ci rimane di etrusco. Imperocché, sia che abbia veramente esistito una lingua primitiva, della quale tutte le altre non siano che derivazioni, e prodotti, o sia che le diverse popolazioni umane siensi fatta da principio,  ciascuna la sua lingua, e che per moltiplicate combinazioni, e dopo una lunga  serie di secoli, questi diversi idiomi particolari siano venuti, per cosi dire, a  fondersi in un idioma generale, che in seguito poi siasi diviso, e suddiviso di  nuovo, in lingue, e in dialetti diversi, vi sono pochi argomenti più degni dell’ attenzione del filologo, e del filosofo ad un tempo, di queste formazioni, di queste separazioni e di queste riunioni dì linguaggi, che indicano le principali epoche della  formazione, della separazione, e della riunione dei popoli.  L’idioma latino che disparve al nascere dell'italiano, era stato in una molto  recondita antichità il prodotto di una simile rivoluzione. Quando ad un' epoca prò- Porgiamo alla considerazione dello spettatore in questo disegno la più grande urna in marmo che siasi fin ora trovata nei moderni scavi di Chiusi, misurando in  lunghezza circa 4 braccia. Ha nel cornicione superiore una lunga iscrizione etnisca, ma disgraziatamente dipinta, e non conservata come desiderar si potrebbe  per l'intelligenza compita, quantunque da quel che resta comprendesi essere  un aggregato di nomi famigliari e nient'altro. Vi corrisponde la rappresentanza  della scultura, ove si vede la moglie che dal marito congedasi, o questo da quella  per girsene all’altra vita. Una Furia come addetta al ministero delle anime, abbracciando la donna par che indichi esser lei la defonta, e non 1’ uomo che  il soggetto ivi appella. Infatti contiene il coperchio dell’urna una donna, come  vedremo. Termina la composizione con altre due Furie, una delle quali è pronta a  ricever l’anima alla porta infernale per dove passavasi quindi agli Elisi a ; e le altre  cinque figure intermedie non altro significano a mio credere che parenti, e forse anche estinti antenati, de’quali siansi voluti rammentare i nomi nella iscrizione. Forma  questo bel monumento e rarissimo in Etruria uno dei principali ornamenti del Mueo Casuccini di Chiusi. Ecco il coperchio in marmo dell’ urna già osservata nella Tavola antecedente.  Quivi e una donna mutilata in parte, come esser sogliono le sculture sepolcrali visi¬  tate dai primitivi cristiani, ed in quella occasione depredati quei loro sepolcri; ma  pure non sempre del tutto, e infatti si è trovato in Chiusi qualche ornamento d’oro  uguale alla collana che riccamente scende sul petto di questa defonta, la quale è  succinta , come esser sogliono le protome delle donne. Ha in mano un pomo gra¬  nato, conforme davansi a chi si portava all’ inferno.  Quando si volesse dare una interpetrazione a quest’oscuro soggetto in bassorilievo, si potrebbe dire essere il giovane Astianatte genuflesso sul larario, in atto di  venire immolato al furore di Pirro. Il monumento è un’urna di terra cotta non  molto conservata.  Monum. Etr., ser. i, p. 191, 229.  a Ivi, p. 177, »46.    3 Ivi, ser. 11, p. 229, a 3 o. stolta presunzione di credermi più perspicace, e più istrutto di quei dottissimi,  che si affaticarono in clamo su questo istesso argomento, ma solamente perchè il  tentar nuove strade in materia cotanto astrusa, è permesso a chi che sia, particolarmente quando tutte quelle tentate finora, non sono opportune a condurci a  buon porto . E perché è pur vero che non di rado toccò in sorte ad uomini di  mediocre ingegno e sapere, il discoprimento di ciò che rimase lungamente occulto alle più profonde, e costanti ricerche di sapientissimi osservatori.   Protesto peraltro ampiamente d’esser pronto ad abbandonare la mia opinione su  questo proposito, quando i dotti me ne oppongano un’ altra più plausibile, e più  idonea allo scopo cui è diretta. Essendo io scevro affatto di ogni particolare affezione  per essa, ed alienissimo da qualunque spirito di sistema, nè altro cercando che la verità . Avvegna che, una delle cause positive, anzi la principale, a mio credere, che  abbia così ritardalo, ed impedito la scoperta del vero in questa materia, è stato senza  dubbio lo spirito di sistema, portatovi da ciascuno di quegli archeologi, che vi esercitarono con particolari indagini il proprio ingegno, ostinandosi, e forzandosi per  ogni maniera, a derivare da un solo fonte la Unga etnisca. Idifatti, niente è più funesto ai veri progressi delle scienze, nè più contrario al discoprimento della verità,  di quello che lo sia uno spirito sistematico. Imperocché tutto allora si sconvolge, si  contorce, si altera, anche senza avvedersene, per trarlo comunque al proprio sistema, adattarcelo, e farlo a diritto o a torto, convenire con quello . Ma chi adopra  in tal guisa, non và altrimenti in cerca del vero, e si affatica soltanto a rinvenire ciò  che egli si è preventivamente immaginato di dover trovare. Cosi, tutti coloro i quali  pretesero di far venire gli Etruschi da una colonia di Cananei, o di altri Orientali,  crederono di vedere perfino la forma delle lettere etnische, in quella delle ebraiche,  e più specialmente delle cosi dette sanimaritane, benché non ve ne fosse la minima  idea. E t.enevansi tanto più sicuri del fatto loro, in quanto che usarono i nostri antichi padri condurre la loro scrittura da destra a sinistra , come gl’ebrei, i Sammarilani,ed altri popoli dell’Oriente.I Sè mancarono di viepiù confermarsi in tale opinio¬  ne, osservando alcune voci etrusche, simili, o provenienti dai dialetti semitici-, quasi  che fossero queste argomento bastante a costituire la identità di origine dell' etrusco con quelli, e non sapessero tutti i filologi, che s’incontrano delle voci simili di  suono, e di significato ancora, in quasi tutte le lingue conosciute, senza poter  giungere a provare per questa via, che l una derivi con sicurezza dall' altra, e tutte  da un fonte comune. Mentre sono tali somiglianze , ed analogìe, il prodotto di quei  mescolamenti, dei quali ho parlato in principio. E con tanta maggiore facilità  debbono essersi mischiate, e combinate non poche voci orientali all’ etrusche, per lo  commercio singolarmente dei Fenici coi nostri antenati, in epoche da noi remotissi¬  me, come altrove si è detto-, insegnandoci concordemente gli antichi scrittori  quanto in ciò valessero gl’etruschi, o Tirreni, e come signoreggiassero i due mavì  che circondano Italia, cui diedero perfino il nome.  si vede nel manico è il sole, come io spiegherò meglio in seguito, e l'atto delle mani e dei piedi che volgesi in alto, in basso e per ogni senso, è simbolo della generale influenza dei suoi raggi, cbe si spargono in giro Gli ornamenti a bassorilievo che circondano questo vaso NON HANNO UN SIGNIFICATO DIVERSO da quei che vedemmo alle yavole, ed è  perciò inutile ripetere ulteriormente il già detto. M’ immagino che la figura qui espressa, e ripetuta più volte in molti vasi  trovati nei sepolcri, possa esser Marte, il quale significar vi debba, che il tempo  in cui domina quel pianeta è l’autunno, come in altri monumenti se ne vede l'indizio i 2 , e questo tempo vi si rammentava per la ricorrenza del suffragio delle  anime 3 , al quale oggetto erano istituite feste ed offerte ; o forse rammentasi la  deità degl’itali primitivi. Sono assai numerosi gl’ idoli femminili in bronzo di piccola dimensione pari  al presente, eh’ io credo essere stati nominati comunemente dagli antichi gli Dei  Lari, o Penati, o Geni tutelari, e Giunoni 4 , quando, come questa statuetta, erano  femmine; e dice vasi che ogni donna aveva la sua Giunóne per protettrice 5 . Il gusto dei Greci, come ricaviamo dalle opere loro trovate in Ercolano e  Pompei, era d’inventare ornamenti per le suppellettili anche non attinenti al fasto ed al lusso, dove introducevano con molto genio ed ingegno animali ed umane figure : genio che si propagò per l’Italia, come vediamo nelle opere di Chiu¬  si ,• di che abbiamo un bell’ esempio nei due manichi di bronzo incisi in questa  XXHI Tavola, un de'quali ha un mascherone bizzarramente travisato con fo¬  gliami, fiori ed una barba assai schersosamente spartita. Bella è parimente l’immagine dell’altro manubrio disegnato di faccia e di profilo, dove si vede un anima- i Monumenti etr., ser. 11, Tay. xc, pag. 762. 4 Monumenti etr., ser. 1, p. 279.   % Ivi, ser. vi, tay. F2, num. 3 , p. 17 5 Virgil. Aneid., Ovid., fastor.  5x2, 544 * y* 4 ^ 5 .notabile che i coperchi delle urne in terra cotta sieno di miglior modello  eh esser non sogliono quelli scolpiti in pietra N’ è chiaro esempio questa re-  combente figura che servì di coperchio all’ urna precedentemente esposta. Ognun  vede quanto il panneggiamento sia più ragionato nelle pieghe di quel che osservammo allaTav. XIV ove ne reputammo l’urna spettante a ricca matrona. Chi sa che  il lusso de marmi non prevalesse in tempo della maggior decadenza delle arti ? La muliebre figura qui esposta fu eseguita in fragile pietra tofacea e trovata  acefala in un sepolcro, colla particolarità che il collo è vuoto come anche il torso,  ed è servito per deposito d umane ceneri e d J ossa cremate, che vi si trovarono al-  1 aprir della tomba, ove la statua era sepolta. Il significato non è facile a penetrarsi,  ma dal pomo che ha in mano, e dall atto sedente, non sarebbe fuor di proposito il  congetturarne che fosse una Proserpina, la quale riceve unitamente col suo con¬  sorte Plutone le anime che scendono al Tartaro. Difatti anche al Museo Pio de¬  mentino vedonsi que’ due numi sedenti a . La singolarità dell’ esposto monumento esige che se ne mostri anche la parte  avversa alla già veduta. Ivi più chiaramente si nota che a formarne il magnifico  sedile concorrono i simulacri di due sfingi, le quali assai frequentemente s’incontrano in monumenti ferali; poiché la sfinge reputavasi animale chimerico infernale 3 , e perciò attamente posti ad ornar la sedia della divinità che attende alle  anime trapassate da questa all’ altra vita. La frequenza dei volti velati che vedonsi ne’yasi di terra nera, come in questo,  non lasciano luogo a porre in dubbio se siano o nò rappresentanze di larve o  Lemuri, cioè delle anime 5 , ed il gallo che sovrasta al vaso, pare, come ho detto  altrove 6 , indubitato simbolo del buon augurio di felicità nella futura vita, che a  quelle anime predicevasi dai superstiti viventi. La figura con faccia larvata che   1 Monum, etr., ser. ni, p. 4 io, e ser. vi, Tav.  i, pag. ai, 52. Visconti, Mus. P. Clem. Voi. li. Tav.   3 Monum. etr. «er. i, p. 582.   Etr. Mas. Chius. SULL’ ALFABETO ETRUSCO Uopo che gli uomini ebbero trovato coll’ uso naturale degli organi della  parola, un mezzo facile di comunicare i loro pensieri ai presenti, cercarono, e  trovarono in seguito, quello di parlare agli assenti, e di rammentare a se stes¬  si, ed altrui, ciò che era stato pensato, e detto da loro, e da altri, e ciò ancora di che erano convenuti insieme. La prima cosa pertanto che si presentasse  loro allo spirito in questa ricerca, furono le figure geroglifiche ; ma colai segni  non erano abbastanza chiari, e precisi, nè abbastanza univoci, per adempire lo  scopo che avevasi in mira, di fissare cioè la parola, e di farne un monumento  più espressivo del marmo, e del bronzo. Il desiderio dunque, ed il bisogno di compiere questo disegno, fecero final¬  mente immaginare quei particolari segni, che noi chiamiamo lettere ognuna del¬  le quali fù destinata a notare uno dei suoni sémplici, che formano le parole',  la riunione dei quali segni, è ciò che dicesi alfabeto. Volendo però risalire fino  alla prima origine dì questo maraviglioso ritrovamento, rischieremo sempre di  smarrirsi senza riparo, in un mare di oscurità, e d’incertezze, e circa V epoca  in cui giunsero gli uomini ad un si nobile discoprimento, e circa la nazione  che prima di ogni altra vi pervenne. Lasciando perciò da parte la ricerca di quello che io giudico moralmente  impossibile a rinvenirsi, volgerò le mie indagini a cosa più certa, od almeno  piu probabile, qual e la quistione, se gli Etruschi, od i Greci fossero i primi  a far uso di una cosi bella, ed utile invenzione. E qui pure siamo costretti a  navigare, presso che senza bussola, m un ampio pelago, sparso di profondissimi vortici, d' orribili mostri, e di scogli assai pericolosi. Imperocché, se molti dotti sostennero, e sostengono tuttavia che i Greci sono anteriori agli Etruschi nell’uso dell’ alfabeto, e vengono riguardati come i  maestri di essi, in qualsivoglia arte o scienza, non è per altra parte minore il  numero, nè di minor momento V autorità di quelli, che citar si possono per  sostenere il contrario. Perlochè io aderisco a questi ultimi, sembrandomi la loro  opinione più ragionevole , e più giusta, ed i sostenitori di essa persuadendomi  colle loro ragioni, ciò che non giungono a fare i propagatori del grecismo, ad  onta ancora di tutte le parole greche, o grecizzanti, che s’ incontrano ad ogni pas¬  so in quasi tutti i monumenti etruschi, discoperti finqui, avvegnaché intorno a le mostruoso, che per aver motivo d' essere attaccato al vaso figura di morderlo.  Sotto è un Ercoletto giovane, che tiene la mano alzata, vibrando la clava in segno  di recar danno e morte, ed ha cinti i lombi colla pelle di leone, simboleggiando  di non curarsi della generazione, come è proprio d’Èrcole quando figura il  sole iemale. Difatti rispetto ai viventi è il sole che loro apporta la vita coll’universale  tepore della natura in primavera, e porta danni o morte col raffreddamento del  tempo iemale. Qual simbolo può dunque esser più adattato a decorare un sepolcro,  che quello dove rammentasi la vicendevole transizione dalla vita alla morte? Lo scarabeo di cui si vede f impronta ha inciso un centauro con un fanciullo  sul dorso, forse Chirone col giovane Achille che dicesi da taluno essere stato affidato a quel mostro per riceverne la puerile educazione. La rappresentanza di questo specchio mistico sarebbe forse difficile ad inter-  petrarsi, qualora non fossene venuto a luce un altro di quasi ugual soggetto. In  quello vedesi Giunone sedente in atto di porgere ad Ercole la mammella, perchè  ne succhiasse il latte, il chè succede alla presenza di Mercurio 3 . Sappiamo infatti  che Giove bramava che Ercole per ottenere l’immortalità, benché nato da mortai  femmina, sorbisse almeno latte divino, onde per uno dei soliti inganni frequen¬  tissimi nella mitologia, Giunone gliel porse senza avvedersene. Mercurio vi si  crede introdotto, per attestare ad Ercole d’aver egli pure profittato di tale arguzia, per entrar fra gli Dei, benché nato da Maia donna mortale. Qui non è espresso l’atto di Giunone per allattar Ercole, ma pur vi si vede  Mercurio che si fa noto col suo cappello, e par che accenni d’ aver profittato  egli stesso dell’espediente che suggerisce ad Ercole, il quale gli sta davanti. Ha la  clava , in mano ed un piede elevato, indicando che salir deve all’ immortalità 3  per opera di Giunone 6 eh’ è fra loro.  fli8v«q :ian8 j v :ioj vi.  j a 11 y fi j 1 :i n tnq r = o 4 vii.   1 f\ il 8 4 Y d : fi m 3 4 t :42 vili. •-ifi n t v t :o 4 .• in i n q n o n lx -   -4/nm-rfl4 itntnqfl .-4sa x. Monumenti etr. Galleria Omerica Tom. ii, Tav. cxxi, pag. 2,4.   3 Schiassi, De pateris ariliquor.ex schedis Blan¬  dirli Sermo ed epislolae tab.   4 Diodor., Sic. Bibliot. bist.  Mon. etr. ser.n, Tavv. lxxu, lxxìii, lxxiv, lxxv,   6 Zarinoni, Lettere di etrusca erudizione pubblicate  dall’ Inghirami, pure in ogni tempo di tracciare nello stesso modo le loro scritture. E tutti,  c/uesti ultimi specialmente, furono sempre uniformi in questo, ad eccezione degli  Etiopi soli, e degli Abissini, che sebbene parlino, e scrivano un dialetto semi¬  tico, scrivono tuttavia da sinistra a destra, come gl’ Indiani, ed i segni deliaco alfabeto hanno un valore sillabico, come gli alfabeti indiani, ed anche il tibetano , ciascuno dei quali segni porta seco, in certo modo incorporata una vocale ,  e forma una sillaba. Ciò che non accade in nessuno degli alfabeti europei, e  neppure nel giorgiano, e nell 1 armeno, che vengono pure delineati da sinistra a  destra. Laonde non pare poi tanto strana l’opinione di quelli, i quali pensarono,  che gli Etruschi propriamente detti, fossero discesi in prima orìgine da una  colonia, o emigrazione asiatica. Ma di ciò altrove.   E se i Persiani, ed i Turchi scrivono da destra a sinistra, benché la lingua dei primi venga dalle Indie, e quella dei secondi dalla Tartaria, ciò procede  dall’ aver tanto gli uni, che gli altri adottato i caratteri arabici, ed al tempo  stesso la religione del borano. Quindi tenendo in conto di cosa sacra i suddetti  caratteri, non è da maravigliarsi nè punto nè poco, se essi non abbiano ardito  dì alterarli, nè quanto alla primitiva lor forma, nè quanto alle maniere di rappresentarli colla scrittura. Ché del resto ben diversi riscontratisi gli antichi caratteri persiani chiamati zendici, e pelvici, come assai differenti ritrovatisi, e pel  modo di scrìverli, e perla loro forma, ofigura, quelli dei Tartari. Ciò premesso o siano stati gli Etruschi i ritrovatori dell’alfabeto che porta il loro  nome, o l’abbiano composto di più antichi alfabeti italici, o V abbiano derivato da altrove, come pare dai nomi stessi che portano le lettere del medesimo, benché sia diffìcilissimo, e forse impossibile a provarsi, per mancanza di documenti sicuri, il come,  ed il quando abbiano ciò fatto-, è peraltro fuor d’ogni dubbio, che i Greci non lo comu¬  nicarono loro, e non furono per conseguenza i loro maestrì.Che anzi è da credere che  sia accaduto tutto al contrario, e che gli Etruschi, nazione mitissima, e potentissima in età molto remote, e quando la Grecia era tuttora barbara, e selvaggia,  1’ abbiano comunicato ai Fenici per via di commercio, e che da quelli passasse  ai Greci, se vogliamo ammettere ciò che sostengono quasi tutti gli antichi scrittori,  cioè, che Cadmo facesse loro il dono del primo alfabeto. Del qual Cadmo scrive  Plutarco nei Simposiaci iib. 9 quist. 5, che quel sapiente pose Z'aleph, o alpha  per prima lettera del suo alfabeto, perchè cosi chiamasi il bue nella lingua dei  Fenìci, il quale animale non è da stimarsi nè secondo nè terzo fra le cose necessarie all’ uomo come pensò Esiodo. Circa poi al grecismo, che s’incontra nell’ etrusco, e nell’Etruria, e circa le arti  greche, che vi si osservano, come ancora in altre parti dItalia, ne parlerò a lungo  in un discorso, che tutto si aggirerà intorno a questa materia, esclusivamente  da ogni altro oggetto. E proverò allora, che l’idioma degli antichi Etruschi è nel  suo fondo tutt' altra cosa che greco; dimostrando ad un tempo, in qual modo, e  questo grecismo sian da dirsi alcune cose eli io riserbo ad un altro ragionamento.   Ma ritornando al titolo del mio discorso, cosa è V alfabeto etrusco? É questo un prodotto indigeno dell’ antica Etruria, o sivvero vi fa trasportato da  altra parte del mondo? E se qua venne da estranei lidi, chi fu mai quel benefico straniero , che fece all ’ Etruria un dono cosi prezioso ? Ed in questa  supposizione, passò egli ai nostri antenati dall’ Oriente, oppure dall’ antica Grecia ? O si compose egli forse degli elementi di più antichi alfabeti italici, o  di questi, e del pelasgo fra loro mescolati, e confusi ? E se vi fossero ragioni  bastanti a dichiararlo prodotto indigeno, a quale epoca rimonterebbe l’ antichità  sua , ed a quale ammettendo che sia frutto straniero , e per qual mezzo pervenne ai padri nostri?   A tutte queste quistiom, che possono opportunamente esser mosse intorno al  tema che ho tra mano, io mi studierò di rispondere, quanto meglio e più concisamente per me si potrà, e come sarà possibile rispondere, in qusto breve ragionamento, m una materia cosi oscura, e difficile • E circa alla prima quistione, l alfabeto etrusco, quale noi lo possediamo presentemente, non è certo una  cosa diversa dall antico alfabeto greco, ma sono anzi talmente somiglianti fra  loro, se tolgasi il rovesciamento delle lettere nell’ uno di essi, da doverli giudicare al confronto, senza timore d’ ingannarsi, la stessa cosa, sia diesi riguardi la forma delle lettere, o si consideri l uso delle medesime, Nè giova opporre  a questa asserzione, la maniera di scrivere degli Etruschi da destra a sinistra,  avvegnaché usavano di fare lo stesso anche gli antichi Greci, prima dell’ età di  Pronapide, che si pretende essere stato il maestro di Omero. Che anzi esser  potrebbe credi io, una tale particolarità, un argomento favorevole agli Etruschi,  per crederli i ritrovatori del loro alfabeto• Al che si aggiungerebbe forza non  poca, considerando l antichità loro, più recondita assai di quella dei Greci.   E più ancora verrebbe avvalorato, e confermato un tale argomento, che gli  Etruschi, cioè, siano stati eglino stessi gli autori del loro alfabeto, riflettendo  che i medesimi continuarono in ogni tempo a scrivere, ed anche sotto la dominazione dei Romani, da destra a sinistra-, lo che non avvenne dei Greci, iquali  cangiarono metodo, e presero a condurre la loro scrittura da sinistra a destra.  Ora è più ragionevole il credere, che il rovesciamento degli elementi alfabetici,  e del modo di scrivere, siasi operato da chi l’apprese da altri, che da chi ne  fù l inventore. E questo rovesciamento di scrittura presso i Greci, vuoisi fissare, come di sopra accennava, ai tempi omerici, o di Pronapide.   A questo argomento però se ne potrebbe, per avventura, opporre un altro, dicendo , ché giusto appunto perchè gli Etruschi scrissero sempre conducendo, e  tracciando i caratteri da destra a sinistra, non debbono riguardarsi come i ritrovatori del loro alfabeto, ma convien credere che lo abbiano ricevuto da qualcuno  dei popoli asiatici, e particolarmente di quelli così detti semitici., ì quali usarono  T-;,-   Per la qual cosa , mi pare che dopo tutto quello che ho detto finqui', si possa  rispondere alle questioni proposte in questo medesimo discorso, che V alfabeto  etrusco non è venuto dal greco, ma bensì questo da quello j che desso non è primitivamente indigeno dell’ antica Etruria, quanto ai suoi elementi, i quali furono  quà portati da una emigrazione antica, in tempi tanto reconditi da non poterne  fissar V epoca precisa, e che s’ ignora chi ne fosse il primo inventore, e chi lo  portasse il primo fra noi. Sulla qual primitiva derivazione asiatica dell' alfabeto etrusco, in età da noi remotissime , dettero un ragionamento a parte, che  verrà pubblicato in seguito in quest’ opera stessa. Ciò peraltro non vuol già dire,  che anche la lingua etnisca sia una lingua del tutto asiatica, come la giudicarono  troppo leggermente alcuni filologi, sebbene asiatici si riscontrino l’ antico culto,  e la maggior parte dei riti religiosi, e civili degli Etruschi.   Or qui farebbe di mestieri combattere, e confutare tutte le opinioni contrarie ;  nè io sarei alieno dal prendermi un tale assunto, se i limiti prescritti a questi ragionamenti, nei quali non deve olt repassare , per l’indole dell' opera cui son destinati,  la periferia di poche pagine di stampa per ognuno di essi, me lo concedessero. Non  potendo ciò fare, nel modo che si converrebbe, mi ristringerò ad aggiungere quanto  segue, e mi terrò per ora contento di questo.   Il Cori, il Majfei, ed il Mazzocchi confrontando gli alfabeti punico, e celtibero, o cantabro coll’etrusco, dicono che vi trovarono minore analogia, quanto alla  forma dèlie lettere, che coll’ ebraico. Il Donati poi che fece la stessa cosa nei suoi  Dittici seguitando le osservazioni, che avevano già fatte prima di lui a questo  proposito, l’ Aquila , Teodozione e San Girolamo, scrive nell’ opera sua intorno  alle iscrizioni, che quelle così dette Cizzie, sono riguardo ai caratteri, mollo simili alle etnische j e lo stesso dice ancora del marmo Sanvicense conservato in  Osford, che vuoisi più antico della guerra troiana, e dei caratteri incisi sulla  lamina bustrofeda di bronzo, riportata dal prelodato Majfei nella sua Critica  Lapidaria, non meno che di quelli sulla colonnetta del Museo Nani di Venezia,  giudicata pelasga-tirrena , benché fosse ritrovata a Mitilene .  Questi monumenti, che si credono tutti scrìtti in greco antico, e per essere questo  mollo simile all’ etrusco, specialmente circa la forma delle lettere, sono stati quelli  che hanno fatto mettere in campo, o convalidare l' opinione di coloro, i quali  pensarono che il greco antico, é l'etrusco fossero la stessa cosa, e che per  giunta alla derrata, la lingua dei nostri antenati sia nata dal greco. Senza  avere peraltro mai pensato a provare, che i Greci, ed il loro alfabeto fossero più  antichi degli Etruschi.   Il Gori,fra gli altri, stabili come un assioma, che la lingua etrusco era greca in  non differiva da quella che nel dialetto, nella quale opinione fu  seguito dal Lanzi, e da altri. Ne si avvidero, nè lui stesso , nè i suoi seguaci,  che i Pelasghi, i lirrem, i Pladani, i Lidii, gli Arcadi, e gli Ausonìi, sono  perchè s J introdussero nell' etrusco, e nèll' Etruria propriamente detta, quel grecismo, e quelle arti. Che in quanto alla somiglianza, ed anche identità dei caratteri etruschi, e greci antichi, sii di che fondarono finora il loro più valido  argomento tutti gli archeologi fautori del grecismo, per asserire che l' etrusco ,  ed il greco antico sono in ultima analisi la medesima lingua, è il più frivolo,  ed anche il più ridicolo ragionamento, che immaginar mai si possa, Avvegnaché,  vale lo stesso che se io ragionassi cosi: gl’italiani, i francesi, i fiamminghi,  gli spagnuoli, i Polacchi, i Portoghesi, ed altri popoli d'Europa, come gl'inglesi, i dalmati, e gl’olandesi, si servono dello stesso alfabeto per iscrivere  le loro lingue, dunque tutte quelle lingue sono la stessa cosa. Ma quante sono in antico le lettere dell’ alfabeto etrusco, poiché essendone  stati pubblicati finora dagli antiquari fino a tredici, o quattordici, chi ne conta  un numero maggiore, e chi minore; ed il laborioso, e dotto abbate Lanzi ne  ammette venti nel suo ? Si deve credere che fossero sempre in egual numero ,  oppure che venisse questo accresciuto a più riprese, e ad epoche diverse, come  si narra essere avvenuto dal greco, il quale fù condotto fino al numero di ventiquattro lettere, benché non ne avesse che sedici nel suo principio ? E non sarebbe questa una ragione di più, onde confermare ciò che accennava poc anzi,  che l’ alfabeto, cioè, facesse passaggio dagli Etruschi ai Fenici, e da questi  ai Greci, osservandosi ancora che nessuno degli antichi alfabeti italici oltrepassò mai il numero di sedici lettere? Difatti nei piu antichi monumenti, fra  i quali nessuno vorrà contradire che siano da riporsi gli atti dei fratelli Ar-  vali, non se ne contano che sedici sole.   Di più non trovandosi mai usato l o nelle epigrafi antiche veramente etni¬  sche, riscontrandosi questa lettera fra quelle degli altri monumenti italici parimente antichi, come pure fra le prime sedici dell alfabeto greco, cosi detto  cadrneo, sì può dubitare se gl’etruschi ne avessero neppur tante in principio, e cresce sempre più la probabilità della mia asserzione.   Secondo t enciclopedico Plinio, le lettere dell alfabeto cadrneo furono le seguenti . cioè: ab r a eikamnoiipstt. Alle quali poi ne aggiunse quattro  Palamede, che sono, e 3 $ x. E finalmente Simonide lo accrebbe di altre quattro,  cioè, zìi va. E pare anche ben naturale, come fù pure osservato dall’ erudito  filologo francese Sig. Letronne, che quei primi sedici caratteri siano stati  inventati avanti agli altri, perchè rappresentano i sedici tuoni elementari, o  semplici, ché formar si possono colla bocca umana, sia per intuonazione, o  per articolazione. Mentre gli altri caratteri aggiunti a questi, ed usati negli  alfabeti dei differenti popoli, esprimono, o delle gradazioni di quei suoni principali , o la riunione eli più articolazioni in una sola . Di maniera che ognuno  di essi può essere più, o meno esattamente decomposto nei primitivi suoni  eh’ egli contiene. Che s’è regola di sana critica di non prestar fede agli antichi poeti, in tutto  ciò che narrano di sovrumano, e di misterioso, lo è del pari di rintracciare il  vero anche in mezzo alla favola, che viene giustamente definita dai sapienti, il  velo deila verità, e della storia. Ipoeti dell’ antichità, ché erano più istruiti di tutti  gli uomini dell’età loro non inventarono, come si crede male a proposito, le favole, ma bensì adornarono con finzioni la storia . Rimossele quali finzioni, è cosa ben facile di rinvenire la verità, nei più notabili avvenimenti per essi narrati, e abbelliti. Cosi la pensa Agostino nel lib. della Città di Dio. E ci avverte Vossio nell’ aureo suo trattato De fatione studiorum, che non si dicono  favolose le antiche età, perchè sia falso ciò che di essici vien riferito dagli scrit-,  tori, ma perchè la storia di quella ci è pervenuta insieme colle favole mista, e  confusa. /u M : oj : ntriq r : oqflj  v/r 3Hfl Jiiffl -1 = q/i  j/r n# j a  san/urn/Mq/i  V/13 : q A : D l   = irnoai  4 /ini AD  Jfìlmq 3E : Am 34t : 44  -1V84flHMI3:3Hiq3®:q/1  4/mmq vo • IHltfl 4 14  : I ?434 : I \IA8  JAMAJll V A'!  vq 1 : U434 .- A» n 33  4fl mif A4 : Al 3 f   25    tutti popoli anteriori ai Greci, e che trovansi tutti amalgamati cogli Etruschi  nelle età più lontane. Perlochè convien dire che siano gl’etruschi stessi, i quali  portino diverse denominazioni, dalle diverse provincie dà loro abitate, nelle  quali era divisa l’antica Etruria. E come oggi i fiorentini, i senesi, i pisani,  i lucchesi, ì magellani, i casentinesi, e simili, sono tutti toscani, cosi pure  nei più reconditi tempi gli Umbri, gli Enotrl, gli Aborigeni, e tutti gli altri annoverati di sopra, erano Etruschi. Silio Italico lib. a. 0 chiama Ausonia la Lombardia. Ed Eliano lib. 8.° della Varia istoria, crede che gli Ausoniifossero i primi abitatori di Italia-, mentre Pirgilio nel io. 0 dell’ Eneide, li confonde con quelli che popolavano questa  bella penisola sotto il regno di Saturno. Servio poi commentando un tal passo,  dice che gli Ausonii furono sì dei primi popolatori cì Italia , ma non già i  primi di tutti, nei soli. Ed ecco perchè alcuni scrittori hanno compreso sotto il  nome di Ausonia tutta l’Italia.   Ora tutti i surriferiti popoli, non esclusi neppure i Latini, che molti autori vogliono che fossero diversi, e dagl Italici propriamente detti, e dagli Etruschi, ripetono la loro prima origine da una colonia, o emigrazione qua venuta dall’Asia, in tempi forse al di là di quelli che da noi son detti storici. Lo che fu negato acremente da altri per la sola ragione di potere stabilire, che i Greci furono i primi  coloni di Etruria, e che vi s’introdussero insieme con essi, le arti e le scienze,  e perfino la cognizione dei segni alfabetici. Ma non potendosi negare, senza offendere il senso comune, che queste regioni erano popolate molti secoli prima che  i Greci le conoscessero per via di commercio, e vi spedissero in seguito delle colonie, conviene di necessità ammettere, che i Greci non furono i primi abitatori  d’Italia, e per conseguenza neppure di Etruria, e molto meno insegnarono loro  a parlare. Quando peraltro non voglia credersi, ché i popoli italici, e gli Etru¬  schi, fossero tutti muti prima dell’ arrivo dei Greci fra loro. Laonde cade, e si annulla il sistema dei fautori del grecismo.   Macrobio infatti ammette un diluvio, non già ai tempi di Deucalione, e di Ogi-  ge, ma bensì a quello di Giano, ch’ei qualifica per primo re di tutta l'Italia. E  Dionisio d’Alicarnasso, che è sempre in contradizione con se stesso, dopo avere  scritto che i Pelasghi furono i primi popolatori d! Italia, che 5oo anni prima di  Giano ne scacciarono i Siculi, e che gli Enotri eransi prima dei Siculi stabiliti  nell’ Umbria, pretende poi di darci ad intendere, e farci credere, che Giano precedesse la venuta di Enea in Italia di un solo secolo, e mezzo. Ma se il cosi  detto secolo d’ oro, ossia il secolo della pace, e della giustizia, fu secondo Vir¬  gilio, ed altri scrittori antichi, quello in cui regnarono Saturno, e Giano, que¬  sto non può essere stato posteriore all’ età di Noè, e de'suoi figli, che dietro gli  insegnamenti paterni, calcarono essi pure la via della giustizia, e coltivarono  tutte le virtù sociali.    Etr • Mas. Chius. Tom.    nemico se gli Dei, per suggerimento di Nettuno, non lo avessero voluto sal¬  vo 2 . Or non vedi qui pure Achille che tenendo lo scudo lungi da se, pone mano alla  spada ? Non vedi il Tanato che quasi obbrobriato volge il tergo alla pugna col  suo martello sugli omeri, per mostrare che morte non avea luogo in quel con¬  flitto, perchè ad ogni costo dovevasi Enea salvare alla gloria d’Italia? Questo dise¬  gno è una quarta parte del suo originale in marmo d’ alto rilievo.  Qui si mostrano i due laterali scolpiti del cinerario che è nella Tavola. Nell'uno e nell’altro sono rozzamente indicate due porte, che rappresen¬  tano, credo io, le infernali, alla custodia delle quali stan vigilanti due ministri del  Tartaro. La figura femminile al num. 2 è visibilmente una Furia, come dichiaralo  quella face che regge con ambe le mani; di che detti altri cenni 3 ; la virile col mar¬  tello sugli omeri è il Tanato, altrimenti detto Cliarun tra gli Etruschi \ e confuso col¬  l’Orco, ministro anch’egli di morte e d’inferno, che spesso incontrasi nei monumenti  antichi d’Etruria 5 , e non già tra quei de J Greci, nè de’Romani cosi rappresentato.   La testa eh e nel mezzo, serve per coperchio ad un vaso di terra cotta, di che  dovrò trattare altrove; ora avverto che questa è la terza parte del suo originale : Affinchè I’ urna cineraria già esposta si mostri compita, fa d’ uopo di non  disgregarne il suo coperchio, dove si vede un seminudo recornbente con una patera in mano, nell’attitudine stessa che vedonsi rappresentati gli Etruschi a men¬  sa. Nè la patera disdice a chi cena, mentre vedesi usata a convito dai commensali 6 . La veste che in parte copre il recornbente è detta sindone, pure usata ai  conviti 7. La nudità della persona indica 1’apoteosi, di che altrove dò conto 8 .  Il frammento di scultura segnato in questa tavola, è un tufo tenero, e del  genere di quello notato nelle prime cinque tavole della presente collezione Chiu-  sina. Orchi mai crederebbe, che nella tomba dove fu ritrovato non vi fossero  gli altri frammenti, che ne componevano l’ara intiera? chi crederebbe che que¬  sta sorte di monumenti in tenera pietra arenaria si trovino quasi costante-   1 * spiegazione della Tav. xm.   4 Monumenti elr. s -5 Mono. etr. ser. i, p. 44 » 73 , 74, 264, 284.   6 Ivi, ser. vi, tav. F. num. 2 .   7 Ivi ser. i, p, 395.   8 Ivi ser. n,j>. 628.  Nelle urne di Volterra parventi ripetuto questo soggetto medesimo, ed ivi spiegandolo, avventurai l’interpetrazione di un fatto tebano, del quale io stesso poco  andai persuaso, nè ora saprei meglio dire. Vi suppongo Anfiarao nell’atto d’aver  tagliata la testa di Menalippo, che Tideo, sebben ferito, aveva già ucciso; e gliela  portò, per cui da Tideo medesimo fu commessa l’atrocità di aprir quel cranio, e  divorarne le cervella. In ogni restante ancora son simili queste due sculture,  sebbene men rozza l’urna di Chiusi. Questo disegno è una quarta parte del mo¬  numento originale di marmo in bassorilievo.  Quanto la frequenza delle rappresentanze di avvenimenti ferocie marziali, co¬  me quei della tavola antecedente, fan giudicare l’etrusca nazione d’umor malin¬  conico 3 , altrettanto voluttuosa e molle giudicar si dovrebbe dal presente gruppo che appartiene alla scultura antecedente, per esser quella un’urna cineraria,  questa la di lei copertura . Credo per altro che l’uno e l’altro soggetto non dal¬  l’indole degli Etruschi abbia origine, ma da loro massime di religione, dove dicevasi  che la vita era un irrequieto contrasto, e la morte conduceva ad un vero godimento,  il quale non sapevasi esprimere che mediante la soddisfazione dei sensi 3.  Mentre il fasto orientale sfoggiava in lusso degli abiti, l’EROISMO dei Greci caratterizzavasi col MOSTRARSI A NUDO Tra i guerrieri di questo bassorilievo ne vedi  uno vestito , e in questo caso potrebb' esser troiano, e tra i Troiani credilo ENEA,  che soggiacque a mille peripezzie di grave cimento, senza però mai soccombere , perche gli Dei, per quel che ne dicono Omero \ e VIRGILIO 5 , avean destinato ch’egli regnar dovea sopra i superstiti Troiani, e sopra i figli dei figli, e sopra  quei che appresso erano per venire da loro. Difatti racconta specialmente Omero  che Achille, cosa strana ! si sgomentò nel combattere con Enea, e tenendo discosto  da se lo scudo, cercava di sottrarsi ai colpi vibrati da quell’eroe 6 ; ma poiché  questi a vicenda contrattosi colla persona, e copertosi collo scudo evitava l’assalto  dell avversario ', come nel bassorilievo mirasi espressa la figura che ne occupa la parte media, Achille allora pose mano alla spada, ed avrebbe trucidato <il   1 Monum. etruschi, Ser. 1, Tav. lxxxiii, p. 666. 5 Virgil, Aeneid. ]. ni, y . 97, 98.   2 Ivi, p- 667. 6 Homer. Iliad. 1 . xx, v, 261, 26a.   3 Ivi, ser. v, spieg. della Tav. Homer. Iliad.  fu detta di lui consorte. Se consideriamo i due nomi spettanti ai due pianeti Ve¬  nere e Marte, potremo giudicare la figura terza per un Saturno, altro pianeta.  Nè da ciò si allontanano i di lui attributi, poiché ad esso rompetesi, non solo  quella barba prolissa che gli orna il mento, ma eziandio quelle fronde, e germogli, o gemme di vegetabili che gli cuoprono il capo, attributi propri di sì antico nume, non meno che la spada falcata da lui sostenuta '. Queste tre deita  e pianeti possono appellare all j oroscopo di un’ anima che nella stagione di pri¬  mavera passa agli Elisi, di che altrove do più esteso conto a . 11 vaso contiene  altre tre figure che saranno spiegate nella Tavola seguente. Ecco le altre tre figure che vedonsi nel b. rii. del vaso esposto nella Tav.  antecedente. L’interpetrazione dottissima scrittami di esse dal eh. sig. dott. Maggi,  merita d’esser nota preferibilmente a qualunque mia congettura. Egli dichiara  in quel mostro una Gorgone, o un Tanato: in quell’ uomo con testa ferina un  Minotauro: nell’uomo alato che sta nel mezzo un Mercurio. La totalità della com¬  posizione credesi dal dotto interpetre allusiva al tempo nel quale facevansi le an¬  nuali commemorazioni delle anime. Quindi la figura larvata è da esso giudicata  il Male personificato in un mostro, come fecero gli Egiziani del loro Tifone;  mentre credevasi che prevalesse il male all’ entrare dell’ autunno . E questi nel  tempo stesso il Charun degli Etruschi che fingevano orridamente larvato, e di te¬  sta grossa. Indicano quelle mal collocate sue ali che la morte raggiunge l’uomo  ancorché fuggitivo da essa, di che l’interpetre dà ragioni che appagano. La se¬  conda figura è da esso dichiarata per quel Mercurio, che occupato nell’ uffizio di  accompagnar le anime, ha deposti gli emblemi che lo distinguono per ministro  dei numi. Giudica poi la terza mostruosa figura esser il Minotauro allusivo al  centauro o centauri celesti, piuttosto che al figlio di Pasifae; e qui pure dà ra¬  gione in qual modo leghi la dottrina delle anime colle favole dei centauri autun¬  nali. Nota egli che il fiore sia un anemone significativo del sole passato ai segni inferiori, per cui sopravviene l’inverno, vale a dire il male che da ciò risente la  natura, e quindi anche le anime come credevasi,- tantoché quel mostro con testa  gorgonica rappresenta parimente il sole iemale. Gli uccelli sono, a tenore del di  lui parere, siderei, anch’essi spettanti ai segni inferiori, e indicanti la via lattea che  percorrevano le anime nel passaggio loro alle sfere celesti. Da ciò conclude che  tutta la rappresentanza sia una spece di geroglifico significativo dell’autunno, cioè  del tempo in cui le anime dovevan esser suffragate. Egli palesa d’ aver tratta  questa interpetrazione dallq mie opere 3 .   i Bianchini, Stor. universale,cap. li, §x ,p. 84 * >, pag. i8t, lettera al dott. Maggi,   a Inghirami, Lettere di etnisca erudizione, Tom. 3 Lettere, lettera di Maggi. mente mutilati? Eppure è così; nè ciò farà tanta sorpresa, se consideriamo che  anche i vasi fittili sepolcrali si trovano spesso rotti dagli antichi. Sarebbe forse  ella mai una ferale cerimonia liturgica ?   Qui osserviamo ancora un vasetto in pietra arenaria, tre quarti men grande  del suo originale; ed è simile a quei che prima dicevansi lacrimatorii, e che ora si  dicono unguentari 3 , perchè si vedono in mano di chi versa unguenti sul rogo 3 ,  nè questo è dei comuni per la gran somiglianza coi vasi egiziani dell’uso stesso.Notiamo questi recipienti con volgar nome di bracieri, mentre per tali si  tengono quei che sono atti a contener brace, ed insieme i vasi escari, e culi¬  nari. Ma l’originale qui copiato a metà di grandezza, non fu vero braciere, nè  veri escari quei recipienti che vi si contengono, mentre l’uno e gli altri sono di  fragile terra cruda, non atta a resistere l’effetto del fuoco . Io suppongo essere  stati adoprali nei riti funebri i veri bracieri di bronzo detti anche borni, usati  a bruciar vittime, e profumi. Quindi al termine della funebre cerimonia in luo¬  go di lasciar questi nel sepolcro, come lo esigeva il rigore del rito, altri bracieri  di semplice figura, e formalità, perchè di terra non cotta, sostituivansi a quelli.  Il pollo che vi si vede nel mezzo, è consueto simbolo di buon augurio, che  vedemmo altrove 4 . Le varie teste che ornano l’utensile han pur esse il si¬  gnificato medesimo relativo alle anime, come in altre occasioni ho notato*.   Serve la tavola presente a mostrare qual fosse la forma esteriore del bra¬  ciere o escaria, o estia che dir si voglia, la quale vedemmo nella parte ante¬  riore disegnata nella tavola antecedente. Le sfingi e larve che vi si vedono apposte, sono analoghe all'uso ferale di questi monumenti 6 .Questo vaso ch’è una quarta parte dell’ariginale, è della solita pasta nera con  ornati, e figure a bassorilievo i, le quali sono in questo disegno della loro naturai  grandezza, e ne occupano tutto il corpo. Ivi son ripetute tre volte. La prima di esse  figure indubitatamente è un Marte; e in conseguenza la donna che gli è dap¬  presso, quantunque priva di attributi, può credersi Venere, che nella mitologia   1 Museo Chiaramonii Tav. xxv. 5 Pollux. 1 . i, segm. 3 .   2 Paciaudi, Monuoi. peloponues. Voi. u, p. iSo 6 Motium. etr. ser. i, p. aao.   3 V e d. p. ij, 7 V’cd. la spiegazione della Tal. ini. SUL GRECISMO CHE S’INCONTRA NELL' ETRUSCO, SULLE ARTI GRECHE  OSSERVATE IN ETRURIA, E SULL’ ORIENTALISMO CHE RIDONDA  PER TUTTA ITALIA. Era involta l’origine degli Etruschi in ima impenetrabile oscurila fino  dal tempo in cui scrivevano i più antichi storici che noi conosciamo. Lo che fa  certamente gran maraviglia, quando si riflette all’ esteso dominio di quel popolo, sì celebre, e sì potente, che aveva una Casta sacerdotale, e possedeva  tempo immemorabile un particolare alfabeto, ed era più avanzato nella civiltà  di tutte le altre nazioni di Europa. E ciò molto prima dei Greci,  pensino, e ne scrivano in contrario, i dotti compilatori della Rivis a  Lungo. Tutto quello poi, che noi sappiamo della sua susseguente istoria, e c e e  suìistituzioni, non ci è stato trasmesso che dalle nazioni contemporanee , giacche gli scritti degli autori etruschi, sono periti da lunga età. E le loro iscriA  ni scolpite sul marmo, e sul bronzo, non sono finora più intelligibdi per noi, i   quello che lo siano i geroglifici egiziani. Ma se dunque la lingua etrusco, non è in prima origne la stessa che a  greca antica, con piccola diversità di dialetto, come pretendevano, il Gori, e  i suoi fautori, e più modernamente l industriosissimo Abbate Lanzi, e tutta  la sua scuola. Se i Greci non furono i maestri degl’etruschi, in qual modo,  riprendono quelli di contraria opinione , s J incontra cosi frequente il grecismo  nell' etrusco, e si osservano cosi comunemente le arti greche in Etruria .  ben rispondere a queste domande, sono da premettersi alcune considerazioni,  che verrò qui brevemente esponendo. Ridonda in primo luogo, nell’etrusco, il grecismo, per una ragione oppo¬  sta diametralmente a quella predicata , e diffusa fin qui dagli archeologi, cioè,  perchè furono gli Etruschi ad un’ epoca assai recondita, i maestri dei Greci,  i quali riceverono da essi, e dagl’egiziì, le prime nozioni della scrittura, per  mezzo dei Fenici, come altrove accennammo. Questi elementi però non erano in  prima origine prodotto indigeno della Etruria, ma v’ erano stati trasportati da   una più antica emigrazione asiatica. Osservansi poi, in secondo luogo, in ogni parte di Etruria, ed anche nel  resto dell’antica Italia, gli avanzi delle arti greche, perchè quella vivace, ed  ingegnosa nazione, che aveva il talento e l’attitudine di perfezionare , non me- Quando si trova nei monumenti Mercurio che ha sulle spalle un ariete, se gli  dà il nome di Crioforo, e cosi nominavasi la di lui statua venerata in Lesbo,  che avea scolpita Cakmide, a significare ch'era il dio dei pastori, come crede  la plebe, mentre altri asserivano eh’ aveva liberato quei di Tanagra dalla  peste, girando tre volte in forma espiatoria intorno alla città, con un montone  sulle spalle. Ma il vero senso, benché mistico di quell’atto, è la congiunzione del  sole col segno dell’Ariete, per cooperare allo sviluppo della generazione, mediante la quale son rivestite le anime d’utnana spoglia, per cui cred’io che talvolta il  nume vien espresso con lubriche forme. Il religioso cerimoniale degl’idoli portava in fatti che l’ariete o lo stesso nume si rappresentasse nelle patere libatorie per onorare i morti. Questa pittura è nel mezzo d’ una tazza di terra cotta, che ha di più il pregio d’essere scritta, ove peraltro non leggesi che  un saluto di buon augurio ad Erilo Eprìo; K«)oe.   tavola xxxvr.   Di questa muliebre figura non mi occorre dir molto, per esser già nota  mediante l'estese notizie e congetture che ne detti altrove ». Io la giudicai rappresentativa della divinità presso gli Etruschi, giacché ne monumenti de'Greci  non si trova mai, e la dissi una Nemesi Dea ch’ebbe origine in Asia, e perciò munita di pileo frigio, e di doppie ali, onde mostrare la velocità del  suo corso, per cui le si vedono altresì le scarpe. Ha in mano un simbolo eh' io  giudicai allusivo alla natura prolificante w*, »//>, mentre gli Etruschi tennero  la narura e la divinità per una cosa medesima. La corona che l’attornia è di  frassine, vegetabile sacro a Nemesi. Tutto il monumento, eh’è uguale in  grandezza al suo originale, è un disco di bronzo assai frequente tra i monumenti etruschi, lucido nella parte avversa, e manubriato in sembianza di specchio;  e poiché se ne son trovati alquanti nelle ciste mistiche, ove Clemente Alessan¬  drino dice esservi stati riposti gli specchi unitamente ad altri simboli mistici,  così li chiamai ordinariamente specchi mistici 3 .  i Monumenti etr. ser. ti, dispregiarsi l'etimologia , quanti 1 ella è sobria, e ragionata ,) comincerò da quelli  delle lettere dell’ alfabeto . 1 quali non avendo alcun significamento in greco , e  portandone uno analogo alla loro posizione,ofigura, o suono, negl’ idiomi asiatici, è ben facile a comprendersi da chicchesia, che non dalla Grecia, ma dal-  l’ Asia derivar debbono la propria origine.   E vaglia il vero: Alpha , per esempio, significa principe, primo, principio, e  sìmili, in più dialetti asiatici, e precisamente in quelli cosi detti semitici, nei quali  si pronunzia aleph , o alepha, e per contrazione alpha, cui pare che fosse dato un  tal nome per essere la prima lettera dell’ alfabeto,   Beta, che viene da beth, betha, suono imitato dal belare delle pecore, e però sempre inalterabile nella sua naturale Semplicità, checche ne ciancino in contrario i grammatici, i quali pretendono di farcelo pronunciare bita, ed anche più  barbaramente vita, vale una sorta di casa, per la somiglianza che ha questa lettera  colla casa stessa, nell’ Alfabeto semitico.   Gamma viene da ghirnel, gamia, gamal, che vuol dire carnelo, ed imita colla sua forma la gobba, o le gobbe di quell’ animale. Cosi delta deriva da da-  leth, o deleth , deletha, e per sincope delta, e significa porta, cui somiglia pure nella figura. E cosi ancora epsilon fu presa dalla he semitica, e trae la sua  denominazione dal suono che si manda fuori nel pronunziarla. La zeta, deriva dalla zain, quasi ziian, che vale un’ arme, perchè somiglia  nella sua forma ad un dardo. E cosi percorrendo l’ intiero alfabeto.   La quale opinione acquista una forza tanto maggiore, in quanto che si osserva, che gl' ingegnosissimi Greci, non hanno neppure nella loro lingua, che  è si ricca, un vocabolo indigeno per nominare la più bella, e la più maravigliosa di tutte le cose create, qual è il Sole. Imperocché la voce , elios, di  cui si servono per nominarlo, non è altro chela pura semitica, el, o eloab, inflessa  alla greca . E SIGNIFICANDO essa, fra le altre cose, anche Dio nel suo primitivo idioma, si vede il perchè si propagasse ancora in Grecia, come altrove il culto del Sole. A maggior conferma poi del mio assunto, ecco una serie di nomi, presi qua, è là  senza scelta, ed appartenenti a cose assai diverse fra loro, come a dire, divinità ,  eroi, fiumi, monti, città, provincie, popoli, edifici!, e simili, i quali tutti sono evidentemente orientali, avendo nelle lingue asiatiche, un significato, mentre non ne  contengono alcuno nei linguaggi degli altri paesi. Lo che viene a provare ad un  tempo, che i Greci non sono i ritrovatori della loro mitologia, e che altro non hanno  fatto che foggiare un infinito numoro di ridicoli Dei, prendendo per cose reali ì simboli degli Orientali, e le loro allegorie, e parabole .   ti. facile infatti avvedersi, che Pale, la quale presiedeva alle feste rurali in Italia, e Pallade, che mentre era la Dea della guerra, e delle arti, insegnava la convenevole cultura agli Ateniesi, non sono che un soggetto medesimo, sotto due nomi diversi; ì quali però vengono entrambi dalle voci semitiche, palai , e pillai, che significano, regolare i cittadini , e da pillali, che vuol dire ordine pubblico. no che l'industria di farsi suoi gli altrui ritrovamenti, mandò a più riprese, come  tutti sanno, colonie in Italia, le quali vi fecero pure lunga dimora. Queste colonie  pertanto, riportarono nelle nostre contrade, più belle, e più gentili quelle arti medesime, che ne avevano prima trasportate, grossolane, e rozze alla terra natale, i  loro predecessori. Ora, siccome andrebbe grandemente errato il giudizio di colui,  che vedendo un italiano vestito alla parigina, o all’inglese, volesse inferirne, che  quella foggia di vestimento sia invenzione italiana, cosi è di quelli, che tutto vogliono attribuire ai Greci, perchè i monumenti che ci rimangono dei nostri antenati, sentono più, o meno del greco stile , e della greca maniera. Nè vale opporre, che mancandoci le autorità degli antichi scrittori, onde fiancheggiarla, e provarla, fa d’uopo rigettare una tale opinione. Imperocché, ove siamo privi di monumenti scritti, che bastino a provare un assunto di questa specie, è  giuoco forza ricorrere al senso comune, e farsi scudo del raziocinio ; i quali valgono  m ultima conclusione più di qualunqué autorità degli scrittori, trattandosi dei non  contemporanei. Ora questo senso comune, e questo raziocìnio, rafforzati da un gran nume¬  ro di nomi, ( oltre quelli dell alfabeto, e dei suoi elementi ), di fiumi, di montagne,  di città, di provincie , di divinità, di eroi e simili, ci attestano altamente, e chiaramente ci dicono, che dessi non possono esser venuti che dall’ Asia, perchè sono  asiatici, e tutti ritrovano il loro significamento negli idiomi di quella parte di mondo.  Ed essendo questi medesimi nomi per la maggior parte assai più antichi di tutti i  monumenti, e di tutte le storie che finqui si conoscano , non si può negare di  ammettere, che se asiatici non furono i primissimi abitatori di Italia, e per conseguenza d’Etruria, tali però debbono essere stati assolutamente, quelli che  insegnarono agli Etruschi l’arte Ai scrivere, e ne volsero gl’intelletti alla cultura  delle arti necessarie alla vita, e delle utili, e dilettevoli discipline. E perchè non paia ai nan dotti in tali materie, ed agli imperiti delle lingue  orientali, che io mi tragga dalla propria Minerva siffatte opinioni, così contrarie  alle già invalse, ed approvate dal maggior numero degli archeologi, che  scrissero sull’ Etruria, e sugli Etruschi, è necessario che io venga esponendo,  le opportune prove di quanto asserisco, ai miei lettori. Perlochè, senza veruna  pretensione all' infallibilità delle mie asserzioni, eccomi pronto alla dimostrazione  delle medesime. E tralasciando di riferire in questo ragionamento tutte le tradizioni, non mai interrotte dai tempii più reconditi fino all’ età nostra, le quali  dicono essere stati gli antichi Etruschi nazione cultissirna, e potentissima, mi  ristringerò a quella che c’istruisce aver eglino attinti i primi lumi della loro  civiltà, da una colonia, o emigrazione proveniente dalle parti orientali, che  furono la cuna del genere umano, e di ogni sapere, e non già dai Greci, che  erano a quei tempi, se pure esìstevano , del tutto incolti, e selvaggi. Venendo pertanto all’ etimologia dei suddetti nomi, ( che non è sempre da  Etr. Mus. Chius. ^  libio, e Tolomeo, dalbascuenze pitsà, equivalente a schiuma, perchè situata, secondo  Rutilio, vicino al fiume Ausuro , e sull’ Arno, Quam cingunt geminis, Arnus, et Ausur aquis. Orvieto, chiamato Herbanum da Plinio, prende il nome dalle celtiche voci herd,  e baun che vagliano terra alta. E di là scendendo verso Roma , incontrasi non lontano dal Tevere il lago Vadimone, o all’etrusca Vadimune, oggi lago di Bassano,  alle cui acque attribuisce lo stesso Plinio, fra le altre qualità, vis qua fracta solidan*  tur; la qual salutifera proprietà è significata dalla prima parte del suo nome, chea  vateded equivale in celtico ad utile,proficuo,e simili. Angiunge poi lo scrittore medesimo che era quel lago riguardato come sacro, perchè sotto l immediata protezione di  non so qual deità ; lo che viene espresso dalla seconda parte del nome ch’ei porta,  cioè, mund, o più dolcemente mun che corrisponde difesa, protezione, e tutela. Trovavasi poi al mezzodì di tal lago Fescennio, luogo celebre per le sue oscenità , e le quali sono indicate dal nome, essendo gitisi’ appunto licenza, sfrenatezza, il  SIGNIFICAMENTO di quello; e però ne cantarono, Orazio  Fescennina per hunc inventa licentia morena,  e CATULLO, Ne diu taceat procax   Fescennina licentia; Oltre di che, il celtico wels-hein, latinamente Fescennium, s’ interpetra bosco  di Venere.   Nomina Tito Livio, Fanum Voltumnae, oggi Viterbo , e credesi comunemente  che questa Voltumna fosse una divinità. Difatti il Dempstero la reputa la prima  fra tutte le etnische, e Banier V annovera frale campestri. Ma è da credere che  Voltumna, venga dalle due voci volt e tun, e per questo il Fano prendesse il nome  non già dalla divinità, ivi adorata, ma dal luogo ov’ era posto, poiché significa  colle percosso dal fulmine,o colle fulminato. Cosi pure, Auno , famoso Ligure, ausiliare di Enea, quando venne a stabilirsi  in Italia, e che trovasi descritto nell'undecimo libro dell’ENEIDE, come paurosissimo  nello scontro colla valorosa Camilla, significa precisamente pauroso, timido in lìngua armorìca, uno dei dialetti indo-scitici. E Cupavone, che andò pure col suo naviglio in soccorso di Enea, si traduce capitano di mare, come Taro,,f ’interpetra gran  fracasso, o che fà gran fracasso, rovinìo, o danno, ed ognuno di leggeri comprende,  quanto ciò si convenga ad un tal fiume romorosissimo , e precipitoso. Iasio viene da iasesc, che vuol dire, longevo, antico, e ben corrisponde all’idea,  che ce ne danno ipoeti, come Capi deriva da capasci, uomo libero, traendosi da ca-  pasc, libertà. Laberinto procede da labiranta, che vuol dire torre, palazzo; Trittolemo da triptolem, che vale l’apertura dei solchi, Celeo da celi, vaso, ordigno, masserizia, e però dice VIRGILIO (si veda), Virgea preterea Celei, vilisque supellex. Palilie, ossia la festa degl’istituti, e delle leggi, derivada palilià, c he significa l’ordine pubblico, o da peli], che vale moderatore/Iella cosa pubblica, il primo in Isaia, Penati, è voce che deriva da penisi!, luogo interno, o intimo , e la cui radice è  penàh, che vale penetrare; tutte le quali significazioni convengono benissimo a quelle familiari divinità degli antichi Romani. E Levana deità latina essa pure, è la  medesima che Lucina , la quale sostenta i nati di fresco, e deriva da Jevanàh, che  vuol dir Luna. La Parca, non è cosi detta a non parcendo, come pretendono i Grammatici, e  gli Etimologisti latini, ma bensì da parech, che vale rottura , perchè tronca essa il  filo della vita; come Cerere, da gheres, spiga matura, e Cibele, da chebel partorire.  Difatti quella prima è la dea delle messi, e viene riguardata la seconda come la  madre di tutti gli Dei . Osservo il Passeri, che Venere, detta Venus dai Latini, era parola sconosciuta  ai Greci, i quali esprimono questa pagana divinità, colle voci Sfpofarv, topo,  Afroditi, o Afaodite, Kipris, Kitereia. E fu per lungo tempo ignota anche ai Romani,  come attesta Macrobio nel primo libro dei Saturnali. Afferma poi Earrone che il notile di questa Dea , non conoscevasi fra gli stessi Romani, nè greco nè latino, neppure  sotto ire. Ed aggiunge Pausatila nel suo primo libro, che era ignoto agli antichi Greci, e che lo aveva trasportato fra loro Egeo dalla Fenicia, e dall’isola di Cipro. Gli  Etruschi però conoscevano benissimo una tal Dea , eia chiamavano Vendra, come  rilevasi da un antico specchio mistico . E la sua origine sente dì ebraico, avvegnaché, ben-thara vuol dire figlia del mare perchè tbara significa umidità, dal qual  vocabolo fecero i Grecite, tharas figlio di Nettuno. Quindi furono dette Tbarso  quasi tutte le città marittime, e tarsisc, il mare, il lido, un porto. Dalla stessa voce ben, che si cangia spesso in ven, per le regioni a tutti note, furono composti molti nomi di Dee, come quello della Bendit degli Sciti, di Bentasicima figlia di Nettuno presso Filostrato, ed altri. Nè vennero da una sola parte, e nomi, e riti, e costumanze asiatiche in Etruria,  ed in tutta Italia, ma per più e diverse vie: peri oche non da un solo linguaggio asiatico  trar si debbono le spiegazioni dì questi nomi, ma da più, e diverse lingue, e dialetti di  quella famosa contrada. Quindi tutti i celtici, e tutta la gran famiglia degl’ idiomi così detti indo-scitici, possono esser messi utilmente a contribuzione, come altra  volta accennammo per la retta intelligenza dell’ etrusco, e per interpelrare gli antichi monumenti del nostro paese-.Dal che viene a dimostrarsi , che il dotto, ed acuto  padre Rardetti, non aveva poi tutti i torti, di che altri volle troppo leggermente aggravarlo. Ma riprendiamo la nostra disamina. LIGVRIA, nome di quel tratto di paese, detto la riviera di Genova, fu cosi  detta da Liguria voce bascuenze,che vuol dir soave. E si formarono probabilmente da  questa, il verbo latino, ligurire, che significa mangiare soavemente, o mangiare cose soavi, e il nome greco liguros che vale anche soave. Pisa, cosi chiamata , o per la figura dell’ antico suo porto, che si trarrebbe da pi*  se ,che vale in dialetto lidio porto lunato, o se fu detta Pissa, come la chiamano Po -  II NUDO idoletto in bronzo che in questa Tav. si espone davanti e da tergo,  nella grandezza medesima dell’originale, con altri similissimi a questo, sparsi pe'musei, forma soggetto di mature, ma non per anche fruttifere riflessioni degli archeologi , che se per un lato vi ravvisano una gran somiglianza coi monumenti egiziani  da far sospettare che sian idoli venuti d’Egitto in Etruria, atteso specialmente il  costume e f acconciatura anteriore e posteriore de’capelli; dall’altra non concepiscono come gli Etruschi abbian potuto ridursi a mendicare manifatture d’Egitto,menti'’ erano essi medesimi famigerati artefici; nè la storia ci addita in conto veruno un  traffico simile tra le due sì disgregate contrade. È vero che Strabone veduti i lavori  d’ambedue le indicate nazioni, li giudicò di un medesimo stile, simile a quello dei  Greci antichi ma par ch’ei ciò riferisse allo stile dell’arte, e non al costume delle  figure . In qualunque modo peraltro si volesse risolvere l’obiezione, qui non sarebbe  luogo opportuno di estendervi. L’altro bronzo che rappresenta una fiera testa di lupo, servì probabilmente per  ornato nel manubrio d’ un arme da taglio. Ebbero gli antichi una singoiar cerimonia religiosa, alla quale davano il nome di  Jettisternio, consistente in un convito che si faceva nel tempio, o nel sacro recinto,  dove si apparecchiayano le mense ed i letti, perivi stendersi i devoti che lautamente mangiavano in onor degli Dei, ma vi si preparavano ancora altre mense ed  altri letti, dove si deponevano le statue dei medesimi numi, a’quali porgevan vivande, come se fossero stati realmente Ior commensali =. È dunque probabile che il presente rudere antico facesse parte d’un di que’Ietti che preparavansi per le statue, i quali  si potevano usare a tal uopo di qualunque grandezza. L’ornato stesso di un seguito di  figure tutte ugualmente recombenti, con tazze in mano, come stavasi a mensa, fan sospettare delbanalogìa di rappresentanza coll’uso accennato del rudere, ch’èdi pietra  arenaria, una terza parte maggiore del presente disegno. Lo stile a parer mio  si mostra imitativo piuttosto che ingenuo d’un’ antichità non poco lontana.  É già noto all osservatore il nome e l’uso di questo mobile, per le tavole, al cui proposito dissi che \non veri foculi, ma figure di   ì Monum. etr. ser. m, p. 4 oi.   a LIVIO. Laurent, de prond.et coena vet, c. zi, conviv. vet. c. 4 *  , il secondo in Giobbe. E Pamilie, festa che veniva dopo la raccolta,  ed il cui significato e 1 uso moderato della lingua , da dove s introdusse presso i Greci il costume di fare esclamare e rivolgere al popolo le parole «pi« yWoias tamnete  glossas. cioè , troncate le lingue, astenetevi dal parlare, derivansi da pa-mul, la bocca  circoncidere, o da pamylah, circoncisione della bocca. E siccome era questa una  ottima lezione morale per rendere gli uomini sociabili, e felici, così tutte le piccole  società dei congiunti, o d’altre persone che vivono insieme, furono dette fatniliae, e  da noi famiglie.   Camilla è voce pretta etrusca, dicono Servio, e Festo, e significa ministra degli  Dei . Sia pur vero, ma in idioma orientale significa un tal nome, ciò che dissero i  Latini serva a manu; o filia a rnanu , giacché cam vaia mano, ed bill figliolanza ,  come osservò Eccardo al titolo 23 della Legge Salica. E filia a manu, o serva a manu  e una espressione convenientissima alle giovinette , che metter dovevano le mani in  cento cose, essendo destinate a servire. Tarconte , autore secondo le favole di Tarquinia, fratello di Tirreno, o disceso  da lui, che sopraintese a dodici città, il che non è bagattella ,fà secondo la verità  storica un valoroso soldato, che avendo difesa la sua gente, venne denominato lo scudo 5 tale essendo ilsignificamenlo del gallico tarcon, o dell’armorico targad.   E finalmente, Tages , o Tagete, che narrano esser saltato fuori fanciullo, dalla  terra che sfavasi arando, che fu alla nazione etrusca il primo maestro delVaruspicio,  che il senatore Buonarroti lo ha creduto espresso nella tavola 45 fra le aggiunte al  Dempstero, non può venire che dalla voce asfcia, tag, la quale significa giorno. E pare  che gli Etruschi volessero fare intendere con questa figura, o parabola, che i giorni,  p come noi diremmo il tempo, aveva loro insegnato l aruspicina, o l'arte di antiveder  l avvenire. Avvegnaché di simile parlare figurato , sono ripiene le pagine degli  scrittori sacri, e profani. Dei quali basterà nominar qui, tralasciando gli altri, David,  Pindaro, Tullio, e VIRGILIO. E siccome dice lo stesso Pindaro che le ore avevano insegnato agli uomini molte  delle antiche arti, così poteva secondo gli Etruschi, aver loro il giorno insegnato  l aruspicina-, Imperocché scrive il prelodato Tullio, che opinionutn commenta  del etdies, naturae iudicia confirmat; E Virgilio cantò,   Turne, quod optanti, divum permittere nemo  Auderet, rolvenda dies en attullit ultro. Domanderò ora ai dotti, se dopo la spiegazione da me data a tanti nomi  dei quali potrebbe estendersene il numero per centinaia , e migliaia, sia possibile  che una fortuita combinazione, possa rendere così ragionevolmente corrispondenti i  loro significati, agli usi, ai tempi, ai luoghi, ed alle circostanze degli oggetti per  essi indicati. 4 °  va spossato di forze; e incontro a lui, come narra Omero i Troiani e gli Achei  si tagliano a vicenda gli scudi e le targhe. Il berretto asiatico, del quale il  recombente è coperto in questa tavola, mostra più manifestamente che altrove la  sua qualità di Troiano, e perciò mi confermo nel crederlo Enea. Gli altri corpi  che vedonsi rovesciati a terra, fan fede che il fatto accade in un campo di battaglia; e nel tempo stesso più che bellezza, dà merito al monumento quella ricchezza di lavoro, che ne’tempi dell' arte in decadenza preferivasi al bello, che n’è il  vero pregio. La ricchezza colla quale vedemmo decorata di scultura l'urna cineraria in marmo,  il cui disegno è stato presentato nella tavola antecedente, tre volte più piccolo  della di lei grandezza, non potette appartenere che a persona qualificata e facoltosa.  Ciò si verifica nell'osservarne il coperchio in questa tavola disegnato, sul quale riposa  un giovine riccamente vestito, decorato di onorifiche insegne, quali sono principalmente l’anello e la corona di alloro che ha in mano, il torque che gli orna il còllo ,  ed un ricco balteo che dall' omero sinistro gli scende al destro fianco. La corona che  ha in capo non è di semplice onore, ma gli spetta come recombente a convito: posizione che viene affermata dalla tazza che ha in mano, come usa chi sta a mensa.  É stato ragionato dagli antichi di una guerra delle Amazzoni, la quale ha non  poco del favoloso 3 , come lo prova inclusive la diversità colla quale è narrata, ma  nella varietà della favola v’è gran concordia tra i mitologi per introdurvi i cavalli 4 .  Or poiché veri combattimenti antichi a cavallo non si conoscono descritti dagli autori de’tempi omerici, o poco dopo, così non resta che quel delle Amazoni, o con  gli Argonauti 5 , o con gli Ateniesi 6 , che incontrisi nei monumenti, come approvato  tra le rappresentanze dell’antichità figurata. Dunque intendo di calcar le massime  consuete spiegando il presente bassorilievo per un Amazone equestre, la quale combatte con un militare a piedi, sia pur costui un eroe degli Argonauti seguaci di Ercole, o un Ateniese del seguito di Teseo. La Furia con face in mano è spesso introdotta  nei combattimenti anche dai tragici greci 7. L’urna cineraria in marmo originale  misura quattro volte questo disegno. La semplicità dello stile caratterizza questo bas-   i Iliad.  a Inghirami Galleria omerica, Iliade Tav.,  Monumenti etr. Diodor. Sic. Monum. etr.   7 Ivi, Ser, 1. p. 269, 3 i 6 , 477 » 534 » 5 ^ 9 »  568 .  3 9   essi erano quei che si trovavano entro le tombe di Chiusi, perchè essendo  di terra non cotta, potevan soltanto servir per figura in qualche sacra cerimonia 1 2 . Ecco pertanto in questo disegno uno de’ veri foculi, o thimiateri  qualora questo braciere sia stato in uso per cuocer vittime, percb’è di bronzo, e  per ciò capace a resistere all' azione del fuoco, siccome anche i vasi e gli al¬  tri arnesi da cucina, che vi si trovarono dentro. Anche la sua grandezza eh’è  due terzi maggiore di questo disegno, attesta della capacità d’essere stato ado-  prato. L’indefessa gentilesca superstizione ci fa supporre, che non a caso fosse  un tale utensile ornato dal Capricorno, ripetuto nei quattro suoi angoli, mentre  ogniun sa che quel celeste segno fu oroscopo di fortuna, che tennero per loro impresa Cesare Augusto, l’imperatore Carlo V, e Cosimo I Granduca di Toscana.  Quell'animale vi sta dunque in luogo del gallo che vedemmo nell’altro foculo già rammentato. La forma di questo foculo di terra nera e non cotta permette che se ne osservino  distintamente i vasi da cucina e da tavola ivi contenuti. Le replicate teste d’ariete  ivi affisse, nonlascian dubbio che il vaso non sia fatto espressamente per uso sacro,  ed allusivo a Mercurio; il quale presedeva alle libazioni, come il mediatore delle preci  che gli uomini porgevano ai numi 4. Oltredichè ci è noto, che alle anime, come anche  ai numi infernali, facevasi olocauso d’un ariete di color nero; ed io vidi a questo  proposito vari bassi altari nel museo etrusco di Volterra, ornati di teste d’agnelli, come il foculo qui esaminato. In un bassorilievo trovato a Chiusi, ove sembrommi di vedere il medesimo soggetto che nel presente, all'occasione d’averlo dovuto spiegare, scrissi quanto appresso. « Quando Venere e Apollo ebber sottratto Enea dalle furibonde armi del prode  in guerra Diomede, allora Febo immaginò di lasciar combattere a sazietà i Troiani  coi Greci, sostituendo ad Enea l’idolo, 9 1’ ombra di lui 6 . Questa poetica immagine  del combattimento di due partiti per un fantasma, fu cara oltremodo agli Etruschi,  mentre ne vediamo la rappresentanza in diversi dei lor cinerari, dove si osserva  il simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso gettatogli da Dio¬  mede, in atto di cercare una qualche difesa nella trista situazione in cui si tro-   1 Ved. Tav., VIRGILIO, Aeneid, 1 . vi. v- 2 4 L Varrò ap. Geli. 2 Inghirami, Im, e R. Palazzo Pitti, p. 88. !• iu, c. 11.   3 Ved. Tav. 6 Ilomer Iliad. Monuin. etr: ser. n, p. mostra in questa Tavola il disegno rappresentatovi, non potea meglio esprimere in  esso un tale avvenimento, poiché dipinse Peleo qual destro giovine preparato alle  nozze, in atto di tenere stretta la ritrosa Teti, che quasi è per coprirsi ’J volto col ve  lo per l’onta di quell'atto. Peleo eseguì ciò per consiglio di Chirone divenuto il di  lui suocero con quelle nozze. A lui davanti Peleo conduce la sposa, quasi che gli do¬  mandasse assenso della unione maritale, mentre il centauro coll’atto di stender la  mano dimostra l’annuenza paterna dell’imeneo. È superfluo il sospettar ch’altra favola  sia rappresentata in questa pittura fuor che quella di Peleo e Teti davanti a Chirone,  mentre lo attestano le iscrizioni che vi si leggono setie teaes kipos, e quindi un no¬  me proprio di Nicostrato coll’aggiunto consueto nikoztpatos kaaos. Le figure qui riportate son alte la metà di quelle che vedonsi nella pittura del vaso originale, che ha  fondo nero , con lettere dipinte in bianco appena visibili. I vasi che han la forma come il presente sogliono avere altresì tre manichi, ed  una sola fronte ornata a figure; questo a differenza degli altri è dipinto da due parti,  una delle quali è descritta nella Tavola antecedente, f abra, che dir si potrebbe la  parte opposta del vaso, a causa della inferiorità della esecuzione del disegno, è la qui  delineata, ed il vaso tracciato sotto di essa è poco più della decima parte dell’originale, in fondo nero con figure rosse. 11 vecchio calvo che sta nel mezzo a due donne  in atto di correre o di ballare, è tema comunissimo anche ad altri vasi. Ma in uno  di essi, per quanto appresi da S. E. il principe di Canino esimio possessore e cogni-  tore di tali pitture, uno di essi, io diceva, manifesta con epigrafe il nome del vecchio  Tindaro, dal che si dedurrebbe essere una delle donne la figlia Elena danzante con  una delle sue compagne nel tempio di Diana, dove fu rapita da Teseo, e portata in  Atene: tema che ora m’avvedo essere più chiaramente espresso nel vaso che io inserii  nell’opera dei Monumenti Etruschi, e che dissi allusivo al corso degli astri a , e  che ora maggiormente confermo per la relazione di quel ballo e di quel ratto con la  guerra dei Dioscuri onde riprender Elena, con altri simili tratti di quella favola, i  quali non significano in sostanza che un continuo levare e tramontare degli astri 3,  e delle combinazioni loro con la luna: nome che in greco porta con poca varietà anche Elena Selene da sto» la risplendente, e aiUn la luna. La figura di questa Tavola è dipinta nella grandezza medesima in una tazza di  terra cotta con giallastro colore su fondo nero, il cui aspetto ha tutti i segni del sati   1 Ser. v. Tav. g 8 . 2 Ivi, ser v, p. 87, li 4 , 4 Ivi, p. 567. sorilievo non distante dai buoni tempi dell’ arte; e se la figura equestre compa¬  risce alquanto piccola, fu condotto a sì ingrata licenza lo scultore nel volervi  introdurre delle figure a piedi e a cavallo protratte ad un'altezza medesima, e  che tutte empissero il fondo sul quale son collocate. Prima di coricarsi a mensa usarono gl’italiani dei primi tempi di Roma di spogliarsi de'propri abiti, e prendere un manto che dissero veste cenatoria o sindone,  colla quale in parte avvolgevansi e in parte potean restare a nudo, per aver le braccia più libere all’azione di prendere il cibo,- e così coperti dieevansi dai latini semi-amidi, ma quell’uso fu abbandonato e non tardi, ond’è che d’Erodiano fu addotto  come affettata imitazione delle antiche statue Di tal costume par che serbi memoria la figura della Tavola presente che giace sul coperchio,spettante all’urna in marmo che antecedentemente abbiamo veduta. Dell'iscrizione sarà dato conto a suo luogo. Il vaso che qui si mostra un terzo più piccolo dell' originale, è di que’soliti di  terra nera che si trovano a Chiusi, nè potrassi mai supporre che siano d’altra  fàbbrica fuori della chiusina, poiché oltre la terra nera e non cotta che vi si adopra-  va più che in altre officine, hanno essi vasi certe forme, una delle quali è la presente, che mostrano un carattere del tutto originale ed unico, sì nelle sagome, sì  negli ornati. Accenna Omero essere stata volontà degli Dei,che Peleo togliesse Teti per moglie, quantunque Dea; mentre quell’eroe non avrebbe volontariamente aspirato ad una  unione sì eminente. Apollodoro ne spiega più minutamente il successo, e dalla di  lui narrazione par che abbia origine questa pittura. Era fama che Giove unitosi con  Teti, da cui restò incinta d'Achille, ne procurasse 1’ imeneo posteriore con Peleo,  quantunque mortale 3 . Quindi soggiunge Apollodoro, che il centauro Chirone consigliò Peleo ad impadronirsi della ninfa divina con sagace destrezza, nè lasciarla andare, per qualunque forma ch’ella avesse presa. La insidiò difatti Peleo, e quantunque la Dea si trasformasse in acqua, in fuoco, ed in bestia feroce, egli ritennela  finché non ebbe ripresa la di lei primiera forma di ninfa. Il pittore del vaso di cui si    i Monum. Etr. ser, i, p. 3^6. 3 Scol. ap. Heine lliad.H-imer. lliad. Elr. Mas . Chius. Torti. I. ragionamento   y  SUGL’ETRUSCHI  Disputarono lungamente frà loro gli scrittoli, come abbiamo accennalo, intorno all’ origine degl’etruschi, e fabbricarono su questo soggetto tre sistemi diversi. Volevano, per esempio, alcuni che eglino fossero un popolo uscito dalla Grecia, ed una colonia di Pelasghi, mentre sostenevano altri che erano Lidii, e veni nano  dall’ Asia, ed altri finalmente affermavano essere i medesimi originarli di Italia. La quale ultima opinione è ragionevolissima, e noi la crediamo la vera.   I moderni poi hanno superato gli antichi nel numero delle ipotesi, e dei sistemi-.  Imperocché il Maffei,col Mazzocchi, ed il Guarnacci, li fanno venire dalla Fenicia,  il Buonarroti dall' Egitto, il Pelloutier, il Bardetti, ed il Frerst, dai Celti. Li crede Humboldt I anello di comunicazione frà i Latini, e gl’ Iben, laddove Niebuhr riguarda la Rezia come la primitiva lor sede. Ed in fine il Mailer suo  discepolo, adottando un termine medio, ammette un popolo primitivo di Etruria,  eh’ ei chiama Rase ni con Dionisio d Alicarnasso, e sulla cui origine lascia la qm-  stione indecisa, benché creda d’ altronde, che questi Raseni si mescolassero coi Pelasghi, qua venuti colle loro colonie di Lidia.   Ora questa moltitudine d’ipotesi antiche-, e moderne, da altra causa non possono  cèrtamente procedere, che, oda troppa leggerezza, e precipitazione nell’ esaminare i  monumenti dei nostri padri, o da impremeditato sistema in coloro, che ne presero a  scrivere, o dal più nocivo di tutti i sistemi, V amore di parte. Per poco infatti che vi  sifaccia attenzione, e si vogliano mettere alla prova, non è difficile a chicchesia di accorgersi, che q.essuna di quelle ipòtesi, e nessuno di quei sistemi, contiene elementi che  bastino a diradare il buio che involge le cose etnische, ed a spiegare, anche probabilmente i monumenti che ci rimangono di quella illustre nazione.   Scegliendo peraltro da ciascuna di quelle ipotesi, e da ognuno di quei sistemi, ciò  che vè di più ragionevole, e di più giusto, e formandone un insieme, vi si troverà, se  il giudizio nostro non và errato, quanto fà di mestieri, per portar piena luce e spiegare  con ogni chiarezza, e senza replica, tutto quello checi rimane di etrusco. Stabiliremo dunque frattanto, che furono gl’Etruschi un popolo particolare d’Italia, indigeno di questa bella penisola, che ebbe, com è naturale, una lingua sua propria; la quale non è la. Stessa che la greca antica,, come dimostrammo nel precedente  ragionamento, e che anzi ne differisce mollissimo, anche per sentimento del prelodato  Mailer. Col quale aggiungeremo, a conferma di quanta asseriamo, che inori>', dei loro  ro: orecchie ircine, barba prolissa,naso simo e coda di cavallo. L'otre vinaria ove stassi assiso è pure suo speciale attributo. L’iscrizione letta come qui rappresentasi, poco  giova ad intenderne il significato panaitios iupos kacos. Non oso farvi emenda,  mentre non avendo io veduto il monumento, non posso nè asserire, nè porre in  dubbio se questa sia la vera lezione. Quando non vogliasi azzardare il supposto  che la terza lettera dell’ ultima voce sia nell’ originale un p, per cui avremmo  due volte ripetuta la voce bello, come in altri esempi si vede, potremmo  almeno pensare ad una omissione dell’asta che del c ne dovea formare unir, e  la voce significativa di pernicioso potrebbe alludere al vino, quando n’è fatto abuso.  Nè nieu dubbie si mostran le altre voci, a meno che vogliansi leggere ««<05  che sarebbe un saluto al dio Pan l’autore della universale natura. Ma tali  dubbie iscrizioni debbonsi a mio parere consegnar colle stampe alle indagini di  quelli ellenisti che in particolar modo si occupano dei vasi dipinti e scritti.    Epigrafi tratte dal museo Oasuccini, come le altre venti già stampate, scolpite in urne di travertino,  o segnate in urne di coccio.  :fì\u il AH : 43 :4flHfYf =   fln-iq/iDvnas : ma : qd   >-  tv   -7   bifidi) : dfiUfVf: V13M : lllfttqfi : 04   :4fi0qfl4 : dfidfVf : liHblqfi : 43   #filflfiOmfiq ; invddfi : O4   >  /in fio   Doppia epigrafe 4fi    Sopra il coperchio    filfin8dV3  Nell’ orlo del coperchio  Iffifliqa : ignqfiq : Jfi 1 -r fi    sic om  131 : lantqfi : I O q fi 4   fiinvi-nai : firmo   filflfl031 6 *  46   il nome di quei nuovi coloni, e non quello dei primitivi alitanti. Imperocché , trovandosi, prosegue lo stesso Mailer, nella Tavole Euguhine, la parola Tursee, con  quelle di Tuscom , e di Tuscer, è impossibile di non conchiudere, che dalla radice  Tur si sono fot mali Tursicus, Turscus, e Tuscus, come dalla radice Qp, derivaronsi Opscus, ed Oscus; Di maniera che Tuprìvoi o Tv eP moi e Tusci, non sono che le  forme asiatiche, ed italiche di un solo, e medesimo nome   Che del resto, un argomento per noi fortissimo, atto a dimostrare oltremodo remota la civiltà degli Italioti, e singolarmente degli Etruschi, ricavasi pure da tutti quegli antichi scrittori, i quali parlano della cosi detta Confederazione etnisca residente a Fiesole, e da tutti quei Gronólogisti, che ne fissano lo stabilimento a lobo anni  prima dell’era volgare ; dei quali vedasi, fra gli altri, il Sìg. de Long-Champs, nei suoi Fasti universali. Lo che ci fa credere che gli abitanti dì questa regione,  avessero già acquistale fino diallora, non ordinarie nozioni di politica teoria.   Ed infatti, benché la voracità dèi secoli, e più ancora la feroce ambizione , e  la crudele prepotenza romana , ci abbiano invidiate le storie etnische, ed anche la  maggior parte dei monumenti di quel popolo celebratissimo. Benché la vanità senza limiti dei Greci, sia venuta, per giunta alla derrata, ad involgerne di puerili, e RIDICOLE FAVOLE, perfino il nome, non che le azioni dei nostri antenati, per quella loro  presunzione stoltissima, di far credere che tutte le altre nazioni del mondo, non furono nulla , in paragone di loro; esistono pure tuttavia in Etruria delle costruzioni,  che gli eruditi chiamano Ciclopèe , perchè non hanno il carattere, nè fenicio, nè egizio, e che sono per conseguenza indìgene , le quali sfidano da quattro mila anni  a questa parte,gl’insulti degli uomini e gli urti del tempo, e stanno a conferma di  quanto asserimmo qui sopra, circa la suaccennata civiltà, e straordinaria potenza,  ed energia degli Etruschi . E tali sono, fra le altre, le mura di Volterra, e di più  altre città dell’ antica Etruria, le quali sono formate di enormi macigni, senza alcun  cemento, resi fermi soltanto dal proprio peso-  Mal epoca della colonizzazione, della quale parlammo di sopra, non si può fissare che per approssimazione. La quale peraltro credè il Mùller, già citato più volte,  che coincida colla emigrazione dei popoli, e che fosse cagionala, e prodotta da quella,  e se la ragiona cosi- Gli Umbri, dice egli, e lo ripetono pure i compilatori di  Edimburgo, erano potenti nella contrada, di cui presero possesso i nuovi coloni. I  quali ebbero a sostenere lunghe, e sanguinose guerre, prima di spossessarli delle  trecento città, che eglino occuparono, al dire di Plinio lib. terzo, cap. decimo nono,  nel paese che fu più tardi chiamato Etruria. E poi fuori di ogni dubbio che gli Etruschi si estesero dalla parte del Mezzogiorno, fino alle sponde del Tevere, ed anche al di là nel Lazio, come lo prova  il nome di Tusculo, o Tusculano. E dietro le tradizioni popolari, quello stesso  Tarconte, al quale si attribuisce la fondazione delle dodici città di Etruria, condusse anche dodici colonie al di la degli Appennini, e vi gitlò le fondamenta di Dei, non sono quelli che s' incontrano presso gli Elleni, e che trovatisi nelle dottrine  dei Sacerdoti Etruschi, molti punti, affatto diversi dalla greca teologia. E ripeteremo  ciò che altrove dicemmo, che la sorte, cioè, di questa nazione, pare che è quella di  essere debitrice dei suoi primi progressi nella civiltà, non ad una tribù greca, o mezza  greca, siccome crede lo stesso Mailer, e con esso lui i dotti compilatori della Rivista  di Edimburgo ; ma bensì ad una emigrazione asiatica, più antica dei greci medesimi  come abbiamo assento, ed in parte ancora provato nel precedente ragionamento. Nè punto esiteremo d affirmar qui, che la lingua etnisca, o ella non fu mai  scritta nella sua purità primitiva, e scevra di ogni mescolamento di stranieri vocaboli,  o se pure lo fu in lontanissima età, non è fino a noi pervenuto alcun monumento scritto, il quale ce ne possa far fede. E ciò sosteniamo con tutta franchezza, perchè quelli  conosciutifinqui, sono tutti composti, senza veruna eccezione, di un rnescuglio di voci, prese ad imprestito, per la maggior parte, da ognuno di quegli antichissimi linguaggi, e dialetti, che nominammo nei ragionamenti già pubblicati in quest' opera  stessa. Di che daremo una sicura prova in altro discorso a questo solo scopo diretto. Sul proposito però dell' essere, o non essere gli Etruschi una tribù greca , o mezza greca, è molto curiosa la novelletta che vanno ripetendo, il prelodato Mùller, e  con esso ancora i surriferiti Compilatori della Rivista edimburghese, ove dicono  che i toscani attribuivano eglino stessi, nelle loro nazionali leggende, la propria  civiltà alla marittima città di Tarquinia, e nominatamente a Tarconle. I quali due  nomi altro non sono, secondo essi , che due variazioni di Tirreni . Ma questa è una  greca invenzione, ed anche di moderna data, in confronto della remota cultura degli  Etruschi, ed è similissima a tante altre dello stesso calibro , dai medesimi Greci accreditate, e spacciate per fatti, intorno all’origine di tutte le più celebri nazioni dell’antichità . Ed aggiungono i medesimi autori, che sbarcarono precisamente a Tarquinia, e colà stabilironsi da prima, quei terribili Pelasglii di Lidia, i quali portano seco le arti, e le scienze, che avevano già apprese o nella patria loro, o nei loro  viaggi -, credendo di poter cosi conciliare maggior fede al loro racconto circa la  primitiva civiltà degli Etruschi. Al venir dunque di si fatti coloni, secondo quell' eruditissimo prussiano, e quei  dotti inglesi, vide per la prima volta 'questo barbaro paése, degli uomini coperti di  bronzo, equipaggiarsi a suono di tromba per la battaglia. Udì allora per la prima  volta , l acuto squillo della tibia lido-frigia , accompagnare i sagrifizii, e fu testimone della rapida corsa delle galere a cinquanta remi,   Siccome però la tradizione passando poi di bocca in bocca , non conosceva più  limiti, cosi tuttala gloria del nome toscano, anche quella che non apparteneva prò-  priameiife ai coloid, si attaccò a Tarconte discepolo di Tagete, o d e ! tempo, come  dicemmo nel precedente discorso, riguardandolo quale autore di urlerà novella, e  migliore, nella storia di Etruria. Ed i popoli vicini, vale a dire , gli Umbri, ed i Latini ; diederq a questa nazione, che incominciò allora ad accrescersi, ed estèndersi Nè credo che allia torlo il MiMer, attribuendo alla preminenza di questi  ultimi sul mare inferiore, la mancanza delle colonie greche, sulla costa setten¬  trionale della Sicilia, ove al tempo di Tucidide, non eravi che Lnera. Il timore degl’truschi, chiuse per lungo tempo ai Greci, il passaggio dello stretto di  Reggio- E non avvenne che dopo V epoca in cui ebbero acquistata i Focesi una  potenza navale, che fu dato loro di esplorare entrambi i mari.   Ma la rivalità non tardò molto a manifestarsi frà i due popoli, i quali cércarono  d'impadronirsi dell’ isola di Corsica . E gli Etruschi uniti ai Cartaginesi, disfecero  i Focesi. Furono pero meno fortunati nelle loro guerre marittime coi Borii di Guido  e di Rodi che avevano formalo uno stabilimento a Lipari. Finalmente, il popolo di Ciana in Campania, avendo  dichiarata la guerra ai Tirreni, chiamò in suo soccorso Gerone tiranno di Siracusa,  che li disfece completamente, e liberò, dice Pindaro nella prima Ode pizia, la Grecia  dalia schiavitù. E difetti uno scudo di Bronzo trovato nelle rovine di Olimpia, porta questa iscrizione = Gerone, figlio di Dimmene, ed i Siracusani, hanno  consacrato a Giove queste spoglie dei Tirreni vinti a Clima. Ammesso pertanto che furono gli Etruschi un antichissimo popolo d’ Italia  originario dello stesso paese, conchiuderemo questo breve ragionamento, colle  riflessioni seguenti.   L° Che di necessità ebbero essi, linguaggio, usi, Leggi, costumanze, arti, scienze, e  religione loro particolari, e proprie, benché dovessero i primi progressi nella civiltà ad una emigrazione asiatica, in un epoca quasi impossibile a stabilirsi con  precisione. Il.° Che per conseguenza, fra le altre cose , che qui per brevità si tralasciano, i  vasi dipinti di terra cotta, come quelli neri, ed altri, di qualunqueforma, e grandezza,  siano essi aretini, o chiusini, o campani, sono genuinamenee etruschi, e non altro che  etruschi. Benché sia piaciuto agli Archeologi di chiamarli vasi greci, e più modernamente ancora italo-greci. Le quali denominazioni hanno dato loro quei dotti,  perchè vi si scorgono, come pure nelle urne cinerarie, e nei sarcof agi, disegnate e dipinte, o scolpite, a basso , e a gran rilievo, rappresentanze, o storie e favole greche;  ovvero che tali divennero dopo essere state prima etnische, e perchè vi si leggono parole greche, o che alle greche somigliano. Come se non potessero essere nel mondo due  diversi idiomi i quali abbiamo alcuni vocaboli comuni ad entrambi. Conforme fu sagacemente osservato, dal dotto, e perspicace sig. principe di Canino nel suo  Museo Etrusco. Campani poi faron detti, eziandio tali vasi, perchè se ne fabbricavano . e se ne trovano nella Campania, che fu pure colonia etnisca, come si dicono  chiusini, ed aretini, da Chiusi, e d’Arezzo, ove esisterono speciali fabbriche dei  medesimi. E sul proposito del sig. principe di Canino, sono assai dispiacente di non aver  letto prima d’ora quel suo dotto e giudizioso lavoro, perchè avendovi riscontrate al-   altre dodici città. Lo che serve a trovare che l Etruria della valle del Pò, fu  colonnizzata dall' Etruria del Mezzogiorno. La medesima tradizione di dodici colonie, viene ripetuta sul proposito dello  stabilimento degli Etruschi in Campania-, Ed il Miiller suppone che quelle colonie fossero realmente etnische, contro , l’opinione di Niebuhr suo maestro, il quale pensa che elleno fossero fondate dai Pelasghi Tirreni, confusi cogli Etruschi, a  cagione dell’identità del nome. In ogni caso però, sembra allo stesso Miiller, che la popolazione etrusco della Campania, non debba essere stata molto considerabile, perchè vi prevalse il dialetto Osco, e perchè non si è mai trovata in tutto quel tratto di paese, una sola  iscrizione veramente etnisca. Laonde convien credere, prosegue egli, che quel  fertilissimo paese, immerso nel lusso, e nella mollezza, esercitasse la sua fatale influenza sugli Etruschi, che vi si erano stabiliti, mentre furono obbligali ad abbandonare il possesso delle ricche pianure di Capua ai Sanniti, colà discesi dalle loro  montagne.   Io non saprei qui sottoscrivermi all’opinione del dotto archeologo prussiano,  sembrandomi troppo debole la ragione che egli adduce, per ìstabilire che fosse piccolo  il numero dei coloni Etruschi della Campania, quella cioè del dialetto Osco rima¬  stovi dominante, poiché potrebb’ essere ciò avvenuto anche dall' avervi quegli ospiti  soggiornato per breve tempo , oppure da un riguardo che poterono benissimo avere i  Vincitori verso i vinti. Di che abbiamo avuto un esempio noi stessi nelle nostre contra¬  de al tempo dell’ Impero francese. E certamente gli Etruschi, non erano cosi feroci,  come i Romani, i quali ebbero l’inumanissimo orgoglio di togliere perfino la lingua  ai popoli che avevano l’infortunio di cadere sotto il loro giogo di ferro: ( checché  ne cantino in contrario ifanatici loro lodatori .) E se è permesso di paragonare le  grandi cose alle piccole, quando sono dello stesso genere , dirò in appoggio della  mia supposizione, che anche i Chinesi soggiogati già da piti secoli dai Tatari Mant-  sciu, hanno conservato, e conservano tuttavia dominante il proprio idioma, benché  soggetti ad una dominazione straniera. Oltre di che, viene ad accrescersi la forza del mio ragionamento , riflettendo che era ben facile, e naturale il conservare nella Campania il linguaggio del paese, altro non essendo il medesimo, che un dia¬  letto della lingua Etnisca. Sembra poi cosa provata , e da non controvertersi, che i Tirreni dopo il loro stabilimento in Italia, esercitassero per lungo tempo la pirateria, e che si rendessero così famosi nelle pianure della Grecia, ma è peraltro assai difficile a decidersi, se una tale accusa debba applicarsi a Tirreni del mare Egeo, oppure ai  Tirreni Etruschi', I quali possedendo dei buoni porti sui due mari, conservaronsi la dominazione dell’uno, e dell' altro, e si resero formidabili, non solamente alle navi mercantili, colle loro corsare, ma eziandio alle altre potenze, coi loro  navali armamenti. A molti sarà nuovo ed inatteso questo singoiar monumento,- ma non a chi ha  scorsa la mia Opera su i Monumenti Etruschi ove alla ser. VI, e precisamente alla  Tavola G5 ne ho dati a luce due inediti, nè finallora da nessun altro mostrati, In  seguito si videro esibiti ripetutamente nelle Opere del eh. dot. Dorow. Io dissi di  quelli, come pur di questo ripeto, esser vasi di terra nera, al cui orifizio è soprapposto per coperchio un capo umano, ed a suo luogo spiegai come que’recipienti dovean simboleggiare il mondo, ed il capo sovrimpostovi la divinità che Io governa  dall’ alto de’cieli \ Ma poiché questa specie di vasi trovasi nei sepolcri, cosi potremo  credere che i soprimposti capi rappresentino deità speciali, cosicché se avrà barba  un di essi, come quello che pubblicai altra volta 3, si potrà dire un Bacco infernale,  mentre nel presente monumento dov’ è un capo imberbe, ed alcune protuberanze  che dan segno di petto femminile ravviseremo una Proserpina. Se il vaso qui esposto  avea ceneri umane, di che non posso giudicare dal solo disegno ch'io vedo di questi  monumenti chiusini, in quel caso direbbesi che le braccia, avvingendone il recipiente,  indicano il patrocinio che la divinità dovea prendere di quel morto ritornato nel caos della materia mondiale. Dico tuttociò brevemente perchè in queste materie mi  sono esteso altrove abbastanza. Qui aggiungo l'osservazione che molti vasi uguali a  questi, ma in pietre di varia specie trovatisi nei sepolcri egiziani e in gran parte anche dipinti nei papiri, nelle casse e nelle pareti delle tombe; e dai capi che hannovi  soprapposti di forme varie 4, si ravvisano per figure delle principali deità egiziane,  Questo vaso in terra nera è due terzi più piccolo dell’ originale. È tuttavìa non risoluta questione se figure simili alla presente, cioè che abbiano  lunga barba, corona in testa, abito lungo fino ai piedi un manto sugli omeri con vaso  in mano, ed attorniate da sermenti d’edera o di vite, è questionabile, io diceva, se dir  si debban figure di Bacco o d'un qualche di lui sacerdote.È altresì cosa degna d’osservazione che l’occhio qui eseguito, non come dalla natura umana si mostra, è poi disegnato precisamente come si vede nelle figure de’ vasi di Grecia di Sicilia , e di  tutta 1* Italia meridionale, ove trattisi di pitture che affettino qualche arcaismo nel  loro stile, e specialmente ove le figure sono come qui di color nero sul fondo gialla- 1 Dorow , Voiage archeologique dans V a °cienne  xbtrurie avec xvi Planches. 1 Voi. io 4 -° P-  46, Paris. 1829. Notizie intorno ad alcuni  Vasi. Etruschi Pesaro Monumenti Etruschi,  1 2 > ser. v f    p. 490» ser - Vi* Tav.  , p. 4 ^.   3 Ivi, ser. vi, Tav. num. 1, 3 .  ser. vi, tav. N4, num. 1 , e P4. numm. 1 , 2.  cune opinioni, che mi paiono le più giuste, e ragionevoli in questa materia, e le quali  si accordano con quelle da me emesse nei precedenti ragionamenti, mi sarei fatto un  dovere di render nolo al Pubblico molto prima, quanta sodisfazione io ni abbia di  trovarmi d'accordo con un uomo di tanto ingegno e di tanta dottrina . 0 Che si avvicina al delirio l'ostinarsi ancora a voler credere opere greche i  suindicati vasi, perle sopra esposte ragioni, e perchè se ne rinvennero alcuni persino nell' Attica, ed in altre parli della Grecia, i quali sono peraltro in piccolissimo  numero, in confronto a quelli discoperti in Etruria , e nelle altre parti d'Italia. Ed  una tal foggia di ragionare, è simile a quella di chiunque osservando per T Italia, o  in Francia dei lavori di porcellana della China, e del Giappone, pretendesse di stabilire, che quei lavori sono italici, o francesi, solo perchè si trovano in Francia, ed  in Italia.   IV. ° Che non è meno strano, per non dire assurdo il pretendere di togliere agli  Etruschi l’ onore di tali manifatture, per farne dono ai Greci, perchè s‘ incontrano  molti dei suddétti vasi che hanno elegantissima forma, e sono disegnati pure, e dipinti con un gusto squisito. Quasiché gli Etruschi non avessero fatto che comparire  sulla faccia del globo terrestre, e ne fossero subito scomparsi. Oppure, avendovi di¬  morato per lunga serie di secoli, lo che non hanno saputo negar loro neppure i più  furiosi partigiani dei Greci, fossero stati poi forniti di tale, e tanta stupidità, da  non saper migliorare, ed anche condurre a perfezione, le loro invenzioni, come fanno  tutti i popoli del mondo  Che non si vorrà sostenére finalménte, che le arti non pvesserò presso gli  Etruschi, come presso tutte le incivilite nazioni, che le coltivarono, diverse epoche, cioè  quella della primitiva rozzezza, qxiella del miglioramento, e quella della perfezione,  come quelle del decadimento, e della successiva barbarie. Nè saprei addurre, per rivendicare questa usurpazione fatta dagli archeologi ai nostri padri, più bella prova,  e più convinciente ragione dì quella prodotta dallo stesso signor Principe di Canino,  apag. ig dell’opera citata qui sopra. Cioè, che i vasi dipinti non sono sicuramente  greci perchè i Greci stessi non se ne sono vantati giammai. Ed è ben gloriosa per gli  Etruschi una tele invenzione, conforme riflette pure il prelodalo scrittore, perchè furono essi i primi ad iscoprire colla meditazione, e colle più profonde indagini, che per  eternare le tradizioni dei popoli, più del marmo, e del bronzo, è valevole Iùmile  terra cotta, perchè ella sola passa a traverso alla fuga dei secoli senza alterazione veruna .  jflniiia : 3 n iq 3©  or  248v8 in gran travertino che serviva di porta ad un sepolcro   amq&o : ofl  janqoai    Etr. Mus. Chiut.   ha sulle spalle, e come questo riferir si debbe all’autunno l'accennai spiegando altri  vasi chiusini analoghi a questo , LVI. Le quattro tavv.  sono impiegate a mostrare un bel monumento di pietra tofaceadella figura d’ut) cubo, della grandezza due volte maggiore del  disegno qui ripetuto, e che mostra quattro lati scolpiti con figure a rilievo assai basso, come sono gli altri monumenti di simil natura trovati a Chiusi. Io  non saprei dire se ara sia questa, oppure altare, o foculo, o base, o altr'oggetto  qualunque, perchè non vedendone io che i disegni non posso da essi giudicarne con fondamento. Esaminiamone le sculture che si vedono in quattro lati del  cubo. È fuori di dubbio che qui si tratta di riti funebri, e d'ultimi uffici di pietà resi ad un morto, che vedasi steso sul feretro alla Tavola LUI. Il fanciulletto  eh’ è in piedi presso a quel letto di morte ha un tale atteggiamento di dolore,  che non saprebbesi meglio immaginare dal più sagace dei nostri artisti, brattan¬  to c’insegna che tenevasi per atto di duolo il porre le mani al capo. Infatti nel  quadro medesimo compariscono due altri astanti colle mani portate al capo ugualmente, ma ben si ravvisa che l'atto è suggerito più da formalità che da quel vivo dolore che esprime IL GIOVANETTO PROBABILMENTE FIGLIO DELL’ESTINTO, di cui qui  si rappresentano l’esequie. Un simile atto, e da uomini similmente abbigliati, è  pure nella pietra di memoria perugina da me pubblicata *, ove rappresentasi ugualmente la funebre cerimonia che praticasi all’ occasione di un morto. Espressiva  è parimente la prefica a capo al letto, in sembianza di strapparsi per dolore i  capelli, mentre ì’uonio che al cadavere è più vicino, alza le mani probabilmente  per espressione pure di dolore, mista però di sorpresa. Una figura eh’è ultima nella composizione, suona le tibie con certa bocchetta che legavasi agli orecchi o al capo in giro. Un tal suono in occasione di funebre cerimonia non credo che andasse esente da superstizione tuscanica, passata ai Romani ancora, mentre credevasi di poter porre in fuga gli spettri coll'armonia della musica 1 2 3 , e  così allontanare quelle malie dalle quali avevano opinione che le anime restassero consacrate alle deità infernali 4 : superstizione peraltro che manca nel monumento perugino indicato.   Dietro al tibicine alla Tavola LIV vediamo quattro uomini armati di bastoni,  che in mano di Etruschi non è improbabile che siano augurali, ancorché non Lettere di etnisca erudizione.  e seguente Tav. xi.   2 Monumenti etruschi, ser. vi, tav. Za, e Lanzi   Della Scultura degli antichi e vari suoi stili   Tav. ìv. 3 Ved. Luciano pitato dal Ma ilei nella sua me¬  moria sulla religione dei Gentili nel morire ;  Osservazioni letter. Tom. 1, art. ìx.   4 Tacito, Annali 1 . 1. ap, il Mafie! cit. p. 5i   stro 1 2 . Una tale osservazione unitamente con altre può essere di non poco rilievo  per indagare l’origine primitiva dell’uso di porre siffatte stoviglie dentro i sepolcri.  A chi ha buon gusto peri lavori di metallo sarà gradevole il conoscere la forma  singolare e del tutto nuova non men che bella di questo vasetto di bronzo, disegnato nella grandezza medesima dell’originale. Apparentemente dovea contenere  de’ liquidi, e perciò l’intelligente artefice operò per modo che tutto vicorrispondesse  l’ornato. Ecco là un uccello aquatico sopra una pianta quadrifoglia palustre, il che  serve di pomo al coperchio: ecco là una conchiglia lacustre che serve di borchia a!  manico : ecco là infine i lunghi manichi formati in guisa di colli d’uccelli aquatici  come del becco loro nel quale han termine si rav visa. Il vaso di terra cotta di color rosso che vedesi rappresentato nella parte superiore  di questa LII Tavola, è già noto per la frequenza colla quale si trova nelle collezioni  di simili antichi oggetti. Par che i Gentili 1’usassero per lucerna; ed alternativamente  colle lucerne trovasi difatti nei sepolcri, ma in esso valutavano anche la forma di  barca e di recipiente, alludendolo a certa favola d'Èrcole eli’ebbe in dono del sole un  vaso, col quale varcò l'Oceano. Come poi si applicasse al vaso qtìi esposto l’indicata  favola è cosa inutile ch’io lo ripeta, dopo averne sufficientemente parlato nell’ opera  de’Monumenti Etruschi % dove ne ho riportati alcuni di varie forme. L’iscrizione  che è sul manico suole indicare il figulo, o la fabbrica figulinaria.   Il Vaso al disotto in questa medesima tavola è di que consueti chiusini di color  nero sì nella superficie che nell’interna sua pasta. Questa qualità di vasi aver suole  dei bassirilievi, che girano attorno ripetendosi ogni quattro o sei figure, perchè fatti  colle stampe. Bisogna convenire della gran somiglianza tra quella manifattura, e le  cose egiziane. Vedo nella prima figura femminile l’atto d’alzare un’uccello, così nelle  figure egiziane dei calendari vediamo elevare per la testa, o calare al basso tenuti per  la coda animali, che indicano il sorgere o calare abaco dei segni zodiacali. Dell’uomo  che segue con bastone in mano io non saprei dir cosa che avesse inoppugna¬  bile sostegno. Ben potrò dire che a lui segue la chimera colla doppia testa di leone  e di capra, ch’io mostrai altre volte 4 esser composto di segui celesti. E poi  chiaro il centauro qual cacciatore, che porta la preda appesa al suo frassine che    1 Moni;memi etr. Ser. v. Tav.   2 Ser. li, p. 359, 36 i ,   3 Ivi ser. vi, Tav. E 4 , F^.   4 Monurn. etr. ser. w, p. 38 a. Vogliamo credere che nella statuetta in bronzo qui rappresentata di naturai  grandezza sia da riconoscersi una Minerva per 1’ usbergo del quale vedesi armata? Del piccol mostro pure uguale in grandezza all’originale in bronzo, non fo  parola, poiché probabilmente dagli editori di quest’opera ne saran pubblicati dei  simili, ch’io vidi vari anni indietro a Chiusi.   Il vaso è de’soliti che trovansi per tutta 1 Italia meridionale, con figure giallastre in campo nero, la cui gola soltanto a una pittura che vedremo nella tavola seguente, mentre è monocromo, ed ha tre manichi, d una forma essatta-  mente ripetuta molte volte coi medesimi accessori nei ricchi scavi di Canino, e  d’altre parti d’Italia. Io non mi persuado come il mito delle Amazoni combattenti, sì ripetuto nei  vasi fittili di tutta l’Italia, come si vede in questo, non abbia una qualche allusione religiosa, come ho supposto trattando altre volte questo medesimo soggetto.  Si vedono in fatti sempre come qui le Amazoni a cavallo , ed i loro avversari sempre a piedi, ed in positure di soccombenti al conflitto, colle ginocchia piegate.  Eppure se alle favole che trattano delle Amazoni dovessimo ricorrere per Spiegarne il mito, noi le troveremmo sempre vinte o da Ercole, o da Teseo, o d’Achille  Io non vedo in quel mito che 1’allegorìa del contrasto e del dominio  del tempo in cui si trattiene il sole nei segni inferiori del zodiaco, ma siccome  troppo lungo sarebbe il mostrar qui di tale allegorìa lo sviluppo, così rimando  chi legge ad altri miei scritti, ove trattai lungamente di questa materia. Questa è la pittura del vaso, la cui forma vedemmo nella Tavola antecedente,  e che vien riportata nella grandezza di due terzi del suo originale.   xxxi. /uif/mDajmjaa   xxxii. jfliDnaD : an/d-nit/ìi : Yfl   xxxm. i/ìvjad anfl-uitfl'i ; or   xxxiv. j/qnqai ; vJDfi : ofl, V433 : J lf d Galleria Omerica Tom ii,Tav.VJlDfl : 31 : Vfl  Veil. Mommi, etr. agli articoli A magoni.  abbiano la forma di lituo, come osservansi nel monumonto perugino. Infatti ad  essi spettava il presagire che l’anima del defonto fosse passata in luogo di riposo;  di che se non troviamo prove di antichi scrittori, certamente ne conosciamola  pratica presso gli Etruschi, per mezzo del più volte citato monumento perugino,  dove inclusive il vestiario di quegli auguri muniti di lituo è simile a quello di  costoro che qui hanno in mano le verghe, eh' io dissi augurali. Dopo gli auguri vengono immediatamente nella Tavola LV le prefiche, donne prezzolate che a  suono di tibia cantavano lamenti, e piangevano la perdita del morto ed in modo sconcio e forzato strappandosi le chiome e perquotendosi, mostravano cordoglio di quella disgrazia. Quel che sia rappresentato nell’aggregato di figure della  Tavola LVI non mi è possibile il dichiararlo nè mi è concesso d’ azzardare quelle  congetture che può immaginare a suo grado ugualmente chi l'osserva. tavola evie   Questo bronzo in tutto uguale al suo originale fu anticamente uno specchio  dall’opposta parte, come lo attesta lo specular pulimento che vi si trova. Qui  nel suo quasi insensibile concavo, invece di grafito ha soprapposta una lamina  cesellata a bassorilievo, e in fondo una cerneria, forse adattata all'adesione del  manico.   lo vi ravviso Bacco, il quale ha sulle spalle una face, che tale vedrehhesi qualora fosse intiero il monumento, poiché ve ne sono altri esempi 3 . Egli si appoggia ad un altro nume significativo della forza creatrice dalla quale dipende Bacco  il demiurgo artefice del mondo, che il trae dal disordinato e tenebroso caos per  virtù concessagli dal creatore, e vi porta luce con la sua face, non men che ordine armonico, indicato da quella ninfa che precede i suoi passi , arpeggiando  la lira: cosmogonica rappresentanza che in cento guise ripetesi nei monumenti antichi, e della quale ebbi luogo di trattare altrove 3 ,  Sebben questa bella tazza sia di bronzo, pure se ne usavano dagli antichi anche  di terra cotta d ugual forma e lavoro, come si vedono in Volterra nel museo del  pubblico, ed in quello del Sig. Cinci. Il disegno qui esposto è soltanto un terzo  minore del suo originale. Il pezzo aggiunto lateralmente fa vedere l’acconciatura di testa ch’è dalla parte opposta del recipiente.    i Fest. in sua voc. Lecil. Sat. xxn.   » Monum. etr. ser. vi, Tav. Y, n. i. , ser. v,  p. 3 a,, ser. vi, Tav. Y, n. 1 .  W'     Principe di Canino, ed altri già se ne conoscevano, dissotterrati a diverse epoche,   ed in luoghi diversi . ,  Diodora Siculo poi descrive nel libro quinto, dietro Possidonio le mense degli  Etruschi imbandite due volte al giorno, le loro drapperie ricamate , le loro coppe eli  oro , e d’argento, e le loro falangi di schiavi. Al cui quadro aggiunge Ateneo nuovi  tratti, e. mostrano chiaramente le figure giacenti nei sarcofagi, che gli aggiunti di pmgues, ed obesi, dati dai Romani per isclierno agli Etruschi, non erano suggeriti dalla malizia nazionale soltanto. E Roma prese ad imprestito dall'Etruria i combattimenti dei gladiatori, benché sembri che l’uso orribile d’introdurli nei conviti, e nei  banchetti, appartenga sopratutto agli Etruschi della Campania, e specialmente a   quelli di Capua. Altrìbuisconsi però agli antichi Etruschi anche alcune invenzioni nella musica, e  singolarmente rapporto agli strumenti di essa, poiché non havvi autore, ch'io mi sappia, il quale pretenda che questa nazione abbia discoperto qualche modo particolare  di tale scienza, benché le venga accordata in essa qualche celebrità , egualmente che  nella plastica ; E non già come piace ai compilatori della rivista edimburghese, perchè e Aino erano vicini ad un popolo, il quale essendo estraneo ai Greci, era costretto  ad imprestar loro tuttociò che riguardava il miglioramento, o l'abbellimento della vita pubblica, e privata , mentre avvenne appunto il contrario. Benché non si possa decidere dietro alcun monumento storico, se dovessero gli  Etruschi a se medesimi, oppure al commercio che ebbero coi Greci, dopo che già le  arti erano giunte ad un certo grado di perfezione fra loro, i successivi progressi, fatti  dai medesimi nella scultura, e nella statuaria, pur tuttavia ciò che dicemmo in altro  ragionamento intórno all’anteriorità degli uni, o degli altri, rende quest'ultima supposizione molto probabile. Ma egli è però certo, che se questo rapporto esistè per  qualche tempo fra gli Etruschi, ed i Greci, non fu mai dì una grande intimità. Lo stile toscano nelle arti presenta sempre qualche rassomiglianza con quello deoli Egiziani-, E le opere più perfette di questa nazione , hanno tutta quella durezza, e quella mancanza di vita, e di espressione, che qualificano la scultura greca, anche prima che Fidia accendesse la sua immaginazione alle descrizioni omeriche di  Giove, e di Minerva, e che avesse Prassitei e espresso col marmo l'ideale ch’egli si  era fatto della bellezza. Lo che prova essere stati i Greci i perfezionatori, e non gl'inventori di quelle arti che si dicono belle ; E viepih si conferma che i medesimi furono  in antichissimi tempi i discepoli degli Etruschi. non già i maestri, come pretendono  i nostri grecomani. Al contrario, in tutta quella parte dell arie ove il meccanismo senza vero gemo può  mungere alla perfezione, gli Etruschi non la cedono in verun modo ai Greci stessi,  biella maggior loro raffinatezza. Ed un poeta Ateniese riferito da Ateneo nel primo  libro dei Dipr.osqfisti, celebra le opere etnische in metallo, come le migliori m tal  genere ; Facendo egli probabilmente allusione alle coppe, alle lampade, ai candela-  QUALI FOSSERO LA VITA POLITICA, E DOMESTICA, LA RELIGIONE ED IL GOVERNO DEGLI ETRUSCHI, E QUALI ARTI,  EGLINO COLTIVASSERO PRINCIPALMENTE Ma chi pensasse il pone sieroso tema,   E 1 omero mortai che se ne cerca, Noi hiasmerebbe, se sott’ esso trema.   Caute Par. -  -=-x jgj>    1\ on è certamente agevole impresa quella di ritrarre i costumi domèstici di un popolo, che non ha trasmesso alla posterità veruna immagine di se stesso nelle produzioni letterarie. E tali appunto sono gli Etruschi, della cui prosperità nazionale  pare che sia stata la primaria base l'agricoltura, che veniva si ben favorita dal loro  suolo, e dal loro clima, e che sembra avere in ogni tempo fiorito in questo paese,  quando i benefizii della natura non sono stati distrutti da un cattivo governo,  o da una assurda Legislazione, Tuttavìa però , non ha mai goduto V Etruria  centrale, come la Campania, di una spontanea fertilità. Fu d'uopo ognora che  spiegassero i suoi abitanti la loro industria, e la loro destrezza, per adattare la  cultura alle diverse qualità del terreno, che s incontrano in questo paese, e per  arrestare le mondazioni del Pò nelle provinole che circondano l Adriatico, e che ne  furono parte nei tempi antichi. I primitivi costumi degli Etruschi erano semplicissimi, se vogliamo credere alla storia, la quale ci dice che la conocchia di Tanaquilla fosse conservala lungo  tempo a Roma nel tempio di Sanco; E pare che un passaggio di Giovenale nella satina sesia, ci mostri la stretta rassomiglianza che passava fra le virtù domestiche  delle donne romane degli antichi tempi, e quelle delle donne etnische. Nè ciò desterà  maraviglia a chi sappia, che i primi abitatori dì Roma, non eccettuato il suo fondatore,  non furono altro che Etruschi, della cui energia, e del cui nazionale carattere, formano al parer mio una sufficiente prova, le grandi loro conquiste, la loro destrezza,  ed il loro coraggio nella navigazione.   Ma quando il commercio, e la conquista nelle parti meridionali d’Italia, ebbero  condotto la ricchezza fra loro, gli Etruschi se ne impossessarono coll’avidità di un  popolo mezzo barbaro ed il lusso invece d‘ introdurre fra essi il raffinamento, e l’eleganza delle maniere, non vi portò che un vano splendore, ed un gusto disordinato per  ì sensuali piaceri, come rilevasi anche dalle pitture di alcuni vasi, delti male a proposto italo-greci, dei quali ne ha discoperti un gran numero nei suoi scavi il signor  La forma del governo etrusco, ove riunivansi l’ aristocrazia , ed il sacerdozio, impedì efficacemente al genio di quella nazione, di prendere lutto il suo naturale sviluppamelo. Imperocché ai Lucomoni, ossia alla nobiltà ereditaria, aveva rivelato  Tagete, ed il tempo, gli usi religiosi, che si dovevano osservare dal popolo, col potere  di Applicarli nella maniera che paresse loro la piti propria aperpetuare il loro monopolio esclusivo, e tirannico-, E per rapporto poi al potere civile, formavano questi  medesimi Lucomoni il corpo governante di tutte le città di Elruria. Nei primi tempi  si parla di re, non già dell’ intiero paese, ma bensì di stati separati, ed il cui potereera senza dubbio limitatissimo da quello dell’ alta aristocrazia-, E questi re senza potere, spariscono ben presto intieramente, come più tardi nella stona greca, e romana,  Mentre che in Etruria, non sorge alcun ordine corrispondente ai plebei, per rappresentare V elemento popolare della Costituzione.   E molto difficile di poter fissare con esattezza i privilegi del gran corpo della Casta  potente-, E Miiller inclina per l'opinione, e mi pare eli abbia dato nel segno,che i coltivatori fossero i servi dei proprietarii del suolo, come furono in tempi a noi piu vicini  i Penasti in Tessaglia, e gl Iloti a Sparta. É cosa certa difatti, che esistesse una classe  simile in Etruria, ma non è però probabile eli ella comprendesse una gran parte della  popolazione, non essendovi altro argomento, al quale appoggiare questa, ipotesi con¬  trastabilissima, se non quello che i clienti di Roma fossero servi dei Patrizn. Tuttavia  però è fuori di ogni dubbio che l aristocrazia etrusco teneva gli ordini inferiori in una  dipendenza politica, e che per questo non pervenne quella nazione, al grado di potenza, a cui avrebbe potuto giungere-, Ma la sua prosperità prova ad un tempo che  non era governata neppure affatto tirannicamente. Non sembra nemmeno che l’agitasse lo spirito della democrazia, fino al punto di risvegliar dei timori, ed eccitare la severità della casta governante. Le insurrezioni di cui parlano gli storici, sono attribuite espressamente agli schiavi.   Era l'antica Etruria fertile di grani, e particolarmente di quel farro che i Latini  chiamarono far, ed anche odor, la cui farina forniva il puls, che noi diremmo polenta,  o polenda e che era l’ordinario nutrimento degli abitanti di questa parte d’Italia. Il  ferro delle sue miniere, e specialmente quello dell Isola d'Elba era celebre per la sua  purità-, E forniva pure la stessa isola anche del rame per le monete, e perle opere di  bronzo, tanto comuni fra gli Etruschi. È poi molto probabile, anche secondo  il Miiller, che eglino facessero un commercio di ambra, che loro venisse dal  Settentrione.   Il precitato Miiller, che è come abbiamo detto uno degli Scolari di Niebuhr,  và discutendo con moli acutezza nell’ opera sua, la natura dei rapporti che esisterono  nei primi tempi di Roma, e fra i Romani, e gli Etruschi. E si accorda col suo maestro  a preferire alla tradizione che fa di Servio Tullio unfiglio di schiavo I origine etrusco  di quel principe , menzionato dalli Imperatore Claudio nel suo discorso sull’ammissio¬  ne dei provinciali nel Senato, il cui testo fu discoperto nel secolo decimo sesto in taòn, ed ai tripodi, e simili, giacché discopronsigiornalménte alcune di tali opere  egregiamente eseguite.   Si spiega però facilmente la differenza che incontrasi fra le opere degli Etruschi,  e quella dei Greci col carattere della religione dei due popoli. Imperocché la religione  dei Greci conti Univa potentemente al perfezionamento delle arti plastiche, ove quella  degli Etruschi, in ciò che le appartiene in proprio, non ha niente che risvegli, e che  trasporti V immaginazione dell’ artista. Pare anzi che ella favorisse efficacemente una opinione, che noi ritroviamo del pari nella teologia dei popoli settentrionali, ed in  quella degl’Indii, ed è questa: che gli Dei erano eglino stessi, come pure il sistema,  al quale presiedevano , gli effetti di un potere che non iscorgevasi che a lunghi intervalli nella produzione degli esseri, e che assorbiva tutto ciò che aveva crealo, per  crearlo di nuovo. I SIMBOLI di questo potere erano gli Dii involuti della teologia etnisca, i cui nomi  rimanevano ignoti e non erano oggetto di un culto popolare, ma che Giove stesso consulta. Gli Du consenti poi, che erano dodici, sei di ogni sesso, presiedevano alt ordine delle cose esistenti, e ricevevano degli omaggi, e dei sagrifizii. Manifestatasi la  loro intervenzione negli affari umani, più che in altra maniera con presagi di grandi  disgrazie, che dovevano essere allontanate con espiazioni sanguinose, e crudeli. Ma  se da un Iato potè la moralità guadagnare qualche cosa dalla religione etrusco, che  non corrispondeva in verun modo alla mitologia ridente, ma licenziosa dei greci, la  poesia e le arti dell altro, vi dovettero indubitatamente scapitare non poco.  Lo stesso difetto d immaginazione viva e disinvolta caratterizzava la dottrina  etrusco dell immortalità dell’anima. Il loro mondo sotterraneo, non era altroché  un Tartaro senza Eliso. La superstizione non formò in nessuna parte del mondo, un  sistema più completo che in Etrucia, senza eccettuarne neppure le Indie, e t Egitto  Le regioni del cielo erano divise, e suddivise in modo che ogni prodigio poteva avere la sua spiegazione precìsa. Ifenomeni dell’atmosfera, il tuono soprattutto, ed i lampi, erano osservati, e classati comma minutezza, che avrebbe potuto fornire oli  elementi, aduna vera scienza, se gli osservatorifossero stati veri filosofi, e non Sacerdoti. Ma nel fatto t osservazione di quei fenomeni, non servi ad altro che  ad accrescere la servitù della moltitudine, a quelli che reclamavano la co'nuzioné esclusiva dei mezzi coi quali potevano placarsi gli Dei sdegnati contro il  genere umano. Non è necessario di avvertire, che la filosofia nel senso greco di questaparola, vale a dire lo studio libero dell’uomo della natura, e della provvidenza, era ignota agli  Etruschi, benché non si possano negar loro le cognizioni pratiche, col mezzo delle  quali eseguivano le belle opere d'Architettura, e di Idraulica, che vengono ad essi  attribuite dagli antichi scrittori, i quali parlano delle cose etnische senza prevenzione veruna , e senza spirito di parìe. Elv. Mas. Chius. Go  tavola. Quanto sia malagevole scioglier l’enigma che nelle strane loro figure chiudono le  pietre incise in forma di scarabei, ben potrebbero dirlo e il Caylus, e il D’Han-  carville, ed altri chiarissimi ed eruditissimi ingegni che in vano vi si applicarono;  e quantunque in gran parte non mostrino significato nessuno che ragionevolmente si presti alle indagini dell’erudito, pur taluni, ancorché pochi, han contrassegni da non permettere che siano annoverati tra i soggetti capricciosi insignificanti e per conseguenza inesplicabili.   Nello scarabeo di n. 1 ci guidano con qualche indizio 1 epigrafi, che sebbene sconce  come le figure alle quali si vedono applicate, pure danno adito a ragionarvi sopra  non senza qualche fondamento. Quantunque le lettere siano di forma etrusca, pure  nèson disposte all’uso inverso come scrivevano gli Etruschi, nè presentano voci che  dirsi possano etnische, ma ritengono un misto di paleografia, e glossologia, che partecipano dell'antico greco e dell’antico latino. Qualora non vi fosser lettere direbbesi  che vi si vede Vulcano assiso sulla sua pesante incudine in atto di ascoltar le preghiere della consorte sua Venere a prò d'Enea, come ne dà sospetto lo specchio femminile che tiene in mano, la donna è la libera di lei nudità. Che le lettere esprimenti parole tronche vi si conformino lo congetturo dal potervi leggere fex, quasi ephestus  ch’era nome grecamente dato a Vulcano anche dagli antichi Latini. Segue 1 altro  bisillabo vev, che se crediamo sformata l'ultima per una v, potremmo leg¬  gervi la voce Venus con poca difficoltà. Ed in vero quella barba, che in un modo sì sconcio si volle accennare all’uomo sedente, dà qualche idea del rozzo costume praticato dal marito di Ciprigna, che qui si vede contro a lui con assai studiata, sebben antica maniera d’acconciarsi la testa per viepiù sedurre il manto a  compiacerla nell’ inchiesta delle armi pel figlio Enea : soggetto non raro nella  glittografia, dove l’artefice Vulcano è sempre assiso, e Venere che incontro a lui  si trattiene a pregarlo, sempre in piedi.   Quando si voglia credere che la composizione incisa in questo scarabeo num. 2  abbia un qualche significato allegorico, e non sia stato fatto a solo oggetto di  mostrare lo sgradevole assalto dato da un leone ad un cinghiale, potremo credere che stiano i due animali a rammentare due precipue situazioni del sole  nel cielo, dalle quali ne avviene il calor benefico dell'estate, e 1 importuno freddo  nell’inverno. Infatti è il segno del Leone che domina in estate , e che abbatte colla  forza dei raggi solari quei mali che alla natura cagiona 1 ingrato e sterile, inverno  significato dal porco, di che ho^scrittu molto nel trattare dei Monumenti etruschi - vote eh bronzo a Lione ; Il quale pretende che il vero suo nome fosse Mastarna, e che  foss e compagno di un capo dicosi detti Condottieri, o mercenarii toscani.   Il fatto si è che la voce etrusco Mastarna, vale imbrattato, ossia di sordida origine,^ corrisponde cosi a quanta ne dice la tradizione. Ma mentre JMebuhr si allontana  intieramente dalla storia, supponendo che Tarquinio il vecchio fosse uno di quei Latini  pnschi da ha immaginati, pensa il Mailer eh’ei fosse veramente etrusco, e che traesse  il suo nome da Tarquinia, ( e lo pensiamo noi pure,) il cui dominio estendevasi allora  dalla parte del mezzogiorno, fino alla città di Roma, che erane anche dipendente  in quel tempo. I compilatoli della Rivista edimburghese non credono che questa opinione sia basata sù fondamenti abbastanza solidi, benché paia loro più probabile di quelle di  lebuhr, per sostituirla ai racconti della storia comune ; E non sanno comprendere  neppure, come dei fatti accompagnati da circostanze sì ben precisate, quali sono  quelle dell'esistenza di Servio Tullio, e deiTarquinii, del loro paese, e dello stato loro  possano cangiarsi tutto ad un tratto in un simbolo di etnisca supremazia. Lo che  peraltro non desterà nessuna maraviglia a chiunque sia meglio di loro istrutto delle  antichità etnische, e conosca più a fondo che essi non conoscono, l’universalità dello  spinto simbolico di quei remotissimi tempi. E comunque sia poi la cosa, checché si debba  pensare eh tali supposizioni, il fatto vero si è che Roma fu conquistata dagli Etruschi  sotto la condotta eli Porsetto re di Chiusi, come lo provò, sono già molti anni, Beaufoit, disvelando gli artifizii , sotto i quali avevano procuralo i Romani scrittori di  nascondere questo colpo umiliante. Oltre di che, furono, come abbiamo già detto,  anche i fondatori, ed i primi abitatori di Roma, una truppa dibanditi toscani. Ma circa ad un secolo dopo il regno di Porsena, vennero gli Etruschi umiliati  essi pure dai Celti, e da altre barbare genti, che si resero padrone di tutto ciò che  eglino possedevano sulla riva meridionale del Pò fino a Bologna, e che occuparono  anche. Roma, benché temporanamente. I Romani però, vincitori dei Galli, e cosi più  fonnidabih che mai, non tardarono molto a conquistare, e colonizzare quella parte  i ’truna, che si estendeva al mezzogiorno della selva Ciminia; Ed anche laCam-  pania eia caduta allora sotto il potere dei Sanniti, e tutte le provinole etnische al settentrione degl’Apenninì, erano rimaste sotto la dominazione dei Galli. Tentarono indarno gli Etruschi, dopo la gran disfatta, che ebbero presso il Lago  Va di mone, oggi di Bussano, di chiamare in loro soccorso i mercenarii Galli, poiché  furono battuti di nuovo, perchè le loro temporarie confederazioni, non poterono opporre una efficace resistenza, contro la disciplina, che la vittoria aveva già organizzata  nelle armate romane; Eia potenza di quel popolo celebre, e valoroso per sì lunga serie di secoli, rimase intieramente abbattuta,prima delle guerre di Pirro, e di Annibale. del cielo, di che ho trattato in altre mie opere. Le colonne ed i vasi che son  sepolcrali rammentano le ceneri degli avi, presso i quali fu ucciso l’infelice Laomedonte assalito da Ercole nplia sua patria presso le lor ceneri. Questo disegno è una quinta parte della grandezza che ha 1’urna di marmo. La rozzezza della scultura di quest’umetta in pietra tufacea che nel suo originale è soltanto doppia di questo disegno, non permette ad ognuno di ravvisarvi  il soggetto che a me sembra esservi espresso. Imperocché io vi scorgo nella figura equestre un’Amazone, di che ho non lieve indizio nel berretto che le copre la fronte, e quindi in ogni restante della composizione, che non differisce  dalle già esposte alle tavole. Qui v'èuna circostanza che ne scopre  sempre più l’allusione a soggetto ferale, ed è 1’ albero significativo d’ombra, e  privazione di luce : luogo insomma dove passano i mortali dopo il periodo vitale assegnato loro dalla natura in questa terra.  Un pregio singolare di questi bassirilievi di pietra tofacea è in qualche modo  Tesser tutti chiusini, e d’uno stile che può dirsi unico in questo genere di antichissimi  oggetti d'arte. Quel di Perugia ch’io riportai con esattezza alla Tav. Z 2 della  ser. VI de’Monumenti etruschi, è inferiore nell’esecuzione forse per difetto della  cattiva scélta nella pietra eh'è molto più tenace di quella chiusina, e più assai  porosa, ed a luoghi affatto spugnosa. L’originale di questo che abbiamo sott’occhio non è che per metà maggiore del suo disegno.  Si vede assai chiaramente esservi rappresentata una processione religiosa. La prima  figura che ha semplice manto, e non veste lunga è dunque un uomo che ha in mano  una gran foglia, dalla quale argomento esser questa una pompa sacra, mentre in tali  riti portavansi le foglie, e se ne danno persuadenti ragioni, ch’io esposi altrove 3 . Segue  la figura di una donna che per essere assai danneggiata non se ne sa il destino, Dopo è una figura con bastone in mano,molte delle quali vedemmo già nelle tavole scorse. Ma siccome tien dalla sinistra mano un uovo , così potremo in qualche modo  congetturare che la pompa della quale quel seguace fa parte sia espiatoria, e perciò  analoga al defonto, presso al quale quest’ ara è stata trovata. Poco sappiamo di  una tale superstizione, ma ci è noto che all'uovo, dedicandolo ad Ecate infernale, 1 Ingliirami, Monum. etr. g 5 , e Galleria Omerica Tom. n, tav. cxciv, p. j 54 *   2 Monumenti etr. ser. v, p. 44 l 2 *  3  Ved. le tavole 11, lii, iv,, xxxvni, lui , , Lvi. L’Amorino qui espresso è copia d’un bronzo grande quanto il suo originale,  eh’è d’una bellissima patina verde. Non saprei giudicare dal solo disegno, che  m’è sottocchio, qual ne sia l’azione, e quale il significato di essa, onde mi limito  ad osservare che l’acconciatura di testa, non meno che lo stile assai molle, e sì  vistosamente lontano da quel rigido, che vedemmo nei già esaminati bassirilievi  chiusini, mi fanno giudicare quest’idoletto per un opera eccellente degli Etruschi,  allorché sottoposti ai Romani praticaron le arti ne’tempi di Adriano.  Leggendo lo storico Diodoro ho incontrato un avvenimento d’Èrcole, che mi  sembra molto analogo a quanto si rappresenta in questo bassorilievo. Narra quello  scrittore che tornato Ercole insieme cogli Argonauti alle spiagge troiane, ove  avea lasciati in deposito a Laomedonte la vinta Esione ed i cavalli di Diomede,  invia suo fratello Ifito, e Telamone a riprendere il deposito affidato a quel re;  ma il perfido ne ricusa la restituzione, ed oltraggia i messaggi. Allora gli Argonauti muovono contro Laomedonte e contro i Troiani suoi sudditi, e dopo un vivo  combattimento trionfano. Ercole sopra d’ogni altro fa prodigi di valore, ed uccide  di sua propria mano il re Laomedonte Tanto basti a ravvisar qui E avvenimento or descritto. Ercole ha in mano la spada per uccidere il perfido Laomedonte che h».  già ghermito pei capelli, nè può altrimenti evitare il colpo fatale di morte.  La pelle di leone che si annoda sul di lui torace lo manifestano per Ercole, seb¬  bene usi spada e non clava. Laomedonte altresì fassi noto al berretto asiatico  proprio dei Frigi e Troiani in modo speciale, come ripetuti esempi ne dò nella  Galleria omerica 3 . Il bastone pastorale gli è posto in mano dall’ artista ad oggetto  di aumentarne la distinzione, come spettante alla famiglia di Dardano, eh io dissi  altrove 3 essere stata distinta per la sua occupazione di guardare gli armenti de suoi  antenati, non meno che per la singolare bellezza della quale furono adorni i di lei  componenti. Difatti qui Laomedonte si mostra bellissimo e delicatissimo, in paragone del robusto Ercole, e dell’altro eroe eh’è degli argonauti combattenti in  quella occasione con Ercole.   Le due Furie con face rovesciata, ripetutissime nelle urne etnische, non hanno  un positivo ed intrinseco rapporto col fatto. L'altare serve soltanto di espressione per mostrare che il paziente altro scampo non ha che reclamare la protezione Diod. Sic. Bibl. hist. Galleria Omerica, Iliad-, Tav. le arche racchiudevano oggetti sacri di mistica rappresentanza, non visibili ad ogni  profano. Il vaso dipinto con queste donne che staccano in giallastro su fondo nero, fu, cred’io, venerando per gli oggetti contenuti nella cesta, piuttostochè per  le donne che la portano. Nell’interna e concava parte duna tazza di terra cotta vedesi dipinto con fondo nero un sacrifizio, che mostra, cred’io l’atto del camillo, o vittimario di cuocer le carni della vittima sul fuoco acceso nell’ara o foculo, mentre il sacerdote  che sembra di Bacco è pronto a farvi una libazione, versandovi parte della sacra  bevanda. Dalla bassezza di quell’altare, pare che l’atto religioso fosse diretto al  culto di Bacco stigio, che pregavasi perchè fosse favorevole ai morti; come difatti  la tazza dov’è questa pittura fu posta come le altre in un sepolcro. È invero assai singolare il bronzo num. 1 che qui presentiamo in disegno  nella dimensione del suo originale, come si può riscontrare nel privato e ricco  museo del sig. capitano Sozzi di di Chiusi dov’esiste. Non è del tutto nuovo per  altro; ed io vidi un idolo lungo due piedi e sottile nel museo di Volterra tutto  nudo, e colle braccia aderenti al corpo, senza nessun emblema. Il Gori che lo illustrò, gli dette nome di Lare domestico ridotto più grande e piu maestoso della  specie umana, oppure un dei Lemuri che credevansi ministri del Genio malo,  ossivvero lo stesso Genio malo, che da Plutarco si dice esser comparso a Bruto  in aspetto più grande di quel ch’esser suole l’umana specie 4 . lo crederei che più  convenientemente confermar si potesse esser quest’idolo chiusino un Lare domestico, forse anche Lemure, pei lumi che ce ne dà Plutarco, giacché Tesser vestito  e l’aver patera in mano tanto converrebbe ad un Lare, quannto sconverrebbe ad  un semplice Genio. Lo stesso Gori ha posti nella sua collezione altr’idoletti che  hanno la qualità speciale d’esser più lunghi delle dimensioni spettanti all’umana  specie, ma che l’espositore per bizzaria dichiarò con nomi speciali = , senza darne sodisfacente ragione.   I bronzi notati di numm. 2 e 3 sono le due estremità d’un manubrio di qual¬  che vaso usato probabilmente per sacri riti, come lo mostra la testa d’asino che  ne compone la superior parte, mentre si tien per ovvia la notizia che questo    1 Plutarc. de animi tranquillitate, ap. Gori, Mus.  Etrusc. Voi. i, Tab. cim, Voi. n, i. 2 Gctì, Mus. etr. Tom, tab. v.  si attribuiva una virtù espiatoria 1 . La figura virile ultima non ha caratteristica  veruna che la distingua. Da un lato, cred'io, di questo cippo o ara che sia, v’è un’auriga nell'atto  di guidare il suo carro alla corsa : istituzione antichissima rammentata inclusive  da Omero % fra gli onori compartiti da Achille all’ombra di Patroclo.Sorprenderà gli archeologi la novità di questa lucerna fittile che porta effigiato un centauro colle ali non più veduto, ch’io sappia. Ma cangerà la sorpresa  in persuasione, tostochè richiamerà alla memoria quanto dissi altrove rapporto al¬  la composizione siderea di untai mostro; di che ripeto qui soltanto qualche leggierissimo cenno. Dissi pertanto che stando alle dottrine d’Ipparco, il Centauro  si compone di un cacciatore, o per meglio dire della costellazione che in antico aveva  il semplice nome di un dardo, e dell’alato cavallo sidereo che dicesi Pegaso [citato da H. P. Grice]. E  poiché questo rappresentasi per metà soltanto nel davanti, così inventarono di  aggregare il restante del cavallo, o sia la posterior parte al cacciatore arciere.  E siccome il Pegaso composto dal Centauro è figurato con ali, così non è fuor  di proposito il trovare in questo arciere colla caccia in mano la posterior parte del  cavallo Pegaso colle ali che formano il distintivo del destriere abitatore del Parnaso.   Il vaso rappresentato in questa Tavola due terzi più piccolo del suo originale è di terra cotta di naturai colore, a differenza d’altro simile qui pure esposto  alla Tav., eh' è di terra nera. E poi singolare in questo il veder le braccia  staccate dal vaso e fermate con delle cuciture di fil di ferro agli orecchi o manichi  di esso vaso, e pare che abbiano tenuto qualche cosa nelle mani che soglion esser  traforate . Un indizio di barba rasata ce lo fanno credere un Bacco. Per ogni  restante si legga quanto dissi alla Tav.   Fu costume frequentissimo nei sacri riti del gentilesimo l’introdurvi le femmine canefore, o cistofore ma specialmente in Etruria, e i monumenti ci mostrano come un tal uso invalse qua nei tempi antichissimi, come Io mostra il  famoso vaso d’argento di Chiusi da me riportato altrove. Quelle ceste, o picco-    i Suid. in VOC. Excctjjv.  a Galleria Omerica Toni, n, lav. ccxvu #    3 Monumenti etr. ser. v^av. lyii, p* 561.   4 Ivi, ser. ih, Ragionamento vii.  SULLA VERA SITUAZIONE TOPOGRAFICA DI V1TULON1A ANTICHISSIMA SEDE DELL’IMPERO ETRUSCO.  AffdS'v’tffzoufft yap y,<x.i nohU «c rirep av^pwirdi, A. A. .  li ori aveva torto lo spiritoso, e bizzarro filosofo di Samosata, quando scriveva nel  suo dialogo intitolato Caronte, che le città muoiono come gli uomini. Imperocché nel¬  la stessa guisa che si perde la memoria di moltissimi di questi, così perisce la ricordanza di non poche di quelle. Nel cui numero è da riporsi con tante altre, la famosa  Vitulonia , prima capitale dell’ Impero Etrusco, della quale sì scarsamente lasciarono scritto gli antichi, e sì vagamente , e con grande incertezza ne parlano i moderni. Trovasi infatti accennata dagli uni e dagli altri, quella già potentissima, e ricca città, con molta dubbiezza, e circa la vera sua topografica situazione, e  circa l’estensione del suo circuito, e perfino riguardo al modo di scriverne il nome .  Avvegnaché PLINIO chiama Yvi ulonii, e Vetuloniensi i suoi abitanti, e Silio Italico nomina Vetulonia la città stessa, mentre avvi qualche altro autore, che la dice promiscuamente Vetulonio e Vetulonia. Quanto poi alla sua topografica situazione, pare anche dal passo del precitato  Plinio, ch’ella fosse come era difatti, vicina al mare -, poiché sebbene al tempo di  quello scrittore già più non esistesse da lunga data, nondimeno la memoria della sua  situazione , e della sua grandezza sussisteva tuttavìa nella tradizione dei popoli etruschi . Ed il Cluveno ,lib. ila colloca egli pure non lontano dal mare , e nelle vicinanze delle paludi caldane, confondendo però, per quanto mipare, le Caldane volterrane, o i Guadi volterrani, colle Caldane della Fiora, che sono tutt’altra cosa. Che sorgesse però nei contorni di quel pareggio, non è da mettersi in dubbio,  giacché leggiamo in Dionisio di Alicarnasso, lib. 3, che al tempo di Tarquinio Prisco , quand’ egli guerreggiava contro i Latini, i Sabini, e gli Etruschi propriamente  delti, fecero legaper andare contro il medesimo, le cinque popolazioni seguenti, cioè,  i Chiusini, gli Aretini, i Volterrani, i Rosellani, ed i Vètuloniensi , che Plinio al già  citato libro terzo nomina con ordine inverso. Nè senza ragione è da credere, che quei  due gravissimi scrittori nominassero i popoli, piuttosto che le città dei medesimi,  perchè Vitulonia era stata distrutta molli secoli prima della fondazione di Roma, come congettura il dottissimo Dempstero, il quale crede ancora giudiziosamente, che  perciò si di rado ne abbiano gli autori fatta menzione.  quadrupede spettò a Bacco 1 o a Vulcano a . Nell'uno e nell’altro supposto converrebbe 1’ unione loro aiCabiri, che furon detti e figli di Vulcano,ed apportatori del  culto di Bacco in Etruria. Una tale osservazione mi farebbe credere i Cabiri  o Dioscuri quei due giovanetti sedenti e con berretto in testa, che trovansi nel1’estremità inferiore del manubrio medesimo . E tanto piu me ne persuado , in  quanto che molti bronzi ritrovati in Etruria hanno Bacco unito ai Cabiri 5 . Nè si  allontana da questa congettura lo stesso lor gesto che addita il cielo, mentre stanno coricati per terra, giacché tale additamento del cielo e della terra è lor proprio in molti antichi monumenti dell’arte 6 .Il bronzo di questa Tavola veduto da due parti mi vien descritto di un lavoro squisitamente condotto per la sua esecuzione, al che si può aggiungere il  pregio dell’arte che splende anche nella giusta, non men che bella proporzione  della figuretta che qui si vede per metà maggiore del vero. Io la credo una di  quelle Giunoni, o genii delle donne che tenevansi nei larari dal gentilesimo. La pittura di questo vaso consiste in tre figure femminili, che avendo in ma¬  no delle aste armate di punte, corrono sfrontatamente luna presso l’altra. Così  narra Euripide che Penteo al di lui ritorno in patria udì che la madre di lui con  altre donne Tebane aveano abbandonato il proprio albergo, e n’eran gite sul monte Citerone a celebrar le feste di Bacco , piene di lascivo furore 7. ÌR<S>° 1 U : VI I q 3 : aìlflNS   J/ìttq A J : ÌV1V : J33 tfntnqf\ jmn/qo .   jfjvm/dn •• ©nq/i   XL   R13D J/ilflllV Monutn. etr., sei:, u, p. 56.   2 Milli» , Peintures de Vases ani. , Tom.  2 3 , not. (6).   3 Monum. etr., ser. n, p. i52.   4 Ivi, p. 693, 713. Etr. Mus. Chius. Tarn. 1. 5 Ivi. Ved. la spiegazione delle Tavole  i, p. e ixxvui.   6 Ivi, tav. xlÌx, e sua spiegazione.   7 Euripide nelle Baccanti atto primo scena iv  in principio.  9vono discorso anche intorno alle sue terme, ed al suo anfiteatro, celebrandone  le ime , e 1‘ altro.   Scrive La-Martiniere che le rovine dì questa città ritengono tuttavìa t antico nome, e che si chiamano Vetulia,ree/ che concorda coll'Alberti, e si legge in una nota del  precitato Cluverio, che Vitulonia era situata fra Populonia, e la torre dì San Vincenzo, presso alle paludi caldane, ed il fiume Linceo, detto oggi la Cornia. La quale  opinione pare appoggiata da quel passo del sullo dato PLINIO; ove nomina insieme ì Tarquiniesi, i Tuscanesì, i Vetuloniensi, i Veientani, i Visentini, ed i  Volterrani, cognominati etruschi, com’egli si esprime.   Molte altre citazioni, ed altre notizie avrei potute raccogliere ed aggiunger qui,  riguardanti la nostra Vitulonia, ma le ho tralasciate per brevità, e penso che siano  anche troppe le già addotte, per dimostrare quanta confusione, e quanta incertezza  si riscontri negli autori, ogni volta che ne fanno parola. Ad onta però di tanta confusione, e di tanta incertezza degli scrittori antichi, e  moderni intorno a Vitulonia, per cui è sembrato ad alcuni archeologi , non solamente  difficile ma eziandio impossibile di poterfissare, ove sorgesse un giorno quella primitiva sede dell impero etrusco, quandi esso estendevasi a tutta l Italia; io voglio non pertanto tentare in questo ragionamento di stabilirlo. E voglio in questo tentativo mettere  a profitto le belle, e ricche scoperte di vasi etruschi, e di altre anticaglie, fatte dall'egregio signor prìncipe di Canino nelle sue terre di questo  nome, e giovandomi ad un tempo dei lumi sparsi da quel chiarissimo scrittore, illustrando gli uni , e le altre, e per cui viene ora meritamente lodato in questa materia,  come il più benemerito promotore della gloria dei nostri padri.   Tralasciando pertanto di rintracciare, lo che sarebbe ricerca inutile, e vana, se  Vitulonia/bwe edificata da Tarconte, come pretendono alcuni autori, o dal celeste  Ogige, il quale come vuole non so qual poeta,   Itali® Tuscas pelago descendit ad oras, dove torreggiò Vitulonia, o finalmente lo fosse dagli Etruschi, regnando su di essi,  come piace ad altri quello stesso Giano Velo che istituì, per quanto si dice, il culto  di Vestà, e le Vestali nelle nostre contrade, diede il suo nome al Gianicolo, combattè  per tre anni coi Celtiberi, e finalmente li vinse, e li sottomise alla sua dominazione: quello stesso infine, che consacrò , giusta le tradizioni, una gran selva a Crono nelle  vicinanze appunto di Vitulonia, il cui nome potrebbesi interpetrare stagno, od acqua  incostante, passerò in quella vece a determinarne subito la topografica situazione.   Circa la quale io credo che non possa rivocarsi in dubbio, quanto il sullodato signor principe di Canino ne ha detto nel primo volume del suo Museo etrusco , parlando in particolar modo della sua Necropoli; E sono persuaso che ella sorgesse veramente nel luogo da lui supposto, e descritto.   Bifalti la prodigiosa quantità di vasi etruschi di sommo pregio, e di somma bellezza, e nei quali sono rappresentate favole, o storie anteriori alla fondazione di Ro- Crede Ermolao Barbaro, che Orbetello occupi ora il sito dov era una volta Vilu-  lonia, lo che non può essere. E VAlberti scrive che ai suoi tempi chiamavasi Veletta, o Vetulia, il luogo ove fu Vitulonia; laddove altri sostengono, che altro in oggi ella  non sia ché un luogo deserto, distante tre miglia dal mare, fra Populonia, e Pisa. E  nonmancano neppure di quelli che confondono Populonia stessa con Vitulonia, benché  fossero per località, per età e per potenza paranco , l’una ben distinta dall' altra. Jf erudito Guarnacci poi, dice di non poter determinare neppur egli, ove giacesse questa famosa, ed antichissima città, perché sì conosce, secondo lui, solamente  il nome della medesima, ignorandosi però del tutto, a qual distanza precisa fosse  ella situata da Volterra, e dal mare Ma Annio da Viterbo nelle sue note agli Equivoci, di Senofonte, afferma esservi un colle chiamato Vetuleto, e lo afferma con qualche probabilità, per l’età sua, sul quale crede che fosse situata altre volte Vitulonia.  E pensa che dopo la rovina di questa, gli restasse un tal nome. Il medesimo poi ne  deriva l’etimologia del nome da due parole araniee , che verrebbero a significare, capo di molte città; ciò che non sarebbe disconvenevole a Vitulonia,- ed aggiungendo,  quello che in molti altri scrittori si legge paranco, che essa godeva il privilegio di  ammettere i forestieri alla cittadinanza volterrana , come ancora la privativa in età  più remota, di dare i fasci, e le insegne reali, la qual cosa indica essere stata la medesima al disopra di Votterrà. Non di meno il chiarissimo Passeri nel suo trattato della Numismatica etrusca ;  la crede colonia dei Voltérrani, benché ciò non possa essere accaduto, se pure vogliamo ammettere che avvenisse in alcun tempo, se non dopo la sua decadenza, e totale rovina, e dopo il successivo ingrandimento dell'altra. Mentre quando eraVitulonia  nel suo pieno splendore, e capo di potente impero, è ben ragionevole il credere che  succedesse tutto il contrario . Lo stesso Silio Italico, citato disopra, chiamò la nostra Vitulonia splendore della  Meonia gente, alludendo probabilmente a quei Lidii che si dicevano venuti a stabilirsi in Etruria, e principalmente in quella regione-, e la disse ad un tempo inventrice  dei Fasci, delle scuri, dei Littori, della Sedia Curale, e della pretesta, come pure  le attribuisce il merito di avere adattata l'enea tromba agli usi guerrieri-, cantando  nell’ ottavo libro delle guerre puniche.   Meoniosque decus Vetuionia gentis, Bissenos hoec prima dedit precedere fasces,  Et junxit totidem tacito terrore secures:   Et princeps Tyrio vestem prsetexuit Ostro;   Hasc altas eboris decoravit honore curuies ,   Heec eadem pugnas accendere protulit sere.  Esistono infatti antiche medaglie, riferite dal prelodato Passeri, ed anche dal  Guarnacci, coll epigrafe Vetiunia, e coll’ emblema della scure, o bipenne, insegna  dei Magistrati etruschi, e precisamente di quella città. Ed alcuni gravi scrittori mo- Messina, e fuori ancora dItalia per fiancheggiare le inaudite millanterie di quei medesimi Greci, e loro forsennati seguaci, riprodurrò qui una opinione singolare, ma  vera, e che mi pare che siastata sostenuta anche dal Vico ; e dirò che le Muse ebbero origine in Italia, nell’infanzia, per cosi dire, del mondo. Ed aggiungerò, che da  questa bella penisola emigrando, pèr quelle vicissitudini, che modificano , e fanno  cangiar di aspetto continuamente a tutte le cose umane, passarono in Arcadia,  colle prime colonie italiche di Pèlasghi Tirreni, che erano indigeni di questo delizioso paese, favorito in ogni tempo sopra di ogni altro dalla natura, per tutte le  arti dilettevoli, e per tutti gli ameni studi. Ed andarono ad invadere, é popolare la Grecia, e la Tracia, selvagge allora ed incolte, dove ebbero poi nome,  e culto per opera di Anfilone , di Lino, d’Eumolpo, e d’ Orfeo, ma vi si erano  condotte da prima coi sunnominati Pelasglii-Tirreni , pastori ad un tempo , e  poeti. Da dove ritornarono più tardi in queste benedette contrade in compagnia  d’Evandro, e non ne partirono mai più-, ad onta di tutte le devastazioni e di  tutti i flagelli, che vi portarono gli stranieri, i quali ne fecero in tutte le età il  primo oggetto delle loro ambiziose conquiste .   E persuaso come io sono , che Vitulonia dettasse in remotissime età le sue  leggi agli Italioti, potentissimi allora sovra ogni altra nazione, da quei luoghi  medesimi, nelle cui vicinanze riscontrasi la grande necropoli, discoperta \dal  signor principe di Canino, come Roma le dettò loro, e all’ universo, in altri  tempi, dall alto del Campidoglio, terminerò questo mio ragionamento, ripetendo con VIRGILIO, Purpureos spargain flores, animasque parentum   His saltelli accumulem donis. Mà non voglio però dar fine al medesimo, senza rivolgere brevi parole al signor compilatore dal Ballettino archeologico di Roma, per pregarlo col dovuto  rispetto, a volersi compiacere di farmi comprendere cosa mai ha preteso di dire, quando ha scròto del medesimo, con franchezza più  che cattedratica, « Contribuiscono ad illustrare qualunque parte delle antichità  dell' Etruria le utilissime lettere d’ etnisca erudizione che si pubblicano dal cavaliere Inghirami; siccome allo stesso tendono nel modo loro particolare, le  ingegnose conghietture del signor Principe di Canino, é quelle di simil genere  del professor Euleriani, premesse ai fascicoli del Museo chiusino » perchè sebbene io confessi ingenuamente : che mi rifugge t animo alt idea, che debba  venire un Oltramontano ad insegnare a noialtri Italiani, a conoscere le cose  nostre, e quelle dei nostri padri, mi sarà tuttavia gratissimo di potergli rendere pubblica testimonianza di avere imparato qualche cosa da lui, come non  poche me ne insegnarono altre volte, e di vario genere, ì Dempsteri, gli Acker-  blad, gli Zoega, che qui nomino a titolo cìi onore, ed altri ancora che per brevità si tralasciano. e 9   ma, e vi si osservano costumi anti-romani ancor essi, dal medesimo dissotterrati nelle  sue campagne della Cucumella, e Cannellocchio , mostra ad evidenza, che tanta ricchezza di vasi dipinti, non poteva appartenere che alla Necropoli di una città grandissima ed opulentissima, e capo di potentissimo impero. Nè i tre ponti dallo stesso  discoperti sulla Fiora cosi l uno all altro vicino, servir potevano ad altro che a mettere in comunicazione fra loro le due parti di questa medesima città ; E questa non po¬  teva esser che V itulonia , se ben si voglia riflettere alla sua località, dietro quello che  si legge negli scrittori antichi, e moderni, benché alquanto oscuramente, intorno alla  situazione di quella metropoli.   Che se qualche ultra-greco si ostinasse ancora a sostenere il contrario, è pregato  a considerare un poco meglio i monumenti dei nostri antichi, e singolarmente quelli  dissepolti nelle terre di Canino, ed anche a porre maggiore attenzione quandi egli  legge le opere degli antichi, e son di parere , scorgerà facilmente timpossibilità di  provare il suo assunto.   In quanto poi al predicare la civiltà italica molto anteriore a quella della Grecia, noi non abbiamo fatto altro in ultima, analisi, che riprodurre quanto era stato opinato nello scorso secolo dai dottissimi archeologi, e filologi italiani, e stranieri,  assai giudiziosi e non greco-mani, Dempstero, Buonarroti, Maffei, Cori, Guarnacci, Bocliart, Mazzocchi, Lami .Bourguet, ed altri ancora. E più modernamente dalli eruditissimo poliglotta Acherblad, dall’illustre Marini, e dal celebre Visconti, prodigio d’ingegno, e di dottrina, anche a giudizio dei più  dotti francesi. La quale opinione, propagata da tutti i surriferiti grandi uomini, che trovasi confermata nelle memorie dell'accademia delle iscrizioni di Parigi, e che è messa  in piena luce da quella mente straordinaria di VICO (si veda), è poi quella stessa riprodotta,  e commentata dal sullodato signor Principe di Canino, nei varii articoli del  precitato primo volume del suo Museo etrusco, dopo che la riscontrò comprovata dai  Monumenti da lui discoperti, negli scavi fatti eseguire nelle sue terre. Nè di poco momento è per me, onde viepiù confermarmi in questa opinione che  mi è divenuta certezza, t autorii a del profondo archeologo romano AMATI (si veda),  uomo di somma perspicacia, e dottrina, e nelle italiche antichità versatissimo, e che  la sostiene egli pure. Che del resto la iattanza impudentissima dei Greci , è dei grecomani, circa la civiltà, e le arti italiche, non è nuova in queste contrade, sapendo ogni mediocre erudito,  che per rintuzzarne soltanto la vanagloriosa ciarlataneria, pose mano Catone a scrivere i suoi libri dèlie origini, e si mostrò grandemente sdegnato, perche nessuno si  fosse alzatOkprima di lui a rigettar loro in faccia si nauseanti, e boriose pretensioni,  e si grandi sciocchezze. Ora dunque, animato dal medesimo amor patrio, e stimolato da eguale sdegno,  per le tante inezie che sf vanno ripetendo ogni giorno a piena bocca, dalli Alpi a  Etr. Mus. Chius. Torri. Quando Venere e Apollo sottrassero Enea, come inventa Omero alle furi¬  bonde armi del prode in guerra Diomede, allora Febo immaginò di lasciar combattere a sazietà i Troiani coi Greci, sostituendo ad Enea l’idolo, o popolarmente  parlando, l'ombra di lui. Questa poetica immagine del combattimento de’due partiti per un vano fantasma fu cara oltremodo agli Etruschi, mentre ne vediamo  la rappresentanza in molti de’lor cinerari, un de’quali eh’è in marmo, fu da me  inserito nella serie che ho data de’monumenti omerici della Iliade, similissimo  a questo ch'è di terra cotta due terzi soltanto maggiore del presente disegno, mentre quel di marmo è due terzi maggiore di questo modellato in creta. Vi si vede pertanto il simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso gettatogli da Diomede, in atto di cercare una qualche difesa nella trista situazione in  cui si trova, spossato di forze. Intorno a lui si tagliano a vicenda gli scudi e le  targhe Troiani ed Achei. L’originale in terracotta era dipinto a vari colori, ma  ora svaniti. L’ iscrizione è soltanto dipinta in color di porpora, e rammenta, come sapremo a suo luogo, il nome del morto, le cui ceneri chiudeva l’urnetta. Un licenzioso stuolo di baccanti si offre allo sguardo dell’.osservatore della  tav. presente, e ci avverte esser questa la pittura d’un vasetto ch’è rappresentato  alla tavola e frattanto si verifica la massima comunemente invalsa per esperienza, che tre quarti dei vasi fittili dipinti hanno soggetti bacchici.   Questo ha figure nere su fondo rosso ed è il vasetto originale tre volte maggiore del disegno dato alla tav. suddetta. La statuetta di Venere che orna quest' ago crinale grande al pari del presente disegno è adattatissima a dar compimento ad un utensile di muliebre decoro. È singolare il vedere nei Monumenti etruschi la Venere quasi sempre co¬  perta negligentemente in una sola gamba. Io vi ho spesso, ravvisato il velo del  quale son coperte agli occhi della nostra penetrazione moltissime delle operazioni della natura: osservazione che dovette esser propria specialmente degli Etruschi, i quali si magnificano come studiosi della filosofia naturale. Proporrei ancora  il sospetto che l’ago crinale fosse un simbolo mistico, e per tal cagione posto nel    i Iliade  Tav. Non credasi però mai da alcuno , che io ni" altlia la stolta pretensione  di non essere criticato, ché anzi mi reputerò sempre ad onore ogni critica fatta  a dovere, Ma quando venga questa in mal tempo, e con peggior garbo, metterò sotto gli occhi di chi vorrà leggermi, il seguente epigramma.   Censura sapiens, et doctus acutnine gaudet :   Stultus at insano carpere dente solet.   Ex tribus his titulis, quem vis, tibi delige lector:   Sic sapiens, doctus, stultus et esse potes.  XLI.   VIDflDMU  4/mvfl4i •• flnoai ; qn-i   XLEL  -.43 : F\\F{- 1/1-1 : 4 /ÌOq/ : i4 : 4/RttYf : intblq/d : 41   XLV.   m3iifl4 ; ìi n/qi : 43H3vi :•.lamvfliflm: finn o ni asiaq'D : 4flim#ì4 : intn.q/a : xLvm.   4/aifn/qi3i lantqfl = ioqfiN   XLIX. ninni m Y 131 : 4An#isa : ianq3i : no   L. 1 nxnn\   M3f : laUfVf : flitifl©  Al disopra del copercìiio.  a Siccome finisce il lembo del coperchio pare    che abbiano continuata la parola al di sopra del  coperchio della stessa urna.  I 74   (lutto nell'arte, mentre qui la Furia infernale esce di sotto terra; come nel teatro. Se  quest’uso non è molto antico, non potremo reputare antichissime neppure queste  sculture ove tal uso è imitato. L’urna è due terzi più grande del presente disegno.   Il soggetto di questo rozzo vasetto non è che un baccanale. Il vecchio barbato e nudo rappresentar dovrebbe un satiro, mentre a centinaia s'incontrano  i satiri nei vasi che trovansi nei sepolcri, e le lor mosse costantemente bizzarre,  come acche la lor nudità costante, non permettono di separar questa virile figura  dal coro satiresco di Bacco. Ma la rozzezza del lavoro accompagnato da negligenza; fece dimenticare al pittore di aggiungere alla sua figura la coda equina che  a’ satiri non manca mai. La donna eh’ è dalla faccia opposta del vasetto, non può  essere per conseguenza che una baccante . I circoli che in buon numero si vedono  attorno alle due figure sono un enigma finora inesplicato. La grandezza delle  figure è uguale a quella dell’uomo barbato. La pittura è giallastra in fondo nero.  I tre recipienti che occupano questa tavola son vasi con pitture in parte nere e in parte giallastre, che si mostrano separatamente dai loro vasi, e che vedremo in seguito coi respettivi loro richiami. Ma il vaso segnato di numero 2 ha  soltanto una pittura a parte, l’altra di minor conto si vede qui in piccolo.Io vi ravviso  due degli Efebi davanti al ginnasiarca, il quale ha verga in mano insegno che istruisce e comanda. Tali erano gli esercizi del ginnasio, dove la gioventù s’istruiva negli  esercizi del corpo e dell’animo; e gran parte delle pitture de’vasi han simil soggetto nella parte opposta ad altra, che aver suole qualche rappresentanza mitologica o simbolica, come in questo vaso, dove si vedrà Ercole accolto dal centauro  Eolo. Queste favole cred’io avevano un senso misterioso, e la gioventù s’istruiva nell’iutelligenza di quel senso non a tutti palese, per cui ne’ vasi comparisce  nel tempo medesimo l’istruttore e 1 istruzione che rnostravansi con quelle pitture.  Questo, pare a me, eh’esser possa il momento in cui Ercole passando dal  monte Foloe per andare a cercar del cinghiale d’Eriinanto, trattenutosi dal centauro Folo figlio di Sileno e della ninfa Mitra, fu ricevuto nel modo il più ospitale che potevasi. Ercole ebbe desiderio di bere del vino. Folo ne avea soltanto  in un vaso eh’era stato dato da Bacco ai centauri in comune, e perciò non ardiva d’aprirlo. Ma Ercole incoraggillo a deporre ogni timore, ed apri egli stesso sepolcro dov' è stato trovato . Dissi altrove difatti, che si venerava in Roma l'ago crinale della Madre Idea custoditovi fra le cose fatali, da cui facevasi dipendere  la stabile conservazione dell'impero. Le oreficerie degli Etruschi, di che presentiamo qui un saggio, esser sogliono di uno squisito lavoro. I due pezzi superiori pare che siano stati usati a  formare una collana, poiché di simili ornamenti vedonsi le belle collane scolpite al collo delle matrone che si trovano giacenti sopra i coperchi delle urne 3 .  Ciò sia detto per disinganno di coloro che trovando nella Grecia altri ornamenti  muliehri lavorati in oro con una perfezione e con un gusto simile a quei dei  nostri Etruschi, ne dedussero che di Grecia si facesse smercio in Italia di tali bigotterie; ma poiché la forma dei due pezzi superiori trovasi ripetuta soltanto  nelle sculture d'Elruria,e non in quelle di Grecia, così non abbiamo pruove che usassero tali ornamenti fuor dell’Etruria , nè che non si potessero quivi anche eseguire. Tra le infinite bizzarrie che vennero in testa ai figuli per variar le forme dei  vasi, che servirono per ornar le ceneri dei sepolti, questa che presentiamo qui non  è certamente delle men singolari. Il suo nome suol essere d' un ciato quando  ha forma d’un corno potorio; ma in figura di gamba non avendone io mai incontrati , per quanto abbia veduti moltissimi vasi sepolcrali, non saprei certamente  quei che possa dirsene. La sua grandezza è due volte maggiore di questo disegno. È della solita terra nera di Chiusi, ed ha vernice nera assai lucida che lo  cuopre d'uu color solo. In generale questi eran vasi da bere usati col rito, che  dovevasi affatto votarne il recipiente, per cui non era necessario di tener questi  vasi in piedi, ma suolevano star discenti sulla mensa. La tragica morte di Eteocle e Polinice è soggetto che fu caro agli antichi  Toscani che lo elessero soventemente per ornarne i loro sepolcri. Qualche mossa,  qualche ornato,lo stile medesimo della scultura, fan vedere che vi fu comunicazione  tra la scuola di Volterra e quella di Chiusi. Il costume della Furia eh' è fra i due  moribondi più che altro manifesta la probabilità di questa mia opinione; come si riscontra dai paragoni che posson farsene 3. Altrove notai parimente 1’uso teatrale di  far comparire, non già dalle scene i soggetti infernali, ma dal palco medesimo, quasi che sorgessero di sotto terra ^. Un tal uso vedesi esattamente intro- Monum. etr. , ser. li J  2 Ved. la Tavola. Monum. etr., Tavv.  II vasetto che primo si presenta in questa tavola è di terra nera, uguale in  tutto al disegno. Le teste velate son così ripetute nei vasi sepolcrali chiusini, che  io non dubito di confermare il già detto, nel supposto che siano indicative di  larve Ci vien fatta peraltro notare 1 ’esattezza del lavoro, non meno che la perfetta conservazione del monumento. Si osserva un anello d’ oro eh’ è in proprietà del sig. capitano Sozzi. Il lavoro, per quanto mi si elicerà finissimo e di grandezza in tutto  eguale all’originale. È stato, per tanto riportato in doppia grandezza l'incavo che tien  luogo di pietra anulare, perchè meglio si osservi lo stile elevato di quel lavoro.  I due animali, il leone cioè e la sfinge potrebbero essere interpetrate pel passaggio del sole dal solstizio estivo all’autunno , mentre quel mostro con corpo  di leone e testa e petto di donna non altro pare che indichi, sennonché il sole  che uscito dal segno del Leone ardentissimo passa in quel della Vergine, ove comincia a perdere l’estiva sua forza, per cui si assomiglia a una femmina. La galante forma del vaso n. 1 non è comune fra quelle usate dai Greci.  L’impasto della terra è tutto nero, ed in luogo di figure dipinte ha dei bassiri-  lievi minutissimi, da’quali, come da una doppia fascia, è circondata la più larga  parte di esso . In una delle nominate fasce al n. 3 stanno assisi due uomini con  veste talare, in atto di voler dispensare delle corone, che ricevon coloro i quali  stanno in piedi. Sotto alla lorsedia è un uccello, che secondo le moderne interpe-  trazioni dei geroglifici egiziani, come dissi altrove ?, significa la casa dello sparviere, eh’è pur simbolo della divinità; e in conseguenza la casa o regione del  cielo, sul quale stabilite si vedono le figure sedenti del nostro bassorilievo. Porgono esse dunque delle corone ai guerrieri, in premio di aver combattuto.   Le sfingi nei sepolcri le ho sempre credute indizio del tempo nel quale passa  il sole dai segni dell’emisfero superiore a quello inferiore 4 , che dicevasi regno  dei morti 5 , e per tal memoria credo esser poste le sfingi nella fascia num. 4 - Nel  bassorii. n. 2 v’è un uomo sedente che ha in mano Io scettro, e ad esso presentasi  un individuo munito di lancia che probabilmente significa un’anima che passando  ad altra vita domanda il premio delle eroiche sue virtù' 6 , accennando non altro  che il tempo di tal passaggio, come ho provato anche altrove? in quest’Opera.  1 Monum. etruschi, ser. i }  i, Ved. la spiegai, della Tav. 3 Lettere di etnisca erudizione; Monum etr.; Lettere; Vedasi tutta la mia lettera scritta al dottor Maggi nel Tom. delle lettere, Ved. la pag. 5i , e 52 . ;5  quel vaso dov’era, come appunto si vede in questa pittura. I centauri tratti colà  dall’odore del vino vennero in folla alla cantina del centauro Folo, armati di  grosse pietre, un de quali è qui rappresentato in dietro ad Ercole in atto di  scagliarliela ; e forse è Anchio, o Agrio che furono uccisi da Ercole, perchè i  primi ardirono d’entrare in quella caverna 1 . Questa pittura con figure giallastre è  inetà del suo originale. In questo bassorilievo ravviso Paride, il quale mentre viveva oscuro ed ignoto  sul monte Ida tra i pastori, scendeva talvolta alla città di Troia, ove segnalavasi in  tutti i giuochi e combattimenti che vi si facevano, ed in essi riportava la palma sopra  ogni altro concorrente, inclusive sopra Ettore e su gli altri suoi fratelli, che sdegnando d' esser vinti da un ignoto pastore meditarono di assalirlo ed ucciderlo. Ma Paride allora si dette a conoscere per loro fratello, e cosi fu salvo. Qui Paride è NUDO COME SI COMPETE AD UN ATLETA, ed ha lunga palma sugli omeri, qual  vincitore in competenza coi fratelli che invidiosi lo guardano, e meditano la di lui  perdita, istigati a tanto misfattto dalle Furie infernali che loro si fanno dappresso. Il ginocchio che Paride tiene sull’ara significala protezione divina eh’egl’ implora da  Venere, come ho detto altre volte a , e 1 ’ ottiene; mentre Priamo suo padre, a cui si  palesò, lo ristabilì nel suo rango 3 . Il disegno è una terza parte dell’originale.Chi mai trovar potrebbe in questo vaso un gusto greco? Anzi a rettamente  parlare diremo esservi un fare eh'è tutt'altro che greco.L’ornamento del piede  partecipa delle scannellature che sì frequenti ravvisiamo nelle opere dell'Egitto.  In ogni restante v'è una originalità singolare. I mostruosi animali a bassorilie*  vo che ne ornano il corpo son frequenti in questi vasi chiusini di terra nera,  ed io li tengo sempre per quelli animali caotici che ad oggetto di rammentare  la pili antica delle orientali cosmogonie ne ornarono i sepolcri, di che ragionai anche  altrove L La donna che serve d'apice a! coperchio del vaso, in quanto al disegno  non è molto dissimile da quelle dipinte in giro nel vaso della Tav. LXXII, come  ancora in riguardo al costume dell’abbigliamento. Questo è dunque l’antico etrusco  stile, o l imitazione di esso, come resulta dal paragone della indicata pittura pur trovata in Chiusi, ma di stile totalmente greco. Or s’io ripetessi qui pure, come ho detto  altrove 5 , che i Greci lavorarono vasi in Etruria, e quindi anche i nazionali ma  in uno stile del tutto differente, non ne avrei forse in simili esempi le prove? Diodor. Sicul. Nonn, Dionis. intit. l’Italia avanti il dominio de’Romani Monum elruschi, ser.[i,p. /{Q 3 i 4 ^ 5 , .Monum. etruschi ser. v, Tav. lx.   3 Ved.le mie Osser.sopra i raonum.ant.uniti all’op. droni perfino del tuono, e del fulmine, i quali peri loro sorprendenti, e terribili effetti , somministrarono in ogni tempo e in ogni dove abbondante materia alla superstiziosa credulità dei popoli. Giammai però, nè presso alcun’altra nazione, ebbe la  scienza tonilruale, efulguraria tanti cultori, come presso gli antichi Etruschi, nè  mai se ne fece altrove uno studio così costante, come nell’ Etruria propriamente detta,  e con successo così, favorevole.   Ma i sacerdoti etruschi, dopo avere immaginata una scienza profonda, e difficile,  sui tuoni e sui fulmini, trovarono ancora il modo di renderla terribile e spaventevole  al volgo della loro nazione. Imperocché, stabilita la distinzione tra ifulmini di consiglio quelli di autorità e di decreto, tra i postulatorii, i monitorii, i confermatorii', gli  ausiliarii, gli ospitalieri, ed i fallaci, i pestilenziali, i micidiali i minacciami, ed i reali, e simili, ne fabbricarono ancora una spece di Diario, ossia Rituale. Del quale, per  darne una idea ai nostri lettori, ne riporteremo qui uno squarcio, tradotto in italiano.   Questo Rituale adunque, o Diario tonitruale, e locale secondo la luna coni essi  lo chiamavano, fu tratto, per quanto ne dicono le tradizioni, parola per parola, da  Publio Nigidio Figlilo, dagli scritti sacri di Pagete ; Ed è riportato da Lidio nel suo libro dei prodigi al cap. xxvu, pag. 101, dell edizione fattane a Parigi,per cura di Carlo Benedetto Tinse.   Ecco in qual maniera si esprime il sullodato autore, al luogo citato, su tal proposito . Se egli è manifesto che gli antichi sapienti etruschi prendessero in ogni disciplina augurale per guida la luna, poiché secondo il corso di quella espongonsi  qui appreso anche i segni tonitruali, e fulgorarli, rettamente farà chiunque si sceglierà per duce in questa scienza le stazioni lunari, Laonde quinci dal cancro, e  quindi dal novilunio, istituiremo la diurna cognizione dei tuoni, secondo i mesi lunari. Dalla quale passavano i Tusci, o sacerdoti etruschi ad insegnare le osservazioni locali,  anche intorno ai luoghi percossi dal fulmine. E pare che il principale di tut fi i collegi di questi Tusci risiedesse a Fiesole, leggendosi in Silio Italico  Adfuit et sacris interpres fulminis alis,   Faesula    Incominciando poi il Diario, o Rituale fulgurano, e tonitruale etrusco, dal primo giorno lunare del mese di giugno, dice cosi. Se tuonerà nel'primo giorno della  luna di giugno , vi sarei abbondanza di biade, eccettuato l'orzo, ed i corpi umani saranno attaccati da perniciosi morbi ; E se tuonerà nèl secondo, le donne partoriranno piu facilmente, ma peri ranno le greggi, e vi sarà abbondanza di pesci. Tuon andò  poi nel terzo sara il caldo secchissimo per modo, che non solamente gli asciutti prodotti della terra, resteranno inariditi, ma si abbruceranno ancora gli umidi e i verdi.  Laddove se tuonerà nel quarto, l’aria sarà talmente coperta, di nubi, e sì piovosa,  che le biade periranno per la putrida umidità.  Se tuonerà nel quinto giorno, sarà dinfausto presagio alla campagna, e si turberanno tutti quelli, che presiedono ai villaggi, ed ai piccoli castelli, e borghi ; Se nel  RAGIONAMENTO Vili, E IX SULLA SCIENZA TONITRUJLE, E FVLGURARIA DEGL’ETRUSCHI   rpày.[x«Tcc re Fai $u<rto> oyìav è?s7rovv;'7av ( oi Svpfavot ) sm' Aererò» 9 stai ra 7repe t»jv xepavvosxomav sarà to*vt&>v  àv.S'peomav e^et^yacavro. Diod. Sic.   B^ovrat xaS' v7rvous ayyèXwv èics Xòyot, Astrampsycb. de Sonili. interp.  F_Ja superstizione, il più funesto di tutti i flagelli che affliggessero mai, in qualun¬  que regione, ed in qualunque età, Ì umana specie, facendola gemere sotto il giogo  più duro, e più pesante di quanti ne seppero immaginare, e fabbricare, la tirannide  più scaltra, e il despotismo più sospettoso, mescolando ognora profanamente, per meglio abbrutirla, ed opprimerla, il venerando nome di Dio, alle loro malvagità le più  enormi, fu sempre, e presso tutti i popoli della terra, il maraviglioso ordigno, e l’efficace strumento, onde si valsero gli astuti, ed i tristi, a danno dei semplici, e dei  buoni, ed i potenti, é gl’ippocriti, per dominare i deboli, e farsi giuoco dei creduli-   Questa Furia pertanto, esecranda, e crudele, la peggiore di quante ne racchiude  nel suo seno lInferno, che ha percorso sotto varie vestimenta, e con diverso aspetto,  tutta la superficie della terra, è quella che fece risuonare di strani ululati , e di querule grida le selve di Marsiglia, pei riti sanguinari di Teuta, le foreste di Norimberga, per quelli d'Irmensul le montagne della Scandinavia, per placare l ira di  Thor o la vendetta di Odino, e le pianure della Perside, onde rendersi propizio Arimane; ed è pure quella medesima, che tinse di umano sangue le rive di Aulide, e  della Tauride, fece scorrer vermigli itessalonìci torrenti, e quelli d Irlanda, accese gli orrendi roghi di Lisbona, e di Spagna, desolò le Americane contrade, e coperse in una sola notte la Francia intiera, di spavento e dì lutto. Questa Furia spaventevole che prende tutte le forme, e che le varia poi in mille  guise secondo i climi diversi, ed atteggiandosi ancora nel percorrere in ogni direzione la terra, secondo le differenti passioni, e la varia indole dei popoli, ebbe anche  presso gli antichi Etruschi, influenza grandissima, e prepotente dominio. Nè avrebbe, potuto accadere diversamente in una nazione, ove la casta sacerdotale, o i collegi dei Tusci, facevansi, come in Egitto, e nelle Indie Orientali, una privativa dell istruzione, e di tutte le cognizioni letterarie e scientifiche. Ora questa medesima Erinni,invadendo l’antica Etruria, e facendone in cèrto modo  suo nido, signoreggiò in singoiar guisa gli spiriti dei nostri antenati, prevalendosi  anche presso di loro, di tutti gli strumenti opportuni al suo scopo. Laonde s impa-  Etr. Mus . Chius. 11 ri  0  8o   o/o dal fulmine aneli essi, come facevano i loro maestri. Quindi allorché esso partiva  dall' Oriente, ed avendo toccato leggermente alcuno, ritornava da quella parte, era  questo il segno di una perfetta felicità . Non traevasì peraltro nessun augurio del fulmine, quandi esso altro non faceva che strepito. Quelli poi che sembravano promettere  lene , o male, erano presi per contrassegni della protezione, o della collera di Dio.  Laonde V erano fulmini di cattivo augurio, dei quali potevasi peraltro allontanare  il presagio, come dipendeva dalla volontà degli uomini il procurarsi quello dei fulmini di augurio favorevole , per mezzo di cerimonie religiose, e di offerte. Ve n erano poi altri, di cui non era dato ai mortali di rimovere la minaccia, per via di alcuna espiazione.   Brasi introdotto pure fra i romani, come insegnavasi in Etruria , che romoreg-  giando il tuono dalla parte destra, annunziava sempre qualche cosa di felice, e che  era di funesto presagio allorchéfacevasi sentire dalla parte sinistra. I luoghi colpiti  dal fulmine divenivano sacri anche pei Romani, come tali divenivano per gli Etnischi, e non era più permesso d!impiegarli ad usi profani. J i s inalzavano allora de¬  gli altari al dio Tonante, e gli Aruspici avevano cura di consacrarli col sagrifizio  di una pecora, dal cui nome venivano detti bidentali. Anche gli alberi fulminati dovevano essere purificati, ed una certa classe di sacerdoti delti strufertarii facevano in  tale occorrenza un sacrifizio colla pasta cotta sotto la cenere.   Se dobbiamo prestar fede a P ausonia gli abitanti della città di Seleucia adorano il fulmine, che eglino riguardavano come la loro divinità suprema. Cantavano inni  in suo onore, ed il culto di esso era accompagnato da singolarissime cerimonie.  Ma è da credersi che il fulmine altro non fosse , se non se il simbolo di Giove, che  adoravano quegli idolatri come essendo il padrone degli Dei. Nella Mitologia sono i ciclopi che fabbricano entro la fucina dell’Etna i fulmini al padre degli Dei, e servivansi per comporli, e temprarli delle seguenti materie. Mescolavano insieme i terribili lampi, lo strepito spaventevole, le striscianti  fiammé , lei collera di Giove s ed il terrore degli uomini.   Il fulmine però non era l’attributo esclusivo di Giove. Nell’opera di Ralle intitolata Ricerche sul culto di Bacco, stampata a Parigi, domo primo, si legge che Proserpina ingenerò Zagreo, cioè Bacco, colla testa ornata di corna, il quale da se solo, e senza veruno esterno aiuto, s inalzò al trono di suo padre,  e trattò il fulmine colle mani ancora infantili. E nella descrizione delle pietre incise  del gabinetto Stoscliiano parla Winkelmann di una corniola, rap  presentante Bacco con diversi attributi, ed un Satiro, ai piedi del quale vede si il ful¬  mine. Anche Luciano, e Nonno panopolita, come pure molti monumenti antichi anno il fulmine per attributo a Bacco. Tutte le grandi divinità del paganesimo hanno due caratteri distinti: Luna  generale, ed era quello del primo principio, dotato della forza, e della potenza universale, e l’altro particolare, che ciascuna di quelle divinità riceveva dalle funzio-  , 7sesto s ingenererà un insetto nocino nelle mature biade, e se nel settimo regneranno   dei morbi, senza però che ne molano molti, e le secche biade cresceranno, mentre s’inaridiranno le umide e verdi. Tuonarldo nel giorno ottavo sarà annunzio di grandi piogge, e della morte del  frumento, nel nono significherà che dovranno perire le greggi per l'incursione dei  lupi, e nel decimo che vi saranno frequenti morti, ma che tuttavia l'annata sarà fertile;Mentre se tuonerà nelVundecimo, annunzierà innocenti calori, e letizia alla repubblica, e se nel duodecimo accadeva lo stesso Quando tuona nel giorno decìmotèrzo, minaccia la rovina di un uomo prepotente,  nel decimoquarto, indica che l’aria sarà eccessivamente calda, e non dimeno sarà lieto il provento delle biade, con gran comodità di pesci fluviali, ma i corpi cadranno in  languore; E se poi tuonerà nel decimoquinto i volatili saranno affetti da incomodi  nell estate, e periranno le bestie natanti.   Se nel decimo sesto giorno tuonerà, non solamente minaccia diminuzione dell'annona, ma anche guerra, e verrà tolto dimezzo un uomo floridissimo; Se tuonerà nel  dectmo settimo, vi saranno calori grandissimi, e mortalità di topi, di talpe e di locuste i E non pertanto l’anno apporterà abbondanza e stragi al popolo romano. Tuonan¬  do nel decimottavo , minaccia calamità ai frutti, nel decimonono moriranno gli animali nocivi agli stessi frutti, e nel ventesimo minaccia dissezioni al popolo romano. Quando tuona nel ventunesimo giorno, indica penuria di vino, buon provento delie altre raccolte, e gran copia di pesci, nel ventesimosecondo presagisce un calore  dannoso, e nel ventesimoterzo dichiara letizia, allontanamento di mali, e fine di  morti. E così nel ventesimoquarto annunzia abbondanza di tutte le cose, e nel ventesimo quinto significa che vi saranno guerre, e mali innumerevoli.   Finalmente se tuonerà nel giorno vigesimo sesto, il freddo nuocerà alle biade, nel  vigesimo settimo, i primati della repubblica avranno da temere di andare incontro a  perigli per parte dei soldati, nel vigesimottavo, sarcivvi libertà di biade, mentre  tuonando nel vigesimonono, le cose della città si troveranno in migliore stalo, e nel  trentesimo, vi saranno per breve spazio di tempo spesse morti. E così di tulli gli altri  mesi. Allafine poi dell’ultimo mese, a pag. i 55 viene osservato, che Nigidio oiu-  dico che questo Diario tonitruale, non fosse generale, ma per la sola città di Roma.  Nè ciò parra fuori di proposito , a chiunque facciasi a riflettere che i sacerdoti etru¬  schi, erano solili vendere a caro prezzo la loro scienza , a tutti quelli che ambivano  di farne acquisto, e singolarmente ai Romani, che ebbero cominciamento da u na  ciurma di banditi d Etruria, e ne divennero poi gli emuli, quindi i nemici, e finalmente i padroni, ed oppressori.   Impararono però ben presto anche i Romani a fare la distinzione fra i fulmini lanciati il giorno, e quelli che lo erano nella notte-, E credevano che partissero i primi  dalla mano di Giove, ed i secondi da quella di Summanno, la qual dottrina è tutta  etnisca. Dopo questa distinzione, non tardarono molto a trarre ogni sorta di presa-  m   p. e. gl' Iotorti, i quali sono quelli che tracciano cadendo una linea tortuosa, nei  quali sono prima di tutto da ammirarsi,al dire di essi, la loro natura, e la difficol¬  tà di contemplarli ; Ed aggiungevasi dai medesimi libri, che non lutti producono i  medesimi effetti, neppure quelli che vengono formati, secondo loro, dall' aria, e dal  concorso delle nubi. E vi si trovano più altre osservazioni di questa, e di altra spe¬  cie, che sono pure riferite da Lidio a pag. 171, cap. 44 •   Afferma anche Arduino che i Tusci attribuivano a noveDei la facoltà di scagliare i fulmini, e che ne distinguevano undici specie diverse j E per viepiù persuadersi  che eglino riguardavano come cosa di grande importanza la scienza dei fulmini, leg¬  gasi anche Seneca, lib. 2.° cap. 32 , 33 , e seguenti, delle questioni naturali, ov’ egli  descrive prolissamente tutta la lor dottrina, e tutta la loro scienza sui fulmini, ed anche intorno alla divinazione per mezzo dei medesimi-. Lo che tocca pure CICERONE (si veda) nel  libro primo della divinazione. Censormo poi al capitolo xi, pag. 69 , De die natali,  loda esso pure i libri rituali degli Etruschi. I medesimi Etruschi avevano eziandio alcune singolari opinioni per impedire che  i fulmini cadessero in certi luoghi, piuttosto che in altri. E cosi, leggiamo nei Geoponìci, o scrittori delle cose rustiche, che sotterrando in un campo  la pelle di un ippopotamo, ivi non cadrà il fulmine-, E nel lib. 8.°, cap. xi, è soggiun¬  to , con una sentenza di Zoroastro « affinchè nè i tuoni nè i fulmini facciano svanire  i vini » dopo di che si prosegue cosi, Il ferro sovrapposto ai coperchi dei dogli , e  delle botti, allontana qualunque danno possano cagionare ai vini i fulmini, e i tuoni.  Osservazione la quale fa un poco ai calci colla buona fìsica, ma ciò non monta. Co¬  si la spacciavano i Tusci ! Certuni poi vi sovrapponevano alcuni rami di alloro , i  quali dicevano essere giovevoli in ciò, per contrarietà di natura, e qui avevano ragione. Nei suddetti libri sacri, e rituali dei Tusci, incontratisi ancora altri nomi da ti  ai fulmini, oltre quelli già riferiti in questo ragionamento. Imperocché altri ne chia¬  marono Fumidi, altri Candidi, altri Irruenti, ed altri Presteri,' E ciò dicevano essi  di aver istituito, perchè producono diversi effetti. Quindi soggiungevano che gli  Ardenti sono quelli che si dicono Presteri, e quelli senza fuoco son chiamati Tifoni,  laddove i più languidi son detti Enifie. Diconsi poi Egide quelli che noi diremmo  Prefratti, o rotti prima, i quali sono portati da un igneo globo • Donde avviene che  V etnisca tradizione, mette le Egide intorno a Giove, quasi insinuando che l’aria è  la causa cosi della procella, come del fulmine, e della concussione del tuono. Quando il fulmine romoreggiava fra il giorno, e la notte, solevano chiamarlo I ROMANI fulmen prevorsum, e dietro gl’insegnamenti degli Etruschi attribuivanlo a Giove, ed a Summanno. Gli Scandinavi, ed i Celti, abitanti delle parli settentrionali d’Europa, credevano che i rimbombi dei tuoni fossero cagionati dai colpi di clava, coi  È cosa degna di osservazione il vedere che  gli Scandinavi, ed altri popoli del Setten¬  trione facessero essi pure uno studio particolare sui fulmini , sui baleni, e sui tuoni,  e che avessero formato di ciò una scienza come gl’antichi Etruschi, giacche rAnnuani, alle quali l'aveva ridotta il sistema del politeismo. Elleno ha per attributo  il fulmine, sotto il primo rapporto, ed è ciò che si ritrova presso tutte le nazioni an¬  tiche. I libri degli Etruschi contenevano secondo PLINIO (si veda), nove divinità che lanciavano i fulmini -,fEd attribuivano a Marte quelli che producevano degl' incendii. Eravi a Milon in Egitto, un tempio dedicato a Nettuno fulminante, per testimonianza di Ateneo, lib. 8.° E Sidonio Apollinare chiama lo stesso Nettuno Giove  Tridentifero, in questi versi,   Sacra Tridentiferi lovis hic armenta profundo  Pharnacis immergi! Genitor. Mentre Stazio nel primo libro dell'Achilleide, lo chiama ii secondo Giove. Apollo vienne spesso rappresentato, secondo Golzio, colle ale ed il fulmine j.  E si vede su molte medaglie romane colla testa coronata di lauro, ed il fulmine in  mano. Sofocle nell’Edipo Tiranno,  J, e PLINIO (si veda), lib. x, cap. 2. 0 , parlano pure di  Marte fulminante, come si vede su diversi monumenti antichi.   Vulcano lanciava aneli’esso il fulmine, secondo Virgilio, e Nonno nelle Dionisiache, ed alcune medaglie dell isola di Samo, lo rappresentano cosi. Vedesi poi il  Dio Pane col fulmine, su due piccole figure romane in bronzo, e ne parla Ateneo  nell ’undecitno libro dei Dipnosofisti.  Cibele si vede spesso rappresentata col fulmine, e lo portavano pure Minerva, e  Giunone. E quest’ultima era collocata a Cartagine sopra un lione, tenendo il fulmine sulla destra, e lo scettro sulla sinistra-, Mentre della prima dice Virgilio:   Ipsa lovis rapidum jaculata e nubibiis ignem.   Finalmente lanciava il fulmine lo stesso Amore, E questo Amore Kspmvofofos, cioè  laudante il fulmine, è scolpito sullo scudo di Alcibiade, secondo l’Epigramma dell’Antologia greca. Molti poi sono i generi degli stessi fulmini. Insegnavano i Tusci, e lo riferisce  anche Plinio, che quelli i quali vengono asciutti, non ardono, ma disperdono, e che  gli umili non bruciano mainfoscano.Quindi ne annoveravano un terzo genere,chiamato chiaro', i quali sono di una natura veramente mirabile, imperocché asciugano , p.  e. le botti, piene di vino o di altro liquido, lasciandole intatte , e non iscorgendovisi  alcun vestigio per ove le abbiano vuotate . Di più, l’oro, l'argento, ed il bronzo, vengono da tali fulmini liquefatti entro gli scrigni o nei sacchetti, ove suino riposti,  senza arderli in verun modo, e neppure abbronzargli, ed anche senza guastare il sigillo di cera col quale siano stati chiusi. Si racconta che Marcia principessa romana fu colpita da uno di questi fulmini, essendo gravida, il quale uccise il feto che  ella portava, ed essa poi sopravvisse senza verun altro incommodo; E narrasi ancora nel prodigi Catilinarii del Municipio Pompeiano,che Marco Erennio Decurione fu  percosso da un fulmine in giorno perfettamente sereno.   Oltre questi generi di fulmini, ì libri dei Tusci ne contenevano ancora altri, come,  Etr. Mai. Chius. trar nel cielo: opinioni uscite tutte quante dalle dipinture allegoriche delle antiche  rivoluzioni del nostro globo. I Brasiliani, ad ogni scoppio di tuono, riguardano tremando il cielo, e sospirando ; E credono che sia il loro Agnian, o lo spirito maligno, che minacci di percuoterli. Almeno cosi ci assicura il viaggìator Cereal. In Circassia, i piartele tuona, escono  gli abitanti dai villaggi, e dalla città, e tutta la gioventù si mette, al dire di Tavernier nei suoi viaggi, a ballare, e cantare in presenza dei vecchi.   Le quali danze, e le quali cantilene, se non furono funebri, o guerriere nel loro  principio, bisogna dire che la gioia di quei popoli sia fondata sull' idea che il tuono  sia di un felice presagio. Idea conforme ancor questa a quella dei Persi, e di un gran  numero di popoli antichi, ì quali credevano che il fulmine rendesse sacro tuttocio che  toccava-, E ciò perchè presso i Magi era il fuoco temblèma della Divinità, conforme  si può vedere eruditamente provato dal Signor La [fide, nell opera da lui composta sulla religione dei Persiani, cap. primo. Presso i sunnominati Circassi, un uomo ucciso dal fulmine è giudicato avere ricevuto da Dio un gran favore : E se il fulmine stesso è semplicemente caduto sulla  sua casa, egli e tutta la sua famiglia sono nutriti per un anno a spese del pubblico. È opinione degli antichi idolatri, che Giove punisse, non già con volgari ga-  stighi, ma bensì fulminandoli, tutti gli spergiuri. E però si legge in Aristofane, nh.  w Si i z* tw-wtmSt ~ h cioè « Imperocché Giove scaglia questo fulmine vera¬  mente mirabile, contro gli spergiuri . Ad onta però di queste popolari credenze, non  mancavano tuttavìa di quelli, che le schernivano, e se ne ridevano di tutti i volgari ti¬  mori . Difatti Luciano, nel Timone, riprendendo timprudenza di alcuni uomini, che  spergiuravano in dispregio dei Numi, subindicò il timore del fulmine dìcen o che que  sta specie di mortali , temono più una lucerna spenta , che la caduta di uri fulmine , e   di esserne colpiti. s™» w » «cuy»:. ™ ™ 5 T0=  «fawoo vale a dire: pertanto alcuni di quelli che spergiurano, temerebbe   piuttosto una lucerna spenta, che Infiamma di quel fulmine domatore di tutte le cose.   I Romani , che al dire di Cicerone, presero auspicia et sacra ab Ltruscis, e secondo Valerio Massimo derivarono tutti i semi della religione dall Etruria, e noi aggiungeremo francamente, anche ogni demento di civiltà , fecero passare un gran  numero di etruschi Numi a Roma . Quindi provano con buone ragioni, ed autorità .  il Dempstero, ed il Gori, che erano presso che infinite le divinità adorate dai nostri  maggiori, e che la più gran parte presero domicilio in Roma. Laonde chiameremo  temerarie, e stolte le critiche mosse da alcuni Archeologi più moderni, contro quei te alla prima percossa che hanno dal fulmime, non dispiacerà ai nasini lettori il vedere mescle nessuno animale è arso, o acceso dal te qui a confronto le supersituom tomtrual,   r7P f u l vararle desìi Scandinavi, ed altri setten-   fulmine, se non e morto, e simili. ejiu 0 uiun 5   t j ] , . t j’ /-.p trionali con Quelle desìi cinlichi Etruschi sui' Lasciando ora da parte quanto siano tali os• inori un / &   servazioni consentanee alla buona fìsica , 1 ° stesso proposito»  quali il loro Dio Thor percuoteva ì Giganti. Il qual linguaggio è lo stesso che quel¬  lo dei moderni Persiani, i quali credono che le stelle cadenti siano colpi di fulmini,  che gli Angioli scagliano nelle altre regioni, contro i Demoni, che si forzano di rieririo tonitruale di quelli , ha molta somiglian za col Diario fulgorale, e tonitruale di questi. Si legge infatti in Olao Magno, lib. i, cap.  3i della sua storia delle genti, e della natura  delle cose settentriouali , cne i tuoni di gennaio  significano che i venti soffieranno con mag gior gagliardia del solito, e che sorgeranno le biade più dritte , e grandi. Quelli di  febbraio annunziano una grande mortalità  e singolarmente di quelli che vivono nella  delizia. E quelli di Marzo indicano gagliardi venti , e che vi dev’essere gran fertilità  in quell anno , e straordinario strepito nei  giudizii .  Indicano i tuoni di aprile che cadrà una pioggia conveniente elle biade 9 e che la campagna sara abbondante in tutto il corso del¬  l'anno, mentre quelli di maggio significano  tutto il contrario, cioè, penuria di biade,  ed una formidabile carestia di tutte le cose. Presagiscono poi quelli di giugno una  piu abbondante fertilità, benché predi cono  al tempo stesso infermità spaventevoli.   1 tuoni di luglio annunziano abbondanza di  frumenti , ma distruzione di legumi 9 e di  frutti . Predicono quelli di agosto che gli  uomini converseranno pacificamente fra toro 9 ma vi saranno malattie pericolose 9 E  quelli di settembre denotano fertilità in quelIalino, nel quale però sovrastano guerra,  sedizioni, e morti . 1 tuoni di ottobre sono qualificati coll’epiteto  di portentosi, perche indicano grandi tem  peste in mare, ed in terra ; quelli di novembre, benché raramente tuona in tal mese,  promettono fertilità nell'anno seguente. E  quelli finalmente di dicembre significano abbondanza di tutte le cose , ed una gioconda conversazione degli uomini fra loro. Altre osservazioni dei settentrionali sui fulmini , sui lampi, e sui tuoni portano quanto  segue. Quando nell’estate per esempio, tuona  più che non lampeggia, significa dover soffiar venti da quella parte, e per lo contrario se balena più che non tuona, deve cader  molta pioggia. Quando lampeggia essendo il cielo sereno,  vuol dire che vi saranno pioggie , e tuoni 9  e farà un tempo da inverno E tali cose poi saranno gravissime, ed atrocissime  quando questi lampi , e questi tuoni verranno  da tutte le parti del cielo. Ma se balenerà  soltanto dalla parte ciV Aquilone indicherà  pioggia nel giorno seguente j E se i lampi  verranno dal punto preciso del Settentrione 9 soffieranno venti. Lampeggiando dalla,  parte di Austro , di Coro 9 o f avonio , essendo serena la notte , significherà che devono venir pioggie, e venti da quelle medesime parti.   Dicevano ancora i settentrionali, che i tuoni che  scoppiano la mattina di buonora annunziano venti e quelli che si sentono nel mezzogiorno  predicono una grossa pioggia . Aggiungevano poi essere imjjortantissimo il sapere da  qua! parte vengono i fulmini , e dove si  dirigono. Imperocché sono crudelissimi quelli che partendosi dal settentrione vanno verso l Occaso , e sono di ottima natura quando ritornano finalmente a quelle parti dalle  quali sono venuti, perche quando vengono  da quella parte del cielo d’ond’ebbero origine, e poi ritornano alla medesima, presagiscono allora una somma felicità da quella parte di mondo 9 rimanendo però infelici  tutte le altre. E finalmente altre curiose osservazioni aggiungevano intorno a quest’articolo , come, che la  notte piu che il giorno lampeggia senza tuoni , che la natura ha dato il privilegio al-  l’ uomo di essere rare volle ucciso dal fulmine, e che se questo accade talvolta , è assai più conveniente, e pietoso ufficio il sotterrare quel morto , che il bruciarlo. Che te  ferite dei fulmini sono più fredde che tutte  le altre, che le bestie moiono istantaneamen-   parla CICERONE (si veda) nel primo della divinazione, nè fa diuopo osservare il diverso inalzarsi della fiamma, o lo scrosciar della medesima, nè lo scoppiettar dell incenso, delle  quali cose scrisse, secondo Stazio, un tal Tiresia, famosissimo augure etrusco. J\è  occorre tampoco far menzione, per esaltare Tetnisca sapienza, di ciò che osserva fra  gli altri Seneca, Uh. n, cap. 4 1 delle quistioni naturali, circa l avere i medesimi  fatta anche la distinzione tra i fulmini prodotti nelle nubi, é nell'aria, d onde scendevano in terra, e quelli che prodotti nella terra slanciavansi in alto, e verso le nubi  medesime, giacché queste, e molte altre simili cose trovansi narrate, e raccolte da  vari autori.   Ma non sono però da passarsi sotto silenzio alcune memorie di PLINIO, ove narra distesamente in due capitoli, le opinioni degli Etruschi, appoggiate ad una ragionevole fiolosofia, circa lessenza, o la natura, e circa le diverse  specie di fulmini da essi distinte. Conferma ivi quel sapientissimo scrittore ciò che  abbiamo qui sopra accennato, che vengono cioè i fulmini, tanto dalle nubi, quanto  dalla terra, ed assicura aneli esso, che trovavansi negli scritti etruschi, nove, o più  probabilmente undici specie di fulmini, delle quali ì Romani loro figli, e discepoli,  non ne avevano osservate, e mantenute che due. Il che viene a confermare sempre piu  il detto di Cicerone, che quei superbi conquistatori, ed oppressori del mondo, ebbero  dagli Etruschi non solamente lorigine, ed i riti religiosi, tutti quanti ne usarono  mai, ma eziandio la civiltà. Egli osserva pertanto particolarmente, la diversa natura, e diversi singolarissimi  effetti dei fulmini, che dal cielo provengono, e di quelli che dalla terra sono prodotti-,  ed avverte ad un tempo, che queste osservazioni furono trasportate, e trascritte negli  annali romani, aggiungendo inoltre che vi erano pure le maniere ed i riti per chiamare i fulmini, ed impetrarli dal cielo, come fece forse Porsernia, che con un fulmine  così ottenuto, ed accompagnato da un mostro chiamato Volta, devastò, come dicono,  le campagne dei Volsinii. Ei dice di più, che in questa scienza era dottissimo Numa Pompilio, e che avendolo poco bene imitato Tulio Ostilio , fu arso da un fulmine-, E che per questo fra i diversi nomi che per l'etnisca disciplina furono dati a Giove, di Statore, di Tonante , Feretrio, e simili, s'incontra pure quello di Elido, o  Evocatore. E finalmente che si prevedono in tal guisa le cose future, benché sia temerità il credere, che si possa comandare alla natura, o sforzarla . Il medesimo autore osserva poi, come il baleno sia piu veloce del fulmine ,  e del tuono , e come perciò il fulmine stesso debbasi prima vedere, che udire. Circa le qiiali osservazioni di Plinio intorno alla scienza tonitruale, e fuigurari a degl’Etruschi, vi sarebbero da fare molte fisiche riflessioni, se l indole dell opera  per la quale sono scritti questi ragionamenti, lo comportasse.   E sul proposito di questa scienza etrusca, nella quale dice il sullodato Plinio  essere stato peritissimo il re ISuma, ascoltisi anche Ino Livio, lib.t, il quale lo  chiama non solamente dotto nelle arti peregrine, ma eziandio nella tetrica , e trista  due dottissimi scrittori; Colle quali critiche pretendono di negare, che per esempio , un tal Nume, non abbia potuto aver culto in Etruria, perchè si cede adorato net  Lazio, ed m Roma ,; Avvegnaché dovrebbe piuttosto aver luogo la congettura contraria, come saviamente rifletteva il sapientissimo Guarnacci. Imperocché, dovrebbe dedursi che se una tale divinità si vede adorata in Roma  e nel Lazio, è ben ragionevole il credere, che abbia prima avuto culto in Etruria-  quando si voglia riflettere, che una colonia etrusca erano i Latini, e che lo stesso  fondatore dell Eterna Città, coi suoi primi abitanti, non furono altro come anche  altrove accennammo, che una banda di fuorusciti Etruschi.  c he se poi igrecomani, sottilizzando, ed ostinandosi ognora più a volere irrefragabili prove, e quasi ancora la fede di battesimo, come diceva il prelodato Guarnac-  ci, che un tale idolo, od un tal monumento qualunque, sia veramente etrusco, e non  greco, nè romano ; Oltre che si può risponder loro che queste prove intrinseche , non  le hanno d’ordinario neppure le cose veramente greche, e romane, e che l'anti¬  quaria iti genere si aggira sulle asserzioni degli antichi autori, i quali ci hanno lasciato scritto, dove i vani Numi, e i diversi riti abbiano avuto l’originario loro culto,  Si può ad essi aggiungere ancora che ve una probabilità, la quale confina colla certezza, che dove un si gran numero d’idoli, di vasi ed altri monumenti di ogni maniera, sono stati trovati, siano stati pur lavorati. Ed essendo imedesimi stati dissotter¬  rati negli scavi etruschi, ed indicando una grandissima antichità, e mollo superiore  alla civiltà greca, e romana , è irragionevole , ed assurdo il credere, che i soli Greci , e romani li abbiano dappertutto disseminati.   Ed anche a ciò che dice il chiarissimo signor Vermigliali, il qlude pretende  (. E roga ime di Admeto e di Alceste) che i monumenti italici più sono antichi, e più  grecizzino, ed al contrario latineggino maggiormente, quanto più si avvicinano  all epoca del dominio romano in Etruria, come pure che gl’itali antichi spesso aspicassero, si può rispondere cosa che sarà di scandalo agli Archeologi pedanti i  quali non sanno, o non vogliono trarsi fuori della traccia segnata dai loro predecessori abbiano essi fatto bene o male. Ed è questa : ,o,m , ere l e osservazioni  del sullodato filologo perugino, perchè la lingua greca è figlia della vetustissima  etnisca in quanto alle sue radicali, benché ne differisca grandemente nelle inflesStoni, édi Greci sono scolari degli antichi Etruschi, ossiano Pelasghi Tirreni, indigeni d Italia, i quali andarono in remotissima età a colonizzare , e popolare la Tracia eia Grecia, come m altro ragionamento accennammo . In quanto poi alle aspirazioni degl Itali antichi, procedono queste dall’orientalismo, che ridonda in ogni dove  in Italia, e che vi fu introdotto in tempi da noi oltremodo lontani da una colonia  orientale, coi primi elementi della civiltà, come pure asserimmo nel quarto di ave  Sti ragionamenti medesimi. Ma torniamo ai fulmini ed ai tuoni. Non occorre citar qui i libri fatali degl’etruschi , ricordati da Livio, hi. V, nè i fulgorali, e gli aruspici, dei quali   j3 Etr. Mus . Chius. Tom. J,   Chi mai oserebbe di qualificare l’avvenimento qui espresso, non vedendovisi  che due militari pronti alle difese e alle offese, senza ravvisarvi ne 1 inimico, ne oggetto veruno che sia motivo di questa loro disposizione al combattimento? Ma siccome  questa pittura è nel mezzo d’una tazza, intorno alla quale sono altre figure giallastre,  come questa, in fondo nero, così tenteremo di trarre da quellequalche argomento  a cognizione di questa. Un corpo esanime steso al suolo, presso cui stanno alcuni combattenti che ne  scacciano altri in costume diverso, mi richiama alla mente l’avvenimento del corpo di  Patroclo, contrastato fra i Greci e i Troiani,e finalmente ottenuto da quelli coll’espulsione di questi. Non vi sono caratteristiche assolutamente variate tra combattenti  e combattenti, a dichiarar Greci gli uni, e Troiani gli altri,ma pure la totale nudità dei  primi li fa credere eroi,che la Grecia rappresentar suole in tal guisa 2 ;mentre gli altri tre  hanno in testa un berretto: uso asiatico e particolarmente dei Frigi 3 .Hanno essi pure  nella clamide che indossano un segno d'abbigliamento, che raramente onon mai trascurasi nelle figure asiatiche, per quanto io abbia nei monumenti antichi osservato.  L'uomo steso al suolo qual corpo morto, è altresì nudo del tutto, e inconseguenza  spettante ai Greci, cqme difatti era Patroclo il caro amico di Achille, che fu ucciso in  guerra da Ettore, secondo Omero l . Probabilmente anche i due guerrieri dipinti nel  mezzo della patera, e che vedemmo nella tavola antecedente,son due Greci alla custodia e difesa del corpo di Patroclo, ch'è dipinto nel fregio della tazza medesima. Infatti  essi vedonsi ARMATI, MA NUDI, giusta il costume greco eroico, siccome dicemmo. Qui le  figure son ridotte un terzo più piccole di quelle che vedonsi nella tazza originale, ove  sono di color giallastro in fondo nero.  Qualora mi si conceda esser probabile la interpetrazione dell’antecedente rappresentanza della morte di PATROCLO, e del contrasto tra i Greci e i Troiani, per ottenerne  il cadavere, non mi sarà negata fiducia nella supposizione eh'io son per proporre,  che in questa pittura, la qual fa seguito all’antecedente, vi siano espressi gli o-  nori funebri che furon resi dall’amico Achille a quell’estinto eroe, e particolari Galleria oraer. Iliade, Voi. 11 , Tavole cxcix , 3 loghirami, MoDum. etr. ser. 11 , p. 45°-   cc, cci, ccn.  -   a Plot., Vii. Alexand.  I?  disciplina de vecchi Sabini ( che erano Etruschi ), di che non vi è stata mai veruna  cosa piu incorrotta, e veneranda. E dicendo che lo stesso Numa era dotto anche nei  liti peregrini, si deve intender qui di quelli di Samotracia, che erano i idrici , e tri-  sti dei Pelasghi, Tirreni, Etruschi ancor essi, come altrove dicemmo , e lo abbiamo  ripetuto pocanzi; E che i Romani riguardavano come peregrini, perchè tali erano  divenuti per loro, essendo in tempi da essi lontani, passati dagli Etruschi ai  Samotraci . La scienza dei quali riti possedè Porsenna, e molto prima di lui anche Dardano,  il quale portossi in Samotracia pel solo oggetto di conferire con quei sacerdoti, e per  introdurre poi in Troia una religione del tutto ponforme a quella dei suoi antenati, che era l Etnisca. E si noti, che il medesimo Livio, e tutti gli antichi scrittori  ci fanno sapere che il più volte nominalo Numa Pompilio fu religiosissimo, e propagatore in Roma di ogni pia istituzione ; Ove non altro ei propagò certamente, che  riti etruschi. Ed ecco una erudita chiacchierata sulla scienza tonitruale, e fulguraria degli  Etruschi. La quale potrebbesi ancora condurre più a lungo, ed arricchire di più altre peregrine notizie su questa recondita disciplina, se non fosse il già detto più che  abbastanza pel nostro scopo. Ma come e quando mai, e per quale sovrumana potenza , andarono a mancare queste, e tante altre superstizioni, stabilite , ed inveterate  nel mondo, radicatissime nei cuori degli uomini, e venerate, e temute in tutte le regioni della terra aliar conosciute? In qual modo cessarono i terrori e la paura, onde  avevano saputo gli antichi sacerdoti, di concerto sempre cui Despoti, invadere gli  spiriti dei mortali, tenuti ognora da essi, a bello studio nella cecità, nel timore e nella più profonda ignoranza con mille misteriose ambagi, e con mille disperate minac¬  ce? Scomparvero tutte queste tenebre, e caddero tutti questi arcani e portentosi ordigni, al comparire della luce Evangelica. Al comparire di quella legge, t unica fra  quante ne vide l'universo, che introducesse la vera libertà, e la vera eguaglianza  fra gli uomini. Al comparire di quella legge in somma, che mette, davanti a Dio,  a livello del più temuto tiranno, e del più potente monarca, anche il più infimo  del popolo. In urna di marmo  LI. : flnoai ; qflj  J3 : M : 43    un. fm \iflj : miai : janavi : armo    LIV.  : iaruv/Hflm ; f\nn o   Nell’orlo d’un vaso cinerario di terra cotta  LV,  mtvfl Jtiat v/rji  9° È questo idoletto in piccolo, quello che dissi esser l'altro, rappresentato più  in grande, e con alquanta varietà nelle Tavole XLIX, e LXVII di questa raccolta, essendo il presente di grandezza simile al suo originale. Ma la di lui piccolezza, e 1 non esser vuoto, non permette che si riconosca per un cinerario, sicché fu tenuto soltanto pel nume che riceve, abbraccia e protegge gli estinti, che  nati dalla materia terrestre tornano dopo la morte in seno alla terra, o per meglio  dire alla natura mondiale, della quale Bacco era il nume tutelare. E poiché mi  si dice che piu d uno di tali idoletti si trovarono in uno stesso sepolcro, da ciò  argomento che speciale fu nel sepolto la venerazione pel nume da questa immagine rappresentato. Si vede un fregio in bassorilievo che ricorre in giro in un vaso dei consueti chiusini di terra nera, e non v’è differenza in misura tra l’originale e la copia. Il significato mi sembra lo stesso dei precedenti lavori di simil genere. Vedo ancor qui come altrove la Chimera, e credo che l’oggetto sostenuto in mano dagli uomini sia, come nei calendari egiziani, lo Scorpione sidereo. Aoterò di passaggio a tal proposito che il famoso torso egiziano in basalto, che un tempo fu del card. Borgia, pubblicato dal eh. Lenoir alla Tavola  VI del forno [, num. g si vede come qui una figura con Io Scorpione tenuto per la coda, e dietro a se v’è parimente il leone con la coda che termina in  un serpe, e con la Capra sul dorso, nè spiegasi differentemente che pei segni  delle celesti costellazioni. Si vuol peraltro che nella Capra sopra del Leone  si ravvisi il trionfo del Capricorno sopra il Leone, e probabilmente i due serpen¬  ti che nel nostro bassorilievo si manifestano, saranno quei che dominano il cie¬  lo nel tempo dell'indicato trionfo. A tal proposito, gli astronomi osservano, che  mentre il Capricorno comparisce al nostro Zenith, la Vergine si mostra sotto il  segno dello Scorpione , o del domicilio di Marte 3 : e difatti sì nel monumento  chiusino, che nell'egiziano comparisce una figura che ha in mano uno scorpione, se non che nell'egiziano si mostra femminile quella figura, che qui per la sua  nudità, par eh esser debba maschile, ma ciò non si manifesta con sufficiente chiarezza. Che i cavalli abbian luogo in simile rappresentanza relativamente ai Cavalli siderei, già me n espressi altrove abbastanza,, ove mostrai principalmente essere il cavallo sidereo un paranatellone del levare eliaco dello Scorpione J .Lettere di etnisca erudizione. 1 Lenoir, Nouvelle explic. des hieroglyphes  a ivi. Tom.i, p. io4-  %   mente il giuoco del pugilato col cesto, che Omero 1 * pone il secondo tra gli spettacoli  dati in onore di Patroclo nel di lui funerale. Nei vasi, che negli annali dell’istituto di  corrispondenza archeologica si dicono panatenaici, vedonsi a lato dei combattenti,  col cesto come qui, degli uomini coperti d'un manto con braccio scoperto, e dall'in-  terpetre attamente chiamati rabdofori 3 , i quali assistendo a quel giuoco hanno  in mano una verga biforcata, similissima a questa dei presenti i . Le due ultime  nude figure una soccombente all’altra prevalente, ancorché senza cesti alle mani, mostrano che i pittori aggiungevan talvolta delle figure e dei gruppi a capriccio, ad  oggetto d'empir lo spazio che doveasi dipingere. Se però consultiamo i più moderni sentimenti degli archeologi, troveremo-ammessa pure l’ipotesi, che una figura umana stesa per terra presso alcuni combattenti, ascrivere si debba, unicamente ad alcuno dei contrasti gimnici, senza ricorrere al particolare avvenimento di Patroclo per isvilupparne il significato. Un sacerdote di BACCO ed una Menade con dei vasi libatori formano il soggetto di questa pittura, e son frequentissimi quanto altri mai nei vasi fittili dipinti , onde potremo giustamente ripetere col Lanzi che di cento vasi tornati a  luce, novanta contengono soggetti bacchici. È singolare il tirso eh’ entrambe le  figure sostengono, mentre ha un'armilla che nei tirsi non è comune, ma nemmeno del tutto insolita, senza che per altro s’intenda qual n'era l'oggetto.  Nell’oscurità di questo soggetto non altro saprei ravvisarvi che il celebre gre¬  co Capaneo estinto sotto le mura di Tebe. Altrove pure narrai come questi van-  tavasi che avrebbe presa Tebe, volesse Giove o non volesse, ma provocati gli Dei  con tali bestemmie, ne accadde che mentre il primo dava la scalata, Giove non  lasciò compier l’impresa, e con un fulmine Io precipitò dalla scala e lo uccise 6 .  Or io noto che qui si vede una scala squarciata dal fulmine, un uomo rovescia¬  to che dall’alto cade a terra, e dietro a lui le mura forse di Tebe, dove stanno  alla guardia militari tebani. Le altre figure si possono intendere pel restante del¬  l’esercito, eh’è spaventato, e stramazzato a terra per lo spavento del fulmine.  L'urna in marmo è cinque volte maggiore di questo disegno.  i Iliad. a Galleria omerica Iliade Tom. u, p. 18*.   3 Voi. n, p. 218.   4 Ivi, lav. xxi, io, 6. xxu, 8. 6.    5 Gerhard, Annali dell’istituto di corrispondenza  ardi. Monumenti etr. ser. i, Tav. , e altrove, mentre altri sono come il presente eseguiti in forma di vasi  con capricciosi ornamenti, rivestiti per lo piu da fogliami, e con iscrizioni latine,  come pur qui si legge, indicando il nome di Lucio Aulo Carino. Io stesso nella mia dimora in Chiusi vidi molti monumenti e rottami di essi, di stile greco  e romano e bellissimi.    Nell’interno d’ una tazza di terra verniciata in nero, si vedono queste due  figure di color giallastro; e sono, per quanto mi sembra, d'uno .stile perfettamente simile a gran parte di quelle pitture monocromate dei vasi italo-greci.  Vi si rappresenta un suonatore con cetra e plettro , in atto di attendere dalla  Vittoria il premio del suo valore, e credo che ciò alluda ai pregi morali dell’ani-  ma, che negli estinti son premiati nella vita futura; e perciò soggetti simili ed  analoghi a questo si trovano frequentemente dipinti nei monumenti che pone-  vansi nei sepolcri, ma ora corrono altre opinioni.    Se aver vogliamo un esatto conto d’ogni figura eh’è in quest’ urna di mar¬  ino, il cui disegno qui è un ottava parte del suo originale, non saprei se potessimo riescirvi con plausibile disimpegno. Ma se consideriamo che gli artisti obbligati a trattare nelle opere loro un qualche mitologico soggetto, eran poi costret¬  ti ad ornarne tutto lo spazio del marmo che formava il primario lato dell’urna  sepolcrale, ancorché il soggetto da loro scelto non richiedesse tante figure, quante  ne occorrevano ad ornare lo spazio determinato, noi troveremo irreprensibile lo  artista che abbonda in figure, ancorché non richieste dal soggetto che tratta, co¬  me ne somministra un esempio assai chiaro il bassorilievo di questa Tavola. Io  vi ravviso Ulisse in atto di adoprare il suo arco, il qual potea dalle sole sue mani esser teso, ed uccide i proci di sua moglie Penelope, i quali dilapidavano le di  lui sostanze. Egli ha un berretto appuntato, eh’ è la consueta causia che lo distingue come famoso viaggiatore del mare ’. Sta con un ginocchio sull’ara, mostrandosi protetto dai numi 3 nella difficile impresa d’esterminare egli solo coll'aiu¬  to del figlio Telemaco i tanti suoi nemici. La colonnetta sulla quale solevansi  tener degli idoli domestici, mostra ch’egli è già penetrato nell'interno della sua  casa, mentre le colonne doriche vedute nella parte opposta danno indizio che lo  avvenimento accade nella sua reggia. La forza ch’egli mostra di fare col braccio  destro per tendere un arco, fa ben ravvisare ch’ei solo poteva piegarlo a forza. i Inghirami, Monum. etr. ser. 1Ì1, p. 19.    % Ved. p. 6i, e sq. e Monum. etr.   Qui si mostra nuovamente un ago, o spillo crinale in oro di un lavoro de¬  licatissimo, considerando che nel suo capo segnato num. 1, della misura stessa  di questo disegno, vi è il lavoro che portato in grande, si vede al min. 2 , il  cui ornato è di semplice bizzarrìa. Il monumento di numero 3 si rende assai  singolare, per essere una di quelle solite fermezze che in luogo d esser di bron¬  zo, come se ne trovano a centinaia, è doro, e rarissima. Si è creduto da taluno che  queste fermezze servissero a chiudere il cadavere nel lenzuolo d amianto dove  bruciavasi, ed in tal guisa è stata trovata ragionevole l'indifferenza che tali fermezze siano in maggiore o minor numero in un sepolcro; e se questo è, noi  reputeremo più che altri opulente il morto presso al quale è stata trovata questa fermezza d’oro. Il numero 4 è similmente d’oro, e credesi frammento d'una collana . II pregio di questo monumento consistendo principalmente nella iscrizione  dalla quale è circondato, così attenderemo di conoscerne 1 interpetrazione per ope¬  ra del cultissimo Vermiglioli che unitamente alle altre del Museo chiusino, ce le piepara per darcele tutte di seguito in quest’ opera stessa.    I Centauri, che nel calendario del gentilesimo, servirono a notare il tempo  d’autunno, in cui celebravasi coi misteri la commemorazione dei morti -, hanno  servito altresì d'ornamento adattato alle lor cassette cinerarie, come qui si ve¬  de, figurandovi uno di tali mostri che avendo rapita una delle donne invitate  alle nozze d’Ippodamia la difende dai Lapiti, che vogliono rivendicarla. II disegno del vaso che qui presentasi la metà più piccolo del suo originale  in marmo statuario,ci fa sicuri che in Chiusi, dove stato trovato, fiorirono due  scuole assai diverse di scultura; funa etnisca, 1 altra romana, giacche si trovano  recipienti eseguiti per l’uso medesimo di riporre ceneri di umani cadaveri, gli uni  in forma quadrangolare a modo di cassetta, con bassirilievi di figure e con etiu-  sche iscrizioni, come ne abbiamo fatti vedere in quest opera alle Tavole, 1 Inghiraroi, Mommi, etr. -   Sa mai v’ha luogo all’interpetrazione di queste due statuette di bronzo num,  i e 2, i cui disegni sono grandi quanto i loro originali, potrei avventurare che 1 una  di a. i fosse d’Apollo laureato in fronte e con tazza in mano, comesi vede altrove nei  vasi dipinti 'ri’altra n. 2. diMercurio conpetasoin testa,sostenendo con la sinistra ma¬  no una sacca o borsa ,ch’è propria di questo nume, come tutelare del commercio. La corniola che qui mostriamo al num. 3 , ci fa istruiti quanto dagli antichi  fosse apprezzato il gruppo delle tre Grazie, che vediamo ripetuto in un modo  medesimo in tanti luoghi e in tanti tempi diversi. La dimensione della pietra è  misurata dall'ellisse num. Fu posto in ridicolo il Gori celebre antiquario di cose etrusche, perchè fatti disegnare una quantità d’idoletti in bronzo che si conservano nella R- Galle¬  ria di Firenze i * 3 , pretese dare a tutti loro un nome speciale , formandone una  serie di etrusche divinità senza rammentarsi che soggiogati gli Etruschi, signo reggiarono i Romani in questo nostro paese, ove introdussero colle lor colonie  artisti e culti sacri tutti lor propri. Perch' io vada esente da simil taccia non  mi costringa l'osservatore a dare un nome all’idoletto di bronzo che i sig." editori del Museo chiusino han posto al num. ì, 2 della Tavola C, che nel disegno trasmessomi per la incisione trovo notato esser della grandezza medesima  dell'originale come pure l’altro di num. 3 .È grave danno per la scienza antiquaria che dai collettori di antichi monumenti non facciasi caso nessuno della maniera come questi si trovano sotterrati, dal  che non pochi lumi trar si potrebbero per la storia dell’arte, non men che dei  riti sacri presso gli antichi. N’è prova la figura che trovo disegnata al num. 3  di questa Tav., mentre si scorge di un arcaico stile ben diverso da quello che spet¬  ta alla figura superiore . Or se questi idoletti furon sepolti promiscuamente fra  loro in un sepolcro medesimo, potremo frale supposizioni lecite ammettere che  la figura di num. 3 sia eseguita ad imitazione dell’ antico stile , e contempora¬  neamente all'altra modellata certamente quando nell'arte era noto uno stile assai  più perfetto . Dopo varie mie riflessioni sul significato di queste donne che in  piccol bronzo trovansi frequenti negli scavi d’Etruria, restai perplesso nelle due    i Tishbein, Pittare de’ Vasi antichi posseduti  dal cav. Hamilton. Tom. i, Tav. 8, 9 .Visconti, Museo Pio dementino Voi. 1, Tav. r.  3 Museum etr. exhiben» insigne veterum Etruscorum monumenta aereis tabulis cc, edita et  illustrata .4 Maffei, Osservazioni letter L uomo già rovesciato per terra, che vedasi nel sinistro Iato dell’urna rispetto  al riguardante, fa conoscere già incorniciata la carnificina dei proci. 11 giovine  che vibra la bipenne sopra un armato può significar Telemaco, il quale si presta in  aiuto del padre alla strage di quei malvagi. La Furia infernale tra le colonne  della reggia attamente manifesta il terrore di sì lugubre azione che scompiglia  la casa reale d’Ulisse.I due combattenti al sinistro fianco di quell’eroe son figure, a mio credere, arbitrariamente dall'artista introdotte ad empire un vuoto che  restava senz’esse nel suo bassorilievo, come ho detto poc’anzi, ed anche in occa¬  sione di spiegar la Tavola.   Mi sia permesso di rimettere ad altro miglior Edipo, ch’io non sono, d’in-  terpetrare qual fosse l’intenzione degli antichi Gentili nel rappresentare questo ,  come pure mill’ altri idoletti di bronzo, che trovansi nello scoprire antichi sepolcri. Io posso dire soltanto essermi noto che innumerabili erano gl’idoli dagli  antichi tenuti nei larari come dissi poc’anzi . Ma non so poi quel che significhino gran parte di essi, come il presente, nè per quali superstizioni passassero nei sepolcri, qualora non sieno stati considerati che per semplici bronzi atti a dissipare i maleficii 2 . L’Arpocrate fanciullo inetto e silente, perchè non compiutamente ben forma¬  to, significativo del sole ibernale, è il soggetto che in questa piccola statuetta  uguale al suo originale in bronzo si rappresenta. Fu antichissimo in Egitto, e ne  conserva nel fior di loto, che ha in capo, il segnale, ma introdotto a’tempi de’To-  lomei fra i Greci e fra i Romani formossene una divinità pantea 3 con forme non  altrimenti egiziane, fingendolo un Amore, perchè da questi nasce lo sviluppo  della natura produttrice , per cui gli posero in mano il corno dell’abbondanza  che attender dobbiamo dallo sviluppo del calor solare, passato il tempo d’inverno. Il vasetto di terra cotta è parimente rappresentato di misura uguale al suo  originale, ed è dipinto a figure nericcie con fondo giallastro pendente al bianco, o piuttosto d’un bianco abbagliato, ed è d’un genere che gli archeologi convengono di nominare maniera egiziana 4 , sì perchè vi si vedono strane figure  sul gusto di quella nazione, e sì ancora perchè in Egitto si trovan similissimi a questi. Ved. la Tavola uxi.   a Monum. etr.   3 Iablonski Pantheon Aegyptior. lib. u, cap. vi,   Etr. Mus. Chius. Gerhard, Annali dell istituto di corrispondenza  archeologica voi. in, anno i 83 i, p. i4>   *4 orecchi, piedi e coda di cavallo, con busto virile: aggregato non comune in  Sìmili fantastiche figure, delle quali ebbi luogo di trattare estesamente altrove,  dandole per simboli autunnali II vaso che ha in mano quel mostro non è che  un emblema di più per indicare la stagione d’autunno, allorquando s’empiono tali  olle di vino. La donna che gli è dappresso è una Tiade seguace di Bacco. II perchè  poi la unione di queste due figure significasse il passaggio della razza umana dalla vi¬  ta rozza e disordinata, alla virtuosa e civile per opera di Bacco e dei suoi misteri, è  argomento sul quale scrissi altrove abbastanza per darne il conveniente sviluppo a .   Delle due figure , che qui sotto al num. 2 si vedono riportate nella misura  di un quarto più piccole dell'originale, dipinte nella parte opposta di questo  vaso, non saprei indovinarne il significato, tranne il supposto d'un’armatura da un  giovane ottenuta nel passaggio all’ età virile i . Il disegno del vaso è ridotto alla  grandezza di un quarto del suo originale, Questo mistico specchio non può spiegarsi che mediante l'osservazione di molti  altri, nequali per ordinario si trovano insieme dei numi o eroi di opposta natura o potenza. Spesso vi sono espressi Dioscuri, la cui consueta combinazione fu  da me assai esaminata in altre mie carte , ov’io li mostrava in sostanza 4 espressivi di due contrarie potenze, le quali concorrevano, secondo i Gentili alla formazione e conservazione del mondo 5 . Qui pure è Teti e Giunone perpetuamente nemiche fra loro, di che ho pure altrove ragionato 6 . Che la donna seduta sulla  pistrice sia Teti lo mostra chiaro un frammento d una tazza etrusca, dove la figura medesima ivi dipinta ne porta il nome scritto. Che la donna opposta sia  Giunone lo prova Io scettro che impugna.   tavola cv.   Il manico doppio di bronzo qui espresso nella grandezza del suo originale num.  1 mostrasi attaccato da un lato ad una testa femminile di nessuna significazione,  e dall altra ad una maschera scenica virile, nel che manifestasi quanto fossero  vaghi gli Antichi di variare ornamenti, giacché non altro che il capriccio può  a\erli dettati, come qui li mostriamo, per ornarne un vaso di bronzo. Possiamo  frattanto tener per sicuro che gli artisti di Chiusi non furono di meno elevato genio  degli ercolauesi nell’eseguir le opere loro metalliche. Del bronzo in figura di maschera di cui vedu qui il disegno n. 2 , nulla so dire ad istruzione di chi l’osserva.   4 Monumenti etr., ser. 11.   5 Plutatc. de Iside et Osir. in prineip.   6 Galleria omer. voi. 1, tav. xxxix.  opinioni o di assegnar loro il nome di Speranza o quel di Giunone, invocata  dal femminil sesso in loro tutela. Ma chi non sa che la Speranza, e la Fortuna, ossia la fiducia di migliorar sorte nel mondo, era l’oggetto primario del culto gentilesco d’Italia? 5 Il bassorilievo della Tavola presente è un’urna di marmo due terzi maggio-  giore di questo disegno. Qui, a parer mio, si rappresentano i due strettissimi  amici Oreste e Pilade nel pericoloso momento d’essere a Diana immolati, per  l'uso barbaro ordinato da Toante in Tauri, che li stranieri a quel lido approdati  dovevano essere immolati a Diana tutelare del luogo <. Varie tragedie si scrisse-  sero dagli antichi su questo soggetto, taluna forse delle quali dichiarava Oreste  d’età più avanzata che Pilade, o l’età di questo più avanzata di quella dell’altro,  e perciò Pilade più prudente, per cui cred’io, qui è l’uno imberbe, l'altro,  barbato. Le donne che vi si vedono sono le sacerdotesse di Diana, che vicine  al di lei altare stanno con i coltelli pronte ad immolare li sconosciuti stranieri.  Le teste umane posate sull’ara medesima vi son per indizio della consuetudine di  quel barbaro sacrifizio. Per simil modo vedonsi tali teste pendenti ad un albero  presso l’altare di Diana, ove pure Oreste e Pilade son condotti al crudo supplizio  in un sarcofago del palazzo Accoramboni di Roma, e recato in luce dal Winkelmann .  Questa Pallade in bronzo della gradezza dell’originale è come ognun vede,  d’un gusto squisito. Nè vorremo negare, che sia di toscanica officina , giacché è trovata a Chiusi, quantunque lo stile dell’arte ivi usato direbbesi comunemente gre¬  co , o del buon tempo romano. Oltre di che possiamo additar quest’idolo col ge¬  nerico nome di Lare, vale a dire un di quei che i Gentili tenevan chiusi per  loro devozione in alcuni armadi delle lor case col nome di larari. E dicevansi  anche patellari, come Plauto li appella 6 , perchè avevano, come il presente, e come altri riportati in quest’Opera i, piccole patere in mano, in segno di doman¬  dare ai devoti le prescritte libazioni agli Dei. Riconosco per un satiro il mostro dipinto nel vaso num. i, perchè vi si vedono Antichi momim. inedit. 6 PJautoap. Inghirami Monum etr. ser. il. Plinio. Nat. Hist. Ved. Tavv. un, lxx.   4 Euripide, Ifigenia in Tauri nell’argoin. greco.  L opposto lato del vaso che porta l'antecedente pittura ha similmente dipin¬  te quattro figure ammantate, insegno, secondo alcuni 1 , di precettato silenzio, come sembra che non ricusi di ammettere modernamente uno de’ più attenti ed  eruditi interpetri di tali stoviglie, 3 o secondo altri della palestra e del bagno,  e gli ultimi che ne scrissero, notarono in tal circostanza, che riguardo ai bagni è  assai più comune il vedere i loro utensili posti per dare indizio della palestra, che  il trovar particolari espressioni della loro struttura. Quindi argomenta che i giovani avviluppati nel manto e forniti degli arnesi atti al bagno si mostrino di là  partirne onde recarsi alla palestra. Io peraltro che soglio dare al significato di  tali pitture maggiore importanza, mentre le vedo sì ripetute da tutto il paganesimo, dove fu in uso il seppellir vasi coi morti-senza neppure distruggere l'opinione modernamente invalsa, che significhino esse unicamente il passaggio dei  giovani dai bagno alla palestra, proporrei altresì l’opinione, a parer mio non re-  pugnante, che il vedersi in mano degli efebi gli strigili che usavansi a purgar  la cute da ogni sozzura dopo il bagno, denotasse l’uso delle virtù catartiche, mediante le quali veniva un’ anima virtuosa a purgarsi d’ogni viziosa impurità, e farsi degna della celeste beatitudine. Erano infatti virtù somiglianti insinuate nei  ginnasi dai precettori, che in segno di loro autorità non meno che della disciplina dottrinale che da lor comunicavasi agl’iniziati, e del silenzio che loro impo-  nevasi circa i precetti religiosi dati colla massima segretezza, tennero, come qui, un  bastone in mano. Io dunque vedo nel vaso in complesso, l’immagine della beatitudine in quel convito eh'è daH’anterior parte di esso già esposta antecedentemente, e la occulta e misteriosa via di conseguirla nel significato degli strigili  che hanno in mano i giovani qui espressi davanti ai loro precettori, e inistagoghi. Leggo nel disegno di questa incisione mandatami da Chiusi esser le figure,  rosse in fondo nero la metà dell’originale.  Ho il piacere di dar termine alla prima parte di quest’opera sul Museo chiusino, con un monumento de'più interessanti che vi siano stati esibiti, sì per la  perfezione del suo disegno, come anche per l’epigrafi, dalle quali vanno indicate  le figure di deità che vi si contengono. Quest’ultima qualità che rende il monumento assai pregevole alla considerazione degli eruditi, voglio dire 1’essere  3 Ivi, e Gerhard Rapporto intorno ai Vasi Voi-  centi. Sta negli Annali dell’ istituto di corri»  spondenza archeologica , voi. m, anno i83i r  primo fascicolo, Monumenti, Gerhard, Monum. etr. ser.  Fin ora sanasi detto esser qui rappresentata un agape o cena funebre, colla quale si terminavano gli estremi onori che rendevansi agli estinti qualificati,  ed a così giudicare ne moveva per ordinario il trovar vasi con tali pitture vicini sempre ai cadaveri ‘.Per simile analogia solevasi dire ancora esser quel convito, accompagnato da piacevole melodia, una immagine del godimento riserbato alle anime virtuose negli Elisi dopo la morte, come promettevasi agli iniziati  nei misteri del paganesimo a . Ma nel momento attuale corre opinione che non  altro in pitture tali debbasi ravvisare, se non che domestiche mense ed allegrezza sociale, senza frammischiarne l'allusione a varun culto religioso 1 2 3 . Rifletto peraltro che sfio spiego nel metodo primitivo, cioè l'allegorico, la mensa priva di  commestibili, posso ripeter, come dissi altrove, non esser l’anima suscettibile di  pascolo materiale, essendo la sola mensa un sufficiente segnale del godimento 4 .  Se il pittore ebbe in animo di rappresentarci con questa pittura non altro che  una domestica cena, dirò che la composizione resta incompleta per mancanza dei  cibi, indispensabili ad effettuare l’azione del mangiare.   Spiegai altrove simbolicamente anche Patto, come è qui, ripetutissimo in al¬  tre pitture, di una tazza sostenuta da un commensale cori un sol dito 5 , ove  dissi che a tenore d’ una dottrina platonica le anime che debbono scendere in  questa terra si trovano in uno stato il più leggero possibile, e quindi situate nella più elevata parte del mondo; e conchiusi esserla tazza del recombente signi¬  ficativa del recipiente del nettare per uso de'numi alzata da lui per simbolo del-  Panima sì per la sua elevatezza, e sì ancora per la leggerezza che mostra uel-  l’esser sostenuta con un dito 6 . E qui mi giova il notare altresì che nessuno dei  tre recombenti mostra di bere alle tazze da loro sostenute, nè v’ è alcun vaso da cui rilevisi essere state empite onde bere . Non ostante anche le moderne opinioni hanno tal peso che meritano considerazione, ed io mi son fatto un  pregio di esporle qui non volendomi caricare del giudizio sulla preferenza delle  une sulle altre. Leggo nel disegno di questa incisione mandatomi da Chiusi es¬  sere la metà de! suo originale, e le figure di colordi rosa. Vermiglio!!, Lezioni elementari di archeologia, Monum. etruschi  Monum etruschi, ser. v, 3 Annali dell istituto di corrispondenza archeol.   Voi. ili, anno i 83 i, Gerhard, Monumenti   Rapporto intorno i vasi volcenti, p. 5y. Politi, descrizione di due vasi fittili gre¬  co siculi agrigentini i 83 r. Ved, bullettaio dell’istituto di corrispondenza archeol. Monumenti etruschi.   ò Milli», Peintur. de \ases ant. tot». 11. PI. Monumenti etr. W" .;.;;Y ; ' Iv i;. 1 1-i. 1   . i   -li  •    ir -':i [!T V   C R flS i K R 11 B   j, -* • ‘ * r ' :A   f  t  -i : .! V fi . '   t. £ ; > C f- v •; r.  f- M 5 !,$   1 C V 5 V V* . c se ? n 11 a . Egè ri) ' Z > • '   i:- ai scritto, mi costringe a tenermi in assai ristretti limiti nel ragionarne, poiché i nientissimi sigg. TÌ editori di quest'opera destinarono con savissima sceltala  illustrazione della parte epigrafica di tali monumenti al prof. Vermiglioli espertissimo quanto altri mai di sì difficile scienza.   A sodisfar dunque soltanto la sollecita curiosità di chi osserva il monumento  qui esposto mi permetto di accennar di volo, esser questo uno specchio misti¬  co di que’tanti che trovatisi storiati nei sepolcri d’Etruria, e solamente lisci in  quei della Magna-Greeia, ed in esso esservi quattro figure di deità cioè la Parca,  Apollo, Venereletea o libitina, e Giunone; e presso le indicate persone i nomi loro scritti in etrusco. /3DIVM moiran nome della Parca ripetuto in altri di que¬  sti manubriati dischi 1 * . V4-1/3 Aplun nome chiarissimo d’Apollo, ed altresì ripetuto io vari specchi etruschi 3 . HVT34 Letun Venere letea o libitinia , o  Proserpina, che il Gerhard ha così bene illustrata per una Dea infernale, non distinta però dalla luna 3 , per cui cred’io qui si vede connessa in amplesso con Apollo considerato come il sole. Ecco dunque per la prima volta incontrato negli  specchi mistici il nome di quella donna che sì ripetutamente vi si vede rappre¬  sentata, e che per Venere libitina azzardai nominarla tal volta anche prima della presente ed importante scoperta 4. In fine AH 4/3 0 Talna eh’è nome altresì  ripetuto nei mistici dischi, e che io sostenni con lungo ragionamento esser signi¬  ficativo di Giunone 5 quantunque disgiunta dai consueti simboli di questa Dea, men¬  tre qui ha lo scettro che la •fanno indubitatamente conoscere per la regina degli Dei  unitamente con Giove che n’era il supremo loro imperante. Ma una più sodisfacente  interpetrazione dell'etrusche parole qui riferite debbesi attendere dall’erudito Vermiglio]/', al quale, come io dissi disopra, è destinata. In urna figulina    LVI.    i flit a a = flnflo   ) f\XF\Y\M   LVH. AlAtlqAD : 1SUfflM : lOqfld   In urna figulina   lviii.   CO   -A  l#q vn : im : fìURO M : VfflDt :   r Ì433 : VA   LX  V-ÌV# : VD   flitmao    i Monumenti etruschi s a  -Gerhard, Venere Proserpina illustrata, Nuora collezione d’opuscoli e notizie    di scenze, lettere ed arti, pubb. dal cav. Fr. Inghirami,   4 Monum. etr. ser. 11, p. 44 <a, 744, e ser. v,p. 193.  5 Ivi p. Sol.  làaBaHBBsasaasa  XXXZ'/Z/. - A'/AZY.Y (IX XUI  m ;_i  lira vz. 7 ’ LII   fC)   i   Ouj/ IsUcAenni. eli/  T £,J\  T. L/A'  3TT J ^ JCZ/Z    z,Jirv:  T» z^rjrji-'.  IXX3TT 'X  tea   T^reiir.  ir**:-Jàz-j:.     amiBft'igwpcj &r.  CJI.  v ~ Grice e Musonio (Bolsena) G. MUSONIO RUFO C. Musonio Rufo esercita un forte influsso sui contemporanei. Di famiglia equestre dell’etrusca Volsini (Bolsena) suscita per la sua fama di filosofo l’invidia di Nerone. C. MUSONIO RUFO segue Rubellio Plauto nell'Asia Minore e lo incoraggia a togliersi la vita quando Nerone lo condanna a morte. Ritorna a Roma, dove e bandito insieme con Cornuto in occasione della congiura di Pisone e confinato nell’isola di Gyaros nelle Cicladi, ove per la sua rinomanza attira uditori da ogni parte.Verosimilmente richiamato a Roma da GALBA, negli ultimi giorni di Vitellio si une ad una ambasceria del Senato presso Antonio Primo per perorare la causa della pace fra i suoi soldati, ma senza successo.Quando VESPASIANO assunse il potere, C. Musonio Rufo accusa davanti al Senato P. Egnazio Celere, quale delatore e falso testimonio nel processo di Borea Sorano. Vespasiano lo escluse dalla prima espulsione dei filosofi da Roma, ma poi lo esiliò per la seconda volta ; però Tito, che già lo aveva conosciuto, lo richiamò dopo la sua assunzione al trono. In seguito mancano notizie su di lui, ma da una lettera di PLINIO (si veda) il Giovane sembra che non fosse più in vita. Non risulta che abbia composto e pubblicato seritti, anzi sembra che si sia servito soltanto dell’insegnamento orale, del quale, però, rimangono frammenti abbastanza numerosi. Essi comprendono : 19 brevi apoftegmi conservati da Plutarco, da Aulo Gellio e dallo Stobeo ; 2° altri apoftegmi e trattazioni filosofiche relaivamente ampie raccolti da Epitteto nelsuo insegnamen-È e trasmessi i primi da Arriano, le seconde dallo Stobeo ; 3° esposizioni o lezioni che si trovano nello Stobeo o costituiscono la parte più estesa dei frammenti. È verosimile che provengano da uno scritto di quel Lucio che si è già ricordato e che si deve ritenere la fonte più importante dello Stobeo ; un’altra è Epitteto, cioè Arriano. Sembra che un Pollione (probabilmente Valerio Pollione da Alessandria, vissuto sotto Adriano) abbia composto Memorabili di Musonio, ma non ne restano tracce. È giudicata falsa una lettera di Musonio a un certo Paneratide. Le concordanze che si sono osservate tra i frammenti di Musonio e il Pedagogo di Clemente di Alessandria hanno fatto pensare o alla dipendenza di questo da uno seritto di Lucio o alla derivazione di ambedue da una fonte più antica. Della forte azione di Musonio sui contemporanei sono prova i suoi numerosi scolari, tra i quali si ricordano (oltre al genero Artemidoro, amico e maestro di Plinio il Giovane), i filosofi Epitteto, Dione di Prusa, Eufrate di Tiro e il suo scolaro Timocerate di Eraclea, e insigni romani, come Rubellio Plauto, forse Borea Sorano e Minicio Fundano, Musonio si avvicina ai cinici nell’assegnare alla filosofia finalità radicalmente etico-pratiche, accetta spunti dell’ascetismo neo-pitagorico, ma nel complesso dipende dallo Stoicismo con influssi posidoniani. Nel sno insegnamento non trascurò le esercitazioni logiche e i frammenti toccano argomenti di fisica, ma ciò che vi è detto degli Dei, designati con le denominazioni della religione tradizionale, non supera la sfera del pensiero comune e non ha carattere filosofico determinato : invece riporta allo Stoicismo l'affermazione della necessità universale, che equivale alla teoria del fato. Però l'interesse di Musonio si concentra sulla funzione pratica della filosofia, che è assolutamente necessaria in quanto (secondo la tesi introdotta dai cinici nel I secolo a. C. e poi generalmente accettata) gli uomini sono malati che richiedono una cura continua la quale dev'essere prestata dalla filosofia, che perciò è necessaria a tutti, alle donne non meno che agli uomini : essa però è identificata alla ricerca e alla realizzazione della virtù, per conseguire la quale non vi è necessità di molti discorsi, nè di molte teorie ; inoltre, in essa l'esercizio ha maggiore importanza dell’insegnamento o del discorso. Siccome la natura ha posto in ogni uomo i germi della virtù, se il discepolo non è stato corrotto, una breve dimostrazione è sufficiente per fargli riconoscere i principi etici giusti. Ciò che soprattutto importa è che maestro e discepolo uniformino la loro condotta ai propri principi. Si comprende che Musonio si interessasse in primo luogo della formazione etica degli scolari. Nell’insieme, la morale di Musonio si conforma alle dottrine tradizionali della sua scuola. Occorre distinguere ciò che è e ciò che non è in nostro potere: ora da noi dipende soltanto l’uso delle rappresentazioni, cioè l'assenso dato alle opinioni sul bene e sul male, dalle quali è determinata la giusta valutazione delle cose e quindi l'intenzione quale atteggiamento interiore della volontà; in essa, se è retta, consiste la libertà, la virtù, la felicità. Tutto il resto non dipende da noi e perciò rispetto ad esso, ossia alle cose esterne, dobbiamo rimetterci all’ordine necessario dell'universo e aecettare volentieri ciò che arreca. Soltanto la virtù è bene, soltanto la malvagità è male e ogni altra cosa è indifferente. Però, per rafforzare la volontà, Musonio ‘ riteneva necessario, oltre l'insegnamento e l’esercizio morale, anche l’indurimento fisico, perchè, essendo il corpo uno strumento indispensabile dell’anima, occorre rafforzare ambedue. In generale raccomanda, avvicinandosi al Cinismo, la vita semplice e conforme alla natura e accoglie dal Neo-Pitagorismo il divieto dei cibi carnei. Oltrepassando le opinioni di molti stoici antichi, esige una vita morale severissima, raccomanda il matrimonio, condanna la limitazione delle nascite e l’esposizione dei figli. Nell'insieme, i frammenti di Musonio rivelano un’anima nobile e retta, appassionata per il bene e guidata dal desiderio di educare gli spiriti, ma a queste doti non corrisponde il valore scientifico degli insegnamenti, perchè i suoi pensieri sono molto mediocri e privi di originalità ; inoltre non si può trovare nelle sue parole l’espressione di una visione della vita vi- brante di dolore e di amore simile a quella di Seneca.  aio Musonio Rufo. Gaio Musonio Rufo (Volsinii) è un filosofo romano. Frammento di papiro (P. Harr. I 1, Col.), con parte di una diatribe. Sulla vita di Gaio Musonio Rufo, stoico, si posseggono poche notizie certe. È noto che nacque a Volsinii, corrispondente all'odierna Bolsena, in Etruria, che fu cavaliere. Il ‘præ-nomen’ Gaio lo conosciamo solo attraverso Plinio il minore che ci fornisce anche un’altra notizia su una sua figlia (presumibilmente chiamata Musonia, secondo l’uso romano), sposata ad Artemidoro, al quale Plinio presta aiuto anche per stima e affetto nei confronti del suocero. Sappiamo dalla voce “Mousonios” della Suda che Musonio e figlio di Capitone ma non abbiamo altre notizie sulla sua famiglia, che era comunque di origine etrusca. In effetti, il nomen “Musonius” denotare la gens, e viene indicato da alcuni studiosi della lingua etrusca come forma latina di un gentilizio etrusco “Musu,” “Muśu-nia.”.  E capo a Roma di un circolo o gregge filosofico e si dedica anche alla politica, con idee abbastanza tradizionali e moderate. Fa parte del gruppo creatosi intorno a Rubellio Plauto, un discendente della famiglia Giulia. Quando Rubellio Plauto e allontanato da Roma in via precauzionale da Nerone, Musonio lo segue in Asia. Due anni dopo giunge l'ordine del principe di eliminare Rubellio Plauto. Musonio ritorna a Roma, ma,  in concomitanza della congiura di Pisone, e mandato in esilio, in quanto allievo di Seneca, nell'isola di Gyaros, inospitale e rocciosa nel Mar Egeo.  Indicativi della sua integrità morale e della sua coerenza sono altri due momenti della sua vita, entrambi riportati da Tacito nelle Storie. Dopo essere ritornato dall’esilio, forse grazie a GALBA, con il quale sembra fosse in amicizia, nella fase finale della guerra civile seguita alla morte di Nerone, Musonio si rese protagonista di un primo episodio significativo, rivelatore della sua generosa attitudine a mettere in pratica i principi morali e gli ideali di pace che insegna. In una Roma che era teatro di violenti scontri tra le fazioni avverse, il filosofo di Volsinii si impegna a svolgere un’improbabile opera di pacificazione. “S’era mescolato agli ambasciatori Musonio Rufo, di ordine equestre, zelante filosofo e seguace dei precetti dello stoicismo, ed in mezzo ai manipoli prendeva ad ammonire gli uomini armati con le sue disquisizioni sui beni della pace e sui mali casi della guerra. Ciò fu per molti motivo di scherno; per la maggioranza, di fastidio. E non mancava chi l’avrebbe spinto via o l’avrebbe calpestato, se, dietro consiglio dei più equilibrati e fra le minacce di altri, non avesse deposto la sua inopportuna esposizione di saggezza.” Il secondo episodio, ci presenta Musonio Rufo impegnato nella riabilitazione della memoria dell’amico Barea Sorano, che era stato sottoposto a processo e condannato a morte insieme alla figlia Servilia e a Trasea Peto. Contro di lui era stata resa una falsa testimonianza da parte del suo stesso maestro, Publio Egnazio Celere, anche lui appartenente alla corrente stoica. Musonio, che pure nei suoi insegnamenti si dichiarava contrario ad intentare cause per difendere se stesso dalle offese ricevute, in questo caso non esita ad accusare in Senato il traditore per difendere la memoria dell’amico condannato ingiustamente. Come scrive Tacito: “Allora Musonio Rufo attacca Publio Celere, accusandolo di aver attaccato Barea Sorano con una falsa testimonianza. Evidentemente con quell’accusa si rinnovavano gli odii delle delazioni. Ma l’accusato, vile e colpevole, non poteva essere difeso. Di Sorano e santa la memoria. Celere, che fa professione di sapienza, testimoniando contro Barea, ha tradito e violato l’amicizia.” Musonio porta avanti con tenacia il suo impegno, che e coronato da successo. “Fu deciso allora di ri-aprire il processo tra Musonio Rufo e Publio Celere: Publio venne condannato ed ai mani di Sorano e resa soddisfazione. Quel giorno, che si distinse per la severità dei magistrati, non manca nemmeno di elogi ad un cittadino privato. Si era, infatti, del parere che Musonio avesse agito con giustizia in tribunale. Opinione ben diversa si ha di Demetrio, seguace della scuola cinica, in quanto aveva difeso, più per ambizione che con onore, un reo manifesto. Quanto a Publio, non ebbe né animo, né eloquenza sufficienti in quel frangente.»  Più tardi Musonio riusce a guadagnarsi la stima di VESPASIANO evitando la cacciata dei filosofi. Ci e però un secondo esilio e, dopo il suo rientro a Roma, voluto da TITO, le fonti tacciono. Potrebbe essere stato espulso da Roma, assieme agli altri filosofi, a causa di un senatoconsulto sollecitato da DOMIZIANO, che fa uccidere Aruleno Rustico e cacciare Epitteto e altri. Da un'epistola di Plinio minore si apprende che egli non era più in vita.  Si proclama suo discendente il poeta Postumio Rufio Festo Avienio. Probabilmente in modo volontario, sull'esempio di Socrate o Grice e come fa anche il discepolo Epitteto, non lascia nulla di scritto. I principi della sua predicazione filosofica si ricavano da una raccolta di diatribe dovuta a un discepolo di nome Lucio, di cui 21 ampi estratti sono conservati nell'Antologia di Stobeo. Essi sono intitolati: “Che non è necessario fornire molte prove per un problema” “Su chi nasce con un'inclinazione verso la virtù” “Che anche le donne dovrebbero studiare filosofia” “Se le figlie debbano ricevere la stessa educazione dei figli maschi” “Se è più efficace la teoria o la pratica” “Sul praticare la filosofia” “Che si dovrebbero disprezzare le difficoltà” “Che anche un principe deve studiare filosofia” “Che l'esilio non è un male” “Il filosofo perseguirà qualcuno per lesioni personali?” “Quali mezzi di sostentamento sono appropriati per un filosofo?” “Sull'indulgenza sessuale” “Qual è il fine principale del matrimonio. Il matrimonio è un ostacolo per la ricerca della filosofia. Ogni bambino che nasce dovrebbe essere allevato. Bisogna obbedire ai propri genitori in tutte le circostanze. Qual è il miglior viatico per la vecchiaia?” “Sul cibo” “Su vestiti e riparo” “Sugli arredi” “Sul taglio dei capelli”. Lo stile delle diatribe è semplice. In genere viene posta una questione iniziale, poi sviluppata con chiarezza durante il testo, spesso costruito in modo figurato, usando metafore e similitudini (spesso sfrutta il paragone con il medico, alcune volte intervengono immagini di animali). Questa caratteristica si adatta bene alla sua personalità e al suo tipo di insegnamento, tutto rivolto alla schiettezza della vita.  Ci restano, inoltre, frammenti minori, spesso in forma di apoftegma. A parte quelli sempre di Stobeo (in numero di 14), due frammenti conservati da Plutarco sono brevi aneddoti che potrebbero essere definiti come "detti celebri", mentre tre brani di Aulo Gellio conservano detti memorabili ed un quarto è lungo abbastanza da rappresentare la sintesi di un intero discorso. C'è, poi, un aneddoto in Elio Aristide ed Epitteto ne racconta una mezza dozzina (11, per la precisione). Restano, inoltre, due epistole, concordemente ritenute spurie. Musonio rappresenta, con Epitteto, il principe Marc’Aurelio Antonino e Seneca, uno dei quattro esponenti più significativi del portico romano del principato. Egli, se per certi versi corrisponde appieno alle istanze propugnate dalla temperie spirituale del suo tempo, per altri si distingue e mette in luce, soprattutto per il recupero radicale e profondo di una filosofia intesa come arte del vivere bene e onestamente, cioè mezzo per conseguire uno scopo riscontrabile nei fatti.  Il ruolo della filosofia Egli crede che la filosofia (stoica) fosse la cosa più utile, in quanto ci persuade che né la vita, né la ricchezza, né il piacere sono un bene, e che né la morte, né la povertà, né il dolore sono un male; quindi questi ultimi non sono da temere. La virtù è l'unico bene, perché da sola ci impedisce di commettere errori nella vita. Del resto, sembra che solo il filosofo si occupi di studio della virtù. La persona che afferma di studiare filosofia deve praticarla più diligentemente di chi studia medicina o qualche altra attività, perché la filosofia è più importante e più difficile da comprendere di qualsiasi altra occupazione. Questo perché, a differenza di altre abilità, le persone che studiano filosofia sono state corrotte nella loro anima da vizi e abitudini sconsiderate, imparando cose contrarie a ciò che impareranno in filosofia. Ma il filosofo non studia la virtù soltanto come conoscenza teorica. Piuttosto, Musonio insiste sul fatto che la pratica è più importante della teoria, poiché la pratica ci porta all’azione in modo più efficace della teoria. Sostene che sebbene tutti siano naturalmente disposti a vivere senza errori e abbiano la capacità di essere virtuosi, non ci si può aspettare che qualcuno che non abbia effettivamente imparato l'abilità di vivere virtuosamente viva senza errori più di qualcuno che non è un medico esperto, un musicista , studioso, timoniere o atleta ci si poteva aspettare che praticassero quelle abilità senza errori.  In una delle sue diatribe, si racconta il consiglio che offrì a un re in visita, dicendogli che deve proteggere e aiutare i suoi sudditi, quindi sapere cosa è buono o cattivo, utile o dannoso, utile o inutile per le persone. Ma diagnosticare queste cose è proprio il compito del filosofo. Poiché un re deve anche sapere cos'è la giustizia e prendere decisioni giuste, il principe studia filosofia, anche per possedere autocontrollo, frugalità, modestia, coraggio, saggezza, magnanimità, capacità di prevalere nel parlare sugli altri, capacità di sopportare il dolore e deve essere privo di errori. La filosofia, sosteneva Musonio, è l'unica disciplina che fornisce tutte queste virtù. Per dimostrare la sua gratitudine il re gli offrì tutto ciò che desiderava, al che il filosofo chiese solo che il re aderisse ai principi stabiliti.  Musonio sosteneva che, poiché l'essere umano è fatto di corpo e anima, dovremmo allenarli entrambi, ma quest'ultima richiede maggiore attenzione. Questo duplice metodo richiede l’abituarsi al freddo, al caldo, alla sete, alla fame, alla scarsità di cibo, a un letto duro, all’astensione dai piaceri e alla sopportazione dei dolori. Questo metodo rafforza il corpo, lo abitua alla sofferenza e lo rende idoneo ad ogni compito. Crede che l'anima fosse rafforzata in modo simile sviluppando il coraggio attraverso la sopportazione delle difficoltà e rendendola autocontrollata astenendosi dai piaceri. Musonio insisteva sul fatto che l'esilio, la povertà, le lesioni fisiche e la morte non sono mali e un filosofo deve disprezzare tutte queste cose. Un filosofo considera l'essere picchiato, deriso o sputato come né dannoso né vergognoso e quindi non avrebbe mai litigato contro nessuno per tali atti, secondo Musonio. L'opposizione di Musonio alla vita lussuosa si estendeva alle sue opinioni sul sesso. Pensa che gli uomini che vivono nel lusso desiderano un'ampia varietà di esperienze sessuali, sia legittime che illegittime, sia con donne che con uomini. Osserva che a volte gl’uomini licenziosi perseguono una serie di partner sessuali maschili. A volte diventano insoddisfatte dei partner sessuali maschili disponibili e scelgono di perseguire coloro che sono difficili da ottenere. Musonio condanna tutti questi atti sessuali ricreativi. Insiste sul fatto che solo gli atti sessuali finalizzati alla procreazione all’interno del matrimonio sono giusti. Denuncia l'adulterio come illegale e illegittimo. Giudica i rapporti omosessuali un oltraggio contro natura. Sosteneva che chiunque sia sopraffatto dal piacere vergognoso è vile nella sua mancanza di autocontrollo.  Musonio difende l'agricoltura come un'occupazione adatta per un filosofo e nessun ostacolo all'apprendimento o all'insegnamento di lezioni essenziali. Gli insegnamenti esistenti di Musonio sottolineano l'importanza delle pratiche quotidiane. Ad esempio, ha sottolineato che ciò che si mangia ha conseguenze significative. Crede che padroneggiare il proprio appetito per il cibo e le bevande fosse la base dell'autocontrollo, una virtù vitale. Sostene che lo scopo del cibo è nutrire e rafforzare il corpo e sostenere la vita, non fornire piacere. Digerire il cibo non ci dà alcun piacere, ragiona, e il tempo impiegato a digerire il cibo supera di gran lunga il tempo impiegato a consumarlo. È la digestione che nutre il corpo, non il consumo. Pertanto, concluse, il cibo che mangiamo serve al suo scopo quando lo digeriamo, non quando lo gustiamo. Musonio sostenne la sua convinzione che le donne dovessero ricevere la stessa educazione filosofica degli uomini con i seguenti argomenti. In primo luogo, gli dei hanno dato alle donne lo stesso potere di ragione degli uomini. La ragione valuta se un'azione è buona o cattiva, onorevole o vergognosa. In secondo luogo, le donne hanno gli stessi sensi degli uomini: vista, udito, olfatto e il resto. In terzo luogo, i sessi condividono le stesse parti del corpo: testa, busto, braccia e gambe. Quarto, le donne hanno un uguale desiderio per la virtù e una naturale affinità con essa. Le donne, non meno degli uomini, sono per natura compiaciute delle azioni nobili e giuste e censurano il loro contrario. Pertanto, concluse Musonio, è altrettanto appropriato che le donne studino filosofia, e quindi considerino come vivere onorevolmente, quanto lo è per gli uomini.  Suda μ 1305: «Figlio di Capitone, etrusco, della città di Volsinii; filosofo dialettico e stoico, vissuto ai tempi di Nerone, conoscente di Apollonio di Tiana e di molti altri. Ci sono anche lettere che sembrano provenire da Apollonio a lui e da lui ad Apollonio. Naturalmente per la sua schiettezza, le sue critiche e il suo eccesso di libertà fu ucciso da Nerone. Numerosi sono i discorsi filosofici che portano il suo nome e anche le lettere» (tr. Andria). Epistole. Di origine etrusca: cfr. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Cfr. M. Pittau, Dizionario della Lingua Etrusca (DETR), Dublino, Ipazia Books. Tacito, Annales, XIV, Epitteto, Diatribe. Storie. Storie, Cassio Dione. Girolamo, Chronicon, Titus Musonium Rufum philosophum de exilio revocat»; Temistio (Orationi), inoltre, attesta l'amicizia tra Tito e Musonio. A. Cameron, Avienus or Avienius?, in "Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik".  L'attribuzione è data nell'estratto XV Hense: sicuramente questo Lucio era un allievo di Musonio, e uno specifico riferimento in cui Musonio parla da esule a un esule rivela che anche Lucio partecipò al bando del suo maestro. Per la datazione, nella diatriba VIII (60, 5) Lucio riporta una conversazione di Musonio con un re siriano e dice, tra parentesi, che c'erano ancora re in Siria a quel tempo, vassalli dei romani. Dato che l'ultima dinastia di sovrani siriani fu detronizzata nel 106 d.C., Lucio deve aver scritto qualche tempo dopo questa data. nell'edizione Hense del 1905. Una delle due è una lunga lettera scritta da Musonio a Pancratide sul tema dell'educazione dei suoi figli (dell'edizione Hense). Diatriba VIII Hense. Cfr. anche il detto «Un re dovrebbe voler ispirare soggezione piuttosto che paura nei suoi sudditi. La maestà è caratteristica del re che incute timore reverenziale, la crudeltà di quello che ispira paura» (in Stobeo). A differenza del suo allievo Epitteto, che mostrava disprezzo per il corpo, Musonio sottolinea l'interdipendenza tra anima e corpo. Questa visione, del tutto coerente con il panteismo stoico, non è estranea al pensiero neoplatonico. Diatribe III e IV Hense; cfr. Nussbaum, The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman, in The Sleep of Reason. Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome, ed. Nussbaum and Sihvola, Chicago, The University of Chicago Press. Bibliografia C. Musonii Rufi reliquiae, edidit O. Hense, Lipsia, Teubner, Cora Lutz, Musonius Rufus, the Roman Socrates, in Yale classical studies. Dillon,  Musonius Rufus and Education in the Good Life: A Model of Teaching and Living Virtue. University Press of America. Renato Laurenti, Musonio, maestro di Epitteto, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt. Berlino, Walter de Gruyter, Cynthia King, (Musonius Rufus: Lectures and Sayings. Ed, Irvine. Create Space. D., Musonio l'etrusco. La filosofia come scienza di vita, Roma, Annulli. Musònio Rufo, Gaio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Calogero, MUSONIO Rufo, Caio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Musonio Rufo, Gaio, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Gaio Musonio Rufo, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Opere di Gaio Musonio Rufo, su Open Library, Internet Archive. Stoicismo Portale Antica Roma Portale Biografie Categorie: Filosofi romani Filosofi Romani Stoic i[altre]. Luciano Dottarelli. Dottarelli. Keywords: l’implicatura di Musonio, Musonio, Etruscan influence on Roman philosophy, Why Roman philosophy is not Greco-Roman – The Etrurian connection. Etrurian as ‘antique’ – Etrurian as exotic for Indo-European Aryan Latins (Romans). Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dottarelli” – The Swimming-Pool Library. Dottarelli. Dottarelli.

 

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