Luigi Speranza -- Grice e Massolo: FILOSOFO
SICILIANO, NON ITALIANO -- all’isola -- l’implicatura conversazionale nelle prime
ricerche di Hegel – implicatura idealista di Plathegel e Ariskant – filosofia
siciliana – la scuola di Palermo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Palermo,
Sicilia. Grice: “If I had to decide on my favourite Massolo, that would be his
‘historicity of metaphysics,’ way before when I was venturing with Strawson and
Pears to lecture the erudite audience of the BBC third programme on the topic!”
Dopo aver intrapreso gli studi presso il
Liceo Classico Vittorio Emanuele II, si laurea a Palermo con “L’individuo in
Rosmini, con Allmayer. Fu autore di alcuni volumi di poesia. In seguito ad un periodo di docenza nei licei
di Perugia, Catanzaro e Livorno, insegna a Urbino e 'Pisa. Ha influenzato
importanti figure del dibattito filosofico del secondo Novecento, come
Luporini, Badaloni, Sichirollo, Salvucci, Cazzaniga, Barale, Bodei, Losurdo. Gli
scambi epistolari avuti con numerosi intellettuali (tra cui spiccano i nomi di
Gentile, Spirito, Bo, Fortini, Russo, Capitini, Weil) mostrano l’alta
considerazione di cui M. godeva all’interno del panorama culturale del secondo
dopoguerra. Partecipa alla fondazione
della rivista Società, entrando nel comitato di redazione. La rivista, nel
primo anno della sua uscita, ospitò tre importanti saggi di M.: Esistenzialismo
e borghesismo, La hegeliana dialettica
della quantità, L’essere e la qualità in Hegel. Idea e fonda la collana
«Socrates» dell’editore Vallecchi, con la quale pubblicò “Filosofia e politica”
di Weil, Vita di Hegel di Rosenkranz e Dialettica e speranza di Bloch. I suoi
studi su Hegel, inclini a valorizzare la filosofia della storia e la dimensione
realistica del filosofo tedesco, contrastano tanto la lettura del neoidealismo
italiano (Croce e Gentile) quanto quella di Volpe. Nell’ambito della sua
riflessione Massolo ha posto le basi teoriche per una nuova ed originale
rilettura del rapporto Hegel-Marx, tanto da essere considerato da alcuni
interpreti l’avviatore dell’hegelo-marxismo in Italia. I suoi interessi
teoretici si sono rivolti principalmente alla filosofia classica tedesca da
Kant ad Hegel, della quale ha studiato, per più di un decennio, i principali
momenti storico-teorici. In antitesi
all’esegesi del neoidealismo italiano, che tendeva ad attribuire alle filosofie
di Fichte, Schelling ed Hegel il superamento della finitezza umana che Kant
aveva posto a fondamento della sua filosofia, M. ha proceduto alla rilettura
della genesi dell’idealismo tedesco con l’idea che esso abbia storicizzato i
dualismi kantiani in un processo che si compie nella Fenomenologia dello
spirito di Hegel. Nelle fasi più mature
della sua riflessione ha tematizzato in vari saggi la problematica della
scissione della coscienza comune (Filosofia e coscienza comune, oggi), l’idea
della completa politicizzazione del filosofare (Politicità del filosofo, Frammento etico-politico), ed il problema
della storia della filosofia con particolare riferimento al ruolo della
coscienza riflettente del filosofo, nonché al rapporto dialettico tra Pensiero
e Realtà nella città-storia» (La storia della filosofia come problema,). Si dedica alla questione della dialettica
intesa come dialogo, ovvero quell’elemento dialettico-razionale mediante il
quale è possibile conciliare le differenti rappresentazioni dell’oggetto
storico-sociale e le contraddizioni all’interno della comunità. Tramite queste riflessioni, che lo hanno
condotto a porsi in diretta polemica con Nietzsche ed Heidegger, M. ha
contrastato l’idea del sapere come visione solitaria del singolo ed ha
concettualizzato l’idea del sapere come processo essenzialmente dialogico e comunicativo
(La storia della filosofia e il suo significato). Saggi: “Mattutino,” versi (Palermo,
Trimarchi); “Adolescenza” (Palermo); “Convivio; storicità della meta-fisica” (Firenze,
Monnier); “L’analitica di Kant” (Firenze, Sansoni); “Fichte” (Firenze, Sansoni);
“Schelling” (Firenze, Sansoni); “Prime ricerche di Hegel” (Lettere e Filosofia,
Urbino); “La storia della filosofia come problema” – (Firenze, Vallecchi); “Logica
idealista” (Salvucci, Firenze, Giunti-Bemporad, “Della propedeutica filosofica”
e altre pagine sparse, Urbino, Montefeltro, Landucci, M., "Belfagor, Remo
Bodei, Arturo Massolo, "Critica storica", Studi in onore di M.,
Sichirollo, Urbino, Argalia, Badaloni, Ricordo di Arturo Massolo,
"Giornale critico della filosofia italiana", degli scritti di Massolo, Burgio, Urbino, QuattroVenti, “Il
filosofo e la città: studi Domenico e Puglisi, Venezia, Marsilio. La
ricca letteratura critica su M. - tenuta viva da amici ed allievi, ma rivolta
non a celebrare bensì a interpretare l’itinerario filosofico dell’amico/maestro
e il suo modello teoretico, che, da Heidegger e Kant, lo conduce verso
Hegel e Marx, evidenziando così sia una ‘parabola’ della filosofia
italiana (e non solo) del dopoguerra sia la costruzione di un modello di
storicismo connotato in modo assai diverso da quelli post-crociani o
gramsciani, correnti nell’Italia postbellica, e incardinato su una
ontologia storica del soggetto, tale letteratura critica (che ha
coinvolto Landucci e Sichirollo, Bodei e Salvucci, Losurdo e Badaloni,
ecc.), dicevo, ci ha indicato - con precisione - alcuni nuclei forti di quel
pensiero, sottolineandone l’articolazione complessa e la significativa
attualità. Sul primo fronte sono stati il passaggio dall’esistenzialismo
al marxismo, l’interpretazione della filosofia classica tedesca, il rapporto teoretico
fra Hegel e Marx, il nesso fra «il filosofo e la città» a essere
sottolineati; sul secondo, soprattutto, quel carattere etico-politico del suo
storicismo, connesso a un forte e vero umanesimo» fondato sul
dialogo-nella-città e rivolto a una «costruzione della ragione nel mondo
reale, elementi che rendono il suo insegnamento «ancora fortemente
attuale, anche nell’orizzonte del postmoderno (Salvucci, in Domenico,
Puglisi). Proprio per leggere più intimamente il modello storicistico di
M., dobbiamo sottolineare ancora: il suo passaggio
dall’esistenzialismo al marxismo; l’elaborazione del suo
neo-storicismo negli anni Cinquanta; il modello maturo che esso
assume nel lavoro dell’ultimo M., da La storia della filosofia come
problema a Entiusserung, Entfremdung nella Fenomenologia dello
spirito. Lesistenzialismo del primo M., come emerge dagli scritti
dei primi anni Quaranta e culminato in Storicità della metafisica e
in Introduzione all'analitica kantiana, risulta contrassegnato
dalla storicità, ma questa è ancora una struttura ontologica del
soggetto, pro- prio quella che è sfuggita a Kant da trovarsi nella loro
di coscienza tra- [Cambi, Pensiero e tempo: ricerche sullo storicismo
critico: figure, modelli, attualità, Firenze] scendentale e coscienza
sensibile] storicizzazione, nel piano, dunque, della storicità
dell’esistenza umana e di una intelligenza critica dell’uomo - e che va
messa in luce in Heidegger, il quale ci ha evidenziato la «tempora- lità»
dell’uomo (riprendendo e approfondendo Kant, al di là dei razionalismi
idealistici) e la condizione storica (connessa all’esser «il singolo mai
l’aurora», poiché «egli si muove in un mondo già apparso, il cui es- sere
gli è nascosto»? e su cui deve interrogarsi facendo i conti col «passa-
to» che costituisce l’orizzonte di quel mondo) del suo «esserci», in cui è la
«trascendenza pura» del tempo che impone la domanda metafisica, ma per
cui ogni risposta non sarà che condizionata e parziale, poiché è l’uo- mo
che pensa la metafisica, la pensa dalla condizione di «un’indigenza di
essere a cui mai potrà rispondere in toto. Così alla metafisica spetta
una radicale storicità (come domanda/risposta dell’uomo-nel-tempo),
anche perché - inoltre - nel processo di fondazione metafisica la
rivelazione del mondo non significa manifestazione di qualcosa che
rimanga nel suo in sé irrevocabile alla vista, ma il suo stesso venir
pro- dotto all’essere, giacché il suo essere è il suo apparire.
È la storicità stessa dell’uomo che fonda la metafisica e la ricerca
metafisica dovrà porsi il problema della storia perché unicamente
un approfondimento della storicità può permettere di guardare nella
eccezionalità che è la metafisica come azione non del- l’uomo in generale
ma del singolo. Singolo, temporalità, storicità sono qui gli elementi
ontologici su cui si attiva la ricerca di Massolo, attraversata dalla
lezione dello Heidegger degli anni Venti-Trenta (tra Essere e tempo e
Kant e il problema della metafisica), riletto anche attraverso le
indicazioni postgentiliane di Fazio-Allmayer, che nel suo attualismo
critico ha messo al centro sempre più l’uomo e ha guardato a una
umanizzazione del reale. Già Salvucci, nella sua Presentazione al volume
Logica hegeliana e filo- sofia contemporanea, che raccoglie gli scritti
sparsi di M. sottolinea il «faticoso processo» del suo pensiero, che lo
conduce alla «liberazione dal predominio della logica hegeliana» e verso
«il realismo», in cui emerge il ruolo dell’uomo colto nella sua alienazione,
che ne è il contrassegno storicamente primario ed efficace. Alienazio- ne
che è storica, ma di cui la filosofia - da Kant in poi - si fa testimone
e interprete. Con Hegel, invece, la ricomposizione dell’alienazione si
com- [M., Introduzione all’analitica kantiana, Sansoni, Firenze, Storicità della metafisica, Le Monnier,
Firenze] pie nell’orizzonte dell’assoluto, attraverso l’artificio della logica
e la sua riconsiderazione unitaria e pacificata dai conflitti e dalla
dialettica che essi producono, e che dà luogo alla costruzione dell’Idea
filosoficamente resa trasparente a se stessa e, proprio per questo,
totalmente realizzata. Per liberare Hegel dal primato della logica,
bisogna risalire all'opera più drammatica e aperta di Hegel stesso, a
quella Fenomenologia dello spirito che pone al centro proprio
l’alienazione (e non come sola estraneazione), l’alienazione dell’uomo
colto nel suo statuto tragico. Sarà Marx, poi, a compiere il passo
successivo e decisivo: a riportare nel tempo storico-sociale (nella dimensione
del lavoro e nei sistemi di produzione economi- ca) tale alienazione,
mostrando che essa «non è altro che un prodotto di quella forma storica
di lavoro che è la divisione del lavoro»?. Lasse nuovo e il principio determinante
di questo storicismo realistico e antropologico diviene la Città («la
Città-Storia» già di Hegel, ma qui riportata ai sogget- ti e alla loro
rete di azioni e reazioni nel tempo e sul tempo). Ed è questo costituirsi
nella e relazionarsi alla città che viene a contrassegnare il filosofare, quale
atto di «razionalizzazione» e di «storicizzazione». Per Salvucci
qui sta il senso del lavoro di M., lo stemma del suo storicismo e la
stessa angolazione da cui ricostruisce e interpreta il marxi- smo.
Marxismo come storicismo, ma qui ripensato sulle orme di Kant, Hegel e
Marx e che pone al centro, heideggerianamente, la questione della
temporalità, del tempo storico ovvero della forma antropologica di vivere
la temporalità storica. Che è - appunto - l’alienazione. I testi
raccolti da Salvucci nnel volume citato sono un preciso résumé di questo
itinerario teoretico, in cui i vari tasselli vengono a com- porre un
cammino in ascesa verso il marxismo critico, di cui Marx e il fondamento
della filosofia è l'esempio cruciale. I conti con Hegel sono fat- ti
analiticamente nelle Ricerche sulla logica hegeliana, in cui è proprio
l’oblio del destino del mondo, del «nascere e del morire» (per
valorizzare il puro paradigma logico-ideale) che viene sottolineato e
fis- sato nel suo ruolo, per noi, oggi, di ‘scandalo’. Ma l’idealismo non
muore con Hegel: ritorna anche dopo di lui. Nella tensione cartesiana del
pensiero di Husserl, che riduce l’uomo a mente, la mente a pensiero, il
soggetto a un'isola, caratterizzato dalla ‘solitudine’ della soggettività
trascendentale. Saranno figure come Heidegger, come SPIRITO (si veda), come LUPORINI
(si veda), come FAZIO (si veda)-Allrnayer (con la sua logica della
compossibilità), come BANFI (si veda) a riaprire i confini di questo
storicismo bloccato nella formula idealistica e a ricondurci sul terreno
della esperienza ‘esistenzialmente’ connotata e orientata a un pensiero
che si compie e si legittima nel processo stesso della storicità, intesa
come storia degli uomini, degli uomini concreti, cioè dei produttori.
Allora è Marx che ‘invera’ lo storicismo con la sua «filosofia dell’uomo
alienato». Ma Marx non è un ‘tribunale’ della filosofia: è anco- [Salvucci,
Presentazione a M., Logica hegeliana e filosofia contemporanea,
Giunti-Marzocco, Firenze] ra filosofia, ma è la filosofia del nostro tempo, che
rompe ogni dualismo, che rende l’atto filosofico segno e prodotto
dell’alienazione, che la ricolloca nel suo terreno genetico «il lavoro»
ma da lì fa procedere anche il suo possibile superamento, indicando nei
mutamenti delle condizioni econo- miche il varco stesso per aprire la
storia alla speranza, ovvero alla disalie- nazione. Marx umanizza la
filosofia e umanizza la storia. Allora Massolo può concludere con decisione: Il
rovesciamento che Marx opera del rapporto alienazione-lavoro,
rovesciamento che ha il suo teoretico e storico fondamento nella cri-
tica al concetto hegeliano di lavoro e perciò nella critica alla
divisione di esso, impegna la filosofia che si fa cosciente della propria
origine e della sua radice che è il lavoro, a non cercare la propria
giustificazione nel mondo dell’estraneazione che è per essa il mondo dei
massimi pro- blemi, ma a distruggere questo mondo, nel quale è l’altro di
sé, mondo che non è il suo mondo e del quale non ha bisogno, perché esso
non è il suo fondamento. Il percorso del pensiero maturo di M. è qui
già delineato con precisione: confrontandosi con Marx, riportare lo
storicismo a nutrirsi della lezione di Marx, integrandola però con i
vettori di quell’esi- stenzialismo che pur è stato un ‘raddrizzamento’
antropologico e una re- staurazione di una corretta concezione del tempo.
Si pensi ad Heidegger. M. imposta il lavoro sul suo Marx,
distanziandolo da Feuerbach e dalla sua stessa interpretazione di Hegel
(un Hegel antropologico, appunto), riportandolo verso Hegel e la sua visione
dialettica e real-razionalistica della realtà, non teologica bensì
storicistica del mondo, e un Hegel che sta al centro del Capitale e della
sua riflessione (metodo- logica e contenutistica) sulla forma attuale del
divenire storico. Rispetto a Hegel, però, Marx fa un passo ulteriore:
supera la fenomenologia (che è ancora lettura teoretica) e reclama la
«realtà rivoluzionaria», un mutamen- to prassico, storico;
storico-economico, anzi, poiché la storia è ‘sorretta’ dall’economia.
Così è il lavoro a stare al centro di questo programma e di rilettura di
Hegel e di interpretazione di Marx. Se Hegel legge, però, il lavoro
ancora ‘in assoluto’, sarà Marx a collegarlo storicamente alla divi-
sione del lavoro, ai conflitti sociali, alle prassi
rivoluzionarie. Attraverso le Ricerche sulla logica hegeliana e altri
saggi (poi ripubblicato come Logica hegeliana e filosofia contemporanea
con altre aggiunte), si arriva a La storia della filosofia come problema e
altri saggi, e poi all’ importante Frammento etico-politico. M.,
Logica hegeliana e filosofia contemporanea. Bene Sichirollo presentava
l’orizzonte del lavoro teorico maturo di M. nella Premessa alla seconda
edizione di La storia della filosofia come problema: lì è la filosofia e la
storia da Hegel a Marx ad essere protagonista, e contrassegna
la stagione della coscienza filosofica nel suo momento più maturo
ed ultimo: il passaggio dal rapporto dialettico al rapporto storico,
dal- la filosofia come speculazione e identità alla filosofia come storia
e differenza, alla filosofia che si fa storica, e sa la propria genesi
dalla non-filosofia-ideologia.” M. stesso enunciava l’impianto
complessivo di quella sua ricerca, che parlando di storia della
filosofia, in realtà, parlava della «filosofia storica, poiché quella «mette in
crisi» questa, le impone di ripensarsi oltre la «sua pretesa di universalità»
e le impone un circolo storico. Qui essa si fa contraddizione a se
stessa: verità e tempo, insieme; verità nel tempo. Come lucidamente
comprendeva Hegel, che risolve tale contraddizio- ne nella
«determinazione dell’Idea nel suo concetto logico», ma per diversi gradi,
come scrive lui stesso. Ogni verità filosofica è verità di e per
queltempo che la produce, ma - retrospettivamente risulta sempre
radicalmente storica. Ma Hegel sottrae il suo sistema a questo principio e fa
della sua filosofia il sapere assoluto. E non solo: è l’autocoscienza che
supera la storicità e si ripropone - come filosofia e filosofia della
filosofia - come Assoluto. Allora gli apporti della sociologia correggono
questo errore: riportano nel relativi- smo storico tutti i sistemi filosofici,
anche quello hegeliano, mostrandone la «condizionatezza». Condizionatezza
che è storicità, è dialogo col tempo, col proprio tempo, e con un mondo
che non è tanto coscienza/autocoscienza quanto socialità, vita sociale
dalla quale dipende e sulla quale agisce. Il filo- sofo stesso è sempre
«uomo della città». Sì, nel suo pensiero «il concetto è il sistema», ma
il suo «dialogo» con la città sta prima e dopo quel «concetto». La storia
della filosofia delinea uno storicismo radicale, dialettico, aper- to, in
cui il gioco tra saperi (filosofia in primis) e forme sociali si fa
deter- minante e che non è mai disponibile a priori. La stessa storia del
pensiero «non si costruisce da sé, anzi risulta
dall’assoluta storicizzazione che di volta in volta la riflessione
filosofica compie, facendosi in tal modo logica e pensabilità delle di-
verse epoche, nelle quali di volta in volta debbono considerarsi con-
cluse ed esaurite le possibilità esistenziali dell’uomo. Ritornando sul
tema (La storia della filosofia e il suo
significato) M. difende lo storicismo dal nihilismo, si oppone al suo
obiettivo [La storia della filosofia come problema, Vallecchi, Firenze, di
catastrofe del pensiero occidentale, e lo fa valorizzando il «rapporto
vivente» che lega le filosofie al tempo storico-sociale e le rende sue
fun- zioni esemplari e rivelative. Dalla Grecia a noi centrale resta il
messaggio di un pensiero che si pensa «lungo il sentiero degli uomini».
Già per Hegel «la filosofia sorge dalla polis», dalla libera cittadinanza e
dall’incontro degli uomini, nello «spirito etico» e nel conflitto tragico
che la polis viene a istituire. La filosofia porta i segni di quelle origini, e
li porta nel suo farsi «lo sforzo di sapere che cosa è lo spirito», di
fissare quel complesso traguardo condensandolo nel concetto. In realtà,
però, la filosofia è storia, è epoca, è tempo della polis. Dopo Hegel è
Marx a illuminare la dialetti- ca delle forme, riportandole al lavoro
concreto e lesgendole nella matrice dell’economico, posto come «leva»
delle dinamiche sociali e fattore-chiave (ma non esclusivo: c'è anche
l’ethos determinante per la filosofia e, quindi, per il «contesto»
storico) della polis. Ed è il Marx di Per la critica dell’economia politica,
con la sua dialettica tra astratto e concreto, ad essa posto come guida.
Lì è, sì, il circolo qualità/quantità a rivelarsi decisivo, ma lo è anche
e ancor di più - la contraddizione, non una contraddizione che da logica si
è fatta storica e sociale, e proprio perché la storia è fatta dalle
società e dal brulichio delle loro forme. La filosofia è dialogo, e
dialogo con la città e nella città. Tra logos e comunità corre un rapporto
simbiotico, se pure fatto di differenze e oppo- sizioni. Ed «è la
comunità stessa che deve decidere come sola misura della verità. Ma la
comunità non è una cosa, ma un insieme di individui, cia- scuno dei quali
è a sua volta un possibile criterio e misura della verità», ma non sempre
e necessariamente. Può anche assumere il dialogo come forma-di-vita e
come forma del logos e farsi così soggetto-nella comunità, ad essa
saldandosi e promuovendone, con gli altri, le stesse possibilità. Già
Socrate aveva posto la sua filosofia in questa condizione, poi il pensiero
moderno l’ha riscoperta. E oggi si impone come regola, ma regola d’azio-
ne. Per noi quella «coscienza comune» non è un dato ma un compito: Ciò
che sinora era stato il grande presupposto, può oggi semmai essere posto
e creduto come compito»?. Allora la filosofia è politica, è
politicità concettualizzata e impegno eti- co-sociale, poiché tra
politica e polis corre un nesso intimamente efficace, che si sviluppa in
tensione tra pensiero e polis o in loro integrazione, rico- noscendo -
però - il loro intimo legame dialettico, e storico. Il filosofo sa di
stare-nella-storia e che «l’essere è ora la storia stessa», nella quale il filosofo
introduce la «finalità universale», il compito e il traguardo da pensare
e volere sempre nella «città-storia». E da valere in funzione dell’uomo
di cui e per cui nasce la stessa filosofia. Se pure per un uomo che,
anche oggi e sempre di più, sa di essere comunità. È poi nel Frammento
etico-politico che lo storicismo engagé di M. riesce a rispecchiarsi più
com- piutamente. Lì la filosofia, condotta ormai oltre Hegel, se pure
attraverso lo stesso Hegel, posta in luce nel proprio «spettro» profondo
da Marx, può dispiegarsi come radicale storicismo. Di uno storicismo
della polis e di una polis di cui si sottolinea come centrale la lotta di
classe. È il materialismo storico che dispiega al massimo questo
storicismo antispeculativo e non relativistico, uno storicismo degli
uomini, per gli uomini e che antropologizza la storia attraverso il loro
operari rivoluzionario. Solo che ciò im- plica una «coscienza di classe»
che non è spontanea, bensì è e va costruita e si costruisce sulla
«coscienza infelice» dell’uomo, dell’uomo storico e di quello
contemporaneo in particolare. Il disegno di M. è compiuto: fi- losofia e
storia si congiungono, storia e economia/ethos si fondono, la polis è il
loro organismo vivente, in quella polis noi pensiamo e agiamo, oggi la
filosofia si sa come politica e in vista di una polis-comunità fondata a
sua volta sulla non-alienazione. Che è, però, concretamente,
politicamente (con Marx) tutta da costruire. Il quadro è energico e
compatto, sorretto da un suo «principio speranza» che è quello
dell’emancipazione. A riconferma del suo marxismo emancipativo va riletto
con preci- sione proprio l’ultimo testo di M.: «Entiusserung» e
«Entfremdung» nella Fenomenologia dello Spirito, apparso su «aut-aut». È
un testo che si colloca allo sbocco di tutta una rilettura di Hegel. Una
lettura sì epocale, ma che di quel pensiero coglie più integralmente la
problematicità e la ricchezza, ma anche le interne tensioni e la
articolazione teoretica più aperta (e più antropologica) rispetto allo
Hegel «del Sistema» (che si po- ne nell’ottica, sempre e comunque,
dell’Idea). L’epocalità va fatta risalire a Dilthey e al suo studio del
1904 e alle varie interpretazioni che esso ha, via via, prodotto, fino a
Hyppolite, fino a Kojève, fino a Lukács, passando anche per NEGRI (si veda) Negri
e VOLPE (si veda), approdando a una fitta letteratura europea tipica. È
il primo Hegel che va studiato per capirne sì le radici, ma soprattutto
le potenzialità molte e complesse. Soprattutto, ancora, la sua vocazione
antropologica: descrittiva e inter- pretativa della condizione umana
(quasi-esistenzialistica) e della forma che assume nella coscienza, se
riletta nella sua frontiera fenomenologica, cioè dell’apparire delle sue
«forme» trascendentali. Allora saranno, anche per M., le «prime ricerche»
di Hegel a farsi interessanti, anzi deter- minanti. Ad essere più
squisitamente filosofiche, perché più storiche, ri- spetto allo
Hegel-del-sistema, che assegna il primato alla speculazione e alla sua
assoluta aseità. Qui no, è l'epoca, il tempo stesso e l’uomo di quel
tempo medesimo che parla, e parla in presa diretta. Colto nel suo trava-
glio spirituale, posto da coscienza/storia/spirito/città (per dirla in
termi- ni massoliani) e contrassegnato dalla contraddizione che si fa
coscienza e coscienza vissuta dell’alienazione e della sua
rimozione/superamento. M. ancora si domanda: Come bisogna leggere Hegel? Fissa
sì la dialettica di essere/nulla/divenire come centrale, ma legandola al
concreto pensiero del filosofo che ben distingue, pur intrecciandole,
Alienazione e Estraneazione. Entfremdung è condizione della vita storica,
della stessa vita spirituale, è l’atto costitutivo della nostra stes- sa
umanità. L'uomo è in quanto si oggettiva e crea a se stesso un mondo. Lì,
però, si annida anche l’Entàusserung, che è esser-altro-da-sé, riduzio-
ne del sé ad altro, essere dominati dai fattori storico-sociali. E questa è
la condizione della coscienza storicamente determinata, epocalmente
storica, anche se di una storia che coinvolge tutto l’assetto delle civiltà.
Entiusserung è assolutamente altro da Entfremdung, anzi ne è l'opposto, è
la differenza storica che contrassegna l’uomo così come è divenuto nella
storia stessa, che pur resta sorretta dalla legge dell’Estra- neazione.
L'Alienazione è «contingenza storica» che può essere superata. La stessa
dialettica servo/padrone si fa, qui, fondante e in senso esistenziale e
genetico, sottolinea. Da qui M. deduce due percorsi di indagine. Uno
dentro Hegel, che mostri la funzione sistematica della Fenomenologia dello
Spirito e il riconoscimento del suo ‘punto di crisi’, che la separa dal
sistema. Nel gioco delle figure dell’opera sarà quella dello Spirito
estraneo a se stesso che va valorizzata, come decisiva e ricorrente
nell’opera stessa. La «ripetizione della coscienza lacerata» si di- lata
nel percorso storico e si attua sotto varie forme. La vita spirituale,
per Hegel, resta duplicazione, conflitto, rischio di ‘disgregazione della
coscienza stessa. Ma seguita, come un’ombra, dal bisogno, attesa,
speranza, volontà della ricomposizione nell’«essenza calma delle cose».
Negatività e assoluto stanno intrecciati, ma questo è anche l’attesa di
quel travaglio del negativo. La stessa «intellezione» si fa «rappresenta-
zione», della vuota apparenza del mondo ma anche del suo riscatto,
ri-composizione, salvezza integrale del suo senso. Sotto un altro aspetto
quel saggio di M. si nutre di, e apre a, una filosofa dell’emancipazione
che vede l’alienazione come condizione sto- rica, storicamente
rimuovibile, attraverso quel riscatto della polis, che riesca a farsi
sempre di più città degli uomini e per gli uomini, come già ci ha
indicato l’erede eretico di Hegel, Marx, col suo materialismo storico. Il
materialismo storico è oggi la vera filosofia dell’emancipazione, che eredita
il nocciolo duro della riflessione hegeliana, la storicizza e fa della
storia il regno non della necessità bensì della libertà. Anzi, della
liberazione. E lo stesso M. fissa questo traguardo proprio a conclu-
sione di quel saggio: La coscienza che sorge dall’azione rivoluzionaria
sarà una coscienza che non incontrerà più l'oggetto come un'entità
estranea (ein Fremdes). Un mondo nuovo sorge come sua Entiusserung. Il
saggio su Entfremdung e Entiusserung conclude là dove si apre lo spazio
di quello storicismo attivo e emancipativo descritto proprio nel Frammento
etico-politico, allargando meglio la vista sulla tensione antro- pologica
di quello storicismo e la lettura raffinata (non scolastica, non-riduttiva,
non-oggettivistica) e aperta del materialismo storico, visto come prassi
rivoluzionaria di e per un uomo-della-città, ma anche di e per una
città-dell’-uomo. Per molti aspetti possiamo dire che siamo davanti a uno
storicismo d’epoca, con questo elaborato da M.. Uno storicismo
neostoricista, postmetafisico, critico, antropologico, emancipativo.
Anche uno storici- smo incardinato sul nesso Hegel-Marx, in cui è però
Marx a illuminare i connotati attuali e critici di Hegel. E un Marx che
non si fa ‘tribunale’ della filosofia, ma metodo per pensarla, nella sua
attualità e nella sua storia. Uno storicismo critico e antropologico, ma che
proprio ed è il suo punto di originalità e di onore - nella città (polis)
trova l’asse portante della propria teorizzazione, sottolineando
l’aspetto sociale e politico della storia stessa e quindi la lettura
dialettica dei condizionamenti e supera- menti che ogni filosofia compie
in relazione alla sua città. Per il presente/ futuro solo questo tipo di
storicismo potrà dar corpo a filosofie critiche che sull’emancipazione
vengono a trovare la propria legittimazione e il proprio compito.
Tale aspetto complesso, sfumato, problematico ma anche attuale e
pre- gnante, carico di futuro, dello storicismo di Massolo è stato più
volte sot- tolineato dai suoi interpreti, da Sichirollo a Salvucci, già
ricordati, agli altri che in anni anche più recenti hanno ripensato la
speculazione massoliana nel suo imprinting e nella sua densità storica e
teorica. Si pensi al volume su Il Filosofo e la città e ai richiami
ancora di Salvucci alla «forte attualità» di quel pensiero, proprio per
il vero e forte umanesimo che lo caratterizza e che è il frutto di un
incrocio tra dialogo/città/storia che M. ha teorizzato con vivacità e
precisione. Per questo Massolo, anche nel presente postmoderno, in questa
età di decentramento, pluralizzazione, di a-teleologismo, può fungere da
significativo orientatore. Anche Burgio, nella stessa raccolta di studi,
parla di M. e il nostro interesse per la storia, riflettendo proprio su quello
storicismo mas- soliano della maturità e sul suo statuto teorico. La
storia per M. non è «condizionatezza», è possibilità, ma secondo un senso
«posto da noi» e costruito nel tempo nella e per la città. Il vettore che
guida tale storicismo è quello di una comunità politica che si impegni a
vivere valori e fini col- lettivi, e a realizzarli insieme. Cazzaniga in
Individuo e mondo moderno sottolinea ancora l’attualità di M.
storicista. Lo chiama il filosofo della città e lo vede come
attento interprete e erede di un marxismo dell’emancipazione, da realizzare
dialetticamente nella città. Anche Sichirollo e Losurdo si attestano
sulle stesse tematiche, rimandandoci un'immagine di M. sì ‘d’epoca’, ma ancora
tutta attuale, per la vocazione politico-emancipativa e per l'identità
antropologico-sociale della sua filosofia, che si delinea come uno
storicismo molto avanzato, privato di ogni residuo metafisico e che si lega in
modo squisitamente dialettico a quel nesso storia/prassi che è un po” la
‘croce’ della filosofia moderna e contemporanea e l’osso di seppia su cui
si sono esercitati, ma anche se- parati e contrapposti, i vari
storicismi. Qui, in quello di Massolo, il nesso è di problema e di
equilibrio, è aperto e sottile, ma posto come il nucleo costante da cui
emerge e per cui emerge lo stesso filosofare. Saldando così il pensiero
filosofico alla città, che è il luogo e il simbolo di questo intrec- cio,
ma anche lo spazio in cui l’uomo può e deve realizzare se stesso. Bodei, M.,
Aut Aut, Badaloni, Ricordo di M. Giornale Critico della Filosofia
Italiana, Burgio (cur.), M., Quattroventi, Urbino, Domenico, Puglisi (cur.), Il
filosofo e la città. Studi su M., Marsilio, Venezia, Farulli, L'engagement de
la philosophie selon A. M., Revue de Métaphysique et de Morale, Landucci,
M., Belfagor, M., Storicità della metafisica, Le Monnier, Firenze, Fichte e la
filosofia, Sansoni, Firenze, Introduzione all'analitica kantiana, Sansoni,
Firenze, Il primo Schelling, Sansoni, Firenze, Ricerche sulla logica hegeliana
e altri saggi, Marzocco, Firenze, La storia della filosofia come problema e
altri saggi, Vallecchi, Firenze, Logica hegeliana e filosofia contemporanea e
altri saggi, Giunti-Marzocco, Firenze, Della propedeutica filosofica e altre
pagine sparse, Montefeltro, Urbino, Omaggio a M., Studi urbinati, Ricci
Garotti, Heidegger contro Hegel, Argalia, Urbino, Salvucci, Presentazione a M.,
Logica hegeliana e filosofia con- temporanea, Situazione e filosofia in M.,
in Omaggio a M., Sichirollo (cur.), Studi in onore di M., Studi Urbinati, Spinella,
recensione a La storia della filosofia come problema, Rinascita, Vacca,
recensione a La storia della filosofia come problema, Paese Sera-Libri, Valentini,
recensione a Frammento etico-politico, Società. Arturo Massolo. Massolo.
Keywords: prime ricerche di Hegel, la logica di Hegel, Gentile, implicatura
idealista, Ariskant and Plathegel. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Massolo” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mastrofini: l’implicatura
conversazionale e l’implicatura verbale di Romolo – la scuola di Roma – la
scuola di Monte Compatri – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza (Monte Compatri). Filosofo romano.
Filosofo Lazio. Filosofo italiano. Monte Compatri, Roma, Lazio. Grice: “I like Mastrofini; for one, he found how old
Roman evolves into what we may call new Roman, or Italian!” – Grice: “And of
course as a philosopher, he focused on the philosophical terminology – it takes
a PHILOSOPHER to translate a philosophical text!” – Grice: “What I like about
Mastrofini” is that he mostly kept with the cognates. La
Crusca adores him!” Noto soprattutto per il volume “Le discussioni sull'usura” in
cui sostenne che non è reato far fruttare il danaro e che né la Sacra
Scrittura, né i Vangeli, né la tradizione ecclesiastica vietavano di ottenere
un giusto interesse per danaro dato a prestito. Questo diede luogo a molte
discussioni ma anche apprezzamenti lusinghieri da economisti dell'epoca e
dall'opinione pubblica. In precedenza aveva
scritto un'opera di economia finanziaria, il Piano per riparare la moneta erosa
relativa all'inflazione nello Stato Pontificio, opera largamente utilizzata per
la riforma finanziaria dello Stato, intrapresa da Pio VII. L'edificio del Collegio
Romano ove insegna. Insegna a Frascatii.
Nel pieno della crisi della Repubblica Romana, si trasfere a Roma dove venne
nominato professore di eloquenza presso il Collegio Romano.Torna a a Frascati. Si
trasfere definitivamente a Roma dove assume la carica di consultore della
"Nuova Congregazione cardinalizia per gli affari totius orbis". Produce le traduzioni dei capolavori di Floro,
“Sulle cose romane,” e di Ampelio, “Sulle cose memorabili del mondo e degli
imperi.” Traduce “Le Antichità romane” di Dionigi. Pubblica “Teoria e
prospetto; ossia, dipinto critico dei verbi italiani coniugati, specialmente
degli anomali o mal noti nelle cadenze,” opera che porta un grande contributo
allo studio dell'italiano, utilizzata dall'Accademia della Crusca nella
revisione del dizionario della lingua italiana. Pubblica “Della maniera di
misurare le lesioni enormi nei contratti e uno studio sulla patria potestà e
filiazione, che ha larga eco nei circoli giuridici romani, essendo allora in
corso una causa di riconoscimento di paternità per successione tra i Torlonia e
i Cesarini. Piazza di Monte Citorio. Nell'edificio
dove abita e muore, in piazza di Monte Citorio il Comune di Roma appose una
lapide con il seguente ricordo: Abita in questa casa -- filosofo assai più
grande che celebrato fissa le incerte leggi dei verbi investiga felicemente con
l’uso della ragione i misteri della scienza divina S.P.Q.R.» “Dissertazione
filosofica” (Roma); “Piano per riparare la moneta erosa” (Roma); “Ritratti
poetici, storici, critici dei personaggi più famosi nell'antico e nuovo
Testamento” (Floro); “Sulle cose romane” (Roma, Ampelio); “Sulle cose
memorabili del mondo e degli imperi” (Roma); Dionigi di Alicarnasso “Le
Antichità romane”, Roma, “Dizionario dei verbi italiani” (Roma); “Metaphisica
sublimior de Deo triun et uno,” Roma, Appiano “Storia delle guerre civili dei Romani",
Roma, Arriano “La Storia”, Roma, ristampata da Sonzongo con il titolo “Delle
cose d'Italia” “Le usure,” Roma, “Amplissimi frutti da raccogliere sul
calendario gregoriano,” Roma, “L'anima umana e i suoi stati,” Roma, “Teorica dei nomi,” Roma, “Teorica e
prospetto de' verbi italiani conjgeniti,” Roma. Dizionario Biografico degli
Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il primo fondatore di Roma,
e dell'impero e ROMOLO, generato da MARTE, e da Rea Silvia. Tanto nella sua gravidanza
confessa di sèquesta sacerdotessa: nè la fama ne dubita quando poco appresso il
fanciullo gettato con Remo suo fratello nella corrente per ancenno di Amulio, non
potè soffocarsi. Imperoc chè il padre Tevere ritira dal lido le acque ed una
lupa, lasciati i suoi parti, e seguendo il suono de'vagiti, inboccò li sue
mamelle a' fanciulli, presentando in se stessa una madre. Cosi trovatili un
regio pastore presso di un'arbore, e portatili in casa (2 gli educa. Di que'
giorni Alba, opera di Giulo, e capitale nel Lazio chè avea quegli dispregiata
Lavinia, città del suo padre Amulio. Sopra ttutto sembra inc satto l'intervallo
da Augusto fino a Trajano Eglilo crededi anni duecento ; laddove è di anni cento
due a!l'incircd. Ma forse vi è sbaglio nel testo e dee leggersi cento in lungo
di duecento Rea Silvia figliuola di
Numitore presedeva al sacerdo zio di Vesta Quindi è dettaSacerdotessa. Nel
testo in casam: questa voce può sign'ficare capan Tuttavia par verisimile che
l'abituro di un regio pastore fosse alquanto migliore di una capanna.
L'espressione italiana comprende ogni abitazione fosse capanna o no. av.
Cr av. R. 26. na ENEA dopo finita la guerra con Turno foudo la città cui
chiamò Lavinia dal nome della moglie. Ascanio, ossia Giulo, peròdi luifigliuolo
dopolamortediEneafabbricò A!. ba Lunga la quale tu capitale del regno per
trecento anni Ani. dik. 3.av. Cr. essi viregnava, avendonecacciato il
germane suo Numitore, dalla cui figlia Romolo era n..to. Adunque co stui nel
primi bollore degli anni caccia Imulio suo zio dal principato, el'avoloviri pone.
In tanto egli amante del fiume e de’monti, vicino a'quali era stato educato, meditava
lemura di una nuovacitt). Ma l'unoe l'altro essendo gemelli; p acque loro
consultare gl'ld dj, qual de’due le fondasse e vi dominasse. Per tanto REMO andossene
al monte Aventino, el altro al Palatino. Colui pel primo vide VI avoitoj:
posteriormente videne l'altro, ma XII: e vincitore negli augurji nal Area fin quì
fatto un'ABOZZO di citta, piuttosto che una città; mancandole gli abitanti. Ma
siccome riina neale vicino un bosco;eg! 2feceunasilo; edisubia tovisi adund
moltitudine prodigiosa di uomini, Latini, e Toscani pastori, eGo ancotras
marini, sia de ' Frigj venuti con ENEA, sia degl’Arcadi con Evantro. Cosi
quasida varii eleinenti, ne trasse un corpo solo; ed e per lui creato IL POPOLO
ROMANO. Vi quel popolo di uomini e cosa di una sola generazione. Si chiesero
dunque de’matrimoni da'confinanti; e sccome non si otteneano, sono con la forza
espugnati. Imperocchè finti de 'giuochi equestri, le vergini accorse per lo
spets 747. incirca. Finalinente ROMOLO inalza Roma che diverrebbeca. C o.
za una città pieno di speranza, che guerriera diverrebbe; tanto
ripromettendogli quegli uccelli, consueti a 7 LIBio sangue e prede. Sembra che
in difesa della puova cit tá basterebbe un vallo; se non che deridendo Remo le
angustie di questo, anzi condannandole con saltarle, e trucidato; è dubbio se
per comando del fratello; ma certo ei ne fu la prima delle vittime; e CONSACrA
COL SANGUE SUO e fortificazioni della nuova città. Av. Cr. R.2 so 52 7> ro
dell'Italia e del mondo, PRIMO Spoglie opine eran quelle che un comandante
toglie all'imperadore o supremo comandante nemico uccidendolo di sua mano. Queste
sono così rare; che se ne contano appena tre. Le prime le riporta Romolo contro
di Acrone. Le seconde Cornelio Cosso contro di Tolunnio. E le terza Marco
Marcello su Viridomaro. Giove poi e detto Feretrie o perchè a lui ferebantur si
portavano le spoglie opime, o perchè ferisce col fulmine; o perchè
nell'acquistare le spoglie opime un capitano ferisce l'altro con la spada. E
questo un bel mantenere le promesse e intendere di dare alla donzella gli scudi
perchè gli scudi le vibravano opprimendola. Questo metodo di mantenere le
promesse, ras somiglia a quello usato dalla fanciulla per consegnare una porta
creduta da Floro senza inganno o cone noi abbiamo tradotto, senza malizia,
perchè non chiedeva danaro, ma gli scudi o li braccialetti. Potrà inai
persuadere questa ragione? La vergine, che quisi addita, secondo Valerio Massimo
e figliuola di Spur.Tarpejo il quale a tempi di Romolo presede alla fortezza: c
coleiera uscita per prenderc acqua pe’santi riti, tacolo, furon preda, e
cagione immediata di guerre. Furono I Vejentire spinti e fugati: la città di
Cenina fu presae diroccata: inoltre lo stesso monarca ne riporta con le sue
mani a Giove Feretrio le spoglie ooiine del re. Ma le nostre porte furon date a
Sabini per una donzella; nè già con malizia: ma chiesto avendone la fanciulla
in ricompensa ciocchè essi portavano alle sinistre, gli scudi forse o li braccialetti;
coloro e per man tenere a leila promessa e per vendicarsene la oppressero congli
scudi. Ricevuti in tal modo fra le mura i nemici ne sorse nel foro medesim
un'atroce battaglia; tanto che ROMOLO prega Giove che arrestasse la fuga vi
tuperosa de’ suoi. Quindi ha origine il tempio, e Giove Statore. Finalmente le
donzelle in lacere chiome s'intrammisero ad essi che infierivano. Così fu la pace
riordinata, e stabilita l'alleanza con Fazio. Donde ne.diR. Cr. bandonati i lor
domicilj, sen passarono alla nuova città, consociando co'nuovi generi loro gli aviti
beni perdote. Accresciute in poco tempo le forze da il sapientissimo re quest:
forma alla Repubblica. E la gioventù divisa in tribà con cavalli ed armi perchè
sorgesse nelle subire guerre: fosse il consiglio su pubblici affari ne’ seniori,
i quali si chiamano pari arringando dinanzi la città presso la palude della
capra, e di repente levato di vista. Alcuni pensano che i senatori lo
trucidassero per la ferocia dell'indole di lui. Dopo la morte di ROMOLO il
trono resta privo di sovrano per un'anno, comandando in tanto a vicenda i senatori
di cinque in cinque giorni. Quello spazio e chiamato interregno. Il magistrato
a forma d'interregno ha luogo ancora ne'se. coli posteriori quando I consoli
occupati in lontane azioni non potevano intervenire ai coinızj;o quando erano
costretti a depor. 14 LIBRO dir. seguitò, cioc chèè portentoso a dire, che
inemiciab 7.av. Cr. diR. 38. l'autorità, ma per la eta S.nuto. Ordinate in tal modo
le cose, egli SI CONDO Tav. 37 av 713 so non che la tempesta e l'oscurarsi del
sole presentaroncincid le imnagini con e di una santa operazione: alla nuale
poco appresso diè credito GIULIO Proculo coll'offermare; che ROMOLO si era a
lui dato a vedere Cr 743. informa più augusta della consueta; e che imponeva
che per Dio se lo prendessero. Piacere a Numi che egli sichiami Virinoin sul cielo.
Con tal mezo Roma conquisterebbe le genti. E' natura del Verbo di esprimere l'afermazione
e la negazione. E siccome Essere e non essere esprimono appunto per se stessi
l'affermazione e la negazione; ne seguita che il verbo Essere preso nudamente,
o preceduto dalla particella “non”, è verbo per natura e per eccellenza.
Comunemente la voce essere è nota col nome di verbo sostantivo, perchè esprime
l'esistere, o L’ESSERE di sostanza. Le qualità che si affermano o negano
possono aversi distinte o no, dall'affermazione,o negazione. Nel primo caso
l'affermazione o negazione si addita col verbo essere, come si è detto. Ma nel
secondo caso risulta un nuovo ordine di verbi più composti; appunto per chè in
essi è riunita l'affermazione o negazione colle qualità che si affermano o
negano: tali sono amare, godere, odiare, piangere et cetera, che significano
essere nell'amore, nel gaudio, tra l'odio, o tra 'l pianto. Questo secondo genere
di verbi ha servito incredibilmente a variare e fecondare il discorso, in somma
alla dolcezza dell’eloquenza, e della Poesia. Chi afferma e nega, o afferma e
nega dise stesso, che si chi a ma persona prima, o di altri a cui parla, che si
chiama persona seconda, o di soggetto a cui non si parla, e si chiama persona
terza. Per altro queste persone possono essere una, o più, cioè possono
riguardarsi in singolare, duale, o plurale. E 'naturale che tanto nella nostra
quanto nella più parte delle lingue s'introducesse l'uso di finire il verbo
diversamente secondo la diversità delle persone,e del numero. E quindi abbiamo
amo ami ama amiamo amate amano. E potendo il discorso riguardare cose presenti,
cose cominciate e non finite, cose passate, più che passate, e future; fubene varia.
Anzi siccome le proprietà si affermano o negano assolutamente, o sotto certi
rapporti e condizioni. Cosi li verbi divennero parole terminate diversamente
secondo la persona, il numero, i tempi, e i modi di affermazioni e negazioni
assolute o relative. S. 1. re il verbo secondo la persona, il numero, e i
tempi. a I 6. Questi modisono cinque: Indicativo, Imperativo,
Ottativo, Congiuntivo, ed Infinito. L'indicativo dimostra assolutamente che una
cosa è, fu, sara; e perd vien detto ancora assoluto e dimostrativo. Cosi Pietro
ama amò amerà. le scienze, forme tutte dell'Indicativo, dichiarano che Pietro
amo, ama, ed amerà, assolutamente. L'Imperativo esprime comando, preghiera, avviso,
consiglio, esortazione di far qualche cosa, e con una sola voce si vuol
esprimere il comando, preghiera et cetera, e l'azion e che deve farsi. Tale
sarebbe ama tu, amerai til, ameremo noi et cetera. Per tanto si esprime
l'azione ed il modo col quale si fa, cioè per comando, preghiera et cetera;
laddove nell'Indicativo mancano questi rapporti. L'Ottativo esprime desiderio
di fare una cosa, giusta i varii tempi; e per questo è detto ancora
desiderativo, e tale sarebbe, “O se amassi, io amerei, O avessi amato, lo
avreiamato et cetera. Il congiuntivo è così detto perché si adopera quando si
vuo le congiungere il discorso con altre cose precedenti, e perd siegue le
particole sebbene, quantunque, conciossiacosache et cetera. Tále è quel di PETRARCA
Italia mia, benchè il parlar sia indarno et c. E talequel di BOCCACCIO. .6.7.n.2.
per l'amore di Dio, come chè il fatto sia et cetera. Tra i Greci l'Ottativo ha
le sue desinenze tutte diverse dal congiuntivo: ma nella lingua latina e nella
nostra L’OTTATIVO ADOPERA LE STESSE VOCI DEL CONGIUNTIVO, se ben si rifletta. Il
verbo si dice di modo finito o determinato finchè si concepisce indicativo, imperativo,
ottativo, congiuntivo. Ma talvolta esprime indeterminatamente qualche proprietà
senz'additare ne persona, nè numero, come amare, leggere, et cetera, ed allora
si chiama di modo infinito cioè indefinito ossia non determinato. La varia
desinenza di un verbo secondo le persone, il numero, i tempi, ed i modi si
chiama conjugazione. Ed i verbi si dicono di una conjugazione medesima o
diversa, secondo che rassomigliano o no nel complesso di queste desinenze. E
siccome queste si diversificano secondo la diversità dell'infinito; e
l'infinito puo terminare in -are, in -ere -lungo e breve --, ed in -ire; cosi III
sono le conjugazioni della nostra lingua. Tutti gl’infiniti terminati in -are
si dicono della prima conjugazione come amare, balzare, danzare. Tutti quelli
terminati in -ere sichiamano della seconda, o l'infinito sia lungo o breve,
come temère,cadère, giacère, et cetera, e come credere, discendere, volgere, ecc..
I latini di queste due desinenze ne faceano II CONGIUGAZIONI diverse, come
docère e legere. Nè mancato è pur tra gl'Italiani chi abbia concepite diverse
le conjugazioni secondo l'infinito lungo o breve. Ma siccome, tolta la
pronunzia lunga e breve dell' infinito, non vi sono altri di vari, parlando
regolarmente; e siccome la pronunzia concerne il modo di significarlo in voce, non
la forma del verbo; così piùra gionevoli sono quelli che rinniscono in una
conjugazione gl'infiniti in -ere, lunghi o brevi. Spettano alla terza tutti i
verbi terminati in -ire, come sentire, uscire ecc. Chi si propone per
iscopo di presentare il prospetto de'verbi italiani dee porre sott'occhio le
varie desinenze di essi giusta i modi, I tempi, il numero, e le persone nelle
varie conjugazioni. E cið ė propriamente che noi cercheremo di eseguire. Per
vedere però più da presso il suggetto, anzi fin dalle origini, ed in tutta
l'ampiezza sua, divideremo quesť opera in due parti. La prima e tutta di Teoria
e di Prospetto generale; ed esporremo in essa come le conjugazioni latine sian si
trasformate e si trasformino nelle presenti d'Italia; la dipendenza comune de' nostri
verbi dall'infinito, e per ogni conjugazione il prospetto di qualche verbo che
serve di norma in tutti i simili e regolari -come del verbo “amare” per la
prima, de'verbi “temere” e “credere” per la seconda, e de’ 'verbi “sentire” ed “aborrire”
per la terza. Anteporremo per altro a tutti il verbo “essere” come principio di
ogni verbo, e quindi il verbo “avere” che prossimo gli succede, esprimendo la
sostanza, che passa ad ottenere in generale delle proprietà. E ciò tanto più
dee farsi; che senza questi due verbi, però detti “ausiliari”, non possono
formarsi le tre conjugazioni divisate degl’altri verbi. Dato cosi principio e
norma al prospetto di tutti i verbi regolari, verremo alla seconda parte ed
esporremo ad uno ad uno per ordine alfabetico i principali tra' verbi anomali
cioè quelli che in qualche tempo escono dalla legge consueta, ed i quali
servono spesso di regola per altri anomali non dissimili. Il prospetto e
distinto in quattro colonne. Nella prima si avranno le voci corrette, nella
seconda le antiche, nella terza le poetiche, e nella quarta le non ben certe, gl'IDIOTISMI
e gl’errori. Si avverta che non tutte le antiche sono affatto dismesse, anzi
talvolta usate a tempo adornano la scrittura: come pur le poetiche non tutte
sono così della poesia che non servano talora alla prosa. Il che si conoscerà dalle
note. GLI ERRORI SON SEMPRE ERRORI. Gl'idiotismi poi sono voci usate nel
parlare e nello scrivere familiare, non però nelle belle scritture, sebbene
talvolta vi scorrano per incuria e per arbitrio degli scrittori che le decidon
per buone, o vogliono nobilitarle con la fama già da essi acquistata. Per
compimento dell'opera spesso porremo in fine del prospetto il participio ed il
gerundio. Il primo é propriamente un nome tratto dal verbo. Dicesi participio
perchè partecipa del nome e del verbo: e come nome si declina, e come tratto
dal verbo esprime un qual che significato di questo. Tali sarebbono “amante” ed
“amato”. Tra’Latini si aveano participii presenti, passati, e future: “amans”,
“amatus” “amatVRVS” (cf. IMPLICATVRVM). Presso
noi, non si hanno che li presenti, e li passati che sono “amante”, “amato,” temente,
temuto. Tra’nostri antichi furono ideati anche i futuri come fatturo, perituro
ecc, ma non ebbero buon successo, nè più vi si pensa. Il participio passato e
descritto per lo più nella formazione de' tempi PIU CHE passati: laddove il
participio presente si troverà nel fine de' prospetti. Un tal participio può
essere messo informa di aggiunto e di attributo come se io dicessi: la virtù
possente, e la virtù a2 3. Il participio si riguarda anzi come adjettivo,
che qual participio. Per chè sia participio con ogni proprietà, dee, quando si
risolva, significare come i participj latini: come se dicesi canto possente a
diletta re: schiere seguenti le altre ecc. E ciò rileva conoscere perchè non di
raro si anno gl’esempj anzi di adjettivi che di participi, e noi pur he useremo
in mancanza di participi, tali per ogni rispetto. Gerundio tra noi e tra'
latini è una voce tratta dal verbo, la qual significa le affezioni di questo,
ma la quale non si declina come il nome, nel che differisce dal participio:
come amando, credenádo, temendo, sentendo. Da'quali esempj risulta che il Gerundio
delle prime conjugazioni finisce in -ando e delle altre in -endo. L'uso di tali
gerundi è frequentissimo nell'italiano in luogo ancora de'participj presenti. Ma
veniamo all'argomento, Come le congiugazioni latine siansi trasformate e si
trasformina nelle conjugazioni presenti d'Italia. TUTTE LE VOCALI LATINE,
FINALI DI PAROLE INTERE, NE SEGUITE DA CONSONANTI, SI CONSERVANO. Così, in AMO
ed AMARE, si conserva l'O di amo, e l'E di amare. Tutte le consonanti finali si
tralasciano o mutano. Le consonanti sono M, S, T, NT, ST. Nel caso di NT si cambia
il T in O, e però non si lascia che il T amant amano, amarunt amarono: ma
talvolta tutto l'NT si muta in RO : amassent amassero: sebbe ne in questo e
simili casi può sempre rimanere la regola di mutare il solo T in o dicendosi
ancora “amassono”. Vedi il prospetto di amare.Tutti gli “U” finali seguiti da M
o da S si cambiano in 0: POSSVM > POSSO. amamus amiamo: ma se gli U sono
seguiti da NT si cambiano in o nei presenti e nei passati, ma nei futuri in AN.
Così da legunt si trae leggono, e da amabunt ameranno. Tutti gli A ovvero gli E
precedenti immediatamente l'S finale SI MUTANO IN “I”: amas > ami; times
temi: e cosi da timeas abbiamo tu temi, e da legas tu legghi. Il che basta a
conservare la regola, ma ora si dice anche “tu tema”, e “tu legga”. Tutti gli
E, ogl'I precedent gli A, oppure gli O finali, si lasciano affatto. Timea temo,
timeam icma. Sentio sento: sentiam io senta, 4 è possente: il fuoco
bruciante, e il fuoco è bruciante: ma in tal caso NOZIONI ARCHEOLOGICHE. Non dee sperar di comprendere il trattato che
qui soggiungo se non chi conosce per le gli altri ne differiscano la lettura.
sue regole l'idioma Latino e l'Italiano: 3. non si $. Tutti gl'I precedenti gli
S finali in singolare si conservano assumendo nel futuro un A precedente: legis
leggi: a ma bisamerai, ed in plurale si mutano in E: legitis leggele. Tutti gl'I
seguiti dal solo T finale subiscono un cambiamento secondo i tempi. Ne'presenti
si cambiano in E, e ne’ futuri in A accentatolegiilegge, creditcrede: amabit ameră,
timebio temerà. Per i preteriti perfetti ne diremo più innanzi. Tutti i B
avantil'afinalene gl'imperfettisi cambiano in “V” consonante, ed avanti l'O, l'I,o
l'U finale del futuro, li B. caratteristichi della conjugazione del tempo si
cambiano in R. Quindi si trae amerò da “amabo”, ma da belabo si forma belerò
senza mutarne il primo B; perchè questo è proprio del verbo, e non della
formazione del futuro. Queste regole sono ordinarie. Vediamolo. LATINO amatis
est amamo reg. 3. e 2, ora amianio sono sono Ed eccone la maniera. Dalle regole
3. e 2. è chiaro che la prima persona debba essere so e l'ultima sono. Ora dee
sapersi che appunto tra gl’antichi si trova non poche volte “so” per “sono” in
prima persona. B. Jacop. Poes. Spirit. Venez. 1617. lib. 4. cant. 28. stanz. 12. sei amamus es еè sumus somo
este credit et c. ama reg. 2 credi reg. 2. amas sentit et c. Amo reg.i. Vedo
reg.4. vedi reg. 4. vede reg. 2. senti reg.2: Amo amat amant amano reg. Dicasi
altrettanto di Video vides videt et c. credo ITALIANO ami reg. 4. e 2. 3.
Applichiamo queste regole al presente del verbo sostantivo : Sum amate reg. 5.
e 2, sente reg.6. credis credo So e finalmente Sono i 5 se, estis semo siamo
sunt sete siete sentio sentis crede reg. 6. sento reg. 4. lo so nulla: ho
peccalo: Mi exalto quantoposso. e cant. 3. st. 2. del lib, stes. A
pinger laer so dato. E GIUSTO de Conti nella bella mano pag. 39. La seconda
persona es fu trasposta e non altro, facendo prece dere l'S. Quindi gl’antichi
dicevano comunissimamente se anche senz'apostrofo per seconda persona: come
Petrarca, Boccacci, Albertano, ed altri: ALBERTAN. ediz. di Fir. cap.23. Selegaloa moglie? non domandare di
scioglierti. Se sciolto da moglie? non domandar di legarti. E più sotto: e sìselenulo
di tanto amarla moglie. PETRARC. canz. 26. v. 77. ediz. Comminiana Spirto
beato, quale 6 Se, quando altrui fai tale? e altrove più e più volte. Il Decamerone
secondo la ediz.1718. col la data di Asterdam ne è pieno. Senza questa origine
che facono scerecheseper seconda persona è voce interae non accorciata, non
s'intenderebbe, perchè gl’antichi spesso non l'apostrofassero. Tutta via per distinguerla
a prima vista da se pronome, e condizionale, convenne in qualche modo
contrassegnarla, e si fece uso dell'apostrofo: e servendo questo a notare le
voci scorciate; si riguardo se persona seconda, come scorciata, quando non era:
e perchè tutte le seconde persone singolari presenti dell'indicativo terminano
in I Reg. 4.e seguendo le leggi generali, tal persona nel verbo sostantivo avrebbe
dovuto essere un I. Così poco a poco si ricongiunse se ed i in sei, ed ora si
crede questa la voce intera di tal persona. E cid supposto quando si scrive se
per indicarla, si apostrofa, quasi fosse uno scorcio di Signor non è giovato
Mostrarmi cortesia: Tanto so slato ingrato ! e altrove spessissimo. E GUIDO
Guinzelli Rime antic. appresso la bel la mano ediz. di Firenz. 1715. Come io so
avvolto nel Lenace visco; e se ne hanno esempj ancora nelle lettere di S. CATERINA,
in Fr. Gi.ROLAMO da Siena nel1. Tom. delle delizie degli eruditi Toscani, ed in
altri: vedi vocab. di S.CATER. alla voce essere: ma so trovasi parimente
persona del verbo sapere, nata da sapio > sapo > sao > so: ovvero da
scio regola 5. scosso so: la prima derivazione è di Menagio: a m e piacerebbe la
seconda. Ma torniamo all'intento: siccomeso era voce ancora del verbo sapere, e
SICCOME IL SAPER VERO E DI TANTO POSTERIORE ALL’ESSERE. Così per togliere ogni
equivoco, si volle piuttosto ridurre il “so” del verbo essere in sono, che
lasciarlo indistinto col “so” del verbo sapere. Chi dunque considera che il primo
verbo italiano “essere” ha la voce “sono” per esprimere la prima singolare e la
terza plurale, sappia che questo è stato UN MALE DI ORIGINE, voglio dire è
provenuto dalla FIGLIOLANZA della Italiana dalla lingua latina, in forza delle
leggi universali, che per tanta combinazione di circostanze cooperarono a trasmutare
l'una nell'altra. s e i : nè chi
procede con tal veduta può riprendersi: ma in origine non vi era bisogno, e più
che apostrofarsi, avrebbe dovuto accentarsi. sero eepere.ALBERTAN. Giud. cap. 51.
Dal savio uomo eeda temere lo nimico. Or cid fecesi per distinguere e del
verbo, dalla congiunzione e, come pure dal pronome ei solito ad apostofrarsi, e
dalla congiunzione e seguita dall'articolo plurale ili quali due e iriunitisi rende
anopere: ma col tempo, la varietà dell'apostrofe e dell'accento pote contrassegnare
e diversificare abbastanza l’e del verbo dagli e di altro valore: vedi esseren.Trovasi
ancora fra gl’antichi este per è ma rarissime volte: vedi Gradidi S. GIROLAM. ediz.
Fir.1729. in fine alla voce este; finchè prevalsero le regole generali
anzidette. Da “sumus” uscirebbe sumo o somo, e non semo. Ma siccome tutte le
prime persone plurali dell'indicativo presente nelle seconde conjugazioni
presero la desinenza in “-emo,” come avemo, tememo, ecc.,così da “sumus” e
tratto semo. Ovvero siccome tutte le persone prime plurali ora pe'rincontri
della forma loro anno rapporto con la seconda persona singolare tanto che sono
un composto di questa con qualche a g giunta, come “amiamo” da ami ed amo, temiamo
da temi ed amo et c;e siccome tal seconda singolare era se nel presente
indicativo di essere, quindi ne uscisemo e poisiamo. Chi conosce gl’antichi sa quanto
è familiare l'uso di “semo”. Ne allego un esempio dalla vita nuova di ALIGHIERI:
Per chè semo noi venuti a queste donne? E Fra Jacop. lib. 1. sat, 5. Uomo pensa
di che semo. Di che fummo, et a che gimo. Vedi il prospetto del verbo Essere In
forza delle regole generali, la seconda plurale sarebbe “estes”. Ma trasponendo
l'savanti l'E come nel singolare per uniformità maggiore con “sono”, “sei”, “siamo”.
Sen'ebbe sele, e questa appunto è la voce degl’antichi: si consulti il verbo essere
not. 5. FINALMENTE SI AGGGIUNSE UN “I” PER DOLCEZZA (“se” > “sei”) o per
distinguere tal voce da alcuni sostantivi e sen ebbe siete, che ora è la voce
più propria di questa persona. Apparisce dunque per quali gradi e per quali
mutamenti siasi formato il presente come ora si usa del verbo essere, La terza
persona si esprime con la voce “e”, che appunto RISPONDE all’ “EST” latino, lasciatene
le consonanti SECONDO LA REGOLA 2. ma gl’antichi, prima che la lingua si
modellasse in tutto, non di raro dis 7 Preferiti Imperfetti Amabam amabas
amabat amabamus amabatis amabant Amaya reg.2.7. amavireg.2.4.7. amava reg.2.7.
amavamo reg.7.3. 2. amavate reg.7.5.2. amayano reg.7. 2. Temeva
&c. legebam leggeva e e da sentiebam lasciatone l’I che è quel di sentio
reg. 4. si ha sen leva com e era nelle origini prime, nelle quali, tutto
risentiva di conjugazione seconda tra gl'italiani ne' verbi provenienti DALLA
QUARTA DE’LATINI. Non è raro che “senteva” si oda anche ora tra' CONTADINI PIU
CORROTI CHE SONO GLI ULTIMI A CORREGGERSI. E finalmente fu detto sentiya
sentivi et c.lasciando l'E per l'I. Per queste regole e questi progressi
apparisce che la prima persona dell'imperfetto doveva terminare in A amava
temeva legge va sentiva. Al presente i filosofi ed i gramatici si meravigliano,
per chè la prima e terza persona singolare combinino, e perchè la prima non
siasi terminata in O. Ma la meraviglia cessa, se riflettasi che al cambiarsi
del latino nell'italiano, si prendevano di netto I vocaboli antichi, nè si
aveano di mira che certe regole, come le indicate di sopra, per contornarli di
nuovo. E siccome tutte le prime singolari degli imperfetti levatane la
terminazione latina in M ; restavano amaba legeba ec; cosi mutato il “B” in “V”
non poté farsi a meno d'incorrere nel lo scoglio anzidetto. Molto più che in
que'tempi non faceasi poco, se le parole non sapevano di latino. Veduto come
siasi introdotto l'equivoco, ora tocca ai filosofi di emendarlo. Ttanto più che
non siamo poi scarsissimi di esempii antichi pe'quali si compionoin o le
persone prime singolari dell'inperfetto: de'quali mi piace allegarne qui alcuni
riserbandone altri ailor verbi nel prospetto. Petrar. Vit. De Pontef. Ed Imperadori:
VITA DI CALIGOLA, lo PREGAVO ogni giorno che Tiberio morissi. Così pure
leggiamo in Fr. Jacop. 1. 4.can. 38. La cagion del mal FUGGIVO. Cavalc. Epist. di
S. Girol. ad Eusloch. cap. 3. ediz. Rom.. E vedendomi io venir meno quasi ogni
rimedio ed esser privato di ogni ajuto, GITTAVOMI a' piedi di Cristo &c....
iratoame medesimo erigido, solomi mettevo per li diserti, e dove io trovavo più
oscure e aspre e profonde valli, e aspri monti o scogli pungenti o luoghi più
aspri e spinosi; ivi mi ponevo in orazione. Pulci. Morg. c. 3. 62. lo mi posavo
in queste selve strane. Da Timebam così pure si ebbe C. XI. 83. Tal ch'io
pensavo d'aver acquistato. 8 ec.16.44 Per Dio, cugin, ch'i'sognavo al presente,
Che un gran lion mi veniva assalire. Onď io gridavo, echiamavo altra gente E
però E con Frusberta il volevo ferire. e altrove più volte. Letter. San. CATER.
di Sien. ediz. di Aldo pag. 14. a tergo. Dicevo: Signor mio io ti priego et c.
e pag. 20. vi aggiunsi anzi che io volevo in voi la perfezione della carità pag. 92. desideravo divedervi: anzi
tal voce desideravo si legge molte volte inquelle lettere. Vita B. COLOMBIN. ediz.
di Roma pag.9. lo gode voé voi non mi lascia testare, e pag. 96. ad irviilveroio
andavo a posarmi; pag.167. 0 figliuoli, e fratelli miei io non meritavo di es
ser padre di tanta buona gente; pag. 174. E questa la compagnia che io dal e speravo,
e pag. 299. Pensavo che quanto è maggiore la soggezione e l'unità ; tanto si
vien piuttosto ad aver libertà : Vedi ero n.6. verbo essere:e n. 6. avere. Eram
Erant Erate reg. 5. e 2. e quindi Eravate avevano reg. 7. 2. Imperocchè ben è
facilissimo concepire, che se cambiavasi in questo tempo in V il B precedente
l'A finale, potevasi cambiare in V parimente anche l'altro B: anzi parea troppo
ragionevole, perchè non si notasse tanto di variodi usi in parole medesime, e si
familiari. E' poi noto, che tutto il verbo “avere” si scrivea ne’ principi, e
si scrisse a n cor dopo per lunghissimo tempo con l’ “H”” precedente: ed ora
per un progresso, non saprei quanto considerato, si tralascia ancora nelle vo
ci, che forse ne abbisognano. Ma giova esaminare ancora come siansi
trasformati gl'imperfetti de'verbi ausiliari: Eccolo 9. Si possono da tutto ciò
comprendere le cause de'cambiamenti prodotti nel presente di habco: seguiamoli
via via, che'non sarà inutile la ricerca Lasciato l'E di habeo reg. 4, e le
altre consonanti, e cambiatele giusta le altre regole, risulta 9 Era reg. 2.
Eramo ed erale presentano Erano reg. 2. le voci come si traevano dal latino in ottima
forma. Ma il va inserito eramus ed eratis Eras Era reg. 2. in eravamo, ed
eravate negli altri verbi, mentre in suppongono il B cambiato in V, come dunque
di vainera questa consonante. Tale aggiunta affatto manca la origine, nè fu,
che una intrusione vamo ed eravate è contro per di altri verbi, che usciva,
nato dal sentire le voci consimili isbaglio amayate &c. Il peggio no in
quel modo, come amavamo, non dandosi quell'aggiunta fu che si anche alle voci
era tolse la uniformità tiranno delle lingue, autorizza erano et c. Non dimeno
l'uso, quel, più che le semplicie naturali vamoederavale essere, n. 6. Ma
diciamo si trovino pur queste. Vedi que risultasse. Eccone la maniera fetto di
avere, è come Haveva 8. Habebam habebas Habeva habevi era eramo erate, quantun
dell'imper Aveva reg.7. 2. habebamus aveva reg. 7. 2. habebat habeva habevamo
habevate habevano haveva havevamo avevamo reg.7.3.2. avevate reg. 7. 5. 2.
habebatis habebant havevate havevano Erat Eramus Eratis Eri reg. 4. e 2. Eramo
reg.3. e 2.e quindi Eravamo havevi avevireg.7. 4. 2. b abbemo
abbiamo &c. Forseil B fu raddoppiato per compensare la perdita dell'E nell’
“habeo.” Sia comunque, abbosi legge ancora in ALIGHIER, Infer. 25. E quanto io
l'ABBO ingrado mentre io viva: E negl iAMMAESTRAMENTI degl’antichi certamente
abbo provato; e più sotto: ripenso la seraa quello che iolo di abbo detto.E
nelle Vite de’ SS.PP.e diz. Man.Fir, 1731., nella VITA DI GIOSAFATTE ediz. Rom.,
e nelle Noyelle antiche Fir, 1572 l'uso di “ABBO” è comune. Abbi è rimaso nel
Congiuntivo. E 'poi noto, che gl’antichi usavano la seconda singolare presente
dell'Indicativo ancora nel Congiuntivo, come resta tuttora in molti verbi, Così
ami serve in tutti due i tempi alle due seconde persone singolari,e cosi temi
può servire ancora, sebbene ora vi siano dei divarj. Sopravvanza nell'uso
comune abbiamo; e siccome gl’antichi finivano le voci per tali persone in eino,
cosi non vi è dubbio che ne'principj si dicesse “ABBEMO,” quantunque negli
scritti forse non si trovi, per la rapidità di altri cambiamenti succeduti.
Certamente l'uso di scambiare tutti i B nell'imperfetto di “HABERE,” di buon
pra scorse in alcune, o in tutte le voci del presente, e si trasse da Habo Avo
habi ave avemo avete habono avono ave resta tuttora tra’ poeti, e fu non meno
della prosa. Vedi questa voce nel prospetto di avere. Avemo é comunissima tra
gli’antichi. Avete rimane per ogni scrittura. Le altre tre voci presto furono
cambiate: perchè siccome l'V consonante ha un suono come di vi, o di un i
sibiloso; così specialmente se l'V sia doppio, l'avo, oppure avvo per abbo, fe
sentire nella pronunzia questo i quasi doppio.E quindi è che il B. JACOPONE
lib. 1. satir. 9. scrive Nè ferma fede per esempio ch'AJA; Franc. BARBERINI
edizion. Roman. pag.189. Non veggio ancor chi contento AJA il core. E Francesco
SACCHBTTI disse ajolo per lo ajo, cioè per lohu. S'insinud tal cambiamento
nella seconda persona avi, é mutato l'V in I, se ne habet abbi 1 habemus
habe habemo habete abbe avi da Habeo Abbo habes Ch'io n'ajo una si dura e più
sotto: ajo portato in core et c, ed altrove più volte: anzi usa “AJA” per
abbia:lib.1.sat. 12.3. 10 Illuminato mostromi fore, E ch'AJA umilitate nel
core. ALIGHIERI, Parad,17. fece huii, e col tempo hai. E questa è
la causa, per la quale ora ci troviamo con “hai”, seconda persona del presente
dell'Indicativo, senza che volgarmente se ne intenda la origine. Può notarsi
però che in forza della provenienza di hai l’i finale è risultato da un doppio
i; e quindi seguendo le origini, avrebbe dovuto scriversi “haj”: e ciò sa rebbe
stato opportunissimo pe' giorni nostri, ne'quali vuolsi lasciare anche l'h
precedente. Imperciocchè chiarissimamente si distinguerebbe che “aj” è del
verbo, senza pericolo alcuno che si confondesse con l'articolo plurale “ai.” La
mutazione del doppio B in V ed in I doppio o lungo, al meno quanto al suono,
porto l'altro cambiamento in aggio, aggi, aggiamo, aggia, aggiano: essendonoto
che l'J lungo si cambia spessissimo in tal modo:e questa è la causa parimente, per
cui si dice veg go veggiamo et c. Imperciocchè nelle prime origini si disse
ancora vejo vej veje per vedo vedivede: si consulti il prospetto di vedere.
Quindi 'Imperador Feder. Rim. ant. 114. Rispondimi Signor ch'altro non chiejo.
Da crejo è propriamente quello scorcio, che pur si usd tra'poeti di cre' per “credo”,
quasi crejo fosse cre io. Vedi il prospetto di credere. Ant. Pucci nel suo
Centiloquio can. XI. terz. 27. scrive: Gli comandò che giù sedesse al piano.
L'ultimo verso assai dimostra, che sie fu detto per siedi: E siccome in ALIGHIERI
Inf. 27.53. si trovasi e'per siede; parchiaro che ambedue de rivino da sejo.
Allego un esempio di “trajamo”: BOCCACCIO: g.8. n.5. lo voglio che noi gli TRAJAMO
quelle brache del tutto: da ciò ben apparisce la origine di traggiamo &c.
12. Ridotto havi ad hai; dovea sembrare che fosse di netto stato levato l'V
consonante, quando erasi inviscerato nell'j: e cið comparendo, era facile di
lasciarlo pure nella terza persona have, e formar ne hae come si trova in Fr.
Jacop., in Guid. Giud., in ALBERTANO, Di voi,chiaritaspera. Rim .Allac.
408 Ciulo dal Camo Cose da non parlare. anzi avverto, che tra gl’antichi si trova
ancora crejo, chiejo, sejo, trajamo, donde sono creggio, chieggio, seggo, lraggiamo
&c,enon dalla mutazione del D in G come si tiene, forse meno propriamente
dai Grammatici. Cosi Fr. Jac. lib. 5. c.3.12. secondo che io crejo: e nelleno
te vi si legge: crejo,creggio,credo, e lib. 5. can.25. 12. II E vejo li
sembjanti Quando ci passo e vejoti. F. Jac. lib. sat. 3.9. la sera il vei
seccato. lib. 6. can. 45. 4. Che vee con vista acuda disse l'anziano: Sie giù a
pena di cento fiorini: E volendo pagare a mano a mano, E l'anziano a pena di
dugento b2 12 e generalmente negl’antichi. Cost Albertan. al càp.
12. L'avar7 sempre ha e le mani di stesepertorre. ..ivi l'avaronon haesicura
vita. I Grammatici han creduto che quell 'E sia stato sopraggiunto all'ha per
genio della lingua, che non amava finire le parole in accento. Ma questo sarebbevero,
quando la parola originale della terza persona fosseha, ciòche è falso; essendo
questa habet, habe, have. Hae dun que non èche have, toltone ”v per simiglianza
di quanto era accaduto in hai, ed in hajo. 13. A questo proposito avverte, che
non di raro fra gl’antichi si legge dae, fae, slae per dà, fa, sta, come
leggesi trae, e come hne per ha. Anche gli E di dae, fae,stae, si credono
aggiunti per la ragione medesima: ma egli è FALSO UGUALMENTE; perchè dai ruderi antichi della lingua può
concludersi ta esistenza degl'infiniti, daire, faire, staire, come esiste
traire. Ora da quegl' infiniti daire et c. sorge naturalissimamente dae, fae, stae,
cometrae, che ancorc irimane da trai re:vedi S. III. di questa Prima Parte
sotto il titolo Dipendenza delle conjugazioni italiane dall'infinito, n.2.E
quindi pure sono le voci dai, fai, stai, come trai, che altronde sono
inesplicabili. A dichiarare quanto dico sappiasi, che Fr. Jacop. lib.6.c.10.st.
20.scrive A chi gli dice villania et c. Fra duo ladri allo staia. e lib. 4. c.
1o. E che al povero dala. elib.6.c.43.5. Ch'egli è il daenteeti il ricevitore:
e lib.7. c.9. II. Staendo in quest'altura dello mare: Vita S.Maria Mad. É
cosistaendola poverettasì per l'amore che gid ave v a con celto di Gesù Cristo,
si per la doglia ; cominciò a piangere. Parimente in Fr. Guitt. si legge più volte
faite alla pag. 36, e faie alla pag.54. E nel TESORETTO: ponelemente al beneche
faite per usaggio: e Franc. BARBERINO pag. 17. Faesselei di quel pregio degnare.
Nei GRADI di S. Girolamo alla voce Fa il e nell'indice si dichiara, chel’idi faiteè
un aggiunto,e non più:ma faie, faesse, e le voci slaca, daia &c. ne'verbi
simili palesano il contrario: e Traire si legge in Fr. Guit. lett.2. pag.9, ma
traers spiega ugualmente la origine di trae, come fae sorgerebbe ancora da
faere, del quale fece uso Franc. BARBERINO nel verso allegato. Per tanto gli E
di dae, fae, stae NON SONO AGGIUNTI, come si pensa, MA SONO NATURALI; ed ora
non si è cessato diaggiungerli, ma sono stati tolti. Tornando alle voci hai ed
hae, siccome in queste era perito \'u consonante; così poco a poco si tento,ma
non riusci, di farlo pe rire nelle vociavemo, avete: e non è infrequente di
udire aemo, aele; e nel futuro dell'Indicativo, e negl'imperfetti dell'Ottativo
trovasi scritto arò, arai, arei, aresti' &c.come vedremo. Non prevalendo
pero quel tentativo, siri serbarono le voci avemo, avete, e talvolta aviamo,
aviate, aggiamo, aggiate. Essendosi creduto, che l’E di hae fosse ag giunto;
presto fu stabilita ha per terza persona; talchè le prime tre fossero ho, hai, ha.
La terza plurale divenne harno; perchè dall’ “habent” sifece haveno, haeno,
hano, hanno,ed esistono ancora'esempi di dano, fano et c. per danno e fanno,
voci similissime nella origine, com me è chiaro: vedi S. III. 12. 15. Ma
passiamo ad esaminare come dai perfetti de'verbi latini si traessero quelli
presenti d'Italia. Potrà ciò conoscersi ne'verbi comuni ad ambe le lingue, ma
terminati secondo i metodi di ciascuna: E noi su questi rifletteremo. I Latini
sincopizzavano il perfetto in più voci, togliendone il VI, o il Ve. Per avere
dai perfetti latini l’italiano corrispondente, silasciil VI, o Ve in tutte lepersone
per quanto si può senza contradire alle regole generali del s. I. Quindi nel la
persona prima singolare dee lasciarsi il solo V, non potendosi togliere l'I
finale, secondo la regola prima. Si noti, che la terza singolare risulterebbe
simile ad alcuna voce del presente, e quindi nelle origini si accentava: ma ora
se la voce finisce in A, si muta in O accentato. La prima plurale sarebbe amamo
come nel presente, e quin di I'M si è raddoppiato. Del resto in Gio. VILLANI
nella edizione fatta procurare da Remigio Fiorentino in Venezia si vede gran
quan tità di persone prime plurali dei perfetti, scritte con un semplice M :
come tememo per tememmo. Altrettanto si osserva in Fazzo degli Uber ti, nel
Cavaliere Jacopo SALVIATI Tom. 18. Delizie degli eruditi Toscani, nella Cronica
del Pitti, ed in altr’antichi; indizio che per tali vie si passava dal latino
all'italiano in questo tempo. Anzi Celso CITTAD I ninelle sue Origini della Toscana
favella osserva al cap. 6. che i Sanesi in tali persone non davano asentire che
un M, quasi pronunziando facemo, dicemo &c, ed egli con pari ortografia
scrisse tali voci. Ma Girolamo Gigli nel suo Vocabolario di S. Caterina noto
alla lettera M, che a'suoi tempi (vuol dire un secolo dopo il Cittadini)
quell'uso era perduto. Serbate dunque anche le regole generali del n. primo,
avre di Ama(v)i ama (viisti ama(vit) ama(vi)mus ama(vi)stis ama (verunt Amai
amasti amd amamo amammo amaste amarono. Dai Latini si disse ancora amávere:
toltone il ve, si ebbe Vita Lano amare, e perché non si confondesse con
l'Infinito, si muto l'E i n o, e si ebbe amaro per altra terza persona plurale.
I Grammatici han ereduto che amaro sia precisamente una sincope di amarono,
toltone il no. Á me però sembra che amaro sia voce intera in sestessa, e
provenuta altronde, come ho dichiarato. E questa è la ragione, per cui amaro
può troncarsi ancora, e dirsi amàr per amaro, laddove le troncature delle
troncature non sono consuete, almeno nella lingua, come ora si trova. 13
mo 17. II P. Bartoli nella sua Ortografia riguarda come un incanto che le terze
plurali del Perfetto indicativo scorciate tre volte s e m 14 pre
significhino lo stesso con quadrupla desinenza: amarono, amaron, amaro, amàr. Ma
l'incanto, se ben si consideri, non è che un caro abbaglio di un animo, che al veder
primo si appaga, stanco delle molestie di riflettere. Imperocchè da amarono
sitragge amaron, e qui cesserebbe la troncatura: ma perchè levato anche l'N ci
troviamo da amaron in amaro, desinenza ancor buona; si è creduto, che tal bontà
risulti in forza di uno scorcio: laddove amaro già era legittima desinenza in
se stessa: e perchè tale, ammettevasi; non perchè nata da amaron, levatone l'N.
A parlar dunque propriamente si hanno due desinenze, amaro, ed amarono, ed ognuna
ammette uno scorcio, ama rono porgendo amaron, ed amaro la voce amar, col vago
incidente, che se da amaron si spicca l'N finale; ci troviamo alla desinenza
seconda, la quale è amaro. E siccome amaro è desinenza intera in se stessa; di
qui nasce che gli scrittori del buon secolo, ed alcuni ancora del cinquecento,
come il DAVANZATI ne fecero tanto uso: laddove le altre sincopi amar ed amaron
sono assai più rare, spacialmente in prosa. Anzi si noti, che nelle NOVELLE
'ANTICHE la desinenza in aro è quasi la comune, laddove l'altra in arono vi è
scarsa, e meno pregiata. Ma proseguiamo l'esame de perfetti: e prima nella
terza conjugazione. Audi(vi audi(ve)runt Audii audisti audi audimmo audirono
udiste udiro. proviene udiro dall'audivere, come amaro dall'amavere. E'poi noto,
che nelle origini della lingua si disse in italiano anche “audire” finchè l' “au”
si chiuse in “o”, cone nelle voci aurum, tesaurus,dalle quali si trasse “oro”, “tesoro”
&c, e se n’ebbe udii, udisti &c.Vedi questo verbo nel prospetto. Debui
debuimus debuerunt Devei,. Pertanto abbiamo da dové doveste udisti
audi(vi)t udi audi(vi)mus udimm o audi(vi)stis. Riguardo alle seconde
conjugazioni, avanti l'I finale vi è l'U vocale, e non consonante, quindi
regolarmente parlando tutto l'UI o l'UE si muta in E semplice, avvertendo, che
l'1 finale nella prima persona dee conservarsi secondo i canoni generali
debuisti Dovei deve, audiro devemmo, deveste, deverono, audi(vi)sti audi(vere)
debuit debuistis debuere doverono dovero. audiste devesti, dovesti devero,
Siccomel'U fu cambiato in E(dovei) gravato di accento, quindi nella terza
persona non potea non dirsi se non dovè seguendo le regole ge Udii udirono
dovemmo nerali, o “dovèt”, trascurando la regola sulle consonanti
finali; e da que. sto nacque che per istrascico di pronunzia fu detto ancora
dovette, come dalla voce Giudit PETRARC. Trionf. fam. c. 2. v. 119. Non fia
Guidit la vedovellaardita, si è fatto Giuditta, e come da Josafat, DANTE Infer.
10.v. 8.Quando da Josafat qui torneranno, si è prodotto Giosafalte comunemente.
Fattosi dovei, dovė, o davèt, fecesi quindi per coerenza doveltero e dovelti: e
cosi questi preteriti ebbero doppia desinenza: e si disse temci e temetti, teme
e temette, temerono e temettero. E' poi tanto vero, che questa è la origine di
temetti, tèmel te et c, che siccome lo stesso argomento vale per le terze
conjugazioni; così talvolta si scontra ancor questa desinenza applicata alle
medesime. Ond'è che trovasi fuggi, fuggi et c; e nelle Vire de SS.PP. ediz. Man.tom.1.pag.20.
fuggitte,e nella pag.125 salitlepersa li: una nolle, essendo questi ito, alla
casa di una vergine Cristiana o per rubare, o per altromalfare, salitte con
certi ingegni il tetto della casa. Anzi questa ragione è sì certa che
spessissimo le desinenze in ilte come salitle et c. furono modellate affatto a
norma delle altre in elle, cioè di temelle,credette et c. Quindi è che nel
medesimo tom. 1. delle Vit.deSS.PP. se in alcuni esemplarisi legge fuggitte, in
altri, sihafuggelte: allapag. 101 ediz. citat. Vi è fuggetti per fuggii: nella
62, uscite per uscì, nella 71 irrigi delle per irrigidi, nella 73 finette per
fini, ed Pucci versificatore famoso del trecento nel suo Centiloquio al can. 2.
st. 69 ha sentelle per senti; ed Oito impe rador che ciò sentette, e così altre
se ne veggono in altre pagine ed opere. Simile terminazione non potevaaver
luogo nella prima conjugazione, perchè l'amavit, secondol'uso di cavarne il volgare,
cessadove è il secondo a, dicendosi amo,e non cessanell'I con farsentire un
amavit: il che direttamente gli avrebbe causato la uniformità, che'mai non
ottenne: ora la desinenza in illi ed etti et c.è del tutto abolita per le terze
conjugazioni: rimane ancora la cadenza in etti e dette, &c. per le seconde
conjugazioni; ma forse, almeno in più verbi,è men cara che nelle origini della
lingua, come potrà rilevarsi dal prospetto de' verbi, che soggiungeremo. E
giacchè consideriamo il rapporto fra le desinenze delle terze persone de’ preteriti
dell'indicativo, piacemi dilatare ancor più la serie delle riflessioni, picciole
sì, ma pur necessarie per chi brami co noscere intimamente la lingua, e suoi
movimenti. Ho detto di sopra, che dall'amavit, debuit, audivit si tragge amò, dove,
udi, abolendoin tutto, quel vit finale: ma questa è piuttostola regola, che ora
predo, mina. Del resto quando la lingua pendeva incerta sul fissare le sue
desinenze, talvolta tentò rendere queste, tutte simili alla cadenza del. la
prima conjugazione, e tal altra a quella della seconda. E certo quell'amavit
ebbe talorauna desinenza come amao: di che produco un esempio luminoso di FR. Jacop.
lib. 2.can. 2. Quando che in prima l'uomo peccdo Si guastò l'ordin lullo
dell'amore: E questa è la causa, per la quale ora diciamo “amarono”,
lassaro no, e non “amorono”, lassorono et c. vuol dire questa è la causa, per
la quale la sillaba antipenultima è un a, e non un o. Tutte le terze plurali
nascono nel preterito con aggiungere alla terza singolare un rono, o un
semplice ro, ne'perfettianomali, o simili aglianoma li. Così diciamo sentirono,
temèrono, crederono, sparsero, videro et c. Pardunque la original terza persona
quella de'contadini “amà,” “lassà”, et c.
e quindi sen ebbe amarono, lassarono, e non amorono, las sorono
&c.desinenza che leggesi in molti antichi: Così nelle Vite de’ Pontefici di
PETRARCA visileggeandorono, seccorono, e
simili ordinariamente. Venturi traduttore di Dionigi di Alicarnasso è pie no di
tali cadenze. Forse a dire amarono, lassarono &c.vi contribui pur LA
DOLCEZZA per non avere insieme tre o finali amorono, lasso rono et c. Nel modo
poi che il vit era supplito da un o nella prima conjugazione; lo fi pure nelle seconde
e nelle terze: e quindi sono le voci temeo, credeo, poteo, aprio, finio, udio,
e simili, tanto frequenti ne gli Scrittori. Ora queste desinenze, per le prime
conjugazioni sono spente in tutto: ma nelle altre conjugazioni rimangono
tuttavia per li poeti, e l'uso moderato può riuscire utile non meno che
dilettevole. Chi non bene conosce le primizie della lingua, meravigliasi che
imo di poteo, lemeo, udio &c. fossero comunissimi. I Grammatici dissero che
l'o finale SI AGGUNSE PER LICENZA POETICA. Ma cið non ispiega perchè voci di
questo conio abbiansi frequentissime ne'vecchi prosatori, come nelle Storie dei
Villani, nel Davanzati, ed in altri. Dir finalmente che l’o si accresceva per
non finire in accento, era un luogo comune, un parlar di abitudine, e nulla più.
Si doveva avvertire, che quest'ori ceveasi da tutte le conjugazioni nelle terze
persone singolari de'pre 16 Nell'amor proprio tanto l'abbracciao ; Che
n'antepose se al creatore. E la Giustizia tanto s'indignao; Che la spogliò di
tutto suo onore: Ciascheduna virtù l'abbandonao, Gli fu il demonio dato
possessore: Nel tom. 12 degli Scrittor. Ital. Del MURATORI trovasi inserita la Memoria
di Messer Lodovico di Buon Conto Monaldesti su la coronazione del Petrarca: costui,
che lavidediperse, cosìscrive:Poi comparve lo Sena tore in mezzo a muti
(molti)cittadini, e portao allo capo soio (suo) na corona di lauro,ese assettao
alla sedia, e poi s'inginocchiaoallo senatore et c. Si vede in questi esempi,
che si accento l a preceden te il vit,e questo vit fu supplito con un o.Più
volteho notato, che presso alcuni contadini appunto ne'dintorni di Roma dicesi
difforme mente amà,lassà,&c.per amò, lasciò come ora è laregola: Tocca al
filologo accorto di rintracciarne le provenienze:esse non sono che per lo
scorcio naturale,che si faceva della lingua parlata sotto questo cie lo
da'nostri antenati. teriti, e la uniformità medesima avrebbe fatto
conoscere, che era un supplemento del vil, risecato dalle voci
latinecorrispondenti, o pure una proprietàdi cadenza;e con cið sarebbesi
dichiarato perchégliAn tichiusassero temeo, udio,e simili,promiscuamente in
ogni scrittura, senzascrupolodiriprensioni. E'poitantomanifestochequell'O non
si aggiungeva per non finire in accento, che nel Dittamondo si tro va unito
anche alle prime persone della terza conjugazione, leggen dovisi nel 3 lib.
cap. 15 udio per udii : 22. Tornando al nostro principio, apparisce dal fin qui
detto che sitento chiudere in tutte le conjugazioni con desinenza simile
allaprima:ma perchè l'uso non eraancora ben fissoe comune, si tento per eguale
maniera terminare tutte le terze singolari d e' prete ritiinE,comein E finisce la
terza singolare nella seconda conjugazione. Quindi è che troviamo amoe, teme, finie,
e similicon tan ta abbondanza di esempj. Faz. Dittam. lib. 4 cap. 20 23. La chiusa
delle terze persone tutteinO,ovverotutteinE,de riyava dallevoci corrispondenti
latine, finite tutte in un modoamavil, timuit,audivit.Era difficile abbandonare
ogni somiglianza nell'italiano,с 17 Passato poi Suasina, io udio et c. e
cap. 16 Secondo ch'io udio, e'l nome prese e cosi nel lib. 4 cap. 4 vi si legge
sentiu per io sentii, e nella Vin LadiGiosaf.pag.31 uno essemplo tidico chel'udio
direa uno molto savio uomo : e pag. 34 lo ritornerò nella mia casa onde io
uscio. Novell.ANTIC. Firenz.1572 novel. 20 lo poi che mi partio,abbo avuto
moglie efigliuoli. Etic.di Arist. compend. da Ser BRUNET.ediz. Lion. pag. 100 quando
io udio le loro parole, non mido lea &c. Gli o dunque di udio,finio, lemeo
et c. in terza persona, non sono licenze di poeti,non aggiunteper iscansare
gliaccenti,ma regole o modi di terminazione, e risultati di una lingua, che in
altra si trasmutava,come or ora meglio dichiareremo. Che amoe si;che'lsipuò dir
percerto. e . Che rifutoe l'onor di tanta manna. Vit. de S S. P P. inciampo e in una pietra, e fece alcuno
strepito: pag.10 con molte lagrime cantoe salmi, e pag.6 ľani male si levoe a
corsa, e fuggie:pag. 43 per la sele l'uno morie,e pag. 47 udie una voce che gli
disse et c.'Or questa uniformità fa vede re,come dianzi ho pur detto,una
proprietà di cadenza nelle terze persone singolari del preterito in su le
origini della lingua, e quin di è che se ne abbiatanta copia ancora
ne'prosatori;e tanto èlun gi che l'E si aggiungesse perevitare l'accento,che ci
è facile tro yare temè,ma non temee; se non forse per la rima.Cosl Dante dis
sePurg.3212 senza la vista al quanto essermife e permife,voce interain
sestessa,come vedremo nella seconda parte al num.6 del verbo Fare. dopo che le altre persone omologhe del
preterito si erano concordate nella desinenza.Così tutte le prime escono in
I,amai, temei,udii, tutte le seconde in sti, amasti,temesti,udisti:e
tuttelepluralihan pari concordia di finale. Or come poteasi tralasciare quesť
armonia nelle sole terze del singolare? Questa è la origine vera degli O e
degli E che si aggiungevano, e non le sognate fra le minuzie di una grammatica,
che inaridisce. Col progressodel tempo sivolle trascurare
quellaparitàdicadenza, e le voci sichiuseroin 0, in E, inI,ac centandole
finalmente, sebbene quelle chiuse in O si trovino spesso tra gli Antichi
senz'accento comeinFazio degli UBERTI, e nelle NoVELLE ANTICHE.Ed
oranoi,lucidiesseridi unsecolointelligente, go diamo su la idea dolcissima di
una lingua perfezionata. Ma i gravis simiAntichi,colle mire ch'essi
aveano,questi Antichi io dico, risor gendo,ne sarebbero in tutto persuasi? E cid su le terze persone singolari
de'preteriti: ora torniamo al verbo temere o dovere, dalle considerazioni del
quale siamo qui per venuti. Si noti che doverono e temerono ammettono le tre
solite scor ciature Lemeron, temero,temer,come amaron, amaro, amàr,perchè da
lemeron ci troviamo all'altra desinenza intera temèro prodotta da ti muere,come
dovèro dadebuere: laddovedovellerononsopportacheuna scorciatura
appena,potendosi faredovetter, ma non proceder più oltre; perchè le nuove
scorciature non ci fanno casualmente trovare in altra desinenza compiuta in se
stessa.Tanto è vero quelloche siadditonel 3. 17. E'certo che ne'perfetti delle
seconde conjugazioni italianeso no le irregolarità più grandi: ma non ho veduto
che altri notasse in esse un incontro curioso: cioè la irregolarità non
concerne mai se non la prima persona singolare,e le dueterze singolare e
plurale,mentre tutte le altre persone si trovan sempre comela regola
chiederebbe. Cosi nel preterito rompere abbiamo ruppi, ruppe, ruppero anomale;
e le altrevocisono rompesti,rompemmo,rompeste,come vorrebbe la indo le di un
perfetto italiano regolare rompei, rompè et c. Tal cosa è so vente osservata e
confermata con esempj nel prospetto. E m m i più vol. te nato il prurito
d'indovinare onde sia talearcano di lingua. A me ne sembra la origine
dall'avere le terze persone plurali una seconda desinenza derivatadal latino,per
esempio rupere ond'èruppero,enon daruperunton d'èrupperono, oromperonoBo'i
reg.2, chepursitro ya negli Antichi: vedi ilprospetto di questo verbo.
Romperono ha l'ac cento,che riposa in su l’E: e quindila terza singolare non
può es. sereche rompe, e la prima rompei; laddo veruppero hal'accento nell'U,
restandobrevelaE.Quindi perleggedicorrispondenzalaterzasin golaredee tenere
l'accento anch'essa nella vocale precedente, e non nella finale; altrettanto
dee succedere nella prima singolare: e per ciddeemancarel'E diEInella desinenza,
giacchèl'E diEIintutte le conjugazioni seconde è gravato di accento; efinalmentedee
cavar seneruppi, ruppe,ruppero. Ma rompesti, rompeste,rompemmo non pos.
18 già 26. Ma diciamo qualchecosa de'perfetti de'verbiausiliari.Nascono
fuit fusti fosti C2 sono non avere l'accento sull'E in forza
dellaformazione loro,essen do in esse la E seguitata dalla doppia consonante S
T, M M. Quindi non possono non esser tali come romperono, quantunque poco o
nulla usate, come avviene in molti se provenissero da rompei, rompe, verbi
irregolari. E per cið l'anomalia de'preteriti non può concer nere se non la
prima singolare, e le due terze persone singolare e plurale de'perfetti. Questo
discorso vale eziandio ne'verbi ano mali di terza conjugazione ; dicendo dell'I
quanto si è detto dell'E. Potremo da ciðtantomeglio persuadersi, cheamaro, temero,&c.
sono desinenze piene in se stesse, e non sincopi di amarono merono et c. fuisti
Fui da Fui fuistis fuerunt fuere fummo fuste foste furono 19 fuimus furo Questo
tempo somiglia in tutto al preterito debui o timui della se conda conjugazione
latina,alla quale appartiene ilverbo esse,o pure essere secondo che leggesi in
Plauto. Pure esso nelle persone non ha subito la legge di mutare l'UI:ma ciò
non è stato senza una ragio ne: Imperocchè dando luogo a tal mutazione,
sarebbe risultato fei, fe sti,fe et c, e questo è il preterito appunto del
verbo fare: purtroppo si osservano tra gli Antichi talvolta le voci del
preterito del verbo sostantivo piegate in quelle del verbo fare: Cosi Fazio
degli UBERTI nelsuo Ditcam.1.4c.8 dissefoperfu. Per il diluvio chefositene
broso:Filip.Vil,nelprologo allesueStorie:con lo stile che aluifo possibile:e
Faz. Nel Ditlam. lib.3 cap.22 infinescrivefonno perfurono,e Fr.Guitt.let.12, scrivefoe
per fu:e Fra Jacop.1.2 can.172 scrive fom per fummo.Per nonconfondere dunque
una cosa con lealtre,non doveasi praticarela legge anzidetta: nei tempi
debui,debuisti periva in. tuttele persone l'UI,eccetto l'Ifinalenellaprima
perfareil cambiamen toindicato. Infuisti, fuimus &c. sièritenuto l'U, edèperitol'I:edin
fuerunt è peritol'E. Si noti cheil fuit dagli Antichi si rendeva,e nesonopienii
libri, perfue. Igrammaticihancreduto l'Edifue come una giunta per non terminare
quell'E non è che la E nella quale dovea mutarsi l'UI, supplita in questo luogo
per dare alla terza singolare del perfetto la desinenza in E,comune a tutte le
persone simili di altri verbi di questa con jugazione, dicendosi lemè, iemelte,
crede, ruppe et c. Tanto siam dunque lontani che l'e di fue siasi una giunta,
che anzi era lettera distinti va della persona, ed una conseguenza
dellamutazione, che aveasi a faredelUI in E, come più si poteva. E quando sparì
quell'E, sitol fue fu in accento la semplicefu:mą serealmente,non
si cesso di aggiungerla.Ed ora ci rimane il sem plice fu, voce cheesce affatto
da ogni regola di terminazione. da Habui E le voci avesti, aveste, avemmo sono
comunissime: delle altre avei, avè, averono, se pur furono in uso, non ho
presente nemmeno un esempio; e solamente mi ricordo che in Fr. Jacop.si legge
avi per ebbi, ed avvero per ebbero. Di buon ora s'introdusse la irregolarità,
la qua le concerne, come ho detto, la sola prima singolare, e le due terze
singolare e plurale, e si fece ebbi, ebbe, ebbero; presa la occasione c o m e
s'intende pel S. 17 dal habuere: perché se ne dovea cavare ha. bero,con
lapenultima breve,donde ne seguitava habe per terza sin golare, ed habi per
prima; e somigliando queste due voci ad altre dell'antico presente abbo, abb i
et c, non potè non cambiarsi l’A in E, condirsiebi,ebe,ebero,ebbi,ebbe
ebbero.IPoetitalvoltaco me PETRARCA Trionfo Fam.cap. : ora investighiamo, come
da’pre teriti più che perfetti latini ne derivassero gl'italiani, che tanto sem
brano differenti. E certamente i Latini esprimevano col tempo la qua lità che
si affermava, ossia la cosa che siera fatta: e tali erano a m a
yeram,fueram,habueram.Ma negliitaliani sidecomposero gliattri buti, e si disse
io aveva amato,io aveva avuto,io era stato.Possiamo però conoscere che
tra'Latini medesimi si aveano i semi di simili riso. luzioni. Cosi Cic. nel 15
Fam. 20 disse, quantum ex tuis litteris h a beo cognitum per cognovi:od in
Verr.7 63 hodie sic homines ha bent persuasum: cosìnel 4 Ac. comprehensum animo
habere atque perceptum; ed altrove assai volte. Pertanto nel passare
da'preteriti più che perfetti latini agliitaliani,nonsifeceche ampliareciocchè
giàsi usavadai Latinimedesimi. Abbiamopiù voltenotato,che 20 per la rima
scrivo. no ebe con un b solo:qualche Antico ciò praticava quasi per abitu dine,
come può vedersi nel Dittamondo di Fazio degli UBERTI l'uso finalmente ha
stabilito ebbi, ebbe : ma,ebbero:vociche varianonel principio e nel fine come
appunto i preteriti greci. 28.Ma bastisu'preteritisemplici avesti ayè avemmo
aveste averono avero. 27.Seguendo le leggi descritte dovea nascere ancora
Habuisti Habuit Habuimus Habuistis Habuerunt Habuere I Ayei v.92, li che
incominciano ad imparare il latino quel lo scordano, facilmente,o che per
disusoin parte esprimono le azioni trapassate col verbo habe re,e col
participiopassato latino. va linguagl'Italiani erano Or siccome nelle
originidella in rispetto della lingua latina nuo punto chi principia ad apprenderla
come ap, o chi per disuso l'ha quasi di menticata; così l'analogia e
la voglia di esprimersi inqualche modo gl'indusseade comporre,edireioavevaamato,io
avevaavuto. &c; lasciando in amalus ed habitus gli S finali, e mutando gli
U in 0 secondoleleggidelş ireg:2e3, dalle qualiappuntorisultaamalo ed ayuto con
i cambiamenti suggeriti appresso dall'uso. 29. Quanto al verbo essere:il più
che perfetto latino è fu -eram, fu-eras,fu-erat&c:t alivocisonocompostedi
eram,eras,erat,e fuo fuit: quasi dicasi io erafu:tu eri fu &c.Seguendo
pertanto l'indole del tempo aveasi ad indicare tal nozione che spontanea si
presenta: cioè dovevasi indicare che questo era spettante alfueram; non era
indeterminato,e pendente come chiamano i Grammaticil'imperfetto, ma era
piuttosto di un tempo definito e certo. E'noto che i Latini appuntocon la voce
status, stata, statum upita al giorno o tempo accennavano i giorni e tempi
definiti. Cic. Offic.37 status diessit cum hoste:o come Plinio disse stato tempore.
Quindiin tempo che la lingua degenerava o si decomponeva si disse io era
stato,cioè in tempogiàfisso, giàpassato,e non pendente:tueristalo,cioèintempo
fisso et c, egli era stato, &c. La voce stato fu dunque come una giunta o
segno di cosa passata, e non altro:ed in seguito si aggiunse a tutti itempi,che
lo richiedevano nel verbo essere.I Grammatici han creduto, che stato sia il
participio del verbo stare applicato al verbo essere. M a non dee presumersi
che la formazione del verbo stare pre ceda quella di essere, che èil primo
de’verbi,e verbo per essenza: edaggiungo che sto,stas tra'Latini,da'quali
derivava in gran parte la lingua,se non è privo diparticipio, certamente ne
somministrava un uso ben raro, come può intendersi, consultando il Forcellini
sul verbo sto sta.Per taliriflessièda concepire,cheilverbo esserenon abbia
participio se non quello dedotto da stalus, stala et c. usato in principio come
segno e non più, di cose precedenti e consumate. 30. E da ciò nacque, che a
poco a poco si tentò creare un par ticipio proprio di essere,facendosi
essuto,issulo, o suto. Quindi AlBERTAN. Giud.cap.44pag.100
ediz.Fir.1610maggioronoreglisareb be essuto s'egli se ne fosse rimaso. Amm AESTRAM.
degli Antic.pag.93 Nella Grecia la Filosofia non sarebbe stata in tanto onore
s'ellanon fosse essuta invigorita per contenzione. Collaz. Ab. Isac. pag. 59 E
se l'uomo avesseconosciuto lasua infermilate nelprincipio e avessela veduta ;
non sarebbe essuto negligente. Questo participio pareva il più naturale: pur si
disse anche issuto; ma più di raro: AMMAESTRAM.de gli Antic. pag. 303 la nuora
il seguente di che è issuta menata, di. manda &c.Ma più di tutti fu in uso
ilparticipio sutopiùanalogo a sono,sei &c,e molti nesonogliesempj in
Boccaccio,nelle Croniche diLionardo MORELLI, nelMorgante del Pulci, nell'ARIOSTO,
ed in altri: ne allego un solo tratto da' FIORETTI di S. Francesco cap. 38 a.me
si è suto rivelato che tu et c. A fronte di tali sforzi non irragionevoli
lavocestato, laquale nonera che unsegno,divenneilparticipio legittimo,
esclusone ogni altro, 21 Ed eccone gli esempj. Fra JACOP. Poes,
Spirit. lib.1satir.i averanno reg.2, 3,7 perchè se nell'habebo si cambiavano i
due B in Vrisultava havevo e quindi havevi,haveva &c.come
nell'imperfetto:nonvolendosi dun que ritenere il secondo B, fu necessità
cambiarlo in altra consonante, e fu questa la R, e se n'ebbe averò, averai,
averà et c. in forza delle regole generali citate: mapresto
sitolseanchel'Eintermedio,esi fece Ayrd Avremo ayrai 22 Sempre serai in
tenebria Ditlamon.lib.icap,25 eris erit erimus eritis erunt avrete ayrà avranno
serai sera seremo Serete seranno. LATINO habebis AveròS.Ireg.7 31. Venendo ai
futuri dirò prima come derivassero quelli de’ver bi ausiliari. Nel verbo essere
è il futuro Ben serai crudo se gli occhi non bagni. FBA Guit, let. 3_pag. 13,e
anche sera di molti. Dittamon. 1.2 c.31 L'ITALIANO nelle origini Sero Le cose
quivi ne seran più conte. Novell,ANTIC,99 seranno queste le novelle che io porterò.
Chileg. gegli Antichi trova questeésimili vocinon infrequenti.Manifesta mente
dunque derivano dalle latine con la giunta di un S in prin cipio per
uniformarle con sono, sei, siamo et c. Del resto eris,erit, giusta le regole,
danno erai, erà,S. 1, e quindi serai, serà. Presso al cuni popoli ancora si ode
ladesinenza serimo, serile, che presto fu ridotta in seremo, serețe et c. Al
presente si trova cangiato anche il pri mo E,dicendosisarò,sarai.Questo
cambiamento è1'usuale,ma non forse il migliore, secondo le regole. Vedi il
verbo essere n. 13. Quanto al futuro di avere era il habebit averaiS.Ireg.5,e7
averemo reg.2, 3 habebitis LATINO Ero Habebo habebimus avera S. i reg 6, 7
averete reg. 2,5, 7 habebunt L'ITALIANO e talvolta a simiglianza
delle mutazioni occorse nel presente si tolse anche l'V,esen'ebbe Aremo arai
arete arà E stabilita una volta la cadenza de'futuri ne’primi verbiessereed
avere inserò, sarò, arò per continuadiscendenza dallatino;qualmeravi. glia che
siestendesseposcia ai futuri di ogni verbo, esi dicesse
amar),amerò,temerò&c. 32. Può nondimeno assegnarsi altra origine dei nostri
futuri, sem-" plice al paro che universale. Nel nascere della lingua si
scrisse raggioper amarò,faraggio per farò come leggonel B.Jacop. lib.2c.15,
elio faraggio questa convenenza: edice raggio per dirò come lostesso autore
scriye lib. 2.c. 25 or m 'udite in cortesia Però crudele, villano, e nemico
Sarabbo, amor,sempre ver te se vale &c. In alcuni villaggi d'intorno a Roma
si ode anch'oggi la desinenza in ajo, come farajo, amerajo et c. A ben
riflettervi tali voci non senoncheamar-aggio, dicer-aggio,far-aggio
&c:vuoldire aggioa fare,aggio a dire,aggio adamare:formole intutto del
futuro:per chè colui,il quale ha afare, non ha fatto, nè fa, ma riserbasia
fare: cioè dichiara l'azione sua come futura. E perché in luogo di aggio si
disse ancora ajo; quindi è che si hanno pur le cadenze amerajo, farajo&c.Ma
siccome in progresso abbo, aggio, ajo degenerarono nelle più semplici ho, hai,
ha, avemo, ayete, e per sincope aemo, aele, han no;cosìda ultimosifeceaver-ho, aver-hai,aver-ha,
enelpluraleaver emo, averele, lasciato l'a del dittongo in aemo, ed aete, e
finalmente aver-hanno:ed eposto l'hozioso nel mezzo di tali composizioni,sieb
be aver-o,aver-ai&c.Ma perchèho, ha,come monosillabe han suono tutto
raccolto in esse,e grave come per accento; quindi è che poco a poco simise ancorl'accentonelleprimee
terzesingolari,dicendo si averò, averà et c. Pari è la origine di serò, serai,
serà et c.voci del futuro del verbo sostantivo, quali usarono da principio per
sarò, sarai, sarà et c. Risultavano dall'infinito essere,troncatene le due
prime let tereES,come insono, sei &c, tanto che se ne avessesere,equindi
aranno, come si scorge ne'libri degli Antichi: Così Lell. 5 tra quelle del B.
GIOVANNI delle Celle: solo tanto l'arò a immutare, e nella letter. XI a Guido,
arai Dio teco, e più sotto, dove arai a stare in eterno, e lett. 13, che mai
non arannofine. FR. JACOP. lib. 2. cant. 3 pianto harete é dolore: tali yoci si
hanno pure ne' GRADI di S. Girolamo nell'Eneida di Annibal Ca'Ro, e nel
Cavalca, e comunissimamente nell'Orlando del BERNI. Diceraggiovi via via.
FraGuit. ediz.Rom.1745lett,3 lamoremioparteraggio,elett.16 folle acquisto far
mi guarderaggio: e tal volta ne'scuri principj della lingua s'incontra la
desinenzain abbo,farabbo,amerabbo et c.per il futuro. GUITTON. d'Arez.Son. ame
23 Ard sono ser-ho, ser-lai, ser-ha, ser-emo, ser-ete, ser-hanno:e
finalmente sarò, sa rai,sarà&c.Siapplichi lateoria dichiarata ancheagli altriverbi,
ed avremo amar-ò,amar-ai,amar-à,amar-emo,amar-ele,amai-anno, comesidisse
originalmente: le Letteredi $.Caterina di Siena ediz. di Aldo son piene di
questa desinenza,ed ilVarchi,egregio maestro di lingua, ne fa uso ben grande
nelle opere sue.Ora l'A precedente l'R fina. lesicambia inE,non sapreiperqual
vezzoirragionevole(vediama re nel futuro del prospetto:) e siè prodotto
amer-ò,amer-ai,amer-à, amer-emo &c. Dicasi cid proporzionatamente di
temerò,temer-ai,sentir-ò,sentir-ai et c. 33. Si noti, che la terza singolare del
presente di avere era have, hae, ha. Spesso inluogodiadoperarehanelcomporre
ilfuturo,fu adoperata la voce hae,con dire aver-lae, aver-ae, amer-hae, amer
-ae, far-hae,far-ae. Questadesinenzaè frequentissimain alcuniantichi Scrittori.
I nostri Grammatici han creduto che l'Ediaverae,farae &c. fosse un
aggiunta, per genio della lingua, che non soffriva di termi nareinaccento:ma
essa non èchelaE dihave,hae; etantoèlun gichefosseun'aggiunta,che
anzidicendosiora averà,amerà,non già si è cessato di aggiungerla,ma si è tolta
propriamente laE spet tante all'have,hae.Siapplichi quanto ho detto alla
desinenzaameroe per amerò lemeroe,per temerò et c. E'difficile trovar parola
italiana terminata in anno,la quale si scorci,eccetto le terze persone hanno, danno,
fanno, stanno,vanno, formate tutte a simiglianza di hanno. Quindi le terze
plurali avran no, ameranno &c.non si dovrebbero troncare;ma perchèson
esseun composto di aver-hanno,amar-hanno;cosi queste voci non han po tuto
perdere lo scorciamento particolare di hanno, e degli altri dan no, fanno et c.
foggiati a simiglianza di esso, come si vedrà nel trat tare partitamente
de'verbi.Anzi aggiungo,che hanno, fanno, slan no &c.intanto si scorciano
perchè nelle origini si diceva fano,stano, e così forse hano:voci idonee tutte
agli scorci,restando han, fan, dan:e siccome pur queste sirinvengono mozzando
hanno,fanno&c, perciò sono ricevute. Chi volesse notomizzare più
sottilmente questa materia, potrebbe trovare forse le tracce del futuro del presente
nel futuro del congiuntivo. Cosi lasciato da amavero, celavero &c. ilve per
simiglianza di quan to si pratico nel fissare la derivazione dei preteriti, si
avrebbe ed accentandoli celaro 24 54. Riguardando a tal seconda
spiegazione,i nostri futuri non sa rebbero quei de'Latini trasmutati:ma solo
deriverebbero quanto ne derivano gl'infiniti de'verbi,ed il presente del verbo
ave re, che ne sono gli elementi componenti. dal latino da Ama(ve)ro cela(ve)ro
amaro et c. 55. Quanto agl'imperativi ognun vede che l'amato, il timelo, il
legito, el'auditode'Latini,altrononèche l'amatu,temitu,leggi Amaro
lu,odi lu degl'Italiani. Le altre voci italiane sono pur le latine tra
dotte:ma perchè questesono lestessedei presenti,partedelcongiuntivo, eparte
dell'indicativo,overo del futuro dell'indicativo; cosìnon bi sogna se non
investigare come que'tempi si diramino dal latino,cioc chè si è fatto, e si
farà tuttavia. 36. Eccomi pertanto ad esaminare il congiuntivo de'Latini,dal
quale hanno origine tutte le voci del nostro ottativo e congiuntivo. Ames Amet
Amemus Ametis Ament Nelle voci amemus, ametis l’E si volge in IA, perchè nel
tradurle si riguardanotalivocicomedipendenti dalla seconda singolare conlagiun
t a d i a m o o diate, ami amo, ami -a l e. Del resto sebbene l ’ E finale
avanti la S dovea mutarsi in I; e la E di amem o di amet dovea secondo leregole
conservarsi; pure ne'principj non erano questi limiti abbastanza riconosciuti:
e diceasi promiscuamente io ame,tu ame, que gliame:desinenza era questa
originale, perchè meno distante dalla latina, taciutene le consonanti in fine,
e resta tuttavia tra’ Poeti, spe cialmente per la rima: nondimeno si crede che
questa sia termina zione di licenza, e non primitiva e spontanea. Tale è
ilprogresso delle cose,c h e dimentichiamo gli usi più naturali, sostituendone
altri men proprj,che poscia il tempo caratterizza come legittimi!Vedi amare
num. 14. Nelle altre conjugazioni, lasciate o mutate le consonanti finali se
condo le regole S. 1, e lasciato l'E, o l'I precedente l’A finale, S. I
reg.4,risulta dal LATINO Timeas Timeat Timeamus Timeatis Timeant Tema Temi, e
poi tema Tema Temiamo Temiate Creda d 25 1 Timeam ITALIANO Ame,ed ora ami
L'ITALIANO LATINO Amem Credam Temano Credi, e poi creda Creda Crediamo Crediate
Credano Credas Credat Credamus Credatis Credant Ami Reg. 4 e 2 Ame,ed ora ami
Amiamo Amiate Amino. E ne verbi ausiliari. Nel qual mutamento
l'EdiHabeam et c.èdivenuta per eccezione o dolcez. za un I, ed ilB siè
raddoppiato, osservate ancora le regole generali. Quanto alsim, sis, sit, simus,
sitis, sint, siccome il verbo essereè di seconda conjugazione, e tutte le
seconde conjugazioni anno il presente del congiuntivo terminato in A nel
singolare, almeno nella prima e terza persona; quindiè che si fece iosia, tusia,o
sii,quegli sia, noi siamo, siate, siano. 37. Ma perchè nelle origini della
lingua non era ben decisa la terminazione, con cui chiudere levocidel presente
nel congiunti vo, si tento talvolta, o si dubito modificarle in tutte le
conjugazioni, come nella prima. E siccome la prima era terminata in io ame
ovvero 38. Così pure essendosi terminata la prima conjugazione in I nel
presente del congiuntivo,siterminarono talvoltain Ipurlevoci delle altre: e si
trova abbi per abbia, giunghi per giunga, vadi per vada &c,in terzapersona:
Lett.S. Cat.pag.31. Deh!nonsirendi più il cuor nostro ambiguo,cieco, e
negligente.E quindi è che tra'Cin quecentisti generalmente le terze plurali
abbiano,temano,leggano fu Abbia Habeam 26 tu ame Ilabeas Habeat Habeamus
Habeatis Habeant Abbi ed abbia Abbia Abbiamo Abbiate Abbiano io ami quegli ame
quindi èche si quegli ami; trovano anche i verbi di altreconjugazioni figurati.
Così AB. Isac. Collaz. cap.2. cosi con scrive,abbie preziosa operazione: e cap.
12 abbie paura della superbia, ed ALBERTANO Giudice l'uno de Scrittori più
antichi assegnato all' anno 1260 in circa, scrive vece diabbia al principio del
cap. in 6 tu abbie: e si dice abbie cari tade e fa ciò che tu vuoi, e cap.9 dci
render lo beneficio all'amico con usura se puoi:e se no; abbie spesso lo
beneficio a te dato memoria: e cosi nel cap. 3 usa in pieper diche per dichi,
enel 5 in finesap sappi: e nel cap. 9 sie per sia. Sie largo di dar mangiare
Tuoi conti ecari amici,e nel alli cap• 38 de'tuoi beni e dello stato che Dio
l'ha dato ţi stie contento.Tali formole parrebbono a chi non guarda alle
origini, tutte licenziose, laddove ri naturali,quando erano modi primitivi e la
lingua pendeva ancora indecisa circa la desinen za.Ora eccettosie efie,le quali
pur vogliono gran parsimonia piùnon siuserebbono talivoci. Vediesserenot.17,
avverto che tali voci abbie Del resto io non all'imperativo,sie&c.spettano
al congiuntivo come. tu amirono abbino, temino, leggh i n o et c ., che poi
l'uso ragionevolmente 27 ha ri pudiate, perchè rimanesse un divario tra le
cadenze, onde riconoscer ne le conjugazioni. ec.1491. Are ( avrebbe) quelcolpo
gillatigiù mille. E qual sare'colei che nol facessi? In questo esempio il primo
sare sta per sarei, e l'altro per sarebbe. Eguali manieresiscontranoancora,ma
più rare assai,nell'Orlanda del BERNI:così nel c.5.16 39. Quanto all'imperfetto amarem,amares,amaret;
taciutene le consonanti finali risultava amare, voce non distinta
dall'infinito: si aggiunse per cið un I finale, e si fece amerei:e siccome il
per fetto dell'indicativo termina in I, dicendosi amai, temei, sentii, e da
questa si ebbe per seconda persona amasti, temesli, sentisti; cosi fu con
progresso consimile terminata la seconda di questo tempo, dicen dosiameresti, temeresti,
sentirestiaggiunto un TI ad amares,timeres, sentires,il quale in origine non
era che un lu, e perciò trovasi tal volta ameres-tu, vederes-tu per amaresti,
vederesti &c.Cosi PASSAVAN ti nel suoSpecchio di Penitenza pag.107. Avrestuoffeso
intaleolal cosa?&c.Laterzaamaret,gittatoilT,divenneamare nuovamente, e per
distinguerla si fece amerie,ovvero ameria per essere ne' prin cipii non ben
precisa la vocale distintiva da aggiungersi. Quindi in FRA Jacop.lib.4
cantic.30 silegge fariemiconsumare,permifaria consumare;e nellib.5can.27 si ha
vorrielo perlo vorria,eDan.Par. 29: 49 usa giungeriesi per sigiungeria. Nel
Morgante del Pulci s’in contra un uso speciale, ma certo molto analogo a
dimostrare la ori gine di questa persona.Egli più volte in vece di modificare
diver samente la voce, o desinenza amare, aggiunge un apostrofe,e scrive
amere',sare',potre'perameria,saria,potria.Vedi c.12,13,c.13, 13 e 38. E son qui
per provarquelchel'hodetto. 'Amaremus diede ameremo mutatol'us in mo secondo le
regole generali: ma perchè ameremo è pur del futuro, si aggiunse un'M,
facendosiameremmo:amaretisdiedeamereste,come da amarespro viene ameresti; o
come da amasti proviene amaste. amerieno da amerie; ovvero mutato il T di
amarent in secondo le regole,siccomerisultaamereno;cosi
coll'inserirviun'I,sen'ebbe amerieno. Amerie, ovvero ameria, ecostamerienosonodunque
desi nenze originali:e questa è laragione, per cui ne' Prosatori antichi, come
ne'Poeti, si trova tante volte la cadenza inieno,amarieno,te merieno,farieno:
la quale ora è mutata in iano, ameriano, temeria AO et c.da ameria, cemeria,
che prevalse sopra di amerie, temerie E disse sare'io, ch'era pursaggia, Che a
cosi degno amante non piacessi, Purchè mai tempo e luogo accaggia; Ancormi dare
il cord'uscirne nello, ipo d2 chissimo usate fin da principio.I
Poeti,sovrani conoscitoridella dol cezza degl'idiomi, ritengono tuttora,
usandola amplissimamente,la terminazione in ia ed iano. I Prosatori l'hanno
quasi dismessa: nè io credo che ciò seguisse con piena ragione: giacchè si
allontanarono davoci, le quali presentano laoriginelorodallalingualatina che ne
era lamadre:e potevano variare con ogni dolcezza il discorso. Inluogo di
ameria,ameriano sottentraronole altre amerebbe,ame rebbero, ovvero amerebbono.
Queste voci a somiglianza di quelle del futuro sono composte ancor esse, ma
dall'infinito e dalle terze del perfetto diavere, amar-ebbe, amar-ebbero,ovvero
amar-ebbono.Può no tarsilamarciaincostantedegli uomini:mentre sonostatiesclusi
tantiB dagl'imperfetti, e dai futuri,qui ne sono stati riprodotti con usura: la
desinenza è divenuta più lunga, e talvolta quasi indistinta, essen dovi alcune
terze. Resta a dire qualche cosa intorno la desinenza amassi, temes
si&c.laqualeesprimeilpresentedell'ottativo,e l'imperfetto del congiuntivo.
E 'manisesto che questo tempo è tratto dalle voci sincopizzate del più ch perfetto de’ latini nel CONGIUNTIVO, tolto n
e il v i come nel perfetto dell'indicativo, e serbate leregole generiche delle
vocali finali, lasciato l'M, e mutata l'E in I et c. Amassi Amasse Amassimo
Amaste Amasseno. del perfetto, che
somigliano, come crebbe, increbbe, bebbe, ecc. E poco vedo cosa abbia a fare ebbe
e debbero, vocidel perfetto, convocidel soggiuntivo, lequalihannodell'imperfet
persone to, cioè che resta da fare. Possono osservarsi al verbo amare, dove
trattasi della desinenza in ia, ed iano, altre incongruenze. Ma l’uso ha già
prevaluto, e chi parla dee parlare conl'uso. Tale appunto sorse la terza
plurale: ed ancora n e restano degli esempj Fra Guit. let.I pag.8 se'reiabitasseno,elett.2ev'entrassenoalcore.
PETRAR. son. 154 che andassen sempre lei sola cantando&c.Ma posteriormente
di “amasseno” si fa “amassono”, ed ora dicesi “amassero’ co munissimamente. Si
noti che la seconda plurale amaste involge una mancanza di lingua: perchè non
più vi resta il ssi o sse, caratteristi co di questo tempo, e perché amaste è
voce plurale ancora nel perfetto dell'INDICATIVO. Ed è certo un difetto con una
voce stessa esprimere tempi, emodi tanto differenti. Forse è natodaciòchetalvolta
s'in contra voi avessi per voi aveste, come in Antonio Pucci Centiloquio
cant.69 terz.58. Se voi in qua non m'avessi menato. Anzi ho notato che
MACCHIAVELLI tanto conoscitore della sua lin Amassi nel suo 28 Ama (vi)ssem Ama
(vi)sses Ama (vi)sset Ama (vi)ssemus Ama (vi)ssetis Ama (vi)ssent
Ma primach'iosentissetalruina&c. FRA JACOP.lib.6 c. 18. 28. 42. E
siccome questo tempo nell'italiano esprime il presente dell'OTTATIVO, e
l'imperfetto del congiuntivo, i quali non E cosìnella Gerus.: "Quel
partissi addita azione già fatta. 29 gua, spesso in tal tempo usa la
seconda singolare per la plurale con premettervi il pronome.Cosi nell'Arle
della guerra ediz. Cosmopoli Far este voi differenza di qual arte voi li scegliessi,
e pag.63 iodcsiderereichevoivenissiaqualcheesempio,pag.233.so lovorrei che
voimi solvessiquesti dubbj,e 236 vorrei chemi dices si&c.Un tale scriveresidirebbeartifiziosoonegli
gente?Glieru diti decideranno se forse era meno male così scrivere. Certo se
replichiamo nel singolare io amassi, tu amassi,perchè non farlo nel plurale?
Amassetesarebbestata,parmi,lavoce idoneae conseguente:ma sealtri la dicesse ora,
sarebbe uno sgraziato, un imperito. Tanta è la prepon deranza degl’abusi, resi
venerandi per vecchiezza. L'origine di questo tempo è similissima in tutti gli
altri verbi.Così da timuissem è temessi, da legissem è leggessi, da audivissem
udissi, &c.e nezliausiliaridafuissemfossi,dahabuissem avessi,mu tato al
solito il B in V, e ľ U I in É come in “timuissem”, timui ecc. e tutti
soggiacciono all'inconveniente anzidetto.Del resto ne'principj della lingua
pendette incerto alcun poco se avesse a farsi amassio amasse di amassem, e così
sentissi o sentisse di sensissem. Quindi Fazio nel Dittam. lib. 1 loro
discordano, ma PROVIENE DAL LATINO, che era un più che passato. Così le di lui
voci medesime scorrono a significare cose passate non senza un pocodi
confusione:ma egliè male di origine, esivuol condonare:peress.SEGNERI
Predic.358.10Visovviend'altroreo,che mai tollerasse una o più tragica o più tirannica
forma di tribunale? E'chiaro che quel collerasse esprime cosa passata:tale è
pur quello nelle Vit. De'SS.PP. tom.1pag.83.E allora conosceretechefuil meglio
per m e ch' io m i partissi molto fra D'amarli e di servir, quant'io potesse.
BARBER ch'io gli mandasse a quello. Giosafat ed io non sarei savio se io tale
cosa manifestasse. Novell. ANTIC.37 s'iovolesse dire una mia novella&c.Nel
primo tom.delle Delizie degli Erudili Toscani pag. CL.sinotanoaltriesempj disi
mili desinenze. E se piaciuto pur fosse là sopra ch'iovi morissi, il meritai
coll'opra. Quanto agli altri tempi amaverim, amavero et c. sono decom posti
negl'italiani,che io abbia amato, o io avrò amato et c. Sicchè non vi resta presso
a poco da osservare, se non quanto si disse in torno di habueram, fueram ecc DIPENDENZA
delle conjugazioni italiane dall'infinito, e loro somiglianza generalissima.
Conjugare i verbi italiani non èchevariarediversamentel'in
finito,secondoimodi,itempi,lepersone,inumeri,come altrove si è detto. Or
volendo conoscere queste variazioni e somiglianza loro generale, si avverta. Ogni
infinito termina in “-RE”: “amare”, “lemere”, “credere”, “sentire”; e quasi
tutte le variazioni succedono appunto in questo RE finale:solamente talvolta
subisce de cambiamenti anche la vocale precedenteilRE.Cos)per avere I participj
presenti, il “-RE” si muta in “-NTE” nelle prime e seconde conjugazioni: “amante”,
“credente” &c.E nelle terze tutto l'IRE, per ess. di sent-ire si muta in
ente, sentente; ovveroilREsimuta inENTE;obedi-re,obedi-ente.Per avereil par
ticipio passato,aparlar generalmente, basta nella prima e terza con jugazione mutare
il “-RE” in “-TO”: “ama-re” > “ama-to”,senti-re,senti-lo.nelle
altreconjugazionisicambiatuttol'EREinUTO lem-ere,tem-ulo, cred-ere, cred-uto.
2. Quanto ai tempi per avere il presente singolare si lascia il RE
dell'infinito, e lavocale precedente il “-RE” simuta in “-O” per le prime persone,
e dove bisogna in Iperleseconde;ma perle ter ze persone, tolto ilRE, I'lsicambiainE
nelleterzeconiugazioni: nelle altre non bisogna variazione ulteriore. Ama-re
teme-re Crede-re a m a teme crede senti ne’plurali il “-RE” dell'infinito si muta
in “-MO”, “-TE”, e “-NO”, per le prime seconde,e terze persone. Ama-mo Teme-mo
Crede-mo ama-te teme-te crede-te senti-te a m a -n o teme-no crede-no
Senti-mo 30 E cosi trovansi presso gli Antichi terminate le prime e terze
plurali. E per dare qui un qual ch'esempio su le terze plurali, CASTIGLIONE nel
suo perfetto cortigiano usa commoveno, rivesteno, discerneno, occorreno,
cadeno, moveno, serveno, ed altre moltissime. Nell’archisihagiaceno,
soggiaceno,ed altre. Ma ora l'uso porta che anche le vocali precedenti il “-RE”
hanno subito de'cambiamenti, dicendosi tutte le prime persone amiamo, temiamo, crediamo,
sentiamo:enelleultimedue conjugazioni terminandosi le terze persone plurali in
ono, temono, cre sente -n o 1 S. III. 1. amo temo credo sento ami temi credi
Senti-re sente. Quanto ai verbi della terza conjugazione, ne’’ qualivi è la
doppia cadenzacome abborroeabborrisco (vediquestoverboinfine della prima parte
) sappiasi che la cadenza in isco esce di regola nei pre senti dell'indicativo,
imperativo,e congiuntivo. Tutto il divario è che in questi presenti le persone,
prima, seconda, e terza singolare, si formano come prima secondo le regole, e
che poi alla vocale fi nale si antepone la sillaba ISC in ognuna di queste
solamente, on de si abbia: la terza plurale si trae dalla prima così mutata, aggiuntole
il “-N O”, segno della pluralità ne'verbi. “Abborrisco-no.” Ossia all'infinito
abborri re, tolto il R E si congiunge sco, sci, sce, scono, abborri-sco, abbor
ri-sci, abborri-sce,abborri-scono. 4. Il Re dell'infinito si muta in VA VI VA
pel singolare a m a -re teme-re crede-re senti-re ama-va teme-va crede-va
sentiva Ne plurali alla prima, o terza di ciascun singolare si aggiungono le
distintive dette di sopra MO,TE,NO. amaya-mo temeva-mo sentiva-mo amava -te
temeva-te credeva-te credeva-no sentiva.no Perfetti dell'indicativo per la terza
persona l'ultimo “A” di “amasi” muta in “-O” accentato. Nelle altre
conjugazioni si accentuano la E o l'I; masiaggiunge MMO 31 dono,sentono
&c, come se aggiungasi ilNO alle prime persone, temo, temono,credo,credono,sento,sentono,laddove
essendole terze plurali un multiplo di terza e non di prima persona singolare, non
dove asiaggiungere il NO, segnodipluralità,senonallaterza sin golare, come
dicesi ama, amano, e non amono. amava-no temeya -no STE 1) sentiva -te ama-vi
ama -va t e m e -vi teme-ya “senti-va” credevi sentivi Imperfetti
dell'Indicativo 2 ) personeplurali, RONO 3 crede-va credeva -m o abborr (isco
abborr(isc)i abborr(isc)e 5.ToltoilRe
dell'infinitosiaggiungeIperlaprima,eSTIper laseconda persona: per le
senti-sti senti ama-mmo teme-mmo crede-mmo senti. mmo amo teme crede
ama-ste teme.ste crede-ste a m a -rono teme-rono 6.Ma nelle seconde
conjugazioni,come in temere e credere, ol tre la legge universale,il RE
dell'infinito spesso si muta per le pri m e in singolari in T T I; per le terze
singolari in T T E, e per le terze plurali in TTERO ovvero in TTONO dicendosi
Temei temetti Credei credetti Temė Futuri dell'Indicativo 7. Il solo E finale
dell'infinito si muta, o cresce in O accentato 1 ) A I nelle amar-o temer-6
sentire amar-ete creder-emo sentir-emo Presenti dell'Ottativo IIRE si muta in “senti-ste”
crede-rono senti-rono creder-o 33 ama-re tem e re cred e -r e ama-sti
teme-sti crede-sti amar-emo temer-emo temer-ete creder -ete sentir-ete
amar-anno temer-anno I SSI SSI SSIMO SSE. STE SSERO SSONO sentir-à senti i
amar-ai temer-ai creder-ai sentir-ó amar-a temer-à creder-à sentir-ai ama-i
teme-i crede-i amar-e temer-e creder-e Credé Temerono temettero temettono
Crederono credettero credettono 2 ) del singolare A accentato 3 EMO ETE nelle2)
delplur. ANNO 3) temette credette Si noti che ora si volge in E anche l'ultimo
A di amare, almeno dagli Scrittori, non senza equivoco. Vedi amare nel
prospetto not. 9. crederanno sentiranno sentire ama-re teme-re crede-re a
m a -sse teme-sse crede-sse crede-ssimo ama-ste teme-ste senti-ssi
serti-ssimocic. BBERO solamente nella prima conjugazione si è preso il COSTUME
– forse NON RAGIONEVOLE – di cambiare 1A precedenteilRE dell'infinitoinE.
sentire sentire-i credere-sti credere -bbe credere-mmo sentire-mmo credere-ste
sentire -ste credere-bbero sentire-bbero credere-bbono sentire-bbono Si noti
che le aggiunte che qui si fanno per le due prime per sone singolari eplurali
sonole stesse dei perfettie che quelle che si fanno per le terze sono, direi,
le terze del perfetto di avere, ebbe, ebbero,ciocchè facilita di molto la
formazione di questo tempo, presente del congiuntivo AMO ATE credere credere -i
sentire-sti sentire-bbe ama-ssi a m a -ssi teme-ssi teme-ssi crede-ssi
crede-ssi senti-re senti-ssi ama-ssimo teme-ssimo Amare Io ami Imperfetto
dell'Ottativo Conjugazione 1." Si toglie il RE dell'infinito, e la vocale precedente
il “-RE” si muta in I, e nel plurale si aggiunge 3 1 sentisse credeste, amassero
amassono temessero temessono credessero credessono 33 I alla 1) S T I 2 ) del
singolare BBE 3) MMO I) STE 2)delplurale amare amere-i amere-sti amere-bbe
amere-m m o “amere-ste” amere-bbero amere -bbono 9. L'infinito resta immutabile
e si aggiungono Tu ami Colui ami Ami-amo Ami-ate Ami-no temere temere -i
temere-sti temere -bbe temere-m m o temere-ste temere -bbero temerebbono NO 2
person. La vocale precedente il -re
dell'infinito si muta in “a” in tutto il singolare, e nella terza plurale. Il
resto è come nella prima :anzilla seconda singolare può terminare come nella prima
conjugazione; i che sarà considerato ne verbi rispettivi. Credere Creda Creda o
Credi Creda Crediamo Crediate Credano. Queste sono le variazioni. Gl’altri
tempi composti risultano da alcuno de' tempi già esposti, presi da'verbi essere
ed avere, e dal participio passato del verbo particolare, il quale si usa; e
però non occorrono nuovi cambiamenti nell'infinito. Quindi si dovranno cercare
nel prospetto. Intanto si potranno raccogliere alcune regole, e sono: Tutte le
prime persone singolari dell'indicativo eccetto il perfetto e l'imperfetto
finiscono in 0. Tutte le seconde in I in ogni tempo. Tutte le prime plurali in
ogni tempo e modo in “-mo”, e le seconde in “-te”, e le terzein “-no” o “-ro” in
alcuni tempi. Ma in tutte le prime plurali dei presenti di ogni modo, degl'imperfetti,
e futuri dell'indicativola Mè semplice: amiamo, amassimo, amavamo, ameremo, temiamo,
temessimo, temevamo, temeremo, &c. Ma ne'perfetti dell'indicativo e
negl'imperfetti dell'ottativo la “m” è doppia: “amammo”, ameremmo, temeremmo, crederemmo,
&c., e cosi le seconde plurali in que stid u e tempi ed anche nel presente
dell'ottativo anno la “s” avanti ilTe finale dicendo siamásle amereste &c.!,le
altre anno il semplice “-te.” Parimente, questi tre tempi possono finire in “-no”
ed in “-ro” nelle terze plurali: amaro, amarono, amerebbero amerebbono, amas, amaranno,
amarino. Gli. BIBLIOTECALVCCHESI -PALLIBIBLIOTECA LUCCHESI • PALLI III. SALA
Scaffale. Pluteo. N. CATENA. h Digitized by Google Digitized by Gopgle COLLANA
DEGLI ANTICHI STORICI GRECI VOLGARIZZATI. Digitized by Google Digitized by
Google Dìgitized by Google Digit zec! ov \Vo3^ LE ANTICHITÀ ROMANE I DI DIONIGI
D’ALIGARNASSO VOLGARIZZATE DALL’ AB. MARCO MASTROFINI già’ frofessore di
matematica e di filosofia NEL SEMINARIO DI FRASCATI MtmOKX KOrJMMKTt USCOKTIUTÀ
COI TM3T0 BAh TKÀBVTTOBt TOMO PRIMO MILANO DALLA TIPOGRAFIA De’ FRATELLI
SONZOCMO M. Dionigi di Alessandro fu d’Alicarnasso, reggia un tempo della Caria,
della quale pur furono Eraclito il poeta ed Erodoto di gr^ca istoria padre come
Petrarca lo intitola nel terzo de' capitoli sul trionfo della Fama. E difficile
determinare V anno, non che il giorno della sua nascita. Fozio nella sua
Biblioteca (cod. ^4) dice che egli precedette Dione Cassio, ed Appiano
Alessandrino, espositori aneli essi di Storie Romane. Errico Dodwello che
meditò gravemente quelt argomento non seppe ristringersi ad altra particolarità,
se non a questa, che Dionigi debbo essere nato fra t anno (i"G e ^oo di
Roma calcolali alla maniera di V airone. DIOyiGI, toma ^ ‘, X / 2 I(. Dionigi
sentiva in sè la nobiltà del cor suo] c si mosse verso la capitale del mondo, e
venne a Roma nelt anno F^arroniano ja5, cioè finita la guerra interna di
Augusto contro di Antonio ; domd è che egli non vi giunse prima dell' anno suo
venticinquesimo. Fi si trattenne 22 anni: vi compose le opere critiche, e vi
apprese intanto diligentemente C idioma del popolo vincitore su la mira di
leggerne gli antichi monumenti nazionali, e di scriverne infine con greco stile
una stona per uso de’ Greci suoi che troppo la ignoravano. Egli riusci nell
intento, e la scrisse, e la divulgò nell anno Fcu roniano y47 sotto il nome di
Antichità Romane come l ebreo Giuseppe Jion molto dipoi, forse ad imitazione di
lui, e certo con più proprietà, pubblicò sotto il titolo di Antichità Giudaiche
la storia del popolo ebreo, la quale era insieme la storia della origine stessa
del mondo. III. Par che Dionigi delineasse la storia col disegno stesso con cui
Firgilio cantava la Eneida: vuol dire l uno e l altro spargevano fiori appiè
de’ trionfatori non senza il lusinghevole desiderio di guadagnarne la grazia :
non leggera conquista per uomini inermi, autorevoli solo per sillabe, per
parole, e per periodi ! 'Dionigi fece sapere a’ suoi che il popolo del
Campidoglio non era poi barbaro ; anzi che era pur esso greco di origine, e che
assai conosceva leggi e costumi ; e ciò perchè riuscisse il comando romano, se
non pregevole, certo men duro nella Grecia d’ Asia e di Europa, paesi che una
volta orati patria e tempio di fortezza e di libertà. Egli distese il suo
scrino in venti liLri ; ma non sopravanzano che i primi dieci e parte dell’
undecimo; tutto il resto perì per la ingiuria de' tempi. Per quanto ci racconta
Fozio che aveala letta per intero,
scorre ane la narrazione dagli Aborigeni e dalla venuta di Enea nella Italia
fino alla guerra de’ liomani con Pirro, monarca degli Epiroti ; perchè ivi
appunto comincia la storia Romana deli altro greco scriuor precedente, Polibio
da Megalopoli. Quest ordine di storie si consideri diligentemente ; perchè da
indi apparisce che Dionigi dee precedere c non seguire Polibio, come parve al
primo che dispose la Collana Greca, e come trovo fatto pur questa volta
irreparabilmente su Cantico disegno. Siccome un estero per la novità che v
incontra, può notare ì. costumi varj de' popoli meglio che il nazionale che
cresce e invecchia con essi ; così questi due Greci conversando co’ Romani
seppero distinguervi e descriver più cose che i Romani stessi non han descritto
e trasmesso con la successione de’ tempi ai tardi nipoti. Or ciò dovea tanto
più seguitarne quanto che scrivean quelli pel greco il quale non avrebbe
gustata nè intesa la loro narrazione se non esponevano minatamente le cose
notissime tra Romani. E quindi è che Polibio delincò su la milizia romana
quello che non si legge in niuno de’ romani scrittori medesimi: e Dionigi toccò
tante picciole circostanze che meglio dichiarano le ori-,gmi, il complesso, ed
il termine degli eventi: cioc Bihiiotre. cod. 8f>. ( 1 ) Ediz. romana di
Vinccoio Pojryiuli delT anno che ne ha rendalo, e ne renderà sempre,
preziosissimo quanto sopravanza delle storie di lui. V. Livio rimpelto a
Dionigi è come il compendio rimpello all' opera estesa ; tanto che il primo
raccoglie in tre libri ciocché l’altro dilata in undici. Nè io saprei dolermi
su tanta espansione quando le cose vi fossero state moltiplicale in
proporzione. Ma per dirne ciocché io ne penso, e dare intanto il paragone degli
autori fin qui da me volgarizzati che sono Sallustio, Quinto Curzio, Lucio
Floro, e Dionigi ; mi è sempre parato che in Sallustio non capano i sentimenti
dentro le parole, che in Curzio si pareggino compiutamente gli uni alle altre,
che in Floro le parole superino alquanto i sentimenti, e che in Dionigi
fincdmente( siami cosi lecito di esprimermi) le sentenze galleggino affatto tra
le parole. Sallustio é come il fior vivo, che di sé promette gran cose, ma
stretto in parte ancora dalla sua buccia : Curzio è il fior copioso, odoralo,
aperto graziosamente al sole che 10 vagheggia ; Floro è il fior vago, ma tutto
spampanato con molte le f rendette e poco t odore; e Dionigi finalmente è il
fiore delle ampie e libere frondi 11 quale sot^ di sé nasconde il picciolo
guscio che ravvolgevalo, e par sorgere pomposo e vario tra le aure che lo
investono, ma troppo, se lo stringi, è minore delle belle apparenze. Dionigi
era un greco dell jfsia, e fa sentire in sé la prolissità propria di quella
vastissima parte del globo. Le parlate in lui sono lunghissime, e per ordinario
non ripetono se non ciò che presentano le storiche narrazioni ; laddoue in,Tilo
Livio sono lampi e folgori, sentenze e risultati. V ultimo lascia a pensare, il
primo li lascia senza pensieri prima che finisca di parlare ; nelV uno senti il
capitano ed il console, nell altro lo storico d il declamatore : quegli è pieno
di entusiasmo e di fuoco su gt interessi della sua nazione, /’ altro vi si
spazia sopra come il panegirista che loda non per affetto, ma in vista di
ricompense, o per moda. Forse tanta loquacità non piacque nemmeno tra' suoi
nazionali; e Dionigi voglioso di essere letto, s’indusse a ristringere in un
compendio di cinque libri quanto avea steso in venti. Fozio nella sua
Biblioteca [cod. ^4) parla eziandio di un tale compendio ; e lo dice più utile
per questo, che non contiene se non le cose necessarie alla storia. Egli
paragona Dionigi in quel nuovo scritto ad un re che giudica e tiene intanto in
mano lo scettro; e sentenzia ma con la precisione e col tuono di chi comanda. Vr.
Quanto allo stile i giudizj ne sono difformi : vi è chi lo chiama scrittor
soave, scrittore elegante ; e non vi è dubbio che e"li abbia de' bei
tratti, dei pellegrini concetti, e gravissimi documenti. Nondimeno vi è chi
dice risolutamente che Dionigi rimpetlo a Senofonte è come il duro e licenzioso
jépulejo rimpclto alle maniere delicate e spontanee di Livio. Dionigi fa pur
troppo conoscervi che egli non era nativo deir Attica. Fra le sue formole ne
occorrono alcune La prcsealc versione fu
stampala in Roma l’anno i8ia. Dopo quest’ anno il Compendio fu creduto
rilrovato in Milano. Se ne patterà nel tomo quarlo là dove sono i fiammcnli. Digitized
by Google G nuove, Ialine (T indole, o certo non abbastanza monde da solecismo
; tantoché vi si violano le regole pròposte da esso medesimo nelle opere sue
critiche per gli storici e per gli oratori. Ad ogni modo Dionigi é come la
miniera ampia di oro, e come V archivio ricco di monumenti preziosi in mezzo di
altri che sono anzi un ingombro ; dond è che un tale scrittore, come ho toccato
dianzi, sarà caro finché saran care le storie. Ora diciamo qualche cosa delle
versioni del nostro Autore. VII. Lapo lìira^o fiorentino il primo diede una versione
latina di Dionigi. Questa fu pubblicata la prima volta in Trevigi Hanno i48o, e
poi di nuovo in Basilea nel i53a. Il Glareano ebbe cura di tal seconda edizione
e la purificò da sei mila errori coni egli dice. Boberto Stefano vedendo
pubblicato Dionigi nella lingua non sua, trasse il greco originalo dalla
Biblioteca dei re di Francia, e lo mise in luce l’anno ì5^(i. Il Gelenio
divulgò colle stampe in Basilea [ anno iS/fg una nuova versione latina de’
dieci primi libri. Silburgio rettificò con critica squisitezza le tante lezioni
non sane che ci aveano nel greco dello Stefano, e nel latino del Gelenio, e
congiunse i due testi e li stampò V anno i586 in Francfort. In questa edizione
vi é la traduzione dell’ undecimo libro fattu da Silburgio medesimo, li
frammenti ricorielti delle Legazioni già pubblicale da Fulvio Ursino, ed un
libro di annotazioni in fine. Mentre apparecchiavasi o compivasi da Silburgio
questa edizione ; Emilio Porto diede su t originale dello Stefano una nuova
Dìgilized by Googlc 7 traduzione latina delle antichità con amplissime
annotazioni, imprimendo anche il libro delle legazioni con la trina
interpretazione dì Stefano, di Sitburgio e di Porto. JSel 1704 si ebbe la
vaghissima edizione fatta in Oxford la quale comprende il testo greco di
Dionigi colla versione di Porto, emendata dove nera il bisogno, e le legazioni
secondo la impressione fattane da falesie riunite a quelle già pubblicate da
Ursino. Si cominciò finalmente nel 1774 ^ ^i compiè nel 1777 lO' edizione
riputata la più corretta di Lipsia colle note varie di Errico Stefano, di
Silburgio, di Porto, di Casaubono, di Fulvio Ursino, e di Giangiacomo Peiscke.
Vili. Francesco Venturi fiorentino ci diede nel 1545 colle stampe venete la
prima versione italiana delle sole antichità di Dionigi. In quell'epoca il
testo greco non era nè stampato nè rettificato, e quindi avendo egli lavorato
su di ^un manoscritto, frequentissime sono le aberrazioni dcd vero senso.
Aggiungasi che lo stile è contorto, implicato, nè sempre regolare: in somma risente
tutte le imperfezioni del primo traduttore latino Lapo Birago : nè questi potè
sempre capire il senso del testo, ma dove ciò non potè fu contento di
volgarizzare le parole greche, appunto come significavano, una per una. Il
signor Desiderj nel continuare in Roma V anno 1 794 la edizion sua della
Collana Greca ideava, parmi, riprodurre la versione stessa del Venturi; ed il
primo periodo di questa è del V snturi in gran parte ; ma fatto accorto che
grande ne era la oscurità, e poca la naturalezza. \ .Dìgitized by Google 8
continuò a pubblicare non il resto del Venturi, ma una traduzione di
traduzione; t'uol dire, diede alla Italia un Dionigi tradotto, forse non sempre
adeguatamente, e certo non sempre con purità di stile, sopra la traduzione
francese, e non sid greco originale. Al primo leggere il Dionigi del Desiderj
mi parve ravvisarvi una fisionomia anzi francese che greca. Adunque paragonai
la versione framese del padre Francesco la Jai Gesuita con la produzione del
Desiderj a luogo a luogo, e fui convinto che era ciò veramente che io
sospettava. Questa immagine éT immagine, questa eco di eco che scolora le
fattezze, e deprime sempre più la energia dell originale, questa stampa non
greca, non francese, e forse non italiana, non dee numerarsi tra le versioni,
degna almeno di un tal nome ; tanto più che quella versione frarucese essa
stessa non lascia gustare la vena ampia, continua, maestosa del greco originale,
ma presenta la inquietudine, lo scintillamento, e come la spezi satura consueta
delle parli. IX. Che io sappia niun altro ha poi volgarizzalo tra noi Dionigi.
La mia versione è diretta su la edizione di quest' autore intrapresa in Lipsia
nel i Chi vuol ragione di ciascuna delle mie interpretazioni dee consultare il
testo greco, la versione latina, le note in piè di pagina, ed in fine de’ tomi.
Spesso a fissare i sensi ho consideralo anche la versione francese, supplitami
dalla Biblioteca del Collegio Romano nella nuova mia dolcissima dimora in quel
luogo nell’ anno 1 8 1 1, la quale mi concedè calma profondissima da compiervi
quasi per intero la traduzione che ora presento. Sarebbemi piaciuto ugualmente
di consultale la traduzione inglese di Eduard Spelman impressa in Londra t anno
1759; ma per quanto la ricercassi tra le Biblioteche, tra i libraj e tra gli
amatori di libri, non mi venne fatto di rinvenirla in Roma. Aveva io già presso
che terminato questo mio travaglio quando mi ju significalo che in Francia si
pubblica una nuova versione di Dionigi: ho il piacere che l'Italia he veda
contemporaneamente un altra sua, lavorata quasi tutta in Roma, ove lo storico
di Ali-, carnasso stendevano già t originale. Roma i8ia. 1 1 I. UANTU^QUE
alieno io ne sia, pur sono astretlo ad una prefazione, com’ usa nelle storie, e
sopra di mfe ; non già per diffondermi nelle lodi mie proprie, che so quanto,
udite, dispiacciano, o nelle accuse di altri scrittori, come fecero Teopompo ed
Anassilao gli storici, ne’ prologhi loro ; ma solo per dichiarare le cagioni
per le quali mi diedi a .quest’opera, e per dire de’ mezzi, onde io seppi
ciocché son per iscrivere. E certamente chi risolve lasciare a’ posteri
monumenti d’ ingegno, i quali, come i corpi, non vengano meno per anni, e molto
più chi scrive le istorie, nelle quali, tutti concepiamo che siavi la verità,
principio del sapere e della prudenza ; costui dee per mio sentimento,
scegliere argomenti vaghi e magnifici, come bene fruttuosi a chi legge ; e poi
dee preparare le materie opportune al subjelto con assai previdenza e lavoro.
Imperocché chi ponesi a trattare di cose vili, abominate, indegne delle cure di
una storia, sia che brami rendersi chiaro, ed acquistare comunque una fama, sia
che voglia manifestare la idoneità sua nell’ arte del dire, non sarà mai da’
posteri né invidiato per la fama sua, né per 1’ arte encomialo ; lasciando a
chi leggelo da sospettare che egli amasse nel vivere le maniere appunto che
descrisse ; per essere gli scritti la immagine de’ cuori, come da tutti si
giudica. Colui ^ poi che ottimo sceglie l’argomento; ma ne scrive
scioperatamente, e come per caso, seguendo i ronoorl del volgo, nemmen’ esso ne
ottiene lode niuna ; imperocché si spregiano, se negligenti sleno e confuse le
storie delle città famose e de’ principi. Or pensando Io per uno storico esser
questi I canoni sommi ed inviolabili, ed avendone tenuto cura gelosa ; non
volli nè trasandare il discorso su di essi, nè compartirlo altrove, che nel
proemio. II. £ che io scelsi argomento, bello, grandioso, uti-' lissimo; non
bisognano, credo, molte parole a convincerne chi non affatto Ignora la storia
comune. Imperocché se alcuno recando 41 pensiero su’ governi antichissimi delle
città e delle genti e contemplandoli, parte a parte, o nel paragone dell’ uno
coll’ altro, voglia saperne qual di esse fondasse principato più grande, o che
più splendesse per azioni belle, in guerra ed in pace; vedrà che la signoria di
Roma sorpassò di gran lunga quante prima di lei se ne additano, non solo jper
grandezza d’impero e per luce d’imprese, cui niuno mai lodò' quanto basta, ma
per la durazione ancora del tempo che abbraccia, 6no al presente. Fu pur antica
la signoria degli Assirj, e ne chiama fino ai secoli favolosi ; ma non comandò
che su picciola parte dell’Asia. Abbattè la monarchia de’ Medi quella degli
Assiri, e crebbe a potenza maggiore sì, non però molto diuturna, cadendo alla
quarta successione. I Persiani fiacca t ono il Medo, e dominarono infine quasi
per tutto nel r Asia ; ben si gettarono poi su gli Europei, ma noti molto vi
profittarono, e tennero poco più che dugent’ anqi II comando. Il Macedone,
vinti li Persiani, superò colla sua tutte le dominazioni che precederono : Don
però fiorì lungo tempo, comiuciaiido a declinare alla morte appunto di
Alessandro : imperocché smembrato da’ successori il potere in molti principi,
sostennesi la monarchia fino alla terza o quarta generazione ; ma resa debole
per sé stessa, fu distrutta finalmente dai Romani : nou tenne poi mai servi
tutti i mari e le ter re : che non vinse in Africa se non l’ Egitto, il quale
non è vasto, nè sottomise tutta l’Europa ; ma nel settentrione di questa si
estese alla Tracia, e nell’ occaso fino all’ Adriatico. III. Pertanto i più
famosi degl’ imperj che precederono, giunti, come sappiam dalla storia, a tanta
forza e grandezza, rovinarono. Con essi non sono poi da paragonare le Greche
potenze le quali nè spiegarono mai si ampia la signoria, nè lo splendore si
diuturno. Gii Ateniesi quando più poterono in mare, ne dominarono per anni
sessantotto la spiaggia, e non tutta, ma quella solamente tra l’ Eusino ed il
mar di Pamfilìa. E gli Spartani impadronitisi del Peloponneso e del resto della
Grecia stesero fino alla Macedonia le leggi; ma non prevalsero che per quarant’
anni nemmeno interi, e trovarono
ne’Tebani chi li depresse. Ma la Repubblica romana signoreggia tutta la terra,
non già la testa uri o?ici in TpmiccfTx:
cioè nemmeuo iuteri treot’aimi. Isacco Casaubono vi saslilui rinrxfxi'oyTX cioè
quaranta. Pur questa emenda fu tolta, nè so perchè : concedendosi comunemente
che gli Spartani dopo vinti gli .Ateniesi al fìuinc Egio furono gli arbitri più
che 33 anni. Ciò stando non può dirsi nel testo m-mmeno interi treni’ anni, ma
usando un numero rotondo, dovremo leggere quaranta come il Casaubono. l4
PROEMIO, deserta, ma quanta ne è 1’ abitata : signoreggia tutto il mare non
solo nai mente Oenotro diciassette
generazioni avanti che a Troja si combattesse. E questa è l’epoca nella quale
mandarono i Greci nella Italia una colonia. Oenotro poi si levò di Grecia ;
perché non pago della sua parte : giacché nati essendo a Licaone ventidue
figli; aveasi l’Ai^ cidia a dividere in altrettanti. Per tale cagione lasciando
OcDOiro il Peloponneso, passò con fiotta gié preparata il mar Ionio, e
passavalo teco Peucezio l’uno de' fratelli di lui. Navigavano con essi molti
della sua gente, po^ pelosissima, come si dice, nelle origini ; e quanti altri
de’ Greci non aveano terreno ^he loro bastasse. Peucezio pigliò sede in sul
promontorio Japigio, appunto ove prima sbarcò nella Italia, cacciando chi v’
era, e da lui furono Pcucezj chiamati quanti abitarono que’ luoghi. Oenotro
guidando seco il più dell’ esercito, venne ad altro seno più occidentale
d’Italia, Ausonio allora chiamato dagli Ausonj, che la spiaggia nc popolavano.
Ma quando i Tirreni diventarono i padroni de' mari prese il nome che tien di
presente. IV. E trovando la regione bonissima da pascolarvi o da ararvi, ma
deserta in moltissimi tratti, anzi con poco popolo ov’ era abitata j dìé la
caccia a’ barbari in tina parte della medesima, e fondò citt.ì non grandi si,
ma frequenti in sui mouli ; com’era stile antichissi> mo, di situarsi. Così
tutta la regione fu detta Oenotria, essendone amplissimo lo spazio occupalo ;
ed Oeuotr) pure si dissero gli uomini tutti a’quali comandava, mutando nome per
la terza volta ; mentre Ezei si chiamavano dominandoli Ezeo, e poi subito
Licaonj quando al governo succedè Ligaone. Menati però nella Italia da Oenotro,
Oenotrj si nominarono per un tempo : nel che Sofocle il tragico mi è testimonio
net suo TriptoIcmo : perciocché vi s’ inU'oduce la madre degli Dei che dimostra
a Triptolcmo quanto spazio debba trascorrere per seminare i semi eh’ ella dati
gli aveva. Or ella, mentovato prima l’ oriente d’Italia dal promontorio
J.ipigio 6uo allo stretto Siciliano, e poscia additata la Sicilia che sta
dirimpetto; volgasi tosto alla Italia occidentale, e numera i popoli più grandi
della spiaggia, cominciando dagli Oenotrj: ma bastino le sole cose da lei dette
ne’ jambj, percl)è dice : Questo é do tergo ; a destra siegue tutto La Oenotrìa,
il mar Tirreno, e la Liguria. Antioco di Siracusa, scrittore antichissimo,
annoverando i primi ad abitare la Italia e le parli occupale da ognuno, afferma
che gli Oenotri in questo precederono ogni altro di cui s’abbia ricordo,
dicendo: jéntioco il figliuolo di Zenofanle compilò su la Italia queste cose,
le più credibili e più manifeste ira vecchi monumenti', la terra che ora Italia
dimandasi la ebbero antkhism simamente gli Oenotri : poi discorre in qual modo
la governassero, e come Italo un tempo divenisse re loro. 35 cd Itali ue
fossero oomioati : e poi Morgili per essere a Morgite venato quel principato. E
siccome stando Sicolo per ospite presso Morgite, e tentando appropriarsene la
signoria, ne divise le genti ; conclude : cosi gli Oenotri divennero e Sicoli e
Morgiti ed Italiani. V. Ora dichiareremo quanta fosse la gente degli Oenotri
allegando per testimonio nn altro vecchissimo autore, io dico Ferecide, non
secondo a niuno degK Ateniesi che trattasse delie genealogie. Egli fa su quelli
che dominaron 1’ Arcadia questo discorso: nacque Licaoue da Pelasgo e Dejanira
e sposò Cillene, una ninfa dell Najadi dalla quale ebbe nome il monte Cillene:
poi divisando i generati da questi e quai luoghi ciascuno abitasse, fa menzione
di Oenotro, e di Peucezio dicendo : Oenotro, donde Oenolrj son detti gli
abitatori Italia ; e Peucezio onde sono i Peucezj lungo il golfo Ionio. Tali
sono le cose dette da’ vècchj poeti e mitologi sul popolarsi d’Italia, e su la
origine degli Oenotri. In forza di che, se greca veramente è la stirpe degli
Aborigeni, come disse Catone, e Sempronio e molti altri ; io penso che
provenisse da questi Oenotrj : perocché trovo e Pelasgbi e Cretesi, e quanti
altri abitaron l’ Italia, venuti in tempi di poi : nè so vedere spedizione più
antica di questa, che si recasse dalla Qrecia alle parti occidentali di Europa.
Giudico poi che gli Oenotri occupassero molti luoghi d’Italia, o deserti, o
poco popolati, e parte smembrati ancora dalle terre degli Umbri, e che
Aborigeni si chiamassero per le abitazioni, come gli antichi le amavano, prese
ne’ monti: cosi pur v’ ebbero in Atene que’ della spiaggia e dd monti. Che ie
alcuni per indole non ricevono di subito senza prove quanto si afferma su cose
antiche, nemmen subito decidano esser questi, o Liguri ovvero Umbri, o tali
altri de’ barbari : ma sospendendo finché apprendano le cose che restano,
giudichino poi da tutte qual ne sia la più verìsimile. VI. Delie città che
furono degli Aborigeni, poche ora ne sopravanzano : perocché premute la maggior
parte dalle guerre, o da altri mali che straziano, finirono in solitudini. E secoudo
che Terrenzio Varrone scrisse nelle anlichilà, ve ne erano nell’ agro Reatino
non lungi dagli Appennini ; e le meno disgiunte da Roma, ne disiavano per lo
viaggio di un giorno. Di esse io ridirò le più celebri secondo la storia di
lui. Palazio è l’ una, lontana venticinque stadj da Rieti, cittade abitata da’
Romani fino a miei giorni, presso la strada Quinzia. Siede Trebula a sessanta
stadj pur da Rieti, su dolce collina : e da Trebula con pari intervallo
disgiungesi Vesbola dicontro a’ monti CerauBj: laddove quaranta stadj ne è
lungi Soana, città famosa con antichissimo tempio di Marte. Discostavasi Mifula
da Soana per trenta stadj, e se ne additano ancora le ror vine, e le vestigia
de’ muri. A quaranta stadj da Mifula elevavasi Orvinio, città, quanto altra
mai, chiara e grande in que’ luoghi : e segno ancora ne sono i fondamenti delle
mura di lei come le tombe di antica struttura, e li recinti pe’ cimiterj comuni
su’ monti altissimi : e là pure vedessi nella sommità di lei 1’ antico tempio
di Minerva : lungi dieci miglia da Rieti, procedendo per la strada Giulia, là
presso il monte Corito v’ era Cararbari, e soprattutto ai Sicoli, loro
conGnanti. E sa le prime pochi bravi, quasi giovani sacri mandati da genitori
in traccia de’ bisogni della vita, nscirono seguendo un primitivo costume, che
pur vedo seguito da molti de’ Barbari e de’ Greci. Imperocché quante volte le
città moltiplicavano tanto in popolo che non più bastassero ad esse i proprj
viveri ; quante volte fa terra danneggiata dalle mutazioni del cielo rendea
meno dell’usato; e quante volte altro caso non dissimile buono o rio le
necessitava a minorarsi di gente ; consacrando allora agl’ Idd^ d’anno in anno
una serie di discendeuti Digitized by Google libro I. 2g gii armavano, e li
congedavano. E con fausti augurii gli accompagnavano se giusta le patrie leggi
sacrificando, rendevano grazie ai cieli per la generazione copiosa, o per le
vittorie tra Tarmi : laddove se pregavano i Numi irati a rimovere da loro i
mali che tolleravano ; li dimettevano pure slmilmente, ma rattristandosi, e
chiedendo die loro si perdonasse. E quei sen partivano quasi non più avendo una
patria, se pure altra non sen facevano che li raccogliesse o per amicizia, o
combattendo, e vincendo ; ed il Nume al quale i congedati eran sacri parca per
lo più cooperare con essi, ed alzarne sopra la espettazione le colonie. Su tale
consuetudine gli Aborigeni, floridi allora in popolazione, e schivi, perchè noi
credeano il meno de mali, di uccidete alcuno de’ posteri, consacravano agl’
Iddii d’ anno io anno le generazioni, e via via dimetteano gli allievi, già
grandi fatti, dalla patria. Uscitine questi non desisterono di far contro i
Sicoli, e derubarli. Ma non si tosto conquistarono alcuna delle contrade
inimiche ; divenutine ornai più sicuri ancora gli altri Aborigeni i quali
bisognavano di terreno, insorsero parte a parte su’ confinanti : e fondarono
alcune città, e quelle, abitate ancor di presente, degli Antemnati, de’
Tellenesi, e de’ Ficolesi presso i monti Cornicli nominati, e dei Tiburtini
finalmente, tra’ quali evvi un luogo della città che pure a dì nostri si chiama
Siciliano. Nè furono ad altro vicino più molesti che incontro de’ Sicoli. Sorse
da tali contrasti guerra con tutte le genti ; talché mai non fu per addietro la
più grande in Italia, e v’ infierì lungo tempo. Dopo questo alcuni de’ Pelasgbi
che abitavano la regione ora detta Tessaglia costretti di trasmigrarne,
divenuei'o gli ospiti degli Aborigeni ; ed i compagni di arme, contro
de’SicoIi. Gli accolsero gli Aborigeni forse {icr la speranza, io penso, di un
utile, ma più per la comunanza di origine: perocché son pure i Pelasgbi un
greco lignaggio, antichissimo del Peloponneso : quan tunque sciaurati per molte
cose e principalmente per la vita errante, nè mai stabile in sede ninna. E
certo, come molli affermano su di essi, abitarono su le prime la città che ora
chiamasi Argo di Acaja ; traendo il nome di Pelasgbi da Pelasgo, loro sovrano,
generato da Giove e da Niobe la figlia di F oroneo, quando il Dio si congiunse
la prima volta con donna mortale, come è ndle favole. Poi nella sesta
generazione lasciato il Peloponneso, passarono nella Emonia che ora Tessa glia
si nomina ; e duci furono del passaggio Acheo e F tio, e Pelasgo, figli di
Larissa e di Nettuno. Giunti nella Emonia ne cacciarono i barbari che 1’
abitavano, e la divisero in tre regioni cognominandole da’ condot tieri, F
liotide, Acaja, e Pelasgiote. Fissi colà da cinque generazioni, lungamente vi
prosperavano, profittando pur de’ campi migliori della Tessaglia: ma intorno la
sesta generazione ne furono espulsi da Cureti, e da Lelegi che ora sono gli
Eioli ed i Locri, e da più altri che abitavano intorno del Parnasso, guidando i
nemici Dencalione il figlio di Prometeo e di Glimene nata dall’ Oceano. ' X.
Dispersi nella fuga, altri vennero io Creta, altri ottennero alcune deile
Cicladi. Alcuni abitarono la regione intorno di Olimpo e di Ossa, ora detta
Estiotidc: ed altri furon portati nella Beozia, nella Focide e nella Eiubea :
alcuni tragittandosi in Asia occuparono molte delle spiagge deli’ Ellesponto e
molte delle isole dirim> petto, e quella che ora Lesbo si chiama,
mescolatisi alla colonia che prima andavaci dalla Grecia sotto gU auspizj di
Macaro Gglio di Criaso. La maggior parte però dirigeudosi entro terra a’ loro
parenti i quali albergavano in Dodona, ed a' quali, come sacri, niuno facea
guerra, abitarono quivi alcun tempo : ma poiché si avvidero che eran di
aggravio, non bastando la terra a nutrire tutti in comune, se ne involarono,
mossi dalr oracolo che ordinava loro di navigare in verso la Italia, allora
chiamata Saturnia. E fatto apparecchio in copia di navi, passarono il mar
Jonio, procurando giungere in parti presso la Italia. Ma pel vento di
mezzogiorno, e per la imperizia de’ luoghi, portati più oltre capitarono ad una
delle bocche del Pò chiamata Spi” itelo e quivi lasciarono le navi, e la turba
meno idonea ai travagli con un presidio, per avervi una ritirata, se i disegni
non riuscivano. Or questi rimanendo in quella regione circondarono di muro il
campo dell’ esercito, cd introdussero colle navi copia di vettovaglie. E poi
che videro succedere loro le cose come voleano, fabbricarono una città coLnome
appunto dellabocca del fiume. Quindi prosperando più che tutti su le spiagge
dell’ Jonio, e prevalendo lungo tempo sulle onde, portarono quant’ altri mai,
decime vistosissime in Delfo alla Divinità, de’ beni tratti dal mare. Da ultimo
però venendo amplissima guerra su loro da’ barbari intorno, ' losciarono la
città, donde anche i barbari furono dopo nn tempo cacciati da’ Romani. Cosi
mancarono i Pela minandola da Larissa, metropoli loro nel Peloponneso. Delle
altre città ne resta pure alcuna fino a miei giorni, quantunque variati spesso
gli abitatori: ma Larissa è distrutta già (la gran tempo : nè presenta dell’
antica esistenza altro segno più manifesto che il nome, e nemmeno questo è noto
a moltissimi. Era non lontana dal foro chiamato Popilio. Finalmente possederono,
togliendoli a Sicoli, molti altri luoghi entro terra, o lungo la spiaggia.
XIII. I Sicoli ornai non più valevoli a resistere ai Pelasghi ed agli
Aborigeni, riunendo i figli e le mogli e quanto aveano di moneta in oro ed
argento, si levarono in tutto da quella terra. Ripiegatisi a’ monti verso del
mezzogiorno, e trascorsa tutta l’ Italia inferiore, siccome dovunque erano
discacciati, apparecchiarono in fine delle barche nello stretto, e notandovi il
flusso e (piando era fausto, passarono dalla Italia in su l’ isola vicina.
Allora i Sicani, Spagnuoli di origine, la pouedevano, nè da gran tempo vi erano
stati ammessi, cercando uno scampo dai Liguri; e già per essi era detta Sicania
l’isola un tempo chiamata Trinacria^ per la figura sua di triangolo. Non molti
erano in questa grand’isola gli abitatori; ma la più gran parte vedeasi ancora
deserta. Giunti i Sicoli ad essa, ne abitarono su le prime i luoghi occidentali,
e mano a mano più altri, talché l’isola ne fu detta Sicilia. Cosi la gente de’
Sicoli abbandonò la Italia ', tre generazioni, come Ellanico di Lesbo scrive,
prima delle cose trojane, correndo in Argo r anno vigesimo sesto del sacerdozio
di Alcione. Perciocché stabilisce due passaggi fatti dalla Italia nella Sicilia
il primo degli Elimei cacciati dagli Oenotri, e l’altro dopo cinque anni degli
Ausoni, che fuggivano i Japigi. Dice che re di questi fu Sicolo, donde ebbero
il nome gli uomini e 1’ isola. Filisto però di Siracusa scrisse che 1’ anno di
quella discesa fu 1’ otuntesimo innanzi la guerra trojana: e che non Sicoli,
non Ausonj, non Elimei, ma Liguri furono gli uomini trasportati dalla Italia,
conducendoli Sicolo, figliuolo di Italo, e che dalla signoria di quello furono
Sicoli nominati. Lasciavano i Liguri le patrie terre, astrettivi dagli Umbri e
da’ Pelasghi. Antioco di Siracusa non distingue il tempo del tragitto; ma
Sicoli dichiara quelli che tragittarono, premuti dagli Oenotrj e dagli Umbri,
pigliatosi nel trasmigrare Sicolo per condottiero. Tucidide scrive che Sicoli
furono i profughi, e Opici quelli che li fugavano, per altro molti anni dopo la
guerra di Troja. E queste sono le cose che affermansi da uomini riguardevoli
intorno de’ Sicoli, passati dalla Italia nella Sicilia. XIV. Impadronitisi i
Pelasghi di una regione ampia e bella, ne ebbero pur le città ; poi fondandone
altre ancor essi, crebbero presto e molto in forze, in ricchezze, ed altri beni
; non però ne goderono lungo tempo. Ma sembrando floridi troppo per ogni parte
furono sbattuti dall’ ira de’ celesti, e quali ne perirono per divine calamità,
quali pe’ barbari confinanti : e la parte più grande ne fu dispersa tra’
barbari, o nuovamente Ira’ Greci, e lungo ne sarebbe il discorso se per
Digitized by Coogle tninuto seguissi un tal fatto. Pochi ne sopravanzaronc
nella Italia per cura degli Aborigeni. Parve alle città che la origine prima di
un tale struggersi di famiglie fosse la siccità che intristiva la terra, talché
non restava frutto alcuno Gno al maturarsi negli arbori; ma innanzi tempo
cadevano 5 nè i semi che sbucciavano in germi, vegetavano Gnchè le spighe
floride si empiessero nei tempi naturali, nè bastavano i pascoli alle greggio.
Non più le fonti eran atte a toglier la sete, guaste, impicciolite o spente
dagli estivi calori. Consentivano con ciò le vicende delle bestie e delle donne
nel generare : e quale sconciavasi in aborti, e quale dava Agli, morenti nel
parto, o fatali nell’ utero ancora alle madri. Se scampavano 1 pericoli del
parto, mutili, o storpi, o manchevoli per altro disagio, non eran’ utili, onde
si allevassero. L’ altra moltitudine poi, specialmente la più vegeta era colta
da mali, e da morti frequenti più delr usato. E consultando l’ oracolo per
quale violazione di genj o di Nomi questo patissero, e per quali pratiche mai
fosse da sperare una calma in tanti orrori, udirono ciò essere perchè esauditi
ne’ loro desiderj, non aveano penduto quanto promisero ; ma dovevano ancora
agli Dei cose preziosissime. Imperocché li Pelasghi l’idotti a penuria di ogni
cosa nelle loro terre, si votarono a Giove, ad Apollo, ed ai Cabiri di santiGcare ad essi le decime di ogni
prodotto. Appagati nella preghiera presero ed offerirono agli Dei parte delle
messi e de' frutti, quasi votati si fossero per questo soltanto. Forte Castore e Polluce. E certo che erano
Dei di Sanietracia. Digilized by Google 38 DELLE Antichità’ romane Mii'silo di
Le$bo scrive ciò quasi con le parole medesime, toltone, che egli chiama Tirreni
e non Pelasghi quegli uomini, di che dirò più sotto le cause. XV. Ascoltato 1’
oracolo non sapevano interpretarlo. Fra dubbj loro un più vecchio,
raccogliendone i sensi, disse che erravano affatto, se credevano che gli Dei li
punissero a torto : volere il diritto ed il giusto, che si desse loro la
primizia di tutto : nondimeno aspettavano ancora parte della generazione degli
uomini, cosa più che tutte ad essi accettissima: se avessero questa, l’oracolo
sarebbe adempito. Parve ad altri che costui parlasse rettamente ; ad altri che
tendesse delle insidie. E proponendo un tale che s’ interrogasse il Dio se
gradiva che si facessero per lui le decime, ancora degli uomini ; inandarono i
sacri vati per questo, e rispose che si facessero. Quand’ecco sedizione fra
loro sul modo di decimarsi : e prima surse a vicenda tra’ capi della città ;
poi l’altra moltitudine prese i suoi magistrati io sospetto: nè già
sollevavansi con regola alcuna, ma come per entusiasmo e per divino furore.
Cosi molte case furono abbandonate, trasmigrandosi parte di essi, nè sostenendo
gli attenenti di essere abbandonati dai loro carissimi, e restarsene tra i più
crudi nemici. Primi questi levandosi dall’ Italia errarono per la Grecia, e
molto tra’ barbari: quindi ancor altri incorsero ne’ mali medesimi,
continuandosi ogni anno la decima. Nè i magistrati la sospendevano, ma
sceglievano le primizie de’ giovani più robusti pe’Numi, quantunque nel
proposito di soddisfare agli Dei, temessero i moti di chiusciva a sorte per
vittima. Erano ancora non pochi espulsi dagli avversar). 3^ per nimiclzia,
lutto che sotto specie di oneste cagioni. Laonde spessissime furono la partenze
; e la gente Pelasga errò dispersa in più terre. XVI. Erano i Pelasghi, vivendo
in mezzo a genti bellicose tra cure e pericoli, divenuti assai buoni nelle armi,
e più ancora nella nautica per avere coabitato co’ Tirreni. La necessiti che
ne’ stenti della vita ispira coraggio, fu loro maestra e direttrice in tutti i
cimenti. Perciò non difUcilmente dovunque ne andavano vincevano. Erano chiamati
ad un tempo Pelasghi e Tirreni dagli altri uomini si pel nome delia regione
donde par ti vano, come in memoria della origine antica. Ora io dico ciò perchè
alcuno udendoli chiamati Pelasghi e Tirreni da’ poeti e dagli storici, non
meraviglisi come abbiano ambedue le denominazioni. Tucidide in Atte di Tracia
fa menzione di loro e delle città che vi era no, abitate da uomini bilingui : e
questo è il dir suo su’ Pelasghi. Ivi sono de Calcidesi, ma i più sono Pelasghi,
cioè que’ Tirreni che abilarono un tempo Lemno ed Atene. E Sofocle nel dramma
suo dell’ Inaco fa questi versi detti dal coro : Inaco genitor, figlio de'
fonti Bel padre Oceano, assai splendendo, reggi Le terre d’ Argo e di Giunone i
colli E i Tirreni Pelasghi. Quindi il nome de’Tirreni risuonava in que’ tempi
nella Grecia : e tutta la Italia occidentale lo assunse ancora per sé,
lasciando i nomi speciali de’ suoi popoli. Occorse già pari vicenda nella
Grecia e nella regione ora detta Peloponneso: giacché dagli Achei, che eran
Tuno de popoli che v’ abitavano, fu detta Acaja tutta la Pe nisola ov’ erano
gli Arcadj, c li Jonj, ed altre nazioni non poche. XVII. L' epoca nella quale
cominciarono i Pelasghi a decadere fu quasi nella seconda generazione innanzi
la guerra di Troja, e durarono, direi, dopo ancora di questa 6nchè si ridussero
ad un gruppo di gente. E, salvo la città di Crotone, famosa nell’ Umbria, e
tale altra, se pur v’ ebbe, data loro ad abitare dagli Aborigeni, perirono
tutte le rimanenti de’ Pelasghi. Crotone serbò lungo tempo l’antica sua forma,
ora non è molto, ha mutato nome ed abitatori, e divenuta colonia romana, si
chiama Cortona. Varj poi furono c molti che occuparono le sedi abbandonate da’
Pelasghi secondo che ciascuno vi confinava ; ma le migliori e le più si
rimasero pe’ Tirreni. Quanto ai Tirreni v’ è chi li dice naturali d’ Italia e
chi forestieri. E quei che li stimano propri della regione, affermano che si
diè loro quel nome per gli edifizj sicuri, che essi i primi di quanti vi erano,
si fabbricarono : imperocché le abitazioni con muri e con tetto son tirseis
chiamate dai Tirreni come da’ Greci. Cosi pensano imposto loro quel nome per
accidente come nell’ Asia ai MosinIcI dalle mosine che sono le case di legno
abitate da essi, altissime in forma di torri. XVIII. Ma quelli che favoleggiano
che i Tiireni sono stranieri, additano un tale, detto Tirreno, che fa Ssronito altri Cotorni'n. 4 1 duce della
colonia, e dal quale ebbe nome la nazione. Dicono che originario fosse di Lidia,
chiamata già Meonia; e che da indi antichissimamente si trasmigrasse; e che
egli fosse il quinto dopo di Giove. Imperocché narrano che da Giove e dalla
terra nacque Mani, il primo a regnare in que’ luoghi : che da questo e da
Calliroe. figlia dell’ Oceano nascesse Coti ; che da Coti sposatosi con Alle,
figlia di Tulio, uomo paesano, germinassero due figli Adie ed Ati : che da Ati
e da Callitea figliuola di Coreo sorgessero Lido e Tirreno : e che Lido
rimastosi in que’ luoghi succedesse al regno paterno, e Lidia lo denominasse
dal suo nome ; ma che Tirreno fattosi duce di una colonia occupò gran parte
d’Italia, Tirreni chiamando il luogo, e quanti lo seguitarono. Erodoto però
dice che Tirreno nacque da Ati figlio di Manco, e che P andarsene de’ Meonj
nelr Italia non fu volontario. Imperciocché narra che regnando Ati si mise la
penuria tra Meonj : che gli uomini ritenuti dall’ amore della regione si
argomentarono in più modi a vincer quel male, taluni di colla parsimonia, e tal
altri con 1’ astinenza : ma che prorogandosi la sciagura, tutto il popolo
diviso in due, decise per le sorti chi dovesse di là trasmigrarsi, e chi
rimanere y e che perciò 1’ un figlio di Ati si stette, partendosi r altro : la
moltitudine che pendeva da Lido trasse colle sorti il suo meglio, e si stette ;
ma 1’ altra pigliando quanto le si dovea per le sorti in danaro, navigò verso r
occidente d’ Italia, e postasi dove erano gli Umbri, vi fondò città che
duravano ancora al suo tempo. Ben so che altri non pochi scrissero, appunto
come io scrissi, della origine de’ Tirreni ; ma che altri ne variano il
fondatore ed il tempo. Imperocché dissero alcuni che Tirreno era figlio di
Ercole e di Onfale Lidia : che venuto questo in Italia, espuke i Pelasghi dalle
loro città, non però da tutte, ma da qnelle poste di là del Tevere su le parti
boreali. Altri però ci fan vedere in Tirreno un figliuolo di Telefo venuto in
Italia dopo la rovina di Troja. Zanto lidio perito quant’ altri mai delle
storie antiche, e creduto nelle patrie non inferiore a niuno, nè mentova in
parte alcuna de’ suoi scritti un tirreno signore de’ Lidj, nè conosce passaggio
alcuno de’Meonj nella Italia, nè parla mai de’ Tirreni come di Lipia colonia,
sebbene parlasse di cose ancora bassissime. Dice che Ati generò Lido e Toribo,
che dividendosi il regno paterno si rimasero ambedue nell’ Asia, c che diedero
il nome loro a’ popoli su’ quali comandavano. Imperocché scrive: da Lido si
fecero i Lidj, e da Toriho i Toribi 5 poco d’ ambedue differisce l’ idioma, e
gii uni, come li Jonj e li Doriesi, usano a vicenda le parole degli altri :
Ellanico di Lesbo dice che i Tirreni chiamati già Pelasghi assunsero il nome
che or hanno, quando abitarono la Italia ; imperocché nel suo Foronide scrive, da Pelasgo re loro, e da Menippe
figliuola di Peneo nacque Fraslore, da questo surse Amintore, che diede
Teutamide, e da Teutamide ebbesi Nanas j regnando il quale i Pelasghi, profughi
dalla Grecia Opaieolo di Ellaaieo; ne fa
meniione Ateneo nel lib. 9.. 4^ lasciarono le navi dove il fiume Spineto esce
nel mare Ionio , ed invasero entro terra la città di Crotone; e di là movendosi
fondarono quella che Tirrenia ora si chiama. Mirsilo sponendo come Ellauico le
altre cose, dice tuttavia che i Tirreni quando erravano profughi dalla patria,
furono detti Pelasghi per certa somiglianza loro con le cicogne, pelarghi
chiamate; giacché passavano in truppa per le terre de’ Greci e de’ barbari:
aggiunge che essi alzarono il muro detto Pelargico intorno la rocca di Atene.
XX. A me però sembra che s’ ingannino quanti si persuasero che i Tirreni e i
Pelasghi non sieno che una gente ; perciocché non è meraviglia che alcuni
abbian talvolta il nome di altri, mentre in pari vicenda incorsero ancora altri
popoli greci o barbari come i Trojani ed i F rigi, perchè prossimi di regione.
Eppure molti fanno di questi due popoli Un solo, quasi distinti di nomi, non di
lignaggio. I popoli poi d’Italia, nom meno che quei d’altri luoghi, furono
confusi ne’ nomi. E v’ ebbe un tempo quando Latini, Umbri, Ausoni, e molti
altri si chiamavano Tirreni da’ Greci ; riuscendo ogni ricerca di questi men
chiara per la lontananza di que’ popoli : anzi molti degli scrittori pigliarono
Roma ancora per città de’ Tirreni. Io dunque penso che queste genti mutassero
il nome, variandosi fino il vivere : non penso però che una fosse la origine di
ambedue, per molte cagioni, e più per le voci loro non simili, Qui si estende il nome di ionio all’interno
dell’ Adriatico. Spesso gli storici antichi cosi praticarono contro 1’ uso de’
geografi che distinguono 1’ uno dall’ altro mare. ma diversissime. Imperciocché
nè li Crotoniati come scrive Erodoto, nè
li Piaciani ne’ proprj luoghi parlan la lingua dei circonvicini ; ma una ne
parlano tutta lor propria; donde è manifesto che serbano i caratteri delr
idioma che aveano quando in que’ luoghi si traslatarono. Meraviglisi poscia chi
può che li Crotonlati somiglino nell’ idioma al Piaciani, popoli ne’ lidi dell’
Ellesponto, nè somiglino intanto a’ vicini Tirreni. Erano que’ primi ambedue
Pelasghl ne’ principj loro : e se la unità di origine prendesi per causa della
uniformità nei linguaggi ; dunque la differenza di origine è pur causa del
divario di essi ; non dando un principio medesimo contrarj gli effetti.
Certamente, se avvenga, ben è ragionevole quello, cioè che uomini di una gente
medesima domiciliatisi lontani fra loro non conservino i caratteri de’ proprj
idiomi per lo conversar col vicini; ma che poi negl’idiomi non somiglino popoli
di una origine istessa, e d’ istesse contrade, ciò non è ragionevole per ninna
maniera. Seguendo tali indizj convincomi che differiscono i Pelasghi dai
Tirreni ; nè credo i Tireeni un tralcio de’ Lidj ; perocché nè parlano la
lingua medesima, nè può dirsi che se non la parlano, ritengono almeno alcuni
vestigi della teiTa materna, nè tengono per IdJj que’ che da’ Lidj si tengono ;
nè li somigliano per leggi o per abitudini, ma in ciò dai Lidj si diversificano
più, che da’ Pelasghi. Pertanto sembrano più verisimili quelli, che dicono un
tal popolo, naturale Cortoncsi. della
contrada, non venutovi altronde : pérciocchè si rinviene antico in tutto ; nè
simile ad altri nel parlare, o nel vivere : e niente ripugna che avesse un tal
nome da’Greci o per le abitazioni fortissime
o per l’uomo ancora che li dominava. Ma i Romani con altri nomi li
chiamano Etruschi dalla Etruria, regione dove un tempo abitarono : ed ora li
dicono Toschi men propriamente, avendoli come i Greci, nominali prima con più
verità Tioscovi per lo magistero nelle cerimonie del culto divino, nelle quali
sorpassano lutti, Que’ popoli inoltre distinguono sè stessi dal nome di Rasenna
r uno già de’ loro comandanti. Sarà poi dichiarato in altro libro quali città
fossero abitate dai Tirreni e con / quali forme di governo, quanta fosse di
tutti insieme la potenza, e quali, se pur degne ne ebbero di ricordanza, le
azioni ne fossero, e le vicende. 1 Pelasghi che non perirono, nè si disgiunsero
per fare colonie, si rimasero, pochi di molti, con gli Aborigeni, sotto le
leggi de’ luoghi ne’ quali si lasciavano, e ne’ quali col volger degli anui i
posteri loro fondarono Roma. E tali sono le novelle intorno de’ Pelasghi. Dopo
non molto tempo, nell’ anno, al più, sessantesimo come narrano i Romani, prima
della guerra trojana, capitò ne’ luoghi medesimi un’ altra spedizione di Greci
la quale abbandonava il Pallanteo, città delr Arcadia. Il duce erane Evandro,
figlio di Mercurio, e di una ninfa, abitatrice di Arcadia. I Greci la tengono
per ispirata da’ Numi, e la chiamano Temide ;
Tirseis delle di opa J xvii. ma Carmeiita è delta nella patria lingua
da’ romani che scrissero le antichità di Roma: perocché la ninfa avrebbesi a
dir propriamente Tespi-ode con greca parola : ma le odi chiamansi carmi da’
Romani, e quindi è Carmenta : si consente poi che tal donna presa dallo spirito
divino presagisse, cantandole, le cose avvenire ai popoli. Non venne quella
spedizione di comun sentimento; ma nata sedizione del popolo, la parte
inferiore, di voler suo si spatriò. Dominava di que’ tempi su gli Aborigeni
Fauno, un discendente come dicono di Marte, uomo di azione e di prudenza, e
riverito da’ Romani con sagrifìzj e con inni come un genio del loco. Ricevè'
costui con assai benevolenza gli Arcadi che erano pochi, e diede loro della sua
terra, quanta ne vollero ; ed essi, come Temide gli avea, vaticinando,
ammaestrati, presero un colle poco lontano dal Tevere, il quale ora è nel mezzo
di Roma, e tanto vi fabbricarono, che bastasse alle genti venute con le due
navi dalla Grecia. Era questo il principio segnato dai. destini per formare col
volger degli anni una città, non pareggiala mai da greca o barbara città per
grandezza di abitazioni, di comando, e di ogni bene, e certamente memorabile
soprattutto finché dureranno i mortali. Pallanteo chiamarono quel fabbricato
come la metropoli loro in Arcadia: ora Palagio è detto da’ Romani per la
confusione che inducono i tempi ; e ciò diede a molti la occasione di stolte
etimologie. Dicono molti, e tra questi Polibio di Megalopoli, che quel nome
viene da Pallante, un giovinetto ivi morto, nato da Ercole e da Cauna la
6glia di Evandro: perchè facendogli
questo avolo materno in quel colle un sepolcro, chiamò ' Pallanteo, quel luogo
dal giovinetto. Io nè mirai in Roma la tomba di Fallante, nè conobbi che vi si
praticassero funebri onori, nè potei conoscere nulla di slmile : quantunque la
famiglia di lui non sia dimenticata, nè priva del culto col quale i semidei
sono venerali dagli uomini. Perocché vidi che i Romani faceano gelosamente ogni
anno pubblici sacriGzj ad Evandro e a Carmenta, come agli altri genj ed eroi :
e vidi gli altari dedicali a Carmenta appiè del Campidoglio presso la porta
carmentale, e quelli dedicali ad Evandro appiè dell’ altro colle detto Aventino,
non lungi dalla porta trigemina ; nè vidi intanto cosa ninna di queste latta
inverso Fallante. Gli Arcadi i quali coabitavano appiè del colle, eressero pure
altri monumenti nelle forme della patria, e santi riti v’ istituirono ; ma per
ispirazione di Temide, innanzi lutti a Pane Liceo, Nume il più antico e più
riverito tra quelli di Arcadia, in sito idoneo, che i Romani chiamano Lupercale,
e noi diremmo Liceo. Ora empiuto essendosi di abitazioni il suolo intorno ; non
è facile rintracciarne la natura del luogo. Era questo, come dicono, appiè del
colle, una spelonca, vetusta, grande, coperta da una querce, ramosa qual bosco :
profonde bulicavano le fonti abbasso delle pietre ; e lo spazio appresso ai
dirupi era opaco per arbori, altissime e folte. Qui collocando un altare a quel
Nume compierono il patrio sagriGzio, che i Romani, non mutando cosa alcuna
delle antiche allora fatte, ripetono ancora di presente dopo il solstizio d’
inverno nel mese di febbrajo. La maniera del sagrìGzio sarà detta più innanzi.
Ergendo poi su le cime del colle un tempio alla Vittoria, stabilirono in questo
ancora annui sagriGzj che i Romani tributano ancora. Gli Arcadi favoleggiano
che questa sia figlia di Fallante generata da Licaone : e Minerva, fece, che
ricevesse da’ mortali gli onori che le si rendono ; imperocché fu essa educata
colla Dea, giacché la Dea nata appena fu consegnata da Giove a Fallante, e
presso lui fu nudrita finché ascese alle stelle. Fondaronoancora un tempio a
Cerere ed il sagrifizio, che faceano le donne ma non usate al vino, com' era la
pratica de' Greci : nel che 1’ andare del tempo non ha cagionato mutazioni,
fino a miei giorni. E Nettuno Ippio ebbe pure il suo tempio e le feste, dette
Ippocratie da’ Greci, ma ConsucUi da' Romani: e Roma in esse libera per uso dal
travaglio cavalli e muli, e ne incorona le teste di fiori. Consecraronu
similmente altri tempj, altri altari, altri simulacri, costituendo
purificazioni e sacrifici, ritenuti ancora ne’ modi medesimi. Né già sarei
meravigliato se alcune di queste cose neglette, come antiche troppo, non
avessero più ricordanza tra’ posteri : nondimeno le consuetudini presenti danno
ancora assai da congetturare su’ riti arcadici d’ allora, de’ quali diremo
altrove più pienamente. Dicesi che gli Arcadi recassero i primi nella Italia 1’
uso delle lettere greche, note ad essi da poco, e la musica della lira, della
tibia e del trigono, non sonandosi ivi altri armonici stromenti che le sampogne
de’ pastori : e dicesi che vi introducessero le leggi, vi raddolcissero le
maniere del vivere, 6ere in gran parte, e che vi diflondessero le arti, e le
istruzioni, ed altre utili cose in gran nume ro onde assai ne furono rispettati
dagli ospiti. Questa greca moltitudine, seuouda dopo i Pelasghi, giunta nella
Italia ebbe comune 1’ abitazione con gli Aborigeni in uno de’ bonissimi luoghi
di Roma. Pochi anni dopo degli Arcadi vennero nella Italia altri Greci, guidati
da Ercole il quale avea domato la Spagna, e le parti, fiu dove il sole
tramonta. Alcuni di loro, implorato da Ercole il congedo dalla milizia, si
fermarono in questi luoghi ; e trovando un colle opportuno, lontano al più tre
sladj dal Pallanteo, vi si accasarono : chiamalo alloca Saturnio, o Crònio come
i greci direbbono, ora si chiama Capitolino. Erano quei che rimasero per la più
parte del Peloponneso, io dico i F enueati, e gli Epei della EUide, disamorati
di viaggiare in verso la patria, perchè devastata nella guerra con Ercole.
Mescolavansi ad essi alcuni de’ Trojani &tti prigionieri quando Èrcole
prese già Troja, regnandovi Laomedonte. E pormi che in quei luogo si
annidassero ancora tutti di quell’esercito, quanti o stanchi dalla fatica, o
dal rigirarsi ottennero levarsi dalla milizia. Alcuni, come ho detto, stimano
antico il nome del colle ; tanto che gli Epei gli si affezionarono nommeno in
memoria del colle, Gronio chiamato nella Elide in su le terre di Pisa lungo le
rive dell’ Alfeo. Gii Elicsi riputando quel poggio loro sacro a Saturno vi si
adunano in fìssi tempi, e l’onorano con sacriGzj e con altro colto. Nondimeno
Eusseno, ed altri mitologi VIOlfJGT, tomo I. i 5o nr.Italiani pensano che i
Pisani per la simiglianza del Cromo loro dessero il nome anche all’ altro : che
gli Epei con Ercole erigessero a Saturno l’ altare che trovasi alle falde del
colle presso la via che mena dal Foro al Campidoglio : e che essi istituissero
il sagriCzio che i Romani v’ immolano ancora con greche cerimonie. Ma io,
paragonando, trovo che prima della
venuta di Ercole nella Italia quel luogo era sacro a Saturno, e Saturnio
chiamavasi da’ terrazzani : e che tutta 1’ altra regione, che ora dimandasi
Italia, era dedicata ancor essa a quel Nume, e Saturnia nominavasi dagli
abitanti, come trovasi detto nelle risposte date dalle sibille o da altri
Iddii. Eid in molti luoghi di questa sonovi de’tempj alzati a quel Nume, ed
alcune città da lui si denominano, come allora tutta la Italia: e portano
ancora il nome del Dio molti luoghi, singolarmente i monti e le rupi. Col
volger degli anni fu detta Italia per un uom potentissimo, Italo nominato.
Antioco di Siracusa lo dipinge per uomo destro e filosofo, il quale convincendo
molti popoli col dire e molti colla forza, ridusse in poter suo quanto v’ è tra
’l golfo Napitino e quello di Scilla : e
quel tratto fu il primo che Italia da Italo si dicesse. Dopo ciò scrive che
divenuto più forte, fece che molti altri gli ubbidissero; perocché mise il
cuore su’confinanti, e ne prese molte città: e scrive finalmente eh’ egli era
Qenotro di nazione. Ella(l) Cluverio in tini. Aniiq. I. IV crede die deliba
Irgf’ersi Lame/in in Tece di IVrpitino. Filoguno k di parere die Lamet città di
Lucania desse nome a questo golfo.. !) I iiko di Lesbo narra die Ercole
coiiJucevasi i bovi di Gerione alia volta di Argo, ma che essendo già nell'
Italia il tenero figlio di una vacca spiccossegli dall’ armento, e profugo vi
errò da per tutto ; finché solcalo il mare interpostp giunse nella Sicilia :
che cercando Ercole quell’ animale, e chiedendo ovunque capitava, se alcuno lo
avesse veduto de’ paesani, siccome poco intendevano il greco, e da’ segni lo
chiamavano come aneli’ oggi si chiama nella patria lingua vitello ; cosi
Vilalia chiamò tutta la regione da questo percorsa. Non è poi meraviglia che uu
tal nome si tramutasse com' è di presente ; mentre tanti greci nomi eziandio
subirono pari vicende. Ma, sia che prendesse quel nome, come dice Antioco, dal
condottiero, il che forse è più probabile, sia ebe dal vitello come pensa
Ellanico ; raccogliesi da ambedue che lo prese intorno ai tempi di Ercole, o
poco prima ; essendo chiamala iunanzi Esperia ed Ausonia dai Greci, e Saturnia
da [laesani, come di sopra fu detto. Coutasi ancora tra qne’ popoli la novella
ebe innanzi al principato di Giove ivi Saturno regnasse: e che tra loro più che
altrove si avesse quella vita sì famosa, beata per tutti i beni, quanti le
stagioni ne apportano. Ma se alcuno risecando ciocch’è di favoloso nel discorso,
vaglia Intenderne la bontà di quella gioite, dalla quale il genere umano, sorto
di recente dalla terra, come è vecchia fama, o d’ altronde, ne raccolse
vantaggi moitissiini, e giocondissimi ; non troverà [>cr tal fine suolo pili
acconcio di questo. Iiiiperocciiè se paragonisi una terra con altra di eguale
granàezza, T Italia pei mio giudizio è la migliore neU' Europa, e dovunque. Non
ignoro clie io sembrerò dir cose incredibili a molti, i quali risguardano
l’Egitto, la Libia, e Babilonia, e quante altre vi sono beate contrade: ma io
non pongo la ricchezza della terra in una specie sola di prodotti, nè
invidierei di abitare dove pingui sono le campagne, nè vi si scorge altro bene
se non tenuissimo: ma quella regione chiamo la migliore la ^ale sia
bastantissima a sé Stessa, e che meno abbisogni deir altrui. Sono poi persuaso
che la Italia paragonata con altra qualunque, appunto sia la terra datrice di
ogni frutto, e di ogni utile. E certamente, se comprende campagne felici e
molte, non perchè madre è di messi, è men propizia per gli arbori : e se vale
assai per ogni genere di alberi, non perchè tale, è poco ubertosa^ nel
seminarvi: o s’ è bonissima per ambedue questi usi, non per questo è men
propria pe’ bestiami : nè perchè varia si dimostri ne’ prodotti e ne’ pascoli è
disamena poi se vi si abita. Ma direi che di ogni agio soprabbonda e di ogni diletto.
E qual terra mai frumentaria vince le terre dette della Campania, bagnate dalle
acque non de’fiumi, ma del cielo f Io vi contemplai campagne che davano tre
raccolte nudrendo dopo i semi del verno, quelli per la state, e dopo gli estivi,
gli altri in 6ne per 1' autunno. Quale coltivazione supera in olio quella dei
Messapj, de’ Daunj, de’ Sabini e di altri? Qual mai suolo con vigne sorp rende
più che il Tirreno, l’Albano e il Falerno 7 il quale ama così le viti, che ne
porge col tnen di lavoro amplissimi frutti e bonissimi. Ma oltre le terre che
si lavorano, ivi molte pur se ue trovano, riservate per le capre e per le
pecore ; ma più mirabili ancora sono quelle da pascervi le mandre dei cavalli e
de’ bovi: imperocché soprabbondandovi l’erba palustre c dei prati, e
riuscendovi fresca e rugiadosa nelle parti che si coltivano, dan pascoli senza
limite in tutta l’estate, e mantengono in fiore gli armenti. Qual dolce
spettacolo ivi sono le selve per balze, per valli, per colli non culti, e di
qnale e quanto niateriale per le navi e per altre operazioni ì Nè già cosa
alcuna di queste è dilTìcile ad ottenerla, nè rimota dall’uso degli ^ uomic :
ma tutte sono pianissime, e tutte facili a trasmettersi per la moltitudine de’
fiumi, i quali scorrono tutta la regione : e li quali con utile vi agevolano i
trasporti e le permute dei prodotti della terra. Vi si trovano ancora in più
luoghi delie acque calde, propriissime a’ bagni, e bonissime per le cure di
mali diuturni. E metalli vi sono d‘ ogni genere, e cacce d’animali in copia, e
mari fecondissimi, come pure altre cose moltissime ; e più utili e più
meravigliose. Benissimo soprattutto ne è 1’ aere per la dolce sua temperie
secondo le stagioni, e poco opponesi con calori o freddi eccessivi al formarsi
de’ fratti, ed al vivere degli animali. Non è dunque da meravigliarsi che gli
antichi prendessero quella terra per sacra a Crono, o Saturno; concependo che
questo Dio vi fornisse, e saziasse i mortali d’ogni bene. Ma sia che chiamisi
Crono come da’ Greci, sia che Saturno
come da’Romaui; Stefano r
fiasaubono credono ebr qui fosse nel testo K^ac Digilìzed by Google ìy!^
dkt.i.t; Antichità’ koma^e •omprenJeitilo ciascuno di essi la natura tutta
delle cose ; tu lo nomina come più vuoi. Nemmeno è da meravigliarsi cbe
contemplando in quella ogni abbondanza e delizia, commoventissime cose, ne
credessero ogni luogo più acconcio, degno degli Dei, com' era de’ mortali ; e
li monti e le selve si ascrivessero a Pane, i prati e floridi luoghi alle ninfe,
e le rive e le isole ai geuj marini, ed ogni altra parte ad un genio o a un Dio,
come più couvenivagli. È fama che gli antichi immolassero a Crono umane vittime,
come in Cartagine, ^ mentre esistè, come tra’ Celti, e come in mezzo di altri
occidentali ; e che Ercole volendo precludere U barbarie di quel sacrificio,
innalzasse l’ altare nel colle Saturnio, e facesse che vittime pure vi si
ardessero con puro fuoco. E perchè que' popoli non sen corucciassero quasi spregiasse
i patrj sacrifizj, è fama die gli ammonisse a placare l’ira di quel Nume; e
piuttosto che gli uomini gettare nel Tevere legati nelle mani e ne’piedi, a
gettarvi i simulacri loro, vestiti appunto com’ essi. Egli serbava una immagine
degli antichi costumi, perchè si sterpasse alfine, quanta superstizione, '
restava ancora ne’ cuori. Conservavano i Romani tal pratica ancor ucl mio tempo,
rlnovandola poco appresso all’equinozio di primavera nel mese di maggio nelle
idi che chiamano, le quali vogliono che ricorrano il giorno aj>punto, cbe è
il ipezzo del mese della luna. In questo il che linde > azieti, e bcDÌssiraa
corrisponde alla parola Ialina di Saturno i e perh di sopra abbiamo usala il
verbo saziata. Crono poi non h che il tempo ; cd il tempo lutto prepara, a di
tallo ioruiicc ^li iiooiini col suo corso.
1 fiamapi Inp \nraa regolavano l’anuo sul corsa delia Urna,. DD i
ponteGci, vale a dire i primi tra’ sacerdoti, come le vérgini, custodi del
fuoco inestinguibile, i pretori, e gli altri che esser possono all’ opera santa,
dopo avere compiuti secondo la legge il sagriGzio, gettano del ponte sublicio
nel Tevere, trenta simulacri in forma umana Argei nominati. Ma de’ sagriGzj e delle altre
divine cerimonie^di Roma, nazionali o greche di maniere, diremo in altro libro
; richiedendo ora il subjetto che più riposatamente seguitiamo Ercole nella sua
venuta in Italia, nè trasandiamo cosa da lui fattavi, degna di lode. ! XXX. E
su questo Dio diconsi delle cose, quali più vere e quali più favolose : e cosi
stanno le favolose. Ercole, oltre gli altri travagli, comandato da Eurisleo di
condurgli da Eritea li bon di Gerione in Argo, tornando dalla impresa in sua
casa, venne in molte parti d’ Italia e della terra degli Aborigeni, prossima ai
Pallanteo. E trovandovi copioso e buon pascolo, vi addusse i bovi, ed egli,
quasi stanco dalle fatiche, die desi al sonno. Intanto un ladro paesano, Caco
di nome, capitò tra’ bovi, pascolanti senza custòde, e se ne in-' vaghi. Ben
conobbe che Ercole si riposava ; ma vide che> nè puteali tutti involare
occultamente, nè facile ne sarebbe la impresa. Quindi ne ascose pochi solamente
ed il principio della nuora luna era principio insieme del nnoT mete. Di qui
nasce che faceano combinare te idi di maggia cl plenilunio o col mezzo del mese
lunare. Queste figure erauo di giuoco:
si chiamavano Argei, qnsai rappreseiilasscro tanti Argivi che si slarmioavann
come nemici degli Arcadi. nell’ antro vicino, dov’ egli vivea, traendoveli via
via retrogradi per la coda, perché vedendovisi le pedate contrarie all’
ingresso, potesse render vano ogni argomento sa di essi. Ma levatosi Ercole
poco appresso, e numerati i suoi bovi ; come vide che ne mancavano, dubitò su
le prime, ove fossero andati, e li cercò mano a a mano come erranti da’pascoli.
Nè raggiungendoli ancora ; venne alla spelonca sebbene sconsigliatovi dalle
pedate, niente meno pensando, quanto che ivi ne ritroverebbe il covile.
Standone Caco dinanzi l’entrata, e richiestone, dicendo non averle vedute, nè
volere che ivi più si cercassero ; anzi convocando clamorosamente i vicini,
quasi patisse violenza dal forestiero ; Ercole, dubbioso in prima come
istrigarsela, prende in fine a ' dirigere all’ antro ancor gli altri bovi. Ma
non sì tosto quegli da entro sentirono la nota voce e 1’ odore, lasciarono
verso gli altri di fnora un muggito, e fu quel muggito r accusatore del furto.
Caco, vedutosi reo manifestamente, ricone alla forza convocando tutti i suoi
compastori. Ecco Alcide investirlo colla clava, ed ucciderlo e sprigionarne i
suoi bovi: poi vedendo, com’era la spelonca un refugio opportuno pe’ rubatori,
la dirupò. Quindi, parificatosi con Tonde del fiume dalla strage, inalzò presso
quel luogo a Giove ritrovatore un altare, ora visibile in Roma nella porta
trigemina ; sacrificandovi un vitello al Nume onde ringraziarlo su’ bovi ricu-,
perati. Roma porge ancora quel sacrificio, tutto con greci riti, come Ercole lo
istituì. Gli Aborigeni e quegli Arcadi che abitavano il Pallanteo come seppero
della morte di Caco, c mirarono Èrcole, nemici già del primo per le rapine,
siu> pirano all’ aspetto del secondo, credendo non so che divino in lui per
la grande avventura sua nella vittoria. I poveri tra loro spiccando ramnscelli
di alloro, copioso in que’luoghi, ne coronarono Ercole e sè stessi ; ed
accorrendo i loro monarchi lo invitarono ad ospizio. Come poi dal dir suo ne
conobbero il nome, il lignaggio, e le imprese ; prolferivano a lui per
benevolenza il i-egno e sé stessi. Ed Evandro che anticamente udito avea da
Temide stessa, volere il destino che Erctde, il figlio di Giove e di Alcmena,
cambiasse per la virtù la natura mortale colla immortale, appena ravvisò chi
egli fosse, ansioso di prevenire tutti e di rendersi propizio l’eroe con gli
onori de’ Numi, alzò di repente con assai cura un alure, sacrificandogli dove
l' oracolo avea già significato, un giovenco, intatto ancora di giogo, e
supplicandolo a ricevere da lui le primizie di un culto. Meravigliatosi Ercole
delle accoglienze, tenne il popolo a convito, immolando parte de bovi, e
separando per ciò le decime delle altre prede : poi donò a quei re che assai Io
bramavano, molte delle terre de’ Liguri ^ e di altri confinanti, cacciando da
esse alquanti ribaldi. Dicesi ancora che egli fe’ la ricerca, giacché i primi
de’ paesani lo tenevano per un’ Iddio, che gli perpetuassero quegli onori,
sagrificandogli ciascun anno un giovenco non domo, e santificandone l’azione
con greche cerimonie : e dicesi che insegnasse queste a due famiglie le più
riguardevoli perchè vittime in tutto accette gli si offerissero: essere poi
quelle de’Potizj e dei Pinarj, le famiglie allora istruite del greco rito, e le
loro generaziout aver lungo tempo continuata la cam de’ sagriiìzj, come v’
erano da colui depuute : talché i Potizj erano i capi nella santa operazione,
ed aveano le primizie al bruciarsi delle vittime; laddove i Pinarj non
ammetteansi a parte delle viscere, e teneano sempre i secondi onori nelle cose
comuni ad ambedue. E cagione a questi della onorificenza minore fu la tardanza
loro nel presentarsi; giacché comandati di venire sul far del mattino, giunsero
essendo già consumate le viscere. Ora r incarico del santo ministero non è più
de’ posteri loro: ma di servi comperali dal pubblico. Dirò poi nel suo luogo le
cause per le quali il costume fu varialo, e le significazioni del Dio quando i
santi ministri si permutarono. L’ara ov’ Ercole offerì le sue decime, chiamasi
Massima da’ Romani, e trovasi presso al foro detto boario, veneratissima,
quanto altra mai, da’ paesani : imperocché su questa fa patti e giuramenti
chiunque vuole stabilità negli accordi ; e su questa si offrono spesso ancora
le decime a compimento de’ voti. Nondimeno un tale altare nelle fattezze è
minore della sua gloria. Vi ha de’ tempj di questo Nume altrove ancora in più
luoghi d’ Italia ; e gli'altari ne sono per le città e per le strade: e
diffìcilmente trovcrebbesi una popolazione che non lo adorasse. E questo ci
tramandan le favole intorno di Ercole.
Il testo ove DioDÌp spiegava tali cose è perito. Potrà vederseue ciocché
ne scrive Livio oel libro nouo. Egli dice occorsa la mutaiioDc quando Appio
Claudio esercitava le funxinni di censore. Allora in un anno perirono dei
Potizj trenta tnaschj abili a rinovaro le famiglie, a cosi la stirpe virile
corse al suo termine. Ma il più vero è quest’ altro : e molti die scrissero le
imprese di lui, cosi nella storia lo delincarono. Ercole divenuto potentissimo
in arme tra tutti dei suo tempo, e postosi con esercito numeroso scorse tutta
la terra cinta dall’ Oceano, levando, se ce ne aveano, qualunque tirannide,
grave e molesta ai sudditi, e qualunque impero di città contumelioso e nocevole
agli altri vicini colla condotta dura e colle uccisioni ingiuste degli ospiti,
e stabilendo monarchi onesti, governi savj, c costumi socievoli ed umani.
Scorse ancora tra’ Greci e tra’barbari, neirinterno de’ mari e delle terre, in
mezzo popoli infidi, intrattabili : fondò città .su luoghi deserti, diresse
fiumi che inondavano i campi, aprì vie su monti impraticabili, e mille cose
fece onde i mari tutti e le terre si comunicassero ogni vantaggio. Giunse
finalmente in Italia ma non già solo, nè con mandre di bovi ; perocché non è
questa regione in senti‘o per chi viene dalle Spagne in Argo, nè conseguito ci
avrebbe tanti onori per causa di un passaggio. Egli vi giungea dalle Spagne
conquistate, ma con esercito amplissimo per sottoporsela, e dominarvi. Se non
che fu costretto a consumarvi gran tempo, e perchè lontana era la sua fiotta,
stanti le bnrrasche ree dell’ inverno, e perchè le genti d’ Italia, non tutte
spontanee gli si abbassavano. E per non dire di altri barbari, i Liguri, popolo
numeroso e guerriero, posto ne’ passi delle Alpi, tentarono d’impedirgli colle
arme 1’ ingresso nella Italia, e là s’ ebbero i Greci battaglia fierissima,
esaurendovi tutti gli strali. Eschilo, poeta antichissimo, menziona questa
battaglia nel suo Prometeo disciolto. Ivi inducesi Prometeo (he presagisce ad
Ercole non che le altre vicende, quelle che gli sovrastavano nella spedizione
contro di Gerione, e nella guerra co’ Liguri, certamente non focile : e questi
ne sono li versi : À fronte là de" Liguri starai. Imperterrita gente :
onta e rammarco Non ti fa guerreggiarli, e per destino, Pugnanda, ti vedrai
mancar gli strali. Ma poiché, vincendo, s’ impadronì di quei passi ; alcuni,
specialmente se greci di origine, o non valevoli a resistere, sottomisero
volontai^' le loro città ; ma i più vi furono astretti con le arme e con gli
assedj. Quanto ai vinti in battaglia, dicesi che Caco, quel si noto per le
favole de’ Romani, barbaro principe di barbara gente, gli si opponesse perchè
dominava luoghi assai forti, il che lo rendeva molesto ancora ai vicini. Costui
poiché seppe che Ercole si accampava ne’ piani contigui apparecchiatosi all’
uso de’ ladroni, appari con subita scorreria su 1' esercito di lui che dormiva,
e ne involò le prede, quante ne erano senza guardia. i Ma rinchiuso poscia per
assedio da’ Greci che ne espugnavano le fortezze, finalmente anch’ egli
soggiacque, e nel mezzo de’ suoi baluardi. 1 suoi castelli furono rovesciati;
ed i compagni di Ercole, Evandro con gli Arcadi,. c Fauno con gli Aborigeni
suoi pigliarono ciascuno per Eboliìlo
sdisse il suo Proiueleo ignìfera, il suo Promeleo legato, ed il Prometeo
seioUo. Strabono nel lib. i, Ateneo nel 14 liarlarono dell’ ultimo. Il secondo
ci resta ancora. I.' 6l 9Ò parte delle
terre del vinto. Ma ben può taluno immagnare che i Greci rimasti in quella
regione furono gli Epei, e gli Arcadi originar) della città di Feneo, e li
Trojani, lasciativi a presidiarla. Perocché tra le arti imperiali di Ercole fu
pur quella nommeno sorprendente che le altre, di sospingere tra le sue milizie
uomini divelti a forza dalle città conquistate, e di metterli alfine, se
animosi combattessero, ad abitare le terre invase, arricchendoli dell’ altrui.
Per tali cagioni, e non per II viaggio che niente area di rispettabile, il nome
e la fama di Ercole divenne grandissima nell’ Italia. Aggiungono alcuni, che
ne’ luoghi ora abitati ^a’Komani egli vi lasciasse due suoi figliuoli gen^
retigli da due donne. Pallente era 1’ uno natogli da Launa la figlia di Evandro: Latino è l’altro,
natogli da una donzella boreale. Egli la conduceva seco dataci dal padre in
ostaggio, e custodivaia finché candida si maritasse ; navigando però verso 1’
Italia ne fu vinto dall’ amore, e la fecondò. Ma essendo egli ornai per
tornarsene in Argo concedè che si restasse sposa di F anno, re degli Aborigeni
; e per tale cagione molti tengono Latino per figlio di Fauno, e non di
Elrcole. Narrano che PaUante morisse nel fiore primo degli anni: ma che Latino,
adulto fatto, succedesse al comando degli Aborigeni : e che venuto lui meno
senza stirpe virile, il regno, per la battaglia co’Rutòli confinanti, restasse
al figlio di Anchise, vale a dire ad Enea, che
Quesu nel S Zini, precedeatemente è chiamata Canna, ed ora chiama Launa. Forse non k che la tanto nota
Lavinia detta da Greci Launa, Labina, Laiinia, o Laouinia. iliveuae suo genero'; ma queste cose
accaddero in altro tempo. Ercole, ordinate come volea, le cose tutte d’Italia,
e giuntagli la flotta, salva dalle Spagne, ofTerl con sagrifizio agl’ Iddii le
dècime delle sue prede, e là, dove alloggiavasi la milizia navale, eresse una
piccola città, dandole il nome di sè stesso , la quale ora albergaci Romani, e
giace tra Pompeiano e tra Napoli con porto sicurissimo per ogni tempo. Cosi
divenuto tra gl’ Italiani simile ad un Dio per gloria, per emu> lazione, per
onori, fece vela per la Sicilia. Gli uomini lasciali custodi ed abitatori dell’
Italia, là, d’ intorno al colle di Saturno, si ressero un tempo da sè stessi :
ma non molto dopo compartendo i proprj costumi, le leggi, i santi riti agii
Aborigeni, come già fecero gli Arcadi, e prima i Pelasgbi, divennero
coudttadini degli Aborigeni, talché sembrarono in (ine una gente medesima. E
questo sia dettò su la spedizione di Ercole nella Italia, e su quei del
Peloponneso che vi restarono. Nella seconda generazione dopo la partenza di
Ercole, nelr anno cinquautesimoquinto al più regnava su gli Aborigeni ornai da
trentacinque anni Latino il Aglio di Fauno il discendente di quel magnanimo. In
quel tempo i Trojani fuggendo con Enea da Ilio già debellata approdarono a
Laurento, .spiaggia degli Aborigeni in sul mare Tirreno non lontano dalle bocche
del Tevere. Ed avendo da’ paesani'uu luogo per abitarvi, c quanto chiedevano,
alzarono poco (^uMia citi à di Ercole,
si crede dorè ora è la torre del Grt-cu nel gulfe di lungi dal mare in un colie
uqa città cui chiamarono Lavinia. Ma da indi ’ a non molto, cedendo 1’ antico
nome, ebbero quello di Latini dal re di que’ luoghi ; e levandosi da Lavinia
insieme co’ terrazzani fondarono una città più grande, Alba denominata. Donde
uscendo di tempo io tempo fabbricarono molte e molte delle città de’vecchj Latini,
abitate in grandissima parte ancor di presente. Sedici generazioni 'dopo la
presa di Troja spedironouna colonia nel Pallanteo, e nella Saturnia, dove già
fabbricato avcano i Pelopounesj e gli Arcadi, e dove erano pur le reliquie di
essi, e fecero che vi ^ abitasse. Allora cinto di mura il Pallanteo prese la
prima volta la forma di una città. Allora ebbe il nome di Roma dal duce della
colonia, io dico da Romolo, diciassettesimo tra’ posteri di Enea. Ma,
perciocché gli scrittori, parte ignorano, e parte ricordano variamente quanto è
della venuta di Enea nella Italia, non io vo' trattarne come di fuga, ma
prendendo ciò dalle storie, almeno più accreditate de’ Greci e de’ Romani. Ora
tali sono le cose narrate su quell’ argomento. Espugnato ilio da’ Greci .sia
per l’ inganno del cavallo di legno, come è presso di Omero, sia pel tradimento
degli Aulcnoridi, o per altra maniera, perirono in città la popolazione, e gli
alleati, sorpresi ancora nelle camere loro ; sembrando che la sciagura gii
assalisse, non guardandosene, tra la notte. Enea e con esso i Trojani venuti da
Dardano c da Olrinio a soccorrere gl’lliesi, c quanti altri conobbero in tempo
la sciagura, che era preso il basso della città, fuggendo a luoghi più forti di
Pergamo occuparono il castello, difeso
da proprj muri, ove, come ia saldissima parte, erano le sante cose di Troja, e
danaro in copia, insieme col fior dell’ esercito. Standosi colà respingevano
chi tentava di espugnarveli; ma per la perizia ne’ sotterranei vi riceveano chi
vi si riparava dalia città già pigliata. Così più furono quelli che ne
scamparono, che non quelli che caddero prigionieri. Con tal metodo Enea
conseguì che l' impeto col quale i nemici ovunque infuriavano, non comprendesse
in un tempo ogni cosa. Poi calcolando nelle sue probabilità l’avvenire, siccome
era impossibile conservare la città, perdutane già la più gran parte, si
rivolse al partito di cedere le mura ai nemici, e di salvare almeno le persone,
e le sante cose della patria, e quanto potea trasportarsi di danaro. Così
deliberato, comandò che fanciulli, e donne, e vecchj, e quanti abbisognavano di
pausa nel fuggire, s’ incamminassero intanto verso le cime dell’ Ida ; mentre
~gli Achei tra T ardore di espugnar la fortezza non curerebbero d’insegnire la
moltitudine che levavasi dalla città: destinò parte di milizie in guardia di
ehi si avviava perchè la fuga riuscisse più certa, e nello stato presente men
dura; avvertendoli insieme che occupassero i luoghi più forti dell’ Ida.
Intanto ( col resto dell’ esercito, ed era il più rilevante ) egli persistendo
su le mura, teneavi dis’ ratti i nemici che le attaccavano, e rendeva meno
disagiato lo scampo ai suoi, che sfilavano : se non che salendo poi Neptolemo
co’ suoi la fortezza, e convocandovi d’ ogn’ intorno i Greci perchè lo
ajutassero; Enea finalmente si ritirò. Spalancate le porte,. 6 !) deuominate
perla fuga di tanti , anch’egli uscì per esse, ma in ordine di batiaglia tra
quelli che gli restavano, portando su di ottime bighe il genitore, i patrj Dei,
la sua donna, i figli, e quante v’ erano persone, o suppellettili più
riguardevoli. Intanto gli Achei, presa di for/.a la città, spaziandosi intorno
la preda, lasciavano ai fuggitivi grande comodità di salvarsi. Enea raggiungeva
via via gli altri suoi, finché raccoltisi tutti in un corpo, occuparono i
luoghi più forti deir Ida. Sopravvennero ivi ancora quelli che abitavano in
Cardano ; perocché vedendo lanciarsi da Ilio fiamme copiose fuor dell' usato,
abbandonarono tra la notte insieme la loro città, levatine gli altri, i quali
partirono prima coti Elimo ed Egesto, avendosi apparecchiate delle navi. Poi vi
giunse tutto il popolo della città di Ofrinio, e vi giunsero dalle altre città
Trojane quanti aveansi cara la libertà, sicché in poco tempo la milizia vi
divenne grandissima. Ora questi', fuggiti con Enea dal cader prigionieri,
tenendosi in quei luoghi sperarono di rendersi dopo non molto alle patrie,
appena i Greui via navigherebbero : ma i Greci sottomettendo Troja e le
adjacenze, e devastandone le fortezze, apparecchiavansi a porre sotto giogo ì
rifuggiti ancora ne’ monti. E mandando questi gli araldi perchè desistessero,
nè li necessitassero alla guerra, si venne per le suppliche a trattative, e
tali ne furono gli accordi. Enea e li suoi recandosi tjuanlQ ni/Asf ^vyciéits, porle de' fu(;giiÌTÌ. s
DIOAIGI t l. aveano salvalo nella fuga partissero in dato tempo dalla Traode, e
consegnassero le fortezze : i Greci in apposito ovunque dominavano in mare ed
in terra, vi procurassero la sicurezza à Trojani che viag~ giovano a norma de’
patti. Enea consentendo a lai leggi, anzi bonissime riputandole per le
circostanze ; manda Ascaiiio il più grande de’ figli con banda di milizie per
10 più frigie, alla terra detta Dascilite ove ora è il lago uiscanio, perchè
invitatovi da’ paesani a prendervi 11 comando. Ascanio andò, e vi stette ; ma
non molto : perocché giugneudogli dalla Grecia Scamandrio e gli altri Ettoridi,
rilasciativi da Necptolemo, egli guidandoli ne’ regni paterni, si rimise in
Troja. E tanto è quello che si narra di Ascanio. Enea però com’ ebbe pronta la
flotta, vj assunse gli altri figli, il padre, le cose auguste de’ Numi, e
navigò su 1’ Ellesponto alla penisola vicina, chiamata Pallene, la quale giace
dirim petto di Europia. Ivi un popolo ci avea, di Traci si, detto Cruseo, ma
bellicoso e fidissimo tra quanti erano gli alleati de’ Trojani nella guerra. Tale
è il racconto il più verisimile fatto da Ellanico, scrittore antichissimo,
intorno la fuga di Enea 1 Nel teilo si
legge: ZufUTns Europa: ciocebè ha prodotto degli equivoci: la vera lezione deve
essere cioè di Europia la quale h regione della Macedonia che prende nn tal
nome dal fiume Europo. Pailene talvolta è detta ancora città di Tracia, perchè
li Traci vi comandarono. Del resto essa è pib distante che la Tracia a quelli
che navigano dall’ Asia per 1’ Ellesponto. E Dionigi Den propriamente 1’ ha
chiamala vicinissima per questi, essendo tale pinitesto la Tracia. là dove tratta delle cose Trojane. Se ne
hanno ancora degli altri e non simili in altre leggende, ma non si, come io
penso, persuasivi. Decidane chi gli ode, come più vuole. Sofocle il tragico nel
suo dramma su Lao coonte, esseudo già Troja in sul termine, rappresenta Enea
che va con le sue robe in sull’ Ida, seguendo i voleri del padre Anchise, pieno
dei ricordi di Venere, e mirando la distruzione ornai della patria ne’ freschi
portenti avvenuti su’ figli di Laomedonte. E tali souo i versi di lui ma
pronunziati da altra persona : £cco il fgliuol di tenere alle porte ; In dorso
ha il padre, a cui di [bisso pende Cerulea veste dalle spalle, tocche Dalla
folgore un tempo ; intorno intorno Gli fin turba i domestici, e le schiere Non
si grande però, come tu pensi, De‘ Frigi, amanti d’ aver sede altrove.
Menecrate di Zante fa saperci che Enea mise la patria nelle mani de’ Greci,
tradendola per l’odio suo contro di Alessandro, e che gli Achei per tal merito
gli con cederono che salvasse la sua casa. Egli comincia la sua storia dalla
sepoltura di Achille in tal modo. Erano gli Achei liete afflizione, sembrando a
sè stessi come privi del capo della milizia. Nondimeno ergendogli una tomba
guerreggiavano di tutta lena ; finché Ti'P]a fu presa per tradimento di Enea.
Quest’ uomo, perche spregiato da Alessando, ed escluso dagli onori Piccolo dooo aozi nullo: raentte Enea aveva
luLio questo, c più ancora, sema il iradìmento: yorrei dire che Meuecraie non è
savio, uel tulio aluaeuo de’iUCt;outì, e quindi cUc poco stm da aiifudarsi.
sacerdolali, rovesciò la reggia di Priamo, e divenne per tali opere come uno
de' Greci. Altri però narrano eh’ Enea di quel tempo si trovava dove ferme si
stavano le inavi trojane, ed altri che nella Frigia, speditovi da Priamo con
soldatesca pe’ bisogni della guerra ; anzi evvi pure chi; assai piò favoleggia
su la partenza di Enea : ma ne senta ognuno come vien persuaso. XL. Le vicende
di lui dopo la partenza mettono più incertezza ancora in molti; perciocché
taluni guidandolo in Tracia dicono che ivi compiesse la vita ; e tra questi
sono Cefalone Gergitio, ed Egesippo il quale scrìsse intorno Pelleiie, antichi
entrambi e rispettabili. Altri ripigliandolo dalla Tracia lo sieguono 6no all’
Arcadia ; e dicono che abitasse in Orcomeno di Arcadia, e nel luogo, che,
sebbene entro terra, cangiossi in isola, per le paludi e pel fiume, che le
colonie che ora chiamansi Cafie sursero per Enea e pe’ compagni, ma Gamie
nominandosi allora da Capi trojano. Sono questi racconti di varj e di Aristo
che scrisse le cose degli Arcadi. Novelleggiasi ancora eh’ Enea capitasse
veramente in que’ luoghi, non però che in essi morisse, ma nell’ Italia : e ciò
da molti attestali, come da Agatillo, Arcade poeta, nelle elegie scrivendo :
Feline in Arcadia e generò nell’ isola Con le due donne Antèmone e Codone, Due,/iglie ; e scorse nell' Italia, e quivi
Del gran Romolo suo padre divenne. La venuta di Enea e de’ Trojani nella Italia
la sostengono tutti i Romani ; e monumento ne sono le pratiche nelle feste e
ne’ sagi'ifizj, i libri sibillini, gli oracoli Pitici, e ben altre cose, le
quali niuno trascurerà, quasi aggiunte per ornamento. In Grecia ne restano
tuttora molti indizj notissimi, come il porto nel quale approdarono, ed i
luoghi ne’ quali si. trattennero, non essendo il mare navigabile. Siccome
dunque sono tanti, io ne farò come posso menzione, ma breve. Primieramente
dunque vennero in Tracia approdando alla penisola detta Pailene, tenuta, come
indicai, da’ barbari chiamati Crusei, e v’ ebbero ospizio sicuro. Passando ivi
r inverno edificarono in un promontorio un tempio a Venere, e fondarono la
città di Enea, dove lascia rono quanti non poteano pe’ disagi più navigare, o
quanti voleano rimanere, vivendovisi come nella patria. Questa durò fino al
regno de’ successori di. Alessapdro, ma nel regno poi di Cassandro fu
distrutta, quando sorse Tes.salonica : e gli Eneati e molti altri passarono
alla nuova città., ; XLI. Salpando da Pailene vennero i Trojani a Deio, ove
Anio signoreggiava. E, finché Deio fu popolata r e (lorida, molti erano gl’
indizj della venuta di • Enea, e de’ compagni nell’ isola. Dalla quale
navigando a Citerà aUra isola incontro
del Peloponneso ’ vi edificarono un tempio a Venere. Da Citerà tornandosi al
mare e trovando morto non lungi varono i Trojani con Eleno. Ottenuto l’ oracolo
sulla nuova loro sede, offersero al Dio cose trojane, e tra queste crateri di
bronzo, de’ quali alcuni manifestano ancora con iscrizioni antichissime gli
oblatori : e quindi si ricondussero camminando quattro giorni alle navi.
Intendesi la venuta de’ Trojani a Butrinlo da un colle ove accamparono, che
ancora chiamasi Troja. Da Bu> trinto sospinti lido lido Gno al porto detto,
dopo un tal fatto, di uincitise ed ora chiamato con nome men chia ro (a),
eressero ancor ivi un tempio di Venere : e passarono il mar Ionio avendo per
guida della navigazione molli, che volontari li seguitavano, e li quali
menavano con sé Patrone da Turi con la sua genie ; ma li più di questi, giunta
l’ armata nell’ Italia, tornaronsi alle patrie : rimasero però nella flotta
Patrone ed alquanti de’ suoi mossi a far causa con Enea, nel cercar nuove sedi
; quantunque alcuni dicano che il domicilio mettessero in Alunzio di Sicilia.
In memoria di tal beneGzio col volger del tempo i Romani donarono agli Acarnani
Leucade ed Auaitorio, togliendole ai Corintii ; e permisero ad essi che lo
bramavano, di rimettere ne’ pro Regia dirimpetto a Corfb dalla qnale è lontana
13 miglia. (a) Il Casaubono crede questo porto quello che da Tolomeo h chiamato
Onchesmo, e da Strabone Oochismo ; il quale incontraTasi dopo Butriuto e
Cassiope ( ora Januia ); crede che in principio si chiamasse di Anchise, poi di
Anchesmo, o d^i Anchismo, e quindi men chiaramente, di Onchesmo, o di Oncbismo.
Digilìzed by Google 7^ nm.LE antichità’ romane prj averi gli Oniadi, e di
godere in comune con gli Etoli il frutto delle isole Ecliioadi. Calarono i
compagni di Enea, ma non tutti in un luogo a terra ; approdando coi più delle
navi al capo japigio, detto allora dei SalenUni ; e con le altre al lido,
prossimo a quello cliiamato di Minerva nel quale Enea stesso sbarcò. Era questo
sito ancora un promontorio ma con porto estivo denominato di Venere, appunto
dopo quel giorno. Poi navigarono, quasi col piè sulla terra, fino allo stretto
di Sicilia, lasciando, ovunque andavano, de’ monumenti, e tra questi là nel
tempio di Giunone, la caraffa me fallica, la quale con antichissimo scritto
manifesta 4I nome di Enea che porgevala in dono alla Diva. XLIII. Fattisi ornai
vicini, eccoli nella Sicilia finalmente a Drepano, dir non saprei, se portativi
per disegno di sbarcare, o se per le burrasche de’ venti, consuete in quel
mare. Qui s’imbatterono coi compagni di Elimo e di Egesto fuggiti prima di loro
da Troja. Favoriti questi da’ venti propizj e dalla sorte, nè gi'avati di molte
bagaglio, erano in poco tempo approdati in Sicilia, e fabbricato aveano intorno
al fiume Crimiso in una terra che i Sicani aveano amorevolmente ad essi ceduta,
per essere Egeste nodrito già nella Sicilia e congiunto col sangue di loro per
questo Caso. Uno dei maggiori suoi, famoso trojano, cadde nell’ ira di
Laomedonte, e quel re pigliandolo, certo per una incolpazione, lo uccise,
uccidendo nemmeno tutta la stirpe virile di lui perchè alfine non • sen
vendicasse ; ma le vergini figlie giudicò bensì cosa non degna lo ucciderle, ma
uon sicura nemmeno a permettersi che si accasassero. 73 eoa Trujani. Pertanto
le diede a mercadanti con ordine che lontanissime le portassero. Or queste rimovendosi
navigò con esse un cospicno garzone, il quale preso già dall’amore di una
maritollasi, e trassela nella Sicilia; e là dimorandosi nacque di loro il
fanciullo Egesle nominato. Apprese i costumi e la lingua del loco : infine
morendogli i genitori, e dominando Priamo in Troja, brigossi per lo ritorno. E
militò pur egli contro gli Achei ; ma prendendosi ornai la città, navigò di
nuovo per la Sicilia, fuggendo con Elimo su tre navi, usate già da Achille
quando saccheggiava la Troade, e poi da esso abbandonale perché portn bello ^ o buono, ma nel codice Valicano
ai La porto cattivo: il che varia la àeuicuta quali finge Nettuno che
presagisca la grandezza avvenire li Enea, come de’ posteri, con tali maniere :
Ifo, non i dubbio ; la virtù di Enea /leggerà li Troiani, e re^ranli Be’ figli
i fgli, e chi verrà da loro. G^ncependo da ciò, che Omero conosciuto avesse che
questi regnavano nella Frigia ; inventarono qnel ritorno di Enea, quasi fosse
impossibile che abitando nella Italia dominassero genti trojaue. Eppure ben
poteano comandare a Trojani già diretti nei viaggio e stabilitisi altrove: vi
saranno forse altre cause per le quali diasi a vedere r inganno. XLY. Che se
alcuni sien turbati da questo : che la tomba di Enea si dica e si additi in più
luoghi, non potendo in più luoghi esser lui tumulato ; riflettano esser tal
dubbio comune su molti uomini, specialmente su gli insigni per sorte, e vivuti
sotto cielo ognor vario : e sappiano che una è 1’ urna che accoglie i loro
cadaveri, ma molti tra le nazioni li monumenti per gratitudine sul bene che vi
operarono, massimamente se tra quelle esistano stirpe o città che da essi
provengano, o se lungo vi fecero ed amorevol soggiorno. Or tali appunto
conosciamo che furono i casi che del nostro eroe si novelleggiano. Costui dopo
aver operato che Ilio nelr esser preso non fosse totalmente distrutto, dopo
aver operato che gli alleati si ritirassero salvi in Bebricia che chiamano;
lasciò sovrano della Frigia 'Ascanio suo figlio, eresse in Pailene una città
col nome di sé medesimo, maritò la figlia nell’ Arcadia, e fissò parte de’suoi
nella Sicilia : e sembrando che segnalato avesse la sua dimora in più altre
parti, beneficandovi ; ne acquistò la benevola propensione per la quale gli
eroi quando cessano la vita dell' uomo si onorano, e con pompa di monumenti in
più luoghi. £ veramente quali altre cause mai potrebbe alcuno ideare de’
monumenti di lui nell’ Italia ? Ma di ciò sarà detto nuovamente secondo che le
materie de’ subjetti si dorran rischiarare. Che poi l’armata trojana non
veleggiasse verso parti più remote di Europa, ne furono cagione gli oracoli, i
quali prendéano compimento appunto in quei luoghi, e la divinità che tante
volte avea rivelato, ciocché si volesse. Laonde approdati a Laurento alzarono
le tende in sul lido. Ma stentandovi su le prime per la sete, perchè il luogo
mancava di acque ; ecco vedonsi, ( dico ciò che ne udii tra’ paesani )
prorompere dalla terra spontanei rampolli di acque dolci, dalle quali fu tutto
abbeverato 1’ esercito, ed irriguo ne divenne quel campo, scorrendo co’ rivoli
loro dalle sorgenti fino a gettarsi nel mare. Ora però non si le acque
abbondano che ne trascorrano, ma scarsissime, si restano in un cavo luogo,
credute da’ paesani sacre al sole : e presso queste si additano due altari,
trojani monumenti, rivolto r nno all’oriente l’altro all’occaso, ove
favoleggiano che Enea facesse il primo sagrifizio in ringraziamento al Nume per
le fonti che scaturirono. Poi sedutisi in terra per desinarvi, posero i cibi
secondo molti su degli strati di appio come su le tavole ; ma secondo altri,
per mondezza maggiore, li posero su focacce di farina : se non che finitisi i
cibi apparecchiati, prima 1’ urto, indi r altro mangiava già 1’ appio o le
focacce sottoposte ; quando com’ è fama, uno de’ Ggli, o certo della tenda
slessa di Enea disse : oh ! Gn le tavole ci divoriamo. Destossi all’ udir ciò
fra tutti un entusiasmo, uno strepito, come allora si compiessero i primi
oracoli che riceverono : essendo già fatto ad essi un presagio, in Dodona
secondo alcuni, o come altri dicono in Entra
nelle vicinanze dell’Ida ove sta la Sibilla, fatidica ninfa di
que’luoghi. Questa annunziò loro che navigassero verso /’ occidente, finché
giungevano in luogo, dove sarebbero mangiale le mense : e che prendessero,
quando vedeano ciò verificaio, per guida un quadrupede, e dove stanco del
viaggio sdrajavasi, ivi fondassero una città. Ricordevoli di quest’oracolo, chi
per comando di Enea portava custoditi com’ erano i simulacri de’ Numi dalle
uavi a luogo destinalo, e chi preparava basi ed altari per essi. Le donne
accompagnavano le sante cose con ululati e con danze. InGne essendo già tutto
pronto pei sacriGzio, i compagni di Enea stavano coronati intorno l’ altare.E
già questi facevano de’ voti, quando la porca già pronta pel sagriGzio,gravida
nè lontana dal parto, dibattendosi tra le mani de’ sacri ministri che la
tenevano, fuggissene in parti più remote del mare. Enea concependo esser questa
il quadrupede di cui 1’ oracolo signiGcò che sarebbe loro di guida le tiene
dietro, non Vi ebbero pià Lrilre ; I’
una in Beoiia l’altra in Tessaglia; (jui si parla della terza nella Jooia tra
Llazomcns c Teon. Ma questa Krilra non era poi cosi vicina dell’ Ida : il che
fa vedere che il testo non è puro abbastanza : seppure la idea di vicinanza non
è qui relativa a distanze beo grandi. Digitized by Google legni e cose di rustico apparecchio su le
quali appariva che dolentissimo ne sarebbe chi ne era privato. In quel tempo
Latino re guerreggiava co’ Rutoli, suoi vicini, ma con poca prosperità nelle
battaglie. In tale suo stato gli annunziano, esagerando le imprese di Enea :
che un esercito di forestieri gli devastava tutto il litlorale: che se non
davasi presto a riutuzzarlo, avrebbe poi manifestamente guerra più aspra con
essi, che non co’ vicini. Temè Latino a tal nuova, e ben tosto, sospesa la
guerra presente, mosse con esercito poderoso contro a’ Trojani. Ma vedeudoli
armali alla greca, intrepidi, in buon ordine, aspettare il cimento, si arrestò,
difGdando di poterli sottomettere in un colpo, come avea già speralo nel
moversi contro di essi. Ed accampatosi in un colle pensò che dovevaiuuanzi
tutto ricrear le milizie dalla molta fatica, sostenuta nel lungo e coutinuo
travaglio. Adunque ivi riposò quella notte; ma disegnò di lanciarsi al fare del
giorno sul nemico. Fra tali risoluzioni un genio del loco venne a lui tra ’l
sonno, e gl’ impose di ammettere i Greci che venivano a grande utilità di
Latino, e bene comune degli Aborìgeni. Parimenti i Dei patrii, svelandosi tra
la notte ad Enea, suggerivano che inducesse Latino a concedergli spontaneamente
una sede nel luogo che bramava, e rendersi i Greci alleati, e non competitori
nelle arme. Tal sogno contenne l’uno e r altro dal cominciar la battaglia. E
non si tosto fu giorno, elle milizie mossero in campo; ecco gli araldi venire
da ambe le parti ai capitani per chiedere un vicendevole parlamento; e si
tenne. Latino il primo querelatosi della guerra improvisa e non intimata,
chiedeva ad Enea che dicesse chi fosse, e con quale disegno invadeva e derubava
que’ luoghi, non avendone mai ricevuto alcun danno, e non ignorando che gli
assaliti rispingono gli autori della guerra. E laddove tutto esibivasi a lui se
moderate ne erano le dimande, e potea rinvenire tutto nella cortesia degli
abitanti ; egli violando la giustizia comune degli uomini, voile impudentemente
anzi che da onorato, arrogarsi ogni cosa colla forza. Enea rispose : Noi siamo
Trojani di lignaggio, e veniamo da una città non ignota affatto tra Greci. Essi
espugnandola con gueira di dieci anni ce la tolsero ; ed ora vagabondi ci
rigiriamo, sema città, senza regione, ove prendere sede finalmente. Siamo qui
venuti seguendo i voleri de' Numi ; annunziandoci gli oracoli che que- ta è la
tota terra che ci lascia come requie da tanti errori, Abbiam preso dalle wstre
terre quanto ri era bisogno ; Noi provvedevamo anzi alla nostra infelicità che
al decoro, lutto che non volessimo far cosa meno di questa, come novizj in tai
luoghi. Ma ne daremo copiose e buone ricompense. Vi offeriamo i nostri corpi,
le nostre anime, costumati ahbaslanza ai travagli. Comunque usar ne vogliale ;
noi custodiremo come inviolabili le vostre tene, noi ci lanceremo ad
acquistarvi quelle de' nemici. Noi vi supplichiamo che non ascriviate ad odio
le cose operate; non avendole noi fatte per ingiuriarvi ma dalla necessità
violentati; e ciò che non è volontario è pur degno di scusa. E se ora ce ne
scusiamo, se ne imploriamo voi stendendovi le mani supplichevoli; già non si
conviene che ci destiniate alcun male, Altrimente invocheremo gli Dei,
invocheremo gli Genj di queste terre perchè ci condonino quanto abbiamo fatto o
necessitati faremo. Noi tenteremo respingervi la guerra se ce la incominciate ;
chè non è questa la prima nè la massima di quante ne abbiamo sostenute. Latino
ciò udendo soggiunse : Io sono propenso inverso di tutti i Greci e mi struggono
il cuore i mali necessarj degli uomini. E pregerei moltissimo di salvarvi se
poteste mai farmi chiaro che qua venite bisognosi di una sede, per aver parte
nelle nostre terre e su quanto vi sarà dato per amicizia, non per involarmi
colle armi il comando. Se questo dir vostro è vero ; se ne dia, chiedo, la
vostra fede e se ne riceva la nostra : e saranno queste le mallevadrici pure
de' patii. Dtomet, Hmt r. s L. Enea
encomiò quel parlare ; e si giurarono tali patti tra i due popoli : Darebbero
gli Aboiigeiti ai Trojani quanta terra volessero in qualunque parte del colle,
dentro il giro di cinque miglia da questo. Li Trojani entrerebbero a parte
della guerra che gli Aborigeni aveano tra le mani, e militerebbero con essi in
qualunque altra li chiamerebbero. Farebbero in comune ambedue col senno e colla
mano t utile vicendevole. Stabiliti tali patti, e confermatili con gli ostaggi,
combatterono insieme contro le città dei Rutoli : e soggiogando in brevissimo
tempo ogni cosa, presentaronsi ad ultimare la trojana città non compiuta, e
tutti con un ardore vi fabbricavano. Enea le diè nome di Lavinia, come dicono i
romani scrittori, dalla figlia di Latino, chiamata anch’ essa Lavinia; e
secondo alcuni de' greci mitologi dalla figlia di Anio re tra Deliesi, Lavinia
nominata ugualmente : perchè morendo questa nel primo costruirsi degli edifizj,
e datale sepoltura appunto nello spazio dove Enea fabbricava , la città ne era
il monumento. Dicesi che navigasse co’ Trojani conceduta dal padre alle istanze
di Enea, come donna di senno e di profezie. È fama che i Trojani nel fabbricare
Lavinia ne avessero questi segni. Accesosi jl fuoco da sè stesso in una valle,
narrano che un lupo vi traesse colla bocca e gittassevi aride materie ; e che si spiega per infermarsi, travagliarsi, quasi
Dionigi dica che la donna fu sepolta dove infermava ; ma tal voce significa
ancora fabbricare e rende il senso pib acconcio e concorde. Altronde non è
facile che uno seppeliscasi nel luogo appunto o aiansa. o tenda dove si ammala.
Digitized by Gopgle LIBKO I. 83 no’ aquila volaado, Vi eccitasse le (ìamtue col
battere delb ale ; ma che una volpe in contrario si desse ad estinguerle colla
coda, bagnatala iu un Hume : e die ora vincendo chi accendeva ed ora chi
ammorzava, al> fine, prevalessero le due ale, partendosi la volpe senza che
nulla più vi potesse: che Enea da quello spettacolo conchiudessc, come la
colonia diverrebbe magniCca, meravigliosa, celeberrima ; darebbe il crescere di
essa invidia ed affanno ai vicini ; ma ne vincerebbe ogni ostacolo, ricevendo
dagl’ Idùii fortuna più potente dell’odio de’ mortali in combatterla. Questi
sono i portenti famosi, nati colla città : e per memoria se ne custodiscono
ancora da tempo antichissimo in mezzo al foro di Lavinia le immagini metalliche
di quegli animali. LI. Poiché fu compiuta la città de’ Trojani entrò desiderio
in tutti di giovarsi a vicenda ; e primi ne diedero r esempio i monarchi
accomunando pe’ matriinonj il grado de paesani e de’ forestieri, e sposando
Latino la sua figlia Lavinia ad Enea. Quindi presi ancor gli altri da brama
eguale, dandosi in breve a gara 1’ uno all’altro leggi, costumi, sacrifici,
congiungendosi in città di cure e di consorzio, e divenendone tutti un corpo e
chiamandosene Latini dal re degli Aborigeni, osservarono con tal fermezza gli
accordi, che uiun tempo mai più li divise. .Tali sono le genti che vennero e si
congiunsero, e dalle quali è la stirpe de’ Romani, prima che si fondasse la
città che otn gli alberga. Erano i primi gli Aborigeni, i quali cacciarono
dalle proprie .sedi i Sicoli 4 greci antichissimi del Peloponneso, di quelli,
io credo, spatriatisi con Eouotro dalle terre ora dette di Arcadia. erano
secondi ì Pelasghi, usciti dal>' r Emonia, ora chiamata Tessaglia : ed erano
terzi quei che vennero con Evandro nell’ Italia dalla città del Pallanteo. Si
ebbero dopo questi gli Epei ed i Feneati del Peloponneso, militari di Ercole, a
quali si mescolavano alquanti Trojani; e gli ultimi furono i Trojani scampati
con Enea da Ilio, da Cardano e da altre loro città. LII. Che poi li Trojani
ancora fossero Greci, principalmente di orìgine, usciti un tempo dal
Peloponneso fu già detto da molti, ed io pure lo dirò brevemente: e cosi stà
quel racconto. Atlante divenuto primo re dell Arcadia che ora chiamano, abitava
intorno al monte detto Taumasio. Sette erano le figlie di questo ora trasferite,
dicesi, nel cielo col nome di Plejadi. Giove sposandosi 1’ una di esse vi
generò Giasone e Cardano: Glasoue si tenne celibe, ma Cardano sposò Crise la
figlia di Palante, e gli nacquero Ideo e Cimante, i quali due regnarono
nell’Arcadia, succedendo al trono di Atlante. Poscia avvenendo il gran diluvio
in Arcadia ; i campi ne divennero paludosi, nò più coltivabili per lungo tempo.
Gli uomini ridottisi ad abitare nei monti, e con scarsi viveri, consentendo ad
una voce che le terre intorno non erano più bastanti a nutrirli, si divisero in
due. Rimastisi gli uni nell’Arcadia crearono sovrano Cimante il figlio di
Cardano > gli arltri partirono su gran flotta dal Peloponneso ; e direttisi
in verso di Europia giunsero al golfo detto di Me lane, recandosi ad un isola
della Tracia, non saprei se abitata allora o deserta, cui chiamarono Samo
Tracia con nome composto dal duce e dal luogo, per essere questo nella
Digilized by Google usno I. 85 Tracia, e Samone 1’ altro, figlio di Mercurio e
di Rene, ninfa Gillenide. Ma non a lungo vi dimorarono ; cbé non era ivi una
facile cosa la vita, avendosi a lot tare con terre ingrate e mare disastroso.
Adunque lasciando un gruppo di loro nell’ isola, li più se ne mossero
nuovamente inverso dell’ Asia sotto gli Auspicj di Bardano ; perocché Giasone
era morto fulminato nell’ isola per avervi appetito il concubito con Cerere.
Venuti al mare chiamato Ellesponto, e sbarcatine, abitarono la terra detta poi
di Frigia. Ideo con la parte da lui retta della milizia di Bardano, abitò ne’
monti che • Idei si appellano da lui, ne’ quali ergendo un tempio alla madre
degl’ Iddii v’ istituì misteri e sacrifici, durevoli ancora in tutta la Frigia:
e Bardano nella Troade che dicono, fondandovi la città coi nome di sé medesimo,
e ricevendone delle campagne da Teucro re, dal quale Teucria fu nominata la
terra. Molti, tra’ quali Faiiodimo che scrisse delle antichità dell’ Attica,
narrano che Teucro ancora passasse dall’ Attica nell’ Asia, e regnasse in sul
popolo di Zipeta ; allegando su ciò molti argomenti. Quivi dominando egli
campagna ampia p buona, ma non molto popolata, desiderò di vedere Bardano, e li
Greci con esso venuti, si per avergli alleati nelle guerre co’ barbari, sì
perchè la sua terra non giacesse deserta. LIU. Ora porta il subjetto eh’
espongasi da quali Enea discendesse : ed io ciò laro ; ma brevemente. Bardano
morendogli Crise la figlia dL Fallante dalla quale avea due fanciulli, si sposò
òon Batia la figlia di Teucro. Di lei nacqn^li Elrittooio, creduto tra’ mortali
felidssif Digitized by Gopglc 86 dt:lle antichità’ eomane mo per lacloppia
eredità della signoria paterna, come deli’ altra fondata dall’avo materno. Da
Erittonio e de Callii’oe figlia di Scamandro nacque Troe dal quale ebbe nome la
nazione. Da Troe e da Acalide fisiia di O Euniida sorse Assaraco : e da questo
e da Glitodora figlia di Laomedonte ebbes! Capi. Poi questo e la ninfa, Kaide
chiamata, generarono Anchise: e di Anchise e di Venere è figlio Enea. Cosi avrò
dichiarato che i Troiani siano Greci di origine. LIV. Su 1’ epoca della
fondazione di Lavinia scrivesi variamente : a me sembrano piò verisimiii quelli
che r assegnano all’ anno secondo dopo la partenza da Troja. Imperocché Ilio fu
preso nel fine della primavera, il giorno diciassettesimo prima del solstizio
estivo, mancandovi otto giorni a compiersi il mese Targhilione secondo la
cronologia di Atene: e dopo il solstizio rimaneanci venti giorni a terminare quel
giro di anno. Pertanto nei trentasette giorni decorsi dopo quella presa io
stimo che gli Achei provvedessero su le cose della città, che ricevessero le
ambascerie di quelli che erano usciti, e giurassero dei patti con essi. Nell’
anno seguente e primo dopo la espugnazione, i Trojani salpando da quella terra
circa l’ equinozio autunnale passarono 1’ Ellesponto: e portati nella Tracia
ivi dimorarono quell’ inverno, rac^ cogliendo gli altri che giungevano ancora
dalla fuga, e preparando la navigazione. Levandosi dalla Tracia in sul fare
biella primavera tragittarono fino alla Sicilia dove riparatisi spirò intanto
quell’ anno : ivi spesero il secondo inverno fabbricando città con gli Elimi.
Ma divenuto il pela^ navigabile fecero vela dall’ isola, e Digitized by
GoogieLIBRO I. 87 valicando il mare Tirreno vennero finalmente sul mezzo della
estate a Laurento, spiaggia marittima degli Aborigeni, e presavi terra, vi
fabbricarono Lavinia mentre compievano 1’ anno secondo dopo la invasione di
Troja. Per tali detti sarà chiaro quanto io su ciò concepisco. LV. Enea
fornendo la nuova città di tempj e di altri edifizj i più de’ quali
persistevano ancora a’ miei giorni, alfine nell' anno seguente, terzo della sua
emigrazione, regnò ma su’ Trojani solamente. Morendo però Latino nel quarto,
ebbe anche il regno di questo si per 1’ affinità sua con esso, di cui Lavinia
era la erede, si per essere lui già duce degli eserciti nella guerra coi
vicini. Imperocché li Rutoli si erano di bel nuovo ribellati da Latino
scegliendosi per capitano Turno un disertore di Latino, e cugino di Amata,
regia moglie di lui. Questo giovine alle nozze di Lavinia comcciatosi dell’
affine suo che tenesse anzi cura degli esteri che de’ parenti, e sospinto da
Amata e da altri, andò cM>lle milizie delle quali era capo, e si congiunse
coi Rutoli. E mossasi per tali richiami la guerra perirono in battaglia
vivissima Latino e Turno e molli altri ; trionfandone Enea. Da quell’ epoca
ebbe questi lo scettro del suocero, e regnò dopo la morte di lui tre anni ancora
; ma nel quarto morì combattendo : perocché gli uscirono contro dalle loro
città tutti in arme li Rutoli e Mezenzio re de’ Tirreni che per le sue regioni
temeva, conturbato al vedere che la greca poteuza via via si ampliava. Si dié
la battaglia, ma fortissima non lungi da Lavinia; soccombendone molti da ambe
le parti, finché la notte sopravvenendo, divise gli eserciti. ENEA più non
apparve ; e chi lo disse trasferito Ira’ Numi, chi perito nel fiume, presso cui
fu la pugna. I Latini gli eressero un tempietto iscrivendolo : del Padre e Dio
del loco il quale regge il corso del Jiume Numicio. Pur vi è chi dice edificato
il tempio da Enea per An chise, morto P anno avanti tal guerra. L’ edifizio è
non grande : ma tiene arbori ordinatamente intorno degne da vedersi. LVI.
Passando Enea da questa vita, al più I’ anno settimo dopo la presa di Troja,
assunse il comando su’ Latini Eurileone, quegli che. nella fuga intitolavasi
Ascanio. Erano allora i Trojan! chiusi tra le mora, e la forza nemica ognora
più spaventava ; nè bastavano i Latini a soccorrere gli assediati a Lavinia.
Ascanio dun que il primo chiese pace e condizioni onorate ai ne mici : ma non
giovando la inchiesta, fu costretto ren dersi pienamente, e finire la guerra
come il vincitore ne giudicasse. Ma siccome il monarca de’ Tirreni oltre le
tante cose intollerabili comandava come agli schiavi che si recasse ogni anno
ai Tirreni quanto vino producerasi dalla campagna latina ; cosi per la
ìndegnissi ma condizione Ascanio prima, e dopo lui li Trojani dichiararono co’
decreti loro sacro' a Giove ogni frutto della vite. E confortandosi gli uni gli
altri ad imprendere da valentuomini, e chiamando i Numi a parte dei loro
pericoli, si mossero di città ma tra notte non chiara per luna. E sopravvenendo
improvvisamente, presero in un subito il campo nemico il più vicino alla città,
riputato antemurale ancora delle altre milizie, perchè tenuto su luogo forte e
difeso dal fiore de’ giovani tirreni, comandati da Lauso, figlio di Mezenzio,
Intanto che questo luogo espugnavasi le soldatesche attendate nei piani vedendo
la luce insolita, ed ascoltando le voci degli oppressi fuggirono ai monti. Ivi
sorse fra loro paura e strepito grande qual suole tra schiere mosse di notte,
che apprendano già già di essere assalite, ma nè ordinate uè provvedute
abbastanza. I Latini all’ opposito poiché vinsero per assalto quel presidio, e
conobbero lo scompiglio deir altra milizia, le furon sopra incalzando e
trucidando : e questa non potea nemmeno sapere i suoi mali; non che pensasse
ricorrere alla forza. Quindi confusi, incerti che fare chi s’ avvia tra .dirupi
e ne soccombe, chi tra luoghi cavi ma senza esito, ed è preso. Li più non
distinguendosi tra loro si trattarono ira le tenebre a vicenda come uemicì ; e
ben fu la sciagi>ra micidialissima. Mezenzio occupato un colle con pochi,
poiché vi seppe la morte del figlio, quanto esetcito gli fosse perito, ed in
quai luoghi ora si fosse iin tempo in cui fu costrutta la città, signora al presente
delle cose. Ma quali ne fossero i fondatori, con quali vicende recassero la
colonia, o le fondassero la città, molti già lo narrarono, discordandone alcuni
in più casi. Io sceglierò da' monumenti le cose più persuadevoli ; te quali sqn
queste. LXYIl. Dopo che Amulio usurpò colla forza la reggia di Alba eliminando
dagli onori paterni Numitore il fratello. più grande, scorse ad altre infamie
col molto abuso dei diritti, macchinando all’ultimo distruggere la stirpe di
Numitore per timore di subirne la vendetta, e per desideri^ di perpetuarsene il
principato. E macchinando ciò da gran tempo, notò primieramente dove recavasi
alla caccia Egeste il figlio già pubescente di Numitore, e, fattegli delle
insidie nel meno visibile di que’luoghi, lo uccisse appunto che inseguiva le
fiere, dando opera che si dicesse poi, che il giovine fu vittima de’ladroni. Ma
tal voce artificiosa uon potè soffocare la verità che. lacevasi; perocché molli
ebbero cuore di palesarla, con pericolo ancora. Ben conobbe Nunillore il successo
; ma tollerando con saviezza bonissima fìnse non conoscerlo per differirne i
risentimenti a tempo meno pericoloso. Amulio tenendo la vicenda per occulta,
fece ancora, che la figlia di IVumitore detta Rea secondo alcuni, e poscia Ilia
quando fu matura per le nozze, si dedicasse al sacerdozio di Vesta perchè
andando subito a marito noti partorisse un vindice della sua gente. Dee
irenl’anni, e nommeuo rimanersi candida da cose maritali lina donzella messa
alla cura del fuoco inestinguibile, o per altro religioso ministero serbato per
legge alle sue pari. Compieva Amulio tutto ciò co’ bei nomi di onorare c
distinguere il parentado : perchè non avevane egli introdotto la legge : anzi
essendo già praticata non astringeva il fratello, sicché la prima volta esso
tra’ nobili si valettse di quelli onori. E pregiavasi tra g]i Albani che le
donzelle più nobili ministrassero a\^esia. Ben vedea Numitorc che il fratello
non facea Ciò per amore del meglio: tuttavia non espresse l’ira sua, ma tacque
profondamente ancora su questa ingiuria per .non esserne malmenato dal popolo. Dopo
quattro anni Ilia recatasi al bosco sacro di Marte ad attingervi limpide acque
pc’ sacriGzj vi fu violentala da uno, dicono, de’ giovani innamorato della
donzella : o da Amulio non si per amori che per inganni, tutto in arme, e
travisatosi quanto poteva, onde essere terribilissimo a vedere. Molli però
novelleggiano che fu in persona il Nume del loco, acconciando a tal fatto varie
circostanze divine, e che il sole se ne ascose.
I()3 e le tenebre si spnrsero in cielo. Essersi,la immagine di quel Dio
presentata augusta più che la umana per la mole e per la bellezza. Aggiungono
che colui che aveala violata ( e da ciò conchiudono che fosse un Iddio) dicesse
alla fanciulla che si consolasse, non si affliggesse per la vicenda essere a
lei fatte le cose de’matrimonj dall’ unirsele del genio del loco : ne
partorirebbe due figli y potentissimi in arme. Narrano che, ciò dicendo, nna
nuvola lo circondasse, e che spiccatosi di terra, si elevasse per 1’ aere. Non
è poi questo il luogo, ma bastino i detti de’ filosofi, per discutere la
sentenza da aversi su queste cose, cioè se debbano dispregiarsi come opere
umane imputate agli Dei, la natura de’quali felice nè corruttibile non subisce
niente d’ indegno ; o se debbano riceversene le narrazioni, perchè 1’ universo
è un composto di tutte le sostanze, tra le quali haccene pure una intermedia
tra la umana e divina, che ora mescendosi agli uomini, ora ai Numi, genera la
stirpe degli eroi. La donzella dopo la violenza si diè per inferma :
consigliatavi dalla madre per la sicurezza di lei, come per la riverenza de’
Numi : nè più andava alle sante cose,' ma se dovea porgervi l’ opera sua,
supplivano le vergini, compagne nel ministero. LXIX. Amulio, sia che mosso
dalla coscienza, sia che da’ concetti del verisimile, spiava attentissimo le ca
gioni per le quali tcneasi tanto tempo lontana da’ riti divini. E mandò de’
medici su’ quali fidava moltissimo : ma pretestando le donne non essere un tal
male da presentarsi ai maschj, mise la moglie sua per guardia della fanciulla.
Ma non si tosto colei gli accusò la in(loie del male, conghietlurando da indizj
muliebri, ignoti alle altre ; egli fe’ custodire co’ soldati la donzella:
perchè il parto, ornai prossimo, non si occultasse. £ chiamando a collocjuio il
fratello, disse la violazione recondita, dolendosi che i genitori vi stessero a
parte con la fanciulla, e comandò che non tacessero, anzi pubblicassero il
fatto. Asseriva Numitore eh’ egli udiva cosa incredibile: ma che egli era
innocente in tutto, e chiedea tempo per chiarire la verità. £d ottenutolo a
stento, poiché seppe dalla moglie la cosa come erale narrata in principio dalla
fanciulla, gli riferì la violenza fatta dal Nume, e le cose dette su’ due
gemelli, e dimandò che si prestasse fede a tanto, se da quel parto nasceane la
]>role cora’ era presagita dal Nume. Non essendo ornai lontano il parto ;
egli non sarebbene deluso lungamente : intanto esibiva donne in custodia della
figlia, nè ricusavasi a prova ninna. Acconsentivano quanti erano in parlamento:
Amiilio però diceva che non aveaci punto di buono in que’ detti, e diedesi per
ogni guisa a pci^ dere la lànciulla. Intanto presentansi gl’ incaricati per
invigilare su quel parto, e narrano aver lei dato in luce due maschi. Insistè
Numitore ben tosto in dimostrare che a'veaci. r opera del Nume, e richiedÈva
che oltraggio non si facesse alla vergine incolpabile. Amulio nondimeno
concepiva che ci avesse della cabala umana anche nel parto mer desimo, con
essersi procurato 1’ uno de’ fanciulli da altra donua, ignorandolo o
cooperandovi le custodi ; e molto su ciò fu disputato. Come i consiglieri
videro che il re piegavasi ad ira inesorabile, sentenziarono aneh’ essi, com’
egli volea ; che si applicasse la legge, la quale ordina che uccidasi, battuta
con verghe, la ver gine profanata nel corpo, e gettisi ciò che è nato da lei
ndla corrente del fiume. Ora però le leggi per le sacre cose prescrivono che
tali donne seppelliscansi vive. LXX. Fin qui la più parte degli scrittori
narrano le cose medesime o con picciolo divario, altri seguendo più la favola,
ed altri la verisimiglianza. Ben però discordano su ciò che vi rimane ; dicendo
altri che la condannata fu tolta immantinente di mezzo, ed altri che serbata in
carcere oscura fe’ nascere nel volgo la idea della occulta morte di lei.
Scrivono che Amulio a ciò s’inducesse vinto dalla figlia supplichevole che
chiedevagli in dono la cugina ; già nudrite insieme, e pari di età voleansi il
bene di sorelle. Amulio che non avea se non quella figlia, gliela concedette ;
nè più compiè la morte di Ilia, ma tennela rinchiusa, nè visibile; finché fu
liberata col morir del medesimo. Cosi le antiche scritture discordano intorno
di Ilia, ma tutte presentano un apparenza di vero ; e perciò ne ho fatta
menzione. Chi legge intenderà da sè stesso quale sia più credibile. Quanto ai
figli d’Ilia cosi scrive Fabio detto il Pittore, cui seguirono Lucio Cincio,
Porcio Catone, Calpurnio Pisone, e la più degli storici. Alcuni de’ ministri prendendo per comando di
Amulio i fanciulli, posti in un cestello, ve li U'asportavano per gettarli nel
fiume, lontano quasi cento venti stadii dalla città. Ma come vi si
approssimarono e videro che il Tevere per le pioggie incessanti usciva dall’
alveo suo naturale in su i campi, discesero dalle cime del Pallanteo fino alle
acque più vicine ; uè polendo avanzarsi più oltre, deposero il cestello appunto
ove il fiume toccava, inondando le falde del monte. Ondeggiò quello alcun tempo
] ma poi ritirandosi la fiumana dalle parti più ester> ne, il vasello
percosse in un sasso, e deviatone, travolse i fanciulli ^ che vagendo in sol
fango si dimenavano. Quando apparendo una lupa, fresca di parto e gonfie le
mammelle di latte ne porse i capi alle tenere bocche de’ medesimi, tergendoli
via via colla lingua dal loto onde erano intrisi. Frattanto sopravvengono dei
pastori che guidavano le greggi ai pascoli ; potendosi già per que’ luoghi
camminare. Al vedere 1’ uno di essi come la bestia carezzava que’ pargoletti,
restossi estatico per lo spavento e per la incredibilità dello spettacolo.
Quindi ( perciocché non era col solo dire creduto ) andando, e raccogliendo
quanti potea de’ vicini pastori, li con duce a mirare il portento.
Approssimatisi questi, e vedendo come la bestia molcea que’ pargoletti, e come
i pargoletti usavano colla bestia quasi colla madre, parvero a sé stsi presenti
a celeste meraviglia : ma congregatisi e proceduti ancora più oltre tentarono
col tuonare delle grida impaurire la lupa. E questa non incrudita affatto dal
giungere degli uomini, ma quasi domestica fosse, ritirandosi passo passo da’
fanciulli, si levò ( mutoli restandone ) dalla vista de’ pastori, essendovi non
lungi un luogo sacro, opaco per selva profonda, ove le fonti sgorgavano da
pietre cave. Dicesi che quello fosse il bosco di Pane ; ed un allare’per lui vi
sorgeva. In questo venne la fiera e si ascose. Ora il bosco non è più: ma ben
additasi 1’ antro dal quale scorrevano le acque, in vicinanza del Pallanteo,
lungo la via che mena al} 107 r
Ippodromo ( 1 ) : scorgesi ivi prossimo un tempietto ov’ è j come effigie del
fatto, una lupa che offre a due fànciullini le poppe ; metallico e di antico
lavoro è quel monumento. Era questo luogo, com’ è fama, sacro per gli Ai'^ cadi
che vi si accasarono con Evandro. Allontanatasi la fiera, i pastori presero i
fanciulletti provvedendo che si allevassero appunto, come se volessero gli Dèi
che si conservassero. Era tra questi un placido uomo, il capo de’ regj pastori,
F austolo nominato, il quale trovavasi in città per alcun suo bisogno, nel
tempo che lo stupro vi si riprendeva ed il parto d' Ilia.' Dopo ciò mentre
erano que’ teneri putti portati al fiume, egli nel tornare ài Pallanteo, tenne
per incontro divino la strada medesima di quelli che li portavano. E non dando
vista di sapere principio alcuno del fatto, dimandò per sè que’ miserelli, e
presili con voto comune, e recandoseli, venne alla moglie. E trovatala che avea
partorito, e dolente, che il parto erale morto, la racconsolò, e le diede que’
fanciulli da sostituirsi ; contandole dalle origini la vicenda che li
riguardava. Poi crescendo, chiamò r uno di essi Romolo e Remo 1’ altro. Fatti
adulti / non somigliavano per la bellezza dell’ aspetto e della prudenza a
pastore niuno di gregge immonde o di bovi, ma chiunque numerati li avrebbe tra’
regj figli, specialmente tra quelli creduti di generazione divina, come in Roma
cantano ancora nelle patrie canzoni. Era la vita loro fra’ pastori, e col
travaglio la sostenevano, Cirro oTc
-garrpgiavasi col corso Je’ cavalli.
fissando per lo più su’ monti e legni e canne in guisa che dessero in un
tempo alloggio e tetto. Ed ancora nel lato che dal Pallanteo piegasi verso l’
Ippodromo V sopravanza 1’ uno di questi abituri, detto di Romolo > cui
guardano come sacro, ma nulla vi aggiungono on-, de renderlo più venerando. Che
se parte alcuna ne vi6a meno per anni o tempeste, la suppliscono, riparandola,
quanto possono con simiglianza. Giunti a’ diciotto anni ebbero dispute su de’
pascoli co’ pastori di Numitore i quali tenevano i loro bovili sull’ Aventino,
colle situato rimpetto del Pallanteo. Ricbiamavansi spesso gli uni su gli
altri, che pascessero i campi non proprj, o soli si tenessero i campi comuni, o
per cose altrettali, se ne avvenivano. Davansi per tali dissidj colpfdi mani e
di armi ; e ricevendone da’ giovani assai li servi di Numitore, e perdendovi
alcuni di loro, ed essendone esclusi a forza dalle campagne, cosi macchinarono.
Disposero in valle occulta le insidie su’ giovani, e concordato con quei che le
disponevano il tempo di eseguirle, gli altri intanto andarono in folla alle
roandre de’ medesimi. Romolo di quel tempo crasi co’ paesani più riguardevoii
recato alla città detta Genina per farvi a no^ me della comune i patrj
sacrifizj. Avvedutosi Remo della incursione volò per la difesa, prendendo in un
subito le armi, e li pochi venuti a lui per unirsegli dal villaggio. Non
aspettarono quelli, ma fuggirono per tirarseli dietro, dove rivolgendosi a
proposito gli assalissero. Ignaro della trama, seguitandoli Remo lungamente, si
ingolfò nel luogo delle insidie ; e le insidie proruppero e li fuggitivi si
rivolsero ; e circondando lui co’ seguaci. 1 09 e tempestando co’ sassi, gli
arrestarono, com’ era il comando de’ loro padroni che volevano vivi que’
giovani nelle mani. Cosi 'fu Remo condotto prigioniero.Ma Elio Tuberone uomo
grave, e ben cauto nel tessere le istorie scrìve : che avendo que’ di Numitore
preveduto che i due garzoncelli erano per ofTerire a Pane ne’ lupercali 1’
arcade sagriGzio come era istituito da Evandro, tesero gli agguati pel tempo
appunto del santo ministero, quando bisognava che I giovani, abitanti il
Pallanteo, correswro dopo le oblazioni nudi per la terra, e velati solo nel
sesso con le pelli recenti delle vittime. Era questo un tal rito patrio di
espiazio^ ne, praticato ancora di presente. Standosi nel più angusto de’
sentieri i nemici a tempo per le insidie su quei facitori di sante cose, ecco
venirsene ad essi la prima banda con Remo, seguitando più tarda 1’ altra con
Romolo per essersi la gente loro divisa in tre masse, e distanze. Non
aspettando quelli il giungere degli altri, dato un grido, uscirono in folla sa’
primi, e circondatili, gl’ investirono > chi con dardi e chi con sassi o con
altro, comunque gli era alle mani. Sbalorditi questi dall’ inaspettato assalto,
e mal sapendo che fare, inermi contro gli armati, furono assai facilmente
arrestati. Con tal modo, o con quello tramandatoci da Fabio, divenuto Remo il
prigioniero de’ nemici, fu tratto in Alba. Romolo, al conoscere le ingiurie sul
fratello, pensò dover subito tenergli dietro col Bore de’ suoi pastori, quasi a
ricuperarselo ancora tra via : ma ne fu distolto da Faustolo che vedea la
insania del disegno. Era F austolo ancora tenuto come padre, avendo sempre
occultato ai due garzoacelli i loro primi tempi, perchè non si mettessero di
slancio a’ pericoli, prima della robustezza degli anni. Allora peiTò vinto
dalla necessità rivela, solo a solo, a Romolo ogni cosa. E Romolo in udire
tutta la sciagura che areali involti 6n dalla nascita, impietosito per la madre
venne in grande ansietà verso di Nnmitore. E molto consultandosi con Faustolo
conchiuse che doveva allora contenersi da ogni impeto ; sorgere poi con
apparato più grande di forze a redimere la sua famiglia dalle ingiustizie di
Amulio, e subire fin 1’ ultimo rischio in vista de’ grandi risultati, operando
col padre della madre, quanto egli nc risolvesse. LXXII. Stabilito ciò per lo
m^lio, Romolo convocando i paesani, e pregandoli a recarsi di subito in Alba,
non però tutti io folla, nè ad una porta perchè non si eccitasse in città
sospetto di loro, c a tenersi nel foro, pronti per eseguire, s’ incamminò per
il primo verso di quella. Intanto quei che menavano Remo presentatolo ai regj
tribunali, ve lo accusavano delle ingiurie, quante ne aveano da lui ricevute, e
vi addita.vano le ferite dei loro protestando che abbandonerebbero tutte le
manche, se non erano vendicati. Amulio volendo fare cosa grata alla moltitudine
accorsa, come a Numitore, forse presente ad incolparlo per altri , volendo la
tranquillità del paese, e stimando insieme sospetta la baldanza del giovane,
imperterrito in sue parole ; lo ( i) Secondo Dionigi, Numitorc ignaro della
condiziona di lìcmti, lo accusava a nome de’ suoi clienti.. Ili .condannò con
rendere Numitore 1’ arbitro del castigo, e con dire che chi fa ree cose, non
dee rintuzzarsene da altri quanto da chi le ha sostenute. Intanto che Remo era
condotto con le mani addietro legate, ed erane vilipeso da’ pastori che sei conducevano Numitore postoglisi
appresso ne ammirava la bellezza delle forme che aveano molto del regio, e ne
contemplava la nobiltà de’ sentimenti, che egli conservava in mezzo ancora a
terribili cose, non volgendosi a far compassione nè importunando, come tutti
fanno in simili casi, ma procedendo con silenzio maestoso al suo termine.
Giunto in sua casa, Numitore fece che gli altri si ritirassero, ed egli, solo
con solo, chiese a Remo chi fosse, e da quali parenti ; non potendo lui, :
ootal giovine, essere da ignobile stirpe. E soggiungendo Remo quanto ne sapea
dal suo nutritore., come dopo la nascita era stato esposto bambino nella selva
col germano, gemello di lui, come raccolto da’ pastori fosse poi stato allevato
; colui, sospesone alcun tempo, alfine, sia che in ciò vedesse vole sospettando che egli non pensasse come
parlava, cosi rispose : I giovani, come è loro mestieri, vanno pasturando de'
bovi pe' monti. Io men veniva in nome di essi cdla madre per dichiararle come
stieno i loro fatti. Ma udendo come tu fai guardare questa donna, io dirigevami
a supplicare la figlia tua perché a lei m' introducesse. E questo cestello, io
recavalo meco per certificare i miei detti. Ora poiché tur sei fermo di
ricondurre qua li garzoncelli, ne esulto ; e manda con me chi vuoi, che io
dimostreroUi, perchè loro si annunzino gli ordini tuoi. Cosi dunque diceva per
allontanare la morte de’ giovani, e sperando egli insieme fuggire da quelli che
sei menavano, quando sarebbe ne’ monti. Amulio immantinente invia con esso i
più fidi tra’ suoi militari, ordinando però segretamente che afferrino, e gli
rechino quelli che il pastore dimostrerebbe. Intanto deliberò chiamare il
fratello e farlo custodire, ma senza catene finché 1’ affare presente se gli
acconciasse. Lo chiamò dunque ma in vista ben di altre cose. Mosso l’ araldo
speditogli, dalla benevolenza e dalia compassione de’ mali di lui che pericolava
non tacque i disegni di Amulio a Numitore : e questo manifestando a’ giovani l’
infortunio che pendeva su loro, e confortandoli a farla da valentuomini, -andò
alla reg già tra le arme di clienti, di amici, e di non pochi servi fedeli ; e
lasciato il mercato pel qual erano venuti in città, vi andarono ancora co’
pugnali sotto degli abiti i contadini, gente robustissima. £ forzando tutti con
impeto comune l’ ingressa, non presidiato da molli, I. I l5 bea tosto uccisero Amulio, e presero
poi la fortezza. Cosi Fabio ne racconta su ciò. ' LXXV. Altri però giudicando
non convenirsi punto di favoloso alla storia dicono inverisimile che la
proje> zione de’ fanciulli non seguisse com’ era ordinata ; e dicono che
l’amorevolezza della lupa che porge lemammelle ai fanciulli è piena di comiche
incoerenze. Raccontano invece che Nnmitore al conoscere la gravidanza d’ Uia,
ne tramutasse poi nel parto i figliuoletti, supplendovene altri nati di fresco
; e dandoli in fine ai custodi della parturieute, perchè al re li recassero.
Sia che la fedeltà di questi fosse comperata con oro, sia che la sostituzione
fosse compiuta per mezzo di femmine ; ad ogni modo Amulio prese ed uccise gli
spurj; laddove i figli d’ llia cari più che ogni cosa a Numitore, furono da lui
salvati, e consegnati a Faustolo. Asseriscono che un tal F austolo era un
Arcade, originato da’ compagni di Evandro, alloggiato in sul Pallanteo colla
cura degli armenti di Amulio ; e che condiscendesse di allevare i figli di
Numitore, indottovi da Faustino , fratello sno, presidente de’ bestiami di
]Vnmitore i quali pascolavano per 1’ Aventino : essere stata la nudrice, la
esibitrice delle poppe sue, non la lupa, ma com’^ verisimile la moglie di
Faustino detta Laurenza, e Lupa con soprannome da quei del Pallanteo perchè
prostituiva il suo corpo. Certamente era questo
Questo nome si legge Tariaroenle. Plutarco io Rumalo Io chiama PUiacino.
Altri Io ha chiamalo Fausto: perchè tra Faustolo e Fausto siavi somiglianza
come tra Romolo e Remo : ed altri con molla confusione lo chiama Faustolo come
il fratello. il greco aatico ^ soprannome per le femmine le quali si vendono
ne’ riti di amore, e le quali ora con più gentil nome, amiche si appellano. E
quindi alcuni che ciò non sapevano ne tesserono la fàvola della Lupa, cosi
chiamandosi quella bestia tra’ Latini. Aggiungono che i fanciulli slattati
appena, filrono dagli aj loro mandati a Gabio città non lontana dal Pallanteo
perchè vi prendessero greca istruzione ; e che nudriti colà presso gli ospiti
di Faustolo Gno alla pubertà furono ammaestrati nelle lettere, nel canto, e
nell’ uso greco delle armi ; che rivenendo poscia ai padri loro putativi
brigaronsi co’ pastori di Numitore intorno de' pascoli comuni, e li percossero,
e gli allontanarono colle greggie : essere tali cose state fatte col volere di
Numitore perché si avesse un principio di ridami, ed una causa onde la turba
de’ pastori in città si recasse : che dopo dò Numitore fe’ lamentanze contro di
Amulio, quasi per grave danno e ruberie de’ pastori di lui ; dimandando che se
egli non avead parte, gli desse nelle mani il porcajo, reo delia lite, e li
Ggli di quello : che Amulio a rimuovere da sè quella. incolpazione, ordinasse a
tutti gli accusati, ed a quanti si dicevano essere stati presenti al successo
di comparire in giudizio per Numitore : che insieme concorrendo molti altri sul
pretesto di quella causa, Numitore dicesse a’ nipoti quanta, sciagura gli avea
perseguitali : e dimostrando^ lui che quella, se altra mai ve ne fu, quella
appunto era 1’ ora della vendetta, iramautiuenle volarono colla turba de’
pastori all’ assalto. E queste sono le memorie su la origine e su la educaziouc
de’ fondatori di Roma. Ecco poi le cose avvenute nella fondazione: ciò clic mi
resta anche a scrivere, ed ora mi vi accingo. Poiché Numitore col morirsi di
Amulio riebbe il principato ; spese breve tempo a riordinare su le antiche
maniere la città, già premuta colla tirannide, e ben tosto fabbricandone un’
altra, meditava di crearvi anche un regno pe’ figli. Pareagli bello, essendosi
il popolo suo troppo moltiplicato, levarne totalmente la parte almeno già sua
contraria, per non più sospettarne. E comunicatosi co’ figli, ed essendone
questi dilettati ; diè loro, perchè vi regnassero, le terre dove erano stali
allevati, e la parte del popolo divenuta a lui sospetta, e disposta ancora per
fare innovazioni, e quanti voleano spontaneamente mutar sede. Ci avca tra
questi, come per una città che si mova, molti della plebe, e buon numero de’
più potenti, anzi pure dei Trojani reputati più nobili, de’ quali esistevano
ancora a’ miei giorni, almeno cinquanta famiglie. Diede a’ giovani danaro, arme,
frumento, schiavi, bestie pe’ trasporti, è quanto ricercasi per la fondazione
di una città. Poiché questi ebbero cavato da Alba il popolo loro, aggregarono
ad esso quanti rimaneano nel Pallanteo e nella Saturnia, e ne divisero tutta la
massa in due parti. Sembrava loro che ciò desterebbe dell’ ardore nella gara di
compiere più speditamente un lavoro ; quando fu causa del pessimo de’ mali,
cioè di una sedizione. Imperocché celebrando le due parli il suo capo, ciascuna
lo inalzava come il più idoneo al comando di tutti: al-tronde li due capi non
più avendo una mente e non quella di fratelli, ma di soprastanti 1’ uno su 1’
altro, ornai non curavano 1’ eguaglianza, e moltissimo ambi'^ hivano. Celatasi
fin qui, proruppe finalmente la loro ambizione per questo incontro. Non piaceva
ugualmente a ciascun d'essi il luogo per fabbricarvi la città : vdleala Romolo
sul Pallanteo per più cause, e per la prosperità del luogo, essendovi stati
salvati e nudriti : ma sembrava a Remo da edificarsi nella sponda che ora da
lui lìomoria si addi manda. Ben erane il luogo acconcio per una città, su di un
colle non lontano dal Tevere, in distanza di circa trenta stadj da Roma. Da tal
gara appalesaronsi ben tosto le voglie di soprastarsi; apparendo assai chiaro
che qual, di essi prevaleva sulr altro dominerebbe ancora su tutti. Passato
intanto alcun tempo, nè sceman. dosi punto il dissidio, parve ad ambedue da
rimettersene all’ avo materno, e si recarono in Alba. E colui suggerì che
lasciassero giudicare agli Dei, quale di loro due desse nome e comandi alia
colonia. E predestinan do ad essi il giorno, ordinò che si trovasserò di buon
mattino separatamente ciascuno nel luogo ove 'bramava porre la sede : e che
sagrificandovi prima secondo le usanze agl’ Iddii vi osservassero gli uccelli
propizj : e qudlo di loro due per cui sarebbero gli uccelli più fausti, quello
comandasse la colonia. •! giovani lodato il consiglio partirono, e trovaronsi
poi nel giorno decisivo, appunto come avevano convenuto. Prendeva Romolo gli
augurj sui Pallanteo dove ujeditava fissare la
Pesto con altri colloca Komeria nelle cime dell’ Arentino : ma Dionigi
sembra collocarla più lontana. Sarebbero mai state due queste Romnrie, o
Remurie t colonia : ma Remo nel colle contiguo, detto Aventino, o Romoria, come
altri raccontano. Erano con essi le guardie, perchè non permettessero che
alcuno de’ due dicesse altre cose che le vedute. Postisi ambedue nei luoghi
convenienti ; Romolo dopo un poco, per ansia, -e per invidia del fratello, e
più che per invidia, per impulso forse di un qualche Nume, innanzi di avere
osservato alcun segno, quasi il primo avesse veduto lo augurio lieto, spedi
messaggeri al fratello, perchè a lui ne 'venisse prontamente. Ma non
accellerandosi questi, perchè vergognosi di portare un inganno p intanto sei
avvoltoi, volandogli a destra, apparirono a Remo. Era costui lietissimo delia
veduta, ma dopo non molto gli inviati da Romolo, movendolo, sei menarono al
Pallaa" teo. Dove giunti, Remo chiedeva da Romolo, quali uccelli avesse
veduto : e dubitando Romolo come rispondere ; ecco dodici avvoltoi, propizj col
volo gli si mostrarono. Inanimato al vederli disse, addiundoii a Remo: che
cerchi tu s pel tempio, e per gli usi del comune. Tale era la partizione fatta
da Romolo ne’ terreni e negli uo mini diretta alla massima eguaglianza comune.
Vili. Ora dirò della partizione degli uomini per concedere privilegi ed onori
secondo la dignità di ciascuno. Scevrò gli uomini cospicui per nascita, o
lodati per virtù, o comodi secondo quel tempo per danaro, purché avessero prole,
dagl’ ignobili, dagli abietti e dai bisognosi. E plebei nominò quelli di sorte
deteriore, che il greco appellerebbe dimolici ; ma intitolò padri quei di
fortuna migliore sia che per la età maggioreggiassero su gli altri, sia perchè
avessero figli, sia per la chiarezza della prosapia, sia per tutte queste
cagioni ; pigliando, come può congetturarsi, 1’ esempio dalla repubblica degli
Ateniesi, quale esisteva in quel tempo. Imperocché questi chiamavano Eupatridi
principalmente o patrizj li più distinti per nascita, e più potenti per danaro,
a’ quali afQdavasi la cura della repubblica : e chiamavano agrici, o rustici
gli altri che di niente eran arbitri sul comune: ma col volger degli anni
furono ancor essi elevati agli onori. Per tali cagioni dicono gli scrittori più
credibili delle cose romane che Padri fossero nominati que’ valentuomini, e
patrizj i squadre de cavalieri erano divise in decurie come i chiaro da Varrooe
e da Polibio. li. i35 loro discendenti.
Ma coloro che guardano 1’ affare con occhio d’ invidia, e malignano su le
origini vili di Ror ma, non dicono che i patrizj avessero questo nome per tali
cagioni, ma perchè soli potevano additare gli autori della loro generazione ;
quasi gli altri non fossero che vagabondi, o senza liberi padri. E davano per
sicuro argomento di ciò, che quando piaceva al re di convo> care i patrizj,
gli araldi gl’ intimavano pel nome loro e per quello ancora de’ padri ; laddove
pochi banditori invitavano alle adunanze i plebei rinfusamente col buccinare
de’ corni da bove : ma nè la intimazione per mezzo di araldi è buon segno degl’
ingenui natali, nè il snon della buccina è simbolo della ignobilità de’plebei:
ma la prima recavasi per onorificenza ; spandevasi l’altro per compendio ; non
riuscendo invitare in poco tempo a nome tutta la moltitudine. IX. Poiché Romolo
segregò li più degni dai men riguardevoli, ordinò per leggi le incombenze degli
uni e degli altri. Adunque stabili che i patrizj intenti con esso alle cure
pubbliche fossero i sacerdoti, i magistrati, i giudici, ma che li plebei,
liberi da tali sollecitudini per la imperizia e per la penuria, lavorassero le
terre, allevassero i bestiami, ed esercitassero le arti mercenarie, perchè non
sorgesse fra loro sedizione, come in altre città, quando gli uomini di grado
spregiano gli ignobili, o quando i vili c poveri invidiano la preminenza degli
altri. Affidò, qual deposito, a’ patrizj i plebei, concedendo a ciascuno di
questi di eleggersi liberamente tra quelli un patrono. Greca antica
consuetudine era questa ritenuta lungamente da’ Tessali, e dagli Ateniesi quando ancora conoscevano il meglio : ma poi
declina rono al peggio, ed insolentirono su’ clienti; comandando loro cose non
degne di uomini ingenui, minacciandoli di battiture se non ubbidivano, ed
abusandoli con altre maniere, quasi schiavi comperatiGli Ateniesi chiamavano
Thitas pe’ servigi che rendevano, i Clienti, ed i Tessali li chiamavano
Ponesti vituperandone fin col nome
stesso la condizione. Ma Romolo fregiò con nome conveniente, chiamandola
patronato, la garanzia de’ bisognosi e degl’ infimi : e date all’ uno ed all’
altro utili cure, ne rendè la congiunzione benevola veramente e cittadina. X.
Le obbligazioni stabilite da lui sul patronato e conservatesi lungo tempo tra’
Romani erano queste: doveano i patrizj informare i clienti della legge che
ignoravano, doveano prender cura di loro ugualmente, fossero o no presenti, e
far su di essi come i padri su’ figli, quanto alla roba, ed ai contratti su la
medesima ; movendo liti pe’ clienti se altri ne era danneggialo, su contratti,
e subendola, se altri la moveano. E per dir molto in poco, doveano proctware.
ad essi tutta la ti'anquillità della quale abbisognavano nelle cose domestiche
e nelle pubbliche. I clienti a vicenda se i patroni scarseggiavano di beni
doveano coadiuvarli, maritandosene le figlie : doveano riscattarli da’ nemici
se alcuno di essi Diouigi qui paragona i
clienii Romani, i TMti drgli Ateniesi ed i Penesti dei Tessali : ma i Thili
erano almeno liberi, e servivano per la miseria o pe' debiti. 1 Penesù dei
Tessali erano un intermedio tra gli schiavi e gli uomini liberi. Non era cosi
de’ c.ieuti Romani. Questi non di raro parteggiavano o superavano la fortuna
dc'pauoui. ir. 187 o de’ figli rtmaDeva
prigioniero : pagare del proprio per loro non a titolo di prestito, ma di
gratitudine le liù perdute, e le pubbliche multe tassate in moneta : e
concorrere quasi ne spettassero alle famiglie, nelle spese di essi per le
magistrature, per gli onori, e per le altre pubbliche dimostrazioni. Quanto ad
ambedue poi non era lecito o giusto pe’ clienti o patroni che gli uni
accusassero gli altri ; che si dessero testimonianze e voti contrari ; o si
lasciassero cercare gli uni per nemici degli altri. E se alcuno era convinto di
aver fatto l’opposito, soggiaceva alle leggi di tradigione promulgate da Romolo
: ed era per chiunque santa cosa lo ucciderlo, come vittima a Dite ; costumando
i Romani di consagrare agl’Iddj, spezialmente infernali, le persone alle quali
volevano impunemente dare la morte, come fece allora anche Romolo. Adunque
perseverarono per molto tempo tramandandosi da figlio Jn figlio le congiunzioni
dei patroni e dei clienti, senza che niente differissero dai ligami strettissimi
di parentela. Ed era gran lode per uomini d’ inclita stirpe aver clienti in più
numero, custodendo i patrocini lasciati loro dagli antenati, ed acquistandone
altri ancora colla propria virtù. E meravigliosa era la gara di ambedue per non
lasciarsi vincere gli uni dagli altri nella benevolenza ; proferendosi li
clienti a far quanto potevano verso de’ patroni ; nè volendo i patrizi dar loro
molestia con riceverne danari in dono. Così era tra loro il vivere condito con
ogni diletto ; e. la virtù non la sorte era la misura della felicità. XI. Non
solamente poi vivea sotto l’ ombra de’ patrizi i38 la plebe di Roma; ma quella
delle colonie di lei, quella delle città confederate ed amiche, e quella ancora
delie conquistate colle armi tenevasi per custode e protettore qual più voleva
de' Romani. E più volte il senato rimettendo ai protettori le controversie di
città e di nazioni confermò le sentenze date da essi. Anzi era tanta la
concordia de’ Romani cominciando dall’ ora che Romolo ne fondava i costumi, che
mai per secento venti anni tumultuarono con stragi e sangue, sebbene nasces
sero intorno del comune molte e gravi dispute tra la plebe e li magistrati,
come nascono in tutte le città, picciole o popolose : ma illuminandosi, e
persuadendosi a vicenda, e parte concedendo, parte ottenendo racchetavano le
interne dissensioni. Dacché però Cajo Gracco, divenuto tribuno, sconvolse 1’
armonia della città, non cessano dal sopraffarsi colle stragi e con gli esilj ;
nè risparmiano misfatto per vincersi. Ma per dir tanti mali avrem poi luogo più
acconcio. XII. Ordinate tali cose, ben tosto Romolo deliberò di creare i
consiglieri co’ quali dividere le pubbliche cure, e trascelse cento de’ patrizj
cosi facendone la separazione. Prima nominò fra tutti il più idoneo, a cui si
afBdasse lo stato, quando egli coll’ esercito uscirebbene dai confini. Quindi
prescrisse a ciascuna tribù di scegliersi tre uomini, savissimi per età come
insigni per nascita. Fissati questi nove impose ancora che ciascuna delle curie
eleggesse tre li più opportuni fra li patrizj. Infine unendo ai primi nove
dichiarati dalle tribù li novanta determinati col voto delle curie, e facendo
presidente di tutti quell’unico prescelto da lui ; compiè la serie di cento
consiglieri. Potrebbe il consesso di pesti signiBcare tra’ Greci un senato, e
con tal nome chiamasi appunto tra’ Romani. Nè io saprei deGnire se un tal nome
se lo acquistasse per la età senile, o per la virtù dei membri che vi furono
incorporati. Certo solcano gli antichi dir seniori i più maturi negli anni e
nelle opere. Quanti ebbero luogo in senato furono chiamati e si chiamano ancora
Padri Coscritti. Greca isti-tuzione era questa : perocché quanti regnavano, sia
pei^ chè succeduti a’ diritti paterni, sia perchè nominati capi dalla
moltitudine, aveano un consiglio di ottimi uomini, come attestalo Omero, e
poeti antichissimi : nè le monarchie primitive de’ principi erano, come ora,
assolute, e Gsse agli arbitrj di un solo. XIII. Ordinato il consiglio de’ cento
seniori, vedendo che egli avea bisogno di una gioventù regolata da usarla in
guardia del corpo suo, come per incumbenze di affari pressanti, unì trecento i
più robusti delle più insigni famiglie. Le curie nominarono ciascuna dieci di
questi giovani come aveano nominato li senatori ; ed egli tenea sempre con sè
tali uomini. E tutti, panti erano stabiliti in quella schiera, aveano il nome
di Celeri, come dai più si scrive, per la speditezza ne’ loro servizj ;
chiamandosi Celeri dai Romani gli uomini pronti e spedili nell’ operare. Ma
Valerio Anziate dice che lo derivarono dal duce loro, Celere nominato. Era un
tal duce riguardevolissimo nel suo grado ; ed a lui ubbidivano tre centurioni,
ed a’ centurioni altri capitani minori. Questi lo accompagnavano per la città
colle aste, pronù ai suoi cenni: ma nel campo erano propugnatori e custodi : e
spesso dirigevano a buon fine ia battaglia,primi a cominciarla, ed ultimi a
levarsene. Combattevano, dove il luogo consenti vaio, a. cavallo; ma appiè,
dove era aspro, nè proprio da cavalcarvi. Sembrami cbe un tal uso lo derivasse
da’Lacedemoni coll’intendere die tra quelli vegliavano alla custodia dei re, e
li proteggevano nelle guerre giovani generosissimi, buoni per militare a
cavallo ed appiede. XIV. Composte in tal modo le cose, comparti gli onori ed i
poteri cbe volevano in ciascuno ; prescegliendone tali primizie pe’ monarchi.
Volle dunque cbe avesse il -re primieramente la presidenza de’ templi e de’
sagrifizj, e che tutte per lui si compiessero le sante cose in verso de’ Numi :
cbe fosse il custode delle leggi e dei patrj costumi: che avesse cura dei
diritti provenienti dalla natura o dai patti : che esso giudicasse delle
ingiustizie capitali ; ma rimettesse il giudizio su le altre ai senatori, e
provvedesse che niente si peccasse ne’ tribunali: cannasse il Senato,
convocasse il popolo, e primo vi dicesse il parer suo, ma seguitasse quello dei
più. Tali sono le prerogative che egli riservò pe’ monarchi, oltre quella di un
comando indipendente nelle guerre. Al consesso poi de’ senatori attribuì questi
onori, e questa autorità : cioè, che esaminassero le cose che il re proporrebbe,
e ne votassero, ma vi prevalesse la sentenza dei più. Trasse quest’ uso ancora
da' Lacedemoni : perciocché li re de’ Lacedemoni non si preponderavano da fare
a lor modo, ma l’ autorità su-t prema terminavasi nel senato. Lasciò da ultimo
al popolo il potere di eleggere i magistrali, di appro-, l4l Tare le leggi e
discutere intorno la guerra quando al re ne paresse, non però deOnitivamcnte se
contrario tosse il senato. Il popolo dava i sufTragj non tutto in un corpo, ma
convocato per curie ; e riferivasi poscia al senato ciocché le più
sentenziavano. Ora cangiata è la consuetudine ; imperocché non è il senato che
ratifica le sentenze del popolo ; ma il popolo è 1’ arbitro delle sentenze, del
senato. Io lascio, che chi vuole esamini quale di queste due consuetudini sia
la migliore. Con tali scompartimenti le cose civili prendeano marcia savia e
regolata, e le militari altresì la prendeano docile e pronta. Imperocché quando
fosse piaciuto al re di muover l’ esercito, non aveansi a creare i tribuni
dalle tribù, nè li centurioni dalle centurie, nè li maestri dai cavalieri ; nè
restava àd alcuno di essere coscritto, o scelto, o di ricevere il posto che gli
conveniva. Ma il re intimava i tribuni, e li tribuni i centurioni. All’ avviso
di questi ciascuno dei decurioni cavava i soldati, subordinati a sé stesso.
Così per un solo comando la milizia, secondo che era chiamata, in parte o del
tutto, presentavasi colle arme al luogo destinato. Xy. Romolo abilitando la
città pienamente per la pace e per la guerra con tali istituzioni, la rendè con
esse grande e popolosa : obbligò primieramente gli abitanti ad allevare tutta
la prole virile, e le primogenite delle femmine, con ordine che non uccidessero
niun infante più recente di tre anni, se pure non era storpio, o mostruoso fin
dalia nascita. Tali sconci bambini non proibì che via si esponessero, se
presentatigli a cinque uomini dei più vicini, vi consentissero. E per chi
vioDigitized by Google i43 delle Antichità’ romane lasse questa legge stabili
fra le altre pene la con6sca di una metà delle loro sostanze. Considerando poi
che molle delle città d’ Italia erano miseramente premute dalla tirannide di
uno o di pochi; procurò di ricevere e di tirare a sè li tanti che ^ne fuggivano,
purché fossero liberi, senza esaminarne i pregiudizi, o la sorte, e tutto per
ampliare la potenza romana, e diminuire quella de’ vicini. Adunque fe’ ciò
cogliendone una bella occasione su le apparenze di onorare gl’ Iddi!. Fondatovi
un tempio, non saprei deci ferace a quale de’ Numi, o dei genj, dichiarò come
asilo per chi ricorrevaci il luogo tra ’l Campidoglio e la fortezza, ora detto
nell’ idioma de’ Romani il basso tra le due selve, e nominato allora cosi, per
essere quinci e quindi coperto dalle ombre delle piante amplissime delle terre
contigue ai due colli. Inoltre per la riverenza de’ Numi, promise a chi
rifuggivasi al santo luogo che non ci avrebbe molestie dai nemici, anzi, che se
voleva albergare presso di lui, parteciperebbe ai diritti sociali, ed alle
terre che leverebbe altrui guerreggiando. Pertanto vi si affollavano d’ ogn’
intorno uomini che fuggivano i mali domestici ; nè altrove poi si trasferivano
allettati dai colloquj, e dalle cortesi maniere di lui. XVI. La terza
istituzione di Romolo, degna soprattutto che i Greci la osservassero, e certo
la migliore, come io penso di tutte, la quale fu principio della libertà
stabile de’ Romani, nè poco contribuì per la formazione dell’ impero, la terza
istituzione fu di non uccidere tutta la pubertà delie città debellate, nè di
ridurre queste come terre da pascervi, ma di mandare \ li: 1 43 in esse chi se
ne avesse in parte i campi, e di renderle, quando erano vinte, colonie de’
Romani, e talvolta ancora di ammetterle ai diritti stessi di Roma. Introducendo
queste e simili pratiche fe' grande la colonia sua di picciola, come la cosa
stessa dichiaralo. Imperocché quelli che fondarono Roma con esso, erano non più
che tremila fanti nè meno che trecento cavalieri ; laddove quando egli spari
dagli uomini vi lasciò quarantaseimila fanti, e poco meno che mille cavalieri.
Ma se egli basò tali regole, le custodirono poscia i re die gli succederono, e
dopo i re li magistrali che pigliavano di anno in anno il comando,
aggiungendone altre per modo, che il popolo romano trovasi non inferiore a
niuno tra quanti sembrano i più numerosi. XVII. Ora paragonando con questi i
Greci costumi, non so come lodare le pratiche de’ Lacedemoni, dei Tebani, e
degli Ateniesi che tanto pregiano sé stessi per sapere. Essi gelosi troppo
dell’ incorrotto loro lignaggio, non comunicarono se non a pochi i diritti
della propria repubblica, per non dire che taluni ripudiavano anche gli ospiti.
Da tale arroganza però non solo non raccolsero alcun bene, ma gravissimamente
ne scapitarono. Cosi gli Spartani battuti nella pugna di Leuttra con perdervi
mille settecento de’ suoi : non solo non poterono mai più rilevarsi da quel
danno, ma deposero turpemente il comando : e cosi li Tebani, e gli Ateniesi per
la sola sconfitta riportata in Cberonea furono in un tempo spogliati da’
Macedoni e della preminenza su la Grecia, e della libertà. Ma Roma, brigata in
guerre gravissime nella Spagna e nella Italia, brigata a i44 ricuperare la Sicilia e la Sardegna che le si
erano ribel-' late, quando ardevano tutte in arme contro lei la Grecia e la
Macedonia, quando Cartagine eie varasi novamente a disputarle il comando,
quando l’ Italia, non che essere quasi tutta in rivolta, trae vale addosso la
guerra detta di Annibaie ; Roma in mezzo a tanti pericoli, quasi contemporanei,
non solo non si abbattè ; ma ne raccolse forze maggiori che dianzi,
proporzionandosi fino per contrapporle a tutti i mali. Ne consegui già questo
per favore di sorte propizia come alcuni sospettano ; mentre per conto della
sorte sarebbe andata in rovina con la sola sciagura di Canne ^ quando di sei
mila suoi cavalieri ne rimasero appena trecentosettanta, e di ottanta mila
soldati ne scamparono pochi più che tre mila. Ora queste e le cose che io son
per aggiungerne fanno che io prenda meraviglia su Romolo. Imperocché avendo
concepito che le cause dello stato florido di una città sono quelle che tutti
decantano, ma pochi seguitano, cioè primieramente la carità verso gli Iddii,
colla quale tutte le cose degli uomini si risolvono in bene, e secondariamente
la temperanza e la giustizia, per la quale men si offendono e più concordano
fra loro, nè misurano la felicità co’ sozzi piaceri, ma colla rettitudine, e
finalmente la fortezza nel combattere, la quale rende utili a chi le possiede
anche le altre virtù ; ciò, dico, avendo Romolo concepito, non pensò che tali
perfezioni provenissero per sè stesse, ma conobbe che le leggi provvide, e la
bella emulazione nel disciplinarsi, formano appunto una città pia, prudente,
giusta, bellicosa. Adunque molto in ciò vigilando, cominciò dal cullo de’ genj
e de’ Numi : e seguendo le leggi migliori de’ Greci mise in pregio le sanie
cose, io dico i templi, gli altari, le statue, le immagini, i simboli, le
forze, i doni co’ quali gli Dei ci beneGcano, e le feste convenevoli per ogni
genio o Nume; e li sacriGzj coi quali gradiscono essere venerati dagli uomini,
e le cessazioni dalle arme, e li concorsi, e li riposi dalle fatiche, e quanto
si addita di simile. Ripudiò le favole che sen divulgano, sparse di bestemmie e
di accuse contro di loro, giudicandole ree, dannevoH, obbrobriose, indegne di
un uomo dabbene non che de’ Numi ; e ridusse gli uomini a dire e sentire
magniGcamente su’Nu^ mi, non a gravarli di cure aliene da una natura beata.
XIX. Già non si ode tra’ Romani nè Gelo castrato da' Agli, nè Crono che
stermina i figli per timore di essere da loro assalito, nè Giove che scioglie
il regno di Crono, e rinchiude il suo genitore nella prigione del Tartaro. Non
le guerre vi si odono, non le ferite, e le catene e le servitù degli Dei presso
gli uomini : non feste vi si usano atre e dolorose per gli cluiaii e per il
lituo di femmine che piangono gli Dei levati loro, come in Grecia il ratto si
piange di Proserpina, e le avventure di Bacco, e cose altrettali. E quantunque
ornai li costumi vi si corrompano, niuno ravvisa colà nè uomini invasali da’
Numi, nè furie di coribanti, nè baccanali, nè misteri iuelfjbili, nè veglie
notturne di femmine e raaschj nei templi, nè osservanze consimili, ma ravvisa
tutto praticarvisi e dirvisi verso gli Dei con tanta pietà con quanta non si
pratica o dice BIONICI, tomo I. tra’
Greci o tra’ Barbari. Eid io vi ho soprattutto ammirato, che sebbene sieno
venute a Roma tante migllaja di esteri necessitati a venerare ciascuno i suoi
Dii coi riti delle patrie loro ; pure mai questa, come pur troppo succedette ad
altre città, non venne in desiderio di riceverne pubblicamente il culto
peregrino : e seper le risposte degli oracoli introdusse talvolta sante cose
come quelle della madre Idea, le onorò co’ riti suoi propri!, escludendone
quanto ci avea di superstizione e di favola. Quindi i pretori ogni anno
apprestano alla diva Idea sagrifizj e giuochi secondo le leggi romane : ma un
frigio, ed una donna, fHgia ancor essa, le immolano il sacriGzio. Questi la
recano in giro per la città questuando per la dea come è loro costume, fregiati
di immaginette ne’ petti, movendo il passo, e percotendo i timpani intanto che
altri gli accompagnano col suono delle tibie, e cantano gl’ inni della gran
madre : ma ninuo de’ Romani nativi ornato con veste di vario colore va per la
città questuando o sonando di tibia, o venerando con frigie adorazioni la
diva ; e tutto è secondo le leggi ed il
voto del senato. Tanto è cauta la città su gli usi forestieri interno de’ Numi
; e tanto ne ripudia le osservanze vane nè decorose ! Questo (ratto su la madre Idea non è ben chiaro.
Sembra che il culto de lei fosse ricerulo ed eseguito in una parte solamente
colle leggi romane. Quei riti che non erano ricevati non poteano esercitarsi
dai Romani. Dei resto Dionigi forse afferma senza verità che gli Dei forestieri
adottati in Roma non si veneravano co' riti ancora de' forestieri. Arnob. lib.
a e Valerio Massimo lib. primo possono dimostrare il contrario. Nè credasi che
io non sappia che alcune delle favole greche sono utili agli uomini. Certamente
talune dimostrano allegoricamente le opere della natura : e talune furono
simboleggiate per confortarci ne’mali; altre levano i 'turbamenti ed i terrori
dell’ animo, e lo purgano dalle opinioni non sane, ed altre ancora per altro
buon termine furono immaginate. Ma quantunque io nommeno che gli altri, conosca
tali cose, pure vi sono assai cauto, ed ammetto piuttosto la teologia de’
Romani; considerando che tenui sono i beni derivati dalle favole greche e che
non possono far utile se non a pochi, a quelli cioè che investigano le cagioni
per le quali furono inventate. Ora ben rari possiedono questa fìloso6a ; ma la
moltitudine ignorante suole rivolgere al peggio i discorsi che se ne fanno, e
patirne 1’ una o l’altra miseria, cioè di spregiare gl’ Iddii come implicati in
'tanto malfare, o di non contenersi m.ii più da ingiustizie e da vituperi,
vedendo die sono questi gli esercizi de’ Numi. Ma lascisi ciò da contemplare a
quelli che que sta parte sola si appropriano di filosofia. Quanto al governo
istituito da Romolo io reputo degne della storia queste cose ancora : e
primieramente il numero delle persone che egli deputò per le cure religiose.
Certo niuno potrebbe additare in altra nuova città stabilitovi fin da’,
principi .tanto sacerdozio e tanto ministero dei Numi. Per non dire de’
sacerdoti gentilizi, furono sotto il regno di lui creafi sessanta 'sacerdoti
che fornissero le pubbliche divine funzioni delle curie e delle tribù. Nè io
qui ridico non le cose che descrisse nelle sue antichità t Terrenzio Varrone,
peritissimo tra quanti Borirono ai suoi tempi. Poi siccome altri per lo più
fanno ineonsideratamente, e malamente la scelta de’ sacri ministri ; siccome
altri ne mettono a prezzo le dignità per la voce de’ banditori; e siccome altri
infine le compartono a sorte; egli non volle che fossero il premio
dell’argento, o della sorte, ma decretò che si nominassero da ' ogni curia due
uomini, maggiori di cinquanta anni -, pteeminenti di lignaggio, insigni pe’
meriti, agiati abbastanza di averi, nè difettosi in parte della persona. E
comandò che questi avessero quegli onori non a tempo ma durante la vita, e che
essendo per la età già liberi dalle cure militari, lo fossero per legge dalle
politiche. E siccome alcuni sagrifizj si aveano a fare dalle femmine, ed altri
da’ giovani, aventi tuttavia padre e madre ; cosi perchè questi ancora
degnamente si amministrassero, ordinò che le donne de’ sacerdoti fossero le
compagne de’ mariti ancora nel sacerdozio ; che esse compiessero le sante cose
che le leggi della patria non permettevano agli uomini, ed i figli loro
prestassero il servigio, proprio de’ giovani: Che se non avevano prole
scegliessero dalle altre case nella curia loro i più graziosi tra’ fanciulli e
fanciulle, perchè ministrassero, quelli fino alla pubertà, queste finché erano
pure senza le nozze. Io credo che Romolo derivasse questé pratiche ancora da’
Greci ; mentre ciò che ne’ Greci sacri Qnesii fanciulli cosi eleni anche dalle
altrui case erano chiamati Camillì e Camille. Plutarco nella vita di Numa
accenna elio cosi chiamavansi que’giovinelti che ministravano 1 sacerdote di
Giove,. 1 49 ficj forniscono quelle che Canifore si domandano, lo compiono tra’
Romani quelle che Camille son dette,
cinte di ghirlande la testa, come da’ Greci la testa inghirlandasi delle statue
di Diana Efesina. E quanto èseguivano un tempo fra’ Tirreni e prima già fra’
Pelasghi i Cadolj nelle adorazioni dei Cnreti e degli Dei Grandi, lo
ministravano nel modo medesimo ai sacerdoti i garzon celli nominati Camilli
tra’ Romani. Prescrisse inoltre che intervenisse da ciascuna tribù ne’ sagriGzj
un indovino, che noi chiameremmo Jeroscopo, ed i Romani chiamano aruspice,
serbando in qualche tenue parte la denominazione primitiva ; e statuì, che li
sacerdoti ed i ministri loro fossero tutti nominati dalle curie, ma confermati
da quelli che interpretavano i voleri de’ Numi colla divinazione. XX [II.
Ordinate tali cose intorno al servigio divino, divise ancora, secondo che era
per cosi dire opportuno, alle curie le sante cose, destinando a ciascuna i Numi
ed i genj che in perpetuo adorerebbe ; e tassò per le sante cose le spese che
aveansi a supplire dal pubblico. Celebravano coi sacerdoti le curie i sagriGzj
a loro assegna ti. facendo per le feste il convito nelle case delle curie.'
Perocché vi era in ciascuna curia un cenacolo, ed insieme vi era un’ edifizio
comune, consacrato per tutte ; -.come i Pritanei tra’ Greci. Que’ cenacoli,
quegli edifizj, curie si, chiamavano, e si chiamano, come le partizioni stesse
del popolo (a). E tale istituzione sem. (j) La voce Camille manca nel tetto :
ma par troppo coerente colla totalità del senso, Canifore vai quanto portatrici
de' canestri. (a) Varroiie uellil>. 4 della lingua latina diceche gli
edirizj ciitabrami che Romolo se l’ avesse dalla disciplina che fioriva allora tra’
Lacedemoni ne’ riti sociali. Licurgo avea ciò, fluttua quella fra le tempeste ;
e che però debbe un uomo savio di stato, legislatore o sovrano che sia dar
leggi che rendano i privati prudenti e giusti nei vivere; Ma qon tutti mi
sembra che vedessero egxialmente còn quali industrie e leggi si rendessero tali,
e sembrami che alcuni assai, per non dire interamente, mancassero, nelle parti
essenziali e primarie della legi.slazione.; come subito ne’sposalizj e nel
convivere colle femmine, donde un legislatore dee cominciare, come ne cominciò
la natura l’ ordine armonioso di noi tutti. Imperciocché taluni pigliando
esempio dalle bestie vollero i congiungimenti del maschio colla femmina
promiscui e liberi, quasi fossero cosi per liberare la vita dalle furie
amorose, e preservarla dalie gelosie che uc> cidono, e rimoverla dai tanti
mali che per causa delie femmine invadono le intere città, non che le famiglie.
Altri esclusero dalla città tali silvestri e ferali eoocu bili accordando un
uomo per una donna : in custodia però delle nozze, e della moderazione delle
mogli, non tentarono più o meno far leggi, ma se ne astennero; quasi
impossibile fosse il contrario. Aluri nè lasciarono, come taluni de' barbari,
le cose amorose senza leggi, nè le mogli senza premunirle come i Lacedenàoni,
ma vi promulgarono molte e castissime regole. E vi furono pur quelli che
fondarono un magistrato che invigilasse intorno la purità femminile : ma non
bastarono tali provvidenze alla cura. Fu quel magistrato languido più del
dovere, nè potè ridurre a pudicizia chi mal ci avea contemperata la natura.
XXV. Ma Romolo non dando azione all’uomo contro donna se adulterava, o se
abbandonavagli la casa ; nè dandola alla femmina che accusava l’uomo di pessima
amministrazione o d’ ingiusto ripudio ; non formando leggi sul ricevere e sul
restituirsi della dote, nè definendo altra cosa qualunque, consimili a queste;
ne stabilì solamente una, migliore assai ( come il fatto dichiarò) delle altre,
colla quale fe’ le donne' savie e pudiche e di ogni onoralo contegno. E la
legge fu: che la femmina maritala la quale secondo le sacre leggi recavasi alt
uomo, divenisse partecipe de’ beni e delle sacre cose di lui. Gli antichi
chiamavano con formola romana nozze sacre e legittime la confarreazioiie per
l’uso conume del farro .che. noi Zea chia. I 53 nilamo. E come noi Greci
tenendo l’orzo per antichissimo diam principio con esso a’ sagrifìzj ; ed
questo. cliiamiamo: cosi li Romani giudicando cibo primitivo e pregevolissimo
il farro; incomincian col farro, quante volte una vittima si abbruci. E ul rito
persiste, nè si compensò con altre squisite primizie. L’ essere le donne fatte
partecipi con gli uomini di un cibo il più sacro e primitivo, e della sorte di
essi, qualunque fosse, aveva un nome dalla comunanza del farro, e ciò portava
un ligame indissolubile di appropriazione, e niente polca disfare quel
matrimonio. Questa legge necessitava le mogli eome prive d' altro rifugio a
vivere co’ modi di chi aveasele maritate, e faceva agli uomini tenere le donne
come cose proprie nè separabili. Quindi una moglie pudica e docile in tutto al
marito, era appunto come r.uorao, l’ arbitra della casa. Morendo 1' uomo, ne
era la erede, come la figlia del padre : se moriva senza figli e senza
testamento, essa era la padrona di ogqi cosa lasciata da lui, ma se avea de’
figli essa era coerede di parte eguali con questi. Che se colei peccava, avealo
giudice della delinquenza, cd arbitro della grandezza della .pena : se non che
li parenti ancora insieme coir uomo la giudicavano fra le altre reità, se avea
contaminato il suo corpo, o se bevuto del vino, mancanza certo nel parere de’
Greci tenuissima. Ambedue queste colpe, come le estreme delle colpe femminili,
ordinò Romolo che si -castigassero : la contaminazione qual priimipio d’
insania, e la briachezza qual principio della contaminazione. E lungo tempo
seguirono ambedue queste colpe ad avere odio implacabile tra’Romani. Ora che
buona fosse questa legge su le donne; lo at> testa la esistenza lunga di
essa ; consentendosi che per dnquecento venti anni non si sciolse in Roma niun
matrimonio. Solamente narrasi, che sotto il consolato di Marco Pomponio, e di
Cajo Papinio, nella olimpiade centesima trentesima settima Spurio Garvilio,
uomo non ignobile, il primo lasciasse la moglie, costretto Innanzi però dai
censori di giurare, che la donna sua non abitava in sua casa per generare con
esso. Certamente la sua donna era sterile: ma egli per quest’ opera, quantunque
la necessità ve lo' inducesse, ne ‘incorse r odio perpetuo del popolo. Tali
sono le leggi egregie di Romolo colle quali rendè le donne piu disposte inverso
de’ -mariti. Assai più gravi e più convenienti di queste e molto diverse dalle
nostre sono le leggi sul rispetto e su la corrispondenza de’ 6gli, perchè
onorino I genitori col dire e col fare quanto comandano. Coloro che ordinarono
i governi de’ Greci, istituirono che i' figli rimanessero un tempo, troppo
breve, sotto la potestà dei loro padri: vuol dire istituirono alcuni che vi
restassero tre anni dopo la pubertà ; altri, fin che erano celibi ; ed altri
finché non erano scritti nelle curie pubbliche: e questo a norma della
legislazione appresa da Soloné, da Pittaco, da Caronda, uomini di sapienza
riconosciuta. Preordinarono ancora delle pene ; ma non gravi su'figli indocili,
permettendo ai padri di espellerli e diseredarli e non altro. Ma le pene miti
uon bastano a correggere la precipitanza e la caparbietà de’ gióvani, nè a
renderli nel bene attenti di trascurati. Dond’ è che assai. l55 vlluperii si
commettono da’ Ogli contro de’ padri nella Grecia. Ma il legislatore di Roma
diede a’ padri sul • figlio per tutta la vita autorità compiuta di escluderlo,
di batterlo, di vincolarlo a’ lavori campestri, e di ucciderlo ancora se cosi
volessero, quantunque il figlio già trattasse le cose pubbliche, già sedesse
tra’ magistrati supremi, e già si avesse gli applausi per lo zelo suo verso del
popolo. In forza di questa legge uomini ragguardevoli concionando da’ rostri su
cose contrarie al ' senato', e care al popolo e divenuti perciò famosi, furòno
di là staccati e rapiti altrove da’ padri, perchè subissero la pena che iie
voleano ; e traendoseli per lo foro, ninno potea liberarli non il console, non
il tribuno, e non la plebe da essi adulata, sebbene questa valutasse tutti men che sé stessa in potere.
Ometto di dire quanto i padri uccidessero de’ valentuomini, spintisi per virtù
e per ardore a far magnanime imprese ma diverse da quelle prescritte dai padri,
come abbiamo di Mallio Torquato e di altri, de’ qnali diremo a suo tempo. Né il
legislatore di Roma ristrinse a questo soltanto i padri; ma permise loro anche
di vendere i figli, niente attendendo che altri vinto dalla sua tenerezza
riprendesse la concessione come dura e gravosa. SopratUttto, chi fu allevato
colle maniere molli de’Greci riguarderà come a(Cerbo e tirannico, che lasciasse
i padri utilizzare su’ figli eoi venderli fino a tre volte, dando licenza più
grande a’ padri sn’ figli che non a’ padroni su gli schiavi. -.Perocché il
servo venduto una volta se riacquista poi la libertà rimane in seguito padrone
di sè : ma il figlio venduto dal padre se diviene libero ri-' cade di nuovo
sotto il padre: e quantunque rivenduto e liberatosi per la seconda volta; pur
trovavasi ancora servo del padre come in principio ; ma dopo la terza vendita
più non era del padre. Osservavano da principio i re questa legge stimandola
rilevantissima, scritta o non scritta che fosse, ciocché non posso decidere.
Disciolta poi la monarchia, quando piacque ai Romani che si affiggessero nel
foro, manifeste ad ogni cittadino., tutte le leggi e le consuetudini patrie e
quelle ricevute di fuori, perchè il diritto comune non finisse col potere de’
magistrati ; i Decemviri che erano incaricati dal ' popolo di compilarle, e
distenderle, scrissero ancora questa legge colle altre: e trovasi nella quarta
delle dodici tavole, che chiamano, che essi esposero nel .fòro. Che poi li decemviri, eletti trecento t^nni
appresso per la ordinazione delle leggi, non diedero essi i primi questa legge
ai Romani, ma che ricevutala come antica molto, non osarono toglierla, lo
deduciamo da molle fonti,e principalmente dai decreti di Numa tra’quali era
scritto; Se un padre conceda al figlio di prender moglie la quale secondo le
leggi sia partecipe delle cose sacre e de' beni, questo padre non avrà fin dt.
allora più facoltà di vendere il figlio. Or ciò non avrebbe., cosi scritto, se
per le leggi antecedenti non era permesso af padri di vendere i figli. Ma basti
su 'ciò : frattanto voglio dcllneare come in compendio la. bella istituzione
colla quale Romolo ordinò la vita de’ privati. Vedendo che le adunanze
politiche, ove i più sono indocili, non si riJucouo con magistero di. iSj
parole a vivere temperantemente, a preferire il giusto all’ utile, a dumr la
fatica, nè riputare cosa alcuna più onorata del retto procedere ; ma che
piuttosto si dirigono ad ogni virtù colle consuetudini buone ; e vedendo che
quelli ohe si disciplinano anzi di forza che spontaneamente, ben presto, se
niente impediscali, ritornano ai geiij loro; non concedette che ai servi ed a’
forestieri di esercitare le arti sedentarie, illiberali, fautrici dei turpi
desideri, come quelle che guastano e profanano i corpi e le anime di chi vi si
applica. E lungo tempo rimasero queste ingloriose tra’ Romani, e ninno che
nativo fosse di que’ luoghi, vi rivolse le industrie sue. Lasciò solamente per
gl’ ingenui le due cure della cam> pagna e delle armi ; perocché vide che
con tali maniere di vivere gli uomini signoreggiano il ventre, e meno
languiscono tra gli estri amorosi, nè sieguono quella voglia di arricchire che
dissocia i cittadini a vicenda, ma quella che trae 1’ utile dalle terre o da’
nemici. Riputando imperfette, anzi litigiose queste vite se disgiunte, non
ordinò già che una parte si desse ai lavori del campi, e 1’ altra andasse e
derubasse i nemici come la legge disponeva tra’ Lacedemoni; ma prescrisse in
comune li rustici e li militari travagli. Se godea pace, ; costumavali a star
tutti intenti per le campagne, salvo il giorno ( ed erari da lui destinato ogni
nono giorno ) • in cui faceano mercato ; perchè allora amava che accorrendo iu
città vi commerciassero. Ma se prorompeva la guerra, addestravali a farla, e
non cedere gli uni agli altri nel faticarvi o lucrarvi; pèrocchè divideva tra
loro ugualmente, quanto involava al nemico, campi, schiavi, danari, e xciidcali
con ciò volenterosi ad imprendere. Spediva, non prolungava i giudizj su le
offese scambievoli ; c quando giudicavale da sé medesimo e quando per mezzo di
altri: e proporzionava ai delitti le pene. Considerando che la paura più che
tutto respinge gli uomini dalle scelleraggini, coordinò più cose per incuterla,
come un tribunale, ove sedea giudicando, nel più visibile luogo del foro,
imponentissimo l’ apparato de’ soldati, trecento di numero, che lo seguivano, e
le verghe e le scuri portate da dodici uomini li quali nel foro stesso batteano
chi avea colpe degne di battiture, o nella' pubblica luce lo decapitavano, se
altri ne avesse più grandi. Tale fu l’ ordine del governo indotto da Romolo, e
da queste cose ben si può conghietturare su le altre. XXX. Quanto alle altre
opere civili o beUiche di un tal uomo, queste ne furono tramandate, degne che
si intessano ad una storia. Siccome i popoli circonvicini a Roma erano molti, e
grandi, e bellicosi, nè punto amici di essa ; deliberò conciliarseli co’
matrimoni, mezzo gii> dicato dagli antichi saldissimo di procacciar le
amicizie. Considerando però che tali genti non si unirebbero spontaneamente con
loro, nuovi di colonia, impotenti per danaro, e privi d’ ogni gloria di belle
operazioni, e che altronde cederebbero violentati, se oltraggiosa non fosse la
violenza; risolvè, (ciocché avea NumitOre l’avo suo materno già suggerito) di
faré, ed in copia, i 'matrimòni col ratto delle vergini. Cosi risoluto, fe’
Voti al Dio guidatore dei disegni reconditi, che se la prova gli riusciva
appunto come la ideava, gli tributereUie ogni anno e feste e sagrifizj. Quindi
riferito il .disegno in li. 1 5() senato,
e comprovatovi, propose di celebrare giuochi solenni a Nettuno, e ne sparse la
nuova per le città vicine ; invitando chiunque al concorso ed ai giuochi, che
giuochi sarebbero moltiplici di cavalli e di uomini. iVenuii forestieri in
copia alla festa insieme colle mogli e co’ figli, e compiti già li sagriCzj a
Nettuno e li giuochi, infine nell’ ultimo giorno quando era per dimettere la
moltitudine fe’ intendere ai giovini che al dare di un segno certo, tutti
involassero quante a loro ne capitavano, le vergine accorse agli spettacoli, le
custodissero però quella notte inviolate, ed a lui le recassero nel prossimo
giorno. Compartitisi i giovani in truppe non si tosto videro elevato il segno
convenuto ; si volsero a far preda di vergini. Sorgene un tumulto un damore de’
forestieri che maggiore ne sospettavano il male. Condottegli nel prossimo
giorno le vergini, Romolo consolavale disanimate, con dire che tendea quel
ratto a maritarle non a vilipenderle. £ dichiarando che Greco, e primitivo, e
nobilissimo era il modo tenuto da lui tra tutti i modi co’ quali si procurano
le nozze alle femmine ; invitavale ad amare gli uomini che la sorte ad essi offeriva.
Dopo ciò numerando le donzelle e trovandole secenlo ottantalrè ; scelse
bentosto altrettanti de’ suoi non maritati, e con essi congiunsele. Egli
legandole colle nozze secondo il rito della patria, rendeale partecipi dell’
acqua stessa, e del foco ; e quel rito mantienesi ancora. Alquanti scrivono che
avvenne un tal fatto nell’ anno primo del regno di Romolo : Gneo Gellio lo
assegna nell’ anno terzo, e ciò pare più verisimile. Imperocché non èprobabile
che il capo di una città uascente si accingesse a tal opera prima clic ne
avesse costituito il governo. Altri stimano cagione di quel rapimento la
scarsità delle femmine, altri l'impulso a far guerra; ed altri più persuasivi,
a’ quali io m’attengo, la necessità di aver amicizia cogli abitanti vicini.
Ripetevano i Romani anche al mio tempo la festa allora consacrata da Romolo
chiamandola Consuali (t). In essa un altare sotterraneo, scalzato intorno
intorno di terra,, posto vicino al circo massimo, onorasi con sagriOzj, e
primizie che bruciansi. Evvi corsa di cavalli sciolti, o congiunti ai carri.
Conso chiamasi da’ Romani il Nume a cui tributano questi onori : e taluni con
greca interpretazione dicono che sia Nettuno, scotitore della terra, e che si
venera appunto in altari sotterranei, perchè questo Dio possiede la terra : ma
io ne so’ pure altra origine perchè udii che la festa era celebrata per Nettuno,
e per Nettuno li s giuochi equestri; ma che r altare sotterraneo era stato
consecrato infine ad un genio ineffabile, guidatore e custode de’ segreti disegni.
E certamente Nettuno in niun luogo tiene altari invisibili inalzatigli da’
Greci o da’ barbai'i. Pure è difficile a diffinire come stiasi la verità. Come
la fama del rapimento delle vergini e gli eventi de’ giuochi si sparsero per le
città vicine; altre si corucciaron su 1’ opera, ed altre invesugando 1’ affetto
ed il fine ond’era avvenuta, la sopporlavanu in
I giuochi isliluili da Romolo nel ratto delle Sabine furono chiamali
Consuali perchè fatti in onore del Dio Conso. Appresso furono detti Circensi
quando Tarquinio Prisco fece il circo massimo. Sembra che la prima volta
fossero celebrali nel campo Marso.. l6l pace. In fine però ne proruppero delle
guerre, alcune sicuriiniente ben facili ; ma grave e disastrosa fu cjuella co’
Sabini. Felice fu l’esito di tutte, come prima che si cominciassero ne aveano
presagito gli oracoli, i quali significavano che grandi ne sarebbero i travagli,
ed i pericoli, ina lietissimo il fine. Le città che prime si misero a tal
guerra furono Genina, ed Ànlemna, e Crustumero, in apparenza pel ratto delle
vergini e jicr vendicarsene ; ma la cagione vera che ve le spingeva era la
fondazione, era il créscere di Roma divenuta grande in poco tempo, e la voglia
di non trascurare che più si estendesse quel male, comune a tutti i vicini. Ben
tosto dunque spedendo ambasciatori ai Sabini gl’ invitarono perchè fossero i
capi nella guerra, essi che erano i più polenti di arme e di danaro, degni di
comandare ai vicini, nè oltraggiali menu degli altri; essendo le vergini rapite
per la maggior parte Sabine. Ma poiché niente profittavano, pere he gli
ambasciadori di Romolo contrariavano, ed appiacevolivano con parole e con opere
quella gente ; stanche alfine di perdere più tempo coi Sabini i quali esitavano
c rimettevano ognora a tempo più rinioto il consiglio di guerra, destinarono
fra loro di combattere esse i Romani; pensando che avrebbono suificieiiza in sè
stesse di forza, se univansi tutte tre, per invadere una città sola, nè grande.
Così dunque si coiicerlarouo ; ma non si espedirono già per concentrarsi tutti
in un esercito ; insorgendo innanzi gli altri i Ceuiuesl, pi'imarj già nel volere
la guerra. Ora avendo questi mossa l’ armata, e devastando il campo contiguo,
Romolo usci colle sue truppe : e piombando repentinamente su' nemici che non
seu guardavano ; ben presto ne espugnò gli alloggiamenti, che appena erano
formati. Poi gettatosi appressa quelli i quali si rifuggivano nella città, dove
non crasi udita ancora la sciagura dei suoi, non trovandovi nè guardate le mura,
nè chiuse le porle ; la invase a primo impeto, ed uccise, combattendo, e
spogliò colle sue mani delle arme il re di essa venutogli incontro con forz^
poderosa, Cosi prendendo e comandando la città che gli consegnasse le armi, e
togliendosene per ostaggio, que’ gioviui che più volle; marciò contro gli
Antemnati. Rendutosj colla subita incursione padrone delle milizie di questi,
sbandate ancora a far preda, come crasi padrone renduto delle precedenti, e
trattati i vinti nella maniera medesima; ricondusse a casa l'esercito, recando
le spoglie degli oppressi in battaglia, e le pripiizie delle prede ai Numi i
quali onorò con assai sagriSzj. Andava-, massimo della pompa egli stesso in
veste di porpora, e coronato di alloro le tempie, ma su di una quadriga per serbare la dignità di monarca.
Seguivano Plutarco scrive c>;e
Dipoigi uon dice bene quando afferma che Romolo veniva su di un carro. FwyueAer
it vac piia-tt Aisrue-rur. Tito Livio scrive che Roipolo spolia ducis hostiunt
cacti tuspensa, fabrieato ad id apté ferculo, gerent, i/t capholium asce/idit.
Il Casaubono pensa che Dionigi per la non piena peiizia delia lingua latiua
interpretasse quel ferculum di ^vio, dal quale derivava tali racconti, per
cocchio;' quando eia ir. ' i63 le milizie de’ fanti e de’ cavalieri, ornate
secondo i loro gradi, magnifìcando gl’ Iddii colle patrie canzoni, ed il
capitano con gli slanci di versi improvvisi. Quelli della citii recatisi loro
incontro colie mogli e co’ figli, e schierai isi quinci e quindi per le vie si
congraiulavano con essi per la vittoria, e davano ogni altro segno di ami^
cizia. Entrata la truppa in città trovò crateri spumanti di vino e mense colme
di ogni varieià di cibi appiè delle case più riguardev.oli pei’chè a piacere vi
sì saziasse. Cosi andava con trofei e sagrifizj la pompa della vittoria
istituita la prima volta da Koniolo, e chiamata dai Romani trionfo : ma ora,
trascendendo ogni antica semplicità, spiegasi magnifica e clamorosa come in
tragico rito, anzi per gala di ricchezze che in prova di virtù. Dopo la pompa e
dopo i sagrificj Romolo edificò su le cime del cimpidoglio un tempio a Giove
detto Fé-, retilo da’ Romani : Non era grande il sàiito edificio ; apparendone
ancora i primi vestigi, e vedendosene! iati maggiori meno lunghi oi dal vero
chi voglia questo (jiove Feretrio a cui Romolo offerse le anni, chiamarlo il
Dio che tiene i trofei, o che porge come altri dicono, le spoglie de’ nemici, o
il Dio preeminente, perché supera ed abbraccia tutta intorno la natura ed il
movimento degli Esseri. piutlo.s(o come iuterprela Plulaico ciocché ni direbbe
trnfeo. Lo stesso Plutarco ìoscgiia che Lucio Taripiaio Piiscu fu il (irinio
che tiiuufasse sul cairu. Poiché Romolo ebbe tributalo agl’ Iddìi le primizie
ed i sagrifìzj di ringraziamento, deliberò, prima di far al irò, col senato,
com’erano da trattarsi le città debellate ; ed esso il primo ne dichiarò la
sentenza che ottima riputava. E piaciuta questa come la più sicura e la più
luminosa a quanti erano in quel consesso, ed encomiatone pe’ vantaggi che a
Roma ne risultavano non pur di presente, ma in ogni avvenire; comandò che
venissero a lui le donne di Cenina e di Antemna cadute prigioniere con altre.
Riunitesi sconsolaté^, e prostratesi, e piangendo esse la sorte della patria;
accennò che frenassero i pianti e tacessero e poi disse: hen dovrebbero i
vostri padri, i vostri fratelli, e le intere vostre città subire ogni male,
perchè scelsero anzi che r amicizia la guerra, e guerra non necessaria nè
onesta. Nondimeno abbiamo noi deliberato di essere clementi con essi per molle
cagioni, e perchè apprendiamo la vendetta de' Numi, pronta contro i superbi, e
perchè temiamo la indignazione degli uomini, e perchè giudichiamo essere la
compassione compenso non lieve de' mali comuni, noi che già la dimandavamo dagt
altri : e finalmente perchè pensiamo che ciò non sarà caro e grazioso poco per
voi, congiunte finquì co' vostri mariti senza che possano querelarsene.
Condoniamo questo delitto, nè togliamo a’ vostri cittadini non la libertà, non
i poderi, non altro bene qualunque. Lasciamo noi dunque ( nè già se ne avranno
a pentire) lasciamo libera a tutti la scelta di rimanere in patria se il
vogliono, o di traslatarsene. Ala perchè niente pià faccia abberrare le
vostre città, perchè niente più trovisi
in esse che possa ridividerle dcdla nostra amicizia’, rìputianio
espedientissimo e saluberrimo per la concordia e sicurezza di ambedue se le
rendiamo colonie di Roma, e se da Roma vi mandiamo abitanti che bastino. Àndcde
: statevi di buon animo : moltiplicatevi nelt ossequio e nella benevolenza de’
vostri mariti; tra’l dolce sentimento che liberi per voi sono i vostri figli,
liberi i vostri fratelli, libere le patrie vostre finalmente. Ti-ipudiando in
udir questo le donne e lagrimando viva^ niente di gioja partirono dal Foro.
Romolo mandò in ciascuna città trecento uomini e le città cederono ad essi,
dividendolo a sorte, il terzo de’ loro terreni. In opposito menò in Roma quanti
Antemnati e Ceninesi vollero trasferirvisi, e raeuovveli colle mogli e co’
figli mentre ritenevano in que’ luoghi i campi ad essi toccati, e portavano
seco il danaro che possedevano. Li descrisse il re ben tosto nelle curie e
nelle tribù ; nè furono men di tre mila : tanto che ne’ cata-^ loghi romani si
numerarono allora la prima volta sei mila fanti. Genina ed Antemna città non
ignobili avean greco lignaggio : imperocché tolte ai Sicoli caddero in potere
degli Aborigeni, i quali erano una parte degli Oeijoirj, venuti già dall’
Arcadia, come nel primo libro fu detto, ma ora finita la guerra divennero
colonie romane. Romolo dopo ciò condusse
Tesercito incontro de’ Crustumerini, apparecchiati meglio che i primi : e
vintili, quautiinque stati fortissimi , nella battaglia Qui Dionigi è contrario a Livio il qnale
scrive:' Poi t’in \ in campo e su’ muri, non volle che patissero più oltre; ma
fece della città, come delie altre una colonia romana. Era Cruslumero colonia
degli Albani speditavi mollo tempo innanzi di Roma. Divulgando la fama in molte
città la fortezza militare del capitano e la clemenza in verso de’ vinti; si
congiunsero ad esso ancora non pochi valentuomini ; i quali con tutte le
famiglie a lui trasferendosi, gli recarono forze non dispregevoll. Ed uno de’
colli di Roma ancora chiamasi Celio, da Celio che uno fu di que’capi venuti
dalla Etruria. Anzi a lui si diedero Intere città, cominciando dalla città dei
Medullini, le quali divennero colonie romane. I Sabini al veder ciò se ne
conturbarono, accusandosi a vicenda che non avessero messo iiu argine alla
monarchia dei Romani in sul nascere, o che si avessero a brigare con lei fatta
già grande. Nondimeno parve ad essi che fosse da correggere il primo errore
collo spedire un esercito rispettabile. E riunitisi a congresso In Curi la più
cospicua e la più imponente delle loro città, vi decisero co’ loro voti la
guerra ; creaudone generalissimo Tito Tazio re dei Cureli. Deliberato ciò
ripatiiaronsl e prepararono i Sabini la guerra per marciate In su la nuova
stagione con esercito poderoso contra Roma. Intanto Romolo si apparecchiò
fortlsslmamente onde jìsosplugere uomini fiorentissimi in arme. Elevando le
mura del Palatino e torrioni più alti di camminò contro de Crustomenesi g i
quali portavano la guerra z ftia qui ci ebbe men di contrasto perchè già gli
animi erano abbaia tuli per le sconfitte degli altri 1 67 esse perché dentro vi si stessè con
sicurezza, e circondando con fossi e irincere 1’ Avventino, ed il Campidoglio
che ora chiamano, colli ambedue dirimpetto dei primo, e presidiandone l’uno e
l’altro con salda guarnigione; ordinò che nella notte vi si riparassero e
greggio e villani. Munì similmente con fossi e palizzate, e guardie ogni altro
luogo opportuno per la loro salvezza. Intanto Lucumone, divenuto amico suo non
molto di prima, Lucumone uomo operoso ed insigne nelle arme, venne a lui con
buon sussidiodi Toscani da Vetulonia ; e vennero pure da Albano in copia, ( e
mandavagli 1’ avo materno ) combattitori. commissari, arteBci di militari
stromenti. Diè loro frumento ed arme e quanto facea di mestieri, e largamente
ne diede per ogni vicenda. Poiché furono apparecchiati ambedue per r impresa, i
Sabini al sorgere della primavera, ornai sul pnnto di cavar le milizie,
deliberarono di spedire, e spedirono prima a’ nemici un ambasceria la quale
esigesse le donne e la soddisfazione della rapinà di esse ; perchè se ’l giusto
non ottenevano, apparisse che spinti dalla necessità davano alle arme. Romolo
pregò in opposito che si permettesse alle donne rimanersene con quelli a’ quali
si erano maritate giacché restie non ci convivevano: che se abbisognavano di
altra cosa, volessero da lui riceverla come da un amico, non lo investissero
colla guerra. I Sabini non contentati in alcuna dimanda menarono in campo
venticinque mila pedoni e quasi mille cavalli. Non molto differiva dalla
milizia sabina la romana ; numerosa di ventimila fanti, e di ottocenfp
cavalieri, ed accampatasi divisa in due parli dinanzi la città, teneva con una
parte il colle Esquilino sotto gli auspicj di Romolo, e con l’altra il
Quirinale ( che allora non avea questo nome ), e Lucumone il Tin'eiio erane il
capitano. Al conoscere tali disposizioni Tazio re dei Sabini levandosi di notte,
traversò coll’ esercito la campagna, non già per danneggiarla, ina per mettersi
prima del nascer del sole in sul campo tra ’l Quirinale ed il Campidoglio. Ma
vedendo che tutto era custodito dalle guardie vigili de’ nemici, e che non ci
avea luogo sicuro per lui, cadde in gravi dubitazioni senza rinvenire intanto
come avea da usare quel tempo. Fra tante dubitazioni sorsegli una prosperità
non pensata ; essendogli consegnato un de’ luoghi fortissimi con questo
successo. Rigirandosi appiè del colle Capitolino i Sabini per esplorare se ci
avea parte niuua, donde potesse espugnarsi con sorpresa, o di forza ; videli
dall’ alto Tarpeja, una vergine cosi nominata, figlia del valente uomo al quale
era la cura hdata di que’ luoghi : s’ invaghì la donzella, come scrive Fabio e
Ciucio, dei braccialetti che que’ Sabini s’ aveano intorno la sinistra, e s’
invaghì degli anelli. Brillavano allora di oro i Sabini, molli nommen che i
Tirreni nel vivere. Ma Lucio pisone il censore narra che la fanciulla ciò fece
sul bel desiderio di esporre ai cittadini i nemici, nudi delle arme colle quali
si difendevano. Ben può da quel che siegue raccogliersi qual sia di queste due
cose la più verisimile. Mandando fuora una serva per una tal porticina che niun
si avvide che fosse aperta, fe’ richiedere il monarca Sabino che venisse a lei
senza compagni per nn colloquio ; ed essa parlerebbegli di cosa grande e
necessaria. Accettò Tazio l’ invito su la speranza di un tradimento, e recatosi
al luogo additatogli, e venutavi ( che ben lo potè ) la donzella, disse che il
padre suo quella notte si era allontanato per un tal bisogno dalla fortezza, e
che le chiavi delle portò erano presso di lei : consegnerebbele se a lei
venissero quella notte, e se in premio della consegna le si dessero quelle
fulgide cose che ì Sabini portavano tutti nella sinistra. Piacque a Tazio 11
partito, e contraccambiatasi ambedue la promessa con giuramento di non
illudersi ne’ patti ; la vergine distinse la parte per la quale avrebbero a
venire a quel fortissimo luogo, e distinse 1’ ora della notte in che meno s'
invigila ; e poi ritornossene, nè quelli che eran dentro ne seppero. Concordano
Gn qui ma non già nel resto gli storici romani. Pisone il censorino del quale
abbiam detto di sopra scrive che Tarpeja spedì quella notte un messaggiero che
signiGcasse a Romolo gli accordi fatti tra i Sabini e tra lei ; e come ella
esigerebbe le arme difensive di essi, deludendoli coll’ ambiguità de’ trattati
: egli dunque mandasse altra milizia nella fortezza, e vi sorprenderebbe i
nemici col capitano spogliati di arme. Aggiunge però che il messaggero
fuggendosi presso il re de’ Sabini gii accusasse i disegni di Tarpeja. Ma nè F
abio nè Cincio dicono che ciò avvenisse, e sostengono che la donzella
mantenesse i patti del tradimento. Dopo ciò continuano tutti la storia con
slmiglianza. Imperciocché narrano che avvicinatosi il re dei Sabini col Gor
dell’ esercito colei per adempiere le promesse aprisse a’ nemici la piccola
porla concordata, e che destate le guardie del luogo le stimolasse a scampare
sollecitamente per tragitti ignoti ai Sabini che ornai possedeano la fortezza.
Narrano inoltre che i Sabini al fuggire di quelli, trovatene le porte aperte,
occupassero la fortezza abbandonata ; e che la donna avendo prestato i servigi
pattuiti, ne chiedesse il premio secondo i giuramenti. XL. Dopo ciò scrive
Pisene che essendo i Sabini pronti di dare l’oro di che riluceano ne’bracci
sinistri; Tarpeja la donzella ue pretendesse non i fregi ma gli scudi : che
Tazio andasse in collera per l’inganno, ma pur si guardasse dal violare i
trattati : che era a lui sembrato perciò che si dessero alla vergine le arme
richieste ma per modo, che ricevutele non potesse valersene : che ben tosto
dunque, comandando di essere imitato dagli altri, lanciasse lo scudo con quanta
avea forza contro Tarpeja : la quale investita d’ ogn’ intorno e sopraffatta da
tanti colpi e si gravi succumbè sotto delia tempesta. Ma Fabio ascrive a’
Sabini la frodolenza su’ trattati. Perocché dovendo secondo i patti dare a
Tarpeja le auree cose che dimandava, rattristatine per la grandezza di esse,
scagliarono su lei le arme colle quali si difendevano, quasi scagliar le
medesime fosse un darle come aveano promesso quanto giurarono. Se non che
sembra che i fatti consecutivi rendano più verisimile il giudizio ultimo di
Pisone. Certamente fu la giovine, dove cadde, onorata di tomba, e la tomba sta
nel più augusto de’ sette colli, e Roma ivi le replica ogni anno sacre
libagioni. Io dico ciocché scrive Pisone. Cioè se ella fosse morta tradendo la
sua patria non avrebbe ottenuto niuno di questi due onori nè da quelli che ne
erano traditi, nè da quelli che ne furono gli uccisori : anzi se avanzo mai v’
era del tuo cadavere sarebbe stato poi disotterralo e gittato per atternre i
posteri, e respingerli da simili operazioni. XLI. Tazio e li Sabini
impadronitisi di quella fortezza, e pigliato senza disagi il più degli
appareccbj de Romani, facevano ornai la guerra da luogo sicuro. Cosi tenendosi
dunque ambedue le armate dirimpetto a piccola distanza fra di loro, molti erano
in molte occasioni li tentativi e gli attacchi senza grandi risultati di danno
o di utile per ninna delle parti. Due furono le battaglie più rilevanti date
con tutte le milizie, schierate 1’ una contro l’ altra; e grande ne fu la
strage vicendevole. Ma tirandosi in lungo, ambedue li re concorsero nel
sentimento di venire a decisiva giornata. E recatisi nello spazio intermedio ai
due accampamenti i capitani migliori nelle armi ed i soldati già sperimentati
in mille cimenti fecero memorabili prove dando e ribattendo gli assalti, e
traendosene e rimettendovisi ugualmente. Coloro i quali contemplavano da luogo
munito la equilibrata battaglia, e che d’ora in ora piegava dall’ una o dall’
altra parte, incitando, ed acclamando incoraggivano chi vi si distingueva ; o
con preghiere e pianti richiamavano chi vacillava o lasciavasi ornai sopraffare,
perchè vile sempre non rimanesse. Dond’ è che gli uni e gli altri erano
necessitati a sostenere travagli, maggiori delle forze. Cosi tenuta avendo la
battaglia nel giorno con sorte eguale ; alfine essendo già notte si ravviarono
lieti ai proprj alloggiamenti. Ne’ di seguenti dando sepoltura ai morti
ristabilirono i feriti, e procurarono insieme altre forze. Poiché parve loro di
farsi nuovamente alle mani, tornati jiel luogo medesimo vi combatterono fino
alla notte. Prevalsero i Romani in ambe le ale; reggendone Romolo stesso la
destra, e Lucumone il tirreno la sinistra. Ma restando dubbia ancora nei centro
la sorte delle armi ; Mezio, cognominato il Curzio, uomo meraviglioso per le
forze del corpo, magnanimo nelle arme, e chiaro soprattutto perchè noa
turbavasi a pericoli o terrori, impedì la disfatta totale de’ Sabini e portò di
nuovo contro de’ vincitori le schiere che sorvanzavano. Costui messo a dirigere
1’ armata del centro avea già vinto i nemici che gli stavano a fronte. Volendo
poi ripristinare lo stato delle ale sabine ornai sbattute, e presso a dar volta,
esortandovi la sua milizia si mise ad inseguire i nemici che fuggivano sbandati
da lui, cacciandoli fino alle porte, cosicché Romolo fu costretto a lasciare
imperfetta la sua vittoria, e rivolgersi ad accorrere contro la parte de’
nemici che era vincitrice. Cosi quel corpo de’Sabini il quale pericolava si
riebbe j allontanaudosegli Romolo colla sua gente : e tutto il nembo si
raccolse inverso di Curzio e de’ suoi che erano già vittoriosi, e questi
tenendo fronte per un tempo ai Romani combatterono luminosamente. Ma poi
rovesciandosi troppi su loro ; piegarono e rìpararousi negli alloggiamenti,
assai contribuendo Curzio alio scampo col ritirarli grado a grado, non col
fargli inseguire in disordine. Egli flesso arrestavasi in arme, e. facea
fi'onte a Romolo che lo investiva. E grande e. 1^3 bella a vedere fu la gara
de’ capitani che si attaccavano. Alfine essendo già Cur/io ferito, già esausto
di sangue, riucnlava poco a poco, quando eccogli addietro una palude profonda ;
difficile da girarla intorno, perchè cinta da’ nemici, e dilficilissima da
traversarla per lo fango che ammassavasene alle sponde, e per le acque, che
altissime vi erano in mezzo. Inoltratosi dunque vi si lanciò con tutte le arme.
E Romolo sul pensiero che colui quanto prima perirebbe nella palude non
potendovisi perseguitare pel fango e per le molte acque ; si rivolse contro
degli altri. Ma Curzio dopo molti e lun> ghi stenti emerse finalmente còlle
arme dalla palude, e fu portato a’proprj alloggiamenti. Rimanea la palude nel
mezzo quasi del foro romano, e lago chiamasi di Curzio dalia vicenda ; ma ora è
tutta ricoperta dalla terra. Romolo inseguendo gli altri avvicinasi al
Campidoglio. Spaziava nella speranza di rivendicarselo : ma travagliato da
molte ferite, e più da un colpo di pietra lanciatogli dall’alto nelle tempia fu
preso ornai semivivo da’ compagni, e riportato dentro le mura. Sbigottirono i
Romani più non vedendo il capitano, e dicdesi l’ala destra alla fuga.
Sostenevasi ancora la sinistra diretta da Lucumone, uomo chiarissimo nelle arme,
e segnalatosi per molte e belle imprese in tal guerra. Ma nemmeno questa più
resse alfine ; quando colpito in un fianco da'Sabini cadde pur Lucumone
rifinito di forze. Allora la fuga fu universale. I Sabini imbaldanziti gl’
incalzavano verso le mura: se non che giungendo alle porte pe furono respinti,
sboccandone contro loro i giovani a’ quali aveva il re dato in guardia le mura.
Ed a(Yrcttaiidosi quanto potè per soccorrerli Romolo stesso, riavutosi già
dalla percossa ; la sorte assai ne variò della battaglia. Imperocché li
fuggitivi mirando iuaspettataineute il sovrano, risorti dalla paura, si
riordinarono, uè più s’ indugiarono a volar su’ nemici. Questi che aveano
finora pressato i Romani e concluso non esservi schermo, che impedisse di
prendere la loro città culla forza ; non si tosto videro il cambiamento
inopinato e repentino, pensarono come scampare sè stessi. Il ritorno al campo
era precipitoso per essi, inseguiti dall' alto, e per istrada profonda. Quindi
grande fu la strage loro in questa ritirala. Cosi pugnato avendo quel gioruo da
pari a pari, ma involgendosi ambedue tra casi inaspettati ; alfine ornai
tramontando il sole, si divisero. Ne’ di seguenti consultarono i Sabini se
avessono a ricondurre in patria l’esercito devastando intanto il più che
poteano le campagne nemiche, o se di là ne chiamassero un altro, ivi
trattenendosi cd insistendo fiuchè dessero buon fine alla guerra. Ben era
misera cosa per essi partire, donde mauifeslcrebbcsi la infamia che niente
aveano conseguilo; ed era misera cosa nonimeno il rimanersi non riuscendo loro
disegno alcuno come speravano. Concepivano poi, che venire a trattali co’
nemici, unica maniera conveniente a levarsi di gueiv ra, gioverebbe anzi a’
Romani che a loro. Tuttavia uon meno, anzi assai più che i Sabini, erano i
Romani caduti in gran dubbio intorno le cose da fare. Imperocché nè volevano
rendere nè riteuere le donne ; riputando la prima cosa un seguito di uua
[lerdila mauilcsta, cd n. 175 un
preludio di aversi nccessariamenle a sottomeltere anche ad altri coaiaudi : ma
1’ altra cosa presentava molli e gravi mali, distrutte le patrie campagne, e la
gio> ventò più florida trucidata. Se faceansi a trattar coi Sabini, parca
loro che questi non ser berebbero alcuna misura, per molte cagioni e
principalmente perchè i superbi insolentiscono non condiscendono col nemico che
volgesi agli ossequj. XLV. Mentre ambedue cosi cogitabondi, e così disanimati
dal cominciare o battaglie o discorsi di riconciliazione dispergevano il tempo
; le mogli de’ Romani, quelle che erano sabine di origine, quelle per le quali
ardeva la guerra, congregatesi ed abboccatesi fra loro in un luogo medesimo
risolverono d’ intramettersi con ambi per la pace. Dava tal partito alle altre
Ersilia, non ignobile di legnaggio tra’ Sabini. Di lei dicono che rapita già
come vergine con altre donzelle, ora fosse maritala. lN|a più verisimile è chi
scrive che ella si fosse rimasa spontaneamente colla unigenita sua, 1’ una
delle derubate. Riunitesi a tal sentimento andarono le donne in Senato, ed
ottenutovi di parlare, ve lo diffusero, chiedendo di uscir per un colloquio co’
loro parenti. Annunziavano che aveano molte e belle speranze di fiduiTe unanimi
le due genti e stringerle di amicizia. Come udirono ciò quelli i quali
consultavano col monarca assai ne furono dilettati, riputando che questo fosse
r unico spediente in tanto inviluppo di cose. Adunque si decretò che quante
Sabine avean Agli tante lasciando questi co’ mariti, avessero la potestà di
andarne oralrici ai lor nazionali: che quelle però le quali eran madri di più
6gli ne recassero con sè la parte che più volcano, e trattassero la
riconciliazione de’ popoli. Uscirono dopo ciò tra lugubri vesti, e talune coi
teneri Ggliuoletti. Giunte al campo sabino mossero col piangere e col
prostrarsi appiè di chiunque iucontravale tanta compassione, che ninno de’
riguardanti potea rattenere le lagrime. E Tannatosi per esse il fior del
Senato, e comandate dal re che dicessero le cagioni della venuta; Ersilia,
autrice e guida della S])edizioue, feceiie una lunga e patetica sposizione,
implorando che donassero pace a’ mariti appunto in grazia di esse per le quali
dicevano intimata la guerra. Si adunassero i principi loro; ed essi, veduto 1’
utile puliblico, discutessero le condizioni,per le quali cessassero le
discordie. XLVI. Ciò detto caddero prostese co’ teneri figli appiè del sovrano
e vi si tennero, finché quelli che erano presenti non le rilevarono da terra
con promettere che farebbono quanto era onesto e possibile. Fattele uscire dal
Senato, e consultando fra loro, si decisero per la pace. E prima si fece la
tregua : poi riunendosi i re, si concordò su la pace ancora. E tali ne furono
le convenzioni che sen giurarono. Sarebbero ambedue re dei Romani Romolo e
Tazio con eguali poteri ed onori. La città serbando il nome del suo fondatore
chiamerebbesi Roma, e romano ogni suo cittadino come per l’addietivMa tutti
insieme si chiameiiano generalmente Quiriti desuntone il nome dalla patria di
Tazio. Si domicilierebbero que’ Sabini che voleano, in Roma, ma comunicandosi
le sante cose, c prendondo luogo nello tribù c nelle curie. Giurate questo cose,
ed eretti gli altari ove far 1’ alleanza, in mezzo quasi della Via 1 Sacra, si
mesoolarono insieme. Poi rao cogliendo ogni duce li suoi, tornarono alle
proprie magioni. Si rimasero in Roma Tazio il monarca e con esso tre de’ più,
riguardevoli Valerio Voleso, Tallo, soprannominalo il Tiranno, ed in fine Mezio
Curzio, quegli che : avea colle armi trapassato la palude, e vi ebbero gli
onori che i discendenti loro pur vi godcronow Anzi con questi si rimasero amici,
consanguinei, e clienti, non minori di numero agli altri di Roma. Mentre
ordinavano queste cose parve ai so vrani di raddoppiare il numero de’ patrizj
per essersi la popolazione moltissimo arnpbata. Adunque segnando in X catalogo
colle famiglie più nobili tanti cittadini novelli, quanti erano i primi,
chiamarono patrizj ancor’ essi. Poi trascelli cento di questi col voto delle
curie gli connumerarono ai senatori antichi. E su ciò concordano presso a poco
tutti gli scrittori delle cose romane : differisce taluno sul: numero de’
sopraggiunti : dicendo che non cento cui cinquanta furono gl’ inseriti al
Senato. Non consentono però gli storici romani su F onore che i re concederono
alle donne perchè gli aveano rioou dotti aUa pace. Perocché scrivono alquanti
che diedero ad esse distintivo grande e moltiplice non pure i prindpi, ma le
curie : le quali essendo trenta, come già dissi, presero nome ognuna da queste,
giacché trenta furono ancora le oratrici. Ma Terrenzio Varrone si di scosta da
questi in tal capo, aflermando che i nomi erano stati imposti -alle curie
anteriormente da Romolo, quando divise la prima volta il suo popolo: c die quei
nomi furono desumi da’ capi di esse, o dalle antiche lor patrie. Aggiunge che
le femmine andate ambasciadrici non furono trenta ma cinqueceutotrentatrè :
dond’ è che noti sia verisimile che il re concedesse ad alcune poche di esse
quell’onore, escludendone le altre. A me nè tali son parute queste cose da non
farne parola, nè tali da scriverne dtra il bisogno. Ora l’ordine stesso della
narrazione dimanda che io dica quali e donde fossero i Cureti alla città de’
quali apparteneva Tazio, e quei eh’ eran seco. Noi cosi ne sappiamo. Nel tempo
che gli Aborigeni possedeano 1’ agro Reatino una vergine nobilissima natia di
que’ luoghi entrò, per danzarvi, il tempio di Enialio. Enialio lo chiamano
Quirino i Sabini, ed, ammaestrati da essi, i Romani, senza che sappiano dire
più oltre s' egli sia Marte, o tal altro, eguale a Marte in onore. £ li primi
pensano che 1’ uno e 1’ altro nome dicasi del Nume arbitro delle guerre ; ma
gli altri che sia quel doppio nome non di uno, ma di due Dei bel licosi. La
vergine danzando già nel tempio fu dallo spirito investita del Nume; e lasciale
le danze si ritirò ne’ penetrali santi di lui, dove, come a tutti sembra,
fecondatane, diede un fanciullo, che Modio fu detto, ed ebbe soprannome di
Fabidio. Or questi, adulto Vi è chi
pensa che il Modio Fabidio sia il Afe £>iuj Fidius de’ fìoinaui, forinola
colla quale riguardavaisi il Nume tutelare della fede, o pure Ercole figlio di
Giove. Se ciò lesse, Diouigi avrebbe malameuie iuierpiaato quella formula
Romana di giuramento.. 179 feuo nella persona, ebbe forma non umana, ma divina,
e combattè con preemiuenza di tutti i valentuomini. Preso poi dal desiderio di
abitare una città che avesse la origine da lui, congregando gente io copia da
luoghi d’intorno, eresse in tempo assai breve quella che Curi addimandasi,
denominandola, come narrano alcuni, dal Nume, dal quale è &ma che egli
fosse generato, e come altri asseriscono dall’ asta, poiché Curi chiamasi 1
asta in. Sabina. Cosi scrive Terrenzio Yarrone. Ma Zenodoto Troizinio uno
scrittore dell’Umbria, narra che le genti di essa furono prima abitatrici de’
campi detti Rèalini : che espulse da’ Pelasghi se ne vennero alla terra dove
ora soggiornano, e dove mutato nome coi luoghi, si chiamarono Sabini per Umbri.
Porzio Catone dice imposto tal nOme ai Sabini da un Nume di que’ luoghi Stoino
Sanco, e che Sanco per alcuni vai quanto Dio Fidio, Dice che fii domicilio
primitivo di essi un villaggio nominato Testrina presso la città di Amiterna ;
che movendosi da questo inondarono i Sabini 1’ Agro ReatioQ abitato al Silio
nel libro ottavo scrive. Ibant
et laeti pars tanctum voce canehanl, Auetorem genlis, pars laudes ore ferebant,
Sahe, Uuis, qui de patrio cognomine primus. Dixisli
poputos magna ditione Sabinos. Forse dunque nel testo di Dionigi dee leggersi
Sabo e non Sabino. Festo e Yarrone additano che Sanco tra’ Sabini siguifìca
Ercole. Ora Plutarco nel suo Noma e Servio nel libro 8 dell’ Eneide derivano i
Sabiui dagli Spartani, e gli Spartani da Ercole. Quindi quel Sabo Sanco non
sarebbe che Ercole ; tanto più che Sanco 'redesi il me Diut Fiditu, c questa
par furatola per additare Ercole. e lora dagli Aborigeni, e da Pelasghi : e che
ne ottennero colla forza delle armi Colina la loro città più cospicua : che
spedendo dal contado Reatino delle colonie fondarono altre città non poche, ove,
senza cingerle di mura, si viveano ; e tra queste la città che Curi fu nominata
: che occuparono campagne lontano circa dugento ottanta stadj dall’ AdrìaUco, e
dugento quaranta dal mare Tirreno: e dice che stendeasi la lunghezza di quelle
poco meno che mille stadj. Secondo le storie paesane intorno de’ Sabini
abitavano con essi già dei Lacedemoni quando Licurgo tutore di Eunomo, nipote
suo,. dava a Sparta le leggi : e questo perchè impazientiti alcuni dalia dura
legislazione di lui, staccaùsi da’ compagni abbandonarono affatto la città ; e
corso ampio tratto di mare, e desiderosi ornai di prendere terra dovunque, si
legarono per voto cogl’Iddii di abitare quella appunto ove imprima
giungerebbero. Venuti nell’ Italia ai campi detti Pomentini nominarono, dal
mare che aveali portati, Feronia il luogo dove prima approdarono, e vi eressero
un tempio alia Diva Feronia alla quale aveano fatto i lor voti ; e la quale
mutatane una lettera ora Faronia si chiama. Alcuni da indi rimovendosi ne
andarono a dimorar tra’ Sabini : e però spartane sono molte delle loro
istituzioni, spartani principalmente gli amori per la guerra ; la parsimonia e
la durezza nelle opere tutte della vita. Ma ciò basti su la origine de’ Sabini.
L. Ben tosto Romolo e Tazio ampliarono la città congiungendole altri due colli,
1’ uno chiamato Quirinale, e Celio r altro. E ponendo separatamente le case. 1
8 1 viveasi ognuno nelle sedi sue. Avessi Rouiolo il monte Palatino ed il Celio,
monte contiguo col primo. ^azÌo avevasi il Campidoglio, occupato già ne’
principi da esso, ed il Quirinale. Recisa la selva la quale spandevasi appiè
del Campidoglio, e ricoperta in gran parte di terra la palude, la quale per la
concavità dei sito rooltiplicavasi dalle acque scese da’ monti, fecero ivi il
foro, dei quale servonsi ancora i Romani. E là tenendo le adunanze,
consultavano nel tempio di Vulcano, cbe quasi al foro sovrasta. Inalzarono i
tem^q, e consacrarono gli altari ai Numi, a’ quali gli aveano promessi co’ voti
nelle battaglie. Romolo ne eresse uno a Giove Statore presso la porta òe
Muggiti la quale mena dalla via sacra al Palatino, perché quel Nume esaudendo i
voti di Romolo fe’ cbe l’ esercito suo già fuggitivo si arrestasse,, e si
volgesse a fronte dei nimico. Tazio ne eresse al Sole, alla Luna, a Crono, a
Rea, ' come pure a Vesta, a Vulcano, a Diana, ad Eniàlio ed altri difScili a
nominarsi con greca parola. Mise in tutte le Curie le mense per Giunone
Quirizia le quali esistono ancora.
Dominarono cinque anni insieme senza dissidio, e compierono in quel tempo con
impresa comune la spedizione contro de’ Camerini. Impercioccbè questi mandando
delle masnade assai danneggiavano loro il paese : e tuttoché chiamativi non
erano mai comparsi a darne ragione. Adunque schieratisi a fronte di essi, e
vintili in campo, e poi nell’ assalto delle mura, gli astrinsero a cedere le
arme e la terza parte della re Secondo Pesto vuol dire Giunone coW atta, vedi $
4^ prcoedenle. • Digitized by Google iSa PFLLE Antichità’ romane gione.
Continuando nondimeno i Camerini ad Infestarla riuscirono nel terzo giorno I re
coll’ armata e li fuga-, rono, e ne divisero ogni cosa ai proprii soldati,
concedendo solamente che quelli, se volevano, si domiciliassero in Roma.
Quattromila quasi ve ii’ ebbero, e lì compartirono tra le curie. E Camaria, sorta
già tanto tempo prima di Roma, Camaria già domicìiio famoso degli Aborigeni, e
poscia di un ramo di Albani, fu ridotta colonia de’ Romani. Tornò, nei sesto
anno il comando a Romolo sodamente, morendo Tazio per le insidie de’ primarj
tra Laurenlini tesegli per questa cagione. Scorsi gli amici di Tazio a far
preda nel territorio de’ Laurenlini ne aveano rapito danari in copia, e menato
via de’ bestiami t uccidendo o ferendo chiunque presentavasi a rivendicarseli.
Spedita quindi dagli offesi una legazione a reclamar la giustizia, Romolo
sentenziò che gli o^ fensori le si consegnassero. Tazio però sollecito degli
amici, non istimava bene che si desse alcun cittadino perchè si portasse in
giudizio tra forestieri e nemici. Laonde intimò che quanti si richiamavano
della ingiuria venissero e discutesserla ne’trihunali di Roma. Cosi non
trovando giustizia partirono indispettiti gli ambasciadori. Ma datisi per
isdegno alcuni Sabini a seguitarli gli assalirono, che dormivano tra le tende
lungo la via sorpresivi dalla notte : e spogliatili di ogni cosa, ne scannarono
quanti giaceansi ancora ne’ letti. Si ricondussero alia loro città quauti si
avvidero a tempo deir insidie e fuggirono. Dopo ciò venendo ambasciadori da
Laurento e da molte città si dolsero su’ diritti violati, ed intimarono la
guerra, se non erano compensati. LII.
Sembrava a Romolo, com’ era, terribile 1’ oltraggio d(^li ambasdadori e degno
di una subita espiazione, es:;endosi profanata una legge santa. E vedendo che
Tazio tcneane picciolo conto, egli senza più indugio presi e legati i complici,
li diede agli ambasciadori \ ortato a Roma ebbe magnifica sepoltura, e la città
gii rinnova ogni anno pubblici sagrifizj. LUI, Romolo trovandosi un’ altra
volta solo nel principato purificò la infamia commessa contro gli ambasciatori
pubblicandone privi dell’ ncque e del fuoco gli autori, faggitt già tutti da
Roma al primo udire la morte di Tazio. In opposito essendogli conseguati da
Laurento ero la vittoria per saviezza del capitano, il quale occupato di notte
un monte non molto lontano da’ nemici teneavi in agguato il fiore de’cavalieri,
e dei fanti, giuntigli ultimamente da Roma. Tornati in campo ambedue per
combattervi come prima, non si tosto diè Romolo il segno convenuto a quelli del
monte, corsero schiamazzando dalle insidie alle spalle de' Vejentani : e
piombando essi, freschi ancora su uomini stanchi, non durarono lunga fatica a
travolgerli. Pochi ne morirono in campo ; ma molti piò nellt; acque del Tevere,
il qual fiume scorre presso Fidene, lanciativisi per iscampare nuotandovi.
Perocché parte per le ferite e la stanchezza non resse a compiere il transito,
e parte per la imperizia del nuoto e la confusione dell’ animo in vista dei
pericoli soccombè tra’ vortici non preveduti. Se i Vejentani avessero ponderato
seco stessi, quanto furono sconsigliati la prima volta, e se avessero dall’ora
in poi cei^ cato la calma, non sarebbero incorsi in disastri, più gravi ancora.
Ma sjierando di riaversi de’ mali passati, e pensando che vincerebbero di
leggeri, se uscissero con apparato maggiore ; bentosto arrolate milizie in
copia dalla città loro, e procuratene presso de’ nazionali secondo i trattati
di amicizia, marciarono per la seconda volta contro de’ Romani. Si combattè di
nuovo ferocemente presso piiuii. iiy Ci( ••. ' 187 Fidene ; e di nuovo i
Bonnani vi superarono i Yejenti, e ve ne uccisero, e più ancora ve ne
imprigionarono. F 11 invasa la loro trincierà piena di danari, di arme, di S(
biavi: furono prese le barche lluviali cariche di vettovaglia copiosa e con
queste per lo fiume trasportati in Roma li prigionieri. Fu questo il terao
trionfo di Romolo ma più brillante assai de’precedcnti. Venne dopo non molto
un' ambasceria de’ Vejenli per chetare la guerra e chiedere perdono de’
mancamenti, e Romolo ne secondò le istanze imponendo : che cedessero i terreni
contigui al Tevere nominati Setlepagi : che non si accostassero alle saline
presso le bocche del Jiume : e che dessero cinquanta ostaggi in pegno, che non
farebbero innovamenti. Si rimisero i Vejeiiti alle leggi: e Romolo fece tregua
con essi per cento anni, e ne scolpi su più colonne le condizioni. Rilasciò
senza compenso i prigionieri vogliosi di andarsene ; ma rendè cittadini di Roma
quanti pregiarono di rimanersene, ed erano più numerosi degli altri, e li
comparti fra le curie, e diè loro in sorte le campagne di qua del Tevere.. Quest
furono le guerre di Romolo degne di stima e di ricordanza : e parmi, che se
egli non sottomise ancora altri popoli vicini, ne fosse cagione la fine
prematura di lui, quando era florido ancora per le armi. Di questa fine varj e
molli ne sono i racconti. Coloro .che più ne favoleggiano dicono, che intanto
che aringava le milizie, abbujatosi l’ aere sereno, e fattasi procella
terrìbile, Romolo diventasse invisibile, e che Marte il suo genitore in alto se
lo rapisse. Ma chi scrive cose più vcrisimili dice che da’ suoi cittadini fu
morto ; e dice elle gliene fu cagione 1’ aver egli restituito senza il voto del
popolo, contro la consuetudine, gli osti^gi presi gii da' Vedenti ; il non
serbare la eguaglianza tra i cittadini antichi e novelli, ponendo i primi in
altissimo onore, e trascurando gli ultimi: e Gnalmente Tincrudelire nelle pene
dei delitti, e lo insuperbire. Imperocché sentenziando, solo, da sé comandò che
fossero precipitati dalla rupe non pochi nè ignobili uomini, incolpati di
essere scorsi a predare i vicini. Ma soprattutto,ne fu cagione, 1’ essersi
ornai renduto pesante, e dispotico f e tiranno, anzi che principe. Per questo,
narrano, che i patrizj, congiuratisi, ne decisero la morte, e la eseguirono nel
Senato ; e che divisone in brani il cadavere, perclté non se ne sapesse,
uscirono occultandone sotto le vesti ognuno la parte sua, che pdi seppellirono,
onde renderle invisibili. Altri però narrano che egli aringando fosse tolto di
mezzo da’ cittadini nuovi di Roma ; e che m lanciassero ad ucciderlo quando
appunto abbuiatosi il cielo, crasi il popolo dileguato, ed egli rimasto senza
guardia : e però dicono che un tal giorno tien nome da quel dissiparsi di
popolo, chiamandosi tuttavia fuga della moltitudine. Sembra che gli eventi
ordinati da’ Numi sui concepimento e sul termine di quest’ uomo diano non
piccola occasione a coloro che fanno de’ mortali un Iddio, e che ne spingono al
cielo le anime più segnalate. Perocché nella .compressione della madre di lui
sia per uno Dio, sia per un nomo, affermano che il soie si ecclissasse, e che
tenebre, totali come nella notte, coprissero la terra; e che il simile
avvenisse por nella morte. ROMOLO IL FUNDATORE DI ROMA, il primo, assunto da
lei perchè la domioasse, cosi narrasi che finisse. E tutlodiè nella età di
cioquanlactnque anni, e già monarca da trentasette non lasciò rampolli di sua
generazione. Novello in tutto delr impero de’ popoli, se lo ebbe nell’ anno suo
diciottesimo come unanimi lo ripetono gli storici di queste cose. LVII.
Nell’anno seguente non si fece alcun re dei Romani : ma vigilava su la comune
un magistrato detto interré, costituito in questa maniera. I Patrìzj ascritti
da Romolo in Senato, dugento, come dissi, di numero si divisero io decadi. Poi
traendo le sorti diedero la reggenza sovrana a que’ dieci che primi erano
favoriti dalle sorti ; non già che i dieci reggessero tutti in un tempo, ma
successivamente ciascuno cinque giorni, nei quali avea con sé li fasci, e gli
altri simboli del regio comando. Il primo cedeva il comando ai secondo, questi
al terzo e cosi fino all’ ultimo. Decorso lo spazio dei cinquanta giorni, fisso.
pe’ dieci, primi nel comandare, succedea la decade seconda al governo, e poi le
altre via via. Finalmente piacque al popolo di abolire questi decemvirati,
essendo ornai stanco da tanto trasmutarsi di comandanti, varj nella natura e
ne’ genj. Allora dunque i Senatori convocando l’ adunanza del popolo per tribù
e per curie renderono ad esso il potere di discutere la forma del governo, cioè
se volevano un re ; o se annui magistrati. Ed il po[K>lo non decise già esso,
ma fece che scegliessero i Senatori, pronto di attemperarsi Ciò fu nell’anno 713 avanti Cristo : secondo
Catone nell’ anno 38 e secondo Varrone nel 4 ° di Roma] all’ ordìae che
approverebbei'o. Parve a tutti di fondare la regia domiuasione ; ma non tutti
concordavano tra i quali si avesse ad eleggere il futuro monarca : e chi
pensava che tra vecchi e chi volea che tra’ novi Senatori ossia tra gli
aggiunti di poi, à dovesse trascegliere il |>er8onaggio che regnerebbe su
Roma. LYIII. Procedendo la disputa, si convenne finalmente su questi due punti
: che i Senatori antichi scegliessero il monarca non però del ceto loro, ma
qualunque altro ue giudicassero idoneo; o che farebbono ciò li Senatori
novelli. Presero essi la scelta i Senatori più antichi, e molto consultandone
stabilirono ; di non dare, giacché essi ne erano esclusi, il principato a niuno
degli emuli, ma di creare monarca un personaggio cercato ed intro> dotto di
fuori, nè aderente ad alcuno de’ due > principalmente perchè semi non ci
avessero di discordie. Ciò deliberato, destinarono co’ voti loro, il figlio del
chiarissimo nomo, Pompilio Pomone, Sabino di lignaggio, Numa di nome, e per età
prudentissimo, come non mollo lontano dall’ anno quarantesimo. Regia ne em la
dignità dell’ aspetto ; e grandissima la riputazione per la sapienza non pur
tra’ Cureti ma tra popoli intorno. Pertanto riuniti in questa sentenza
adunarono il popolo ; e fattosi in mezzo l’ uno di loro, interré di que’ giorni,
disse : che piaceva a tutti i Senatori di fondare un regio governo : e che egli
incaricalo di trascegliere chi lo assumesse trasceglieva in Numa Pompilio il
monarca di Roma. Dopo ciò deputando dei Patrizj ; gli spedi perchè invitaswro
il valentuomo alla Reggia. E fu questo nell’ anno terzo della Digitized by
Google gemati da Romolo per non essere stati con'esso in guerra niuna, non
godevano terre, nè utile alcuno. Questi senza case, e vaganti per la miseria,
erano di necessiti nemid ai più ricchi, e vogliosi di mutamenti. Fra tali
agitamenti fluttuava Roma quando Numa ne prese le redini, e su le prime ricreò
la classe de poveri, compartendo loro porzione delle campagne possedute da ROMOLO,
ed un tal poco ancora de’ terreni dei pubbln co. Non togliendo quanto godeano,
ai patrizj fondatori di ‘Roma, e concedendo ai patrizj più recenti altri onori,
ne chetò le discordie. Proporzionata come uno stromento tutta la moltitudine
all’ oggetto unico del pubblicò bene; ed ampliato il giro della città con
inchiudervi II Quiri. naie, colle non ancora cinto di mura, si rivolse ad altre
istituzioni. E concependo che grande e beata diverrebbe la città che se ne
adorna ; procurava queste due cose : la pietà primieramente, insegnando agli
uomini, che gl’ Iddi! sono i datori e li custodi di ogni bene alla mortale
natura ; e poi la giustizia, dimostrando che per essa i beni dispensati da’
Numi arrecano delizioso godimento a chi li possiede. Non reputo però che slan
tutte da scrivere le leggi e le pratiche per le quali consegui 1’ uno e l’altro
intento e con tanta amplitudine; perchè temo la prolissità de’ racconti, uè la
vedo necessaria ad una storia pe’GrecI. Solo ne dirò sommariamente le cose
principai lissime, idonee a dimostrare la mente di un tanto uoimo, cominciando
dalle disposizioni di lui sul culto divino. Lasciò nel pieno vigore lé
consuetudini e le leggi die trovò
fondate da ROMOLO, credendole benissimo istitoite: ne supplì quante ne erano
state da lui pretermesse ; e diè sacri luoghi a’ Numi, non adorati ancora, c
fece altari e tempj, e compartì feste per ognnnp, e ministri per le sante cose.
Finalmente ne ordinò colle leggi la illibatezza, le espiazioni, le suppliche e
tante altre onori Gcenze e tanto culto ; quanto non mai ne ebbe nonbarbara
gente, nè Greca, nemmeno delle più famose un tempo per la pietà. Comandò che
Romolo ancora, divenuto più che uomo, s’ intitolasse Quirino, e si onorasse con
templi e con annui sacrifizj. Perocché non sapendosi ancora come Romolo fosse
sparito, se per divina provvidenza, o se per Iraude umana ; venne in mezzo del
F oro un tal Giulio, un agricoltore della stirpe di Ascanio, uomo incolpabile
di costumi, nè capace di mentire per utile alcuno. Ora costui disse che tornandosi
di campagna vide Romolo che partivasi di città colle arme ; e che fattoglisi
più da vicino gl’ intimava : O Giulio va, riferisci in mio nome ai Romani ; che
il Genio che ni ebbe in sorte per custodirmi quando io nacqui ; questo, ora che
io compiei la mortale carriera, mi solleva tra Numi, e che io sorto Quirino,
Noma stese in iscritto tutte le ordinazioni su le cose divine, dividendole in
otto classi, quante erano quelle de’ sacerdoti. Diè l’ incarico primo delle
funzioni religiose ai trenta Curioni de’ quali io diceva che coinr pieano i
sacrifizj comuni delle curie : diè 1’ altro si Stefanofori detti da’ Greci, e
Flamini dai Romani, cosi nominati dai portare delle berrette e delle bende
le Nel usto PUot e stemma. 0 ptimo era
una specie di berretta quali portano ancora, e le quali Flama si chiamano :
diede il terzo ai capitani dei Celeri, soldati come additai, che combàttono a
piedi e a cavallo in guardia dei monarchi; e certo que’ capitani ancora
fornivano divini ordinati esercizj : diede il quarto a quelli che interpetrano
i segni mandati dal cielo, e dichiarano se conceróOno private o pubbliche cose.
I Romani chiamangli Auguri dall’ indole dei precetti dell’ arte loro, e noi
OionopoU li chiameremmo, uomini scenziati in ogni divinazione de’ segni del
cielo, dell’ aere, e della terra. Il quinto alle vergini, custodi del fuoco
sacro, appellate Vestali fra loro dal nome della Diva a cui servono. Noma il
primo fondò il tempio di Vesta, e misevi delle vergini che ministrassero nel
culto di lei. Su che rileva che io dica alcune poche còse le più necessarie ;
dimandandole il sobjetto ; perocché degna ne è la ricerca, e degna pur si stima
da’ romani scrittori in questo luo 30 a consola di una tomba, non 1’ esequie,
non altro rito niuno legittimo. Molti sono gl’ indiz) di mancanza nel santo
ministero, e principalmente lo spegnersi del fuoco: accidente che i Romani
temono più di tutti i mali, pigliandolo, e sia qualunque Torigine di esso, come
presagio della rovina ultima di Roma. E molto ossequiando e placandolo; di
nuovo riconducono il fuoco nel tempio. Ma di ciò sarà detto a suo luogo. >
LXVIIL Ben è degna che raccontisi l’assistenza manifestata delia Dea per le
vergini indegnamente accusate. Credesi questa da Romani, quantunque
ioconcepibile, e molto gli scrittori ne ragionarono. Quei che vansene a maniera
degli Atei filosofando, se filosofare dee dirsi mai questo, ripudiano tutte le
assistenze de’ Numi avvenute tra Greci e tra Barbari, e molto ne deridono i
racconti, ascrivendole a ghiattanza nmana, quasi niuno de’ celesti prenda cura
delle cose de mortali. Ma quelli che non levano agl’ Iddi! questa cura, e li
giudicano propiz) ai buoni, e malafifetU a’malvagj, venendosene con istorie
moltissime, non prendono per impossibili tali divine manifestazioni. Narrasi
dunque che smorzandosi un tempo il fuoco per poco avvedimento di Emilia, che
allora ne era la guardiana, perocché ne avea trasmessa la cura ad una compagna
novella, e di fresco ammaestrata ; Borsene in città turbamento ben grande, e si
cercò dai pontefici se violazione ci avesse nel ministero santo del fuoco.
Allora, dicono, che Emilia, la incolpabile Emilia, non sapendo che farsi
nell’evento stendesse io presenza de’ sacerdoti e delle vergini le mani in su
l’altare e dicesse: o Vesta, o tu Dea, custode di Roma, se 2o5 io santamente, e
debitamente compiei le sacre tue cerimonie ornai da treni anni, se pura l anima
mia, se immacolate ti si presentarono le membra di questo mio corpo, deh ! tu
soccorrimi, nè volere trascurare^ che la tua sacerdotessa miserandamente si
muoja. Ma se io pur commisi alcuna cosa men pia, deh ! che nelle pene mie la
pena si dissipi di Roma. Ciò detto è fama che spiccando il lembo dalla veste di
lino onde era coperta lo gittasse in so 1’ altare : e che dopo la preghiera,
essendo la cenere già fredda, e già senza favilla ninna, brillasse di.su per
quel lembo una damma copiosa, talché più non abbisognò la città né di puri'
ficaztoni, né di fuoco novello. Più meraviglioso ancora e più somigliante ad
una favola è ciò che io sono per dire. Narrano che un tale accusasse Tuzìa 1’
una delle vergini ma >n alle gazioni non vere di congetture e di testimonj ;
non polendo affermare che fosse per lei venuto meno il ìkoco : e che la vergine
comandata rispondere dicesse che smentirebbe co’ fatti le calunnie : che ciò
detto invocata la Dea perché le fosse guida nelle sue vie, s’in? camminasse
verso del Tevere concedendolo i pontefici, seguita dalla moltitudine: che
giunta in riva del fiume, si ponesse a cimento impossibile, ora passato in
proverbio : cioè, che prendesse acqua con un vaglio vuoto e ve la recasse fino
al Foro, quivi ai piedi spargendola de pontefici. E narrano che dopo ciò 1’
accusatore di lei, per quante ne fossero le ricerche, né vivo più nè morto si
ritrovasse. Ma quantunque dell’ intramettersi della Dea potrei soggiungere più
cose ; reputo che bastino le dette finora. 2o4 delle Antichità’ romane La sesta
parte delie istituzioni religiose fa quella intorno àe Salii che chiamansi In
Roma. Numa stesso li nominò scegliendo dodici decentissimi giovani patiizj.
Stansi le sacre loro cose nel palazzo ; ed essi ne sono chiamati Palatini. Ma
gli Agonali, de’ quali serbansi le sacre cose nel poggio Collina, questi
cognominati Salj Collini, furono istituiti dopo Noma da Ostilio re pel voto
fatto da lui nella guerra co’ Sabini. Del resto i Salii tutti sono danzatori e
lodatori dei Numi delle arme. Tornano le loro solennità arca i tempi delle
nostre Panalenee nel mese detto di marzo : si celebrano a pubbliche spese per
piò giorni, ed in questi guidano per la città cori di saltatori al Foro, al
Campidoglio, ed altri luoghi speciali, o comuni. Variopinte ne brillano le
toniche traversate con cinture di rame ; ed affibbiate sono le trahee loro che
chiamano, luminose di porpora intorno. Sono le trahee in Roma pregiatissime, e
proprie del luogo. Torreggiano loro sul capo tiare alte con forma di cono, apici dette fra loro,
ma cirbasie tra’ Greci. Ognuno è cinto di spada; stringe colla destra mano
un’asta o verga, o cosa consimile ; e colla sinistra uno scudo romboidale,
stretto ne’ lati, quale è quello de’ Traci, e quale, dicesi che in Grecia lo
portino quelli che vi celebrano le 'sacre cose dei Curetl. I Salj, per quanto
io conosco, sarebbero con greca Interpetrazione I Cureli, denominati Nel testo sono detti piUi, ma le cirbasie
erano specie di tiare secondo Esicbio la lesione dello scudo romboidale è del
codice V aticano e par la migliore.. 2o5 cosi tra noi dalla età giovanile ; ma tra’ Romani hanno quel nome dal moversi
faticoso : perocché spio carsi e battere co’ piè la terra tra lor si chiama
salire. Per questa ragione medesima quanti altri noi chiameremmo dallo
spiccarsi e battere con tal modo, essi gli chiamano salitorì con voce originata
dai Salj (a). Che poi dirittamente io do questi nomi, può chi vuole,
concluderlo dalle cose che fanno. Movonsi colle arme regolatamente al suono
delle tibie, ora insieme, ora a vicenda, e danzando intuonano patrie canzoni.
Ora se dee con antichi monumenti procedersi, i Gureti furono primi che
insegnarono a danzare armati tripudiando e battendo con le spade gli scudi : nè
bisogna che io ripeta ciocché ha la fàvola su loro, essendo noto poco meno che
a mtti. Ben molti sono gli scudi che portano i Salj, 0 che i loro ministri
portano sospesi in su de’bastoni: ma tra questi uno ce ne ha che dicesi caduto
dal cielo. È fama che fosse nella reggia ritrovato di Numa, non avendovelo
recato ninno, anzi neppur conoscendosene la forma nella Italia. Argomentarono
da tali due segni 1 Romani che fosse quell’ arme celeste di origine. E volendo,
Numa che lo scudo si onorasse, e recasse nei dì solenni per la città da’
giovani cospicuissimi, e riscotesse annui sagrifizj ; e temendo che i nemici in
oc Quasi aiaao Ktft$ gioTaoi, ma forte
ebbero cuti nome ^wi rnt cioè dalla tontora : perchè erano tosi nella parte
anteriore del capo. (a) Si saltava anche prima de’ Salj, però la voce salùores
che precede non è pptieriote al nome de’ Salj. culto lo ÌDsidiassero e
rapisserio; dicono che fabbricasse molti scudi uniformi a quello caduto dal
cielo, accingendosi Mamorìo artefice a questo, che f arme divina per la
somiglianza egualissima con altre umane non più potesse contrassegnarsi e
riconoscersi da chiunque vi macchinasse un inganno. Ebbe quel rito de Cureti
accoglienza e pregio tra’ Romani, come io lo deduco da più seghi, e
principalmente dai spettacoli nel circo e nei teatri. Ne’ quali spettacoli
giovinetti già puberi, acconci d’ abito con cimiero, con spada, e con scudo,
moTonsi come con le leggi di un ritmo armonioso; e £utlioni chiamansi i duci
della pompa, dalla invenzione fattane, sembra, nella Lidia. Questi sono, a me
pare, immagine de’ Salj ; perocché non fanno appunto come i Salj cosa ninna in
foggia de’ Cureti sia negl’ inni sia ne’ salti; e prendonsi da ogni condizione;
laddove i Salj deggiono esser liberi e naturali del luogo, e ricchi di padre e
di madre. Ma perché mai rigirarmi più a lungd su queste cose? È la settima
parte delle leggi sacre indiritta a dar ordine a’Feciali che chiamano. Questi
con greca significazione giudici si direbbono della pace : scelgonsi tra le più
illustri famiglie, e restansi per tutta la vita ht santo ministero. Numa
anch’egli dava la prima volu ai Romani tal ceto venerando. Io non so definire
sé egli ne derivasse l’esempio dagli Equicoli, come alcuni pensano, o se, come
Gelilo scrive, da Ardea : bastami dir solamente che innanzi Numa non erano
Feciali tra i Romani. Numa quando era per dar guerra a’ Fidenati, perchè aveano
fatto scorsa e ruberia nel territorìu'dt
lui ; Numa gl’ ioslitul, perchè vedessero se voleano pa> ciGcarsegli
senza le arme, come vinti dalia necessità poi fecero. E poiché non ci ha nella
Grecia tribunale di Feciali; giudico necessario di adombrare quante e quali De
sieno le incombenze; perchè coloro che ignorano la pietà che i Romani coltivano,
non si meraviglino che tutte ad ottimo fine riuscissero le guerre loro :
certamente imprendeano queste con prìncipj e cagioni onestissime, dond’è che
aveano propizj gl’ Iddi! ne’ pericoli. Non è già fiicile, per la moltitudine,
comprendere le cure tutte de’ Feciali. A delinearle però con tocco lieve son
tali : debbono cioè provvedere ' che i Romani non movano guerre ingiuste a
ninna città confederata ; che cominciando taluna a rompere i trattati verso
loro, vadano ambasciatori, e ne dimandino il giusto prima con parole, poi v’
intimin la guerra, se non ubbidiscono. Similmente se mai confederati alcuni
dicendosi offesi da’ Romani chiedano de’ compensi, debbono i Feciali
riconoscere, se quelli han sofferto contro dei patti; e se par loro che
lamentinsi con diritto fan prendere e consegnare i colpevoli ai danneggiati.
Giudicano su gli oltraggi degli ambasciadori, e vegliano per la Osservanza
fedele dei trattati : fan le paci o le annullano, se fatte sieno contro le
leggi sacre : decidono ed espiano, quante sono, le violazioni fatte de’
giuramenti e delie alleanze' da’ capitani : ma di ciò dirò ne’ suoi Inoghi.
Quanto ali’ andarsen’ essi come araldi per esigere soddisfazione da città che
sembrino offenditrici, ne ho conosciuto (peste cose, non indegne ancor esse che
si risappiano, per la molta cura che involgono della giu-." sUzia e della
pietà. Uno de’ Feciali eletti a voti dagli altri, cinto degli abiti e delle
insegne sacre perchè fra tutti distingnasi, vassene alla città rea: ai primo
toccarne i conGni, attesta Giove ed altri dumi che egli' viene perchè Roma sia
compensata : poi giurando che, dirigesi alla città colpevole, ed invocando s’ei
mentisce, maledizioni terribili contro sè stesso e contro Roma, slanciasi olure
i conGni. Quindi protestandosi ancora col primo che gli s’ imbatte, rustico o
cittadino che sia, C; ripetendo l’ esecrazioni medesime, continua di andare iu
città ; ma prima di entrarvi protestatosi nel modo ine>. desimo col
portinajo e con qual’ altro nelle porte gli capita il primo, s’inoltra sino al
Foro; ove giunto parlamenta co’ magistrati ; aggiungendo tratto .tratto giur
ramenti, ed imprecazioni. Se danno soddisfazione consegnandogli li colpevoli,
egli menali seco e vassene, amico già, dagli amici. Che se dimandano tempo per
consultarsi, ripresentasi dopo dieci giorni, e pazienta Gno alla terza dimanda.
Decorsi trenta di se la città non siegue il dover suo, egli invocati i Numi
celesti e grinfemali se ne parte, questo solo dicendo, che Roma deciderebbe,
tra la sua calma, su loro. Poi recatosi cogli altri Feciali in Senato,
dichiaravi come tutto fu compiuto secondo le leggi sacre, quanto convenivasi :
e che se vogliono risolversi per la guerra niente vi si oppone dal canto degl’
Iddii. Senza tali pratiche nè il popolo, nè il Senato può conchiudere col voto
suo j la guerra. Questo è quanto abbiamo risaputo su’ Feciali. Nelle
ordinazioni di Numa intorno le,, cose divine v’ ebbe in ultimo la classe la. quale
ottennero quanti aveano in Roma sacerdozio ed autorità superiore. Questi con
patria voce si chiamano pontefici dal rifarsi di un ponte di legno che è uno
degl’ incarichi loro ; s son gli arbitri di cose grandissime. Imperocché
giudicano tutte le cause sacre de' privati, de’ magistrati e de’ ministri de’
Numi : fissano le cose religiose non scritte nè solite ; scegliendo le leggi, e
le consuetudini che stimano più acconcie : esaminano tutti i magistrati o tutti
i sacerdoti a’ quali è fidata la cura de’sagrificj e ' della venerazione de’
Numi: provvedono che i loro ministri e cooperatori non violino punto le sacre
leggi : espongono ed interpetrano il culto de’ Numi e de’ Genj a’ privati che
lo ignorano; e se colgono alcuno, disubbidiente agli ordini loro, lo puniscono
secondo i delitti: ma essi non soggiacciono nè a giudizio nè a multe, non
rendendo ragione nè al Senato nè al popolo. Non travierà poi dal vero chiunque
vuole chiamare tali sacerdoti o dottori, o dispensatori, o custodi, oppure
interpetri delle sante cose. Mancando ad alcuno di loro la vita gli viene
sostituito un altro, il più idoneo ripu .tato tra’ cittadini ; nè già il popolo
sceglielo ; ma essi medesimi : 1’ eletto però piglia il sacerdozio, quando
propizj gli siano gli augurj. E tali sono, oltre alcune più piccole, le leggi
più grandi e cospicue di Numa sulla pietà, compartite secondo i rami varj del
culto, per le quali Roma ne divenne più religiosa. Moltissime poi sono le leggi
che guidano r uomo a vita frugale e temperata, e che ingenerano r amore della
giustizia' la quale custodisce in città la coacordia : altre però di queste
sono scritte, ed altre non scritte ma passate pel lungo esercizio in abitudini.
E lungo sarebbe a dire di tutte ; ma basterà dire di due più degne di
ricordanza, e cbe sono argomento delle altre. La legge su’ confini da’ poderi
fu causa che oguuno si contentasse de’ proprj ; non gli altrui desiderasse.
Imperocché comandando a ciascuno di marcare intorno i proprj poderi, e di porvi
de’ sassi per termini, dichiarò sagri que’ sassi a Giove Terminatore, e volle
che tutti periodicamente ogni anno recatisi in sul luogo vi facessero sopra
de’sagrifizj, e stabili parimente una festa in onore degli Dei termini. I
Romani chiamano la festa Terminali, da que’ sassi o termòni, che essi con
simiglianza al nostro idioma, chiamano termini ^ mutata una lettera soia. E se
alcuno involava o trasponeva que’ termini fu per legge sacro agl’ Iddii ;
talché potesse, chiunque volevalo, uccidere qual sacrilego impunemente, e senza
macchia di colpa. Nè stabili tal diritto su’ poderi de’ privati solamente, ma
su quelli del pubblico eziandio, circondandoli di con&ni ; perchè gii Dei
termini tenessero distinte le terre comuni dalie individuali, e quelle de’
Romani dalle altre de’ convicini. Praticano i Romani pur ne’ miei tempi un tal
rito, almeno per apparenza, come ricordatore de’ tempi : perocché riguardano i
termini come Numi, e sagrificano ad essi focacce di fior di farina, ed altre
primizie di frutti, e non già cose animate ; essendo profanità riputata
insanguinarne le pietre. E bisogna che rispettino la cagione medesima per la
quale fecero d’ogni termine un Dio, contenti de’ poderi proprj, non arrogandosi
gli altrui colla forza, o coll’ inganno. Ora però contrassegnano i propri ma a propagare la giustizia e la moderazione
; e con questi tenne il comune di Roma ordinato più ancora di una famiglia. Con
quello poi che ora io sono per dire egli fe’ Roma sollecita procnratrice delle
cose necessarie e delle dilettevoli. Considerando il valentuomo che una città
istituita per amar la giustizia e serbare la temperanza non dovea penuriare
delle cose necessarie ; divise tutta la campagna in porzioni chiamate pagi,
assegnando per ciascuna un capo che la visitasse e curasse. Questi recandovisi
di tempo in tempo, e notandovi i buoni o tristi cultori, ne riferivano poscia
al sovrano ; ed il sovrano ricompensava i buoni con lodi e con altre gentili
maniere ; e svergognava i tristi o mullavali, onde accenderli a cultura
migliore. Quelli dunque che sciolti dalle core della guerra o della città sen
vivevano in ampio ozio, pagandone col vitupero o colle multe la pena,
diventavano tutti operosi in lor bene, e riputavano la ricchezza della terra
che è la più giusta di tutte, essere ancora più dolce della militare, che
incerta fluttua ognora. Segui da ciò che Numa fu amato dai sudditi, emulato da'
vicini, e celebrato da’ posteri. Per opera di lui nè sedizione interna disunì
la città, nè guerra esterna la distolse dalla disciplina sua bonissima e
mirabilissima. E tanto i circonvicini furono alieni da prendere la calma inerme
de’ Romani come occasione d’ invaderli; che se prorompea guerra alcuna tra
quelli, assumevano i Romani per mediatori; e deliberavano di spegnere le
inimicizie su le condizioni date da Numa. Pertanto io non prenderei vergogna di
collocare questo uomo tra’ più famosi per sorte beata. Nato di regia stirpe
ebbe regia presenza, e si esercitò nelle discipline non già di lettere vane, ma
in quelle donde apprese la pietà verso i Numi, e la pratica di altre virtù.
Giovine fu riputato degno di prendere il comando di Roma : ed invitatovi a
prenderlo per la bella fama delle sue virtù, regnò per tutta la vita su popolo
docilissimo. Complesso com' era di persona ^ nè danneggiatone mai dalla sorte,
giunse a lunghissima età. Finalmente consumato dalla vecchiaja venne meno a sé
stesso con morte placidissima. Quel medesimo genio di felicità che gli era
toccato da principio, quello sempre lo accompagnò finch’ egli non fu tolto
dall’ aspetto de’ mortali. Visse più di ottant’anni, regnandone quaranlatrè. Di
lui restarono, come i più scrivono, quattro figli, ed una figlia, de’ quali
conservasi ancora la discendenza : ma Gellio scrive che egli non lasciò che una
figlia, dalla quale nacque Anco Marzo, terzo re di Roma dopo lui. Tutta la
città si abbandonò, lui morendo al dolore ; facendogli nobilissima sepoltura.
Egli riposa nel Gianicolo di là dal Tevere. E tali sono le (jose che ‘ abbiamo
risapute su Numa. IVEancatO Numa Pompilio, i Senatori arbitri nuovamente de’
pubblici affari deliberarono di conservare il governo medesimo: nè già il
popolo era di altro avviso. Adunque deputarono un numero certo de’ Seniori i
quali comandassero intanto nell’ interregno. Da questi, approvandolo tutto il
popolo, fu nominato re Tulio, Ostilio, di cui la origine fu, come siegue. Un
tale, Ostilio di nome, uomo nobile e facoltoso di Medullia, città fondata dagli
Albani, presa a condizioni da Romolo e venduta colonia romana, trasportatosi,
per domiciliarvisi, a Roma, vi tolse in moglie una sabina, la figlia appunto di
quella Ersilia, la quale, ardendo la guerra co’ Sabini, consigliò le sue
nazionali di ao libro in. 2 i 5 darne oralrici ai padri loro su de’ mariti, e
la quale sembra la cagion principale che i due popoli si racchetassero.
Compagno costui di Romolo in più guerre, e segnalatovisi per opere grandi ;
moti finalmente, lasciando un unico figlio, nel combattere co’ Sabini, e fu
sepolto dai re nella parte più insigne
del Foro, onorato di una iscrizione, che la virtù ne ricordava. Cresciuto 1’
unigenito suo, e legatosi con nobile matrimonio, ne ebbe un figliuolo; e Tulio
Ostilio fu questi, uomo elBcace. Dichiarato monarca dal voto, dato secondo le
leggi dal popolo; i Numi ne approvarono con augurj propizi la scelta. Quando
egli prese il comando, volgea r anno secondo della olimpiade vigesima settima
nella quale Euriboto ateniese vinse nello stadio essendo arconte Leostrato (a).
E nello stringere appena lo sceu tro si affezionò la classe de’ mercenari e de’
poveri con questa liberalissima azione. Aveansi i re predecessori eletto ampio
e bel territorio, colle rendite del quale fornivano i templi di sagrifiz), e le
regie case di abbondanza moltiplice. Romolo avealo tolto a’ primi possessori
colla legge delle armi : e morendosi lui senza figli, aveaselo goduto Numa che
gli succedette nel re^ gno. Laonde non era allora quel podere del popolo ; ma perpetuamente
dei re. Tulio nondimeno concedè che si compartisse tra’ Romani privi in tutto
di campagna; dicendo essere a lui sufficienti le sostanze paterne per le cose
de’ Numi, e della regia famiglia. Sollevò
Romolo e Tazio. ( 3 ) Anni di Roma 84 secondo Varrone, 8 a secondo
Catone, avanti Cristo 670.] Goa questa beneGcenza li cittadini bisognosi ;
tanto che non più stentassero in servigio degli altri. E perché ninno fosse
privo di alloggio aggiunse a Roma il monte Celio chiamato. Ivi quanti non
aveano magione se la fabbricarono, pigliatovi sito che bastasse : ed egli
stesso la sua residenza vi collocò. E tali sono le operazioni urbane di quest'
uomo degne di ricordanza. II. Ma delle militari molte se ne raccontano, ed io
mi accingo a parlarne, cominciando dalla gueiTa di lui con gli Albani. Gluvilio,
un Albano, allora magistrato supremo, fu cagione che i dne popoli consanguinei
si scindessero, e separassero. Punto da invidia, e mal più la invidia potendo
rattemperare su la prosperità de’ Romani, come superbo e maligno per indole,
risolvè d’ implicare i due popoli in guerra vicendevole. Non sapendo però come
volgere gli Albani a commettergli che portasse 1’ esercito contro Roma ;
altronde non avendone alcuna causa giusta e necessaria; macchinò' questa o simile
trama. Concitò, promessane la impunità, li più poveri e li più baldanzosi degli
Albani a far preda su’ campi romani: dond’ è che seguendo un guadagno senza
pericolo molti che tra ’l pericolo ancora seguito r avrebbero, empierono le
terre vicine di assalti e di latrocinj. E ciò fece con disegno non alieno, come
r evento stesso lo dimostrò. Perciocché prevedea che i Romani non sofierendo le
rapine correrebbono all’ armi, che egli potrebbe accusarli al suo popolo come
primi a romper la guerra : e prevedea che moltissimi Albanesi invidiosi delia
prosperità della colonia, riceverebbero C6n piacere le accuse, e farebbero la
guerra contro di senti se fosse da accettarsi il partito. A16ne, ascoltatine i
roti, tornò nel consesso e disse: A noi non sembra o Tulio che abbiamo a
lasciare solitaria la nostra patria, deserti i templi paterni, vuote le case
degli antenati, e desolata infine quella sede che i nostri padri tennero quasi
per cinquecento anni; tanto più che nè guerra ce ne bandisce, nè flagello niuno
del cielo. Non però ci dispiace che formisi un Senato, e che una sia la città
che domini, sut altra ancora. Scrivasi questo se così vi pare, tra le
condizioni, e levisi ogni seme di guerra. Concordi 6n qui, difTerivano poi sa
la città che prenderebbe il comando. E molti furono i discorsi quinci e quindi
tenuti, giustificando ognuno che dorea la propria città signoreggiare su l’
altra. L’ Albano insisteva su questo diritto : Noi o Tulio siam dagni di comandare
anche al resto d Italia, perchè una gente siamo di Grecia, e la più potente che
qui in torno si alloggi. Crediamo giusto di precedere i Latini almeno, se non
altri, nè già senza cagione; ma per la legge comune data dalla natura a tutti
gli uomini, che 1 padri comandino ai figli : crediamo che ci si convenga il
Comando su la vostra città, piucchè su le altre, che pur sono nostre colonie,
delle quali non possiamo finora dolerci. Noi abbiamo inviato la colonia nella
vostra ; nè già da tanto tempo che siane per t antichità svanito ogni legame di
sangue ; ma indietro da tre generazioni. Quando la natura avrà capovolte le
leggi umane facendo che i giovani maggioreggino su veechj, e li posteri su gli
antenati; allora, e non prima, noi sottoporremo la nostra città madre perchè
sia governata dalla colonia. Questo è ìuno de' titoli della nostra superiorità,
nè questo mai cederemo spontaneamente. Il secondo è tale. Voi lo prendete,
detto non come per calunnia o doglianza, ma per sola necessità. Il popolo di
Alba mantienesi ancora qual era sotto de' fondatori : nè può alcuno additarvi
altro ramo di uomini, se non Greci o Latini, partecipi della nostra repubblica:
ma voi avete contraffatto la sì gran purità della vostra cittadinanza
intrinsicandovi Tirreni e Sabini, ed altri barbari molti, erranti e senza patrj
lari. Tanto che poco soprawanzavi di quell ingenuo lignaggio che da noi vi si
diramava, ed è questo, come un solo, tra i moltissimi, ricevuti dt altronde. Se
noi vi cediamo il comando; il . non ingenuo comanderà su l ingenuo, il barbaro
al Greco, i estero al patriota. Nè già potreste voi dire che non permettete a
peregrini di amministrare il comune, e che voi, naturali del luogo, voi
presiedete e regnate : voi creale re forestieri, e senatori in gran parte di
altri popoli. Dite: v'inducete a ciò di vostro volere? Ma chi mai di voler suo
f chi se più sia valeni uomo abbandonasi cd governo dei meno riguardevoli ? E
se apparisce, che voi siete a ciò sospinti da necessità, ben sarebbe grande tj
pravità, grande la manìa nostra se volontarj a tanto c inchinassimo. Da ultimo
così dico ; in Alba niuna parte ancora si è smossa della repubblica : corre già,
da che vi si abita la decima ottava generazione ; e V ordine ancora vi si
mantiene, e le abitudini primitive. Ma la vostra città senza buorì ordine e
senza bel complesso, come nuova, e sorta da più genti, assai bisogna di tempo e
di vicende, perchè inferma e scissa, com’ ella è, sì articoli e calmisi. Tutti
poi concederanno che deono le cose ordinate antistare alle disordinate, le cose
note alle ignote, e le sane alle inferme. Voi dunque chiedendoci in contrario ;
non bene adoperate. A Fuffezio che cosi ragionava sottentrando Tul.> lo
rispose, o Fuffezio, o uomini di Alba noi li abbiamo uguali con voi li diritti
della natura e del merito de progenitori ; perocché vantiamo ambedue la origine
da capi medesimi. Quindi niuno è di noi da meno, o da più dell’altro. Noi non
istimiamo nè vero nè giusto che debbano le città madri, quasi per legge
indispensabile della natura, dominare su le colonie. E molte sono le nazioni
dove le città madri servono, non comandano alle colonie. Massimo, luminosissimo
aSi esempio del proposito mio si è Sporta, elevatasi a comandare non pur gli
altri Greci: ma fino i Doriesi da’ quali discendeva. Sebbene e che giova dir su
gli altri? Voi stessi, voi padri della colonia che fece tlioma, voi non siete
che un tralcio de’ Laviniesi. Quindi se diritto è della natura che le città
madri regnino su le colonie, non saranno con precedenza i Laviniesi li
legislatori de’ nostri popoli ? E ciò sia detto sul primo de’ vostri titoli sì
bello nelle apparenze. Siccome tu poscia o Fuffezio ti davi a contrapporre r
una all’ altra città, quali sono, dicendo che il puro lignaggio di Alba
rimanesi tale ancora; laddove il nostro si è degenerato col tanto
soprajfondervi de' forestieri, e che non sono degni i non ingenui di comandare
agli ingenui, nè i forestieri agl’ interni ; vedi, quanto anche in ciò ti sei
deviato. Tanto è lungi che noi vogliamo vergognarci di rendere la patria nostra
comune a chi vuole; che anzi,, di ciò moltissimo ci gloriamo : nè già siamo noi
gli autori di tale istituzione : ma ce ne diede Atene l’esempio, Atene tra
Greci famosissima per questo, almeno in parte se non in tutto. E questa pratica
è sorgente a noi di molti beni non che ci dia rimprovero e pentimento, quasi
per essa, mancassimo. Tra noi comanda e provvede, e tali altri onori si gode
chi di essi è degno non chi tiene il molto oro, nè chi può la serie additare
degli avi sempre nazionali : perciocché non poniamo in altro la nobiltà che
nella virtù. ; l'altra moltitudine non è che il corpo della città il quale
somministra potenza e forza a savissimi consiglieri. Con tale benevolenza si è
la nostra città fatta grande di piccola, e formidabile d' ignobile tra’ popoli
intorno, ed è cominciata tra noi la forma di signoria, che tu o Fuffezio
condanni, e che niuna ornai de’ latini può disputarci'; perocché sta la potenza
delle città nella forza delle armi ^ e la forza delle armi nella moltitudine
delle persone. Ma le città piccole, e spopolate, e però deboli non comandano le
altre, anzi nemmeno sé stesse. Jo generalmente stabilisco che uno debbe
esaltare il proprio governo e riprovare quello degli altri, quando può
dimostrare che la sua città col metodo che le ascrive, diviene glande e felice,
e che le altre se ne decadono e sconciansi appunto col non seguirlo. Ora così
vanno le cose; la vostra città già nel fior della gloria, già ricca di molti
beni, si è ridotta ad uno scarso abitato ; e noi movendoci da piccioli principi
abbiamo tra non molto tempo ingrandito Roma più d’ ogni altra città vicina, e
colle istituzioni che tu ne biasimi. Le. nostre sedizioni, poiché di queste
ancora tu ne incolpi o Fuffezio, nontendono alla depressione o rovina, ma
sibbene alla salvezza ed incremento del comune. I giovani vi contendono co’
schiari, i nuovi con gli antichi cittadini chi più debba operare il pubblico
bene. E per dir tutto in breve, spettano alla città che dee comandare le due
qualità, forza nel guerreggiare, e saviezza nel risolvere; e queste tra noi
sono ambedue. Né ce ne fa testimonianza un millantarsene vano, ma il fatto che
supera ogni dire. Imperocché non era ni.
233 possibile che la nostra città nella terza generazione appena dopo la
origine, fosse già divenuta sì grande e' potente, se non abbondavano in lei
senno e valore. Argomentano la nostra potenza le tante città. Ialine le quali
sebbene da voi fondate, pure voi dispregiane do, si concederono a noi per
essere comandate anzi da Roma che da Alba. E questo perchè potevamo noi
prosperare gii amici e por già gl’ inimici ; ma non potfiono gli Albani
altrettanto. Ben altre cose e fortissime o Fuff&sio potrei rispondere ai
diritti che ne presentasti. Ma considerando che vano è il distendersi,
perciocché il dir breve vale quanto il prolisso con voi che siete i competitori,
ed i giudici; cesso tT insistere. Aggiungo soltanto, e finisco, che io penso
che tunica maniera, bonissima per togliere le nostre controversie, della quale
si valsero greci e barbari ne’ dissidj di principato edi territorj sia questa,
cioè che gli uni e gli altri veniamo a battaglia con una parte solamente
dell’esercito, vincolando la sorte della guerra alla vita di pochissimi, e
concediamo che la città che co’ suoi guenneri vince i guerrieri delt emula,
quella domini ancora. Ben è giusto che ove le parole non vogliono, i brandi
decidano. Tali furono le dispute di que’ due principi su la preminenza delle
città : ma il seguito delle dispute non fu se non quello suggerito dal Romano.
Imperocché quelli di Alba e di Roma presenti al colloquio cercando ^ un
sollecito fine alla guerra ; deliberarono di risolver la lite colle armi.
G)ncluso ciò, si ebbe controversia intorno ai numero de combattenti; non
sentendone ambedue li capilani in un modo. Imperocché Tulio voleva che si
decidesse la gara col menomo delle persone, contrapponendo per combattere uno
de’ più riguardevoli Àlbahi ad altro simile de’ Romani : ed egli stesso era
pronto a spendersi per la patria, invitando TAlbano ad emularlo. Diceva che era
pur bello che quelii che prendono il comando delle schiere, prendano pur la
tenzone pel comando e pel principato o vincano de’’ valent' uomini, o vinti ne
siano. E qui ricordava quanti capitani e quanti re cimentarono la vita loro per
lo comune, tenendo essi a vii cosa di partecipare al più degli onori, ed al men
della guerra. L’ Albano credea ben detto che dovessero le due città rischiarsi
con pochi: discordava però su la battaglia di un solo contro di un solo.
Esponeva che bello, anzi pur necessario è il combattimento da solo a solo
intorno la sovranità pe’ capi degli eserciti quando fondano la propria potenza;
ma che stolido anzi vituperoso è ne’ suoi pericoli quando ne disputano due
città sia che sperimentino sorte propizia sia che malvagia. Adunque consigliava
che tre valent’ uomini dell’una e tre deU’allra città pugnassero in vista di
tutti gli Albani e Romani ; essendo questo numero, come avente principio, mezzo
e fine, propriissimo alla total decisione della controversia. Ciò stabilito per
voto de’ Romani e degli Albani il congresso fu sciolto ; e ciascuno ritornò nei
proprj 'alloggiamenti. Poi convocando i capitani ciascuno le loro milizie a
parlamento, riferirono la disputa vicendevole, e le condizioni ricevute per la
soluzion della guerra. Approvarono vivamente gli eserciti i patti di ambedue li
capitani ; e gara meravigliosa di onore comprese centurioni e soldati ;
desiderando moltissimi di riportare la palma di quel combattimento, e
studiandovisi non pur con parole, ma profTerendovisi con preludj di bell'
ardore ; tantoché si rendette malagevole ai duci il giudiziosu quelli che erano
i più idonei. Se alcuno vi era nobile per luce di origine, o forte per
gagliardia di corpo, o cospicuo pe’ fatti di arme, o segnalato comunque per
eventi ed ardire, insisteva che mettessero lui primo fra i U'e. Ma tali fiamme
di emulazione che più e più si dilatavano in ambedue gli eserciti le ripresse
il capitano di Alba col riflettere che la provvidenza celeste antivedendo già
da tanto tempo la tenzone che sarebbe tra le due città, ne avea preordinato che
quelli che vi si cimenterebbero fossero non ignobili di lignaggio, buoni in
guerra, belli a vedere, nè simili a molti pe’ casi della nascita rara,
meravigliosa, impensata. Sicinio un di Alba avea nel tempo medesimo maritato
due figlie gemelle, 1’ una ad Orazio Romano, e r altra a Curazio un Albano di popolo. Ingravidarono ancora
ambedue queste donne in un tempo, ed ambedue diedero nel primo parto prole
virile, e trigemina. I genitori pigliandone buon augurio per sé, per le
famiglie, e per le patrie allevarono e perfezionarono tutti que’ gemelli. Iddio,
come io dicea da principio, diè loro beltade, robustezza, magnanimità; talché
non cedeauo a niuno de’ben avventurati per indole. A questi Mei testo Corazio. Sigonìo crede che vada
bene e che in Tito Livio si debba leggere Curazio, com' egli ha trovato in un
manoscritto e non Cariazio come comnnementesi legge. deliberò FufTezio di
appropiare la battaglia sa la preminenza de’ popoli. Quindi invitando vid un
colloquio il re di Roma gli disse: XIV. Un Dio, sembrcuni o Tulio che
provvedendo le nostre città, dia loro segni manifesti di benevolenza in p ià
cose; come su la tenzone imminente. Certo ben dee parere in tutto opera divina
e meravigliosa che si rinvengano per combatterci uomini non inferiori a niuno
di prosapia, buoni nelle armi, belli a vedere j originati da un padre, nati da
una madre sola, e venuti', ciò che è pià singolare, in ungiamo stesso alla luce
; e tali sono gli Orazj fra voi, tali fra noi li Curazj. Che dunque non
abbracciamo una tale provvidenza divina, e non assumiamo ambedue per questa
gara di sovranità que trigemini ? Bisplendono tn essi ancora le doti sublimi,
quante altre mai ne brameremmo in chi fosse per uscire al paragone delle armi;
ed essi pià che tutti gli Albani e Romani han pure il bene che essendo fratelli
non abbandoneranno, pericolano, i compagni nella impresa. Cesserà subitamente
rimpetto a loro la emulazione difficile a calmarsi per altra maniera in altri
giovani, de' quali tnolti tra voi penso che di virtà competerebbero, come Ji'a
gli Albani competono. Noi persuaderemo questi di leggeri, se additeremo loro
come la bontà Divina ba prevenuto le sollecitudini umane, dandoci con. egualità
chi decida con le armi le contese della patria. Nè già crederanno di essere
superati dalla virtit dè' fratelli trigemini; ma da certa prosperità di natura
ed opportunità di fortezza eguale in essi per competere. Cosi disse Fuffezio, e
comune ne fa I’ approvazione, quantunque presenti vi fossero i più bravi di
Alba e di Roma. Soprappensò Tulio un poco, e seguì : Ben sembra o Fuffezio che
abbi tu saviamente concepito. Imperocché meravigliosa è la sorte che ha dato in
questa generazione ad ambedue le città prole tanto simile; quanta altra volta
mai non vi s’incontrò. Mi sembra però che non abbi tu considerato che assai
rattristeremo i giovani se chiediamo che fra loro dontendano. Imperocché la
madre degli Orazj nostri è sorella della madre de' vostri Curazj : e questi
cresciuti giovanetti nel seno di tali due donne si carezzano ed amansi come
fratelli. Bada che non sia forse, indegna cosa dare le armi e sospingere gli
uni alla morte degli altri, questi, congiunti per fratellanza e per educazione.
Il sangue se vi si astringono, il sangue di cui si lordano ritornerà su noi che
ve li astringiamo. Replicò F ufTezio ; iVbn ignoro o Tulio, il parentado de’
giovani ; nè io già, se li ricusano, sono per violentare i cugini alla
battaglia. Ma non sì tosto mi venne in pensiero di mandare dal canto mio li
Curazj di Alba io gli investigai se porrebbonsi volentieri al cimento. E
ricevendo essi il dir mio con enfasi incredibile e meravigliosa, io fui
deliberato allora di svelare e proporre quel mio sentimento. Suggeriscoti che
anche tu facci altrettanto chiamando quei tuoi trigemini, ed esplorandone i
cuori. Che se vorranno anch’ essi esponersi per la patria, tu ne accetta la
benevolenza : ma se ricusano, tu per niun modo non isforzarvegli. Io di loro
presagiscoti ciocc/l’ è degli altri miei. Se come abbiamo ascoltato ( giac~ chè
venuta è fino a noi la fama della loro virtà ) sa~ migliano i pochi bennati, e
se bellicosi ancor sono per indole ; abbracceranno prontissimi, e senza che
niuno ve li necessiti, di combattere per la patria. XVI. Accolse Tulio il
suggerimento : e conchiusa una tregua di dieci giorni per consultarsi, e
tentare 1’ animo degli Orazj, e risponderne ; si ricondusse a Roma.
Deliberatosi ne’ primi sei giorni co’ migliori, e vedutili per lo più propensi
agl’ inviti di Fufiezio; chiamò li fratelli trigemini, e disse : Fu/fezio o
uomini Orazj, abboccatosi meco nell' ultimo congresso nel campo, mi annunziò,
che crasi fatto per la provvidenza degli Iddii, che si cimenterebbero per V una
e per V altra città tre bravi, de quali invano ne cercheremmo altri più.
valorosi, o più idonei, cioè li Curazj per Alba, e voi pe'Jìomani. Ciò
conoscendo, mi disse, che aveva egli primo investigato, se que vostri cugini si
esporrebbero volontari per la patria : e trovatili che ardentissimi
correrebbono ad ogn impresa, inanimatone mi propose V evento, invitandomi
perchè io vedessi di voi parimente, se voleste offerirvi per la patria, e
rispondere in campo ai Curazj, o se lasciaste ad altri tanta emulazione. Ben io
mi argomentava che voi per lo valore dell’ animo, e per la possanza delle mani,
doti in voi non occulte, spontanei più che tutti, vi rischiereste per trionfare
: ma temendo che la consanguinità vostra co’ tre gemelli di Alba non fosse un
impedimento al vostro ardore, chiesi tempo a risolvermene, e feci tregua con
lui di dieci giorni. Restituitomi in Roma adunai li senatori, e proposi
l’qffare sicché ne discutessero. Parve al più, di loro che se voi spontanei vi
mettereste alla impresa, bella e degna di voi, impresa che io già voleva, solo
io per tutti combatterla ; allora ve n esaltassi e v ac-^ cettasi. Ma se voi,
restii contro al sangue de vostri, e non già confessandovi pusillanimi,
dimandereste altri fuori della vostra famiglia ; allora, parve loro, che io non
dovessi farvene la menoma violenza. Così pronunziava il Senato : nè già ne avrà
egli rammarico se voi riguarderete la impresa come grave: ma non picciola è la
gratitudine che dovravvene, se voi pregierete la patria più de’ parenti. Or su
ponderate col bene vostro, ciocché siate per farvi. Udendo i giovani questo ;
si ritirarono, e conferirono brevemente. Tornatisi quindi a rispondere cosi
disse il maggiore fra loro : Se noi fossimo liberi; se fossimo gli arbitri
unici delle nostre risoluzioni; e tu ci avessi o Tulio incaricato di
consultarci su la pugna contro i nostri cugini: già ti avremmo risposto de'
nostri voleri. Ma perocché vive il nostro genitore senza cui niente vorremo
dire nè fare ; preghiamoti che ci concedi alcuna requie a risponderti, finché
ce ne intendiamo con esso. Encomiando Tulio la pietà loro, e volendo che cosi
appunto facessero ; partirono in verso dei padre. Dichiaratogli l' invito di F
uffezio, il colloquio di Tulio con essi, e la risposta vendutagli ; alfine
insisterono perchè dicesse ciocch'egli ne sentisse. E colui sottenlrando disse
: Pietosamente o figli adoperaste riserbandovi al padre, nè risolvendovi senza
a4o lui. Ma ò tempo ornai che voi pure vi manifestiate idonei a tali consigli :
concepite già venuto il fine dei miei giorni; palesatemi ciocché scegliereste
di fare, deliberandovi tra voi sema del padre : Allora cosi rispose il
maggiore: Noi o padre assumeremmo a noi di combattere per la preminenza di
Roma, e ci porremmo alle vicende che a Dio si piacessero; bramosi anzi di
morire che di vivere indegni di te e degli oìvtenatì. Il ligame del sangue co’
nostri cugini non lo avremo noi sciolto i primi; ma come sciolto già dalla
sorte, placidi lo mireremo : perocché se i Corcai; stimano la parentela men che
il benfare ; nemmeno agli Orca] parrà quella più. onorevole della virtiu Come
il padre conobbe i loro sentimenti, divenutone lietissimo, e sollevando le mani
al cielo, parve che rendesse copiose grazie agl’Iddii, perchè gli avessero dato
figli onesti e generosi. Quindi prendendoli uno per uno, e dando loro
soavissimi amplessi e baci di amore, voi vi avete, disse, magnanimi figli,
anche il mio voto. An• date j rispondete a Tulio i pietosi e belli sentimenti.
Allora giojosi quelli per le ammonizioni paterne si divisero, e corsi al
monarca accettarono la battaglia. E colui convocato il Senato, e mollo encomiativi
i giovani spedisce messaggeri alPAIbano per dichiarargli che i Romani sieguono,il
suo volere, e pongono gli Oraz) per combattere sul principato. Ora dimandando
il subbletlo che rappresentisi diligentemente la forma della battaglia, nè
scorrasi di volo su’ casi che la seguirono, simili a quelli di una tragedia,
tenterò di pareggiare, quanto io posso, coi detti ogni cosa. Venuto il tempo di
compiere le condisioni, uscirono tutte in campo le milizie romane, e dopo le
milizie, fatte prima suppliche ai Numi, uscirono i giovani. Essi ne andavano
compagni del re, mentre il popolo per tutta la città gli acclamava, e spargeva
loro de’ fiori sui capo. Erano già uscite anch’esse le schiere albane.
Collocatesi le une in vicinanza delle altre destinarono per teatro dell’ azione
il campo che separa i confini di Alba e di Roma ove già s’ alloggiavano
entrambi gli eserciti. Quivi sagrificando giurarono anzi tutto Romani ed Albani
su le vittime che ardevano di essere contenti della sorte la quale per r una e
per l’altra città risulterebbe dal combattere dei cugini, e di osservare
santamente i patti senza mescervi inganno, essi nè i posteri. Compiuti tali
sacri riti in verso de’ Numi si avanzarono in arme dal proprio campo,
spettatori gli uni e gli altri della battaglia ; lasciando, tre stadj o quattro
di spazio intermedio pei combattitori. Prescntaronsi indi a non molto il
capitano di Alba ed il re di Roma conducendo quello i Curazj, e questo gli
Orazj, armati splendidissimameute, e con apparato quale il prendono, uomini
destinati alla morte. Giunti gli uni vicino agli altri consegnarono le loro
spade agli scudieri ; e corsero e si abbracciarono, piangendo vicendevolmente,
e chiamandosi co’ più teneri nomi; talché datbi tutti intorno alagrimare,
accusavano la grande inumanità loro, e de’ capitani, perché potendo definire la
lite con altri, l’ aveano ridotta al sangue de’ parenti ed ai contaminarsene
delle famiglie. Staccatisi CDalmente i giovani dagli amplessi, ripigliale dagli
scudieri le spade, e già ritiratisi quanti s’ aveano intorno, si contrapposero
secondo la statura, e si avventarono.. XIX. Stavansi Gn qui le milizie placide
e senza clamori : ma poi da ambedue proruppero grida frequenti, esortazioni
scambievoli per chi avea da combattere e voti e rammarichi, e continui suoni di
voce, varj secondo r ondeggiare vario della mischia, quali per le cose fatte e
vedute dall’ una e dall’ altra parte, e quali per le cose future o pronosticale
: ma più dalle immaginazioni ne derivavano che dai successi ; perocché la
visione fatta in tanta distanza non era ben chiara ; e passionandosi tutù
pe’loro combattenti, prendeano come avvenuto quanto ideavano. E gli assalti
incessanù, le ritirate degli emuli, e li passaggi rapidi, e li rivolgimenù degli uni in su i luoghi degli altri levavano
ai riguardanù la forza del distinguere. Durò tal vicenda gran tempo; perocché
gli uni e gli altri aveano pari le forze del corpo, pari la generosità degli
animi, e bonlssime le armi che li circondavano; nè rimaneano loro membra alcune
indifese ; tanto che feritivi, subito ne morissero. In tale stato molti Romani
e molti Albani in mezzo all’ansia di vincere e nel commovei'si pe’loro atleti,
s’ inGammavano, elGgiandosi appunto con gli affetti di quelli, quasi volessero
anzi star nel conflitto, che rimirarlo. AlGne il maggiore degli Albani
serratosi col Romano che stavagli a fronte, e dando e ricevendo Cioè il voiiat della taccia, molalo luogo.
colpi su’ colpi ; immerse non so come la spada nel> r anguinaja dell’ emulo.
Questi ingrevilo già da altre ferite ai riceverne l’ ultima e mortale, cadde,
rilascian dosi nelle membra, e spirò. Alzarono a tal vista gli spettatori tutti
le grida ; gli Albani come già vineitori, e li Romani quasi già vinti ;
concependo i due loro fàcilissimi da essere conquisi dai tre degli Albani.
Frat' tanto il Romano che era per soccorrere il caduto com> pagno y vedendo
quanto l’Albano rabbellivasi ai fausto evento, si spiccò come un lampo su lui,
e menando e riportando ferite in copia, alfine gli cacciò la spada nella gola e
lo uccise. Ricambiatisi in poco d’ ora i successi de’ combattenu, e le
affezioni degli spettatori, elevandosi i Romani dal primo abbassamento, e per^
dendo gli Albani la esultazione ; un’ altra volta ancora la sorte spirò
contraria ai Romani, e ne umiliò le spe concio ; por zoppicandone, ed
appoggiandosi via via su lo scudo, reggeva ancora, e si ritirava presso del
fratello rimastogli, che starasi alle prese col Romano. Restava a questo F uno
de' contrarj a fronte, venendogli r altro da tergo. Allora temendo che avendola
a fare con due che da due lati lo investivano, sarcbbenc facilmente rlnthiuso :
e trovandosi invulnei^to ancona ; pensò di separare i nemici e combatterne. 1’
uno dopo r altro. Concepì che avrebbeli facilmente disgiunti se facesse vista
di fuggire; non potendo ambedue segui tarlo, giacché vedeane l’ uno infermo del
piede. Cosi deliberato fuggi con quanto avea di velocità, nè gli vennero meno
le speranze. L’ albano che non avea piaga mortale, tennegli immantinente
appresso; ma l’ invalido a camminare si rimase più addietro che non dovea. Qui
gli Albani confortavano i suoi : riprendevano i Romani il proprio guerriero :
anzi cantavano quelli e si maguifìcavano, come sul termine glorioso della
impresa ; ma s addoloravano gli altri come non più potesse la fortuna
rasserenarsi verso di loro. Quando ecco il Romano, coltone il punto, si rivoltò
rapidissimo ; e prima che r Albano potesse guardarsene, gli diè colla spada in
un braccio, e spiccoglielo nel gomito. Fattagli. cadere la mano e colla mano la
spada gli sopraggiunse un colpo, e con questo la morte. Quindi si lanciò su r
ultimo albano e lui già derelitto, già semivivo scannò. Poi spogliati i
cadaveri de’ cugini, corse in città ; volendo esso il primo dare al padre la
nuova della vittoria. Portavano però i destini che essendo mortale anch’ egli
non avesse prospera ogni cosa ; ma sentisse i morsi ancora della invidiosa
fortuna. Lo avea questa iu pochi momenti venduto grande di picciolo, e
sollevato a chiarezza inaspettata e mirabile, e questa appunto nel medesimo
giorno lo gittò dentro amara sciagura, spingendolo ad uccidere la sorella. Come
egli fu vicino alle porte di Roma, videvi moltitudine immensa che fuori se, ne
versava, e vide accorsa con essa ancor la sorella.^ Tnrbato ài primo vederla
perchè essa, donzella ornai nubile, ave^ lasciato la custodia materna, e si
fosse esposta in mezzo di turba incognita ; ne formava pensieri funesti: ma si
rivolse alfine ad altri più miti e be nevoli, quasi ella cedendo al muliebre
genio avesse ne, gletto il decoro per desiderio dì salutare primieramente il
fratello salvo, e d’ intenderne i fatti virtuosi degli' estinti. Colei però
s’era ardila di mettersi alla insòlita via non' per desiderio del fratello ma
vinta dall’ amore di uno de’cugini, col quale aveale il padre fuo concordate
le. nozze. Celavano colei l’ ineffabile afletto ; ma poiché seppe da un tal
dell’ esercito gli eventi della giornata ; non più lo contenne : ma lasciati i
domestici lari corse come furiosa alle porle di Roma, nemmeno volgendosi alla
nutrice che la seguiva, e la richiamava. Uscita dalla città come vide il
fratello festevole colle ghiriande trionfali dntegli dalle regie mani, e gli
amici che portavano le spoglie degli estinti, e tra le spoglie ancora 1’
ammanto vario, che essa avea colla madre tessuto e màhdato in pegno delle nozze
allo sposo, giacché usano gli sposi futuri tra’Latini abbigliarsi di ammanto
vario; come vide il caro suo dono macchiato di sangue ; si lacerò le vesti, si
battè con ambe le mani il petto; ululò, richiamò l’ amato cugino ; tanto che
grande stupore ne invase quanti in quel luogo si stavano. £ pianto il destino
dello sposo folgorò col fisso sguardo sul fratello, e gridò: Tu esulti o
sozzissimo uomo su la occisione decagoni, e tu, scellerato, tu privasti con ciò
dello sposo la misera sorella tua. Nè pietà senti de’ trafitti parenti che pure
chiamavi fratelli tuoi; ma f innebrj di gioja quasi per buonissima impresa y e
vai fra tanti mali coronato. E qual cuore è mai il tuo ? forse di una fera
? anzi, colui replicò, di un cittadino
che ama la patria ; di uno che punisce chi le vuol male, siasi egli un estraneo
o siasi un domestico. E tra questi colloco te pure, te' che vedendo i beni
grandissimi, e i grandissimi mali in un tempo awemUici, la vittoria della
patria che io qui ti presento, e la morte de tuoi fratelli ; già non esulti o
malvada pe’ beni comuni della 'patria, nè ti addolori pe’ domestici infortuni
> spregiati i fratelli, non sospiri che lo sposo ; e profani te stessa non
fra le tenebre ; ma nel pubblico aspetto di tutti. A me la mia virtù,
rimproveri, a me le mie corone ! O non vergine, non ‘sorella, e non degna degli
avi! Poiché dunque non piangi i fratelli ma lo sposo ; poiché tieni il corpo
co’ vivi, ma V anima colf estinto ; va, ten corri a lui che richiami, nè più.
disonorare il geni' tare, e i fratelli. Cosi dicendo, più non serbò misura
nell’ odio della scellerata ; ma le immerse con quanto area d ira la spada
ne’Ganchi; ed uccisala andossene al padre. I costumi e gli animi de’ Romani
erano allora cosi pieni dell’odio del male, e cosi fermi in questo; che se
alcuno li voglia paragonare co’ nostri, dirà che erano aspri e duri, nè diversi
molto da quei delle fiere. Il padre udita la spaventevole uccisione non -solo
non se ne corrucciò ; ma la tenne come debita e decorosa ; perciocché nè
permise che fosse portata nella sua casa ; nè procurò che la seppellissero
nelle tombe degli avi ; nè clic fosse
con esequie e fregi, c conianque coTunebri riti onorata. Ma coloro che
passavano dove giacevasi uc> mettono che uccidasi alcuno impunemente, e
riferendo gli esempi dati dagl’iddi! su le, città che non vendicano gli
scellerati. Faceva il padre le difese del giovine, ed incolpava la Gglia ;
pretestando eh’ ella non ebbe morte, ma castigo : che niuno era nella domestica
sciagura giudice più acconcio di lui come genitore di ambedue. Moltiplicandosi
da arabe le parti i discorsi, assai fu perplesso il monarca come avesse a
terminare il giudizio. Eigli per non portare la colpa, e la maledizione nella
magione sua da quella dell’ autore di esse credea bene che non si assolvesse
chi dichiaravasi reo del sangue della sorella, sparso prima di ogni condanna, e
per cagioni per le quali vietano le leggi che uccidasi : non ammettea però che
si avesse ad immolare come un omi> cida chi avea scelto di cimentarsi per la
patria e tanta signoria le avea procacciato, mentre nou tenealo per colpevole
il padre stesso a cui la natura e la legge danntT ' i primi diritti di
risentimento per la figlia. Incerto come decidersi, tenne da ultimo per lo
meglio rimetterne al popolo la sentenza. Il popolo Romano divenuto allora la
prima volta giudice di un omicida si attenne alle de-^ siinazioni del padre, ed
assolvette il suo liberatore dalla morte. Pure non istimava il re che' bastasse
a chi volea mantenere la pietà verso i Numi tal giudizio venduto dagli uomini:
ma chiamati i pontefici commise loro .che placassero i Geni! e gl’ Iddi!, e
mondassero il giovine colle espiazioni le quali purificano da morti
involontarie.. a 49 E quelli eressero due altari, l’uno a Giunone, Dea
difenditrice delle sorelle, e 1’ altro ad uno Dio, chiamato Genio da’ nazionali, col nome appunto
de’cugini Curazj uccisi dal giovane. E facendo su questi de’ sagrifìzj, ed
usando nondimeno altre espiazioni, da ultimo passarono 1’ Orazio sotto il
giogo. Costumano i Romani, quando diventano gli arbitri di nemici che abbassano
le armi, di piantare due aste diritte, acconciandone una terza supina su di
esse ; e poi di passarvi sotto li prigionieri, e dimetterli alfine liberi verso
le patrie loro. E questo è ciò che chiamasi giogo. Coloro che lustrarono J1
giovane si valsero di tal ultimo rito nel purificarlo. I Romani tutti stimano
sacro il luogo della città dove fu praticata la cerimonia. Rimane questo nell’
angusta via che mena giù dalle Carene coloro che vengono all’angusta via
Cipria. Ivi sorgono altari allora edificati, e su gli altari stendesi 1’ asta
supina confitta ai due muri contrapposti: pende questa sul capo di quelli che
ne escono, e chiamasi nel parlar de’ Romani asta o legno della sorella. Questo
luogo onorato con annui sagrifizj ricorda in Roma ancora la sciagura del giovane:
ma ricorda il valor suo tra la battaglia la colonna angolare che è principio
del portico secondo nel Foro dalla quale pendevano già le spoglie de’trigemini
Albani. Le armi vennero meno per gli anni ; ma la colonna serbane ancora la
denominazione chiamandosi pilastro Orazio. Che anzi evvi in Roma una legge nata
da tal fatto, Genio Curazia: fu così
detto perchè destinato a placare le ombre de' Coratj. Ed Orazio meritava
appunto di essere espiato dal sangue della sorella e de’ cugini. ed osservatavi pur nel mio tempo, a riverenza
e gloria de’ giovani immortali, la quale ordina che nascendo dei tiigemini si
dispensino per essi a pubbliche spese i vi veri Gno alla pubertà. Tal Gne ebbe
la serie delle cose degli Oraz] iniessuta d’ inaspettate e meravigliose
vicende. Indugiatosi il re de’ Romani per un anno onde apparecchiare quanto era
d’uopo alla guerra; inGne deliberò di avanzar coll’ esercito contro Fidene.
Preodea le cagioni di guerra da questo, che invitau i ciuadioi di essa a
giustiGcarsi circa le insidie ordite su gli Albani e Romani non aveano ubbidito,
anzi dando in un subito alle armi e chiudendo le porte e congregando le schiere
ausiliarie de’ Yejenti, erai^si manifestamente ribellati. Aggiungevasi, che
andati gli oratori per inten dervi le ragioni della rivolta, i Fidenati non
altro risposero, se non che non aveano essi cosa alcuna comune co’ Romani Gn
dalla morte di Romolo al quale si erano, giurando, congiunti di amicizia. Su
tali cagioni armò le sye milizie, e fe’ richiedere le conJederate, delle quali
Mezio F uffezio recava da Alba le più numerose in apparato bellissimo ;
tantoché superava ogni altra forza amica. Tulio commendò Mezio, come detet^
minato a prendere seco lui la guerra ardentissimamente, in ogni miglior modo ;
e Io rendè consapevole di tutti i disegni. Ma quest’ uomo incolpato già da’
suoi come rio capitano di guerra, anzi calunniato di tradimento ; questo dopo
che si era tenuto per tre anni sotto 1’ autorità suprema di Tulio, alGne
sdegnando un principato schiavo dell’ altrui principato, e di essere diretto. s5l
pimtosto che dirigere; macchinò cosa non degna. Imperocché mandati messaggeri
segreti a’ nemici de’ Romani, irresoluti anewa per la ribellione, gl’ infiammò
^, che non piò dubitassero ; promettendo che in mezzo della battaglia
investirebbe egli stesso i Romani. E tali cose macchinando e facendo ; potè
rimanersene occulto. Tulio apparecchiate le milizie sue e quelle de’ com-i
pagni le portò su’ nemici, e valicato il fiume Aniene si pose non lungi da
Fidene : ma scoprendo innanzi di questa io ordinanza un gran numero di Fidenati
e loro compagni si tenne in calma tutto quel giorno: nel seguente convocando 1’
albano F nlfezio, ed altri de’ piò intimi amici ponderò con essi com’era da
praticare la guerra ; e poiché parve loro che fosse da combattere spe>
ditamente, senza indugiarvisi ; egli preaccennando i posti e r ordine che
ognuno prenderebbe, e destinando per la zuffa il prossimo giorno, congedò l’
adunanza. Quindi FufFezio che ancora tenevasi occulto con molti degli amici sul
tradimento che meditava, fatti a sé venire i più cmpicui tra’ suoi centurioni e
tribuni disse: Tribuni, centurioni, io sono per comunicarvi grandi, inaspettate
cose, che vi tacqui finora. Vi raccomando se non volete distruggermi che voi
pure le taciate : anzi che miei cooperatori vi siate, se utili a compiersi vi
parranno. Il tempo angusto non consente che io distesamente vi parli di ogni
cosa; e ristringomi alle primarie. Io per tutto V intervallo che fummo
subordinati a' Romani fino a questo giorno ; io m’ ebbi una vita piena di
vergogna e di rammarico j eppure fui onorato dal monoica loro della maaSa gisàratitra 'suprema, oggimaì da tre anni, è
lo sarò' nemmeno per sempre se il voglio. Ma perciocché mi parca t estremo de
vituperj che io' solo mi fossi felice' nella sciagura comune ; e vedeva intanto
io bene che eravamo stati spogliati della sovranità contro tutti i diritti
sacri dell’ uomo ; cosi mi diedi a considerare come potessimo ricuperarla, ma
senza rischiarvi gran fatto. E discorrendola io meco moltissimo ti-ovai una via
sola facile nè pericolosa che guiderebbe all’ intento, cioè che sorgesse loro
una guerra da confinanti. Imperocché prevedeva io che i Romani avrebbono a
chiamare le truppe ausiliarie, e le nostre massimamente, e prevedeva dopo ciò
che non avrei gran bisogno di persuadervi che più. bello, e più giusto è
combattere per la nostra libertà, che per istahilire' r impero de’ Romani.
Spinto da tali pensieri produssi a’ Romani la guerra de’ sudditi loro Fidenati
e Vejenti risolvendoli alle arme con esibire che io prenderei parte con essi.
Fin qui si rimase occulta a’ Romani la pratica ; ed io provvidi intanto per me
la occasione di assalirli. Ora considerate quanto sia questo opportuno.
Primieramente, grande in una ribellione manifesta, sarebbe il pericolo o di
avventurare ogni cosa mentre siamo sprovveduti per la fretta, e contiamo
unicamente su ciò che potrebbero le nostre forze ; o di essere sorpresi da essi
già pronti mentre ci apparecchiamo e ci procuriamo dagli altri un ajuto. Noi
però così non manifestandoci non cor-reremo nè V uno nè V altro disastro,• e ne
avremo raccolto almen questo bene. Secondariamente noi non.. a53ci daremo a
percuotere la grande, la bellicosissima potenza e fortuna degli emuli con le
violente maniere, ma si bene colle artijiziose e scaltre, con le quali si
prendono finalmente le cose trascendenti, e meno facili a battersi colla forza
; nè già saremo a far questo i primi, o li soli. Inoltre siccome le nostre
milizie mal potrebbero schierarsi in campo a fronte di quelle de’ Romani e
degli alleati ; così abbiamo congiunto a noi le forze sì grandi, come vedete,
dei Veìenti e de Fidenati. Anzi si è da me provveduto che le ardite schiere di
questi ne diano con effetto il soccorso che ne ho cercato. Imperocché già non
sarà J.a pugna nelle nostre campagne; ma battendosi i Fidenati per le proprie,
difenderanno in esse an~ coro le nostre. E quello che riesce dolcissimo agli
uomini, quello che di raro occorse ne’ tempi andati ; questo ancora per voi si
combina : noi giovati dai nostri alleati sembreremo di avere ad essi giovato, E
se r affare si termina a piacer nostro, come par verisimile; i Fejenti e li
Fidenati che avranno liberato noi da un durissimo giogo, essi noi
ringrazieranno quasi col favor nostro ottengano un pari benefizio. .Questi sono
i successi che da me con gran diligenza procurati mi sembrano bastare ad
ispirarvi confidenza, e viva prontezza ad insorgere. Ora udite in qual modo io
voglia por mano alla impresa. Tulio mi ha destinato appiè del monte ; perchè io
vi governi luna delle ale. Ma quando saremo per attaccarci co’ nemici ; io non
attendendo allora tale destinazione ; mi ritirerò poco a poco sul monte. Voi
seguitemi allora ordincUamente. Giunto alle cime ed in salvo, udite come io
continuerò. Quando vedrò le cose che qui dico riuscirmi come io le disegno ;
quando vedrò infiammati di corono i nemici perchè noi cooperiamo con essi,
umiliati e spaventati come traditi i Romani ; e come è verisimile, già più.
intenti a pensare la fuga che le difese; allora io starò su loro : ed io
coprirò de’ loro cadaveri il campo ; perocché scendendo dcdC altura destra a
basso, mi gitterò su di essi sbigottiti e dispersi con esercito pieno di beW
ardore e di ordine. 'Rilevantissima è nelle guerre la fama sparsa di un
tradimento anche falso degli alleati, o del giung.'re di altri nemici ; e
sappiamo che grandi eserciti furono totalmente da tali vane apprensioni
rovinati, più che da altri spaventosissimi casi. Il nostro adoperare però già
non sarà fama vana, nè arcano spaurimento ; ma cosa più che tutte terribile a
vedersi e provarsi. Ma ( dicansi pur le cose consuete a presentarsi contro la
espettazione, giacché la vita ne involge molte, nè verisimili ) se gli eventi
riusciranno contro i disegni ; anch’ io farò cose ben altre da quelle che in
mente io ravvolgevami. Allora io piomberò co’ Romani su nemici ; co’ Romani
raccoglierò la vittoria, simulando di aver prese le alture per cingere gt
inimici. Ben avran fede i miei detti concordandosi le opere colle finzioni :
tanto che noi non comunicheremo cogP infortuni di niuno, e solo parteciperemo
lo belle vicende dell’ uno o delC altro. Io tali cose ho deliberato : e tali
cose eseguirò col favorB degV Iddii come bonissime non solo per gli AU boni ma
per tutti i Latini. Bisogna che voi guardiaie prima che tutto il silenzio :
poi, che serbiate il buon ordine, che vi prestiate immantinente ai comandi, che
guerrieri vi siate pieni di bell’ ardore, e che tali rendiate pur quelli che vi
ubbidiscono ; considerando che il combattere nostro per la libertà non somiglia
al combattervi degli altri, consueti ad essere comandati, e lasciati da loro
padri in tale condizione. Noi liberi siamo naU dai liberi : anzi i nostri avi
ci han tramandato il comando su vicini ; serbarono questa forma per cinquecento
anni ; nè di questa si troveranno per noi spogliati li posteri. Nè tema chi
vuole far questo, quasi rompa i trattati, e violi i giuramenti fatti sopra di
essi: pensi piuttosto che egli i diritti ripristina rotti e violati da' Romani
: nè già i tenui diritti ma quelli che la natura ci ha dato degli uomini,
quelli che la legge ha fondato comune ai Greci ed ai Barbari, vuol dire che i
padri comandino j i padri dian leggi ai figli, e le città madri alle colonie.
Questi sacri diritti che mai saranno cancellati dalla natura degli uomini,
questi noi volendo che siano perpetuati, nè frangiamo alleanza fàuna, nè genj
nè Dii ci si potran corrucciate quasi non sante cose facciamo, se mal pià
comportiamo servire cì nostri discendenti. Cnloro però che li hanno conculcato
i primi, e che con opera indegna han tentato di far prevalere la umana alla
le^e divina ; coloro, corn è giusto, e non già noi, s' avranno a fronte V ira
de’ Numi, c su di essi non su noi soi't
gerà la vendetta degli uomini. Pertanto se queste vi sembrano le cose
migliori / eseguiamole, e chiamia^ movi protettori gl’ Iddii. Ma se alcuno
sente in contrario e sente o t una o t altra delle due cose ; vuol dire o che
più, non debba ricuperarsi t antica dignità della patria ; o che debbasi
aspettare un tempo pià acconcio del presente ^ e differire; costui' non esiti,
a dire i suoi pareri; e quello sarà fatto che a tuui sembri il migliore. Alfìae
lodato nel dir suo dagli astanti, e promettendosi questi a far tutto ; esso ne
obbligò ciascuno col giuramento, e dimise radunanza. Nel prossimo giorno all’
uscire appunto del sole, uscirono da’ proprj alloggiamenti le milizie de’
Fidenati e degli alleati, e si schierarono per la battaglia: vennero nemmeno di
fronte i Romani, e si ordinarono. Tulio stesso e i Romani si opponeano coll’ala
sinistra ai Vejenti i quali formavano la destra nel corpo loro. Nell’ ala
destra dei Romani si stava Mezio Fuffezio e gli Albani presso del monte incontra
de’ Fidenati. Rendutisi ornai vicino gli uni degli altri, gli Albani prima di
essere a tiro si staccarono dal resto dell’ esercito, ascendendo ordinatamentè
sul monte: I Fidenati ciò vedendo e cerziorandosi della realtà del tradimento
promesso dagli Albani si portarono più baldanzosi contro de’ Romani. L’ala
destra de’ Romani, essendosene tolti gli alleati, erane ornai rotta e molto in
pericolo. Combattea però bravissimamente 1’ ala sinistra e Tulio con essa in
mezzo di scelti cavalieri. Quand’ ecco un cavaliere affrettandosi verso quelli
i quali pugnavano presso del monarca, o Tulio, disse, la nastra ala destra è
sul perdersi : gli jilbani, abbandonatala, ascendono il monte, ed i Fidenali
che li teneano schierati dinanzi, ora preponderando a fronte ilelt ala tanto
indebolita j già la circondano. I Romani ciò ndcmlu, e vedendo T accelerarsi
degli Albani in sul monte; temerono di essere avviluppali da' nemici, taulu che
non aveano cuore nè di combattere, nè di restare in quel luogo. Or qui, dicesi,
che Tulio niente commosso all aspetto di un male si grave e tanto inaspettato
facesse uso dell’ avvedutezza : e che salvasse con questa 1 esercito ornai nel
pericolo manifesto di essere circondato; c disfacesse e terminasse tutto il
bene degli inimici. ltn[>erocchè non si tosto il messaggero ebbe detto; egli
a gran voce sicché i nemici, la udissero, o Bomani, esclamò, li nemici son
vinti. Gli Albani sul mio comando hanno occupato come vedete il monte prossimo
a noi per piombare alle spalle de' nimici. Mirale ! gli abbiamo pin e al nostro
buon punto gli impiegabili awersaij. Noi siamo loro dirimpetto, e gli Albani
alle spalle : pià non possono aveutzare, ISO retiocedei e. Dall' uno de' lati
rinserrali il fiume, dall’ altro il monte : ci daran pure le pene meritate.
Andate : avventatevi intrepidamente su loro. Cosi esclamando ne andava tra le
milizie. E ben presto i Fidenati furono presi dalla paura che quel tra>
dimenio, si rivolgesse fìnalmente su loro per frodolenza del capo degli Albani
: perchè nè lo vedeano schierarsi contro i Romani, nè fulminarsi contro di essi
come avea già promesso. Altronde avea quel parlare iniiammati di VIOSIGI,
P>m l. ir ardire e riempiuti di confidenza i Romani. Adunque scop piando in
un grido e ristrettisi lanciarousi all’ inimico. Piegarono allora, e fuggirono
i Fidenati in disordine alla loro città. Il re de’ Romani rilasciando la
cavalleria su questi atterriti e turbati li perseguitò qualche tempo; ma
vedutili poi sbandati, senza animo di raccogliersi e senza forza, permise che fuggissero
; e si rivolse contro r altra parte de’ nemici ancora ordinata. Ivi era
battaglia viva tra’fanti; e più viva ancora tra’ cavalieri. Imperocché li
Yejenti quivi schierati non che sbigottirsi e dar volta, resistevano all’
impeto de’ cavalli romani. Alfine vedendo che l’ ala loro sinistra era battuta,
e chel’esercito de’Fidenati e degli alleati fuggiva tutto precipitosamente,
anch’cssi per timore di non essere colti in mezzo da’ nemici che tornavano da
inseguire gli altri, diedero volta, e si scomposero e tentarono di salvarsi a
traverso del fiume. I più robusti, e men carichi di ferite, nè impotenti a
nuotare passarono senza le armi il fiume e scamparono: ma quanti non aveano
l’uno o l’altro di que’ requisiti, affondavano tra’ vortici ; essendo il Tevere
presso Fidene rapido e tortuoso. Tulio intanto impose a parte de’ cavalieri di
uccidere i nemici che. accorrevano al fiume, ed egli conducendo il resto delr
esercito assali gli accampamenti de’ Vejenti e gl’ invase. E tali sono le
operazioni che diedero, a’ Romani salute inaspettata. Quando il re d’Alba vide
manifestamente vittoriose le milizie di Tulio ; egli per dare a vedere che
faceala da alleato, calando dal monte le sue, le menò contro de’Fideuuti che
fuggivano ; e molli in tale stalo. ... a!xg ne uccise. Tulio vedendo il suo
fare, ed esecrando la nuova sua tradigione, dissimulò di presente, finché lo
avesse nelle mani : ansi diè vista di lodare tra molli come l>onissima l’
andata di lui su pel monte : e spcuna banda di cavalieri lo richiese che desse
ultimi contrassegni di zelo, incaricandolo, che cercasse con diligenza, e
trucidasse que’ Fidenati che non potendo ripararsi tra le mura, vagavano
dispersi intorno • in tanto numero per la campagna. Colui quasi avesse, già
conseguila Tana delle due cose che sperava, e quasi, fosse accetto veramente a
T ullo, ne fu dilettato ; e cavalcando gran tempo per que’ campi fe’ strazio,
de’ prò-, fughi i quali sopraggiungeva. E già tramontato il sole, condusse i
suoi squadroni da tale persecuzione al campo Romano, c vi festeggiò con gli
altri la notte. Tulio di-, inoratosi nell’ accam|)amento de’ Vejenti fino alla
prima vigilia vi esplorava da’ prigionieri più riguarderoli quali fossero mai
stati li capi della rivolta. Come poi seppe che ci avea tra congiurati anche 1’
Albano Mezio Fuffezio, gli parve che i fatti di lui concordassero colle
indicazioni de’ prigionieri. Adunque montato in sella si ri-, condusse
cavalcando in città fra lo stuolo dc’suoi più fidi. E prima della mezza notte
convocando dalle case loro i Senatori ; disse del tradimento degli Albani,
dandone |)er teàlimonj li prigionieri ; e narrò gli artcGzj co’ quali egli avea
deluso i nemici e li Fideuali. E poiché la guerra avea fine bonissimo ; invitò
loro a discutere come si avessero a punire i traditori, perchè Alba si rendesse
|>iù savia per 1’ avvciiire. Parve a tulli giusto anzi necessario che si
['Unissero quanti si erano messi ad ojteia tanto cellerata. Si ondeggiò però
molto intorno la ma-' oiera facile e sicura della esecuzione. Sembrava loro
im> possibile che tanti cospicui Albani si potessero involare con morte
tenebrosa e nascosta. Che se tentassero arrestarli e punirli palesemente,
torneasi che quel popolo, piuttosto che ciò non curare, volasse alle armi. Non
voleano poi combattere in nn tempo co’ Fidenati/ coi Tirreni, e con gli Albani
loro consocj.Ora non espedendosi essi ; diè Tulio in6ne uu suo parere cui tutti
encomiarono. Io ne dirò dopo un poco. Siccome non era Fidene distante da Roma
se non cinque miglia ; ' cosi egli eccitando con tutto r ardore il cavallo si restituì
negli alloggiamenti : e prima che il giorno brillasse’ laminoso, chiamando
Marco Orazio il superstite de’ trigemini, e dandogli li fanti e li cavalieri
piò scelti, ordinò che marciasse con questi ad Alba, che vi s’ introducesse in
sembianza di amico ; che, quando ne avesse in sua balia gli abitatori rovinasse
da’ fondamenti la città, non risparmiando edifizio alcuno privato o pubblico,
se non i tempj: non vi uccidesse però nè vi oltraggiasse uomo ninno, ma
consentisse che ognuno s’avesse le sue cose. Spedito questo egli aduna tribuni
e centurioni, palesa ad essi il decreto del senato, e forma di loro la guardia
del corpo suo. Si presentò dopo non molto 1’ Albano in gaudio per la vittoria
co mune, e per congratularsene con Tulio t e Tulio serbando tuttavia li segreti
suoi, Io encomiava, confessavalo degno di gran doni, ed invitavalo a scrivere i
nomi de’ valentuomini che si erano più distinti nel combattere e portarglieli
perchè tutti partecipassero ai beni della villoria. Inondatone costui dal
jnacere diè su di una tavoletu in iscritto i nomi de’ suoi più fedeli, de’
quali si era valuto ne’ disegni reconditi. Allora il re di Roma invita a
radunarsi lutti, senza le arme, e radunatisi ; fece che il duce degli Albani,
come li centurioni e tribuni si collocassero presso di lui, e che gli altri
Albani ordinatamente si compartissero ; ponendo dopo loro il resto degli
alleati e dietro tuui infine circolai-mente i Romani, tra’ quali ce ne avea de’
magnanimi, co’ brandi sotto degli abiti Quando poi gli sembrò di avere a suo
bell’ agio i nemici ; sorgendo cosi ragionò : Romani, amici, compagni di arme,
finalmente abbiamo col favore degl' Iddìi portala la vendetta su Fidene e su
quanti partigiani di lei, furono arditi investirci con guerra manifesta.
Seguirà da questo t una delle due, vale a dire che quanti ci molestavano si
cheteranno ; o ne daranno pene tanto più spaventose. Ora venule già le prime
nostre imprese a buon termine, é tempo iche puniamo quei guerrieri che avendosi
il nome di amici nostri, ed assunti a questa guerra da noi perchè facessero
contro (i nemici comuni, abbandonarono la loro fedeltà verso noi, si strinsero
con patti segreti a nemici, e macchinarono la universale nostra rovina. Ben
sono essi peggiori de' nemici manifesti, e perciò degni di pena più grande.
Imperocché facile cosa è deludere le insidiose lor trame, e ribattere si
possono se ci assaliscono come nemici : ma né riesce di leggeri cautelai si da
amici che la fan da nemici, né si possono risospingere se ci prevengano. Ora
tali sono i guerrieri che Alba ci manda\>n : ingannevoli alleali ! eppure
non danneggiati, ma beneficati grandemente, e in tante cose da noi. Noi, ramo
già della lor gente, non toglievamo punto della lor signoria, ma 'la nostra
forza, la nostra potenza fondavamo qol domare i nostri nemici. Premunendo di
mura la nostra patria contro genti amplissime e bellicosissime abbiamo prodotto
ad essi un alta sicurezza in fra le guerre de’ Tirreni e de’ Sabini : tantoché
serbandosi la nostra città prosperamente, dovean essi rallegrarsene
principalmente ; e decadendo questa non dovean meno rattristarsene che per la
propria città. Essi però si ostinarono ad invidiare non solamente il nostro ben
• esseio, ma il proprio ancora nel nostro : e da ultimo non potendosi più Iodio
nascondere, ci hanno premeditato la guerra. Ma perciocché vedeano noi benissimo
acconci a ripeivoterli, non essendo essi valevoli contro di noi, c invitarono a
trattati ed amicizia, e richiesero che la lite sul principato si decidesse con
la tenzone di tre combattenti. Acoetlammo t invito e vincemmo ; e ci fu la loro
città sottomessa. Or, dite : che abbiamo noi fatto dopo questo ? Potendo noi
ricevere gli ostaggi da Alba, polendo mettervi guarnigiotìe, e qual’ uccidervi,
qual cacciarne de’ principali a por dissidio tra t uno e t altro popolo;
potendo cambiarvi in favor nostro la forma del governo, smembrarne il
territorio, prescrivervi de’ tributi, e torlo infine le arme ciocché era facilissimo,
ed avrebbe tanto più noi convalidato ; polendo noi tutte queste cose ; non
abbiamo pur voluto farvene in. 263 nemmeno una, mossi anzi dalla pietà versò
loro, che dalla sicurezza del nostro principato. E preferendo cioccK era il
decoio all’ utile abbiamo conceduto che si godesse ogni suo bene. Permettevamo
che Mezio Fujfezio, che essi avevano elevato à primi gradi come il più degno,
vi amministrasse ancora la repubblica. Ed essi ( ascoltate qual .contraccambio
ce ne renderono quando più bisognavamo dell’ amicizia, e delle armi loro ) ! si
convennero in segreto col nemico comune di assalirci insieme tra la battàglia ;
e quando t inimico e noi eravamo già già sul combattere ; essi lasciando il
posto della ordinanza, corsero a’ monti vicini onde preoccuparne le alture più
forti. E se la cosa andava loro a seconda, niente avrebbe impedito che noi
tutti perissimo 'circondati dagli amici e dai nemici ; e che tulli i
combattimenti da noi sostenuti per la signoria della nostra città, tutti in un
giorno, svanissero. Ma poiché tal disegno riuscì vano primieramente per
disposizione benefica degV Iddìi da quali ripeto quanto io fo mai di buono e di
bello, e poi per t avvedimento mio che non poco valse a scoraggir t inimico ed
accendere i nostri, essendo stato mio stratagemma il dire che gli Albani ^
ordine' mio preoccupavano il monte per cingere t inimico ; poiché t affare si
terminò coll utile nostro ; noi non sarenpmo, quali essere ci conviene, se non
punissimo i traditori ; quelli io dico i quali, doveano se non per altro,
almeno pe' ligami di parentado serbare gli accordi ed i giuramenti, fattici di
recente, e li quali non temendo gl Jddii che fecero testimonj de’ loro trattati,
non riverendo la giustizia stessa, non la riprovazione degli uomini, non
calcolando la grandezza del pericolo se il tradimento sconciavasi, tentarono in
miseranda maniera di perdere noi progenie, noi benefattori loro, essi nostri
fondatori, e congiurali con gt implacabili nostri nemici. Dicendo lui queste
cose prorompeano gli Albani in gemiti, e preghiere d’ogni modo. ÀHermavail
popolo non aver lui saputo niente dei disegni di Mezio : simulavano' i capitani
non aver conosciuta la mao chinazione, se non che nel darsi della battaglia,
quando più non era in poter loro d’ impedire, o non fare i comandi. Riferivano
altri il lor fatto alla insuperabile necessità di congiunzione e di parentado ;
quando il re, fatto silenzio disse: niente,. Albani, niente ignoro, di quanto
allegate per iscusannivi. E penso che il più di voi noi sapesse quel tradimento,
perchè dove molti sono i consapevoli, non si tacciono, neppur brevissimo tempo
le cose : penso che de’ tribuni e de’ centurioni la parte minore fosse la
complice ; ma che la più grande non era che aggirata, e ridotta a passi non
volontari. Che se niente di ciò fosse vero ; se voi tutti Albani, quanti qui
siete, e quanti si rimasero in Alba, vi aveste in cuore di danneggiarci, nè già
da ora, ma da tempo antichissimo ; pur s avrebbe il liomano nella sua parentela
una ben forte cagione a pazientarne le ingiurie. Perchè però non più vi
aduniate a consulte ingiuriose contro noi, non più violentati, non più sedotti
vi troviate da’ capi della vostra città ; ito abbiamo pure sebbene unico,
questo rimedio : vale a dire che divenendo tutti cittadini di una città
riguardiamo questa sola per patria, e partecipiamo ciascuno ai beni e mali di
tei, coma essa ne incorre. Finché saranno come ora discordi i pareri, finché
disputeremo su la preminenza; non sorgerà mai stabile pace fra noi ;
principalmente se gli uni i primi siano per insidiare gli altri con vista di
dominare vincendo, o di essere come parenti impuniti se perdono. Imperocché
quelli die sono assalili tenteranno riscuotersi coll estremo de' mali, nè
fuggiranno modo alcuno onde nuocere gli tdtri quali nemici, come ora addivenne.
Pertanto sappiate: avendo io nella scorsa notte adunalo il SeruUo, i Romani per
bocca sua emanavano, ed io firmava il decreto che la vostra città fosse
disfalla, nè si permettesse che vi restasse in piedi edifizio niuno privato nè
pubblico alf infuori de' templi : che quelli che vi abitano ritenendo ogni bene,
non ispogUali di schiavi, non di bestiami, non di oro pongano da ora innanzi la
sede in Roma: che gli Albani poi, che non hanno campo alcuno se lo abbiano,
purché non sia de' poderi sacri co’ quali si procacciano i sagrifizj : che io
provveda i luoghi della città dove le abitazioni si fondino degli emigrati, e
supplisca a chiunque di voi più ne ahbisogna, i mezzi onde tompierle : che
tutta la vostra moltitudine prenda la forma del nostro po.polo ; comportasi in,
curie e tribù; abbia parte nel Senato e nelle magistrature più insigni, e si
ascrivano alle famiglie patrizie le famiglie de'Giulj, de' Servi Ij, de Geranj,
de Metelj, de’ Corazj, de’ Quintìlj , e de’ Cluvilj ; che finalmente Alezio e
quanti deliberarono con esso il tradimento, se ne abbiano le pene, e noi le
stabiliremo queste, giudici sedendo di ogni causa ; mentre a ninno dee negarsi
giustizia e difesa. XXXI. Intanto che Tulio cosi diceva i poveri tra gli Albani
gradendo di essere fatti abitatori di Roma, e di parteciparne le campagne, lo
acclamavano a gran voce. All’ opposito i più cospicui per grado o più agiati
per sorte si affliggeano che avessero ad abbandonare la propria città, e le
case paterne, e vivere per 1’ avvenire in terra altrui; nè più sapean che dire
in tanto orribile necessità. Poiché Tulio ebbe investigato i pareri della
moltitudine, impose a Mezio, che allegasse, volendo, le sue giustiBcazioni r e
costui non sapendo che replicare alle accuse ed alle testimonianze t disse che
il Senato di Alba avealo segretamente incaricato di far ciò quando usci per
guerreggiare; e pregava gli Albani ai quali avea tentato di racquistare il
comando, che lo soccorressero, nè guardassero con indifferenza la patria che
rovinava, e tanti cittadini degnissimi che erano strascinati al supplizio. E
già nasceane tumulto nella moltitudine, e volavano alcuni ad afferrare le armi
; quando i Romani che circondavano l’adunanza sguainarouo, datone il segno, le
spade : ed essendone tutti aiierriti ; sorse Tulio un'altra volta e disse:
Albani, non qui vi è dato d' insorgere, nè di trawiarvi: giac‘ Lrsino, e Patino de Famil. Romanor. leggono
Quinzf. ’ ^6'J cJtè tulli, se ariìiste
commovervi, sareste trucidali da questi : ( E cosi dicendo additava le spade
de’ suoi ). Prendete ciocché vi si dona, diventale fin da oggi Romani. È per
voi necessità, domicitiaivi in Roma, o non avere più patria sulla terra. Marco
Orazio andò sulC ordine mio fin dalC aurora per abbattere la vostra città dai
fondamenti, e condurne in Roma gli abitanti. Ora sapendo che ornai questo è
fatto, non vogliate correre alla morte; ubbidite. Metio Fuffezio, quesf occulto
nostro insidiatore, che nemmen ora teme d’ invitare alle armi i turbolenti e li
sediziosi'; questo ne darà le pene, degne del perfido cuore e scellerato.
Sbigottì ciò udeudo la parie irritata degli adunali, come vinta da insuperabile
necessità. Fremea Fufiezio per l’ opposi to, e vociferava, ma solo, e reclamava
r alleanza, egli che era accusato di averla tradita, nè perdea la baldanza,
anche in mezzo de’ mali ; quando i littoii per comando di Tulio afferrandolo
gli squarciano in dosso le vesti e lo caricano di battiture. Poi quando parve
che ornai quel supplizio bastasse ^ avvicinando due carri, legarono con lunghe
redini le braccia di lui nell’ uno di questi, e li piedi nell’ altro. Allora
spingendo gli aurighi quinci e quindi i due carri ; egli strascinato e tirato
in parti contrarie, fu subitamente ridotto in brani. Tale fu il termine
miserando e vergognoso di Mezio. Infine io stesso re mise un tribunale per gli
amici e complici di lui nel tradimendo ; punendoli, come li scopriva rei, colla
morte >, a norma delle leggi su’ disertori e su’ traditori. Intanto che si
laccano tali cose, Marco Orazio spedilo innanzi con scelta milizia a
distruggere Alba compiè’ ben tosto la marcia, e se ne impadroni ; trovandovi le
porte non chiuse, nè difese le mura. Poi convocando la moltitudine le palesò
quanto era accaduto nella battaglia, e quanto il Senato di Roma ne decretava.
Contrariavano quelli, e dimandavano tempo almeno per ispedire degli
ambasciadori. Ma costui senza indugio spianò case, muri ; e tutti in somma i
privati e pubblici ediGzj ; scortandone con assai diligenza a Roma gli
abitatori, che menavano e portavano ogni loro bene con sé. Tulio ritornato dal
campo gli comparti ira le curie e tribù romane, li coadjuvò per fabbricare ne’
luoghi, che sceglievano in Roma, le case : dispensò porzione sufGciente de’
terreni del pubblico fra i loro meroenarj, e sen cattivò con altre amorevolezze
la moltitudine. Ma la città di Alba già fondata da Ascanio nato da Enea figlio
di Anchise, e da Creusa figlia di Priamo, quella che per quattrocento
ottanlasette anni dalla sua fondazione era tanto cresciuta di popolo, di
ricchezze, di ogni ben essere, quella che aveva propagato trenta colonie in
trenta città del Lazio e che era sempre stata la capitale della nazione, quella
alfine vittima ^i) dell’ ultima delle sue colonie giace squallida ancora e
desolata. Prese requie nell’ inverno il re Tulio ; ma nel sorgere della
primavera cavò nuovamente l’ esercito contro Fidene. Non era venuto a’
Fidenati, nè lo pretendeano, pubblico soccorso ninno dalle città confederate :
solamente da più luoghi erano venuti de’ mer Anni di Roma 88 secoodo Catone; 90
secondo Varane, e G 6 f aTanli Cristo] cenar} ; e contando su questi osarono
un’ altra volta esporsi in campo. Schierativisi, uccisero molti de’ nemici; ma
poi furono rispinti di nuovo tra le mura. Come però Tulio cingendo la città di
argini e fosse la ridusse alle ultime angustie ; vinti dalla necessità, si
renderono a discrezione. Divenuto costui padrone della città vi uccise nemmeno
gli autori della ribellione. Lasciò gli altri a sé stessi ; concedendo ebe
godessero i lor beni : e restituendo ad essi la forma che aveano di reggenza,
congedò 1’ armata. Restituitosi a Roma onorò gl’ Iddii con la pompa trionfale e
co’ sagrilìzj promessi, e fu questa la seconda volta che trionfò. Si eccitò
dopo questa a’ Romani la guerra de’ Sabini ; e tale ne fu la cagione. Onorasi
da’ Latini e Sabini in comune il tempio, sacrosanto più che ogni altro, della
Dea nominata Feronia, che taluni con greca interpetrazione chiamano la
portatrice de’ fiori ^ 0 r amica dei serti, o Proserpina. Essendosene
annunziate le feste, erano dalle eittà d’ intorno venuti molti per supplicare,
e sagrificare alla Dea, e molti, mercadanti, artefici, agricoltori per
guadagnare nel concorso ; ivi tenendosi fiera famosissima più che in altri
luoghi d’ Italia. Recavansi per avventura a questa luogo alquanti non ignobili
tra’ Romani, quando alcuni Sabini concertatisi, li circondarono e derubarono. E
1 quantunque si spedissero de’ messaggeri, non voleano su questo i Sabini
rendere la giustizia : ma riteneansi 1 danari e le persone degli arrestali ;
imperocché dolevansi anch’ essi de’ Romani che avessero dato ricetto ai
fuggitivi de’ Sabini, costituendo il sacro asilo, come si dicliiarò nel primo
libro. InSammanciosi da tali queri> monie alla guerra uscirono con
moltissime schiere in campo aperto. Fecesi ordinata battaglia, e pari
splendeavi il coraggio de’ combattenti ; tanto che separatine dalla notte
lasciarono la vittoria indecisa. Ke’ giórni ap]>res$o considerando ambedue
la mohitudiue degli estinti c de' feriti, ricusarono ogni altro cimento ; ed
abbandonando gli accampamenti, si ritirarono. Ma tenutisi iu cylma per quell’
anno uscirousi di nuovo a fronte con. forze più formidabili. Si appiccò la
zuffa presso di Erelo lontana centoquaranta sladj da Roma, c molti vi
soccombeano da ambe le parli. E pendendo questa zuffa ancora lungo tempo
sospesa, Tulio elevò le mani al cielo, votandosi che se vinceva in quel giorno
i Sabini istituirebbe delle feste a Saturno ed a Rea con pubblica s])esa.
Celebrano ogni anno i Romani tali feste dopo che barino riportato tutti i
frutti della terra. Egli facea voto insieme che raddoppierebbe il numero de’
Salj. Derivano questi da nobile prosapia,, e ne’ debiti tempi si cingono di
arme, e saltano accordando al suono delle tibie i salti, e cantando patrie
canzoni, come ho spiegalo nel bbro primo. A quel volo si mise tanto ar dorè ne’
Romani che questi pressando, come freschi soldati, gli stanchi, ne ruppero le
schiere in sul mancare del giorno, e ridussero gli stessi capitani a dar
principio alla fuga. E seguendo essi li fuggitivi ai propri irincieramcnli, ne
raggiunsero la maggior parte vicino alle fosse. Tuttavia nemmeno dopo ciò
retrocederono : ma rimanendosi ivi nella notte imminente, e respingendo i
uciuici che pugnavano da entro il vallo,. 271 invasero alRne gli accampamenti.
Trasportaronsi dopo ciò quanta preda voleano dalle campagne sabine : e siccome
niuno più presenlavasi a combatterli, si ricon> dussero in casa. Fece il re
per questa battaglia il terzo trionfo. Quindi per le molle ambascerie de’
nemici depose le armi, avendone da essi li suoi disertori, e li soldati suoi
caduti prigionieri ne’ pascoli; ed esigendone la multa decretata contro loro
dal Senato di Roma il quale avea calcolato in argento r danni ricevuti da’
nemici negli armenti, nelle bestie da giogo, e nelle altre cose tolte ai
coltivatori dei cttmpi di lei. Fransi cosi scioiii dalla guerra i Sabini : e
scrittine su colonnette i trattali, gli aveauo collocati nei tempj. Ma
suscitatasi per le cagioni che tra poco diremo, la guerra di Roma con le città
latine, congiurate fra loro, guerra che non parea da essere ultimata nè con
prestezza nè con facilità ; li Sabini afferrarono di Lenissima voglia tale
occasione, e dimenticarono quasi non fatti, i giuramenti e i trattati. E
reputando esser questo il buon punto da rivendicare anche il multiplo del
danaro sborsato a’ Romani ; uscirono su le prime, in pochi, ed occulti a
predarne le campagne vicine. E succedendo in principio il disegno secondo il
desiderio, perchè non accorreva milizia ninna in difesa de’ coltivatori ; si
adunarono in gran numero e palesemente : e spregiato l’ inimico macchinarono di
recarsi fino su Roma. Adunque congregarono le soldatesche da ogni loro città,
brigando di congiungersi co’Laiini. Ma non venne lor fallo di ottenere nè
amicizia uè lega ninna con quella gente. Imperocché Tulio veduti i loro
peusieri, fe tregua colle città latine, e deliberò di volgere le annate contro
di essi. Egli aveva in arme il doppio di allora, quando mosse alla presa di
Alba, ed aveà rac colto il più che potea di sussidj dagli alleati. Già 1’
esorcito de’ Sabini crasi concentrato. Quindi avvicinatisientrambi alla selva
della dei malfaUori si accam-t parono a
picciola distanza fra loro. Nei giorno appresso investendosi, combatterono, ma
con dubbia sorte gran tempo ; finché violentati al far della sera i Saliini
dalla ’ cavalleria romana piegarono ; e molta ne fu nella ' fuga ' la
uccisione; spogliarono i vincitori i cadaveri de’ iie-> mici ; invasero
quanto ci avea di danaro negli alloggiamenti ; e conducendosi dalle campagne il
fiore delie prede, tornaronsi a casa. Tal fine ebbe pe' Romani la guerra Sabina
nel regno di Tulio. Erano le città Latine divenute allora per la prima volta
discordi da Roma, perchè essendo distnitta Alba, ricusavano fidare il comando
di sé stesse ai Romani che ne erano i distruttori. Tulio, volgendo l’anno
quindicesimo dalla caduta di Alba avea spedito ambaseladori alle città filiali,
o suddite di questa le quali eran trenta, per chiedere che ubbidissero ai
Romani, padroni di ogni cosa degli Albani, e con ciò dell’ imperio ancora su’
Latini. DIcea che due sono i titoli pe’ quali gli uomini diventano gli arbitri
di altrui : la libera dedizione e la necessaria : e che i Romani se gli aveano
' tutti due per dominare le città già ligie degli Albani : [tercliè i primi
avevano vinto i secondi dichiaratisi loro
Livio la chiama tj-lva malUiom.. 2; 3 nemici, e fra le arme, ed aveano
poscia accomunato Roma ad essi che aveano perduto la patria. Ora da ciò
seguitava che gli Albani o vinti o volontarj cedeano ai Romani l’imperio
de’sndditi loro. Non risposero le città Latine una per una agli oratori : ma
congregatesi pei deputati a Ferentino decisero co’ voti loro d^ non
sottomettersi a’ Romani ; e crearono immantinente due capitani arbitri della
guerra e della pace, 1’ uno Anco Publicio della città di Cori, e 1’ altro
Spurio Vecilio di Lavinia. Si fece per queste cagioni guerra tra Romani e tra’
popoli di una gente medesima : continuò cinque anni ma quasi civilmente secondo
1’ antica temperanza. Imperocché venendo le intere milizie degli uni a
battaglia ordinata con le intere milizie degli altri, mai non si fece gran
danno, nè piena occisione ; nè mai ninna loro città vinta in guerra, soggiacque
alla distruzione, alla schiavitù, o ad altre insanabili disavventure. Ma
gettandoti gli uni ne’ territori degli altri ne’ tempi della raccolta
pascolavano e predavano e ritiravansi in casa, e cambiavansi lì prigionieri.
Tulio solamente cinse di assedio Medullia città latina, divenuta come fu detto
nel libro antecedente fin da’ tempi di Romolo colonia dei Romani, ed ora
congiuratasi co’ suoi nazionali, e con ciò la ridusse a non più tentare
innovamenti. Non oocorse a ninna delle due parti alcun altro de’ mali consueti
nella guerra perché le guerre de’ Romani di quei giorni eran subite, e per la
subitezza non iochiudevano tanto rancore. Cosi adoperava nel suo principato
Tulio Osiiiio, r uuo de’ pochi uomini degni di lode per l’ar> dire felice
tra le arme, e per la saviezza ne’ pericoli ; c più che per tali due cause, per
ciò che egli non era precipitoso a far gueire, ma postovi si, non mirava che a
silperare in tutto i nemici. Dopo uu regno di trenta due anni mori per l’
incendio della sua casa, e con lui pur morirono nel fuoco medesimo la moglie, i
figli, i domestici. Vi è chi dice che la casa di lui fu messa in fiamme dai
fulmine ; essendoglisi irritato il Nume per alcuna sua non curanza di sante
cose, perchè si erano sotto lui tralasciati dei sagrifizj della patria,
introducendovisi in parte gli altrui. Ma i più raccontano che fu quel disastro
per insidia degli uomini ; ascrivendolo a Marzio, re, successore di lui :
perocché Marzio sde guavasi, dicono, che egli nato di regio lignaggio dalia
figlia di Numa Pompilio vivesse tra’ privati : e vedendo già grande la prole di
Tulio, altamente ne sospettas’a, che' se costui periva, passasse il regno a’
figli di lui. Fra tali concetti insidiava da gran tempo la regia vita. £d
essendogli molti Romani, fautori per dargli lo scettro, e Tulio essendogli
amico, ed era creduto fidissimo; spiava la occasione di sorprenderlo. Era Tulio
per fare in sua casa un sagrilizio al quale non volea presenti che i suoi più
congiunti; ma divenuto per avventura quei giorno ferale per tenebre, per
pioggia, per nembi, le guardie aveano lasciato deserti gii atrj della reggia.
Parendo questo il buon punto s’introdusse Marzio e i compagni co’ brandi sotto
degli abiti : uccisero il monarca, i figli e quanti vi erano : vi appiccarono
il fuoco in più bande e poi divulgarono la novella del fuoco. Ma io non ricevo
la novella, perocché, nè vera la credo, nè verìsimile : e piuttosto m’ appìglio
'alla prima opinione, e penso che quest’ uomo per ira degli Iddìi corresse tal
sorte. Imperocché non è facile che la congiura, operandola molti, si resusse
occulta : nè il capo di essa era sicuro che egli sarebbe proclamato monarca da’
Romani dopo la morte di Tulio Ostilio: e quando fosse tutto stato sicuro per
lui dal canto degli omini, non potessi confidare che somiglierebbero i divini
agli umani pensieri. Bisognava dopo il voto delle tribù che propizj gli augurj
comprovassero il regno per lui. Qual genio o qual Nume avrebbe mai sopportato
ebe un uomo cosi lordo di delitti e di sangue si acco> stasse agli altari
suoi per compiervi de’sagrifizj, o altre pie cerimonie ? Per tali cagioni io
riferisco quell’ evento agl’ Iddìi, non alle trame degli uomini. Tuttavia ne
giudichi ognuno come più vuole. Dopo la morte di Tulio Ostilio fu creato
secondo i patrj costumi l’ interré dal Senato ; e l’ interré dichiarò sovrano
della città Marzio, che Anco denominavasi. E Marzio, dopo confermati i decreti
del Senato dal popolo, dopo renduti agli Iddii quanto a loro si conveniva, e
compiuta a norma delle leggi ogni cosa, assunse il comando nell’ anno secondo
della ohm\ piade 35. nella quale vinse Sfero spartano, nel tempo che Damasìa
esercitava in Atene l’annuo magistrato. Ora osservando questo re la
trascuraggìne delle pratiche religiose istituite da Noma, avolo suo materno,
esserti ) Catone Varroae Ruma] vando die il più de’ Romani erano divenuti
guèrrieri è dediti a vili guadagni, nè più si volgeano come prima ai lavori
della terra; chiamati tutti a parlaménto, esortò che ripigliassero il culto
degl’ Iddii come a’ tempi di Numa ; dimostrando che per tali negligenze delle
sante cose erano venuti in città morbi e pestilenze ed alu'i Hagelli che ne
aveano desolata parte non picciola : e che lo stesso re Tulio perchè non
vegliavane quanto doveva alla custodia, travagliato per molti anni da tutti i
generi de’ mali, nè più essendo padrone della stia mente, ma decadutagli questa
come il corpo, incone in catastrofi miserande egli nemmeno che la sua
stirpe." E lodando a’ Romani la pubblica forma indotta da Numa come
egregia e savia, e generatrice di abbondanza quotidiana per giustissime cause ;
raccomandò che la ravvivassero e volgessero l’ opera loro, a coltivare le terre,
ad allevare i bestiami, e ad altri lavori, liberi dalle ingiustizie della
violenza e della rapina, e spregiassero in fine le utilità che nascono dalla guerra.
Con questi e simili detti risvegliava iu tutti il dolce trasporto per la calma,
aliena dalle armi, e per la industria sapiente. Convocando poi li pontefici, e
prendendone le leggi delineate da Numa intorno le cose divine, le scrisse ed
esposele in su tavolette nel Foro a chiunque volesse vederle. Ora quelle
tavolette vennero meno: perocché non usavano ancora le colonne di metallo ; ma
scriveansi in tavole di querce le leggi del fero e de’ templi. Dopo la cacciala
dei re furono Hprodolte in pubblico dal pontefice Cajo Papirio, il quale avea
la cura suprema delle cose divine. Rendendo il suo splendore ai ministeri
negletti de’ sacerdoti, e rendendo ai lavori suoi la turba oziosa ; encomiò gli
utili agricoltori, e ne biasimò gl’improvidi, come cittadini non veri. Lusingavasi
al favore di tali istituzioni di vivere sempre libero da guerre e disastri come
1’ avo materno : tuttavia non ebbe pari ai desiderj la sorte ; ma in onta del
cuor suo fu necessitato alle arme, e ravvolto in tutta la vita fra turbolenze e
pericoli. Im> perocché nel primo ascendere al comando appena diede calma
allo stato, i Latini ve Io dispregiarono : e pensandolo per codardia non idoneo
alla guetra; tutti mandarono entro i confini di lui bande di rubatori, che '
assai danneggiarono molti Romani. E spedendo il sovrano degli arobasciadori a
chiedere compensagioni pei Romani secondo i trattati, finsero ignorare in lutto
quei latrocini, non die fossero con pubblica autorità concertati. Diceano
pertanto non dovere di cosa alcuna risponderne a’Romani; tanto più che i
trattati erano con Tulio e non co’ presenti; e Tulio mancato, erano periti con
esso gli accordi. Necessitato da tali pretesti e cavillazioni de’ Latini Marzio
portò conti'O loro l’ esercito. Postosi all’ assedio della città di Politorio,
la prese a condizioni prima che i soccorsi le giugnessero de’ Latini. Non
infierì già cogli abitanti, ma portossegli tutti a Roma co’ beni che avean
seco, aggregandogli alle tribù. Ma siccome i Latini mandarono nell’ anno
seguente nuovi abitanti a Politorio, e ne coltivavano i campi, così Marzio
pigliando I’ eserdto lo ricondusse contro di loro. Uscirono dalle mura i Latini
e combatterono; ma egli li vinse, e prese la città per la seconda volta. E
peixìhè più non fosse un richiamo de’ nemici. nè più lavorassero i campi di lei,
ne abbattè le mura, ne incendiò gli edi6zj, e parli. Recaronsi nell’anno
appresso i Latini a Mednllia ov’ erano de’ coloni romani, e dandole d’
ogn’iniomo l’assalto la espugnarono. Maiv 'zio andato di quel tempo contro la
città di Tillene e divenuto vincitore in campo, c poi su le mura, la sottomise.
Non tolse a’ prigionieri nulla di quanto aveano: ma li trasse in Roma ove. diè
loro de’ luoghi perchè vi edi6cassero le abitazioni. Soggiacque Medullia per
tre anni ai Latini, ma nel quarto la riconquistò con molle e grandi battaglie.
Espugnò dopo non molto Fidene, città presa tre anni addietro per condizioni ; e
ne 4rasferl tutto il popolo a Roma ; e non danneggiando la città più oltre,
parve che si diportasse anzi con man sneludine che con' prudenza. Imperocché li
Latini vi supplirono nuovi abitanti; e sen tennero e sen goderono il
tet^ritorio ; tanto che fu Marzio costretto di accorrervi per la seconda volta;
e divenutone per la seconda volta padrone a grande fatica ; ne abbandonò le
case alle fiamme, e ne devastò le mura. XL. Occorsero dopo ciò due battaglie
tra’ Latini e Romani. Durò la prima lungo tempo : e gli uni sembrandovi eguali
agli altri, si distaccarono, e ritiraronsi a’ proprj alloggiamenti. Nella
seconda i Romani vinsero i Latini e gl’ incalzarono fino alle trinciere. Dopo
ciò più non vi ebbe fra loro battaglia ordinata : ma continue furono le
scorrerie degli uni su le terre vicine degli
Vi i ehi legga Ficolara per Fidrue. E verameaie più sotto si parla della
ribtIlioBe di Fideue.. 279 altri ; > econtinua le scaramucce tra cavalieri e
fanti che volteggiavano; ma per lo più colla meglio de’ Romani i quali teneano
in campo aperto appiè di castelli opportuni un armata sotto gli ordini di
Tarquinio Toscano. Ribellaronsi intanto que’ di Fidene da’ Romani, nè già'
dichiarando guerra manifesta ; ma danneggiandone a poco a poco con occulte
incursioni le campagne. Marzio' però presentandosi loro con esercito ben
fornito innanzi che si apparecchiassero alla guerra si accampò d’appresso alia
città. Fingeano i magistrati non supere per quali affronti i Romani fossero
venuti contro di loro : e di-chiarando il re che veniva per aver soddisfazione
dei latrocinj e danni fatti da essi nella sua terra ; si escusarono che niente
era stato con pubblica autorità, e chiesero tempo per esaminare e discernere i
complici delle ingiustizie. Procrastinavano intanto, non adempievano gli
obblighi loro, adunando in segreto de’ sussidj, e travagliando all’ apparecchio
delle arme. Marzio conosciutine i disegni scavò de' cunicoli dal suo campo fino
alla città : e compiutone il lavoro suscitò le schiere, conducendole con molte
scale e mac^ chine e stromenti proprj per gli assalti, alle mura, non' però
dove riuscivano sotto queste le vie sotterranee, ma in tutt’ altra parte.
Accorsi in folla i Fidenati dove erar assalto, bravamente lo rispingevano,
quando ì Romani incaricatine, dato 1’ ultimo traforo ai cunicoli, sboccarono
dentro la città; e trucidando chiunque capitava, spalancarono le porte agli
assalitori. Soccomberono nella presa della città molti de’ Fidenati; Marzio
impose agli altri che cedessero le armi : poi fattili per la voce dei banditori
congregare in luogo certo, ne battè con Terghe e ne uccise alcuni pochi, autori
della ribellione ; e concedè che i soldati saccheggiassero le case di tatti.
ÀlSne lasciato quivi un presidio marciò coll’ esercito contro de’ Sabini.
Nemmeno questi eransi tenuti ai patti conchiusi con Tulio ; ma gettandosi nelle
terre de' Romani ne aveano devastato le più vicine. Marzio, cono sciato dagli
esploratori e dai disertori il tempo acconcio ad investirli, andò con i suoi
iànti, e mentre i Sabini spargeansi a predar le campagne prese di assalto le
loro trincierò, fornite di pochi difensori ; ordinando intanto che Tarquiuio
piombasse con la cavalleria su i nemici che divisi rubavano. Al vedere la
cavalleria romana verso loro lasciarono i Sabini la preda e quanto seco
portavano o conducevano di proficuo, e fuggirono agli alloggiamenti. Ma non sì
tosto mirarono questi hr potere de’ fanti ; dubitarono dove rivolgersi, finché
si sparsero per le selve e per le montagne. Perseguitati pelò da soldati
leggeri e da' cavalieri, ne scamparono pochi, soccombendone la parte più
numerosa. Spedirono dopo ciò nuovi ambasciadori a Roma ed ottennero l’amicizia
che voleano. Imperocché la guerra, permanente ancora, co’ Latini rendea
necessaria la tregua o la pace con gli altri nemici. Xl.II. Intorno al quarto
anno dopo questa guerra Marzio il re de’ Romani andò colle sue milizie e col
più che potè delle ausiliarie contro de’ Vejenti, e devastò gran parte della
loro campagna; imperocché questi si erano i primi gettati nell’ anno precedente
sul territorio romano; e molto vi saccheggiarono, e vi uccisero. Ben
uscirono sperità, grandi oltre il dire,
su le prime si diedero in pochi a scorrerne e derubarne le campagne : poi
lusingati dal guadagno misero palesemente in piede un esercito ; e le
desolarono. Ma non riuscì loro di portarsi via que’ guadagni, nè di partire
impuniti. Imperocché venuto provvidamente il re de’ Romani, e posto il stio
presso al campo de’nemici, gli astrinse a fare giornata. Sorse dunque battaglia
terribile, e molti perirono da ambe le parti : nondimeno per la sperienza, e
per la tolleranza de’ travagli, antica fra loro, prevalsero finale mente di
gran lunga i Romani, e fecero ampia uccisione, seguitando immantinente i Sabini
che disordinati e disgiunti riparavansi agli alloggiamenti. Poscia invadendo
pur questi pieni di ogni ricchezza, e ricuperando i prigionieri usurpati da’
Sabini quando predavano ; sen tornarono in patria. Tali si dicono le gesta
guerriere di questo re, credute degne di ricordanza, e di stima da’ Romani :
sono poi le politiche, quelle che mi accingo a narrare. Primieramente aggiunse
alla città non piccìola parte rinchiudendo fra le mura 1’ Aventino. E questo un
colle alto leggermente, con perimetro di circa stadj diciotto : r occupavano
allora piante di ogni genere e più che tutto lauri bellissimi, dond’ è che una
parte di esso chiamasi laureto da’ Romani : ora è tutto ingombrato di case, e
tra’ molti edi6zj, il tempio sorgevi di Diana. Dividevalo valle angusta e
profonda dal colle della città ^ chiamato Palatino, dove fu Roma nel na cer suo
collocata : ma ne’ tempi appresso l’ intervallo tra due colli fu riempiuto di
terra : ora vedendo che un tal colle sarebbe un luogo forte per un armata
nemica se nini si avvicinasse, lo circondò di mura e fossi, e inisevi ad
abitare le genti trasportate da Telline, da Poiilorio, e da altre città
soggiogate. Celebrasi tale istituzione del re come utile e bella, perchè Roma
ne divenne più ampia, e meno espugnabile per quanti nemici mai le
soprastassero. Migliore del regolamento anzidetto è 1’ altro che la rendè più
felice nel vivere, e la mise ad imprese più generose. Imperocché scendendo il
fiume Tevere dai monti Appennini, passando appiè di Roma, e scaricandosi
attraverso de’ lidi del mare Tirreno, dirotti e senza porti, rende alla città
picciolo bene, e certo non memorabile, perchè dove si scarica non evvi un
emporio il quale riceva e cambj a’ mercadanti le merci portatevi dal mare, e
giù colla corrente stessa del fiume. Altronde essendo il Tevere navigabile fin
dalle origini con barche fluviali mezzane, e dal mare fino a Roma co’ legni
grossi da trasporto ; egli deliberò di fare ivi un luogo da ricever le navi,
servendosi della imboccatura come di porto ; tanto più che ivi il fiume si
spande amplissimo, e formavi gran seni appunto come ne’ siti de’ porti
migliori. E, ciò che porge più meraviglia, il Tevere non è traversato nella sua
foce da cumuli di arene, come altri gran fiumi, nè dilagasi in stagni o paludi,
nè consumasi con altre maniere prima che giintga nel mare : ma sempre
navigabile si scarica per una sola bocca naturale, separando a forza le acque
marine, quantun(]ue ivi spiri un vento occidentaie grande e malagevole. Adunque
le navi lunghe per quanto grandi, e quelle da carico, capaci ancora di tre mila
misure, si avanzano per la bocca del medesimo e giungono a Roma, sospintevi con
remi e funi : ma le navi maggiori fermate colle ancore presso la imboccatura si
vuotano su barche fluviali, che succedono ai trasporU. Tra lo spazio cui
cingono il mare ed il Gume con forma di cubito, il re fece erigere una città
chiamandola Ostia, o come noi diremmo, porta dall’ uso che presta, rendendo con
ciò Roma mediterranea e marittima, talché godesse i beni ancora d’ oltremare Inoltre
cinse dì muro il Gianicolo che è un colle alto di là dal Tevere, e posevi
guarnigione che bastasse per difendere chi navigava in sul Game ; imperocché li
Tirreni tenendo lutto il tratto di là dal Gume infestavano e derubavano i
mercadanti. E dicesi che egli soprapponesse al Tevere il ponte Sublicìo, il
quale dee per legge esser tutto di legno, senza rame nè ferro, ed il quale,
perchè sacro lo estimano, conservasi ancora. E se parte alcuna ne pericola, i
ponteGci la curano, compiendo insieme patrj sagriGzj mentre riparasi. Operate
nel suo principato tali cose degne di storia. Marzio dopo un regno di
ventiquattro anni moti, lasciando Roma non poco migliore di quello che avessela
ricevuta, e lasciando due Ggli 1’ uno fanciullo ancora, r altro di più anni, e
già nubile. Dopo la morte di Marzio, il popolo rimise al Senato la scelta del
governo che più bramava ; ed il Senato Gssò di litenerne la forma consueta.
Adunque furono gl’ interré dichiarati ; e questi riunirono pe’ coi^ mizj la
moltitudine, e scelsero Lucio Tarquiuìo per monarca. E confermando i segni
divinf la elezióne della moltitudine ; egli assunse il regno nella olimpiade
nella quale Cleonida tebano vinse nello stadio, mentre era arconte in Atene il
figliuolo di Enioco. Ora, secondo che io ne trovo negli scritti di que’ luoghi,
dirò di quali parenti, e di qual patria fosse questo Tarquinio, per quali
cagioni venisse in Roma, e per quali arti giugnesse al comando. Un tale di
Corinto, ( Demarato ne era il nome ) della stirpe de’ Bacchiadi, risolutosi di
commerciare navigò per la Italia con nave propria e proprie merci. Vendutele
nelle città tirrene allora le più prosperose d’ Italia, e fattovi assai
guadagno, non volle più rigirarsi per altri porti ; ma tenne continuamente lo
stesso mare, portando le greche cose ai Tirreni, e le tirrene ai Greci ; donde
ricchissimo né divenne. Nata però sedizione in Corinto, e postasi la tirannide
di Cipselo attorno de’ Bacchiadi, egli ricco uomo, e del grado degli ottimati,
più non credendo sicuri col tiranno i suoi 'giorni, raccolse quanto potea di
sue robe, e fece vela per sempre da Corinto. E perchè stante il commercio
continuato egli aveva amici molti Tirreni, anche riguardevoli; specialmente in
Tar> quinia, città, grande allora e felice, quivi si domiciliò,' prendendovi
una nobile donna per moglie. Da questa nacquero a lui due figli, chiamandone
con tirreni nomi Aronle 1’ uno, e 1’ alu'O Lucumone. Diè loro greca é Anni di Roma l3S secondo Catone, i^o secondo
Varrone, e 6i4 acanti Cristo] tirreoa istituzione, e adulti fatti, li cougìaute
per matrimonio colle più insigni famiglie. Mori non molto dopo il primogenito
suo, non avendosi ancora di lui prole distinta. Da indi a pochi giorni si mori
per l’ ambascia Demaralo ancb’ esso destinando erede di ogni sua cosa Lucumone
il Aglio superstite. Investito questi de’ beni paterni, che erano assai grandi,
desiderò di essere nom pubblico, di maneggiare il comune, e Ggurare co’ primi
della città. Ma respinto in ogni parte da’ paesani, e non aggregato non dico a’
primarj ma nemmen co’ mediocri, mai sopportò quel dispregio. E sentendo come
Roma accogliea con beneplacito i forestieri, e facevali cittadini, e gli
onorava secondo i lor gradi ; risolvette di trasferirvisi. E raccolte per ogni
modo le cose sue menò seco moglie, amici, e domestici quanti ne vollero ; e
molti vollero con lui trasmigrarsi. Giunto al colle chiamato Gìanicolo, che è
quello donde Roma presentasi in prima a chi .vien di Toscana, un aquila calatasi
di repente, gli ghermisce il pileo che tieu sul capo, e sollevatasi, roteandosi
a volo, si occolu al Aae nell’ allo delK aere : poi d’ improvviso rimise in
capo a Lucumone il suo pileo come eravi quando sei portava. Riuscì tal segno
inaspettato e meraviglioso a tutti: e Tanaqaila (che tale ne era il nome) la'
moglie di Lucumone, sperimentata assai nell’ arte patema degli auguri >
menatolo in disparte. lo abbracciò colmandolo di belle speranze, come se dalla
condizione de’ privati a quella gingnerebbe dei re. Desse dunque Latoiò la moglie graeiJa : e da essa aacrjua
poscia Arunlc dopo la morie di Demaralo]. opera, moitranJosene degno, di
ricererc il comando dai Romani spontaneamente. Lieto Lucumone de’ successi,
ornai presso alle porte, supplicò gl’ Iddi! che verificassero gli augurj ;
supplicò che gli dessero un ingresso felice, e si mise dentro la città. Quindi
venuto a colloquio con Marzio il regnante indicò primieramente chi egli fosse,
poi co> ni’ egli era deliberato domiciliarsi in Roma ; che avea perciò
portate seco le paterne sostanze, delle quali pos sedendone piucché un privato,
esibivale fin d’ allora in servigio de' Romani e del re. Lo accoke questi di
buon grado, ascrivendo lui co’ Tirreni compagni in una curia e tribò. Cosi
fabbricò Lucumone in città la sua casa, avutone in sorte il sito che bastasse,
e ricevutane pure' una parte di campagna. Ciò fatto, e divenuto del nu->
mero de’ cittadini, osservando come ogni Romano ha un nome comune, ed inoltre
uno patronimico e gentilizio, e volendo in ciò conformarsi, assunse, per suo
nome comune quello di Lucio in luogo di Lucumone, e pel gentilizio quello di
Tarquinio dalla città dove ebbe i natali e la educazione. In breve divenne 1’
amico del sovrano, donandogli ciocché si avvedea che più gli bisognava, e
porgendogli danari, quanti ne erano di mestieri per la guerra. Combattitore
benissimo a piede e a cavallo contavasi per sapientissimo quante volte bi
sognassero opportuni consigli. Nè già col divenire caro al monarca aveasi
perduto la benevolenza de’ Romani, ma si vincolò molti de’ patrizj co’ beneficj,
e tentò di affezionarsi la plebe col chiamarla, e salutarla, e conversarla
piacevolmente, e col porgerle danari ed altre significazioni di amore. Tale era
Tarqulnio, e per tali cagioni vivendo Marzio divenne il più cospicuo de’ Romani
; e morendo questo fu da tutti proclamato degno del trono. Salitovi fece guerra
in principio con gli Apiolani, popolo non ignobile del Lazio. Imperocché gli
Apiolani, come tatti del Lazio, credendosi colla mone di Marzio sciolti dai
trattati di concordia devastavano le campagne romane pasturandovi, e
saccheggiandovi. Di che volendo Tarquinio farli pentiti usci con grande armata,
e disfece quanto era il meglio del territorio di quelli. Ben sopravvenne gran
soccorso per gli Apiolani da’ popoli vicini del Lazio : ma egli attaccò due
volte battaglia con essi, e vintala due volte, si ristrinse all’ assedio della
città, spingendovi a mano a mano delle schiere 6n alle mura. In opposito
dovendo quelli della città combattere pochi di numero e senza intermissione
contro i molti e freschi, soccomberono alfine. Presa la città di forza, i più
degli Apiolani morirono con le arme in pugno : e se taluni le cederono, furono
venduti colle altre prede. Furono le donne e i fanciulli condotti schiavi da’
Romani : fu la città lasciata al saccheggio, e dopo il saccheggio alle fiamme.
Il re dopo' questo, e dopo rovesciate le mura da’fondamenti ricondusse in casa
le milizie; rivolgendole poi contro la città de'Crustumerini: colonia anch’
essa de Latini, la quale erasi ceduta a’Romani nel tempo di Romolo : ma
cominciava di nuovo a tenersela co’ Latini, dacché Tarquinio prese il comando.
Nè già bisognarono a questo assedj e travagli per umiliarsela. Imperocché li
Crustumerini vedendo la moltitudine venuta contro loro, la debolezza propria, e
la niuna aita de’ Latini verso di essi, aprirono le porte ; ed uscitine i più
anziani e più riveriti consegnarono a lui la citld, supplicandolo che usa^e
moderazione e clemenza. Ben fu l’ evento propizio ai desiderj: perciocché
andato quel inotutrca in città non vi uccise ninno, ma banditine per sempre
alcuni pociù, amatori della ribellione, concedè che gli altri ritenessero i
beni loro, e partecipassero come) prima alla cittadinanza romana. Ma perchè più
non si rimovessero, lasciò de’ Romani con essi. LI. Egual sorte incontrarono i
Nomentani datisi a pari consigli. Imperocché spedendo bande di ladroni ne’
campi de’ Romani si costituirono aperti loro nemici ; coutidaudu nella
confederazione de’Latini. Ma giuguendo Tarquinio su loro, e tardando il
soccorso latino, e non b.isiando essi contro tanti nemici, uscirono 'di città
coi simboli di pace, e si renderono. Gli abitanti di Collazia 111 archi narono
far battaglia co’Romani ed emersero dalle mura di essa : ma superati in tutti
gli attacchi e molto danneggiatine ; furono costi-etti rifuggirsi tra le mura,
e spedirono alle città de’ Latini per chiederne truppe compagne. Ma
indugiandosi questi, e presentando i ne terre, ninno resistendovi, e messo il
campo dinanzi la città, ne invitava gli abitanti a far pace. Ma ricusando
questi, e confidando su le fortibcaziooi dei ricinti, e concependo che
-verrebbero per loro schiere confederate d’ogn’ intorno, il re ne circondò con
truppe le mura, e le assalì. Resisterono lungo tempo i Cornicolani combattendo
virilmente, e coprendo di ferite gli assalitori, ma stanchi pei dalla
continuità de’ travagli, e piò stanchi eziandio dalla discordia, perchè non
erano più unanimi fra loro volendo altri la resa, ed altri la difesa della
città Gno agli estremi ; furono alGne espugnati. Li più generosi di loro
perirono fra le arme nella presa della città : gli altri, salvatisi come
ignobili, furono venduti schiavi insieme co' fanciulli, e colle donne, la città
fu prima abbandonata al saccheggio, e quindi alle Gamme. Dicchè malcontenti i
Latini deliberarono con voto comune di uscire io campo contro a’ Romani: e
fatto grande apparecchio di forze, si gettarono su le terre più buone di essi,
e v’ invasero assai prigionieri, e vi divennero signori di amplissime prede.
Volò Tar> quinio contr essi coll’ esercito spedito e pronto : nè po tendo
raggiungerli, portò su le terre loro simili calamità. Cosi per le vicendevoli
incursioni ne’ campi vicini.. 2()r molle lerano le perdite e gli acquisti di
ambedue. Vennesi con tutte le forze a battaglia ordinata presso Fi^ deoc; e
molti ne perirono da ambe le parti; ma vincendo inCne i Romani, costrinsero i
Latini a lasciare il campo, e fuggirsene tra la notte alle loro città. Dopo
quel comlntti mento marciò Tarquinio colle milizie schierate alle città de’
Latini esibendo ad essi la pace. E queste non avendo né riunite le forze'
comuni, nè ben confidando su’ proprj apparècchj, accettarono batteano questi nell’ ala destra ed aveano già
fugato gli emuli che eran con essi alle mani, ma l’ inaspettato presentarsi di
lui li sorprese e sconvolse. Intanto la fanteria romana riavutasi dalla paura
piombò su’ nemici. Allora grande fu la strage de’ Tirreni, e piena la rotta
dell’ala destra. Tarquinio dato avviso ai duci della fau> teria di tenergli
appresso in buon ordine, e passo passo, spinse di tutta lena i cavalli in su
gli alloggiamenti ne mici; e gl’ invase a prìm’ impeto, prevenendo quelli che
vi si riparavano dalla fuga. Imperocché quelli che ne erano in guardia non
avendo prima saputa la sciagura che invalse su i loro, né potuto distinguere
per la rapidità del corso quali cavalli venivano, lasciarono che entrassero.
Invasi gli alloggiamenti de’ Latini, quelli che dalla fuga vi accorrevano come
ad asilo, vi erano sorpresi ed uccisi da’ cavalieri che lo aveano preoccupato :
e se altri si fossero affrettati di là verso il piano s’ imbattevano' colla
fanteria romana, e ne perivano : li più di loro spintisi e concnlcatisi a
vicenda soccomberono con ignobile e miserabile fino intra i valli, e li fossi.
Dond’ è che quanti vi sopravanzavano non avendo via ninna di salvezza erano
costretti di rendersi ai vincitori. Tarquinio impadronitosi di persone, e robe
in copia vendè le prime, e concedè le seconde in premio ai soldati. LV. F allo
ciò si diresse alla città de’ Latini onde prendere combattendo quelle che a lui
non si davano : non però vi fu bisogno di assalti : ma si rivolsero tutte alle
umiliazioni ed alle preghiere ; e mandando oratori a nome del comune
supplicarono che desse fine alla gtierra co’ patti che gli piacevano, e si
renderono. 11 re divenutoi cosi l’arbitro delle città fu moderatissimo e
mitissimo verso di tutte : perocché non uccise, non bandì, nè multò niuno de’
Latini. Lasciò che godessero -le terre loro, e conservassero le leggi delia
patria : ma comandò che rendessero ai Romani i disertori ed i prigionieri senza
prezzo ninno: che restituissero ai padroni i servi, quanti presi ne aveano nel
fare le prede, agli agricoltori il danaro quanto ne aveano derubato ; e
compensassero tutti gli altri danni o guasti, se causati ne aveano nelle
scorrerie. Fatto ciò dichiarò che sareb-bero gli amici e li confederati de'
Romani se pronti sarebbero in tutto ai loro comandi. A tal fine venne la guerra
de’ Romani co’ Latini ; e cosi Tarquinio vinse e trionfò. L’ anno appresso
prendendo 1’ esercito, lo conduce contro i Sabini, avvedatisi già molto innanzi
dei disegni e de’ preparamenti suoi contro di loro. Non aspettarono questi che
la guerra passasse in sul proprio territorio ; ma premunitisi di forze
sufilcienti si avanzarono tutti ad un luogo. Fattasi ne’ confini battaglia fino
a sera non vinsero né gli uni uè gli altri, anzi molto ne furono afiaticati.
Quindi ne’ giorni appresso nè il duce Sabino nè il re dei Romani cavarono le
milizie dagli accampamenti: ma via via trasmutandoli, senza danneggiare le
terre, si ricondussero in casa ; ambedue coi disegno di piombare nella
primavera con armata più grande 1’ uno nel territorio dell’ altro. Poiché
furono ambedue preparali, primi si mossero i Sabini fiancheggiati da sussidio
sufficiente di Tirreni, e collocarousi presso Fidene, dove l’ Aniene concorre
col Tevere. Fecero questi due campi, l’uno dirimpetto, e come in continuazione
dell’altro; avendoci tra tutti due 1’ alveo delle correnti riunite, e sull’
alveo un ponte di legno congegnato di picciole barche, il quale rendea spedito
il transito dall’ uno all’ altro campo, anzi rendeali di due uno solo.
Tarquinio uditane la irruzione aach’ egli cavò le sue genti, e si trincerò
presso 1’ Aniene, alquanto più sopra di loro in una munita collina. Erano venuti
ambedue con tutto l’ardore a tal guerra ^ por non vi ebbe ninna battaglia
ordinata, non grande nè picciola. Imperocché Tarquinio con iscaltrezza di
capitano prevenne ed isconciò tutte le opere de’ Sabini, e ne distrusse l’ uno
e l’ altro campo. Lo stratagemma fa questo. Preparate e riempiute piociole
barche fluviali di legna aride e di zolfo e di |>cce ul fiame presso al
quale esso accampava, e poi colto uii vento propizio, ordinò che nella vigilia
mattuliiia si desse fuoco a qnei combustibili e si lasciassero le navi a
seconda della Corrente. Queste scorrendo iu breve tempo la distanza intermedia
percossero il ponte, e vi comunicarono ' in più luoghi r incendio. Accorsi per
ajuto i Sabini a tanta fiamma improvvisa, e datisi a far tutto, quanto giovasse
ad estinguerla, ecco intanto gingnere su l’alba Tarquinio coU’eseixito in
ordinanza; ed investire l’nno de’ campi, deserto di guardie, andate in gran
parte contro del fuoco. Pochi dunque sorsero a resistervi ; talché senza fatica
gl’ invase. Mei tempo di tale operazione altre milizie romane sopravvenendo
espugnarono anche il campo Sabino posto di là dal fiume: premesse da Tarquinio
nella prima vigilia erano su piccioli navigli valicate da sponda a spanda,
laddove fattosi di due fiumi uno solo, rimarrebbero invisibili nel passaggio.
Appena poi videro il ponte iu fiamme piombarono ( che tale ne era l’ accordo )
in sul campo dei Sabini : ove quanti ne erano o combattendo caddero appiè dei
Romani, o gittatisi a nuoto nella 'confluenza de’ fiumi nè resistendone all’
impeto, si affondaron tra’ vortici : peri nou picciola .parte ancora per
liberarne il ponte, tra le fiamme. Tarquinio, preso l’uno, e l’altro campo,
diede a’ soldati. le robe che vi erano percltè se le compartissero, ma '
condusse in Roma e guardò ’ con molta diligenza li prigionieri ; ben molti in
tutto, Sabini e Tirreni. Sentirono a tale sciagura i Sabini la propria
debolezza, e mandando gli ambasciadorì concbiusero, 00 ’ Romani una tregua di
sei anni. I Tirreni mal sop-, porundo che fossero tante volte vinti, e che
Tarquinio jer quante istanze ne facevano, non s rendesse i loro prigionieri,
anzi li ritenesse come ostaggi ; decretarono di spingere tulle generalmente le
città Tirrene in guerra contro de’ Romani e di non più riguardarla come alleata,
se taluna se ne ricusava. Cosi deliberati cavarono in campo le milizie, e
tragittato il Tevere si trincierarono presso Fidene. E prima s’ impadronirono
di questa con frodoienza, per esservi sedizione tra’ cittadini: poi fatti
prigionieri in buon numero, e condottesi via via gran prede dal territorio
romano ^ tornarono in patria. Fidene sembrava loro una piazza bonissima d'ar me
in tal guerra; e vi lasciarono guernigioue quanta ne bastasse. Ma Tarquinio
mettendo per la stagione seguente in arme tutti i Romani, e congregando il più
che poteva di alleali marciò sui giugnere della primavera contro i nemici prima
che riunitisi dalle varie città venissero su lui come 1’ anno d’ innanzi.
Dividendo in due parti tu'.ia 1’ armata, egli stesso ne andò colla milizia
romana contro le città de’ Tirreni : e fidate le truppe ausiliarie, per lo più
latine, ad Egerio il suo consanguineo, gl’ ingiunse di marciare conU'O Fidene.
E queste piene di disprezzo per l’ inimico, accampatesi in luogo non ben sicuro
presso delia città ; non fiirono per poco tutte disfatte. Imperocché le guardie
di Fideue procuratosi un rinforzo occulto dai Tirreni, e spiatone il tempo
opportuno, fecero una sortita ed invasero il campo nemico non bene difeso, e
grande fu la strage di qaein che erano usciti per foragghtre. la opposito la
milizia romana sotto gli ordini di Tarquinio, manometteva e depredava le terre
di Vejo, e traevane molti vantaggi. Ben si riunirono poi grandi snssidj da
tutte le cittA de'Tirreni in sostegno di Vejo : ma Tarqnioio diede ad essi
battaglia, restandone non dnbbiamente vincitore. Poi scorrendo a bell’ agio il
paese nemico lo devastò : Cnalmente lattivi molti prigionieri, e presevi assai
cose come in terre felici, essendo ornai per finire la state, si ricondusse in
casa. Straziati i Vejenti da quella battaglia non uscivano più di città, ma
dentro vi si teneano, mirando intanto sterminarsi le loro campagne : Perocché
Tarquinio uscito per la terza volta, privavali per il terzo anno dei prodotti
delle loro campagne, desolandole in gran parte : e non avendo poi come più
danneggiarli condusse 1’ esercito alla città di Cere, sigilla chiamavasi la
città quando i Pelasghi ne erano gli abitanti, ma soggiacendo poscia ai Tirreni
fu Cere nominata. Era questa felice e popolata quanto altra mai fra’ Tirreni.
Quindi ne uscì valido esercito a combattere per le proprie campagne, e molti vi
straziò de’ nemici ; ma perdendovi più ancora de' suoi, rifuggissene alla
cittàRimasti i Romani padroni di una terra la quale somministrava tutto in
abbondanza vi si trattenero molti giorni ; finché venuto il tempo di
ritirarsene menarono con sé quanta preda potevano, e si ridussero in casa.
Riuscitegli come desiderava le operazioni su Vejo, Tarquinio ricavò l’esercito
contro i nemici di Fidene per cacciameli, con ansia di punire quei che aveano
la ci ttà consegnata a’ Tirreni. Vi fu batttaglia tra’Romani Digitized by
Google LÌBRO III. 299 tf tra le ihilizie ascile da Fidene, e' poi darò
contrasto nell’ assalto delle 'mura. Fu la città pigliata di forza, e tatti li
prigionieri Tirreni legati e custoditi. Dei Fidenaii giudicati autori della
rivolta quale ne fu battuto pubblieatnente e poi decapitato, e quale bandito
per sempre. I Romani lasciativi per abitatori e custodi della città misero a
sorte e se ne appropriarono i beui. LX.
Occorse l’ ultima battaglia fra Romani e Tirrani' presso di Ereto nella Sabina.
Imperocché lì Tirreni erano venuti attraverso di questa incontro al Romano
persuasi dai potenti di que' luoghi che i Sabini militerebbero insieme con
essi. E certamente già era spirata la tregua sessennale conchiusa da questi con
Tarquinio, e molti ardevano dal desiderio di emendare le antiche disfatte,
essendo già cresciuta nelle città gioventù numerosa. Non pelò succedette ciò
come ideavano : perchè ben tosto si presentò l’esercito Romano, nè potè farsi
che ab cuna delle città mandasse un soccorso ai Tirreni ; e solo vi si
congiunsero alquanti volontari, e pochi reclutali a gran soldo. Fu questa
guerra la più grande di quante ne sorsero infra loro ; ed i Romani ne crebbero
meravigliosamente, riportandovi una segnalata vittoria, ed il Senato ed il
popolo decretarono a Tarquinio il trionfo, lu opposito lo spirito ue decadde
ne’ Tirreni ; perchè avendo spedito da ogni loro città tutte le milizie, non
riebbero salvi, se non pochi di tanti; gii altri o perirono tra la battaglia, o
fuggiti in luoghi non idonei per Io scampo, si arresero. Colpiti da tanta
sciagura i primarj delle città la fecero da savj ; perchè prendendo Tarquinio
una nuova spedizione su loro, essi riunitisi a consiglio deliberarono trattare
della pace ; e mandarono da ogni città plenipotensiarj anziani e riipettabili
per concilitiderla. Teneano questi al re che gli udiva ragionamenti, induttivi
a misericordia e moderazione, e ricordavano il parentado di lui colla lor
gente; quando Tarquinio disse che volea sapere unicamente, se disputavano
ancora intorno ai diritti e venivano per fare la pace con certe riserve ; o se
confessavausi vinti, e rendevano a lui le proprie città. E rispondendo questi
che le rendevano, e che desideravano la pace comunque loro si concedesse, egli
dilettatone disse : ascoltale con quali condizioni sono per dare la pace, e
quali benefizj vi dispenso con essa. Non io rn ho già nelt animo di uccidere, o
bandire, o multare alcuno de' Tirreni. Lascio Ifs vostre città senza
guarnigioni, senza tributi : lascio che vivano arbilre di sè stesse, e colla
forma primiUva di governo. Ma per tante cose che io concedo a voi giudico che
questa sola da voi mi si dia, cioè che io m'abbia la direzione suprema che pur
ni avrei delle vostre città quand anche voi noi voleste, finché io sono il
vincitore. Piacemi aver questo da voi sporta taneamerUe anziché di mai animo.
Andate, riferitene alle vostre città, lo vi prometto sospendere le armi, finché
torniate. Ricevute queste risposte andarono di volo gli ambasciadori; e dopo
pochi giorni ritornarono portando non già parole nude, ma i fregi stessi del
comando coi Anni di Roma i 65 ecoado
Caioae, 177 secondo Varrone, 587 avanli Cristo] ' 3oi qnali adornano i proprj
monarchi, la areano seguali di giogo e di esecrasione. Ma se acquistano in
guerra una vittoria ; se il irj di ogni città : e prima che 1’ armata de’
Romani venisse nelle terre loro, essi menarono la propria nelle campagne di
quelli. Come il re Tarquinio udì che t Sabiui aveano passato 1’ Aniene e che
devastavano per tutto intorno de’ loro accampamenti, prese : i giovani ro nani
più spediti e piombò di tutta fretta su’ nemici sparsi a predare. Ed uccisine
molli, e ritolta loro la preda che si recavano, mise il campo suo presso del
loro. Passati cosi pochi giorni, finché gli era di città venuto il resto delle
milizie, e le truppe ausiliarie dagli alleali, presentò la battaglia. LXV.
Vedendo i Sabini i Romani venuti con ardore per combattere, cavarono la propria
armata ancor essi, non inferiori nè di numero, nè di valore. Investitisi
combatterono con tntto 1’ aadire fin eh’ ebbero a fare coi soli schierati di
fronte : ma poi fatti accorti che marciava loro alle spalle un altro esercito
ordinato e ben fornito; abbandonarono le bandiere e dieronsi alla fuga. Era di
Romani 1’ esercito che apparve alle spalle, fanti lutti e cavalieri scelti,
disposti insidiosamente da Tarquinio tra la notte in luoghi opportuni.
Spaventali i Sabini da questi nomini inaspettati che li raggiungevano non
fecero più ninna bella azione ; ma quasi colti dagli inganni de’ nemici, ornai
sotto il nembo di danno irreparabile, tentarono chi d’ una e chi d’ altra via
salvare sè stessi. Allora appunto però soggiacquero a strage grandissima
inseguiti e rinchiusi d’ ogn intorno dalla cavalleria de’ Romani ; tanto che
pochi in lutto si ripararono nelle città vicine : gli altri, quanti non caddero
combattendo, rimasero prigionieri. Imperocché que gli lasciati negli
alloggiamenti nè ardivano respingere r assalto de’ nemici, nè uscire in
battaglia : ma cosierpati dal male impensato renderono senza combattere sè
stessi e quel posto. Le città de’ Sabini vinte come dai stratagemmi e dagl’
inganni non dalia virtù dei nemici, si accinsero a mandare ben tosto milizie
più copiose, e capitano piu sperimentato, Tarqajuio vedendo il loro dise^o,
guidò soliecitameotc l’ esercito, e passò 1’ Anieue prima che quelli si
potessero tutti riuuire. A tal nuova il duce Saltino andò prestissimo quanto
polea colla nuova armata e mise il suo presso al campo romano su di un colle
erto e dirotto : non giudicava però ben fatto dar battaglia se prima a lui non
giungevano le altre milizie de’ Sabini. Solamente spedendo • delle bande de’
cavalieri, e postando delle coorti nelle balze e nelle selve contro quelli che
uscivano a foraggiare, impedì che i Romani infestassero colle scorrerìe la
campagna. Per tal sua condotta di guerra molte erano le scaramucce, ma di pochi
fanti e cavalli, e niuna la battaglia universale. Adunque temporeggiandosi, e
sdegnandosi Tarquinio dell’ indugio, risolvè di andare colr esercito alle
trinciere de’ nemici, e più volte ne fece l’assalto: ma vedendo che non era
farìle espugnarli per la fortezza del luogo, destinò di abbatterli colla
penuria. E stabilendo delle guardie su tutte le vie che menavano’ al colle, nè
permettendo che i nemici andassero a far legna, e recassero foraggi pe’ cavalli,
o prendessero altro che facea di mestieri dalla regione; li ridusse a gravi
disagi. Tanto che furono costretti, cogliendo uoa notte burrascosa per vento e
pioggia, lasciare vergogno samenle quel luogo; abbandonandovi giumenti e tende,
e feriti, ed ogni apparecchio militare. I Romani cono; seiutane al nuovo giorno
la partenza, e lattisi padroni del campo senza contbattete vi predarono tende,
e giumenti ed ogni cosa, e conducendosi i prigionieri si ravviarono a Roma.
Continuò questa guerra cinque anai, 3o5 c gli uni (levasUnJo le campagne degli
altri; .diedero via via delle battaglie piu o men grandi, vinte di raro da’
Sabini, e spessissimo da’ Romani : i ma nell’ ultimo cimento ebbe interamente
il suo termine. Imperocché li Sabini non già di aumo in mano come dianzi ma
quanti per la età ' lo poteano, erano tutti in uh tempo stesso marciati alla,
guerra. In opposito i Romani tutti, raccolte le forze aosiliarìe latine,
tirrene, ed in genere degli alleati erano venuti a fronlè del nemico. 11 duce
Sabino dividendo le milizie ne avea fatto due campi : aveale il re dei Romani
compartite in tre corpi in tre campi non molto lontani fra loro, ed egli
comandava i Romani; dato ad Aruntc figliuolo del suo fratello il governo de’
Tirreni, e quel de’ Latini e degli altri ad un valentuomo per consiglio e per
arme, ma forestiero e privo della patria. Servio era il nome di lui, e Tullio
quello della sua stirpe : e fu quegli appunto cui dopo Tarquinio, morto senza
prole virile, i Romani inalzarono ai trono per amore del suo ben lare tra le
arme e nell’ uso della repubblica. Io sporrò ma nel suo luogo la prosapia, la
educazione, le avventure di quest’ uomo, c come gl’ Iddii per lui si
manifestassero. Allora dunque, poiché gli uni e gli altri vi furono apparecchiati, diedero la battaglia.
Avevano i Romani l' ala sinistra, i Tirreni la destra standosi i Latini
schierati nel centro. Durò vivissima tutto il giorno la battaglia finché
viuserla di gran lunga i Romani. Uccisero molti de’ nemici segnalatisi
nell’azione; e più ancora ne presero prigionieri tra la fuga. Espugnatone
INTONICI y t n> T, >0 l’uao e r altro accampamento ne ammassarono
ricchezze in copia, e signoreggiarono senza timore Hitla la campagna: e messala
a ferro e fuoco, e distruttivi gli alloggiamenti sen tornarono a casa ornai
tramontando la estate. Tarquinio a questa vittoria trionfò per la terza volta
nel suo principato. E preparando nelf anno seguente r esercito nuovamente per
condurlo contro le. città de’ Sabini, non più concepirono questi nulla di
magnanimò e di grande, ma deliberaronsi tutti per la pace prima di mettere a
pericolo sè stessi dei giogo, e le patrie della rovina. Pertanto vennero da
ogni città li Sabini principali a Tarquinio uscito con tutta 1' armata, e
cederongli le terre loro supplicandolo di miti condizioni : e colui
propensissimo ricevendo, perchè senza pericolo, il sottomettersi di quella
gente, fe’ tregua e pace ed amicizia co’ modi appunto co’ quali aveala innanzi
fatta co’ Tirreni, e rendè loro pur senza prezzo li prigionieri. Tali sono le
imprese militari di Tarquinio: le urbane e pacifiche son come sieguono; che già
non voglio passarle senza ricordo. Giunto appena ai comando desiderando, come
aveano fatto i re predecessori, di conciliarsi la plebe, se la conciliò con
questa beneficenza. Scelti fra tutto il popolo cento nomini a’ quali il
pubblico grido accordava virtù guerriere, o civil sapienza, li nominò patrizj
aggregandoli a’ senatori : i quali essendo fin’ allora dugento ampliaronsi al
numero di trecento fra’ Romani. Poi, quattro essendo le vergini Ad. di Boom 171 secoudo Catone, 173 secondo
Varronc, e. 58 i avanti Cristo] 3o7 custodi del fuoco inestinguibile egli ve ne
sopraggiunse altre due: imperocché cresciuti i pubblici sagrifizj ai quali
doveano intervenire le vergini Vestali ; non parve che quattro più ne
bastassero. Seguirono la istituzion di Tarquinio ancor gli altri principi, e
sei pur ne’ miei tempi si additano le vergini ministre di Vesta. Ed egli sembra
il primo, che guidato dalla ragione, o forse; dalle insinuazioni de’ sogni come
pensano alcuni, ideò li castighi co’ quali i sacerdoti puniscono quelle che la
verginità non conservano : e gl’interpreti delle sante coso dicono che que’
castighi si rinvennero dopo la morte di lui ne’ libri delle Sibille. Certo ne’
giorni suoi fu ravvisato che Pinaria Vergine, la figliuola di Pubblio,
an(lavasi con membra non pure ai sacri ministeri. Ho poi già dichiaralo nel
libro innanzi qual sia di tali castighi la forma. Egli abbellì circondando di
officine di artefici, c di altri apparecchi il Foro ove si arringa e si giudica,
e compionsi altre pubbliche cose : egli il primo deliberò di costruire con gran
pietre lavorate a misura i muri della città, già vili e grossolani: ed egli
prese a cavar la cloaca o canali sotterranei pe’ quali tutto, quanto scola
dalle strade, vasseiie a scaricare nel Tevere : meraviglioso è questo edifizio,
e maggior di ogni dire. Io tengo in Roma per tre magnificentissime cose, c
donde la potenza rilevisi dell’ impero ; gli acquedotti, i lastricati delle
strade, e le cloache ; non già che io ne rifletta la utilità della quale dirò
ne’suoi luoghi, ma si bene 1’ amplissima spesa. E ben può questa argomentarla
taluno da un fatto solo del quale io nc fo mallevadore Cajo Aquilio. Scrive
costui che non più scorrendo, perchè negligentale, le cloache, i censori le
diedero a spurgare e racconciarle per mille talenti. F e pur Tarquiuio il circo
massimo tra ’l colle Aventino e tra’l Palatino costruendovi il primo intorno
intorno sedili coperti. Certamente il popolo per addietro starasi in piede agli
spettacoli in cima a’ palchi, fondati su cavalletti di legno. Compartì
similmente il luogo in trenta spazj assegnandone uno per ogni curia, per^ chè
ciascuna sedesse e mirasse dal posto che le si doveva. Anche questo edifìzio
sarebbe col volger degli anni numerato tra le meraviglie bellissime della
città. Perocché stcndesi il circo per lungo tre stadj e mezzo, spandendosi
quattro jugeri per largo. Cinge i due lati maggiori ed uno de’ minori una fossa
profonda e larga dieci piedi per raccogliere le acque, e dopo la fossa i
portici sorgono con tre piani. I portici terreni han di pietra e poco elevati i
sedili come ne’ teatri ; ma di legno sono ne’ portici più alti. Concorrono i
due lati maggiori ad un tutto e congiungonsi fra di loro per via del minore che
formato in guisa di luna li termina: cosicché risulta da tre ordini un sol
porticato amGteatrale di otto stadj capace di cento cinquantamila persone.
L’altro de’ lati minori che restasi aperto contiene !e mosse donde i cavalli si
rilasciano, spalancandosi tutte in un tempo, ad un suono. • F uori dell’
amfìteatro evvi pure altro portico ma di un piano solo, il quale in sè contiene
le òfTGcine c sopra le officine le abitazioni. In ognuna delle officine sonovi
'ingressi e scale per chi viene agli spettacoli ; e con ciò' nOri siegue
confusione tra tante migliaja che vanno e tornano. Si accluse il re similineatc
a iàbbricare il tempio di Giove, di Glaaoue, di Minerva per adem> plere il
voto da lui fatto a quegl’ Iddìi nell’ ultima guerra co’ Sabini. Ma siccome il
colle destinato per la santa magione abbisognava di radili travagli, perché non
era questo agevole da salirlo nè eguale, ma scosceso e tutto ' acuto in su la
cima; eg^i ponendo intorno intorno altri ripari, e tra’ ripari e la cima assai
terra lo rendè piana ed acconcio! pel tempio. Non però s’ebbe il tempo di
metterne le fondamenta, Tnon essendo egli vissuto che quattro anni dopo il fin
della guerra. Molti anui ap> presso, Tarquinio terzo re dopo lui, quegli che
fu espulso dal trono, ne gitlò le fondamenta, facendo gran parte del sacro
edilìzio : ma noi compiè nemmen' egli, e solo ebbe il tempio il suo termine
sotto gli annui magisirati da’ consoli dell’ anno terzo. Ben’ è convenevole che
le cose ricordinsi accadute prima della erezione di questo, come pur le
ricordano quanti scrìssero la storia di quei luoghi. Deliberatosi Tarquinio a
far qnel tempio impose primieramente agli auguri, convocandoli, che spiassero
co’ divini riti quale in città ne fosse il loco più accon do e più caro a
que’Numi. E riferendo esser questo il colle che sovrasta al Foro, colle detto
Tarpeo di quei giorni, ed ora del Campidoglio, comandò che replicati i riti
santi additassero in qual parte principalmente del Campidoglio aveansene a
porre le fondamenta. Non era ciò cosi fàcile a definirsi ; perchè sorgendo io
sul colie a riverenza de’ genj, e de’ Numi altari in gran nume ro ; doveasi
trasportare questi, e lasciar libera l’ area pel tempio novello degl’ altri
Iddìi. Parve agli auguri di fare le divinazioni loro so di ogni altare, e poi
moverlo se il proprio Nome Io concedeva. Consentirono alquanti genj e Numi che
i loro altari fossero altrove portati : ma il Dio Termine è la dea Gioventù per
quanto gli auguri pregassero e ripregassero non gli udirono ; nè condiscesoro a
cedere il luogo. Adunque furono gli altari loro inchiusi nel tempio che
destinavasi: ed ora r uno resta nel vestibolo, e l’altro nel sacro ricinto
stesso di Minerva presso al simulacro di lei. Presagirono da ciò gl’ indovini
che ninna età mai nè li termini moverebbe né il florido stato di Roma : ciocché
si é già verificato fino a’ di miei per ventiquattro generazioni. Nevio
chiamavasi per nome proprio, ed Azio col nome della prosapia il più insigne
degli auguri, che trasferì quegli altari, definì il tempio di Giove, ed altre
celesti cose ridisse per la sua divinazione al popolo. Si consente che
carissimo egli fosse agl’ Iddii fi:a tutti del santo suo ministero, e che
conseguito avesse riputazione grandissima per le prove da lui date incredibili
e trascendenti nell’arte sua divinatoria. Io ne ricorderò solamente una la
quale mi fu meravigliosissima infra tutte, dicendo innanzi per quale incontro
di casi, e per quali divine occasioni venne in tanta chiarezza che fe’ tutti li
coetanei comparir dispregevoli. Povero fu il padre di lui, cultore d’ ignobile
campicello. Nevio il suo figliuoletto porgeagli l’opera sua, quanta per la .età
ne poteva, e guidava de’ porci, e pascevali. Caduto una volta nel sonno, nè più
rinvenendo al riscuotersi alcuni di quegli animali, ne pianse per timore de’
paterni castighl. Ma poJ venendo al tempietto sacro agli eroi nel suo
campicello, pregò che a lui concedessero di trovare le perdute cose ; egli
prometteva loro se ciò concedessero il grappolo più grande del suo poderetto.
Trovò indi a poco gli animali, e volea recare i promessi doni agli eroi: ma
'grande era 1’ ambiguità sua nel decidere il maggiore ira’ grappoli. Adunque
conturbatone supplicava gl’ Iddii che volessero col mezzo palesargli degli
uccelli ciò che cercava. Or qui per divino favore gli venne in mente di
dividere la vigna in parte destra e sinistra, e notare gli auspicj che in
ognuna occoiresero. Apparsi in una delle parti gli uccelli com’esso ve li
bramava, suddivise pur questa in due considerando gli uccelli che vi
capitassero. Determinandosi con tale distinzione di luoghi, e venendo da ultimo
alla vite indicala dagli uccelli: ebbe un tal grappo incredibile nella sua
forma. Egli recavalo appiè delle immagini sante degli eroi, quando il padre lo
vide. E meravigliato questi di una tal mole del frutto, e domandando d’ onde se
lo avesse : il figlio narrò dalle origini tutto il successo. Concependo colui,
ciocch’ era, che fossero questi naturali preludi della divinazione nel figlio,
lo condusse in città, e lo sottomise a’ maestri delie lettere. E poiché fu
nelle comuni discipline istrutto quanto bastava, affidollo all’ augure più
dotto fra’ Tirreni perchè Io erudisse nel suo sapere. Nevio che avea naturali
lumi per la divinazione, aggiungendovi pur gli altri de’ Tirreni ; superò di
gran lunga quanti erano intesi agli anspicj. Quindi nelle consultazioni sul
pubblico tutti gli auguri della città v’ invitavano lui quantunque non fosse
del Digitized by Google 3i2 delle Antichità’ romane ceto loro, per la
reltitudiae sua nel pronosticare, ti cosa mai vaticinavano, se non ' approvata
da lui. Ora volendo Tarquinio creare tre nove centurie di cavalieri da lui scelti, ed intitolarle
dal nome suo e degli amici, questo Nevio il solo magnanimamente gli resisti,
non permettendo che alcuna si alterasse delle istituzioni di Romolo. Disgustato
per la proibizione il sovrano, e sdegnato con Nevio diedesi a vilipenderne 1’
arte come di nn vano nè veridico parlatore. Con tale intendimento chiamò Nevio
nel suo tribunale essendovi moltissimi presenti del Foro.. Egli avea già
divisato con qnei che lo circondavano i modi onde convincere l’aagure di
menzogna: e lacendosegli questo dinanzi lo accolse con degnevoli salutazioni :
ed ora, disse, o Nevio è il tempo di mostrare il potere delf arie tua divinatoria.
Siccome io macchino di pormi ad una gran cosa ; vorrei per f arte tua risapere
se possa riuscirmi. Or va : consultane co' riti tuoi, o toma il più presto per
dirmene : io qui su questa sede ti aspetto. Esegui l’ augure i comandi, e dopo
non molto tornò dicendo che propizj erano gli auspicj, e fattibile £ intento di
lui. Diè Tarquinio in un riso a tali voci, e cavando dal seno una cote ed un
rasojo gli disse: ora ben apparisce o Nevio che tu mi deludi, deluso che se’
manifestamente dagl Iddii, dacché ardisci anrutnziarmi possibili, le
impossibili cose : per Nel testo ^vXmt tribù : ma i chiaro che parlandosi di
cavalieri non debba pensarsi a tribù : Forse vi ò qualche sbaglio. Gli altri
storici in questo luogo chiamano centurie quelle che Dionigi chiama tribù ciocché
io meditava se potessi col rasojo fendere questa cote per mezzo : ridevano
tutti d’ intorno, e Nevio niente commosso dalla beffa e dallo strepito :
ferisci, disse, o Tarquinio animosamente come ideavi la cote: perciocché ne
sarà divisa, e se no ; mi ti offero ad ogni pena. Sorpreso il re della
confidenza dell’augure mena il rasojo su la cote, e l’ acume del ferro ne
penetra r interno e dividela, incidendo anche in parte la mano che la teneva.
Esclamarono per la novità quanti contemplavano la incredil.'ile e
meravigliosissima cosa. Tarquinio vergognatosi del cimento dato a quell’ arte,
c voglioso di emendare la indecenza de’ vilipendj ^ primieramente cessò da que’
suoi tentativi su 1’ ampliar le centurie ; poi risoluto di onorare Nevio come
il più caro di tutti i mortali ai celesti, obbligosselo con pegni vari e
copiosi di benevolenza ; e perchè la memoria se ne perpetuasse tra’ posteri
collocò la statua di lui, fabbricala in rame, nel Foro : e questa, più picciola
di nn uomo mezzano, e velata il capo, esisteva pur nel mio tempo dinanzi la
curia, da presso del fico sacro. Dicesi che poco lungi del fico sia la cote
sepolta ed il rasojo sotto di un’ ara sotterranea ; e quel luogo chiamasi il
pozzo da’ Romani. Tali sono i ricordi che si hanno su questo indovino.
Tarquinio ornai chetavasi dalla guerra, vecchio già di ottanta anni ; quando
mori tra gl’ inganni de’ figli di Anco Marzio. Aveano questi macchinato fin da
principio di balzarlo dal trono, e più volte vi si erano adoperali su la speranza
che, balzatone lui, diverrebbe di loro come trono un tempo del padre, e die (li
leggieri ad essi darebbonlo i cittadini. Delusi via via dalla speranza gli
ordirono alfine insidie insuperabili che gii Dei non permisero che restassero
impninite. Io narrerò la forma delle insidie. Quel Nevio del quale io dissi che
erasi opposto al re che volea di meno far più le centurie, questi (piando più
per le arti sue Boriva, quando potea sopra tutti i Romani come augure
nobilissimo, allora sia per invidia degli emuli, sia per insidie de’ nemici,
sia per altra sciagura, spari di subito da’ mortali ; nè alcuno potè de’
congiunti indovinare il destino di lui, nè più trovarne il cadavere.
Addoloratone il popolo, e mal sopportando il suo danno, e molto sospettando di
molti; i figli di Marzio ne ristrinsero su Tarquinio l’ accasa. E non potendo
allegare argomenti e non segni della calunnia ; insisterono su queste due ombre
di ragione. Era la prima, che volea Tarcpiinio far molti e gravi attentati
contro le pubbliche norme ; e che però si era tolto d’ intorno chi sarebbe •per
contrapporsegli come per l’addietro : la seconda era poi, perchè succeduto
tanto infortunio non aveane fatta niuna ricerca, ma trasandavalo in tutto : nè
avrebbe mai cosi praticato chi non era tra’ complici. E fattosi col dispensare
de’ loro beni, gran seguito di patrizj e di plebei diedero gravissima accusa a
Tarquinio, e stimolarono il popolo a non trascurare un tanto scellerato che
stendea le mani su le sante cose, e la regia autorità contaminava ; molto più
che egli non era un romano, ma un estero, anzi uno senza patria. Tali cose
dicendo nel Foro uomini ; autorevoli nè infacondi ; concitarono molti plebei
perchè lo rispingessero se venivaci come impuro da quel luogo. Ora cosi fecero,
perchè nè poleano combattere la verità nè persuadere al popolo che dal trono il
cacciassero. Se non che dissipando lui con difesa validissima le incolpaeioni,
e Tullio il genero suo, potentissimo tra la moltitudine, risvegliando verso lui
la tenerezza de Romani ; furono quelli avuti per calunniatori e scellerati, e
carichi di vergogna partirono dal Foro. Sconciati in tal tentativo, ma tuttavia
per> donati per opera degli amici, perchè Tarquinio contenevasi a fronte di
tanta perfidia in vista de’benefizj pa gravidasse, e ne partorisse poi Tullio.
Certamente non par la novella affatto credibile : pur la rende inverisimile
meno un tal altro segno divino inopinato e meraviglioso intorno di quest’ uomo.
Imperocché sedendosi un' tempo egli di mezzodì nella regia camera, e presovi
dal sonno ; una fiamma gli usci balenando dal capo. Videro questa la madre di
esso e la regia consorte, che per la camera passeggiavano, e quanti erano
presenti alle donne : e luminosa gli si tenne intorno intorno del capo finché
accorsa la madre riscosselo. Allora insieme c ciansi nemmeno le picciolo
ingiustizie, e solleverai li poveri co’ benefizj, e co’ doni ; e quando ne
parrà tempo, (diora diremo che Tarquìnio è morto ; allora gli daremo pubblica
sepoltura. O Tullio ! tu nudrilo, tu educalo, tu renduto partecipe da noi di
tanti beni quanti ne derivano i figli da padri e deUle madri, tu congiunto alla
nostra figliuola, tu se mai divieni, o Tullio, re de’ Romani, è giusto che
almeno in riguardo mio la quale tanto in ciò ti coadjuvai, presenti la
benevolenza di un padre verso questi teneri fanciuU letti : e che quando siano
già grandi, quando già bastanti a regnare, tu renda (diora al primogenito la
corona di Roma. V. Così dicendo diede' 1’ uno e 1’ altro fanciullo in braccio
alia 6glia ed a! genero : e risvegliò tenera compassione verso di ambedue ; poi
quando ne fu tempo, uscita di camera impose ai domestici che assistessero, come
richiedeasi, per la cura, e convocassero i medici. Lasciala passare la notte,
siccome nel giorno appresso accorse gran turba alia reggia ; ella si fe’ vedere
alle finestre che rispondono alla via dinanzi dell atrio : e su le prime
scoperse quelli che aveano congiurata la morte del sovrano, e quindi presentò
tra le catene i sicai'j mandati per compierla : e quando vide il popolo in
pianto per la sciagura, quando videlo fremere contro de’ malvagi ; alfine gli
disse, che pur non era la perfida trama riuscita, e che potuto non avevano
trucidare Tar quinio. Confortavansi tutti all’ annunzio ; quando ella mostra in
Tullio il personaggio eletto dal re, finché guariscasi, per curare le private
sue cose, e le pubbliche. Adunque andossene il popolo, lieto come se il re non
avesse niente patito di terribile, e gran tempo si rimase con questo concetto.
Tullio cinto da’ regj littori marciò con valida schiera al Foro, e fece pe’
banditori intimare che venissero i Marzj al giudizio. E siccome questi non
ascoltarono ; ne proclamò 1’ esilio perpetuo, ne confiscò li beni ; e cosi
tenne sicuro lo scettro di Tarquinio. Ma sospendendo alquanto la narrazione,
vo’ dir le cause per le quali io nè con Fabio consento nè con quanti scrivono
che i fanciulletti lasciati da Tarquinio eran suoi figli ; perchè se altri si
avviene in quei scritti non creda che io improvvisi quando non figli li chiamo,
ma nipoti. Essi divulgarono ciò su que’ garzoncelli, ma per' negligenza ;
niente considerando gli assurdi eie im cuni Storici Romani levarli con altri
assurdi, e dissero che non era già madre de’ fanciulli Tanaquilla ma Gegania,
una donna, di cui nulla additarono le istorie. Ma in tal caso riesce improprio
il matrimonio di Tar> quinio nella età quasi di ottanta anni, e certo
inverisimile riesce in quella età la generazione di figli. Nè già egli era
mancante di prole ; tanto che ne languisse pei desiderio : ma egli avea due
figliuole e queste già maritate. In forza di tali assurdi e di tali
impossibilità dico che que’ fanciulli non eran figli ma nipoti di Tacquinio ;
nel che sieguo Lucio Pisene, uomo savio, e funii co che ciò scriva ne’ suoi annali.
Ma forse eran questi, nipoti a Tarquinio per nascita, e figli per adozione, e
forse fu questa la origine dell’ abbaglio di tutti gli Storici delle cose
Romane. Or dopo un tal prologo egli è tempo di ripigliare la narrazione. Vili.
Poiché Tullio prese le redini del ^ornando, e dileguata la fazione de’ Marzj,
giudicò di averselo consolidato ; fe’ con magnifica pompa trasportare
Tarquinio, come spirato alfine per le ferite ; condeoorandolo di un cospicuo
monumento e di altri onori : e tutore essendo de’ regi fanciulli ; e curò e
guardò fin d’ allora le privale loro cosce le pubbliche. Non andavano tai fatti
a grado de’ patrizj, ma doleansi e sdegnavansi, mal soffiando eh’ egli a sé
stabilisse il regio potere senza le
Addì, di Roma sec. Catone, 179 scc. Varrooe : e 577 avanti Cristo] forme
prescritte dalle leggi. E riunendosi più volte i più potenti, trattavano fra
loro de’ mezzi onde abbattere TiU legittimo governo. Ora parve ad essi, come
fossero la prima volta adunati, per tenere il Senato, da Tallio di violentarlo
a lasciare i littori e le altre insegne del comando ; e fatto ciò di nominare
gl’ interré da’ quali si scegliesse regolarmente chi dominasse. Tallio,
risaputo il disegno, si diede a favorire il popolo, c soccorrerne i poveri,
sperando coll’ opera sua di ritenere r impero. £ chiamata la moltitudine a
concinne, presentò dinanzi la ringhiera i fanciulli ; e poi disse : IX. Molle
cause o cittadini ihi astrinsero a prender cura di questi teneri garzoncelli.
Perciocché Tarquinio l m>olo loro accolse e curò me privo di padre e di
patria, nè fecemi punto meno che a un figlio; ma diedemi la sua Jìgliuola in
isposa, e mi amò finché visse, e mi onorò sempre, come sapete, quasi fossi da
lui generato : e poiché fu colto dalle insidie egli affidatami in caso di morte
la cura de' fanciullettì. Ora e chi mi stimerebbe pietoso verso gl Iddf, chi
giusto verso gli uomini, se io trascurassi e tradissi questi oifani a quali
tanto io sono debitore? Ma nè io tradirò la mia fede, né darò per quanto è da
me, 1 ultimo abbandono, a fanciulli già derelitti. Ben è giusto che ricordiate
voi li benefizj che l avolo suo dispensava su voi quando a voi subordinava
tante città Latine emide del vostro principato, quando vi umiliava i Tirreni i
pià potenti tra tutti i vicini, e quando neces^ sitava al vostro giogo i Sabini
; procurandovi ognuna di tali cose in mezzo a grandi pericoli. Speltavasi a voi
per tanta sua beneficenza di essere grati a lui finché visse, e di esserlo dopo
la morte in verso dei posteri -suoi, e non già di seppellire coi cadaveri dei
benefattóri la memoria ancora delle opere. Pensatevi dunque tutti eletti
custodi de’ fanciulli, reusicurate per essi il regnò che t avo ad essi
lasciava. Già non tanto benerisentiranno essi dalle cure di me che son uno,
quanto ‘dal soccorso, comune di voi tutti. Io mi vedo necessitato a dir questo
; sentendo che > alcurù commovonsi contro loro, e vogliono dare ad altri il
co mandò. Io vi. supplico o Romani, che memori ancora siate de' combattimenti
che .io feci pel vostro princù pato, i quali np pochi sono nè piccoli. Ma ben
sa^ pendolo voi, non occorre che altro io vi dica, se non che rivolgiafe su
questi fanciulli gli obblighi che me ne avete. Imperocché non io per me
fabbrico il prir^ cipato : nè se io mel cercassi, ne era già meno degno degli
altri; piacemi solamente amministrare il comune in sussidio della stirpe di
Tarquinio. Io vi raccomando che non vogliate ahbtmdonare a sé stessi questi
farin ciuUi ora che il regno ne pericola : sarebbero anche espulsi da Poma, sé
fauste riuscissero le prime mosse ai nemici. Ma non debbo io più dilungarmi su
ciò, mentre sapete voi quello che dee farsi, anzi siete per fare quanto
conviene.. Ora udite il bene, che io a voi apparecchio, e pel quale qui vi
adunai. Quanti a debiti saziacele nè potete levarvene per la indigenza,, tutti
sarete da me soccorsi come cittadini, e come già tanto affaticati, in servigio
della patria; pert;hè voi che avete fondata la libertà di lei, la vostra non
perdiate : io porgerò del mio danaro onde i debiti estinguiate. Inoltre quanti
torranno ad imprestilo io non più soffrirò che sieno imprigionati per debito :
ma porrò per legge che niuno dia de' prestiti assicurandoli su la persona di
uomini liberi, mentre io penso che basti agli Usuraj di rivalersi su bèni de'
contraenti. E perchè da 'ora in poi sosteniate più di leggeri il tributo pubblico,
pel quale i poveri sono gravati, e ridotti a far debito ; comanderò che si
registrino tutti i beni, e che ciascuno dia secondo l' aver suo, come odo che
si pratica rtelle città più grandi e meglio ordinate ; mentre ancK. io credo
più giusto e più vantaggioso al Comune che chi più possiede più paghi, e meno
chi meno, Piacemi inoltre che il terreno pubblico f quello che avete
corsquislato colle Urrtse > non sia come ora de più impudenti, nè che per
compera ve lo abbiate, nè indarno: ma che quelli se lo abbiano infra voi che
privi sono di terre : perchè voi liberi essendo non serviate, nè coltiviate le
campagne altrui, ma le pròprie ; imperocché già non allignano generosi
pensièri' ov’è disagio del vitto quotidiano. Soprattutto ho deliberalo render
pari e fàcile il governo per tutti, e dàce a tutti eguale azione contro
chiunque; perciocché sono alcuni venuti in tanta baldanza che oltraggiano il
popolo, nè. liberi stimano i poveri fra voi. Ora perchè i più grandi nemmeno
che gl’ infimi esigano' e Soffrano il giusto;, io farò leggi proibitive della
violenza, e lonservOtrici dei diritti lomuni: nè mai lascciò di provvedere a
questa libera procedura di lutti conlto tutti. Sorsero, lui cosi dicendo,
grandi elogj tra la moloi gli esuli, e di ceden’i ai figli di Marzio, a quelH
che vi lumno ucciso Tarquinio, quel re si buono, e sì amico di Roma, a quelli
che macchiatisi in tanta scelleraggine, non osando risponderne in giudizio, si
tolsero a voi colla fuga, a quelli in fine a quaU avete voi t acqua interdetta
ed il fuoco. E se ben tosto non vòlavane a me t avviso, tali patrizj eccitando
una forza straniera, avrebbero di bel nuovo introdotto nel cuor della notte i
fuorusciti in Roma. Ben vedete voi quantunque io le taccia, le seguile, come i
Marzj favoriti da' patrizj sarebbonsi impadroniti senza fatica di tutto,
atsalendo primieramente me che il custode sono della regia prole, me che t
autore fui del giudizio contro di loro, e spegnendo finalmente i regj
fanciulli, e tutti I consanguinei, e tutti gli amici, quanti ve ne restano, di
Tarquinio. Misere le nostri ritogli, le nostre madri, le nostre figlie, e
misere le femmine tra noi! le avrebbero que' ribaldi ( tanta lumno di brutale e
di tirannico ! ) terwie in' conto di schiave. Ora se tanto o popolani piace a
voi pure, che qua si riammettano, anzi che re si proclamino i parricidi, e che
i figli se rie scaccino de’ vostri benefattori, e dal trotto . tolgano che V
avo ad essi lasciava ; se tanto, dico, a voi piace ; io mi cheto su destini. Ma
deh ! per gli Iddj, deh / pe’ genj tutti, quanti le mortali cose riguardano ( e
noi colle nostre donne, noi co’ nostri figli supplichiamo voi pe’ tanti
benefizj ancora che Tar quinio su voi spondeo perpetuamente, e pe’ tanti, eh’
io stesso vi procurava ), deh ! coruredeteci questo dono ; manifestateci i
vostri voleri una volta. Se voi credete altri più degni di noi di tale onore ;
questi fanciulli f e tutto il parentado di Tarquinio, partiranHo,
abbandoneranno la vostra città. Io poi ben altri più generosi consigli ho per
me ! Ahbcatanza vissi alla virtù, abbastanza alla gloria : mancatami la vostra
be^ nevolenza, quella che io pregiava più che tutti i beni, già non voglio io
vivere indecorosamente presso di abtri. Prendete i vostri fasci, dateli, se
così piacevi, ai patrizj. Io mel vedrò, -nè mi oppongo. Cosi dicendo, e già
standosi in atto di ritirarsi sorse un clamor vivo per tatto, nn pregare, an
piangere, perchè restasse, e governasse nè temesse. Allora alcuni, sparsi ad
arte qua e là pel Foro, gridarono che si creasse re, che si convocassero le
curie, e sen chiedessero i voti. Così preordinato T evento; ben tosto il popolo
tutto vi propendè. Tallio ciò vedendo non trascurava la occasione: ma
professandosi ad essi obbligatissimo che memori fossero de’ benefizj, e
promettendone più ancora se re lo creasseró ; prescrisse il gionu> de’
comizj ; ordinando che v’intervenissero lutti dalla campagna. Accorso il popolo
; egli chiamando una per una le curie consegnava ad esse i lor voti. E
giudicato da tutte le curie degno del trono ; vi ascese. : nè curò del Senato
che non volle come solea ratificare la scelta del popolo. Cosi re divenuto
fondò molte altre istituzioni, e fece grande e memorabile guerra co’ Tirreni.
Io dirò prima delle istituzioni. Appena strinse lo scettro comparti tra’
mercenarj Romani le terre del comune : poi fe’ comprovare le leggi su i
contralti e su le ingiustizie dalle curie, estese ^illora a cinquanta,
quantunque non sia ora ciò da ricordare. Aggiunse a Ronia il Viminale, e
l’Esquilino due colli, cosi nominati, capaci T uno e 1’ altro di nna città
liguardevole, dispensandoli parte a parte ai Romani privi di case, perché ivi
se le fabbricassero ; anzi egli stesso ivi ediCcò la sua nel sito più idoneo
delle Elsquilie, Fu questo 1’ uhimo re che ampliò il circuito, della città,
congiungendo ai cinque gli altri due colli, dopo avere presi gli aiigurj e
compiute le usate pie cerimonie inverso gl' Iddj. Non poi la citti mise mai più
da largo le sue mura ; non avendolo, come dicono, permesso i destini : ma tutti
intorno i sobborghi che pur sono molti e grandi, si resuno so>perti, non
chiusi da mura, ed espostissimi, se nemico mai sopravvengavi. Che se alcuno
mirando a questi, voglia la grandezza racco-r glierne di Roma ; egli errerà
certamente : perocché noo avrà nino certo seguo, dal quale discernere fin dove
la città si oontinua o dove si termina. Cosi bene que’ sobborghi al fabbricato
inleroo si congiungono, che presentano a chi li contempla la immagine come di
una città che stendesi all’ iii6nito. Ma se taluno prendendo regola dalle mura,
certamente malagevoli a distinguersi per le molte case fabbricatevi intorno, ma
che pur sevv bano via via de’ vestigj dell' aulica loro struttura voglia
risaperne il circuito in ristretto dei circuito di Alene; vedrà che il ricinto
di Roma non molto eccede quello di Atene. Ma quanto alla grandezza e bellezza
che Rpma presenta a miei giorni ; avremo appresso luogo più acconcio a
discorrerne. Poiché Tullio comprese entro un giro solo di oiura i sette coili ;
divise la città in quattro parti ; de-' nominandole da que’ colli, 1’ una
Palatina ^ l’ altra Siiburrana, la terza Collina, e 1 ultima Esquilina. Cosi
distese a quattro le tribù che erau tre sole. Intimò poi che chiunque abitava
1’ una delle quattro parti, quasi paesano di quella nè portasse in altra il suo
domicìlio, nè in altra desse il nome suo pe' cataloglù militari, nè il tributo
per le spese della guerra : in somma che noi^ rendesse in altra i servigi che
doveansi pel comune; nè più ordinò le milizie secondo le tre tribù disposte
come prima per genti ma secondo le
quattro da lui create e compartite ne’varj luoghi ; destinando per ciascuna un
capo qual sarebbe un tribuno o prefetto, il quale dor vesse conoscere il
domicilio di ognuno. Quindi ordinò che in ogni quadrivio si facessero da’
vicini picciole sacre cappelle agli Dei lari custodi della contrada, istituendo
per legge che ogni anno si onorassero di aagrifizj, e che ciascuna famiglia
porgesse loro le obbla-zioni sue : comandò che assistessero e ministrassero à
chi facea tal sagri6zio non gl’ ingenui ma i sèrvi ; dilettandosi quegl’ Idd)
del ministero di questi. Continuano i Romani pur nel mio tempo pochi giorni
dopo de’Sa tumali tal festa, veneranda in tutto e magniBca, e detta compitale
da’ quadrivi che compiti da .loro si chiamano.
Romolo fece ire tribù eecondo te diverse genti : erano la tribù, la
prima Ramnentù dei Romani posti ad abitare nel Palatino, la seconda TatUnsU da
Tasio, ebbe il monte Capitolluq, e la tersa dei Luceri a luco o dal bosco dato
per asilo i era degli stranieri che aveano ivi cercato nn rifugio. Col
progresso del tempo siccome la gente aggregala a Roma superara il popolo
primitiro ; COSI Tullio fece una nuova divisione di tribù.. a 5 Serbano nel
sagrifìzio 1’ anticx) rito, placaodo gl Iddj Lari con intrametlervi i servi, a’
quali tolgono in quei giorni quanto tien forma di servile; perchè riconfortati
da tali dolci maniere ove è misto del grande e dell’ono, riGco sì affezionino
più vivamente ai padroni e men sen> tano il peso della loro condizione. Inoltre,
come Fabio scrive, divise tntla la campagna io ventisei parti, chiamandole
tribù parimente : e congiunte queste alle quattro urbane se ne ebbero trenta
inAutte : ma Yenonio dice che se ne ebbero trentuna : laddove Catone ben più
autorevole di essi (,) afferma che le tribù ne’ tempi di Tullio furon tutte,
non però distinguene il numero. Tullio dunque secondo gli atupizj divisa la
campagna in tante parti, quante mai furono, apparecchiò su luoghi montuosi e
fortissimi degli asih\ chiamandoli pagos con greco nome o castelii, onde
renderne salvi i coloni. Imperocché .quivi tutti si rifuggivano ndle irruzioni
de’ nemici, e quivi spessissimo pernottavano. Ci aveano in questi de’ presidi
incaricati di conoscere i nomi de’ coloni, contiihnenti a quel borgo, e li
poderi su quali viveano. E se mai portava il bisogno di convocare que’
contadini per le arme, o di esigere da ciascuno le lasse ; questi li
congregavano, o ne raccoglievano le somme. £ perchè la moltitudine non fosse
difGcile a trovarsi, ma facile a descriversi e palese; fece erigere degli
altari ai Numi contemplatori e custodi del luogo, perché quella ogni anno vi si
riunisse e ve gli onorasse con pubblici sacri Gzj, istituendo Di Fabio • di Venonio. tal (ine la festa soleanissima delta dei
viUagi ."^Anzi intorno a tali sagrifizj scrisse leggi che i Romani ser
bano ancora. Per tal sagriSzio, per tal celebrità volle cbe contribuissero
tulli una data moneta, altra però gli uomini, altra le donne, ed alu'a gl’
impuberi : talché numerandosi queste dai, presidi delle sante cose rilevavasi
il totale degl’ individui secondo il sesso e la. 6tà. E volendo, come scrive
Lucio Pisone nel primo degli annali, conoscere quanti erano domiciliati in
Roma, quanti vi nasceano o vi morivano, o toccavano la età virile; stabili qual moneta dovessero
i parenti vergare per ognun che nasceva nell’ erario di Eileitia, detta dai
Romani Giunone Lucifera, o in quello che chiamano di Venere Libitina, là nel
bosco, per ognun che moriva, o in quello della Dea Gioventù per ognuno che alla
virile età perveniva. Da queste monete intendeasi ogni anno quanti erano in
tutto, e quanti aveano idoneità militare. Ciò fatto diede ordine, che i Romani.
registrassero, apprezzandoli inargento, i lor beni, e giurando di apprezzarli
come dee 1’ uomo candido e buono t e che insieme dichiarassero quanta era la
età loro, quali i padri loro, le mogli, ed i figli ; aggiungendovi dove in
città soggiornassero, o in quale de’ villaggi d^Ho campagna ; e chi non &cea
pari stima era in pena spogliato de’ beni, flagellato e Venduto. Dorò questa
legge lungo tempo tra Romani. XVI. Cosi prese da tutti 'le stime, e rilevatone
il numero di essi, e la grandezza de’ beni loro introdusse (l) Ciut Paganaliu.
una instituzione savissima che fu poi larga fonte di beat a’ Romani, come il
fatto stesso Io dimostrò. La islit zione fu di segregare dal resto del popolo
quei che aveano sostanze più grandi non però minori di cento mine, e di
ordinarli in ottanta centurie , le quali, armandosi, portassero scudo argolico,
elmo di bronzo, corazza, stivali, asta e spada. Poi separandole tutte in due
parti formò quaranta centurie di giovani per le spe> dizioni in campo aperto,
e quaranta de’ più adulti, le quali in città si restassero per custodirla
quando le altre uscivano per la guerra. E questa era la milizia, prima di
ordine ; per altro i giovani aveano sempre il primo luogo onde proteggere tutta
l’armata. Dal residuo quindi del popolo segiegò quelli ancora che aveano meno
di cento mine non però più scarse di settantacinque, compar lendoli in venti
centurie che portassero arme, simili a quelle de’ primi, toltane la corazza e
dato ad essi lo scudo lungo in luogo dell’ argolico (u). E dividendo quelli di
oltre quarantacinque anni dagli altri che aveano età militare formò dieci
centurie di giovani, le quali an Nel Cesto Xt^gn: questa roce k ambigua: può sigaificare
centuria, manipolo, coorte. Il traduttore latino la interpreta per centuria : e
questa pare la nozioue piti acconcia : ma deve riflettersi che cengia: vai
quanto compagnia di cento, laddove in questo luogo non significa cento
esattamente ; ansi ne] paragrafo iS di questo libro significa ben altro che
cento. Tra I LATINI ci ebbe io Cfypeut e lo tculuni. Il primo era detto cevrir
da’ Greci, ed il secondo Bv/if i il primo era più breve e sièrico, l’altro piò
lungo. La nostra lingua, come di un popolo che più non usa quelle armi non ba
forse parole ben disliute o note pet indicare la doppia forma. Targa, Rotella o
Broccbiero può forse dirsi il C/fpeus, e scudo è voce generica di ogni sorta di
quelle armi. Digitìzed by Google a8 DELis Antichità’ romane dassero in guerra
per la patria, dieci di anziani che in
gtiardia rimanessero delie mura. Era questa la milizia, seconda di ordine, e
prendea luogo dopo de' primi nella battaglia. Una terza ne fece di quelli che
aveano meno di settantacinque mine non però sotto le cinquanta; ma ne minorò T
armatura non solo delle corazze come alla seconda; ma de’ stivali ancora.
Descrisse pur questi in venti centurie dividendoli parimente secondo 1’ età,
talché se ne avessero dieci de’ più gióvani, e dieci de’ più maturi. Era il
luogo loro nelle battaglie appunto dopo quelli che seguivano i primi. XVII.
Trasse un quart’ ordine di soldati da quelli che avean meno di cinquanta, e non
meno mai di venticinque mine; disponendolo in venti centurie, dieci dei floridi,
dieci de’ provetti per anni, come avea fletto cogli altri ; e dando loro per
arme scudi, aste, e spade, e r ultimo posto nelle battaglie. Reclutò la quinta
milizia da quelli che avean meno di venticinque mine, non però meno di dodici e.
mezzo, acconciandola kcondo gii anni di ognuno in trenta centurie, quindici de’
più avanzati, e quindici de’ più giovani. Diè loro strali e Sonde, ma luogo
fuori deli’ esercito, Uiesso in battaglia. Comandò che quattro centurie allatto
inermi accompagnassero tutte le altre : cioè due di annajuoli, di falegnami, e
di altri per altro militare lavoro, e due di sonatori di trombe e timpani e di
altri stromenti pe’ bellici segni. Ma gli arteflci seguitavano la miUzia dà
second’ ordine : e distinti anch essi per età, quali se. guitavano le bande de’
giovani, e quali degli anziani. I^addove i sonatori di trombe e di timpani
lenean dietro alla miUzia quarta di ordine ; distribuiti anch’ eglino in
giovani e vecchi. Erano li centurioni tmcelti fra' tutti li più insigni nelle
arme; e reggea' ciascuno la sua centuria docilissima ai cenni. Tale era il
metodo onde avessi la soldatesca legionaria e leggera. Scelse poi la cavallerìa
dai più facoltosi, e più cospicui di lignaggio, e formatene diciotto centurie
le dié compagne alle prime ottanta centurie de’ legionarj. Erano pur di queste
diciolto, chiarissimi lì centnrioni. Finalmente ridusse ad una centuria gli
altri tutti, ben più numerosi de’ primi che aveano men che dodici mine e mezzo,
e gli escluse dalla milizia e li rese immuni da ogni tributo. Cosi risuitaron
sei ordini che i Romani dicono classi denominandoli con greca parola :
imperocché quello che noi significhiamo colla voce imperativa colei ( chiama )
lo significan essi coll’altra cala (>) ed anticamente caleseis pronunziavano
in vece di classi. Comprendeano queste classi cento novanutrè centurie.
Formavano la prima Bovantotto centurie compresevi quelle de' cavalieri :
ventidue cogli artefici la seconda : venti la terza : di nuovo ventidue co’
sonatori di trombe e di timpani la quarta ; trenta la quinta : ed era dopo
queste una centuria uuica la classe de’ poveri (a). Calo catas tt antico veibo latino por
chiamare j donde pur cbbesi la noce Calerule. (a) Classe prima. 9S -seconda aa
' tersa. ao quarta aa quinta 3 o sesta. Introdotto un tale sistema, iatimava i
soldati per la guerra secondo le centurie, e li tributi secondo li beni. Quante
volte a lui bisognassero dieci o ventimila soldati ; avendo distinta la
moltitndine in cento novantatrè centurie, imponea ebe desse ognuna la sua
parte. Calcolando, le spese da farsi pe’ frumenti e per gli bisogni di guerra ;
egli stesso le compartiva secondo gli averi di ognuna tra le centurie, ordinate
in cento novantatrè. Seguitò da questo ebe i possidenti piò grandi essendo
minori di numero ma divisi io più centurie fossero sensa requie astretti a più
guet're, e vi contribuissero danaro più ohe altri : laddove i possidenti
mezxani e piccioli quantunque più numerosi, ridotti in meno centurie, non
combatteano che alternativamente e di raro, né pagavano se non leggeri tributi
; e quelli che non possedeano quanto rìchiedevasi, erano intatti da ogni
molestia. Nè ciò facea senza causa ; ma persuaso che gli averi sono per 1 uomo
il premio della guerra,. e ohe ciascuno travaglia per difenderseli ; riputò
giusta cosa, ohe chi pericola su più beni, più ancora al pericolo si opponga colla
robba e colla persona : che men di molestia risenta in ambedue chi men
perderebbe: e finalmente che chi non teme per cosa ninna non sia nemmeno in
cosa alcuna aggravato, immune da’ tributi perchè bisognoso, e libero dalla
guerra perchè libero da’ tributi. Imperocché li soldati Romani militavano
allora, ciascuno a spese sue non lo stipendio riceveano dal pubblico ; nè
pensava altronde che avesse a contribuire chi non aveane i mezzi e stentava il
vitto quotidiano : nè che colui che non contribuiva militasse a spese altrui
qual mercenario. G)sl rivolse Ai più ticchi tatto il carico de’ pe ricoli e
delle spese : vedendo però che sen disgustavano^ nè raddolcì per altro modo il
mal contento, e ne rat temperò lo sdegno, concedendo ad ewi tal prerogativa per
cui gli arbitri sarebbero del pubblico esclusine i poveri. Nè comprese il
popolo di ciò che facessi le con srguenze. Era la prerogativa ne’ comitj, ove
dai popolo risolveansi. le cose le più gravi. Ho già detto di sopra come il
popolo secondò le antiche l^gi era 1’ arbitro di tre cose grandissime e
necessarissime : cioè di eieg> gere i suoi capi in città e nel campo, di
ammettere o di abrogare le leggi, e di conchiudere la guerra o la pace.' E tali
cose discuteva, e decidevate il popolo per curie, parrggiandovisi il voto del
grande a quello del picciolo possidente. ^ E siccome pochi, come avviene, erano
i facoltosi ; ma più assai li poveri; cosi preva leano questi ne’ comlej.
Tullio ciò vedendo trasferì nei ricchi la prepotenza de’ voti. Imperocché
quando pare vagli di' far creare i Magistrati o discutere le leggi, o
Conchiudere la guerra teneva i comizj non più per ci^ rie, ma secondo le
centurie anzidette. E prima chia mava a dare il Suo volo le centurie di maggior
possi densa le quali èrano ottanta di fanti e diciotto di cavalieri. Or' queste
più numerose che le altre di Un tre quando
fossero unanimi, superavano le altre ; e la di scussione avea fine. Che se non
si univano queste in uu parere ; invitava allora le ventidue scritte nel se
coud’ ordine., £ se i voti sciudcvansi ancora ; soprac Erauo noTanioUo, e le altre tutte
novauUoinijue. cbianuva le centarie di terz’ ordine : iodi quelle del quarto, e
cosi via via, finché novantasette centurie si trovassera consentanee. Che se
ciò non ottenessi neppure colla quinta, chiamata, ma le cento novantadue
centurie si contrapponeano con parti eguali.; invitava allora 1’ ultima
centuria che era de’ bisognosi, e però libera dai tributi e dalla milizia. E
qualunque fosse la parte alla quale accostavasi questa centuria ; quella
preponderava. Ma ciò era ben raro a succedere, per non dire impossibile ;
mentre il più delle discussioni termi navasi col chiamar de’ primi ordini senza
procedere al quarto. Doud’ è che l’ invito de’ quinti e degli ultimi superduo
riusciva. Istituendo tal sistema e tal prerogativa inverso de’ ricchi, Tullio
deluse, come ho detto i poveri ; né sei conobbero, e furono esclusi dalle
cariche. Immaginavano questi che essendo richiesti un per uno a dare il suo
voto, ciascuno nella sua centuria, avessero egual parte nel tutto : ma s’
ingannavano : perchè uno era il voto della intera centuria, e qual centuria
conteuea. men cittadini e quale più i^sai ; e perchè prime votavano le centurie
più ricche, più numerose per serie, quantunque con men cittadini. Aggiungi che
un solo era il voto de’ bisognosi, quantunque fossero i molti ; ed aggiungi che
ultimi si chiamavano. Per tal metodo i ricchi, quatunque assai soggiacessero a
spese, né avessero mai requie da’ perìcoli della guerra, men sentivano il Erano le centurie senza l’ultima 193. numero
la cui metà è 96. Affinchè dunque vi, fusse preponderanza doveva un parlilo
nascere almeno da 97 e I' alito da 96 ocniutia.peso ; perchè erano gli ariìitri
divenuti di gravissime cose, ed aveano tolto agli altri tutto il potere.
Altronde i poveri se non aveano che la minima parte nelle pabbliche cure sei
comportavano placidi e ebeti, perchè liberi dai tributi e dalla guerra. Dond è
che que’ medesimi i quali consigliavano ciocché era da fare ; quegli appunto se
ne mettevano ai pericoli ed alle opere. Durò tal sistema per molte età tra’
Romani. Ma ne’ tempi miei fu variato, e renduto più popolare per forza di
grandi necessità, non perché le centurie fossero disciotte ; ma perchè non più
serbavasi 1 antica diligenza nel chiamarle; come io stesso, presente più volte
ai comizj, ho veduto.: ma non è questo il tempo conveniente a parlar di ciò.
Tullio data cosi regola al censo, comandò che tutti i cittadini andassero colie
armi al campo più grande dinanzi Roma : e là, messi in squadre i cavalieri,
ordinati li fanti in battaglia, e ridotti i soldati leggeri, ciascuno nelle
proprie centurie ; li espiò con un toro, un ariete ed un capro. Egli fatte
condurre prima tre volte le vittime intorno dell’ esercito le sagri Beò poscia
a Marte, Nome sovrano di quel luogo. Anche a miei giorni vengono i Romani
purificati con egual cerimonia, che essi chiamano lustro, dopo &tto il
censo, da que’ che n’ esercitano' il magistrato santissimo. Come rilevasi da’
libri de’ censori, il, catalogo de’ Romani che si registrarono ascese allora ad
ottantaqnattro mila settecento. Prese questo re non picciola provvidenza per
ampliare le classi del popolo, ideandone de' mezzi sfnggiti a suol
predecessori. Imperocché provvidero questi a far moltitudine ricevendo i
forestieri e consociandoseli senza divario di natali o di sorte. Ma Tullio
concedè che entrassero a parte della repubblica pur gli schiavi Fenduti liberi,
se mai non volevano ripatriare. Àdon que permettendo che registrassero le loro
sostanze iusieme con gii altri uomini ingenui gli ascrive fra le tribù urbane
che erano quattro fra le quali ritrovasi aa cora la discendenza dai liberti, e
fece che vi godessero quanto gli altri vi godeano di diritti. Disgustandosi di questo e mal sopportandolo i
Patrizj ; egli convocatane la moltitudine disse : cho meravigUctvasi
primieramente de' malcontenti se credei vano che t uomo libero differisse dal
servo per natura piuttosto che per la, sorte : e secondariamente se mv~
stiravano gli uomini degni di onori non dai costumi né dalle maniere, ma dalla
prosperità, vedendo quanto caduca, e quanto mutabile sia la prosperità, mentre
TÙuno, nemmeno de’ più felici, può dire quanto tempo gli durerà. Considerassero
quante città barbare e gre^ che erano di serve divenute libere, e di libere
serve. E qui condannava la grande loro incongruenza mentre rendevano liberi
uomini degni di esserlo, e poscia ad essi invidiavano la cittadinanza : e
consigliavali piuttosto a non liberarli, se malvagi li riputavano: ma -se ripa
tavanli buoni, non li vilipendessero quantunque forestieri. Dicea, che ben era
informe nè savia cosa che essi ammettessero alla loro cittadinanza tutti i
forestieri, senza distinguerne la sorte, o por mente, se erano servi divenuii
liberi ; e poi tenessero come indegni di tal graeia ^elli stessi che erano da
loro liberati : e dicea, che essi i quali credeano più saperne che gli altri
non vedeano poi le cose presenti, elementari, e piane anche ai più inetti':
cioè che assai penserebbero i padroni anon rendere liberi cosi di leggeri i
servi se poi doveano accomunarseli alle cose più grandi fra gli uomini : e che
i 'servi assai più si studierebbero di far Fatile de’ padroni, se capivano che
resi liberi sarebbero ancora cittadini di una città grande e beata ; e che
ambedue questi beni Se gli avrebbero appunto dai padroni. Da ultimo fattosi a
ragionare su F utile pubblico ricordava a chi io sapeva, ed a chi noi sapeva
insegnava, che una città che aspiri al comando, una città che pre pansi alle
grandi cose, non dee niun bene cercare quanto F aumentò del popolo, onde aver
forze contro tutte le guerre, e non distruggere Ferario con assoldare gli
estranei, perciò dicendo che i primi re concedevano a forestieri la cittadinanza.
Che se ora adottavano la sua legge; aggiungeva che per loro via via crescerebbe
una gioventù numerosa, nè sarebbero mai scarsi di soldati ; anzi che ne
avrebbero abbastanza quantunque fossero astretti far guerra contro di tutti. Vi
sarebbero ancora oltre le pubbliche, altra utilità non poche pe’ ricchi se
lasciavano che gli schiavi renduti liberi avesser parte nelle adunanze ; mentre
ne sarebbero in queste nel maggiore bisogno favoriti co’ voti o con altre
decenze, e la scerebbero ne’ discendenti di essi altrettanti clienti ai posteri
loro. Consentirono a tal dire i patrizj che si am> mettesse un tal uso in
repubblica: e vi persevera ancora, custodito come una delle leggi sacre ed
inviolabili. E poiché son venuto a tal parie di narrawoue ; parmi necessario
adombrare i costami de’ Romani in que’ tempi sopra gli schiavi ; perchè niuno
riprenda nè il re che tentò volgere in cittadini gli schiavi già liberi, né
quei che la legge ne ammisero, quasi abbiano incautamente abolito istituzioni
bellissime. Ottenevano i Romani dei schiavi per giustissime guise:' imperocché
gli aveano o comperandoli dal pubblico che metteali qual preda all’ incanto, o
concedendo un capitano che si appropriassero i presi in gnerra insieme con
altre cosej o redimendoli da altri che gli aveano. con eguali marniere
acquistati. Mé Tallio che lo introdusse, nè gli altri che lo riceverono e
serbarono; tennero come vituperoso e nocivo al pubblico il costume pel quale si
ridonasse la libertà e la patria da chi possedeali come schiavi, a quegli
uomini che spogliati in guerra di patria e di libertà si erano utili dimostrati
verso i primi che gii aveano soggiogati, o verso altri che gii avevano
comperati dai primi. Ricuperavano moltissimi la libertà gratuitamente in vista
deir onesto e bel procedere loro : e questo era il più onoridco mezzo onde
riaversi : pochi ne sborsavano un prezzo, accozzato con legittime e caste
fatiche. Non è però così di presente, ma sono le cose in tanta confusione, e
cosi belle virtù de’ Romani sono invilite e bruttate; che chiunque trae danaro
da crassazionl^ da sfasci, da prostituzioni o per altre ree guise, costui con
tal prezzo redimesi, e diviene un Romano. Ottengono altri un tal dono dai loro
padroni, divenutine i complici degli avvelenamenti, delle uccisioni, e. delle
ingiustizie contro la : repubblica e contro gl’ Iddj : tal altri Digitized by
Goo e de’ Veietiti, -già prime ad insorgere, e colpevoli di aver mosso le altre
alla guerra co’ Romani, queste in pena le multa della campagna, coi divise in
sorte tra gli ammessi di fresco alla cittadinanza di Roma. Compiate tali cose
in guerra ' ed in pace, e fondati due tempj l’uno nel Foro boario, e l’altro in
riva del Tevere alla Fortuna sembratagli propizia tutti i suoi giorni, e da lui
chiamata Kirile come chiamasi ancora ;
alGne provetto assai per età, nè lontano ornai dal suo termine, morì tra le
insidie dei genero suo e della Gglia. Io dirò di queste insidie ma
ripigliandone il GIo alquanto da lungi. Avea Tullio due Gglie, nategli da
Tarquinia, sposata a lui dal re Tarquinio medesimo. Divenute nubili le
donzelle, cugine dal canto materno a’ nipoti di Tarquinio, diedele appunto a
questi per mogli, la più grande al più grande, e la minore al minore ; cosi
parendogli che meglio converrebbobo a chi le prendeva ; Tullio fondò piò che due tempj. Fiutar, in
quest. Rom. 74 Ma la fortuna ViriU fu
coosccrata da Anco e non da Serrio secondo lo stesso Plutarco De Fortuna Roman,
se non che per la diflbrmità de’ costami si trovò ì’ua genero e l’ altro
accoppiato col sao contrario. Lucio il maggiore, baldanzoso, caparbio, tiranno
per indole, ebbesi la fanciulla, savia ^ mansueta, piena di amore paterno:
laddove Arunle il più tenero, mite molto per genio e tutto affabile, se ne ebbe
la iniqua, e tutta ardire, e tutta odio contro del padre. Ora seguiva che
movendosi ognuno a seconda del genio suo venivane ripiegato in contrae rio
dalla sua donna. Ardea lo scellerato dal desiderio di balzare il suocero dalla
reggia : ma intanto che a tale disegno applicavasi, erane dai voti contrariato e
dal pianto della consorte. In opposito il mite sposo, fermo in cuor suo che non
aveasi ad offender il suocero ma che do veasi aspettare che la natura ne
consumasse la vita, ni tollerando che il fratello commettesse quella
ingiustizia, era spinto in contrario dalia ribalda sua compagna, che lo
istigava e garrivalo, rimproverandolo come vile. E poiché niente poteano nè le
suppliche della savia donna che insinuava il suo meglio al non giusto suo sposo,
nè le istigazioni della malvagia che provocava ai delitti Taomo suo, che non
era temperato a commetterne; ma ciascuno seguiva l’indole sua tenendo per
molesta la compagna perchè non avea desiderj uniformi ; la prima ne piangeva,
ma comportava l’acerbo suo caso, quando l’altra fremevane audacissima, e
cercava come togliersi dal sno camerata. Or qui levatasi di mente la
scellerata, considerando quanto bene a lei si confarebbe il marito della sua
germana, sei fa eh iamare, quasi per abboc carsegli di necessarie cose. E
poiché fu venuto; ordinando che si rititasserò quanti eran seco per discorrere
sola con solo Or su, disse, o Tarquinio posso io liberamente e senza pericolo
ridire quanto medito pel bene di ambedue ? Lo celerai tu quanto sei per udire ?
o vai meglio che io taccia, nè palesi V arcano' consiglio ?, £d invitandola
Tarquinio à dire, e certificandola coi giuramenti, qualunque ne volesse,
cbe-taóerebbe i discorsi ; ella non più contenuta dalla verecondia >neO‘
amici che abbondano, ed altre comodità copiose e grandi per imprendere. Che
più, dunque t’ indugj ? u4 spetti forse il tempo che per sé stesso venga e ti
dia la corona senza che pur te ne brighi ? Quando ? dopo la morte di Tullio ?
Jippunto la fortuna riguarda gl’ indugj degl’ uomini, appunto la natura pon
fine alle vite secondo la proporzione degli anni ! Anzi oscuro, incomprensibile
è f esito delle cose mortali. Sebbene, io lo dirò pur francamente, quandi anche
tu me ne chiami temeraria, una a me sembra, una la causa per la quale niente
commoveti, non l’ amor degli onori non della gloria. Hai tu donna mal conforme
a tuoi modi; e questa li lusinga, e t’ incanta, £ ammollisce : e da questa
rendalo men che uomo diverrai finalmente un ignoto. Così pure quel marito eh’ è
meco, tutto paura, e senza nulla di virile, quegli ha depresso me ch’era nata
alle grandi cose, quegli ha fatto il fiore languir di bellezza che mi avvivava.
Se portava il destino che tu prendessi me per moglie ed io te per marito, già
non saremmo tanto tempo vivati nella ignobilità de’ privati. Che dunque non
emendiamo le colpe della sorte ? che non trasmutiamo il matrimonio ? che non
togli tu dalla vita cotesta tua donna ? Io sì che apparecchio per quel mio
marito /’ egual trattamento. E quando, spenti questi ^ ci sarem conjugcUi y
allora consulteremo con 'sicurezza sul resto, liberi già dagli ostacoli che ci
conturbavano. Che so altri per cUtre cause teme la ingiustizia ; già non è da
riprendersi chi tutto ardisce per dominate. Mentre Tullia cosi diceva, ne
ascoltava Tai> quinio con diletto i disegni : e dando immantinente e
ricevendo i pegni di fede, e le primizie dell’ empie nozze, si ritirò. Non andò
guari tempo ; .e perirono p^ eguale sventura la primogenita di Tullio, ed il
minor de’ Tarquinj. E qui sono astretto a far parola di nuovo di Fabio, e
riprenderne la negligenza nell’esame dei tempi. Imperocché fattosi alla morte
di Arante non. pecca per questo capo solo come io dinanzi dicea, che deaerivelo
per figlio di Tarqninio ; ma per l’ altro ancora che narra, che mortosi Arunte
fu sepolto dalla madre Tanaquilla, la quale non potea di que’ tempi più vivere.
Conciossiachè giù di sopra fu dimostrato che costei numerava settantacinque
anni, quando mori Tarquinio. Ora aggiungi a questi altri quarant’ anni, giacché
sappiam dagli annali che Arunte mancò nell’ anno quarantesimo del regno di
Tullio; e saran gli anni di Tanaquilla cento quindici. Tanto picciola nelle
storie di que^ st’ uomo é la cura intorno la ricerca del vero ! Dopo ciò
Tarquinio senza indugio riprese in Tullia una moglie, ricevendo lei da lei
stessa, e senza che la madre approvasse, o consolidasse il padre quelle nozze.
E come que’ due impurissimi, come que’ due micidiali si congiunsero, tentarono
di cacciare se noi cedea di buon grado, Tullio dal trono: e teneano perciò
delle conventicole, e raunavano que’ senatori che aveano cuore alieno da lui e
dalie forme di un governo’ popolare, e comperavano i più bisognosi della città
quei che non Bveau cura ninna della giustizia, facendo intanto tutto senza
nasconderlo. Tullio vedendo ciò, ne fu contur baio, e temette di essere
sorpreso da qualche infortunio. Nè dovrebbesi meno se dovesse far guerra alla
figlia ed ai genero, e pigliarne vendetta come di nemiri. Adunque invitò molte
volte Tarquinio a discorso in mezzo degli amici ; ora redarguendolo, ora
ammonendolo ed ora esortandolo a non far contra lui mancamento. Poiché però
costui non lo attendeva, e pretestava che direbbe in Senato i suoi diritti;
egli stesso adunando il Senato, incominciò : Tarquinio o senatori ( e ben mi è
ciò manifesto ) Tarquinio tien dei congressi; Tar~ quinio m insidia lo scettro.
Io da lui voglio, presenti voi, risapere, qual privata ingiuria ha da me
sostenuta, o qual vede che io ne ho fatta sul pubblico per insidiarmi. Rispondi
Tarquinio, non '{infingere, di che avresti tu mai per incolparmene? È questo il
Senato, ove di essere udito desideravi. E Tarquinio replicò : Breve o Tullio
sarà il dir mio, ma giusto ; e però voleva io profferirlo tra questi. Tarquinio
V avolo mio possedè la reggia di Roma, e molti e grandi travagli sostenne per
essa. £ lui morto, io, gli debbo succedere secondo le leggi comuni de’ Greci e
de Barbari. E convenivasi, come si conviene a quei che succedono agli avi, che
io ne ereditassi non pur le monete, ma la reggia : e tu mi davi le une, come
lasciate da esso, e mi toglievi la reggia, e già da tempo la tieni, senza
averla mai ricevuta a norma delle leggi : perocché nè gl’ interré vi ti
scelsero, nè i senatori mai per te davano il voto, nè assunto vi eri dacomizj
legittimi come l’avo mio e come tutti i re precedenti. Tu andavi al trono,e
comperando e subornando per ogni modo una turba di vagabondi e di miseri, una
turba rovinata nella stima per le accuse e pe’ debiti, una turba infine niente
sollecita del pubblico bene : e così andandovi nemmeno dicevi di stabilirlo per
te, ma davi' le viste di custodirlo per noi orfani e pargoletti: e dichiaravi,
udendolo tutti, che quando saremmo già adulti, lo renderesti a me che sono il
pià grande. Se dunque volevi tu far la giustizia, quando mi consegnavi la casa,
quando il danaro dell’ avo ; dovevi tu consegnarmene nommeno la reggia seguendo
V esempio dei tutori onorati e dabbene, i quali ponendosi alla cura de’ regi
figli, orfani de loro padi’i, rendono ad essi appena son grandi puntualmente e
santamente la signoria degli antenati. Che se ancora non io semhravati idoneo a
pensieri convenienti, ìiè bastante pei giovani anni a città si popolosa, dovevi
almeno restituirmene il governo quando io giunsi ai treni anni che son gli anni
vegeti del corpo e della mente, e ne’ quali tu mi davi la tua figlia in isposa.
Avevi pur tu questa età quando prendevi la cura della nostra casa e del regno.
Ti sarebbe, cosi facendo, accaduto di esserne detto pietoso e giusto, di essere
il partecipe de’ miei consigli, il partecipe degli onori, e di udirmiti chiamar
padre, e benefattore e salvatore ; e con
ogni bel nome, quanti ne sono destinati dagli uomini per le assioni le pià
preziose ; nè io già da quarantaquattr anni sarei privo del regno, io non
informe di corpo, io non disadatto di mente. E ciò stando y osi pur dimandarmi
quale aggravio io ne senta, sicché io labbia per inimico, e te ne accusi? Anzi
dX, Tullio, dì per qual causa non mi stimi tu degno degli onori delt avo ; dì,
qual ne trovi, qual ten ^ngi buon titolo di tal mia privazione ? Non pensi
forse che io sia germe puro di quella stirpe, ma intrusovi e spurio ? Come
dunque tu curavi un estraneo da quella famiglia ? o come, quando ei crebbe,
gliene rendevi la casa ? O pensi che io non lontano molto dai cinquant’ anni
> io pur siegua ad essere un orfano ? un incapace ed moneti del pubblico ?
Lascia dunque gli schemi di domande invereconde; cessa una volta di esser
malvagio. Che se hai giuste cose a rispondere io, son pronto di rimetterle a
questi giudici, de’ quali tu non potresti ih città rinvenirne altri migliori.
Ma se di qua levandoti ricorri tu, come sempre solevi, a quella tua ligia
moltitudine ; già non sarà che io mel soffra. Io qui sono appeaecchiato
disputare sul giusto ; ma lo sono ugualmente per eseguirmelo, se non miascolti.
Al tacere di lai ripigliando Tullio il discorso, così disse : Quanto è vero o
senatori che dee t uomo aspettarsi ogtd caso pià impensato nè crederne assurdo
rduno, se fn questo Tarquinia sta per levarmi dal pritKÌpato : questo Tqrquinio,
else io prendea, che io salvava fanciulletto da’ nemici che lo insidiavano, che
io educava e crésceva, e cresciuto, ' compiaceami di avermelo a genero, ed
erede infine di tutto se io patissi umana vicenda. Ma poiché tutto mi riesce in
contrario, e che ne sono ami accusato come ingiusto ; serberommi a piangere la
mia sorte, rispondendo ora su miei diritti a fronte di lui. O Tarquinio, io
presi la cura di voi lasciati fanciullini : nè già di voler mio, ma costrettovi
dalle brighe, la presi. Imperocché si dicea che quelli ette aveano
manifestamente ucciso I avolo vostro onde riprendersi il tròno, avrebbero occultamente
insidiato • anche tutto il parentado : e quanti a voi per sangue si riferiscono,
tutti confessano, che se quelli restavan gli arbitri del comando, non avrebbero
pur seme lasciato della stirpe de’ Tarquinj. Non ci avea curar tore, non tutore
ninno di voi se non una donna, la madre del vostro padre,. bisognosa ancor essa
di alr tri curatori per la cadente età siui. Rimanevate vm solo a me corifidati,
custode unico dell orbitade vostra, a me che ora chiami un estraneo, un che
niente a voi si appartiene. Jn tali turbolenze ponendomi al comando io punii
gli uccisori' deU’ avolo vostro', e ’ voi crebbi allo stato di uomini, nè
avendomi prole virile, io vi eleggea ^perchè à me succedeste. E questo o
Tarquinio il discarico della mia ‘cura; nè già potresti in parte alcuna
imputarmene di menzogna,. Ma quanto al regno, poiché di questo mi accusi, odi
come io me ìo abbia^ e le Cause per le quali non a voi lo ceda, nè ad altri.
Quando io presi 11 governo, avvedutomi che mi si tramavano delle insidie, volea
nelle mani riporlo del popolo. E chiamando tutti a concioAe, io già faceami a
cedere il comando per cambiare con una vita di calma e senza pericoli^ la vita
del comcmdare, la quale è piena di invidia, e sparsa pià di amarezze che di
piaceri. Non comportarono i Romani che io tanto eseguissi, nè vollero alcun
altro sul Comune, e me ritennero, ed a me diedero col consenso de’ voti, il
régno, quel possesso loro, o Tarquinia, e non vostro. Così pure l'Oveano già
dato all’ avolo vostro tuttoché forestiero, e niente congiunto col re
precedente ; sebbene Anco Marzio lasciava de’ figli maschi e floridi per anni ^
e non de’ nipoti, e piccioli, come Tarquinio voi lasciò. Se legge è comune di
tutti, che chi eredita le sostanze e i danari dei rei che cessano, debba
insieme r,iceverne il regno, dunque non fu Tarquinio l’ avolo vostro che al
morire di Anco ottenne là cotona, ma il figlio primogenito di questo. Ma il
popolo di Roma chiama al comando t uomo degno di averlo, e non il successore
del p’adre. Imperciocché giudica che le sostanze sieno di chi le possiede, ma
che il regno sia di quelli che il diedero ; giudica convenirsi che ottengano
quelle gli eredi per sangue o per testamento se i padroni sén muojono, e che
tomi l’ altro a chi ’l diede se vien meno chi preselo a reggere •; se non forse
hai tu da contrappormi che I avolo tuo ricevette il regno con tal condizione
che non potesse pià tortegli, e che lo tramandasse a voi suoi discendenti;
sicché non fosse pià t arbitro esso popolo, di conferirlo a m, levandolo a voi.
Ma se hai tu punto di simile, che noi produci? Ma non gli hai tu questi patti.
Che se io non ebbi il regno per buona via come dici, noneletto dagf interré,
noti portato dai senatori agli cffari, né compiendo il resto a norma dette
leggi; questi dunque, .questi ho 10 vilipesi e non te : e questi e non tu,
saria giusto che V autorità men finissero. Ma nè io violai questi, né cdtro
chiunque. Jl tempo tn é buon testimonio’, che 11 potere mi fu dato
legittimamente, e che legittima^ mente mel tengo. Imperocché già ne volge I
armo quarantesimo e niun Romano pensò mai che io commettessi, avendolo, una
ingiustizia ; e non il popolo, non il Senato mai si mosse a spogliarmene. Ma
lascisi pur tutto ità : diasi pur luogo alle tue ragioni. Se io te privava di
un deposito delt avo, se io mi ascrissi il tuo regno contro. tutti i diritti
degli uomini, convenivasi che tu a quelli ne andassi che mel diedero : che con
quelli ti ramaricassi e garrissi che io mi tenga te cose non 'mie ; è che essi
mi si obbligarono col dispensarmi t. altrui: e se tu il vero dicevi; di teneri
gli [avresti persiutsi. Che se tu non certificavi ciò cotuoi parlari ; e
tuttavia pensavi, indebita cosa che io regnassi, e che tu sei pià acconcio al
maneggio del pubblico ; potevi almeno, fatta ricerca diligente de miei errori,
e numerate le belle tue gesta, riclamartene giuridicamente la precedenza. Ma tu
non hai fatta, nè luna nè F altra cosa; e dopo tanto tempo, finalmente, quasi
riavendati da lunga ebbrietà, vieni per accusarmene e nemmen ora dove si dee. Canciossiachè, già
non conviene che queste cose qui dichi ( e voi non ve ne sdegnate o Padri.,
mentre io cosi parlo non perchè vi si tolga questa causa, ma per dichiararvi li
costui vanilotfuj ), ma conveniva che preaccennandomi tu. che aduneresti il
popolo a conciane là mi accusassi. Ora ciocché hai tu schivato, lo supplirò io
questo per te :• convocherò il popolo, lo Jarò giudice delle Mense che òuoi :
lascerò che decida di nuovo, qual sia pià idoneo di nói per comandare ; e
quello che là destinasi, quello adempirò. Ma basti il fin qui detto a
risponderti : perciocché toma allo stesso dir poche o molte ra^ni eon emoli che
non le apprezzano, men-, tre questi per indole nemmen soffrono ciocché li per-,
suada ad essere umani. Ben io mi meravigliava o senatóri che sdeuni di voi (se
ve ne sono ) volendo depor me, cospirassero con costui. F^olentieri udirei da
loro per qual mia ingiustizia mi fan guerra, o da quale mio trattò inaspriti.
Sanno essi forse che assai nel mio principato, perirono senza essere uditi, assai
furono spogliati, di patria, assai delle sostanze, o con altro sciagure affitti
? o non avendo a ridire su me niun tirànnico modo di questi, sono essi forse
conseqtevoli delle, mogli lóro da ma disonorate ; delle prof ansate loro verini
figlie, o di tal altra mia incontinenza su ingenue persone ? Egli è giusto se
in me sorto tali eplpe, che io sia, nonuì del regno privato, che della vita. O
può .dire alcuno che un superbo io sono, un esoso per la mia durezza,
un-iiHollerabile per la mia caparbietà nel governare ? Qual mai dei re
predecessori fu così moderato, così umano nel suo potere, o qual fu con tutti
come me, quasi un tenero patire co’ figli? Io quel potere che voi mi deste, voi
custodi di ciò che avete dagli avi ricevuto io non lo volli questo nemmen per
intero : ma creai leggi, ( e voi le approvaste queste leggi) su cose
principalissime,• e le intimai perchè tutti esigeste e rendeste cots-esse i
diritti, ed io stesso il primo mi vi sottoposi, docile come un privato agli
ordini, che io dava per nitri. Che più : non io mi tenni giudice di tutte le
ingiusti-‘ zie ; ma commisi che voi stessi giudicaste delle pri-, vate} ciocché
ninno uvea fatto dei re precedenti. ^Laon de, non vedesi in me colpa sicché
altri me ne contrarino. O turbano voi forse i benefizf miei verso del popolo ?
Ma non sarebbe così pensare un offendeivi ! se già tante volte con voi me ne
giustificai. Se nonché niente bisognano discorsi tali : se a voi pare chequesto
Tarquinio, preso il govermo, sia per ammiinistrarvelo anche meglio : io non
invidio a. Roma .il suo miglior principe. Restituendo il comandò al po-^ polo
che mel diede, e tornandomi tra privati, farò che vedasi chiaramente che io
sapea tanto, ben' io minare, ' quanto io posso dignitosamente servire^. 55
ascese in tribuna, e tennevi un patetico e Inngo ragionamento óve numerò le
gesta militari eh’ egli iece mentre viveva Tarquinio e dopo, e .ricordò mano a
mano le istitnaioni donde sembrava il Cornane prosperato di, molte ; e grandi
utilità. E venendogli dal dir di ogni fatto -amplissime lodi, e desiderando
ornai tutti sapere perchè li ridicesse, palesò finalmente come Tarquinio
accusa• vaio di' egli tenesse a torto un regno che a lui si doveva : e come
apaigeva che l’avolo gli avea nel morire lasciato con le ricchezze anche, il
regno, e che non po-, teva il popolo concedere ciocché suo non era. E qui
-^Vegliatosi in tutti clamore, ed. indignazione, egli intimando silenzio, piega
vali, che non impazientissero nè tumultuassero a quel dire : ma chiamassero
Tarquimo, e se. forse aveva giuste cose da esporre le conoscessero: e se lo
trovassero offeso, e se. piò idoneo a reggere, gli affidassero pure il comando
di Roma : egli se ne allontanerebbe, e renderebbelo ad essi da’ quali lo .ebbe.
Cosi lui dicendo e movendosi già per,i iscendere dalla ' tribiina,, proruppe da
tutti un grido, un gemito, un pregar vivo ebe non cederne ad alui.il comando. E
ci avea por chi esclamava elve si avesse a tempestare Tarqninio : e colui,
vista in fremito la moltitudine, temendo che non gli desser di mano ;
foggiasene cogli amici in casa. Allora tripudiando tutto il popolo ricondusse
tra gli applausi e le acclamazioai Tullio alla reggia. Tarquinio, veuutogK
meno, quel tentativo, fremè dal rancore, che il Senato non gli dess^ alcnn
aiuto, quàndo egli fidava su questo principalmente; e teuniesi per alcun tempo
in casa non conversandolo che gli amici. Quando la donna sua gli si fece a dire
elle più non dovea star mollemente a bada, ma ebe dovea^ lasciate le parole,
Tenire ai fatti, e primieramente cercar pace per mezzo degli amici da Tnib'o,
perché colui credendoselo riconciliato, meno il guardasse. E parendogli eh’
ella ben consigliasse, finse di esser pentito, e più volle per .mezzo degli
amici Orò caldamente Tullio affinchè lo perdonasse ; né difficilmente ve lo
indusse, essendo placabilissimo per indole, ed alieno da nna guerra
inestinguibile colla figlia e col genero. Ma venutogli poscia il buon ponto,
essendo il popolo sparso ne’ campi per la raccolta, egli usci cìnto di amici
co’pngnali sotto ' d^li abiti: dati i fasci ad alcuni de’ servi, e presa per se
regia veste ed altri simboli del comando, si recò net F oro ; e standosi
dinanzi la Curia, intimò che il banditore convocasse il Senato. E siccome ci
aveanO già pel Foro appostatàmente molti de’Patrizj consapevoli ed istigatori
del delitto ; allora si concentrarono. Intanto corso alcuno in casa di Tullio
lo informa come Tarquinio' ersi uscito con regie vesti, e chiamava i Padri a
consiglio. Stupitosi Tullio dell’ ardimento andò tra piccfolo seguito con più
velocità che saviezza: e giunto nella Curia) e vedutolo in sul trono, e con gli
altri distintivi reali, chi, disse, chi, scelleratissimo uomo, ti concedè
questi onori? e colui, /ìi, replicò, l’ardire tuo; fu la tua inverecondia o
J\dlio ; perocché non essendo tu libero, ma servo nato da serva e posseduto qual prigioniero dalT avolo mio,
ti arrogasti il comando di Roma. Tullio, ciò udendo, inaspritone, à biqciò fnor
di proposito su lui, come per isbalzaflo dal trono. Vide. 5'J TaitjaÌDio ciò
con diletto ^ e sorgendo dalla regia sede afferra e trasportasi Ini vecchio,
che grida, ed invoca i suoi. Giunto fuori della Curia egli florido e forte, le
vaio in alto > e trabalzalo giù per le scale che mettono al luogo de
contizj. Alzatosi appena dalla caduta il vecchio, cóme vide intorno, pieno
tutto de partigiaui di Tarquioio, e deserto e vuoto de cari suoi, partesene
malconcio e mesto con pochi che lo sostengono, e ricoóducoDO, mentre riga
intanto la via di sangue.Narransi dopo ciò le opere dell’ empia e barbara
figlia, tremende ad udirsi, come portentose nè credibili a farsi. Costei
sentendo che il padre era ito in Senato vogliosissima di conoscerne la fine,
venne in sul cocchio nel Foro : e conosciutavela, e veduto Tarquinio in su le
scale della Curia, essa la prima a gran voce lo salutò monarcA, supplicando gF
Iddii, che il regno di hii riuscisse propizio a Roma. E salutandolo monarca
altri ancora de’ cooperatori suoi, • lo trasse in disparte e di^se: Le prime
cose o Tarquinia te hai Ut faUe come àoveansL Ma finché vive TuUio non potrpi
renderli stabile il regno. Egli se abbia picciolo tempo di questo giorno ;
ecciterattene incontro il popolo ; e tu sai’ quanto il popolo tutto è per lui.
Su dunque' prima ih ei torni in casa, manda chi lo uo cida ; te ne libera. Ciò
detto, e sedutasi di nuovo in sul cocchio,. parti. Tarquinio convinto che la
iniquissima donna ben consigliava, spediscegli contro alquanti de’ suoi co brandi : e quelli trascorrendo
rapidissimaménte la via raggiunsero Tullio pressò la casa, e lo uccisero.
Abbandonato palpitavane ancora il cadavere per la strage recente ; quando la
figlia sopraggiunge : ma stretta essendo la via donde avessi à passare le mule
a tal vista si spaventarono : e 1’ auriga stesso .che le guidava mosso da
compassione si fermò e si volse a colei. La quale dimandandogli perchè mai non
procedesse : Non vedi, disse, o Tullia, che qui giace U morto tuo padre, nè vi
è transito fuorché, sul cada- vere suo ? E sdegnatasene quella, e levatosi lo
scAbello da’ piedi e lanciatoglielo disse : ’E non le guidi o stolto in sul
morto ? E colni gemendo anzi per la compassione elle per la percossa spinse
forzosamente le mole so del cadavere: E la via chiamata Olbia per addietro, fu dopo il tragico e barfiAro
caso, detta nélF idioma de Romani scellerata. Tale è il termine di Tullio dopo
quarantaquattro anni di regno. Dicono che qnest’nomo il primo alterasse ì
patrii costnmi e le leggi .ricevendo il principato non' dal Senato insieme, e
dal popolo come tatti i re precedenti ma dal popolo. sedo, guadagnane dosene la
classe > indige nte con' distribnzione e'donii, ^ altri sedncimentL E cosi
sta la'veritè; perciocché' nei •> (l) OAjStar >0 greco saU fiUce,
firtunaUn sareiiba il teina che la vìa ftlice fortunata fu delta scelterata pel
delitto. Alcuni leggono va-fis io luogo di tXfittf, certamente, secondo che
scrive Varrime nel lib. ^, de lingua laiina, i Sabini quando tinnirono ai
Romani, chiamarono Cipria la contrada di Roma nella quale si alloggiarono come
per buono angario, perché Cjrprwn tra’ SaiNui tigniScava il bene. E secondo ciò
la contrada, detta Cipria o. buona dni Sabiui pel buon augurio, sarebbe appunto
quella ghe fu. poi della scrllerata per la empietà commessavi. Ma Varrone
.scrive che questa contrade cran prossime, e non già le. medesime.. prifni
tempi quando un re moriva, il popolo dava al corpo del Senato la podestà di
stabilire la forma che pià volessero di governo, ed il Senato nominava
gl’interré, e gl’ interré sceglievano per sovrano 1’ uom più pregevole sia de’
cittadini, sia de’ nazionali, sia de’ forestieri : e se il Senato ’ne approvava
la scelta, se il popolo co^ voti suoi r aotorizzava, se gli anspizj la
confermavano, còlui prendeva il comando. Che se mancava alcuna di queste
condizioni, ne; nominavano nn 'secondo ; e poi un terzo, se avveniva che il
secondo non avesse propiziò quanto era d’ uopo dal cielo e dagli' notami. Ma
Tullio, come innanzi fu detto, assumendo in principiò il carattere di regio
tutore, e poi guadagnandosi il popolo con gli amorevoli modi', fu -re nominata
solamente da quello Poi • diportandosi come uomo temperato e clemente fe' colle
opere successive tacere le accuse, che non avesse adempita ogni cosa a norma
delle Ipggi ; lasciando a > molti il 'sospetto, che se non era presto >
levata; avrebbe' ridottolo Statoa forma di una repubblica. E (|nesta é la
cagion principale. per ui dicesi che alenai de’ palrizj lo insidiassero^ Pionr
potendo con altro modo hnirne il comando, inisero -TarqUinie alla impresa e gli
cooperarono il regno^ per voglia di deprimere -il •'popolo fornài troppo
potente pel ' governo tura un giorno ;
nella prossima notte spirò. S’ ignorava però da molti la maniera del termine
suo. Diceano alcuni eh' ella stessa aveasi data da sé la morte, anteponendola
al vivere. Altri però diceano che era stata uccisa dalla figlia e dal genero
come troppo addolorata e benevola inverso lo sposo. Per queste cagioni il corpo
di Tullio fii privo di regj funerali, e di magnifico monumento : conseguì però
coUe opere sue memoria perenne in tutti, i tempi. Anzi quanto iegU | fosse caro
agl’ Iddìi lo., fece eziandio palése nu segno celeste : dond’ è che alcuni
tennero ancora per vera la opinione incredibile e fiivolosa intorno la nascita
sua come dianzi fa detto. Appiccatosi il fuoco id tempio delia fortuna, che
egli area già fabbricato, mentre tutto era preda delle fiamme ne rimase intatta
solamente la statua di lui in legno dorato.. Il tempio e quanto .è' nel tempio
rifabbricati dopo l’ incendip sul modo antico presentano le traccie di un’ arte
recente: ma la statua, antica com era nelle fattezz^. vi riscuote ancora il
qulto dai Romani. E ciò è quanto abbiamo ricevuto sopra Tullio. Dopo di lui
prese la siguoria di Roma Laicìo Tar^illnio non gi^ fecondo le log^ ma colle
armi nelr anno quarto dell olimpiade sessantesima prima nella quale vinse nello
stadio Agatarco, essendo arconte di Atene Tericleo. Cosmi spigando la popolar
moltitudine, spregiando i patria] da’ quali era stato condotto al trono, e
confondendo e sconciando ogni costumee legge e disciplina colla quale i re
precedenti ave'ano dato forma a Roma; rivolse il governo in nna manifesta
tirannide. E primieramente mise intorno a sé guardie di bravi, naaionali ed
esteri, con spade e lan ce, i quali vegliando di notte negli atrj della reggia,
é scortandolo di giorno, ovnnqne ne andasse, lo scber missero appieno dalle
insidie.' Inoltre non usciva nè di continuo, né con periodo certo, ma di raro,
e quando non aspettavasi. Deliberava su le cose comuni molto in sua casa, e
poco nel F oro, in mezzo a’ parenti più stretti cbe lo guardavano. Non
concedette che alcuno di quei che il volevano si presentasse a Ini se noi
chiamava : e presentatoglisi, non era giè con esso, compiacevole e mite, ma
grave ed aspro ' come un tiranno, e terrìbile ansi che gioviale a vedere.
Definiva le controversie su’ contratti in conformità de’ costumi suoi, non
delle leggi e del dritto. Per le quali cagioni i Romani lo denominaron superbo,
ciocché nell’idioma nostro vuoi dire soperchiatore contrassegnando l’ avo col
soprannome di Prisco, o come noi diremo antico per nascita, giacché quello
aveva i nomi appunto del giovine. NelP
annp e di Roma secondo Catone, a seconde Vatreus, e &3a avanti Cristo.
Qaaado poi concepì di aver già consolidato il suo regno, concertandosene co’
più ribaldi de’ suoi ami> d, avviluppò tra accuse capitali i piò cospicui
de’ cittadini ; e primieramente i contrari suoi, quei che già non^voleano che
Tullio si levasse dal trono, e quindi altri li quali immaginavaseli malcontenti
del cambiamento, o li quali abbondassero di riccbezae. Coloro che in giudizio
li riducevano, gli accusavano l’un dopo l’altro con delitti falsi, e con quello
specialmente che tendevano insidie al re che ne era il giudice. Ed egli quali
ne condannava alla morte, e quali all’ esilio: e confiscati i beni degU uccisi
o banditi, dispensavane alcun poco tra gli accusatori, serbandone la piò gran
parte per sè. Pertanto molli de’primar} vedendo le ca> gioni per le quali
erano insidiati, lasciarono, prima di essere complicati in delitti, Roma tutta
al Uranno. Vi furono pure alcuni sorpresi ed oppressi di furto da lui nelle
case o ne’ campi : uomini ben degni di riguardo, ma non piò sen trovarono
nemmeno i cadaveri. DiBtrutla così la maggior parte del Senato con suagi e con
esilii perpetui la supplì con chiamare agli onori di quei che mancavano i
propri amici: nè però concedette loro di fare o dire se non quanto egli avesse
prescritto. Tanto che li senatori già scelti da Tullio, e superstiti ancora nel
Senato, e contrarj fin’allora al popolo sul concetto che la mutazione
tornerebbe in lor bene per le promesse avutene da Tarquinio ingannevoli e
tradiuici, vedendo infine che non aveano piò parte nelle pubbliche cose, anzi
che aveano' come il popcdo per dula la libertà ne sospiravano : ma temendo un
avvenire ancor più tetribile, nè potendo impedire pianto faceagi, chctaronsi
necessariamente a’ mali presenti. Or vedendo il popolo dò, pensava che stesse
lor bene, e godea sul Hintraccambio, quasi là tt> rannida foste per essere
'grave a quelli soltanto e non pericolosa per lui ; quando non molto dopo ne
vennero i mali ancora più su di esso : imperocché Tarquinio annullò tutte le
leggi di Tallio per le quali il popolo rendeva ed esigeva il giusto con diritti
eguali senza es> seme come prima sovverchiato da’ patria) ne’ contratti : né
lasciò pur le tavole dove erano scritte, ma fattele levare dal Foro le
distrusse. Poi tolse i daz), propoiv zionevoli ai registri delle sostanze,
tassandoli novamente sul modo antico. E se mai bisognavano a lui denari,
Contribuivane il più ' povero quanto il più ricco. Or tale regolamento esaurì
subito colla prima imposizione gran parte dei popolo; essendo astretti a pagare
dieci dramme a testa. Intimò 'che non più si facessero quei concor, quanti sen
facevano per villaggi, per curie', o per vicinati, a Roma, o nella campagna in
occasione di feste o sagri6zj comuni, perchè riuneudovisi molti non vi
macchinassero occultamente fra loro di abbattere il principato. Ci aveano qua e
là disseminati, ignoti osservatori e spie dei detti e de’ fatti, e questi intra
punto contro il governo scandagliavano gli animi: e se scoprivano alcuno
esasperato da’ mali introdotti lo in(xilpavano presso del tiranno: ed aspre
irreparabili ne erano le pene, se restava convinto. Né gli bastò di abusate m
tal modo' del popolo : ma raccogliendo dal meazo di esso quanti ci area 6di e
proprj per la gnerra, astrinse gli altri a lavorare in città, riputando che i
re moltinimo pericolano, ae i più scellerati e poveri stieno oziosi. E
desiderando vivamente che si ultimassero nel suo regno le opere lasciate
imperfètte dall’ avo suo, che si continuassero; fino al fiume le cloache
cominciate da quello e si circondasse di portici coperti il Circo Massimo il
quale -non aveane che le gradinate; si applicarono a questo lavoro; e ne i
ottennero parco frumento i poveri, altri tagliandone i materiali, altri
guidando i carri che li trasportavano, ed altri portando su le spalle i pesi.
Chi scavava sotterranei canali e largure : chi facea volte in essi ; e chi sn.
Tarquinio perché aveasi scelto Mamilio per genero e non lui, fece uda lunga
accusa di Tarquinio nmnerandone le op^re di orgoglio e di soperchieria, come il
nou essere venuto in consiglio, dove eran già tutti, e dove gli aveva esso •
stesso invitati. Difendealo Maroilio, imputando l’ indugio a cause urgenti^ime,
e chiedea che diiferissero ; e differirono il consiglio al prossimo giorno,
indotti dai suo parlare i Latini. (t) Livio nel lib. i dice che era della Aiceia
: Tur /mi Herdoiui ai Arida. Forte la gran vicinanta di Coriolo e dell'.tfr(cM
Ccce prender l’nna per l’altro. Coriolo era fra i terrìtorj Amiate, Ardcatinp,
ed Aricino, tal monte Giov. toJOttlQGiunto nel giorno appresso Tarquinio, e
congregato il consiglio, e toccato di volo l’ ittjiagio suo ^ fecesi a
discorrere della preminenea che a lui cecnpe- teva come posseduta già dall’avo
per la forza delle armi; e presentò gli accordi delle città fatti ctm quello.
Lungo fu il suo ragionamento intorno dei diritti -e def patti; e grandi le
premesse di beneficare le città se amiche gli si tenessero, e provocavale
infine a far guerra con esso ai Sabini. Come dié fine al dir suo. Turno
recatosi innanzi accusava la tardanza di lui, nè permetteva che li compagni gli
cedessero il principato, perchè nè dovuto a lui per giustizia, nè possibile a
darsegli con utile dei Latini. E molto ragionò su l’nna e su l’altra cosa
dicendo che i patti che avean segnati ccfll’avo suo quando gli accordarono la
sovranità finirono colla sua morte, per non essere scritto in quelli che il
dono esienderebbesi anche ai posteri suoi. E qui dimostrava eh' egli chè
pretendeva succedere ai diritti dell’avo, era il più ingiusto, e malvagio ' de’
mortali : e ne allegava le opere da lui latte per aversi il comando di Roma.
Adunque scorrende^ i tremendi e molti suoi delitti, conchiuse infine che egli
non tenea legittimamente nemmeno Roma, non avendola come i re precedenti
ricevuta da’sudditi spontanei.; Egli t lui presa, disse, colla violenza e ' colle
armi: et fondatavi la tirannide, uccide, esilia, confisca, e tòglievi fin la
libertà di parlare, non che quella del vi~ vere. Ben sarebbe grande la
stoltezza, grande la ingiuria inverso gli Iddj ripwmetlersi mai tratti umani e
benevoli da un empio e da uno scellerato, e credere che chi non ha perdonato
nemmeno agi intimi ruoi j nemmeno al suo sangue, risparmi poi gli altri.
Esorlavali dunqne giacché noa eransi ancora sottoposti al giogo, a combatto^
per non sottoporvisi. Da ciò che pativano gli altri di terribile argomentassero
ciocché sa rdibero essi per sopportare. Vaiatosi Turno di questo discorso, ed
assai commossine i più; Tarqainio dimandò per difendersene il giorno seguente,
e lo ebbe. E sciolto appena il consiglio ; convocati i suoi più intimi, esaminò
con essi ciocch’ era utile a farsi. £ quali suggerivano le ruposte di apologia,
quali ragionavano fra loro de’ mezzi onde era da blandirsi la moltitudine.
Soggiunse Tarquinio che niente di ciò bisognava, e disse il parer suo di le
vare l’accusatore, anziché di purgarsi dalle accuse. E lo datone da tutti e
concertatosi con essi; pigliò tali vie per l’intento, quali non sarebbero
cadute in mente di uomo che macchina o si difende. Imperciocché cercati U servi
più rei che menavano i giumenti o curavano le robbe di Turno, e corrottili con
argento, gl’ indusse a prendere da sé stesso nella notte assai spade e portarle
nell’ ospizio del padrone e nasconderle, e lasciargliele tra le bagaglio. Poi
nel giorno appresso, riunitosi il consiglio, e venutovi : Breve è, disse,
topologia su le mie colpe, e giudice ne stabilisco t accusatore mede^ simo.
Questo Turno, o compagni, giudice stabilito delle reitadi che ora mi ascrive,
questo da tutte assolveami già, quando chiese in isposa la mia figlia. Ma
poiché ne fu rigettato, com' era ben giusto ( imperocché qual savio mai
rispinto avrebbe Mamilio, un si nobile, un sì potente Latino, e prescelto
avrebbe per genero costui, che mal può delincar la sua stirpe, fino al
trisavolo ? ) poiché ne fu rigettato, indispettitone mi assalisce colle accuse.
Doveva, se per tale mi conoscea qual mi accusa, non desiderarmi per suocero : o
se mi tenea per onesto quando mi chiese ‘la figlia, non doveami ora come un
ribaldo accusare. E ciò basti su mei perciocché non si debbe ora più discutere
se buono o malvagio io mi sia, quando voi, o compagni, voi correte il più grave
de’pericoli. E. su me potete aruor dopo chiarirvi : ben ora dee colla salvezza
vostra la libertà provvedersi della patria. 1 primarj delle città, quei che ne
maneggiano il pubblico, tutti sono insidiati da questo bel capo-popolo, il
quale apparecchiasi, uccidendo i più cospicui, torsi il regno del Lazio. E
questo, questo é il fine che qua lo menava. Né già io parlo immaginando, ma di
pienissima scienza, datami nella notte andata da uno dei complici della
congiura. E se voi vorrete meco alt ospizio di costui venire, io ven darò
documento infallibile del dir mio, le armi che vi occxdla. Or lui cosi parlando
sciamarono tutti, e chie> sero, temendo per sè, che certificasse il fatto,. non
gK illudesse. E Torno, come lui che non avea preveduto le insidie, disse che
volentieri ricevea la inquisizione, e chiamò li primarj per compierla,
aggiungendo che seguirebbe l’una delle due, o che egli morirebbe se il
trovassero con apparecchio di altre arme che pel viaggio, o che le pene sue
subirebbe chi lo calunniava. Cosi piacque ; ed andarono e trovarono nelf
albergo cU liti tra le bagaglie le spade na$costevi da’ servi. ÀUora Dòn
lasciando nemmen che parlasse gillarono Turno in UDS voragine, e coprendolo,
vivo ancora, di terra lo aterminaron sul fatto. Ed encomiando nell’adunanza
Tar> quinio come benefattore comune delle città, perchè ne àvea salvalo gli
ottimati, lo crearono capo della nazione co’ diritti appunto co’ quali ne
aveano già creato Tarqui nio r avolo suo, e poi Tullio. Scrissero in su colonne
que’ patti, e datosene il giuramento per la osservanza, si congedarono.
Tarquinio divenuto capo de’ Latini spedì messaggeri alle città degli Eroici e
de’ Yolsci invitandoli a far seco amicizia ed alleanza. Ma de’ Volaci due sole
cittadi Echetra, ed Anzio secondarono l’ invito ; laddove gli Eroici si
decisero tutti per 1’ alleanza. Ora curando Tarquinio che gli accordi colle
città si conservassero in ogni volger di tempo ; deliberò fissare un tempio
comune ai Romani, ai Latini, agli Eroici ed ai Volaci confederatisi, perchè
riunendosi ogni anno al luogo destinato vi mercantassero, e banchettassero,
partecipando de’sagrifizj medesimi. Ed ascolundone tutti con piacere la idea,
scelse quanto era possibile in mezzo de’ popoli per luogo della riunione il
monte sublime, il quale sovrasta alla città di Alba : e dichiarò per legge che
in questo fbsser le fiere, in questo fosse triegua di tutti in verso di tutti,
e conviti si facessero e sacrifizi comuni a Giove detto Laziale, prescrivendo
quanta parte dovesse ogni città contribuire per essi, e quanta riceverne.
QuaranUsette furono le città compartecipi delle feste e de’ sacrifizj ; e tali
sagrifizj e tali feste le conti nuano ancoc di presente i Romani che Laiine le
chiamaoo. I^e città compagne nel sagrificare portano agnelli^' o cacio, o latte,
o tal’ altra oblazione in fratti e farine. Immolandosi però da tutte un sol
toro, ciascuna prendeane per sè la parte stabilitale. Il sagnfizio è per tutti,
ma presiedono al rito santo i Romani. ^ L. Poi cb’ ebbe rassodato il regno con
tali confederazioni ; risolvè di porure Tarmata contro i Sabini. E reclutando
de’ Romani quei che men sospettava che farebbonsi liberi se otteuevau le armi,
e conginngendo con essi truppe alleate, più numerose ancora delle sue, devastò
le campagne Sabine : e vintivi quei che vennero con esso a battaglia ; menò
l’esercito contro de’ Pomentini. Abitavano questi la città di Sessa e pareano i
più felici de’ conBnanti, anzi per la felicità molesti e gravi a tutti. Avendo
egli già reclamato ad essi per alquante rapine e prede, e richiestili che
dessero de’ compensi, non aveano dato che orgogliose risposte: e quindi postisi
in arme aspettavano pronti la guerra. Adunque venuto con essi in sul conBne
alle mani, ed uccisine molti ; ne respinse e rinchiuse gli altri fra le mura :
e poiché non più ne riuscivano, accampatosi dirimpetto, li circondò di fossa e
vallo, investendo la città con assalti continui. Resisterono quei che v’erano
dentro, durando assai tempo fra stenti luttuosi. Ma poi venendo ad essi meno
ogni mezzo, infiacchendo ne’ corpi, e non ricevendo soccorsi, nè requie mai,
anzi travagliando di e notte ; furono sopraffatti dalia forza. Impadronitosi
della città trucidò quanti vi stavan colle amie: lasciò che i soldati rapissero
donne, fanciulli, quanti sopportavano di cader prigionieri, e moltitudine non
facile a calcolarsi di servi : e concedè' che invadessero e si portassero
qnant’ altro veniva loro ' alle mani sia nella città, sia per la campagna : ma
1’ oro e l’argento, quanto se ne trovò, lo fe’ tutto rammassare in un luogo, e
decimatolo per la fondazione del tempio, ne divise il resto fra le milizie.
Tanta poi ne fu la somma che ogni soldato rioevè cinque mine di argento e la
decima per gr iddj non fu minore di quattrocento talenti di ar' gento. LI. Ancora
egli stavasi a Sessa quando gli giunse un messaggio, eh' era uscita la gioventù
horentissiroa dei Sabini: che gettatasi in dne corpi nelle terre de’ Romani
devastavano le campagne, l’ uno tenendosi presso di Ereto, e 1’ altro presso di
Fidene : e che se una forza non le si opponesse, ben tosto tutto soccomberebbe.
G>m’ ebbe ciò udito lasciò picciola parte dell’esercito in Sessa con ordine
che vi guardasse le prede e bagaglie : e prendendo con sé il resto della milizia,
spedita e leggera, e marciando contro quei che erano accampati presso di Ereto,
si trincerò su le alture a picciolo intervallo da essi. Decisero i due Sabini
dar la battaglia in sul mattino; e spedirono perchè venisse l’esercito ancor di
Fidene. Ma scuoprl Tarquinio il disegno per essere stato preso chi portava le
lettere dagli uni agli altri. Per tal successo ei si valse di questo
accorgimento. Divise r esercito in due parti, e ne mandò l’ una fra la notte di
nascosto de’ nemici su la via che viene da Fidene, e schierando l’ altra in sul
brillare del giorno, la menò dagli alloggiamenti alla battaglia. Coraggiosi gli
uscirono incontro i Sabini non vedendo gran serie de' nemici, e credendo non
altro mancare aliare mata di Fidene, se non di gingnere. Coti venutisi que->
sti a fronte combatterono, e la pugna pendè gran tempo dubbiosa, quando li
soldati spediti nella notte da Tarquinio ripiegarono la marcia, e correvano a
tergo dei Sabini. Sbalordirono questi al vederli, e ravvisarli dalle insegne e
dalle armi, e gettando le proprie tentarono di salvarsi : ma il tentativo rìnsd
difHcilissimo, essendo essi circondati da’ nemici e rinchiusi dalia cavalleria
dei Romani postata d' ogn intorno. Pertanto pdchi ne scamparono e tra duri casi
: i più ne perirono, o cederono. Quelli eh’ erano lasciad agli alloggiamenti
non li sostennero ; e quel luogo di sicurezza fu invaso al primo assalto.
Furono qui prese le robbe de’Sabini, e qui molti de prigionieri, e qui le robbe
de’ Romani quante ne erano intatte, e tutto fìi salvato per chi le aveva
perdute; LIL Riuscito il primo saggio a Tarquinio secondo il cuor suo, prese 1’
esercito, e ne andò contro i Sabini accampati giù in Fidene, a’ quali non era
ancor nota la disfatta dei loro. Usciti questi dagli steccati erano per
avventura tra via: ma non si tosto furono più da vicino e videro le teste
de’loro capitani confitte alle aste ( che ve le aveano i Romani confitte ed
ostentavanle per ispaventare i nemici); conoscendo com’era l’altro lor campo
distrutto, più non tentarono nulla di generoso, ma rivoltisi alle suppliche ed
alle umiliazioni si resero. Cosi devastati miseramente, e vituperosamente nell’
uno e nell’ altro esercito, e ridotti i Sabini a speranze tenuissime, anzi
timorosi che fossero le loro città pigliate di assalto ; spedirono ambasciadori
per la pace., profierendosi per sudditi e tributar). Pertauto lasciò la guerra,
e ricevute appunto >a tali coudizioni le loro città, si ricondusse a Sessa ;
e ritiratene le milizie lasciatevi, e le prede ed ogni bagaglio, tornossene a
Roma coll’ esercito carico di ricchezze. Poscia fe’ molte incursioni su le
terre de’ Yolsci, quando con tutte le forze, e quando con parte, ne ottenne
gran prede. Ma riuscitegli per lo più le cose a voler suo ; gli si eccitò una
guerra coi con&nanti ben lunga pel tempo, giacché durò sette anni continui,
e ben grande pe’ casi inaspettati e terribili. Ora io dirò brevemente le
cagioni per le quali nacque, e qual ne fu 1’ esito, essendo stata terminata per
inganni e per stratagemmi non preveduti. LUI. Una città, Latina di gente, e
colonia già degli Albani, lontana cento stadj da Roma ( Gabio ne era il nome)
sorgeva in su la via che mena a Palestrina. Città popolosa allora e grande
qnant’ altre, ora non tutta si abita, ma solo presso la strada per uso degli
alloggi. E ben può raccoglierne la grandezza e la magnificenza, chi mira le
rovine in più luoghi delle case ed il giro delle, mora, che in gran parte
esistono ancora. Eransi qua concentrati alquanti involatisi da Sessa, quando fu
presa da Tarquinio, e molti fhggiti da Roma. Or questi supplicavano e
pressavano quei di Gabio a prendere vendetta di loro, promettendo gran doni se
ai beni proprj tornassero ; e dimostrando possibile e facile la distruzione del
tiranno. Adunque ve gl’indossero sul riflesso che in Roma a ciò coopererebbero,
e che lì Volsci erano ad altrettanto animati; giacché mandate aveano delle
ambascerie, bisognosi anch’essi di ajutO’ per imprendere la guerra contro di
Tarquinio. Si fe^ cero dopo questo irruzioni con eserciti poderósi, fi
scorrerie su 1’ altrui territorio e battaglie, com’ è Veri simile, ora di pochi
con pochi, ora di tutti contro di tutti: e quando i Gal^, respinti fino alle
porte i Romani, ed uccidendone diedero intrepidamente il guasto ai lor campi ;
e quando i Romani incalzando i Gabj e rinchiudendoli nella loro città, • sen
portavano schiavi, e preda copiosa.. •. •. LIV. Or ciò facendosi di continuo,
fu l’una e l’altra parte costretta a cinger di mura, e presidiare i luoghi
forti delle proprie terre in ricovero de’ contadini. Di là prorompevano su’
predatori, e scendendo folti, straziavano, se ne vedeano, i piccoli corpi
staccati dal resto dell’ esercito, o li disordinati per poca apprensìon de’
nimici, come accade nei pascere. Similmente temendo r una parte gli assalti
improvvisi dell’ altra fu costretta a munire dì fosse e di muri le città facili
a scalarsi ed a prendersi. Adoperavasi in ciò principalmente Tarquinio : e
rassicurò con molte fortificazioni il tratto intorno la porta la quale menava a
Gabio, scavandovi fosse più larghe, elevandone più alte le mura, e coronandole
di torri più spesse : imperocché la città sembrava in tal canto men solida,
quando era nel resto dei suo circuito sicura abbastanza, nè facile da
invaderla. Se non che si fece in ambedue le città penuria di ogni vettovaglia,
e costernazione gravissima per l’avvenire, essendo le campagne diserte per le
incursioni incessanti de’ nemici, né più somministrando de’ frutti come accade
a’ popoli avvolti in guerre diuturne. 11 disagio però’ stringeva i Romani più
che i Gabj ; tanto che U poveri infra quelli, angustiatine più che gli altri,
giudicavano essere da venire a trattati, e far pace comunque coi Gabj, se la
volessero. LV. Or dolendoti Tarquinio altamente de successi, e non sofierendo
di' deporre obbrobriosamente le armi^ nè polendo altronde resistere più inmmzi
; volgevasi a tutte le prove, a tutti gl’ inganni. Quando il figlio più grande
( Sesto ne era il nome ) scoperse al
padre un suo disegno. Egli parea mettersi ad impresa audace quanto pericolosa ;
pur non essendo impossibile, concedettegli il padre che operasse di voler suo.
Sesto dunque ‘fintosi in discordia col padre per voglia di por fine alla guerra
: ne fu battuto colle verghe nei F oro, e con altri modi oltraggiato ; tanto
che se ne sparse intorno la fama. E su le prime inviò come profughi i suoi più
fidi perchè dicessero occultamente ai Gabj che egli deliberava far guerra al
padre, e che ne anderebbe tra loro se gli desser parola di proteggerlo come gli
altri refugiaii Romani, senza renderlo ai padre per isperanza di finir col suo
danno le proprie nimicizie. Udirono con diletto quei di Gabio il discorso, e
concordandosi di non offenderlo, egli venne, e con lui molti compagni e clienti
come fuggitivi; e per meglio Tito Lirio
dà questo nome e' questa impresa al figlio minore : ma il disparere col padre e
l’ incarico assunto pare più yerisimile in chi area più diritto di succedere ad
un regno. direnuLo assoluto, e tale era il figlio maggiore. Pertanto il
racconto di Uiouigi sembra più naturale, qualunque fosse il nome del finto
rilielle. Vedi S 65 di questo 'libro. accreditare la ribellione sua dal padre
portò seco molto di argento e di oro. Dopo ciò sotto velo di fuggir lar
tirannide molti a lui confluirono ; tanto che ornai glie n’ era intorno un
corpo ben forte. Concepivano quei di Gabio che avrebbono grande incremento dal
giugnere di tanti ad essi, e lusingavansi che tra non molto .avrebbono suddita
Roma, illusi ancor più dalle opere di quel ribelle, il quale scorrendo di
continuo la cam pagna, raccoglievane prede ubertose. Ed il padre appunto,
risapendo prima in quai luoghi il figlio verrebbe, ubertose glie le apprestava,
e senza guardia se noa di scelti cittadini che egli v’ inviava come a lui
sospetti per farli distruggere. Su tali significazioni molti credendolo amico
fido, e buon capitano, e molti arrendendosi all' oro suo ; lo inalzarono al
comando supremo delle milizie. Sesto divenuto per frodi e per illusioni T
arbitrò di un tanto potere spedi, senza che i Gabj se ne avvedessero, un tale
de’ servi suoi per dichiarare al padre r autorità che avea preso, e per udirne
ciocch’era da fare. Tarquinio volendo che il servo non intendesse ciocché
ordinava al figlio di fare, venne ( e conducea seco il messo ) al giardino,
congiunto al regio palagio. Aveaci là de’ papaveri nati spontaneamente, già
pieni di frutto, e maturi per la raccolta. Or tra que’ papaveri aggirandosi e
dando co’ bastoni in su le tòste de’ più alti, abbattevali. Congedò ciò fatto
il messaggiCro niente rispondendogli, quantunque interrogato ne fosse più
volte. Egli imitava per quanto a me sembra la prudenza di Trasibulo Milesio.
Imperocché chiesto da Periandro, allora tiranno di Corinto, per via di un
messaggiero, con quali modi possederebbe più saldamente il comando, non rispose
pur sillaba, ma fatto cenno all’ inviato die lo seguitasse, il. condusse in un
campo di biade, ed ivi percosse le spiche più eminenti, le atterrò ;
signiBcaudo che. cosi dovea pur egli troncare, e dismettere i -primi delle
città. Or facendo Tarquinio allora somigliantemente. Sesto ne intese le mire, e
come ordinavagli di por giù li più insigni di Gabio. E convocò la moltitudine,
e le tenne un lungo ragionamento su questo, ehe egli ricorso cogli amici alla,
lor buona fede, rischiava ornai di esser preso da alcuni, e dato al padre: ma
che era pronto a deporre il co^ mando, an^i che Lucerebbe la città prima di
cadere in tanto infortunio ; e qui lagrimava e deplorava la sorte sua, come
quelli che di cuore si dolgouo su’mali estremi., Lyil. Irritatane la
moltitudine, e ricercando sollecita quali mai fossero per, tradirlo, esso
nomina Antisiio Petrone, il personaggio più distinto di Gabio. Egli erane il
più insigne divenuto pe molti belli suoi regolamenti in pace, e pe’ molti capitanati
in campo esercitati. Reclamando intanto quest’ uomo, ed offerendosi come Hbero
da’ rimorsi ad ogni esame, disse 1’ altro che volea che se ne investigasse la
casa: e che vi manderebbe perciò degli amici: egli intanto aspettasse TtelP
adunanza finché ritornassero. Imperocché già era Sesto riuscito a corrompere
con argento alquanti servi di lui perché prendessero e ponessero in sua casa
lettere contrassegnate co’ sigilli paterni, e macchinate in rovina di Pelrone.
Or come gl’ inviali alla indagine (che non aveala Pelrone contradetla ma
concednla) vi rinvennero le carie occulutevi, tornarono recando all’adunanza
molte lettere indicatrici, e quella scritta ad Anlistio; e dicendo Sesto che vi
riconosceva il sigillo del padre la sciolse; e la diede allo scriba perchè la
recitasse. Scriveasi in questa che gli consegnasse il figlio, vivo
principalmente ; o se ciò non poteasi, almeno glie ne mandasse la testa recisa.
Diceva, che darebbe ad esso ed d complici, oltre le taglie promesse già prima,
la cittadinanza di Roma : che gli ascriverebbe tutti frd patrizj ^ ed
aggiungerebbe case e poderi e doni, grandi e copiosi. Arsero dallo sdegno i
Gibinj ; dialordtva Antistio dalla sciagura impensata, mancando- gli fin la
voce: ma quelli co’ sassi lo tempestano e lo uccidono ; lasciando a Sesto la
cura di far la ricerca e la vendetta su gli altri, compartecipi in ciò di
Petrone. E Sesto fidando le porte agli amici suoi perchè gl’ incolpali non s’
involassero mandò per le misepiù illastri, e vi uccise molli de’ valentuomini.
Intanto che ciò faceasi ed era in Gahio tuivbolenza pe’ sì gran mali ;
Tarquinio avvertitone per lettere vi marciò coll’ esercito, e giunto prima
della mezza notte ed apertegli le porte da uomini posti ad arte per questo, ed
entratele ; s’ impadronì senza stento della città. Come il male fu ravvisato,
deploravano tutti sè stessi, e le stragi, e la schiavitù che patirebbono, e
temeano insieme gli orrori, quanti ne vengono su por poli sorpresi da’ tiranni.
Quando pur li trattasse mitissimameute ; immaginavansi la perdita della libertà,
e de’ beni, e cose altrettali. Pure Tarquinio sebbene scellerato, sebbene
implacabile in punir gl’ inimici non fe’ ntilla di ciò che aspettavano e
temevano ; nè uccise, nè liandl, nè disonorò, nè multò persona ninna di Gabio.
Ma convocando la moltitudine, e prendendo regie maniere in luogo delle
tiranniche sue, disse che restituiva la propria città ; che concedeva ad essa i
lor beni; e che donava inoltre a tutti cittadinanza quale appunto r avevano i
Romani : non già che ciò facesse per benevolenza inverso de’ Gabj ; ma per
consolidare a sè con essi .la signoria su’ Romani; pensando che diverrebbe
presidio stabi^imo per sè e pe’ figli la fedeltà di un popolo che fuori di ogni
speranza era salvo, e ricuperava tutti i suoi beni. E perchè non più temessero
per 1’ avvenire nè dubitassero se stabili sareb.bero. tali parole ; scrisse le
condizioni colle quali sarebbero amici,' e le giurò subito nell’ adunanza, e
poi toccando gli altari e le vittime. Monumento di quest’alleanza esiste in
Roma nel tempio di Giove Fidio, chiamato Sango da’.Ròmani, uno scudo circondato
colla pelle del bue sagrlGcato allora appunto per compierne il giuramento, su
la quale scritte ne sono con antichi caratteri le condizioni. Ciò fatto, e
dichiarato Sesto re di Gabio, ritirò le milizie; e tal fine ebbe la guerra con
quella città. Dopo ciò Tarquinio dando requie al popolo dalle cose militari e
dalle battaglie; si mise alla erezione de’ templi, desideroso di compiere i
voti dell’avo. Erasi questi nell’ ultima guerra co’ Sabini votato a Giove, a
Giunone, a Minerva di fondare ad essi de’ tempii se vincesse. E già, come fu
detto nel libro prece dente, avea con grandi ripari e con terra|)ieni accori
data l’altura ove destinava di erigerli; ma non potè' poi compierne la impresa.
Deliberatosi Tarcpilnio di ultimarla colle decime delle spoglie raccolte in
Sessa posevi a lavorare tutti gli artefici. Or qui narrasi che. accadesse un
meraviglioso portento sotterra, doè che scavandosi per le fondamenta, e che già
molto essendo gli scavi profondati, si rinvenisse la testa di un uomo ucciso
come di recente, con faccia simile a quella dei vivi, stillandone ancora dalla
ferita un sangue tepido e fresco. In vista di tale prodigioi^arquinio comandò
gli opera) che sospendessero lo scavo : e convocando gli indovini della patria
dimandò che mai dir volesse quel segno. Ma non rispondendone, anzi dando' essi
la scienza di tali cose ai Tirreni, ricercò da loro e seppe qual fosse fra’
Tirreni l’ interprete più famoso de’ por tenti ; ed a questo inviò messaggieri
i più pregievoli cittadini. Giunti i valentuomini alia casa dell’ augure, si le
loro incontra un giovinetto a cui dissero di essere ambasciatori di Roma,
vogliosi di consultare il vate, e pregavano che a lui li presentasse. Il
giovine allora : Colui, disse, che ricercate, è mio padre: egli è di presente
occupato : ma presto a lui passerete. Ora intanto che lo aspettate, ditemi
perchè mai ne venite. Così voi se mai per imperizia foste per ishagliar la
dimanda; istruiti da me non errerete. E le giuste interrogazioni non sono già
la minima cosa nell arte de’ vaticini. Or piacque a coloro di secondarlo, e
sveUrono a lui quel portento. Ckime il giovine gli ebbe ndiù, sopraslando breve
tempo, ascoltate, disse o Bontani. Il mio padre ve lo interpreterà tal prodigio,
e senza menzogne ; che certo ad un vMe non si convengono. Ma perchè neppur voi
erriate, nè mentiate su le cose che direte o risponderete ; apprendete da me
questo > che assai rileva che vel sappiate. Quando esposta gli avrete la
meraviglia ; ei soggiungendo di non intendere appieno ciò che vi dite,
descriverà colla verga quanto un picciolo tratto di terra, e poi vi dirà : seco
la svrs tarsìa qvzsta nè la partx CMS GUARDA l' ORISNTS, quSSTA CBS L OCCASO:
QUSSTA È LA PARTS SOREALS, QUSSTA LA OPPOSTA. Ed indicandole intanto colla
verga vi chiederà da qual canto fu tiltvenuta la testa. Or che vi esorto io che
rispondiate ? appunto che non concediate che fosse trovata in alcuna delle
parti eh' egli addita colla ver^ ga, e ve ri interroga, ma che in Eotna tra voi
fu veduta su la rupe Tarpea. Se tali risposte serberete; se punto col dir suo
non ve ne allontanate; allora egli ravvisando che il fato non può cangiarsi, vi
svelerà, non vi occulterà quel prodigio che volete, che interpetri. LXL
Ammaestrali in tal modo i legati, piando il vate ne ebbe comodità, venne un
tale che a lui li condusse, e parlarono del portento. Ora lui sofisticando, e
descrivendo in terra circonferenze e linee rette, e facendo in ogni quadrante
interrogazioni sul trovamento, non si turbarono punto di mente i legali, ma
tennero la ridata, come aveala suggerita il 6glio dell’ indoTino, nominando
sempre Roma e la rupe Tarpea, e pregando l’interprete che non travolgesse il
segno, ma ne dicesse a proposito, e schiettissimamente. Cosi non potendo il
vate nè illudere gli oratori, nè imbrogliarè r augurio, soggiunse ; Andate,
annunziate o Romàni a vostri concittadini, portare il destino che il luògo dove
avete il teschio trovato sia capitale di tutta l’Italia. Dall’ ora in poi
capitolino fu detto il luogo del travamento; capi chiamando i Romani le teste.
Tai>i quinio udendo ciò da’ legati rimise gli opera] su'lavori; e molto fece
del tempio, ma noi compiè, cadendo 'in breve dal regno. Roma alfine lo
perfezionò nel terzo consolato. Fu basato il tempio su di una altura la quale
aveva un circuito di otto plettri, ed ogni lato di esso apprassimavasi ai
dugento piedi col picciolo divario nemmeno di quindici piedi interi tra la
lunghezza e la latitudine. Perciocché il tempio riedificato dopo l’incendio a’
tempi de’ nostri padri su’ fondamenti medesimi differisce dall’ antico per la
sola preziosità della materia. Dalla parte della facciata che guarda il
mezzogiorno circondalo un ordine triplice. di colonne : ma doppio solamente è
quell’ordine nei lati. Tre sono’ in uno i templi, e paralleli, e divisi da mura
comuni. Sacro è quello di mezzo a Giove, e quindi è l’ altro. di Giunone, e
quinci di Minerva : ed un solo tetto, di un comignolo solo li ricopra. Questo
tempio terminara a Iriargolo : la cima del. triangolo in tutto il tetto ossia
il colmo del letto è ciò che cbiamasi comìgnolo. Uno de’ nostri lempj a tre
narate sotto un tetto comune può foeilitare t’ intelligenza di questo luogo.
Dicesi che nel regno di Tarquinio occorresse ai Romani un’ altra propizia e
meravigliosa avventura sia per dono di un nume sia di un genio, la quale salvò
la città non per poco tempo ma finché visse, più volte, da gravi mali. Una
donna, nè già nazionale, venne al tiranno, vogliosa di vendergli nove libri di
oracoli Sibilini : ma ricusando Tarquinio comperarli al prezzo cei> catogli
; colei partita ne spiccò tre libri e li arse. Riporundo dopo alquanto i libri
superstiti gli ofierl sul prezzo medesimo. Riputatane stolta, e derisane perchè
di minori volumi n’esigea la somma appunto che non aveane potuto ricevere
quando erano più; si ritirò nuovamente e bruciò metà dello scritto che
rimaneva. Tornò quindi co’ tre libri ancor salvi, e chiese l’oro di prima.
Attonito Tarquinio su i disegni della donna fece cercar gl’ indovini, e narrò
1’ evento, e dimandò ciò ch’era da fare. Or questi conoscendo da alquanti segni
che ripudiavasi un bene mandato dal cielo, e dichiarando che grande era la
sciagura che non avesse comperato tutti i volumi ; comandò che si numerasse
alla donna il valor dimandato, e che gli astanti prendesser gli oracoli. La
donna che avea dato que’ libri, inculcò che si custodissero con diligenza, e
sparve dagli uomini. Tarquinio creando tra’ cittadini i duumviri o due
riguardevoli per-i aonaggi, e subordinando ad essi due ministri pubblici ; diè
loro la’cura de’ libri : ma poi cucitolo io una otre bovina gettò nel mare
Marco Acilio 1’ uno de’ due rignardevoli perchè parea sfregiare la buona fede,
ed era accusato di pai-ricidio da uno de’pubblici ministri. Dopo la cacciata
dei re, fattasi la repubblica a sostenere gli Oracoli, nominò custodi loro,
durante la vita, personaggi chiarissimi, liberi da ogni militare e civile
incomben 2 a, consociando ad essi ancor altri pubblici uomini, senza i quali non
poteano i primi consultare que’scritti. A dirla in breve, i Romani non guardano
ninna cosa con tanto zelo non i poderi sacri, non i tempj, quanto le risposte
divine delle Sibille. Yalgonsi di queste i Romani quando il Senato sta per
votare in tempo di civil sedizione, o di grave infortunio in guerra, o di
portenti e grandi visioni, malagevoli ad intendersi, come avvenne più volte.
Fino alla guerra chiamata Marsica gli oracoli posti in un’ ama marmorea ne’
sotterranei del tempio di Giove Capitolino furono custoditi dai decemviri. Ma
braciandosi poi questo dopo 1’ olimpiade centesima settantesima terza sia per
insidie, come pensano alcuni, sia per caso ; arsero colle votive cose del nume,
anche i libri. C gli oracoli che ora si hanno, furono.' portati in Roma da più
luoghi, quali dalle città d’ Italia, quali da Eritra dell’Asia, speditivi per
decreto del Senato Commissarj a trascriverli, e quali da altre città,
trascrittivi da' privati. Ma sen trovano confusi co’ Sibillini anche aluri,
come convincesi da que’ che acrostici si dimandano. Io qui dico ciocché
Terrenzio Varrone ha scritto nelle sue teologiche trattazioui. Avea Tarquinio
operate queste cose in guerra ed in pace ; avea fondate due colonie, l’uja Cioè
Segni, per caso, perché svernando ivi i suoi soldati aveansi il campo come una
città ridotto ; e la seconda Circea-per disegno, perché ponessi nella campagna
Pomentina, la più grande intorno del Lazio, e contigua col mare, in bel sito,
alto discretamente, che sporge quasi penisola nel mare Tirreno ; ed abitato già
com’ è fama da Circe la figlia del Sole : avea dato qnesle due colonie a due
figli suoi che ne erano i fondatori, Circea ad Anmte, e Segni a Tito. Ma quando
in niun modo temea del suo principato ; allora per la ingiuria fatta ad una
donna da Sesto il suo primogenito, fu cacciato dai principato e da Roma. Àveano
gl’ Iddj dato il segno della calamità futura della sua famiglia con molti
augurj de’ quali qu^ sto, fu l’ultimo. Venute nella primavera delle aquile in
un luogo adjacente alla reggia fecero il nido su di un’alta palma : mentre però
teneano i figli ancor senza penne, volandovi in folla degli avoltoi disfecero
il nido: ed uc cisane la prole, e bezzicando e ferendo co’rostri e colle ali,
respinsero dalla palma le aquile che tomavan dal pascolo. Vide Tarquinio
l’augurio, e vegliava per istorname se poteva il destino: ma non potè superarne
la forza ; e perdette il regno, congiurando su lui li pa trizj, e cooperandovi
il popolo. Io tenterò dichiarar brevemente gli autori della congiura ; e come
si fecero ad eseguirla. Guerreggiava Tarquinio colla città di Ardea sul
pretesto che ricettava i fuggitivi da Roma, e macchinava di rimetterli in
patria : ma in realtà perchè ne aspirava le ricchezze come di una delle città
più felici d’ Italia. Ribbattendolo però gli Ardeatini generosamente, e
prolungandosi l’assedio loro; stanchi quei del campo per la diuturnità della
guerra e quei di Roma impotenti a più contribuirvi; si disposero a
ribellarglisi, appena ve ne fosse un principio. Intanto Sesto il primogenito
de’ figli di Tarquiaio spedito dal padre nella cittì chiamata Collazia per
compiervi talune incombenze militari si alloggiò presso il congiunto suo Lucio
Tarquinio detto Collatino. Fabio delinea quest’uomo come figlio di Egerio, del
quale ho sopra dichiarato ch’era figlio dei fratello di Tarquinio l’antico, re
de’Romani. Da lui messo al governo di Collazia ne fu chiamato Collatino,
lasciandone la denominazione anche a’ posteri suoi. Io sono persuaso che questi
era nipote ad Egerio se avea la eti conforme ai figli di Tarquinio, come Fabio
ha scritto e molti con esso ; e la cronologia conferma tal mio concetto. In
que’ giorni Collatino era nel campo. Adunque la moglie di esso, una Romana,
figlia di Lu crezia riposava, e colla spada in mano vi penetrò, non sentito
nemmeno da quelli che prossimi alla porta dormivano della camera. F attesi al
letto, e svegliatasi la donna col giugnere delle insidie, e chiedendo chi fosse,
colui svela il nome ; e comanda che taccia e resti nella camera, minacciando
lei della vita, se tentava fuggire, o gridare. Cosi, sbalorditala, propose alla
donna di scegliere .qual più le piacesse o lieta vita, o morte infame, ó'e t’
induci, disse, a compiacermi, io te farò mia spo~ sa y e tu regnenù meco, ora
s.u la città che mio pardre mi assegna, e dopo la morie del padre sii Ro'mani,
sii, Latini, sii Tirreni e su quanti egli domina. Io, tu lo sai, primogenito
de' suoi figli, io sarò t erede del regno, come à ben giusto. E quali beni
inondano i re, de' quali' tutti sarai tu meco posseditrice ; che giova che io
qui ti additi, se tu ne sei peritissima? Che se tenti resistermi per salvare la
tua pudicizia, ucciderò te prima, poi scannando un dei servi porrovene a lato i
cadaveri, e dirò che sorpresa avendoti in obbrobrio col servo, io vi punii
tutti due per vendicare la ingiuria del mio congiunto ; tanto che turpe,
ignominiosa sarà la tua fine, nè la morta Uia spoglia saià di sepolcro onorata
nè di altre funebri cerimonie. Ora siccome assai minacciava, insisteva, giu>
rava a^ ogni suo detto ; Lucrezia sbigottita di una morte infame venne nella
necessità di cedere agli arbiirj amorosi di lui. Fattosi giorno; costui sazio
della voglia scellerata e Ainesta, tornossene al campo : Lucrezia però
corucciata per l’evento ascese quanto potè frettolosa in sul carro, e venne a
Roma, cinta di lugubri vesti, ed occultandovi sotto il pugnale; non salutando,
salutata, negl’ incontri, né rispondendo a chi voleva intendere de’ suoi mali,
tutta cogitabonda, e mesta, e lagrimosa. Giunta a casa dal padre '( e ci aveano
alquanti parenti ) ella prostratasi e stregasi ai ginocchi del padre vi
singhiozzò, ma senza parole : e sollevandola e stimolandola il padre a dire
ciocché solTerto avesse: Padre, disse, ecco la supplichevole tuai se tremenda,
se insanabile è tonta mia, padre la vendica: non trascurare Ut figlia tua,
incorsa in mali più gravi della morte. Stupitosi il padre, e con esso par gli
altri, eccitavala a dire chi offesa 1’ avesse, e di qual modo. E colei
ripigliava: Le udirai le mie ingiurie ; ma hrevissimamenle o padre: e solo or
tu mi concedi questa grazia che prima te ne chiedo. Convoca gli amici, e i
parenti che puoi, perché da me la odano, da me, non da altri la calamità che io
patii. Quando tavrai conosciuta la terribile, la ver-, gognosa necessità ch’io
sostenni; tu deciderai con essi la vendetta che dei per me fare e per te. Ma
deh / non indugiarmi tu lungamente. Corsi all’ invito sollecito 'e
premurosissimo i più riguardevoli nella casa com’ ella dimandava, narrò loro,
pigliandolo dalle origini, tutto l’ evento. E qui abbracciandosi ai padre, e
molto lui supplicando, e gli astanti e gl’Iddj, eli patri! lari che solleciti
la scioglie sero dalla vita ; trasse il pugnale che celava sotto le ve sti e,
portandosene una piaga sui petto, 6no al cuore se lo internò. Clamore intanto e
gemiti e femmineo tumulto turbando tutta la casa ^ il padre avviatosene al
corpo la circondava, la richiamava, la curava quasi potesse redimerla dalia
ferita : ma colei tra le sue braccia palpitando e spirando Gai. Parve il caso
agli astanti si terribile e si miserando che una fu la voce di tutti che era
mille volte meglio morire per la libertà che patire ingiurie siffatte dai
tiranni. Era tra questi Publio Valerio, discendente da uno de’ Sabini venuti
con Tazio a Roma, uomo intraprendente e destro. Costai fu da loro spedito in
campo perchè narrasse al marito di Lucrezia r evento, e perchè ribellassero,
uniti, le milizie dal tiranno. Uscito appena dalle porte eccogli per avventura
incontro Collatino il quale veniva dall armata a Roma ignaro de’ mali che
straziavano la sua casa ; e Lucio Giunio soprannominato Bnilò cioè stolido se
tal nome ne interpetri con greche maniere. E poiché li Romani additano
quest’ultimo come principalissimo nell’ abolir la tirannide; porta il pregio
che preaccennisi brevemente chi, di qual sangue egli fosse, e come sortisse un
tal nome. niente a lui consentaneo. Di costui fu padre Marco Giunio,
proveniente da uno di que’ che menarono con Enea la colonia, e distintissimo
per la sua virtù tra’ Romani : fu la madre Tarquinia, figlia di Tarquinio 1’
antico. Egli ricevè la educazione, e tutta la coltura nazionale, nè la indole
sua contrariavasi a niun de’ bei pregi. Dappoiché Tarquinio ebbe ucciso Tullio
levò segretamente di mezzo con molti uomini probi anche il padre di lui non già
pe’ delitti, ma per la ingordigia d’ invaderne le ricchezze ereditate da pingue,
antico patrimonio di famiglia : levò similmente con esso il figlio primogenito
di lui nel quale appariva non so che di generoso, e che sofferto non avrebbe
invendicata la morte del padre. Bruto giovinetto ancora, -e privo in tutto del
soccorso de’ parenti si rivolse al mezzo savissimo di fingersi, stolido
divenuto. Dall’ ora in poi, finché non gli sembrò di averne il buon tempo,
ritenne le apparenze dello stolido ; e se n’ ebbe il soprannome, ma si liberò
con questo dalle ire del tiranno, mentre tanti egregj uomini ne soccombetrano.
Tarquinio trascurandone la demenza apparente e non vera, spogliatolo di tutti i
beni paterni, e datogli un tal poco pel vitto quotidiano, lo custodi presso di
sé, come garzoncello orfano, e bisognoso di chi lo qurasse, e concedè che oo’
figli suoi conversasse ; nè già per onorarlo qual congiunto suo, come fingea
tra’ parenti, ma perchè desse da ridere a’ propj figli, dicendo costui le mille
frivole cose, e facendone le simili agli stolidi veramente. Anzi quando mandò
li due figli Àronte e Tito per interrogare 1' oracolo di Delfo su la peste (
giacché nel regno suo proruppe una peste insolita su le vergini e su i
fanciulli che in copia ne perivano, e più terribile ancora e men curabile su le
gravide, che morte cadeano col proprio feto in su le vie ) quando io dico mandò
questi per conoscere dal nume le cause del male e lo scampo, allora congiunse
ancor lui co’ figli che gliel chiedeano perchè avessero intanto chi beffare e
deridere. Giunti all’oracolo i giovani ed ascoltatolo su la causa ond’ erano
inviati porsero sacri doni al nume, e lungamente risero di Bruto che avea
consecrato ad Apollo una bacchetta di legno ; ma colui trapanatala tutta come
una fistola aveaci offerto, senza che ninno ne sapesse, una verga di oro. Poi
consultando essi il nume chi mai, portavano i destini, che divenisse re di Roma
;-^rispose che il primo che bacerehhe la madre. E non intendendo i giovani la
mente dell’ oracolo concordarono di baciare insieme la madre onde regnare in
comune. Bruto però penetrato ciocché 1’ oracolo volea significare, non si tosto
discese nell’ Italia, prostratosi, ne baciò la terra, giudicando questa la
madre di tutti. £ tali SODO i fatti precedenti di quest’uomo. Come Bruto udi da
Valerio i successi di Lo eresia e la storia della morte di lei sollevando le
mani al cielo disse: O Giove, o Dei tutti, quanti vegliate su la vita de’
mortali, è dunque giunto finalmente il tempo per aspettare il quale io
contrafeci finora me stesso ? Fuole dunque il destino che Roma sia da me
liberata e per me dalla insojfribil tirannide ? E ciò dicendo vassene sollecito
in casa insieme con Collatino e Valerio. Entrata la quale, appena Collatino
videvi Lucrezia stesa nel .mezzo, col padre allato, scoppiando in copi ge miti
la slringea, la baciava, la chiamava, e fra tanta sciagura uscito di mente
tenea colla estinta il discorso, quasi fosse ancor viva. Or essendo lui tutto
in pianto, e con esso il padre a vicenda, e tutta rimbombando la casa di
lamenti e di gemiti; Bruto, rimirandoli disse: O Lucrezio, o Collatino, o voi
tutti, parenti di que^ sta donna, beri avrete altra volta il tempo di
piangerla. Ora ( e ciò deesi alla ingiuria presente ) pensiamo ^ come
vendicarla. Egli sembrava dir giusto : adunque se dendo soli fra sè, sgombrata
immantinente ogni turba dimestica, esaminarono ciò ch’era da fare. Bruto
cominciando il primo a dire sopra sestesso che la sua demenza non fu vera, qual
parve a molti, ma simulata ; e svelaudo le cause per le quali diedesi a
fingerla, e giudicatone savbsimo infra tutti ; alfine, allegatene molte, ed
acconcio ragioni, animò tutti al parer suo di cac(t) Plinio sul fine del libro
XV. scrive che Bruto baciò la terra di Delia, a non dall Italia. dare Tarquinio
e li figli da Roma. E vedmili ornai tatti consentanei, disse Che non era pià
tempo di parole e promesse, ma di opere; e che egli imprenderebbela il primo se
cosa alcuna fosse da imprendere. Ciò dicendo, e stringendo il pugnale con cui
la donna fini sestessa, e venuto al cadavere di lei, che giaceva ancora
spettacolo compassionevole a tutti, giurò su Marte, e su gli altri Dei Che
farebbe tutto, quanto potea, per abbattere la tirannide di Tarquinio, che non
pià si riconcilierebbe co' lii'anni, nè permetterebbe che altri si
riconciliasse con essi: ma terrebbe per nimico, chiunque non volesse fare
altrettanto ; e perseguite-^ rebbe fino alla morte la tirannide e li partigiani
di essa. Che se mancava a quel giuramento, imprecava per sè e pe’ figli un
termine della vita, quale il termine fu della donna. Ciò detto invitò pur gli
altri a simile giuramento : e quelli, niente esitandone, levaronsi, e dandosi a
mano a mano il pfignale giurarono, ed investigarono poi qual fosse la maniera
di dar principio all’ impresa. Bruto cosi consigliò : Primieramente poniam le
guardie alle porte, perchè Tarquinio non penetri niente di ciò che in Roma si
dice o si opera contro la tirannide, innanzi che noi siamo ben preparati.
Quindi portando il cadavere della donna, lordo comi è di sangue, nel Foro, ed
esponendovelo, chiamiamovi a parlemento il popolo. E quando siavisi congregalo,
quando ne vedremo già piena ( adunanza; allora Lucrezio e Collatino
presentandosi narrino H orribile caso, e deplorino la loro sciagura ; poi
qualunque altro facciasi innanzi ed ocf)3 ousi la ^tirannide, e provochi li
cittadini a liberarsene. Oh! come avran caro di veder noi patrizj insorgere i
primi perla libertà. Stanchi del Tiranno, e de’ molti e terribili mali che ne
han sofferto, non abbisognano die St un primo impulso appena. Quando vedremo la
moltitudine in furia per togliere la monarchia ; farremo c^ risolva co' voti,
che Tarquinio non dee più regnare su Roma, e solleciti ne spediremo il decreto
in campo all' esercitaIvi quando coloro che han tarmi conosceranno che tutta si
è la città ribellata da Tarquinio, infiammeransi per la libertà della patria,
insensibili a tutti i doni del tiranno, essi che non più reggono agli affronti
de' f gli, e degli adulatori del perfido. Or avendo lui cosi detto soggiunse
Valerio: Tu mi sembri o Giunio che abbi giustamente parlato su le altre cose ;
ma quanto ai comizj vorrei da te sor pere chi li potrà convocare
legittimamente, e chi dare alle curie i voti; essendo questo offizio de'
magistrati, e niun di noi trovandosi magistrato. Ripigliando allora Giunio : o
Valerio, io, gridò, sono tale; imperocché sono il tribuno de Celeri, e per
legge mi è dato d intimare quando voglio le adunanze. Tarquinio dava tal
massimo incoi ico, a me come stolido, e che appresa non ne avrei la potenza, o
che se appresa V avessi, non saprei prevalermene. Ma io mi son quegli che il
primo arringherò contro del tiranno. Detto ciò lo applaudivano tutti come lui
che prendeva le mosse da principio legittimo e buono ; e lo pressavano a dirne
anche il seguito ; ed egli disse : E poiché ci piace far questo, vediamo ancora
qual maDigitized by Google J)4 delle antichità romane gistrato, e da chi mai
crealo, debba reggerci dopo Ut espulsione dei re : anzi vediamo qual Jorma
daremo allo Stato f liberi dalla tirannide ; imperciocché prima ài accingersi
ad opera siffatta vai meglio di avere de liberata ogni cosa, anzi che se ne
lasci alcuna non discussa, né premeditata. Ora dica ciascuri di voi su tali
cose ciocché ne pensa. Dopo ciò si tennero molti discorsi e da molti. Chi
numerando i gran beni fatti da tutti i re precedenti, amava che si riordinasse
la regia dominazione; e chi ricordando le tiranniche ingiustizie di altri e di
Tarquinio finalmente su’ proprj cittadini, non voleva il Comune sotto di un
solo, ma che piuttosto arbitro se ne dichiarasse il Senato come in molte delle
greche città : varj però non anteponeano nè 1’ uno né r altro, ma consigliavano
che si fondasse un governo popolare, conne in Atene, esponendo le ingiurie, le.
avanìe de’ pochi ^ e le sedizioni de’ miseri contro de’ potenti, e dichiarando
che in città libera il comando più sicuro e più degno è quello delle leggi, eguali
per tutti. Ma sembrando a tutti malagevole ed arduo il giudizio su la scelta
pe’ mali che sieguono da ogni governo ; alfine Bruto, ripigliando disse : O
Lucrezio, o Collatino, o voi tutti, quanti qui siete, uomini buoni, e JigU
ancora di buoni-, io quanto a me non penso che noi dobbiam di presente dar
nuova forma allo Stato. Troppo é picciolo il tempo a cui siamo ridotti, perché
ci sia facile staBilirvela armoniosa ; lubrico altronde, e pericoloso, é tentar
di cambiarvela, quantunque benissimo su di essa avessimo risoluto. Quando ci
saremo levati dallà tirannide, allora potrem finalmente, consultandoci con più
agio e più feria, trascegliere il governo migliore a fronte de' menò buoni j
seppur avvene uno migliore di guei'^ che 7?omolo e Numa e gli altri re
successivi stabilirono e ci "lasciarono, donde la città ne crebbe e ne
prosperò, signora fin qui di più popoli. Solamente vi esorto che si emendino, e
che provvedasi ora che più non v abbiano i mali terribili solili prorompere
dalle monarchie, pe’ quali si mutano in tirannidi crude, e pe' quali tutti le
abborrono. Ma quali son queste provvidenze ? Primieramente giacché molti
attendono ai nomi, è secondo i nomi vanno al male o fuggono t utile ; e siccome
è succeduto che ora molto attendasi a quello di monarchia; vi consiglio che il
nome cangiate del governo, fe che da ora in poi quelli che vi comandano non più
re li chiamiate, non più monarchi, ma con appellazione più discreta ed umana :
poi, che non più rendiate un sol uomo arbitro di ogni cosa, ma fidiate a due la
potenza dei re, come odo che i Lacedemoni fanno da molte generazioni, e che
perciò ne hanno più di tutti i Greci leggi buone, e stato felice. Diviso il
comando in due, e l’ uno potendo appunto quanto F altro ; meno acconci saranno
a violarci, e meno ad opprimerci: anzi da tale egualità dee seguirne
principalmente la verecondia, il ritegno vicendevole dell’uno per F altro,
sicché noti si sfrenino, ed una viva gara per la fama della giustizia. E poiché
molti sono li regii distintivi, io giudico che y impiccioliscano o tolgano
quelli che àddolorano a rimirarli o sdegnano il popolo, io dico gli scettri,
dico le corone di oro ^ e le clamidi eli oro intessute e di porpora, se non
forse si asswnono ne' giorni festivi e ne’ trionfali per magnificare g/i Jddj ;
mentre usate di raro non offendono. In opposito penso che si conservi a questi
uomini la sedir curule ove siedono rendendo ragione, e la veste candida cinta
intorno di porpora, e li dodici fasci che il venir loro precedano. Oltracciò perchè
quelli che prendono il comando non molto ne abusino, io penso utilissima e
principalissima cosa, che non lascinsì comandare tutta la vita. Imperciocché
riesce a tutd grave un comando ind^nito, uft comando che non pià dia di sè
ragione ; e di qua vien la tirannide. Ma si limiti come tra gli Ateniesi f
autorità del comando ad un anno. Quelcomandare a vicenda e quell' essere
comandato, quel deporre il pMere prima che il pensar vi si guasti, preoccupa le
indoli vane, nè lascia che vi / inebbrino. Se .così stabiliamo, goderemo i beni
che sono il frutto di una regia dominazione, e schiveremo i mali che né
conseguitano. E perchè il nome regio, consueto già tra' nostri avi, ed
introdotto in questa città co t gli augurj propizj degl Jddj che lo favorivano,
ti custodisca, almeno per tale riguardo ; si faccia continuamente, a vita, ed
onorisi un re del Culto ^ un che libero dalle cure militari in questo solo si
occupi e non in altro, cioè che abbia, quasi re ne fosse, l’ arbitrio sovrano
de’ sacrifizj. Ora udite come fia ciascuna di queste cose. ’ Io, poiché dalle leggi mi si concede, io
raccoglierò, come diceva, l’adunanza del popolo, e riesporrò la mia mente di
bandire Tarquinia colla moglie e coi figli da Roma e suo territorio,
escludendoneli per sempre essi e la lor discendenza. Quando avran ciò stabilito
co’ voti, io dichiarando allora il governo che pensiamo fondare, eleggerò V
interré, il qual nomini quelli che prendano le redini della repubblica. Quindi
io deporrò la prefettura dei Celeri; e V interré da me creato, proporrà gl’
idonei all’ annua preminenza, rimettendoli al voto de’ cittadini : e se il pià
delle centurie ne tien buona la proposta, se propizj gli oracoli la favoriscono,
assumano i fasci e le insegne del potere sovrano, e provvedano che libera
abitiamo la patria, nè pià li Tarquinj vi ritornino. Imperocché questi,
abbiatelo per certo, se non invigiliamo su loro, tenteranno colla persuasiva,
colla forza, coll’ inganno, per ogni via finalmente, rimettersi nell impero.
Queste sono le somme, le principalissime cose, che io dir posso e raccomandar
di presente. Quelli poi che avranno il comando devono, come io giudico,
esaminare una per una, le cose particolari, giacché troppe, nè facili a
discutersi pienamente ; e noi siamo stretti dal tempo: anzi'deono, come usavano
i re ponderarle col corpo del Senato, non concludendone alcuna senza noi ; e
quando siano approvate dal Senato, rapportarle, come f accasi tra i nostri
maggiori, al popolo non levandogli niun diritto di quanti s’ avea nel
principio. Così le sue magistrature saranno sicurissime e bellissime.
Proferendo Giunio Bruto tal suo parere tutti lo commendanino ; e datisi ben
tosto a consultare, decisero che si nominasse interré Spurio Lucrezio il padre
di colei che uccise sestessa: e che da lui si scegliessero per avere il potere
dei re Lucio Giunio Bruto, e Lucio Tarqninio Collatino. Stabiliscono che tali
soprastanti nell’ idioma loro si chiamassero Consoli, vnol dire consiglieri o
capi del ronsiglio, interpetrando in greco tal nome, giacché i Romani ciocché
noi simboulas diremmo chiaman consiglio. Coi volgere però del tempo i consoli
furono per l’ ampiezza del potere chiamati Ypati dalia Grecia, comandando essi
a tutti e t^ neodo.il più sublime de gradi; e chiamandosi da’ nostri antichi
Ipaton quanto sopralzasi, e maggioreggia. Dopo tali consulte e tali istituzioni
supplicarono co’ voti gli Iddj che fossero propizj ad essi .intenti ad opera si
giu non colla sepoltura a norma delle leggi : e Tarquinia la donna di questo
ch’egli dovea venerare qual. madre, come sorella del padre, Tarquinia già tanto
.sollecita in suo bene, % egli la strangolava, sì, questa misera, innanzi che
prendesse il lutto, e che rendesse in su la tomba al marito gli ultimi onori.
Così contraccambiava quelli da quali fa salvo, da quali fu nudrito, ed. a quali
avrebbe pur succeduto sol che avesse un poco aspettato finché venisse loro
naturalmente^ la morte. Ma perchè più, su questo riprendolo, quando, oltre i
delitti contro de’ consan^inei e de’ suoceri, ho pur da accusarne le tante
prevaricazioni contro la patria, e contro noi tutti, se prevaricazioni son
queste, e non sovversioni e rovine di ogni costume e di ogni legge. E per
comiiKiare subito ^dal regno, come lo prese egli questo ? forse come i re
precedenti? ma quando mai? molto nè egli lontano. Imperocché quei tutti furono
da voi portati al trono secondo i patrj costumi e le leggi, prima col decreto
del ' Senato che è il capo di ogni pubblica deliberazione, poi degl’ interré
scelti ed incaricati dal Senato per nominare il pià idoneo al comando f e co’
voti dati ne' comizj dal popolo, da cui, la legge vuole, che si ratifichi ogni
cosa più rilevante, e finalmente cogli augurj f colle vittime, e con altri
segni propizj senza i quali niente giovano i maneggi e le previdenze degli
uomini. Or dite, qual di voi mai vide una parte almeno fatta di ciò quando
Tarquinio prese il comando ? qual vide decreto preliminare del Senato? quale
scelta degl’ interré? quali suffiragj del popolo ? per non dire dov è tutto
questo ? quantunque se egli voleva il regno lecitamente, non dovea parte ninna
pretermettersi di quanto chiedesi dalle leggi. Certo se alcuno può
dimostrarmene fatta pur una di queste cose, più non vo’ che si brontoli su le
altre che si tralasciarono. Come dunque egli si spinse al trono ? colle arme,
come i tiranni, colla violenza, colla congiura degli scellerati, noi
riprovandolo, e dolendocene, E fattosi re, comunque ciò fosse, la sosteneva
egli V autoràà tua regalmente ? Emulava i suoi predecessori i quali co’ detti e
co’ fatti costanti così ressero, che lasciarono a’ posteri la città più felice
e più grande che presa non V avessero ? Chi, se pure è sano di mente, chi potrà
mai dir ciò, vedendo quanto miseramente e scelleratamente siamo stati da lui
malmenati. Tacio le sciagure di noi senatori, le quali, pur un nemico, udendole,
ne piangerebbe, e come siam pochi rimasi di molti, come rendati abbietti di
granài, e come venuti a disagio e stento, cadendo dai tanti e sì ampj beni.
Que’ grati j que’ potenti,. Io3 que cospicui uomini, po' quali questa nostra
città era un tempo magnifica, quelli perirono, o fuggono la patria. E le vostre
cose y o popolo, come stan esse ? Non ha tolto. a voi le leggi ? non i concorsi
soliti per le feste e pe’ sacrifizj ? Non ha fatto cessare i comkj, i suffragj,
e le adunanze tutte su le pubbliche cose? Ridotti siete, quali schiavi
comperati, ai vilipendi di tagliare, di portare pietre ed arbori, di logorarvi
tra gli antri e i baratri senza requie mai, neppur tenuissima dai mali. Or
quando avran fine mai tali strazj ? fino a quando li starem sopportando ?
Quando la patria libertà vendicheremo ? ... Al morir del tiranno ? Appunto !
Dite ci sarà allora pià facile ? E perchè non piuttosto assai meno ? se per un
Tarquinio ne avrem tre molto pià scellerati? Se chi di privato è divenuto
monarca, se chi tardi ha cominciato a nuocere, ha percorsa tutta la malvagità
de’ tiranni, quali, pensate, esser debbono i discendenti da lui, scellerati di
stirpe, scellerati di educazione, che mai non poterono vedere nè apprendere in
città misure politiche di moderazione ? E perchè non per congetture, ma
intimamente conosciate la perversità loro, e quai cani latratori alleva contro
voi la tirannide di Tarquinio ; specchiatevi in un azione sola del primogenito.
E questa la figlia di Spurio Lucrezio, lasciato prffetto in Roma dal Tiranno
nelP andare alla guerra, e moglie insieme di Tarquinio CollaUno, del consanguineo
de’ tiranni che pur tanto ha da loro sopportato. Or questa per serbarsi pudica.
e tutta agli amori del suo marito, come fanno le virtuose, avendo Sesto qual
parente preso ospizio appo lei, mentre Collatino era lungi nelt armata, non
potè schivare nella passata notte le onte. sfrenate della tirannide; ma
violentata come una schù^va sostenne ciocché libera donna non dee. Pertanto
esacerbatane, e presa la ingiuria per insoffribile, dopo che ebbe narrato al
padre e a congiunti le vicende ree che la desolarono, dopo che ebbe pregato e
scongiurato che la vendicassero per tanti mali; alfine traendo il pugnale che
celava nel seno, profondosselo, e vedendola il padre j o Romani, nelle viscere.
O tu certo mirabile, o tu di encomj degnissima per la nobile ' risoluzione ! t’
involasti, moristi non reggendo agli obbrobri del tiranno, e ricusasti le dolcezze tutte del vivere perchè
simile calamità non ti avvenisse. Avrai tu dunque o Lucrezia nella tua femminil
condizione K avuto il. cuore de’ valentuomini, e noi, uomini nati, noi saremo
in viltà men che le femmine ? Tu perchè predata a forza del fiore immacolato
della tua pudicizia, avrai tu reputato la morte pià dolce e pià beata della
vita; e noi non avrem pur nell’ animo, che Tarquinio non da una notte, ma già
da venticinque anni ci opprime, e ci ha colla libertà levato gli agi tutti del
vivere ? No ; pià non dobbiamo, o Romani, noi vivere avvolgendoci in tanti
pericoli, noi che discendenti siamo di que bravi, che vollero fondare i diritti
fin per gli altri, e lanciaronsi a tanti .pericoli per la sovranità e la gloria
: ma V una delle due si dee scegliere o libera vita, o morte onorata. È pur
venuto il tempo che bramavamo ; perchè lungi è il tiranno dalla città, e perchè
duci sono della impresa i patrizj, e perchè se con animo pronto ci facciamo ad
imprendere, non abbisogniamo di cosa niuna non di uomini, non di danari, non di
arme, non di capitani, non di altro apparecchio militare ; essendone Roma
pienissima. Siaci pure una volta vergognà che noi che cerchiamo signoreggiare i
Volsci, i Sabini, ed altri moltissimi^ noi stiamo • ad altri servendo, e che
mentre tante guerre imprendiamo per in^andire Tarquinio, niuna per la nostra
liberuì ne facciamo.Ma di quali incora^menti ci varrem per la impresa, di quai
leghe ? È questo che rimanenti a dire. Primieramente c incoraggiremo su la
speranza negl’ Iddj de’ quali Tarquinio viola le sante cose, i templi, gli
altari, libando e sacrificando con mani lorde di sangue, e di ogni
scelleraggine contró de cittadini; appresso c incoraggiremo su la speranza che
abbiam su noi stessi che nè pochi siamo, nè inesperti di gierra ; e finalmente
sul rinforzo di quegli alleati i quali non ardiranno far novità se noi non ve
'gV invitiamo ; ma se vedono che noi il valor nostro raccendiamo, lietissimi ci
si uniran per combattere ; nemico essendo della tirannide chiunque vuole esser
libero. Che se alcuno di voi teme quei cittadini che in campo si porran con
Tarquinio per militare con esso contro noi ;• non bene teme costui. Anche ad
essi è grave la tirannide, ed ingènito in tutti è V amore della libertà : ed
ogni occasione di mutamento basta a chi è misero necessariamente. Che se voi li
chiamerete col voto vostro a soccorrer la patria, non timore li riterrà co’
tiranni, non grazia, e non cosa ninna la quale sforzi o persuada, a mal fare. E
se in alcuni si è per la ria natura, e la trista educazione abbarbicato V amor
dei tiranni ; ridurremo ancor essi, che molti non sono, con insuperabile
necessità sicché utili ci divengano i malevoli ; perciocché teniamo in città
quali ostaggi i loro figli, le mogli, i parenti, pegni carissimi che ognuno
pregia più che la vita. Or se noi prometteremo di rendere questi, se
decreteremo per essi la impunità quando distacchinsi dal tìrannno ; di leggeri
li persuaderemo. Cosicché fatevi cuore o Romani, concepite belle speranze per V
avvenire, uscite per una guerra, certo la più gloriosa di quante mai ne
imprendeste. Si, palrj Dei, propizj curatori di questa terra, sì Genj, tutelari
già de nostri padri, sì, città carissima infra tutte ai Celesti nella quale
nascemmo e cresciamo, sì noi vi difenderemo co’ pensieri, colle parole, colle
opere, colla vita ; pronti a tutto soffrire, quanto la fortuna porti ed il
fato. Presagiscorni che alla impresa buona seguirà fine bonissinto. Possano
quanti confidano, quanti decidonsi come noi, voi salvare ed essere da voi
salvati parimente. Mentre Bruto aringava, faceansi ad ogni suo detto
acclamazioni dal popolo in signiBcazione, che esso appunto cosi voleva, e
comandava. Ed i più sentendo quel parlare maraviglioso ed inaspettato
lagrimavano per tenerezza. Inondavano passioni varie nè punto 1 07 amSi ogni
petto: e dove il rancore, dove la gioja trionfavano, là pe’ mali già sostenuti,
qua pe’ beni che si aspettavano. Dove era audacia, dove timidità, quella che
incitava a non curar sicurezsa contro i subjetti, odiati perchè intenti a far
male ; e T altra che oppo neasi agl’ impeti delia prima, perchè vedea non
facile la rovina della tirannide. Ma non sì tosto colui cessò dal parlare ;
tutti, quasi con una bocca, ad una voce esclamarono, che guidassegli alle arme.
E Bruto dilettatone, sì, disse, ma quando prima avrete udito, e confermata co’
voti vostri i decreti del Senato. E noi decretiamo CHS i TAsqvatj s tutta la
consangvu HIT a' loro svogano ROMA E QUANTO È Ds' ROMAICI : CBS NIUNO FOSSA
DIRE O BRIGARE SUL RITORNO DEI tiranni; e se contravviene; si" uccida. Or
se volete che un tal parere si adotti ; compartitevi in curie, e datene i voti.
Questo incominci per voi li diritti della' vostra libertà. Disse ; e cosi fu
hitto : e poiché tutte le Curie ebbero decretato 1’ esilio del tiranno ; Bruto
fattosi innanzi, ripigliò : Giacché avete voi ratificato quanto deesi, le prime
cose ; ascoltate U resto che abbiam deliberata su lo Stata. Esaminando noi qual
magistrata esser dee V arbitro del comando, ci è piaciuto, non già di rinnovare
il comando di un solo, ma di creare ogm anno due capi con regio potere, che voi
stessi eleggerete ne’ comizj, votandovi per centurie. Or se volete anche ciò ;
datene il voto. Il popolo lodò questo ugualmente; nè vi fu pur un voto
contrario. Quindi ripresentatosi Bruto, nominò Spurio Lucrezio per interré,
perchè secondo le patrie leggi prendesse cura de’comisj. Costui sciogliendo ' r
adunanza, ordinò che tutti subito si recassero in arme al campo, dove solcano
tenere i comizj. Recativisi ; scelse due Bruto e Gollatino che facessero quanto
facevano i re. Ed il 'popolo chiamato per centurie con fermò la magistratura a
que’ due. Tali sono le cose ai lora fatte in città. Tarqninio come udì da
messaggeri sottrat tisi per avventura da Roma prima che le porte se ne
chiudessero, che Bruto (perché narravano questo solo) fattosi capo-popolo,
aringava i cittadini, e suscitavali a rendersi liberi, parti senza dirne le
cause, prendendo se^o i figli, ed altri più fidi, e correndo a briglie sciolte
onde prevenire la ribellione. Ma trovando chiuse le porte, e piene le mura di
arme, tornossene, quanto potè, veloce nel campo affligendosi e lagrimando : se
non che già le sue cose erano qui pure in iscompigUo. Imperocché li consoli
antivedendo la sollecita venuta di lui verso Roma aveano per altra via spedito
all’armata, invitandola a togliersi dal tiranno, ed annunziandole i decreti di
quei della città. Or Tito Erminio e Marco Orazio lasciati dal tiranno nel campo
prendendo quelle lettere le recitarono nell’ adunanza : e dimandando via via
per centurie ciò che era da fare, e piaciuto a tutti che si ratificassero le
deliberazioni della città ; più non riceverono Tarquinio che tornavasi a loro.
E caduto pur da questa speranza fuggisseue con pochi alla città di Gabio f
della quale, come ho detto di sopra, avea creato monarca, Sesto il suo
primogenito. Esso già canuto per anni avea tenuto per cinque lustri il comando.
Erminio ed Orazio, concbiusa una tregua di quindici anni cogli ÀrdeatinI,
ricondussero in patria le milizie. Per tali cause e da tali uomini fu tolta in
Roma la regia dominazione, conservatavisi per dugcnto quaranlaquattr’ anni
dalla sua fondazione, e divenuta in fine tirannide sotto 1’ ultimo re.
OloMSERVATASl in Roma la regia dominazione per dugento quarantaquatlr anni e
cangiatavisi poscia in tirannide sotto r ultimo re fa per le cagioni anzidette
abolita da tali uomini sul principio
della olimpiade sessagesima ottava, nella quale Iscomaco da Crotone vinse allo
stadio, mentre Isagora esercitava in Atene r aunuo magistrato. Ed istituitasi
la signoria de’ pochi, mancando quattro mesi al compiersi di quell’anno,
assunsero i primi il comando supremo, Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquioio
Collatino col nome di consoli, Anni 345
fecondo Catone e i 47 'ecjndo Varrone dalla fondailone di Roìna, e So; avanli
Cristo] cosi chiamandosi da Romani, come già dissi, nel patrio idioma i capi
del Senato. Poi congiungendo questi a sè gli altri che numerosi tornavano dal
campo in città dopo conchiosa la tregua con gli Àrdeatini ; e pochi giorni
appresso la espulsione del Tiranno convocando il popolo a parlamento, e
ragionando copiosamente su la concor dia ; fecero di bel nuovo decretare co’
voti, come già quelli che erano in Roma lo avevano decretato, bando perpetuo ai
Tarquinj. Dopo ciò puri6cando la città, fattone sacrifizio ; essi i primi,
stando intorno le vittime, giurarono, e ccndussero pur gli altri a giurare, che
mai più dal bando richiamerebbero il re Tarquinio, nè la prole di lui, nè i
figli de’ figli : anzi che non più iarebbono re ninno in Roma, nè
tollererebbono chi far cel volesse. Cosi giurarono su’ Tarquinj, su figli, e su
la prosapia loro. E, couciossiachè pareano i re, stati autori di molti e gran
beni inverso del pubblico, deliberatisi a conservare il nome almeno di tal
signoria, finché Roma durava, comandarono ai pontefici ed agli auguri di
eleggere il più idoneo tra’seniori, perchè tolto da tutte le cure, se non dalle
religiose, presedesse in sul culto, e Me si chiamasse non delle politiche, non
delle militari,. ma delle sante cose. Per tanto fu delle sante cose nominato re
per il primo Manio Papirio, uomo patrizio e dedito alla dolce calma. II.
Stabilito ciò, temendo, io credo, che non si generasse negli altri sui nuovo
governo la idea non vera, che in luogo di uno dominavano due re la città mentre
Secondo Feslo il primo re tacriJieuUu, fa Sicinnio Beliulo, ed in cfò discorda
da Dionigi e da Livio. Ir uno e 1’ altro de’ consoli avca come un tempo i re le
dodici scuri ; deliberarono preoccupar tal concetto, e scemare la invidia del
comando, e fecero cbe l’uno de’consoli portasse dodici scuri, e F altro dodici
littori colle verghe coronate solamente
come narrano alcuni: talché le scuri le assumesse e recasse ora l’uno
ora F altro vicendevolmente per un mese intiero. Animarono con questo F umile
plebe a conservar quel governo ; e con simili cose non poche. Imperocché
rinnovarono tutte le leggi scritte da Tullio su’ contratti ; le quali si tenean
per umane e popolari, e Tarquinio aveale tutte soppresse : e comandarono che si
facessero come a’ tempi di Tullio, i sagriGzj che in città si faceaiio o nella
campagna, riuiiendovisi que’ di Roma e de’ villaggi. Concederono che il popolo
si radunasse per le cose più rilevanti, e desse il voto, e ripigliasse a voler
suo gli usi primitivi. Piaceano tali cose alla moltitudine ravvivatasi dal
servir lungo a libertà non aspettata. Nondimeno ci ebbero alquanti i quali
desiderosi de’ mali della tirannide per demenza o per avarizia congiurarono di
tradire la patria e richiamarvi i Tarquinj, trucidandone i consoli : ed io dirò
quali ne fossero i capi, e come im provvedutamente scoperti, mentre credeansi
occulti atutti, ma riassumerò le cose alquanto più addietro. III. Caduto
Tarquinio dal trono, si tenne per un tempo, non lungo, in Gabio, raccogliendo
quanti a Il lesto non è ben fìsso : e
fotse dee leggersi verghe curve o grosse nella lesta. Il codice Valicano
avendola voce xafvtat e noa xtfà/tttt favorisce la idea di verghe grosse in
testa. Silburgio propende per le verghe ricurve iu cima lui ne venivano amici
della tirannide pià che delia libertà, e confortandovisi in su le speranze de’
Latini, quasi potessero questi ricondurlo alla reggia. Ma poscia che le città
non io ascoltavano nè voleano per lui fare una guerra ai Romani ; disperandone
alfìne il soccorso fuggissene a Tarquinj città Tirrena, donde era la materna
origine sua. E cattivandosi que’ cittadini co’ doni, e prodotto da essi in
piena adunanza, rinnovò 1’ antica congiunzione con loro, e commemorò li
benefizj deU r aiuolo suo con tutte le città Tirrene, e gli accordi che avean
fatto con lui. Poi si lamentò con tutti della sciagura che avealo preso, e come
travolto in un sol giorno da lietissima condizione, ora profugo con tre 6gli e
bisognoso fin del necessario, era costretto ricórrere a popoli, un tempo,
sudditi suoi. Scorrendo su tali cose pateticamente e con molte lagrime, indusse
il popolo a spedire il primo a Roma uomini che portas sero parole di pace per
lui, quasi i potenti ivi fossero per favorirlo, ed ajutarlo al ritorno.
Nominati quelli eh’ egli volle per ambasciadori, ed istruitili delie cose che
erano da dire e da fare gli spedi con alquanto di oro e con lettere de’
fuorusciti con esso dirette con preghiere agli amici e domestici loro. IV.
Venuti questi a Roma dissero hi Senato : che chiedea Tarquinia la franchigia di
venire con pochi prima in Senato, e poi, quando ciò fossegli conce-duto dal
Senato, nell adunanza del popolo per darvi conto delle opere sue fin dai
principj del regno, falline giudici tutti i Romani, se alcuno mai lo accusasse.
Che se appien si giustifica, se persuade che egli non ha colpe degne dell
esilio ; allora se gUel concedano, regnerà novamente con que' limiti che gli
prescriveranno : se poi decreteranno di non voler più. come per l’ addietro la
sovranità dei re, ma di fon-^ darne un altra qualunque, egli uniformandovisi al
pari degli altri reslerassene colla sua famiglia in Roma, sua patria, libero
almeno della vita degli erranti, e de' profughi. E ciò detto supplicavano il
Senato pei comuni diritti che vogliono che niun si condanni senza discolpe e
giudizj, a concedere una difesa della quale essi giudicherebbero. Che se ciò
non volevano a lui concedere, fossero compiacevoli almeno in vista della città
la quale s' intrametteva. Compiacendola, tuttoché senza discapito loro, assai
onorerebbero la città che ciò conseguiva. Uomini essendo, non si elevassero
sopra la sorte degli uomini: nè serbassero immortali sdegni in cuori mortali :
ma in grazia degt intercessori si sforzassero anche contro lor voglia di usare
mansuetudine ; considerando eh' egli è da savio condonare le inimicizie per le
amicizie ; ma da stello e da barbaro volgere in nemici gli amici. V. Aveano ciò
detto, quando Bruto sorgendo replicò : Sul ritorno de' Tarquinj in Roma cessate
o Tirreni di più ragionarne. Imperciocché già si è qui J volato
irreparabilmente per l'esilio loro: ed abbiamo tutti ^giurato agC Iddj di non
restituire i tiranni, e di non tollerare che altri ce li restituisse. Ma se
chiedeste con altra moderazione a cui nè le leggi nè li giuramenti si
oppongono', manifestatevi. Or qui faitùi innanzi gli ambasciadoi’i soggiunsero
: Terminale ci sono contro la espettazione le prime dimandet ambasciadori per
uno che si raccomanda, per uno che vuole dare a voi conto di sè stesso, abbiamo
chiesto qual grazia ciocch’ era diritto per lutti : nè potemmo ottenerlo. Ora
poiché ve n è parato così ; non più vi presseremo sul tornar de' Tarquinj. J\oi
facciamo istanza per un altro diritto di cui la patria c incaricava, e su cui
non legge, non giuramento impediscavi, cioè che rendiate al monarca i beni clm
[ avolo suo possedeva senza toglierli a voi nè di forza nè in occulto, ma
portati qui avendoli, come ereditati dal padre. A lui basterà, se lo ricupera,
il suo, per vivere altrove Jelicemente, senza vostra molestia. RitiraroDsi ciò
detto gli ambasciadorì. Bruto T uno de’ consoli suggeriva che si ritenesser
que' beni in compenso delle ingiustizie sì gravi e sì numerose dei tiranni
contra del pubblico, e per util di Stato : perchè non si dessero ad essi de
mezzi co’ quali far guerra ; preammonendo, che nè si affezionerebbero ad essi i
Tarquinj col riavere i lor beni nè sosterrebbero una vita privata, ma
porterebbero su Romani le arme di altri popoli, e tenterebbero di tornare colla
forza al comando. Collatino però consigliava il contrario, dicendo che non gli
averi, ma le persone dei tiranni noceano la città. Pertanto scongiuravali a
guardarsi prima dalC incorrere nella rea fama di avere espulso i Tarquinj per
invaderne i beni, e poi dal porgere ad essi cosi spogliandoli, giusta occasione
di guerra : dicea che non era chiaro, che ricuperando i beni si accingerebbe^
ancora ad una guerra con essi, laddove era ben manifesto, che non ricuperandoli
f rion si cheterebbero. VI. Cosi dicendo i consoli ; e molti sentendola colr
uno e coir altro ; il Senato dubitò come avesse a risolvere. E ripigliandone
per più giorni l’ esame, e parendogli che Bruto consigliasse il più utile, ma
Collatino il più giusto ; in ultimo deliberò che giudice ne fosse il popolo. Or
qui dette essendo più cosedairnno> e dall’ altro de’ consoli, e venendo
alBne le curie, che eran trenta di numero, ai voli, preponderarono le une alle
altre con si piccini divario che quelle le quali intimavano che si rendessero i
beni superarono di uà sol voto le altre le quali voleano che si ritenessero. I
Tirreni avuta la risposta dai consoli : e molto lodando' la città che
anteponesse all’ utile il giusto ; spedirono a Tarquinio perchè mandasse chi
ricevesse i beni di lui ; frattanto essi resiavansi a Roma sul titolo del
trasporto de’ mobili, o di dar sesto a ciò che non potessi menar via j nè
carreggiare : ma in realtà spiando e brigandovi, come il tiranno aveali
incaricali. Perocché ricapitarono' le lettere de’ profughi agli attinenti loro
; pigliandone le altre di replica. E conversando, e studiando le affezioni di
molti, se ne trovavano alcuni facili ad essere guadagnati per la poca fermezza,
per la inopia, o pel desiderio di 'empiersi nella tirannide, davansi a
subornarli coir oro e con ampliarne le belle speranze. Vi sarebbero secondo le
apparenze in città si grande e si popolata, alquanti non degl’ infimi solo ma
de’riguardevoli i quali anteporrebbono il governo men buono al migliore 'y or
furono tra questi i due Giunj Tito e Ti> berio, figli di Bruto il console,
puberi appena, e con essi i due Geli]
Marco e Manio fratelli della moglie di Bruto, idonei a’ pubblici affari
: Lucio e Marco Aquìlio, figli ambedue della sorella di Collatino, altro
consolo, e conformi di anni al figli di Bruto, presso a’ quali, non più vivendo
il lor padre, per lo più si adunavano e ctmcertavano sul ritorno de’ tiranni.
VII. Tra le molte cose, per le quali a me sembra che Roma giugnesse per la
provvidenza de’nnmi a stato si prospero, non sono le infime quelle che avvennero
allora. Imperocché si mise in que’ sciaurati tanta de.menza, e tanta cecità,
che osarono fino scrivere al tiranno di propria mano lettere che indicavano il
numero copioso de’ congiurati ed il tempo nel quale assalirebbero r uno e r
altro console, lusingati dalle epistole del perfido ad essi per le quali volea
sapere i .compensi che avrebbe a dare, tornando in trono, al Romani. Ebbero i
consoli queste lettere per tale incontro. Eransi i prlmarj de’ complici riuniti
in casa, degli Aquilj nati dalla sorella di Collatino, invitativi come a sante
cose e sagrifizj. Dopo il convito ordinando che quei che lo aveano ministrato
uscissero e si • tenessero nell’ anticamera; confabulavano infra loro su • la
rintegrazione del tiranno, e segnavano ciascuno, i .mezzi che glien parevano di
mano propria in lettere che gli Aquilj doveano far giungere ai messaggeri
Tirreni, e questi a Tarquinio. Intanto uno schiavo (Vin Sigonio ne scogtj
LÌTiani pone Vitel^ in luogo di Gellj seguendo le antoriià di Livio e di Plnisrco.
dicio ne era il nome ) della città di Genina, il quale fervito gli avea di
bevanda, sospettando dalla remoaione de’ servi che coloro macchinassero qualche
scelleraggine, si stette solo fuori della porta, ed applicatovisi in una
fessura ben lucida, ne udì li discorsi, e ne vide le lettere che vi si
scrivevan da ognuno. Quindi a notte avanzala uscendo come in servigio de’
padroni, non ardi di andare ai consoli sol timore che volessero per r amor de’
congiunti che il fatto si occultasse, e ' levas~ sero di mezzo chi porgea la
dinunzia : ma recatosi a Pubblio Valerio l’ uno de’ quattro, primarj nel tor la
tirannide y congiunsero a vicenda la destra, e giuratagli da lui sicurezza, gli
svelò quanto odi, e quanto vide. Colui, saputo il fatto, si presentò • senza
indugio su r alba in casa degli Aquilj con valida schiera di clienti e di amici,
e penetrandone senza >ntesa le porte come per tutt’aliro affare, s’impadronl
delle lettere mentre pur v’ eran que’ giovani, i quali menò seoo innanzi de’
consoli. Vili. Ora essendo io per dire le sublimi, e meravigliose gesta di
Bruto di che tanto i Romani si magnificano, temo che sembrino austere troppo nè
credibili ai Greci, giacché tutti sogliono per natura giudicare le cose che di
altri si dicono dalle proprie, e secondo queste aversele per credibili o non
credibili. Nondimeno io le dirò. Non si tosto fu giorno, sedutosi Bruto in
tribunale, ed esaminando le lettere de' congiurati, appena scopri quelle de’
figli distinguendole dai sigilli, e dopo rotti i sigilli, dai caratteri; ordinò
primieramente •he lo scriba leggessene 1’ una e l’ altra, sicché tutti le
udissero, e quindi che i Ggli dicessero su ciò se voleano. Niuno de’ due ardiva
rivolgersi impudentemente a negarle per sue, ma quasi avessero già condannato
sè stessi, piangevano. Egli soprastando breve tempo sorse ; ed intimalo
silenzio, ed aspettando tutti qual ne sarebbe la flne, disse, che condannavali
a morte. Or qui alzarono tutti la voce, alienissimi, che avesse un tal uomo a
punire sè stesso colla morte loro, e voleano condonare al padre la vita de’
figli. Ma egli non comportando nè le voci nè i pianti comandò a’ satelliti che
di là rimovessero i giovani che lagrimavano e supplicavano e co’ nomi più
teneri lo chiamavano. Riusciva spettacolo meraviglioso a tutti che un tal uomo
niente piegato si fosse nè per le preghiere de’ cittadini, nè per la commi
aerazione inverso de’ figli : assai però parve più portentosa 1' austerità di
lui circa il supplizio. Imperocché nè permise che si uccidessero i figli
allontanati dal cospetto del popolo, nè egli, almeno per fuggirne la terribile
vista, si ritirò dal Foro finché non furono puniti : nè condiscese pure, che
subissero, non disonorati co’ flagelli almeno, la morte destinata. Ma
custodendo tutte le consuetudini, e tutte le leggi quante ve n’ ha su’
malfattori, egli stesso nel Foro tra la pubblica vista presente a tutto,
fattili prima straziar colle verghe ; concedette alfine che con le scurì si
decapitassero. Sorprendente soprattutto, inconcepibile era in quest’ uomo la
immobilità degli sguardi senza indizio nemmeno di compassione. Tanto che
piangendo tutti, egli solo fu visto non piangere sul destino de’ figli: nè
sospirò per sè stesso, nè per la solitudine la quale facevasi nella sua casa,
nè diè segno in tutto di debolezza: ma senza lagrime, senza lamenti, e come
inalterabile, portò magnanimamente la sua sciagura. Tanto era forte di animo,
tanto costante in compiere le risoluzioni, e tanto superiore agli affetti che
turbano la ragione ! IX. Uccisi i &gli fe’ chiamare immantinente gli AquiIj,
6gli della sorella dell’ altro console, presso a’ quali teneansi i congressi
de’ congiurati. E comandando alle scriba che ne leggesse l’ epistole sicché
tutti le udissero ; intimò ad essi che sen difendessero. Ma i giovani venuti
dinanzi al tribunale, sia che ammoniti ne fossero dagli amici, sia che di per
sè lo risolvessero, si gittarono a piedi dello zio per essere da lui salvati.
Ma comandando Bruto ai littori che li svellessero, e li traessero se non
voleano giustificarsi alla morte ; Collatino sopraggiunse a questi, che
sospendessero alquanto finché abboccavasi col collega, e pigliatolo da solo a
solo orò lungamente pe’ garzoncelli ; parte escusandoli che fossero caduti in
tale stoltezza per inesperienza e per compagnie triste di amici, e parte
eccitandolo a condonare la vita di parenti, dimandandolo in grazia lui che non
d’altro mai più lo vesserebbe, e parte facendo riflettere che turberebbesi il
popolo tutto se davausi ad uccidere chiunque sembrato fosse tenersela co’
fuorusciti perchè ritornassero ; imperocché dicea eh’ eran molti, e parecchi
non ignobili di lignaggio. Ma non venendogli di persuaderlo; ne chiese almeno
pena più mite che non la morte, dicendo: mal convenirsi che i complici si
avesser la morte, mentre il tiranno non sostenea che l’ esilio. E perciocché
Bruto ripugnava da pene più mi, nè voleva (ciocché chiedeva da ultimo il suo
collega ) nemmeno differire il giudizio de’ colpevoli, e minacciava, e giurava
di darli tutti appunto iu quel giorno alla morte ; Coliatino sdegnatosi in fine
che niente ottenea ; soggiunse : io, pari tuo, to scamperò que' giovini se tu
se tanto intrattabile e duro : E Bruto indispettitone, no, disse, Coliatino ;
non potrai finché 10 vivo far salvi i traditori della patria : anzi tu pure
darai tra non molto le pene che meritL X. Ciò detto, e messa una guardia su’
giovani chiamò 11 popolo a parlamento : e riempiutosi il Foro, perchè il
supplizio de’ figli suoi, già si era in città divulgato, egli facendosi in
mezzo, cinto da’ più cospicui de’ senatori disse : lo vorrei o Cittadini, che
Collatino, questo mio compagno, fosse concorde con me su tutto, ed odiasse e
combattesse i tiranni non pur colla voce, ma colle opere. Ora poiché lo trovo
manifestamente contrario e congiunto in tutto a' Tarquinj di sangue, di voglie,
e di brighe onde riconciliarceli, anzi col-[ utile suo che del comune ; io sono
risoluto di op~ pormegli perché non compia le ree sue macchinazioni, e perciò
vi ho qua convocati. Io dirò primieramente in qitanto pericolo sia la città ;
poi come t uno e t altro di noi siasi diportato. Biunitisi alquanti in casa
degli Aquila nati dalla sorella di Collatino, e tra questi ambedue li miei
figli e li fratelli della mia moglie, ed altri non ignobili ; stabilirono, e
congiitrarono la mia morte, e di restituirvi in Tarquinio il monarca. E già
erano per mandare ei fuorusciti /efrtere contrassegnate da loro caratteri e
sigilli. Ma si fe ciò, la Dio mercede, a noi manifesto, indicandocelo questo
uomo, che è un servo degli jiquilj, di quelli presso i quali si adunarono e
scrissero nella notte precedente le lettere ; e noi, le abbiamo noi, queste
lettere. Io già ne punii Tito e Tiberio miei figli : e niente, non leggi, non
giuramenti, furono da me violati per la clemenza di un padre. Ma Collatino mi
ritoglica dalle mani gli Aquilj con dire che non soffrirebbe che partecipassero
la sorte de' miei figli, se partecipato ne aveano i disegni. Ma se costoro non
soggiacìono a pena, nemmen dunque vi dovran soggiacere non i fratelli della mia
moglie, non quanti sono, i traditori della patria. E qual diritto più grande
avrò io contro questi, se risparmiatisi quelli ? Dite, qual contrassegno c mai
questo, di amici della patria, o del tiranno, di conferma del giuramento che
avete voi tutti prestato noi precedendovi, o di sconvolgimento e di perfidia ?
Se egli rimanevasi occulto, pur sarebbe in preda alle fune e sotto la vendetta
degli Dei che spergiurava. Ora poiché vi si è palesalo a voi si spetta, a voi
di punirlo. Vi persuadea costui pochi giorni addietro che rendeste i suoi beni
al tiranno, non perchè la città se gli avesse per usarne in guerra contro i
nemici, ma perchè li nemici gli avessero per usarne contro la città. Ed ora si
arroga di esentare dalle pene i congiurati a restituirvi i tiranni, in favore
come è chiaro di questi, perchè se mai tornano, sia di forza, sia per
tradimento egli in vista di tanti servigj ne ottengcL come amico, quanto
dimanda. Ed io che non ho perdonato a’ figli miei, io dovrò, o Collatino, te
risparmiare, che sei con noi di presenza, ma coll’ animo tra’ nemici ? E tu che
salvi i traditori della patria, tu me che per essa travagiiomi, ucciderai ? Or
potrà farsi ? Eh ! che lontani siamo di molto. E perchè non possi nulla di
simile, ti levo dal consolato e cornandoti che in altra città ti conduciti. E
voi o citiiadini voi chiamerò ben tosto per centurie, e presi i voti,
deciderete se dobbiam così fare. Intanto, (e vivissimamente avvertitelo ) voi
l' una delle due mi dovete, escludere Collatino, o Bruto. XI. Or lui cosi
dicendo ; Gollatino esclamando ed angustiandosi, cbiamavalo di cosa in cosa
calunniatore e traditore degli amici : e purgandosi dalle incolpazioni contro
di lui, pregava intanto pe’ fìgii della sorella: ma perciocché non permettea
che si dispensassero i voti contro di lui ; inferocivane il popolo, levandosi a
remore in ogni suo dire. Ora essendo cosi inferocito nè soffrendo discolpe, nè
volendo preghiere ma solo che si dispensassero i voti ; ed interponendosene il
suocero Spurio Lucrezio, uom pregiatissimo, per timore che Collatino non
perdesse ignominiosa mente ad un tempo il magistrato e la patria, chiese da
ambi i consoli facoltà di parlare. Ed ottenutala, esso il primo, come dicono
gli storici Romani, giacché non v era ancor r uso che un privato aringasse il
comune ; diedesi pubblicarrtente a pregare 1’ uno e 1’ altro de’ consoli,
Collatino perché non si ostinasse e non ritenesse il comando a mal cuore de’
cittadini, che spontanei gliel diedero ; ma se pareva a que’ che gliel diedero
di ripeterlo, volontanamente lo restituisse, e levasse co’ fatti, non coi detti
le accuse contro di lui : prendesse le sue cobbe e si recasse ad abiure altrove,
dovunque voleva, Gnchè 10 Stato non era in salvo ; cosi porUndo 1’ utile
pubblico : riflettesse come in altre ingiustizie gli uomini se ne sdegnano,
quando sono commesse : ma che sospetundosi di tradimenti stimano anzi saviezza
temerne invano e guardarsene', che trascurarli e lasciarsene rovinare.
Persuadeva poi Bruto, che non cacciasse dalla città con vergogna e con vitupero
quel magistrato com> pagno col quale avea preso le risoluzioni più belle
{>ér la patria : ma che desse a lui, s’ avea cuore di lasciare 11 suo grado
e di trasmigrarsi, tutto 1’ agio a raccor le sue robbe, e gli aggiungesse a
nome del popolo un dono come pegno di consolazione nelle sue calamità. Cosi
consigliando quel valentuomo, inUnto che il popolo ne lodava i discorsi,
Collatlno depose la sua dignità, contristato che per la pietà de’ parenti era
astretto a lasciare e senza demeriti la patria. All’ opposito encomiavalo Bruto
perchè risolveva il migliore per la sua Roma e per sè, e pregavalo a non.
disamorarsi nè verso di lui, nè della patria : trasportando altrove la sede,
considerasse ancor sua, la patria che lasciava, nè si meschiasse a’ nemici
contro lei non colle parole, non colle opere. Considerasse in somma questo
transito suo qual pellegrinalo, non qual bando, o fuga: tenesse il corpo presso
quei .che lo ricevevano, ma V affetto suo, lo. tenesse questo, presso quei che
lo mandavano. Or, cosi avendo ammonito quest’ uomo persuase il popolo a
regalarlo di.’ laS venti talenti, con aggiungerne egli cinque del suo. Ca duto
Tarquinio Cotlaiino in tale disgrazia si ritirò a Lavinia, antica madre de’>
Latini dove carico di anni mori. Bmto non sopportando di essere solo al
comando, per non dare sospetto, che levato avesse il compagno dalia patria per
fervisi re, chiamò bentosto il popolo al campo dove usava eleggere i sovranie
gli altri magi strali, e creò per collega nel consolato Pubblio Yale rio, uno
dei discendenti, come sopra fu detto, dai Sabini, uom degno di ammirazione e di
lode per le molle suo doli, e principalmente per la sobria sua vita. Egli
trovando in sé stesso una luce naturale di filosofia, la fece brillare in più
affari, come poco ap presso diremo. Unanimi questi in tutto, immantinente
diedero a morte, quanti erano, i congiurati al ritorno de’ fuom sciti, e
dichiararono libero e cittadino il servo. che aveali denunziali, colmandolo di
oro. Poi fecero tre bellissimi ed utilissimi regolamenti, che la città
contemperarono a pensare tutta di un modo, sminuendo il favor pe' nemici. Il
primo spediente fu di scegliere i migliori della plebe e di crearli patrizj,
onde compier con essi un Senato di trecento. Appresso esposero al pubblico le
suppellettili del tiranno, concedendo che ognuno se ne avesse, quanto
toglievano ; e compartirono i terreni di esso a chi non aveane, riservandone
unicamente il campo tra ’l fiume e tra la città, dedicato già dal voto degli
antenati a Marte, come prato benissimo pe’ cavalli e per gli esercizj de’
giovani in arme. Tarquinio però, sebbene prima di lui fosse già sacro a qnel
nume, aveaselo appropiato, e sem inavaci : di che è sommo argomento la
risoluzione allora presa da’ consoli sul ricollo che sen ebbe. Imperocché
sebbene avessero conceduto al popolo di prendere e portarsi quanto era del
tiranno, non però consentirono che alcuno si arrogasse il grano germogliatovi,
sia che fosse nelle spighe, sia che nell’ aja, sia che già lavorato ; ma
decretarono che si gettasse nel fiume come esecraa do, né degno che se lo
avessero in casa. £ di tal giuo sopravvanza ancora, monumento famoso, la
isoletta sacra ad Esculapio, bagnata intorno dal fiume, prodotta, dicono, dagli
ammassi delle paglie corrotte, e dai fango che vi si appiccò nel correr delie
acque. Rispetto a quelli che eransi fuggiti a Tarquinio accordarono ad essi
generale perdono, e ritorno sicurissimo in patria fra venti giorni, intimando a
chi venuto non fosse in quel termiue, 1’ esilio perpetuo e la confisca de’
beni. Or tali provvedimenti impegnarono ad ogni cimento quei che godeano le
robe, quante mai fossero del tiranno, sul timore che non venisse ior meno
l’utile che ne aveano; come impegnarono a favorire non più la tirannide ma la
patria, que’ lutti che per le gesta loro sotto dei despoti, eransi esiliati da
sé stessi, per timore di non pagarne le pene. Ciò fallo, si diedero co pensieri
alia guerra tenendo intanto 1’ esercito in campo presso di Roma sotto le
insegne e li capitani per addestrarvelo ; perchè aveano udito che i fuornscili
apparecchiavano centra loro ua armata dalle città dell’ Etruria, e che quelle
de’ Tarquinj e de’ Vejenii, potentissime ambedue, cooperavano manifettamente al
ritorno di essi, mentre gli amici loro adunavano dalle altre de’ stipendiati e
de’ volontarj. Ma non si tosto seppero che l’ inimico moveasi, deliberarono di
farsegli incontra ; e passando prima di esso il fiume, s' inoltrarono e si
accamparono vicino ai Tirreni nel prato Giunio, presso la selva sacra ai genj
di Orato. Trovaronsi ambedue le milizie quasi pari di numero con ardore eguale
per combattere. £ su le prime, surse, appena si videro, picciola mischia tra’ cavalieri,
innanzi che le fanterie prendessero campo. Cosi gli uni sperimentarono gli
altri, e non vincitori e non vinti si ritirarono ciascuno al corpo de’ suoi.
Quindi messa la fanteria nel centro, e la cavalleria nelle ale si mossero da
ambe le parti coll' ordine stesso fanti e cavalli gli uni contro degli altri.
Conducea l’ala destra Valerio il console, contrapponendosi a’ Yejeuti : Bruto
reggea la sinistra avendo a fronte la n^ilizia de’ Tarquiniesi comandata da’
figli del tiranno. XV. Erano già già per venire alle mani quando ' avanzandosi
dalle fila de’ Tarquiniesi 1’ uno de’ figli del tiranno, ( Aruute ne era il
nome) il più vago di aspetto, e più magnanimo de’ fratelli, e spinto il cavallo
verso i Romani in parte, dove tutti ne intendesser la voce, coperse d’ ingiuria
il duce Romano, chiamandolo ferino, selvaggio, lordo del sangue de’ figli,
imbelle e vile, e lo sfidò per tutti a combattere solo. E colui non Cosi nel Codice V.iticano. Alcuni peto
leggono jirslo in luogo di Orato, perchè secondo Tilo Livio e Valerio Massimo
jfrtia si idiiamava la selva. più bastando alle ingiurie, spronò dal suo posto
il cavallo senz' attendere gli amici che nel distoglievano, correndo
fortissimamente alla morte che eragli apparecchiata dai fati. Rapiti ambedue da
pari ardore, intenti a ciò che era da fare non a ciò che ne patirebbono,
avventano impetuosamente i cavalli uno a fronte dell’altro, e vibransi colle
aste colpi vicendevoli, non reparabili cogli scudi, nè con gli usberghi,
immergendone la punta chi nelle coste, e chi nelle viscere. Urtatisi per la
foga del corso i cavalli nel petto, eievaronsi su pie’ di dietro, e girandosi
colla cervice rovesciarono i cavalieri. Cosi caduti giaceansi versando sangue
in copia dalle ferite, e lottando colla morte. Come le milizie videro caduti i
duci loro, spiccaronsi tra clamori e strepito, e sorsene battaglia, quant’
altre mai ferocissima, di fanti e di cavalieri ; con sorte non dissimile.
Imperocché li Romani dell’ ala destra comandati da Valerio console vinsero li
Vejenti, ed incalzandoli 6no agli alloggiamenti, copersero il campo di stragi.
Per l’ opposito i Tirreni dell’ ala destra guidata da Tito e da Sesto figli del
tiranno misero in volta i Romani dell’ala sinistra, e corsi presso alle loro
trincierò usarono perfino tentare se poteano in quell’ impeto primo espugnarle.
Ma contrastati e feriti assai da quei che v’ erano dentro, si ripiegarono.
Àveanci di guardia i Triarj, cosi detti, veterani peritissimi di guerra pel
lungo esercizio, e soliti riservarsi pe’ cimenti più gravi, quando ogn’ altra
speranza vien meno. XVI. E fattosi già il sole presso l’ occaso, tornarono gli
uni e gli altri a’ proprj alloggiamenti non ti lieti per la viuoria, che
doleati per la moltitudine de’ perduti compagni. E se doveasi far nuova
battaglia non credeano bastarvi quanti erano intatti fra loro ; essendo i più
feriti : se non che più grande era I’ abbattimento, e la diffidenza ne’ Romani
per la morte del comandante; in guisa che venne a molti in pensiero che fosse
il loro migliore di abbandonare prima del di le trìnciere. Ma intanto che cosi
pensavano e dicevano usci circa la prima vigilia dal bosco presso al quale
accampavano una voce, sia del genio tutelare del bosco medesimo, sia di Fauno
che chiamano, la quale rimbombò su l’uno e l’altro esercito, sensibilissima a
tutù. A Fauno ascriveano i Romani i panici timori, e tutte le visioni che varie
ne’ luoghi varj presentansi spaventosamente ai mortali : e di questo Dio dicono
che sian opera le chia mate fatte dal cielo, le quali tanto perturbano chi le
ascolta. Animava questa voce i Romani a bene operare quasi avessero vinto,
significando come era morto uno di più tra’ nemici : e dicono che levatosi a
tal voce Valerio ne andasse nel cuor della notte agli alloggiamenti de’
Tirreni, e che uccidendoveli per la più parte, o fugandoneli s’ impadronisse
del campo. Tal fu l’esito di questa battaglia. Nel giorno appresso i Romani
spogliarono i cadaveri de’ nemici ; • seppelliti quelli de’ suoi, partirono. I
migliori de’ cavalieri, presolo con molta onorificenza e con lagnme,
riportavano a Roma il corpo di Bruto in mezzo ai fregi della propria virtù.
Mossero all’ incontro di essi il Senato che avea decretato che si portasse il
duce con pompa trionfale, ed il popolo che ricevè l’ esercito con BIOaiGl,
torneai. crateri colmi di vino e con mense. Giunti nella città ; il console ne
trionfò come i re soleano, quando solennizzavano i sagriBzj e le pompe pe’
trofei ; ed offerse a’ numi le spoglie, e fe' di quei giorno una festa,
convitando i più riguardevoli de cittadini. Pigliata nel giorno appresso
lugubre veste, ed esposto il cadavere di Bruto su magnidco letto in splendido
ornamento nel F oro, vi convocò la moltitudine, e salito in palco, ve ne recitò
1’ elogio funebre. Io non so ben discemere se Valerio il primo introdusse in
Roma quel costume, o se dai re io desunse : ben so che tia Romani antichissima
é la istituzione degli elogi nella morte de’ valentuomini ; e so da’ pubblici
documenti di poeti antichi, e di storici famosissimi che non i Greci i primi la
fondarono. Imperocché le vecchie storie danno a conoscere che ci aveano in
morte di uomini insigni, combattimenti equestri e ginnici, come Achille ne fe’
su Patroclo, e come Ercole, prima ancora, su Pelope : ma che gli encomj se ne
recitassero, ninno lo scrive se non i tragici di Atene, i quali adulando la
propria città, favoleggiarono che avesse ciò luogo nei sepolti da Teseo.
Laddove tardi istituirono gli Ateniesi per legge le funebri laudazioni ; sia
che le incominciassero su quelli che morirono per la patria ad Artemisio, a
Salamina, a Platea, sia che su quelli i quali caddero a .Maratona. E la impresa
di Maratona, se in quella sì cominciarono gli elogj pe’ defonti, è più tarda
della morte di Bruto per sedici anni. Che se alcuno, lasciando d’ investigare
quali stabilissero prima i lugubri encomi, voglia esaminare presso chi sia la
legge meglio ordinata ; la troverà tanto più savia tra questi che tra quelli,
quanto che gli Ateniesi introdussero i pubblici elogi mortuali, pe’ defunti in
battaglia, quasi estimassero la bontà del solo termine glorioso della vita,
sebbene al> tronde indegnissima : laddove i Komani destinarono tal6 onore
non al soli estinti nel combattere, ma a tutti gli uomini, insigni per sublimi
consigli, o per belle operazioni, sia che in città, sia che in guerra avessero
comandato, ovunque morissero, giudicando che debbansi i valentuomini celebrare
non per la sola morte luminosa, ma per tutte le virtù della vita. Così muore
Giuoio Bruto, colui che schiantò la tirannia, che primo fu console dichiarato,
che tardi rendutosi illustre 6orl sì, piccini tempo, ma fortissimo parve fra
tutti. Non lasciò prole non di maschi non di femmine, come scrivono gli storici
i quali esaminarono le cose de’ Romani, ancor le più chiare : di che ne
allegano molti argomenti ; e questo infra gli altri non facile a vincersi, che
egli era dell’ ordine de’ patrizj ; laddove quei che si dicono originati da lui
li Giunj e li Bruti eran tutti plebei, perocché conseguivano le cariche degli
edili e de’ tribuni, che son quelle che per legge a’ plebei si permettono, e
non il consolato, cui niun conseguiva fuorché li Patrizj. E quando questa
dignità si concedette ancora a’ plebei coloro non la ottennero se non tardi. Ma
lasciamo che discutano ciò quelli a’ quali si appartiene conoscerlo più
chiaramente. XIX. Dopo la morte di Bruto, Valerio il collega suo, divenne
sospetto al popolo quasi cercasse lo scettro ; primieramente perchè tenea solo
il comando, dovendo far subito eleggersi un compagno, come quando Bruto ripudiò
Gollatino ; e poi perchè aveasi fabbricato la casa in sito invidiato, preso
nella parte alta e dirotta del colle, il quale chiamasi Yelio e domina il Foro.
Convinto però da' suoi come ciò dispiaceva al popolo, pre&sse il giorno pe’
comizj e fe’ darsi un compagno in Spurio Lucrezio. E morendo costui dopo pochi
giorni della sua magistratura, sostituì Marc' Orazio ; e trasferì r abitazione
sua dalle cime alle radici del colle, perchè i Jtomani, come ei disse
concionando, potessero tempestarlo co sassi date alto se trovavano eh ei
facesse ingiustizia. E volendo rendere il popolo più certo della sua libertà
levò le scuri dai fàsci, dando ai consoli sue cessivi il costume, durevole pur
ne’ miei giorni, di usare le scuri quando escono di città, ma di non portare
nell’ interno di essa che i fasci soli. Fondò leggi piene di amicizia e di
sollievo inverso del popolo; proibendo con una manifestamente che niun de’
Romani andasse alle magistrature se dal popolo non le prendeva; con pena di
morte a chi contravvenisse, e licenza a tutti di ucciderlo. Con altra legge si
decretava : Se un magistrato Romano voglia uccidere, o battere, o multare
alcuno in danari; possa f uomo privato appellarne al popolo senza che intanto
niente ne soffra dal magistrato finché il popolo ne sentenzii. Or siccome
onoravasi con tali regolamenti il popolo ; cosi ne diedero al console il nome
di poplicola, che in greco appunto significa curatore del popolò. E tali sono
le cose fatte in quell’ anno dai consoli. Nell anno seguente è di nuovo creato
console VALERIO, e con esso LUCREZIO: ma non si fece nulla di memorabile se non
il censo de’ beni, e la tas sazion dei tributi per la guerra secondo le
istituzioni di Tullio re : cose tutte sospese nel regno di Tarquinio, e
rinovate da essi la prima volta. Trovaronsi in Roma idonei alle arme cento
trenta mila : e fu spedito un esercito per guardia a Sincerio (z), luogo di
frontiera contro i Latini e gli Ernie! da’ quali si aspettava la guerra. Creali
consoli (3) Valerio detto Poplicola per la terza volta e Marc’ Orazio con esso
per la seconda, 'Laro, re di Chiusi nell’ Etrurìa, quegli che Porsena si
cognominava, promise ai Tarquinj ricorsi a lui, 1’ una di queste due cose, o di
riconciliarli co’ Romani pel ritorno, e la ricuperazion del comando o che
ripiglie rebbe e renderebbe ad essi i beni de’ quali erano stati spogliati.
Imperocché spediti 1’ anno precedente amba>> sciadori a Roma, i quali
portavano preghiere miste a minacce, non aveaci ottenuto nè la riconciliazione,
nè il ritorno de’ Tarquinj; pretestando il Senato le imprecazioni e li
giuramenti fatti contro di questi, nè aveaiie riavuto i beni, negando
restituirli coloro che se gli aveano divisi, e godevanli. E non contentato in
niuna delle domande, e chiamandosene vilipeso e conculcato, a46 secondo Catone e a4S secondo Varrone
dalla fondazione di Roma, e 5o6 STanti Cristo. (a) Nel Codice Vaticano sì legge
Tiiionirio. (3) a47 sec. Ceti e a4g see. Var. dalla fondazione di Boma, e 5o5
avanti Cristo] arrogante altronde, e briaco per 1’ ampiezza delle sue ricchezze
e dominio, credette avere cagioni assai per abbattere la signoria de’ Romani,
come già per addietro desiderava, ed intimò loro la guerra. A lui si con giunse
Ottavio Mnmilio il genero di Tarquinio sul disegnò di mostrare tutto 1' ardore
suo per la guerra. Egli si mosse dalla città del Tuscolo e menò seco i Carne
rifai, e gli Antemnati, lignaggio latino, alienali già palesemente da’ Romani,
e molti volontarj suoi fautori, delle altre genti Latine le quali ricusavansi
ad una guerra manifesta contro di una città confederata, e tanto poderosa.
Saputo ciò li consoli romani ordinarono a’tmltivatori di portare masserìzie,
bestiami, e schiavi ai monti vicini, fabbricandovi -ne’ luoghi forti de’
castelli, opportuni a difendere chi vi si riparava. Quindi premunirono con più
potenti maniere e con guarnigioni il Gianicolo, alto colle, cosi chiamato,
nelle vicinanze di Roma di là dal Tevere, e provvidero con ogni diligenza
perchè non divenisse un baluardo pe’ nemici contro la città, e vi depositarono
gli apparecchi per la guerra. Quanto alle cose interne della città le disposero,
ancor più propiziamente verso del popolo, diffondendo assai beneficenze su’
poveri, perchè questi non si ripiegassero in verso de’ tiranni, nè tradissero
per 1’ utile proprio, il comune ; imperocché decretarono che fossero immani da’
tributi pubblici, quanti al tempo dei te ne pagavano, nè soggiacessero a spese
di milizia e guerra, giudicandoli assai contribuirvi se la persona esponevano
per la patria. Collocarono nel campo dinanzi Roma la milizia preparata ed
esercitata già da gran tempo. Giunto il re Porsena coll’ esercito espugnò di
assalto il Gianicolo, spaventandovi i Romani che lo presidiavano, e
sostituendovi guarnigione tirrena. Quindi marciò verso la città quasi avesse a
prenderla senza fa tica. Ma fattosi ornai prossimo al ponte, e visti accampati
i Romani nella riva a lui più vicina del fiume si apparecchiò per combattere,
in guisa da sopraffarli col numero, e spinse assai spregiantemente innanzi la
milizia. Reggeano l’ ala sinistra Tito e Sesto figli di Tarquinio, tenendo
sotto gli ordini loro i fuorusciti da Roma, il fiore della gente di Gabio, e
stranieri, e mercenari non pochi. Mamilio il genero di Tarqninio comandava la
destra ov’ erano i Latini ribellatisi da’ Romani: finalmente il re Porsena avea
la fanteria schierata nel centro. Ma Spurio Largio, e Tito Erminio teneano
l’ala destra de’ Romani contro ai Tarquinj: Marco Va lerio, fratello del
console Poplicola, e Tito Lucrezio il console dell’ anno precedente stavano
colla sinistra a fronte di Mamilio e de’ Latini. Moveano tutti due i consoli il
corpo fra le due ale. Fattasi alle mani combattè virilmente l’una e l’altra
milizia con lunga resistenza; superando i Romani per esperienza e fortezza i
Tirreni e i Latini ; ma potendo questi assai più de’ primi col numero. Alfine
cadendone quinci e quindi in gran copia s’ intimorirono prima i Romani dell’
aia sinistra in vedere i loro duci Valerio e Lucrezio feriti, e portati fuori
della battaglia ; e poi, quando mirarono in piega i loro compagni, sbigoltironai
aneli’ essi, quei dell’ala destra sebbene ornai vincitori delle schiere de’
Tarqainj. E fuggendosi tutti alla città, |>recipitosi, in folla, su per un
ponte solo ; piombavAno intanto su loro ferocissimi gl’ inimici : e poco
mancato sarebbevi che Roma priva di mura dalla banda del fiume, fosse espugnata,
se i vincitori investita 1’ avessero misti co’ fuggitivi. Se non che sostennero
r inimico, e salvarono tutto 1’ esercito tre uomini, due seniori, Spurio Largio,
e Tito Erminio, appunto i duci dell’ ala destra, e Publio Orazio, un giovine,
il più beilo, il più valoroso de’ mortali Coclite detto dallo strazio degli
occhi, per essergliene stato di velto uno in battaglia. Era questi figlio dei
fratello di Marc’ Orazio console, e traeva la origine sua generosa da Marco
Orazio 1' uno de’ trigemiai che vinse già li tre Albani,. quando le città
guerreggiando per la preminenza. accordaronsi a non cimentarsi con tutte le
forze, ma con soli tre uomini, come fu dichiarato nei libri antecedenti. Questi
soli fattisi alla lesta del ponte disputarono gran tempo il passo al nimico,
fermi sul posto medesimo, in mezzo a nembo di strali e tra ’l fulminar delle
spade, finché tutta l’armata ripassò di qua dal fiume. Come però videro in
salvo i suoi, Erminio e Largio, laceri già nell’ armatura pe’ colpi incessanti,
si ritirarono a grado a grado. Orazio però, sebbene dalla città lo
richiamassero i cittadini ed il console, e tentassero per ogni via di salvare
un tal uomo ai parenti e alla patria, Orazio solo non ubbidì, ma nel posto suo
si rimase come dianzi, raccomandando ad Erminio di dire in suo nome ai consoli
che tagliassero verso la città, quanto prima potevano il ponte. Era di quel
tempo il ponte uno solo e di legno, con tavole congiunte per sè stesse e non
per ferrei grappi, quale custodiscesi tuttavia dai Romani : raccomandò nemmeno
che quando avessero sconnesso il più del ponte, quando picciola parte
resterebbe a disfarne, a lui lo dichiarassero con certi segni, o con sonora
voce. Lasciassero a lui poi la cura del resto. Cosi ricordando a que’due si
tenne in snl ponte, e parte col ferir della spada, parte col dar dello scudo,
ne respinse, quanti investendolo, vi si avventavano. E già quelli che
perseguitavano il romano non ardivano più venire alle mani con esso, come preso
da furore e fermo di morire , molto più che non era facile andar fino a lui,
che aveva a destra e a sinistra il fiume, e dinanzi un monte di cadaveri e di
armi : ma tenendosegli discosti Io bersagliavano in folla con lance, e dardi, e
sassi quali empirebbon la mano ; o coi brandi e coi scudi degli estinti, se non
aveano i primi stromenti. Resistea colui colle armi loro medesime : tirando su
la moltitudine ; sempre, com’ è verisimile, colpiva alcuno. E già percosso, già
carico egli era di ferite in più parti del corpo, già un colpo portatogli
direttamente per la coscia alla testa del femore, lo addolorava e difficoltava
nel caminare; quando, udendo gridarsegli addietro essere il ponte nella sua più
gran parte disciolto, si gettò di un salto colle arme nel fiume. E valicatolo a
stento, perchè divenuto rapido e molto vorticoso per le travi che già
sostenevano il pon te, e che ora abbattute rompevano il corso delle acque,
fecesi a terra finalmente senza avere in quel tragitto perduta niuna delle
armi. Tale azione produsse a lui gloria immortale : e li Romani coronandolo lo
portarono immantinente per la città com’ nno degli eroi tra’ cantici
trion&li. RU versavasi la urbana moltitudine, finché le era permesso, per
desiderio di vederlo, almeno nell’ ultimo presentarsele; sembrandole che tra
non molto morirebbe per le ferite. Scampò tuttavia da morte; ed il popolo mise
nella parte più cospicua del Foro la statua metallica di lui com’ era fra le
armi ; e diedegli del terreno pubblico quanto ne potrebbe in un giorno un pajo
di buovi arare d’ intorno ; e senza contare i pubblici doni, ogni uomo o donna,
i quali erano insieme più che trecento mila, gli recarono ciascuno il vitto di
nn giorno mentre era fra tutti terribile la peuorta. Orazio dimostrala in tal
tempo tanu virtù parve più che tutti i Romani invidiabile. C quantunque,
divenuto perchè zoppo, inutile ad altr’ incarichi nou potesse in vista di tale
sciagura conseguire nè il consolato, nè altre militari presidenze ; nondimeno
per le gesta meravigliose fatte da lui, vedendolo tutti ì Romani, in quella
battaglia, merita di esserne encomiato quanto mai lo fosse ciascuno de’ più
famosi per la fortezza. Cajo Muzio, soprannominato Cordo, sceso da chiari
antenati, anch’ egli si mise ad una nobilissima impresa. Io ne dirò tra poco
dopo esposti i mali che allora ingombravano Roma. Dopo quella battaglia il re
dei Tirreni collocatosi nel monte vicino, dal quale avea discacciato il
presidio romano, dominava tutta la campagna di là dal Tevere. Li figli di
Tarquinio, e Mamilio il genero di lui tragittando le milizie loro picciole
barche aU. ' i3y r altra riva per cui vasai a Roma, accampamsi in luogo ben
forte. Donde slauciandosi davano ilguasto alle terre, ed agli alloggi pe’
bestiami, e piomavano su’ bestiami stessi che uscivano dai sicuri luo^i per
pascere. Ora essendo tutto 1 aperto in balìa el iie mico, nè più di qua, nè più
sopra il fiume reandoai in città le merci se non scarsissime; vi riuscì be
tosto carestia gravissima ; consumandovi tante raigliaja Iprovvigioni già
fattevi, che non erano copiose. Allea gli schiavi, abbandonandoli ogni giorno,
in buon nttiero, disertavano dai padroni, e li più malvagi del ppolo
trasferivansi alle parti del tiranno. In vista di ciò arve ai consoli di
supplicare i Latini i quali riverivano' le> gami del sangue, e sembravano
fidi ancora, che ian> dassero come prima potean de’ rinforzi : e di spjire
ambasciadori a Cuma nella Campania, ed alle itià Fomentine per ottenerne dei
grani. Non sovvenneri ad essi i Latini ; come quelli che non credevano giusti
far guerra con Tarquinio nè co’ Romani, avendo con mbedue vincolo di amicizia :
ma Erminio e Largio pediti commissari pel trasporto de’ frumenti, avendo
trincate da’ campi Pomentini più barche di ogni vettvaglia, le introdussero in
una notte senza luna dal tare EU pel fiume, in occulto de’ nemici. Ma venuta
mno ben tosto pur questa provvigione, e ridottisi gli uoainì ai disagi di prima
; Porsena chiarito dai disertori cime, que’ eh’ eran dentro vi penuriavano,
mandò arabi ad essi intimando che ricevessero Tarquinio se veleno liberarsi
dalla guerra e dalla fame. Non comportarono i Romani il coaando, risola
piuttosto di subirne ogni male. Ma prevedendo > Musi' che l’una delle due ne
seguirebbe, o che vinti dal bogno non terrebbono gran tempo la parola, o che
aendola ne perirebbono sgraziatissimamente; pregò li coioli che gli adunassero
il Senato, come volesse proprgli grandi e rilevantissime cose : e radunatosegli,
disse Io medito o senatori una impresa, donde il popo nostro s’involi da’ mali
presenti. Ardita molto ella ì questa, ma facile, io penso, da compierla. Beri,
riuscendomi, poco, ower nulla io spero su la mie vita. Ora essendo io per
espormi a tali pericoli, anaaiovi da speranze sublimi, non ho voluto che,
voitutti lo ignoraste ; perchè se mi accada di mancar la trova, io sitine
celebrato almeno per V azione bellis.ma, e me ne abbia gloria eterna in luogo
del capo mortale. Già non era sicuro palesar quanto mcchino al popolo, perchè
niuno spinto dall util suo ne riferisse à nemici, quando è ciò da nascondersi
cote arcano indicibile. Pertanto a voi primi e soli maniestolo, i quali, ne
confido, lo tacerete: gli altri da vo r udiranno a suo tempo. La impresa che io
medito è mesta : Fintomi disertore, andrommene al campo Treno. Se non mi
ciedono e muojo, voi non avrete peduto che un cittadino : laddove se mi riesce
introdumi in quel campo ; io vi prometto di uccidervi il sue re. Caduto Porsena,
sarà per voi finita la guerra. Io pronto sono ad ogni sorte, qualunque gli Dei
me ne òstinino : e tenendo voi per consapevoli e teslimonj miei presso del
popolo, e pigliando il genio buoni della patria per guida, portomi^ e vado.
Encomiatone dai senatori presenti, ed avuti gli augurj propizj per la impresa,
passa il Tevere : e giunto agli alloggiamenti de’ Tirreni, ne penetra come nno
di essi le porte, deludendone le guardie : perchè non portava arme visibili, e
perchè parlava alla tir> rena, come eravi fanciullo stato istruito dalla sua
natrice tirrena. Approssimatosi al Foro ed alla tecda del principe vedevi un
uomo cospicuo per grandezza e complessione di membra seduto in veste di porpora
nel tribunale in mezzo a molti che armati lo circondavano. Or pensò, ma indarno,
che costui fosse Porsena, non avendo altra volta mai veduto il re de’ Tirreni :
ma egli non era che il regio scriba il quale sedea nel tribunale e numerava i
soldati, e registravano i pagamenti. Inoltrasi a tal vista tra la moltitudine
fino allo scriba, e salito, senza esserne impedito perchè inerme, snl tribunale,
cava il pugnale che celava sotto l’abito, e daglielo in capo. Ucciso con un
colpo lo scriba, egli è preso immantinente e portato al re già consapevole
della strage. Il quale vedutolo appena, Ah scelleralissimo ! esclama, pagherai
ben presto le pene che meritasti. Dì, chi sei ? donde vieni ? e su qual
confidenza osasti un tanto attentato ? Destinavi la sola morte delio scriba, o
la mia parimente ? quali compagni hai tu della perfidia? Non celarmelo, o li
tormenti vi ti forzeranno. E Muzio non presentando pur un segno di paura non
col variar del colore, non colla fissezza dei pensieri, nè con altre affezioni
solite in chi dee punirsi (li morte gli rispose : lo sono un Romano: venni qual
diserlom ed tuo campo, nè già per causa vile, ma per liberare la patria dalla
guerra, lo voleva uccidere te, qu$nUmque io non ignorava che o riuscissi o fai'
lèssi tujl colpo io ne dovrei morire : io destinava con' secrard alta patria la
vita, e lasciarle pel corpo che essa àveami dato, una gloria sempiterna. Errai
: e causa ifelT errore furono la porpora, lo scanno, e le altre irfsegne del
comando. Uccisi chi non voleva !. . lo scriba tuo per te stesso. Pertanto io
non ricuso la morte thè io decretava a me medesimo nell accingermi a rfuesta
impresa. Che se tu giuri per gli Dei di risparmiarmi li tormenti e gli ohbrobrj
; io prometto che ti svelerò cose, gravissime per la tua salvezza. Cosi Muzio
diceva per deluderlo. E colui come attonito, e temendo pericoli non veri da
molti, glie lo giurò. Muzio allora ideato un inganno del quale non potea
convincersi : disse : O re, trecento Romani tutti a ma pari di età, tutti
patrizj di condizione, abbiamo mac' chinata di ucciderli, dandocene vicendevoli
giuramenti. Pavé, a noi quando ci consultavamo su le maniere insìiiarli, che
non tutti insieme ci ponessimo a questa impresa, ma ciascuno da sà, tacendo
perfno ai compagni, quando, dove, come, e con quale occasione £ investirebbe,
acciocché facile ci fosse di occulterei. Cosi macchinando, ci demmo le sorti,
ed io me la ebbi il primo per cominciare la impresa. Istruito tu dunque che
tanti valentuomini hanno sete egiude di gloria, e che forse alcuno la sazierà
con successo più fausto del mio ; deh ! considera se possi more mai guardia
abbastanza che ti d fenda. Il re ciò udendo comanda al atelliti che incalenino
costui, se lo menino, e lo custodiscano diii> gentissimamente : egli poi
convocando i più amici, e facendo che Arunte il figlio suo gli sedesse da
presso, ragionò con essi le maniere da far vane le insidie : ma suggerendone
gli altri picciole cose ; non pareano cogliere il punto : quando il figlio suo
propose un consiglio, superiore all’ età ; perciocché volea che non si pensasse
a guardie onde precludere i mali, ma piuttosto a far quello per cui le guardie
non bisognassero. E maravigliandosi tutti del suo consiglio, e desiderando
sapere come lo eseguirebbe ; col farci, ei disse, amici i nemici, e col
pregiare o padre, la salvezza tua più che il ritorno degli esuli. Soggiunse il
re: cìut egli ben diceva, ma essere da consultare come consdignità si
pacificassero. Sarebbe gran vitupero, se egli che uvea superato in battaglia, e
tenea ristretti i Romani fra le mura si ritirava, senza compiere quanto avea
promesso ai Tarquinj, quasi vinto dai vinti, e quasi fuggisse chi non ardiva
nemmeno uscire dalle porte. Facea conoscere che l’unico mezzo da togliere le
niniicizie sarebbe, se gli avversar) mandassero ambasciadori per trattare gli
accordi. Cosi disse in quel giorno agli astanti ed al figlio: tuttavia pochi
giorni dipoi fu necessitato egli il primo a fare proposizioni di pace per
questa cagione. Sbandatisi intorno i suoi militari, e datisi a predar di
continuo quei che recavano in città le merci; i consoli Romani se ne misero in
buon luogo alle insidie, e molti ue uccisero, e più ancora ne imprigionarono.
Di ohè nuioontenti i Tirreni ne facean
crocchio e sussurro iocolpaodo il monarca e i duci suoi sul tanto prolungarsi
della guerra, e sfogandosi in desiderj di rendersi alle lor case. Or vedendo
come tutti gradirebbero ma nilestamente la pace spedi per trattarla i più
intimi suoi. Scrissero alcuni che fu con essi spedito anche Muzio sul
giuramento di tornare poscia al monarca: ma vo glion altri che fosse piuttosto
custodito come ostaggio nel campo fino alla pace : il che forse è più
verisimile.' Questi poi furono gli ordini che il re diede a’ commise sarj ; non
dicessero parola sul ritorno de Tarquinj ; ma ne raddomandassero i beni,
principalmente gli ereditar] dal canto di Tarquinio P antico, già posseduti da
essi bitoncunenle : e se ciò ricusatasi; dessero almeno, quant’ era possibile,
i compensi delle case, de' bestiami, de' campi, delle raccolte, come purea loro
espediente, col danaro del pubblico, o de' possessori, ed usufruttuarj atlucdi
de' beni. E ciò quanto ad essi. Chiedessero poi > per lui che deponea le
inimicizie li sette pagi, cosi detti, antico luogo dell' Etruria, invaso da
Romani nella guerra e tolto aproprielarj, e finalmente chiedessero de' giovani
delle famiglie più insigni, per ostaggio, che i Romaai si terrebbono amici
costanti de' Tirreni.Venuti i deputati a Roma, il Senato per in sinuazione di
Poplicoia console si risolvè di accordarne tutte le dimande in vista della
penuria che alHigeva il popolo e. la classe de poveri ; onde accettissima
sarebbe loro una pace, giusta nelle condizioni. Il popolo ratificò tutti gli
articoli del decreto del Senato; non soffri però die si vendessero i beni, o si
desse a’ Tarquinj danaro, privato nè pubblico, e volle che si mandassero
ambasciatori a Porsena perchè si contentasse degli ostaggi e della regione che
dimandava. Quanto ai beni egli giudice fosse tra’ Romani e tra Tarquinio,
udisse 1’ una e r altra parte, e ne sentenziasse non per favore nè per
nimicizia. Partirono i Tirreni con questa risposta, e con essi gli ambasciadori
del popolo i quali conduceano per ostaggi venti giovani delle famiglie più
illustri, avendo i primi dato i consoli Marco Orazio il 6gl lo, e Publio
Valerio la figlia, idonea già per le nozze. Pervenuti questi nel campo, il re
dilettatone, e moltolodati i Romani, conchiuse una tregua per un numero certo
di giorni, e prese a giudicare la causa. Baltristaronsi però li Tarquinj,
caduti dalle speranze più lusinghiere, che avrebbegli quel monarca ricondotti
sui trono ; e per necessità dovéttero acconciarsi alle circostanze, e prendere
clocch’era lor conceduto. Giunti da Roma al tempo ordinato i più anziani de’
senatori e gii oratori della eausa ; il re sedutosi cogli amici nel tribunale,
ed assunto anche il figlio per giudice ; intimò che parlassero. Trattavasi
ancora la causa, quando un tale annunziò che gli ostaggi s’ eran fuggiti.
Perciocché le donzelle tra' questi, avuta come la chiedeano, la facoltà di
andare e di bagnarsi nel fiume, andatevi, dissero agli uomini che alquanto se
ne discQstassero, finché lavate e rivestite si fossero, sicché non le vedessero
nude. Or questi cosi facendo ; quelle gitlatesi a nuoto ripararonsi a Roma,
eccitatevi da Clelia che le precedeva. A ul nuova Tarqutnto assai rimproverava
li Romani di iperginro e di mala fede, e provocava il sovrano perchè più non
gli adisse, come divenuto il giuoco dei loro tradimenti. Esciisavasi il console,
dicendo queir opera, tutta delle donzelle, senza voler del Senato: e che presto
dimostrerebbe che niente era per inganno. Persuasone il re concedè che andasse
e rimeuasse come pròmettea le fanciulle. Andò Valerio appunto con tal fine: Dia
Tarquinio e il genero macchinarono in onta di ogni diritto un opera
infanóissima, e spedirono in su la strada una banda di cavalieri per
sorprendere le fanciulle ricondotte, il console, e quanti tornavano al campo, e
ritenersene le persone pe’ beni tolti da’ Romani a’ Tarqninj, senz’ aspettare
il fine del giudizio. Ma non permisero gl’ IJdj che succedesse loro secondo il
disegno : perché mentre gl’ insidiatori uscivano dal .campo Latino per
sopraffarsi a que’ che venivano, il console romano era già passato innanzi
colle fanciulle : e già era alle porte degli alloggiamenti Tirreni quando fu
sopraggiunte da’ persecutori. Si fe’ qui mischia fra loro, ma ben presto fu
nota a’ Tirreni, e ne corsero frettolosissimi in ajuto il figlio del re con de’
cavalieri, e la schiera dei fanti che stava di guardia innanzi del campo. Sdegnatosi
di ciò Porsena convocò li Tirreni > e narrò come essendo egli fatto giudice
da’ Romani di quello ond’ erano accusati da Tarquinio ; gli espulsi, e bene
a diritto, da loro, aveano tentato di
violare, le persone sacre degli ambasciadori e degli ostaggi, in tempo di
tregua, e prima che si decidesse la causa. Dond’ è che i Tirreni assolvettero
su di ogni richiamo i Romani, e togliendosi all amicizia di Manilio e di
Tarquinio, intimarono loro cb’ entro il pros rimo giorno si ritirassero. Così
lì Tarquinj pieni in principio di belle
speranze per 1’ ajuto de Tirreni, o di essere di nuovo i tiranni di Roma, o di
ricuperare! loro beni, perderono 1 uno e 1 altro per la offesa degli ostaggi e
degli ambasciatori, e partirono con infamia, e con odio dai campo. Il re poi de
Tirreni facendosi condurre gli ostaggi dinanzi dei tribunale gli rendette al
console, dicendogli che pregiava la fedeltà de' Romani più di ogni ostaggio. R
lodando Clelia, che avea persuaso le compagne di passare a nuoto il fiume, come
ne suoi pensieri maggiore del sesso e della età, e feli citando Roma perchè
allevava non pure de valentuo mini ma delle eroine, regalò la donzella di un
cavallo generoso, e magniCcamente bardato. Sciolta radunanza fe’ cogli
ambasciatori de Romani gli accordi e li giuramenti di pace e di amicizia, e li
onorò come ospiti, e restituì senza prezzo, perchè li recassero in dono alla
loro città, tutti li prigionieri, che eran pur molti : ordinò che rimanessero
com erano i padiglioni suoi, fatti non come per breve durata su le terre altrui,
ma fregiati, quasi una città, con private e pubbliche spese; quantunque i
Tirreni dopo avervi alloggiato, usassero di. t noti serbarli. E fu questo, se in danaro si
.calcola, non picciolo dono pe Romani, come lo di chiarò la vendita fattane da
questori dopo la partenza del re. Tal fu la fine della guerra de’ Tirreni e di
Laro Porsena la quale avea ridotto i Romani a tanti Dopo la partenza de’
Tirreni adunatosi il Senato Romano decretò che si mandasse a Porsena.il trono
di avorio, lo scettro, il diadema e la veste trionfale colla quale i re si
adornavano: e che Muzio, espo stosi alla morte per la patria, e cagione
principalissima del termine della guerra, si premiasse a spese del pubblico,>
come già Orazio che resistè sul ponte, con tanto terreno; di là dal Tevere,
quanto poteane in un giorno solcare intorno coll’ aratro : e questo è il
terreno che pur nel mio tempo si chiama il prato di Muzio. Cosi fu decretato su
gli uomini. Quanto a Clelia concederono che una statua di metallo se le
innalzasse, ed i, padri 'delle donzelle glie la innalzarono nella via sacra,'
dove mette al Foro : tifa noi non più ve l’ abbiamo trovata ; e dicesi che
mancò per un incendio delle case d’intorno. Fu quest’anno compiuto il tempio di
Giove Capitolino, dei quale partitamente abbiamo scritto nel libro antecedente.
E Marco Orazio console lo consacrò, e lo intitolò prima che potesse tornare
Valerio il compagno, uscito per avventura dalla città coll’ esercito, per
difenderne la campagna : perocché Mamilio spedendovi a far preda, assai vi
danneggiava li coltivatori éhe vi si erano di fresco l'icondótti, lasciate le
fortezze. -E questo è ne’ fasti dèi terzo consolato. Spurio Largio e Tito
Erniinio consoli dell’anno' quarto io
compierono senza guerra. Morì nel 1 • ; I • • • (i| Plutarco sclibenè
poslèriore a Dionigi dice che la statua di Clelia esisteva aucora su la via
sacra là donde vasai isf e-asAttrter in palatiwn. Casaub. (3) Ad. 348 secondo
Catone, e aSo secondo Vatrone dalla fuudasioue di Roma, e 5o4 avanti Cristo]
149 loro consolato Aruote il 6glio di Porsena re de' Tirreni Assediava già da
due anni, la città della Riccia, perché conchiusa appena 1’ alleanza co’ Romani,
prese dal padre metà dell’ esercito, e marciò contro quella città per
sottoporsela, e dominarvi. Ma essendo ornai per espugnarla, sopravvennero a
questa de’soccorsi da Anzio,. dal Tuscolo, e da Cuma della Campania. Egli
schierò le milizie sue' minori contro le più numerose: ma dopo respinti, dopo
incalzati gli altri 6no alla città, peri finalmente, vinto egli stesso dai
CumanI condotti dalr r Aristodemo, che Malaco si chiamava. Fuggi, non
sostennesi a tale caduta 1’ armata di lui. Molti ne ^ soccomberono incalzati
da’ Cumaui ; ma più ancot^ : sbandati ; ridotti senz' arme, nè più Idonei per
le ferite a. fuga più lunga, ripararonsi nel territorio non lontano di Roma. Se
li menarono i Romani dalle .campagne' in citté^ nelle proprie case,
portandovene i più malconci a cavallo., o su carri, o su cocchi: e ciascuno a
proprie spese li nudrirono, e curarono, e ristorarongll con sol-, lecitudine
molto affettuosa. Di talché molti di loro legati da tanta benevolenza
desiderarono non di tornarsene in patria, ma di rimanersi fra tali benefattori
; ed il Senato assegnò loro perclié vi si fabbricasser le case, la valle tra ’l
Palanteo, ed il Campidoglio, lunga presso a quattro stadj. Chiamasi questa
anch’ oggi nell’ idioma de' Romani la contrada Tirrena ; e vi si passa venendo
dal Foro al circo massimo. E per tali cortesi maniere ebbero dal re di quella
gente dono non lieve, e che assai li dilettava, la campagna di là dal fiume,
ceduta già da essi quando ne ottenner la pace. Cori iSó trìbuUroao agl’ Iddj li
sagnfiz) magoìBci che aveano già promesso co’ voti se ricuperavano mai li sette
pagi. Correa nell’ anno quinto dopo la espulsione dei re la Olimpiade
sessantesima nona, nella quale Iscomaco Crotoniate vinse allo stadio,
Acestoride fa 1 arconte di Atene per la seconda volta, e furono consoli Romani
Marco Yalerìo, fratello di Valerio Poplicola, e Publio Postumio, detto Tuberto.
Arse nel loro consolato un’ altra guerra co’ vicini, la quale cominciò colle
prede, e procedette a numerose e grandi battaglie : finché cessò da indi a
quattro consolati, dopo essersi nel tempo intermedio sempre stato fra le arme.
Imperocché alcuni Sabini considerando Roma indebolita per gl’ incontri suoi co’
Tirreni, quasi non dovesse mai più ricuperare l’antica dignità, ne assalirono,
affin di predarli, e certo molto ne danneggiarono, li coltivatori, i quali
calavano di bel nuovo dai luoghi forti alla campagna. I Romani prima di
prendere le armi spedi rono ambasciadori a chiedere conto e soddisfazione,
tal> ché non più molestassero chi lavorava i terreni. Ma non ricevendone che
orgogliose risposte, intimarono ad essi la guerra. Valerio il console il piimo
con truppe equestri e con fiore di milizie leggere scorse tu que’ rubatori de’
campi, e grande fu la uccisione de' sorpresi nri pascoli, sbandati, com’ è
verisimile, nè provvidi del venir de’ nemici. E spedendo i Sabini contr’essi
un An. a49 ài Rom. ucondo Caioae, e aSi
secondo Varronr, e &o3 vanii Criaio, esercito sotto un duce perito di
guerra, i Romani usci rono di bel nuovo con tutte le forze, dirette da ambi li
consoli. Postumio mise il campo nelle alture prossime a Roma, pei'cbi uon vi si
facesse una subita irruzione da’ fuorusciti. Ma Valerio marciò di fronte al
nemico iu riva all’ Aniene, fiume che nella città di Tivoli casca da rupe
altissima, e poi corre, dividendoli fra loro, i campi de’ Romani e de’ Sabini,
finché vago in vista e dolce a beverne, scende nel Tevere. Erano i Sabini dall’
altra parte del fiume non lungi dalla corrente su di un colle non molto forte,
e che poco a poco degrada. In principio gli uni rispettando gli altri esitavano
a passare il fiume e farsi alle mani. Ma poi non per calcolo e previdenza di
beni, ma rapiti dfiir ira e dall’ ardor di combattere, furono alle prese.
Imperocché venuti ad abbeverare i cavalli e far acqua, inoltraronsi molto entro
il fiume, vmile allon nel suo corso, perché non accresciuto dalle acque in
vernali : e siccome bagnavali appena, poco più su delle ginocchia ; lo
trapassarono. Attaccatisi in su le prime pochi con pochi, ecco accorrere altri
a difenderli, ognuno dai proprj alloggiamenti, e via via sopraggiungerne di
rinforzo, come questi o quelli erano superati. E quando i Romani respingevano i
Sabini dal fiume, e quando i Sabini ne toglievano l’uso ai Romani. E molti
uccisi e feritivi, ed eccitativisi tutti a combattere, come avviene nelle
scaramucce fortuite, sorse ardore eguale di passare il fiume ne’ duci stessi
degli eserciti. E primo passandolo il console Romano e con esso r armata sua, '
piombò su li Sabini. Non eransi questi ancora nè bene armati, uè schierati ;
pure non esitarono ad accettar la battaglia, inanimiti molto è spregianti,
perchè non arcano a farla nè con ambi li consoli, nè con tutte le milizie
Romane, e slanciatisi, combatterono con furia di baldanza e di odj. Ardea rivissi ma la battaglia ; ma se 1’ ala
destra, or’ era Postnmio il console, superava gli avversar] ed avanzavasi ; la
sinistra ‘era travagliata e respinta al fiume. Or saputo ciò 1’ altro console
usci coll’ esercito suo : marciava egli pian piano colla fanteria, ma fe’
precedere in fretta colla cavalleria Spurio Largio Seniore, e console dell’
anno precedente. Andato costui di tutta briglia passò facilmente il fiume, che
non era guardato da alcuno, e giratosi attorno l ala destra dei toemici pigliò
di fianco la cavalleria de’ Sabini., Or qui sorse battaglia diuturna e grave di
cavalleria con cavalleria. Frattanto avvicinatosi anche Postumio co’ suoi fanti
a queU’ ala ed investitala, molti ne uccise, e molti ne disordinò : di modo che
se non sopravveniva la notte, i Sabini avviluppati da’ Romani che già
prevalevano, sarebbero stati del tutto disfatti : ma le ombre occultarono
qùei'che fuggivano dalla battaglia come inermi e radi, e salvi si ricondussero
alle lor case. Impadronironsi i consoli senza combattervi de’ loro
alloggiamenti, abbandonati dalle guardie al veder quella fuga : ed occupatevi
molte suppellettili, e datele in preda all’esercito, lo rimenarono in patria.
Cosi riavutasi Roma, allora la prima volta, da’ inali suoi co’ Tirreni, senti
lo spirito antico, ardi come prima arrogarsi 1’ impero su’ vicini, decretò pe’
due 'consoli insieme un trionfo, e di più che si desse a Valerio che era I’udo
di questi, un sito nella partepiù distinta del Pallanteo, dove gli si fondasse
una casa a spese del pubblico. Questa è la casa innanzi alla quale sta il toro
di bronzo, e questa tra tutti i privati e pubblici ediCzj è la sola che ha le
porte che aperte si girano in fuori. XL. Presero dopo questi il consolato
Publio Valerio Poplicola per la quarta volta, e Tito Lucrezio, di bel nuovo
collega suo (a). Quest’ anno le città Sabine, tenuto un congresso comune,
decretarono far guerra ai Romani, quasi fosse finita 1’ alleanza loro, per
essere caduto dal trono. Tarquinio a cui 1’ aveano giurata. Aveale indotte a
ciò,1’ uno de’ figli di Tarquinio, Sesto di nome, il quale coll’ onorare e
supplicarne i cittadini primari di ognuna, metteva in tutte un animo per la
guerra : anzi aveva a sé guadagnate, e consociate a queste pur le due città
Camcria e Fidene, ribellatele da’ Romani. In contraccambio le città lo elessero
generalissimo loro con facoltà di reclutare milizia da ognuna, come quelle che
aveano perduta la prima battaglia per la insufficienza delle forze, e del
capitano. Ed in ciò si adoperavano questi : ma la fortuna volendo contrappcsare
i beni al mali di Roma, le diede in luogo degli alleati che le si eranp tolti,
un rinforzo, quale non 1() Tra i Greci era grande onarificenia aver le porte
che ai apriaaero au.la pubblica strada; e questa servitù della pubblica strada
coiopcravasi a gran presso: come è chiaro da ciò che si legge d’Ificrate presso
di Aristotele negli Economici. (a|)'An. di Bom. aSo secondo Catone, e aSa
secondo Varrone, e 5oa av. Cristo] imperava dal canto de’ nemici. Tito Claudio,
un Sid>mo domiciliato a Regillu, nobile e denaroso, fuggissene in seno di
lei menando con sé gran parentado, ed amici e clienti in copia, i quali
spatriavano con le famiglie ; tanto che tra, questi ce ne avea cinque mila
buoni per le arme. E questa dicesi la cagion cbe lo spinse a tra sferire in
Roma la sede. I primar) delle città più cospicue alienatisi da lui -lo aveano
incolpato di poca affezione verso il pubblico bene, citandolo qual traditore ;
come r unico che mal soffriva la guerra, e che avea ripugnato in consiglio a
quei che voleano sciolta 1’ alleanza, nè permise che i suoi cittadini
AtiGcassero il decreto degli altri. Or temendo egli un giudizio, ove le non sue
città sentenzierebbero della sua sorte, raccolse le sue robe, e gli amici, e si
congiunse ai Romani, non senza picciolo sbilancio degli affari ; talché parve a
tutti la cagion principale dell’ esito propizio della guerra. Per tanto il
Senato ed il popolo lo ascrissero tra’ patrizj, lasciandogli in città quanto
sito volle per fabbricarvi ; e gli donarono i terreni pubblici tra Fidene e
Picenza perchè li • compartisse co’ suoi compagni, da’ quali risultò poi la
tribù Claudia che ancora tiene quel nome. Apparecchiatasi appuntp l’ una e 1’
altra parte, li Sabini i primi cavarono le milizie e fecero due accampamenti, r
uno all’ aere aperto non lungi da F idene, r altro in Fidene a difesa del
popolo, come in rifugio dell’ esercito esterno in caso di sciagura. I consoli
Romani al sapere la venuta de’ Sabini contra loro,• uscirono anch’ essi con
floride scltiere, e presero campo, separati T ano dall' altro, Valerio a fronte
degli allog ' giatnenti sabini all’ aere aperto, e Lncreaio poco più di sopra,
in un altura donde potea vedere l’ armata com. pagna. Era disegno de’ Romani di
venire quanto prima a giornata per decidere subitamente, e visibilmente la
guerra. Ma' il capitano Sabino temendo di attaccare in pieno giorno la baldanza
e la robustezza romana, sempre ferma, contro ai casi anche più duri, deliberò
di investirla di notte. Quindi facendo preparare quanto era necessari a
riempire le fosse, e trascendere il vailo, quando ebbe pronto tutto, voleva tor
seco il 6or deU r esercito, ed assalire nel primo sonno le trincee de’Ro mani.
Su tal disegno avea fatto intendere all’ armata di Fidene che quando si avvedessero
del giunger suo venissero anch’ essi dalla città, ma con armi leggere : ed avea
posto in luoghi opportuni gli agguati con ordine, che se andavano dei rinforzi
a Valerio dall’altro campo, uscissero loro alle spalle e gli assaltassero fra
strepito di voci e di arme. Sesto con tale risoluzione, istruitine e trovativi
pronti li centurioni, non aspettava che la opporiobità. Ma un suo disertore
venuto al campo romano disse di quella trama al console. Giunsero non molto
dopo i cavalieri con dei Sabini che usciti a far legna furono presi.
Interrogati questi separatamente c/te mai preparasse il lor capo, risposero,
che scale e ponti : ma che dove, o quando fosse per valersene, non lo sapeano.
Valerio ciò udendo spedi Marco alr altra armata per divisare a Lucrezio che vi
comandava r animo dei nemici, e come si dovessero questi assalire. Poi
chiamando egli stesso tribuni e centurioni, dicendo quanto avea raccolto dal
disertore, e da’ prigionieri ; confortandoli ad esser magnanimi, e credere cb’
era giunto alfine il tempo sospirato onde prendere' su’ ne mici una luminosa
vendetta ; prescrisse ciocché dovessero fare, diede i segni, e rinviò ciascuno
alla sua schiera., XLII. Non era ancora la notte a mezzo, quando il duce Sabino
fatti levare i soldati, ne condusse il fiore al campo romano, imponendo, a
tutti che, taciti, avanzassero senza strepito di arme ; perchè i nemici non si
avvedessero di loro prima che fossero giunti. Or come i primi a procedere
furono vicini al campo, nè videro ivi lume di fuochi, nè voci vi udirono di
sentinelle, assai riprendeano di stoltezza i Romani, quasi tralasciata ogni
gtiardia, se la dormissero : c già riempiute le fosse in gran parte, le
passavano senza ostacolo alcuno. I Romani però si teneano, non veduti si per le
tenebre, ma schierati nello spazio tra i valli e le fosse, e quando chi le
passava era loro alle mani, uccidevanlo. Rimase alcun tempo occulta la rovina
di chi precedeva a quei, che seguivano. Ma non si tosto quei eh' erano vicini alle
iosse videro col chiarore della luna che nasceva, i mucchi incontro de’
cadaveri de’ compagni, e le schiere valide de’ nemici che resistevano;
gettarono le armi, e fuggirono. Allora alzato i Romani un altissimogrido,
perchè quel grido era segno all’ altra armata, corsero in folla su loro.
Lucrezio a quei clamori, spediti subito 1 cavalieri per ispiare se ci aveàno
insidie nemiche, si mosse indi a poco egli stesso col fiore della fanteria.
Imbattutisi i cavalieri con gli usciti da Fidene per insidiare, li fugarono: ma
la fanteria perseguitava) ed uccidevali, : ornai disordinati e sena’ arme,
quelli che erano venuti ad assalire il campo romano^ Morirono in teli
òombaltimenti circa tredici mila tra Sabini ed al leali, rimanendone
prigionieri! quattro mila dugento: ed il campo loro fu preso nel giorno
medesimo. la stoltezza, e chiamandoli
degni di morte quanti ve ne erano, giacché nè erano grati pe’ beneGzj, nè
faceano senno pe’ mali ; ne batterono alla vista del pubblico culle verghe, e
poi vi uccisero i più cospicui per nobiltà. Quanto agli altri lasciarono che
albergassero come prima, ponendo a coabitare con. essi la guarnigione che era
decretata dal Senato, e dandole parte de' terreni tolti a quelli. Dopo ciò ritirarono
le truppe dalle teiTe nemiche, e trionfa• rono secondo il decreto del Senato. E
tali furono le geste di, questo consolalo. Creato consolo Publio Postumio
Tuberto per la seconda volta, e con esso Menenio Agrippa Lanato , fecesi ma con
piu schiere la tersa Irmzione dei Sabini prima che i Romani se n avvedessero, e
pro> cedette 6n presso le mura di Roma, Risultarono da questa molte
uccisioni non solo di agricoltori romani, colti repentinamente da nembo che non
aspettavtno prima di ricoverarsi ne’ castelli vicini, ma di quelli eziandio che
in città dimoravano. Imperocché Postumio il console riputando insopportabile
quella ingiuria; uscì di tutta fretta, con truppe comunque per soccorrere i
suoi, pih animoso in vero che savio. I Sabini, visto con quanto dispregio,
disordinati, e sbandati si avanzassero verso loro, e latto disegno di ampliarne
ancor più la negligenza, partirono con marcia più che ordir naria, quasi
fuggissero addietro, finché giunsero ad una selva profonda ove il resto
celavasi delle loro milizie. Or qui voltando faccia contrastettero a chi
gl'inseguiva; ^ come pure gli occultati nel bosco ne uscirono, vociferando. Ed
essendo essi in buon ordine e molti, prostesero gli altri che combattevano
disordinati, sbandati, ansanti per lo viaggio ; e rinchiusero in una pendice
deserta quanti ne fuggirono, con preoccupare le vie che menavano a Roma. E
perocché già la luce era mancata ; posero le arme presso di quésti
invigilandoli tutta la notte, sicché taciti non s’ involassero. Saputosi in
città r informnio, vi fu gran turbamento, e concorso ai muri, e. timor comune, che i nemici
trasportati, dal successo propizio, si presentassero in quella notte a An. di Rom. aSi secoado CaioDe, a53 secondo
Varrone, e Sol av. Crino.. 1 5g Roma: e là com piange vans! i morti; qua i
commiseravano li sopra vanzatt, come quelli che 'se nop erano immaniineote
soccorsi, caderebbero prigionieri per la penuria. Passatasi con tanto mal' in
cuore senza sonno la notte, Menenio, nato il giorno, armò li più floridi per
anni, e li guidò ben forniti e con ordine a liberare gli assediali nel monte. I
Sabini al vedere che ti avan> cavano non li aspettarono ; e tolto il campo
si ritirarono, pensando che bastassero loro i vantaggi presenti: e senza
indugiarsi gran tempo, tornarono festeggiando alle patrie, ricchi di bestiami,
di schiavi, di danari. XLV. Rattristati i Romani dal danno, e credendolo
causato da Postumio il console ; deliberarono di mar> ciane sollecitamente
con tutte le forze contro la Sabina, desiderosi di rifarsi della perdita
inaspettata ' e turpe j molto più che assaissimo gli aveva esulcerati 1’
ambasceria recente e contumeliosa e superba colla quale i nemici, come già
vincitori, e prenditori senza contrasto di Roma se non erano ubbiditi,
comandav.vno che rendessero ai Tarqninj la patria, cedessero ai vincitori r
imperio, e stabilissero il goverho e le leggi, come sarebbero ordinate da
questi. Aveano i Romani replicato a tali messaggi, che annunziassero alle loro
comuni che i Romani comandavano ai Sabini, di deporre le armi, di sottomettere
le loro città, di ubbidire,come per addietro, e ciò fatto di venir
supplichevoli per iscusarsi dalle ingiustizie e da’ mali onde gli aveano
violati nelle incursioni passate, se voleano pace ed amicizia : ma se ricusa
vansi a tanto, aspettassero tra non molto la guerra su le loro città. Cosi
comandando e comandati a vicenda, quando ebbero tutto in pronto ; uscirono per
la guerra. Conducevano i Sabini il -fiore de’ giovani di ogni città con arme
bellissime : e li Romani tutta la milizia urbana e le guarnigioni, concependo
che i domestici e li schiavi, e quanti superavano ^ la età militare, bastassero
in difesa di Roma e dei castelli della campagna. Cosi concentrati si
accamparono ambedue con breve intervallo fra loro non lungi da Ereto, città de’
Sabini. Come gli uni sepper degli altri o per con~ gettura dall’ampiezza degli
alloggiamenti, o per ciò che ne udivano da’ prigionieri ; si eccitò ne’ Sabini
confi denza e disprezzo inverso la scarsezza degl' inimici ; ma timore ne’
Romani per la moltitudine di essi. Pur fepero cuo^e, e pigliarono qualche speranza
su la vittoria pe’ segni mandati loro dal cielo, e per 1’ ultima visione,
quando erano 'per ischierarsi, che fu questa : Su le punte dei lanciotti (sono
queste le armi che i Romani scagliano nel farsi alle mani; bastoni grossi che
ti empion le mani, e lunghi, con ferrei spuntoni nell’ uno e nell’ altro
estremo, diritti, nè minori di tre piedi, tanto che le armi, compresovi il
ferro, somigliano ad aste mezzane ) su le ferree ponte di. questi lanciotti,
piantati tra padiglioni, brillarono delle fiamme ; talché per tutto il campo fu
luce continua come di accesi fanali, gran tempo delia notte. Ora come gli
auguri dichiaravano ( nè già era difficile intenderlo ), concepirono che gli
Dei con tal visione annunziassero loro una sollecita e luminosa vittoria :
imperocché tutto cede al fuoco, nè cosa vi è che per esso non consumisi. E _
Dpercfac le fiamme brillarono su le armi loro; uscirono con assai fiducia dalle
trinciere, e nell’ estero di tale fi ducia, attaccatisi combatterono, sebbene
di tanto minori, co' Sabini. La sperienza eh’ era in essi col vivo amor dei
travagli, elevava li a spregiare ogni pericolo. Postumio il primo ebe guidava
1’ ala sinistra, inteso a riparare la passata disfalla urtò 1’ ala destra de’
nemici, non curando la vita per la vittoria : e come chi rapito è da furore, e
fermo per ogni via di morire, si lanciò nel mezzo di essi. Allora i soldati i
quali erano nell’ al tr’ ala con Menenio ornai stanchi, ornai cacciati di po
sto, al conoscere che que’ di Postumio prevalevano su gli emoli, rimbaldanzirono
e turbinaronsi su gli avversar] loro. Cosi piegò 1’ una e 1’ altr’ ala de'
Sabini, e diedesi pienamente alla fuga. E dopo la perdita delle ale nemmeno
quelli che erano ordinati nel centro per sislerono, ma forzati dalla cavalleria
Romana che gli assaliva si misero in volta. Tutti al proprio alloggiamento si
riparavano, ma i Romani seguendo e investendo, ne invasero 1’ uno e 1’ altro. C
se l’esercito ne mico non fu totalmente distrutto, ne fu cagione la notte ed il
luogo della sconfitta, che era nella Sabina. Imperocché per la perizia de’ siti
chi fuggiva salvavasi in casa più facilmente di quello che lo potesse, per la
imperizia sua, sorprendere chi 1’ inseguiva. Nel prossimo giorno i consoli,
bruciati i cadaveri dei loro, e raccolte le spoglie, e tra queste le armi
abbandonate dai vivi nel fuggire, e trasportando seco non pochi fatti
prigionieri, c le robe invase' (non compresevi quelle tolte da’ soldati ) colla
pubblica vendita delle quali cose ogaaao riebbe i prestiti, contri' baiti per
la spedizione ; tornarono con una luminosa vittoria nella patria. Quindi per
decreto del Senato Tubo e r altro ne trionfarono ; Menenio col trionfo primario
sedendo su regio carro, Postumio col secondario, e men grandioso, che chiamano
della ovazione, altera'tone il nome che era greco, sicché più non distinguesi. Conciossiaché
per quanto io ne concepisco o ne trovo in molli degli storici Romani questo
trionfo chiamavasi nelle origini Evezione da ciò che vi si praticava : ed il
Senato, come Licinio racconta, ora per la prima volta ne ideò la pompa.
Differisce quest’ onor secondario dall’ altro, primieramente perchè chi sei
gode, entra la dttà colle schiere a piedi e non sul carro come in quello: e poi,
perchè non porta come l’altro la toga contraddistinta pe’ ricami varj e per
l’oro ; nè la corona pur di oro; ma la toga candida contornata di porpora, la
quale è l’ abito nazionale de’ comandanti e de’ consoli, e la corona di alloro
(a) : e se tien le altre cose ; in questo cede al primo trionfante, che noU va
collo sceturo. Postumio poi, sebbene più che altri segnalato OTaxione tu detta originalmente evatio ;
qnindi % !a voce di Virgilio I. 6. Ea. Evantes orgia circum ducehat Phrygias.
Questo ovari era dal greco tva^nt il qnale esprimeva le accismasioni fotte con
dire ss lasserò Tarquinio, Mamilio, gli Aricini, e cbiunqae davasi per
accusatore di quella, iìuchè uditili tutti, seutenziarono essere stata
l’alleanza rotta dai Romani; e fecero intendere a Valerio che col suo tempo
discuterebbero come aveano a vendicarsi di loro che aveano i diritti calpestati
del sangue. In mezzo a tali vicende congiurarono molti servi d’ invadere i
luoghi riguardevoli di Roma, e d’ incendiarla in più parti. Se non che datone
indizio da’ complici, ne furono ben tosto chiuse le porte dai consoli, e
preoccupati i siti forti dai cavalieri. Allora quaiiU erano denunziati
partecipi della congiura presi immantinente tra i domestici, o portati dalla
campagna, perirono tutti, battuti, tormentati, crociGssi. E tali sono le cose
operate in quel consolato. Sotlentrati a tal dignità Servio ^ Sulpizio Camerino,
e Manio Tullio Longo , alcuni di Fidene con vooando de’ soldati dal popolo de’
Tarquiniesi occuparono il castello di essa, e parte uccidendo, parte esi liando
quelli che si opponevano, ribellarono di nuovo Fidene ai Romani. Venutivi degli
ambasciadori da Roma, erano per malmenarli come nemici: ma contenutine da’
seniori, gii esclusero dalla città senza udir nè rispondere. Il Senato quando
seppe tali cose' non voleva ancor far guerra co’ Latini, perchè aveva udito che
non a tutti piaceano le risoluzioni del congresso, che i poti) An. di Roma 354
secondo Catone, aS 6 secondo Varrone, a 498 STtnli Cristo] poli ia ogni città
vi si ricusavano, e perchè certo diceansi più quelli che voleano mantenere 1’
alleanza, che gli altri i quali sciogliere la voleano. Pertanto decretò che
Manio un de’ consoli marciasse con armata poderosa contro Fidene: e questi,
depredatane impunissimamente la campagna senza che niuno gli si opponesse, ne
andò coir esercito fin sotto le mura, e provvide che non più vettovaglie vi s’
introducessero, nè armi, nè soccorso niuno. Ridottisi i Fidenati a guardare le
mura, spedirono alle città de’ Latini per implorarne solleciti ajuti.
Convocarono i capi di quelle un congresso comune di tutte : e datavi di bel
nuovo facoltà di parlare ai Tarquinj come agli altri che venivano dagli
assediati, invitarono i consiglieri, cominciando da’ seniori e più cospicui, a
djcbiarare il lor voto, e come aveasi a far guerra ai Romani. Dicendovisi molte
cose, e prima su la guerra se dovesse ratificarsi, i più torbidi fra i
consiglieri insistevano perchè si riconducesse Tarquìnio al trono, e sì volasse
in soccorso di Fidene. Essi miravano con questo ad ottenere cariche di comando
militare, e mescersi ai grandi affari ; e quelli vi miravano soprattutto, i
quali cercavano in patria preminenza, e tirannide, lusingati che avrebbero ad
essi ciò procacciato i Tarquinj se ricuperavano il regno. Ma i più agiati e
miti ( ed eran questi i più accreditati nel popolo ) chiedeano che si stesse ai
patti, non si corresse ciecamente alle armi. Respinti quei che brigavansi per
la guerra dai consiglieri di pace, persuasero all’ adunanza che mandasse almeno
oratori a Roma perchè la pregassero, ed esortassero a ricevere i Tarquinj e gli
altri fuoruscili senza pena e senza memoria d’ Ingiurie : giurasse que ' sto, e
si governasse poi di suo modo. Ritirasse però r armata da Fidene ; non potendo
essi guardare con Indifferenza che i parenti ed amici loro si spogliassero
della patria.' Ma se ricusasse far 1’ una e l’altra di queste cose, le s’
intimasse, che deciderebbonsi per la guerra. Non ignoravano costoro che Roma non
pieghe rebbesi nè all’ una nè all’ altra dimanda : ma cercavano pretesti
decorosi onde romperla, sperando Intanto di rendersi col tempo e colla buona
grazia benevoli i loro contrarj. Concluso questo, fissarono un anno, ai Romani
per deliberarsi, come a sè per apparecchiarsi : e nominati gli ambasciadori
come parve ai Tarquinj; sciol sero r adunanza. Separatisi i Latini, ognuno per
la sua patria, Mamilio e Tarquinlo vedendo che i popoli propendevano alla pacej
deposero le speranze che aveano su loro come istabili in tutto. E cangialo
consiglio si rivolsero a mettere in Roma stessa una guerra interna, nè
preveduta, svegliandovi sedizione tra’ ricchi e tra’ poveri. Imperocché già
disunita vi si era, nè più riguardava al ben pubblico una gran parte del
popolo, quella principalmente dei bisognosi e degli oppressi dai debiti; e ciò
appunto per 'gli usura) che non usavano moderazione ne’ crediti, ma fin
carceravano e malmenavano i debitori come schiavi comperati. Su tale notizia
spedì Tarquinio a Roma Insieme co’ messaggeri latini persone non sospette con
oro. Intramettendosi questi co’ poveri e coi baldanzosi, e parte dando, e parte
promettendo se ivi il re sen tornasse; aveano subornato moltissimi. Àdunque
fecesi contro i3e’ potenti una congtnra de’ poveri ingenui, e de’ servi màlvagi,
i quali stimolati dal desiderio di esser liberi, e disamoratisi de’ padroni
perchè aveano punito nell’ anno antecedente i loro conservi, gl’ insidiavano.
Ed essendo malcreduti e sospetti, come se venutone il tempo essi pure gli assalirebbero
; con piacere si diedero a chi gl’ invitava. Il disegno poi della congiura era
tale. Doveano i capi di essa occupare in una notte senza luna i luoghi eminenti
e forti della città ; gli altri poi come intenderebbero dai gridi che
gitteriano, aver loro già preso que’ siti opportuni, doveano uccidere tra ’l
sonno i proprj padroni, saccheggiare le case doviziose, e spalancare ai tiranni
le porte. Ma la providenaa celeste la quale in ogni tempo ha salvato, e salva
tuttavia Roma y fe’ traspirare i disegni al consolo Sulpizio. À lui ne diedero
indizio due già propensi a Tarquinio, anzi principalissimi nella con> giura,
Publio e Marco fratelli, della città di Laurento necessitati da impulso divino.
Imperocché si presentarono loro tra’l sonno visioni spaventevoli, minacciandolt
di pena gravissima, se non si chetavano e toglievansi dall’ impresa. E già
parca loro che i rei genj gl’ incalsassero, li battessero, e sterpassero loro
gli occhi, colmandoli di altri mali terribili. Dond’ è che spaventati e
tremanti destaronsi, nè più poterono pel turbamento aver calma nel sonno. E su
le prime per togliei'si ai genj rei che li conculcavano, tentarono i sagrifizj
di propiziazione co’ quali si allontanano i mali. Non traen> done però niun
frutto, si rivolsero alla divinazione : e celando lì disegni, perchè non eran
da dirsi, cercarono solamente d’intendere se tempo fosse da compiere cioc' chè
volevano. Ma rispondendo l’oracolo eh’ essi teneano via di delitto e di
perdizione, e che se non mntavan proposito, ne perirebbero infamissimamente;
investiti dal timore che altri non li prevenisse nel portare in luce l’arcano,
lo indicarono essi medesimi al consolo che in città si trovava. Costui lodatili,
con promessa grande ancora di beneficarli se il dir loro a’ fatti
corrispondesse; li ritenne ambedue presso di sè y tacendone con chiunque.
Allora introdotti in Senato i deputali latini, tenuti a bada fino a quel giorno
per la risposta, disse di concerto co' padri : amici, compagni, andate,
riferite al comun dei Latini che il popolo di Roma non condiscese prima il
ritorno al tiranno su le istanze dei Tdrguiniesi, nè punto appresso vi si
commosse irt forza di tutti i Tirreni che ciò domandavano, e guidati da Porsena
ci portavano la pià orribile delle guerre; ma che seppe vedere i suoi campi
manomessi, ed arsivi li casolari, e perfino ridursi a difendere le sole sue
mura per esser libero, e non comandato a fare ciò che non vuole. Dite, che
meravigliati ci sia^ mo che sapendo voi ciò, siale venuti a comandarci che
ricevessimo il tiranno, e ci levassimo dall assedio di Fidene, con intimarci la
guerra se ricusassimo. Cessino di opporci ornai più tali pretesti, fiacchi,
impersuasibili, di nimicitia. Nondimeno se vogliono per questo scindersi dalla
nostra alleanza e far guerra, più non s’ indugino. Data tale risposta agli
ambasciadori, ed accompagnatili per significazione di onore fuori della città,
poi disse in Senato delia occulta cospirazione ciocché aveane appreso dai
delatori : ed avutane autorità piena d’ investigare L complici, e trovarli, e
punirli, non tenne già mezzi orgogliosi e tirannici, come un altro ridotto a
tale necessità gli avrebbe tenuti, ma si rivolse a mezzi ragionati, salutevoli,
e convenienti al governo d' allora. Imperocché non deliberò che i satelliti
snoi svellessero per le case i cittadini dall’ amplesso delle mogli, de’ figli,
e de’ padri, e li traessero a morte ; considerando quanta pietà ne sarebbe tra
gli attinenti nel distacco de’ cari lor pegni, e temendo che alcuni,
disperatisi, corressero alle arme, e si necessitassero ai male a costo di
sangue civile. Non deliberò che si erigessero de’uribunali contro di essi;
riflettendo come tutti negherebbero, e come non avrebbero i giudici argomenti
incontrastabili e saldi, ma semplici denunzie, e colle quali, se credeansi,
dovrebbero sentwaziare la morte de’ cittadini. Ma per sorprendere i novatori
ideò tal metodo, per cui li capi si adunassero prima spontaneamente in un luogo,
e quindi arrestati vi fossero per argomenti indubitabili, che non lasciavano
mezzo a discolpe : ideò che fosse questo luogo di unione non una solitudine, o
ritiro, dove pochi osservassero, e convincessero; ma il Foro, talché scoperti
alla presenza di tutti ne fossero in proporzione puniti, nè sorgesse in città
turbamento nè sollevazione degli altri, come suole ne’ castigi de’ congiurati,
massimamente in tempi pericolosi. Forse un altro, quasi poco sia bisogno di
precisione in tai cose, penserà che basti dir sommarianieute che arrestò tutti
i complici de’ maneggi secreti, e gli uccise; ma io riputando degna che
ricordisi la maniera onde furono presi, ho risoluto non tralasciarla;
perciocché giudico che non basti all’ utile di chi legge le storie conoscere il
termine solo de' fatti, (piando brama piuttosto ognuno che gli si espongane le
cagioni, le guise delle operaxioni, i pensieri di chi praticavate, e come i
Numi li favorissero ; nè gli si taciano le conseguenze che per natura vi si
congiungono. Molto più ch’io vedo essere tali cognizioni necessarie agli uomini
di Stato, perchè abbiano d^lì esempj co’ (piali dirigersi ne’ varj casi. Or
questa fu la maniera ideata dal console per l’arresto de’ congiurati. Chiamati
i più validi de’ senatori ordinò che al segno convenuto occupassero in città
con seguito di amici e di parenti i luoghi forti ne’ (piali per avventura
abitavano : istruì poi li cavalieri a tenersi armati nelL' case più acconcie
intorno del Foro, e compiere ciocché sarebbe lor comandato. E perchè nella
presa de’ cittadini i loro fautori non si elevassero, nè ci avessero interne
stragi nel tumulto, scrisse al console che assediava Fideoe, perché al far
della notte marciasse col fior dell’ esercito alla volta di Roma, e lo
accampasse nelle alture intorno de’ muri. Ciò preparato; impose ai delatori che
venissero circa la mezza notte nei Foro ai capi de’ congiurati con i compagni
loro più fidi come a ricevervi 1’ ordine, il posto, ed il segno, in somma come
per udirvi ciascuno ciocché avrebbe egli a fare. Or ciò appunto si fece. E
poiché tutti questi si furono accolli nel Foro; immantinente al darsene di un
segno arcano per essi, i luoghi foni farooo pieni di uomini, armatisi per la
patria ; e r intorno del F oro fu guardato da’ cavalieri, sen.ia che via vi
lasciassero per chi volea ritirarsene. Intanto Manio r altro console si
presentò coll’ armata in campo Marzo. Nato appena il giorno i consoli, cinti da
uomini di arme, recaronsi ai tribunali, e fecero che i banditori ~ invitassero
pe’ quadrivi il popolo a parlamento. Concorsa la moltitudine, le rivelano il
maneggio sul ritorno del tiranno, e le presentano i delatori. Quindi concedendo
che si difendesse chiunque volea per ambigua 1’ accusa, nè volgendosi pur uno a
respingerla ; passarono dal Foro in Senato per chiedervene la sentenza dai
padri: e presa e scrittavela ; tornati al popolo gliela pubblicarono, e tale ne
era il tenore. Si desse ai due denunziatori la cittadinanza, e dieci mila
dramme di argento a testa, e venti jugeri de’ terreni del pubblico ^ e se così
ne paresse al popolo si prendessero i complici della congiura, e si
uccidessero. E ratificando il popolo quel decreto, ordinarono che uscissero dal
Foro quanti vi erano per 1’ adunanza : e chiamati i littori colle arme,
intimarono che dessero morte a tutti li congiurati : e quelli, circondandoli ;
appunto ov’ eran già chiusi, trucidarono li colpevoli. Uccisi questi, non che
ammettere le incolpazioni su degli altri partecipi, ne assolvettero qualunque
era salvo ancora dal supplizio ; e ciò per togliere ogni turbolenza da Roma.
Cosi finirono quei che aveano macchinata la congiura. Appresso il Senato ordinò
che tutti si purificassero per essere stati ridotti a sentenziare la morte de’
conci ttadini : nè concedersi loro d’intervenire alle sante cose ed ai
sagrifizj, prima di esserne rendati mondi e tersi colle espiazioni consuete. E
poiché da quei che dirigono le cose divine, a norma delle leggi della patria fu
compiuto quanto ricercavasi per sanliGcarli, decretò che ia rendimento di
grazie si facessero sagriGcj e giuochi agonali per tre giorni. In questi
giuochi sacri e denominati di Roma Mauio Tullio 1’ uno de’ consoli caduto tra
la pompa dal carro sacro nei circo, ne mori da indi a tre giorni : e perchè
poco rimaneva dell’ anno, Sulpizio tenne in questo tempo il consolato senza
collega. Furono designati consoli per l’anno seguente Publio Veturio, e Publio
Ebuzio Elva. E di questi Ebuzio fu incaricato delle cose politiche le quali
sembravano abbisognare di cure non tenui, perchè i poveri non facesservi
mutamento. Veturio poi menando seco metà dell! esercito, devastò le campagne
de’ Fidenati senza che ninno gli ostasse : e postosi all’ assedio della città,
davate assalti continui. Ma non potendola espugnare con questi, la cinse di
vallo intorno e di fosse per sottometterla colla fame. E già ne eran gli
abitanti nelle angustie, quando venne un soccorso di Latini spedito da Sesto
Tarquinio, e grano, ed arme, ed altre cose utili per ia guerra. Cosi
ringagliarditi osarono uscire dalla città con forze non piccole, e mettersi in
campo aperto. Allora non più giovò pe’ Romani la cir convallazione ; ma parve
che vi bisognasse una battaglia. Diedesi questa vicino alla città ; pendendone
qualche Ad. di Roma aS5 secondo Catone,
357 secondo Varrone, s 4 o 7 av. Cristo.. l'jj tempo dopo l’ esito incerto.
Infine, quantunque più copiosi di numero, sopraiTatti i Fidenati dalla fermezza
Romana ne’ travagli, acquistata col molto esercizio, fu> rono ridotti alla
foga. Non fu la strage loro copiosa, per essersi tra non molt^ ritornati in
città mentre gli altri respingevano dalle mura chi gl’ incalzava. Dissipatesi
dopo ciò le truppe ausiliarie sen partirono senza avere punto giovato gli
assediati ; e la città ricadde ne’ mali e nella penuria di prima. Intanto Sesto
Tarquinio marciò con un armata Latina sopra di Segni dominata da’ Romani come
per occuparla a prira’ impeto^ Ma resistendogli da entro generosissimamente,
tentò di stringerli ad abbandonarla almeno per la fame. Se non che spesovi gran
tempo senza opera niuna degna di ricordanza, e giunte vettovaglie e rinforzi
dal canto ? dei consoli ; ne perde la speranza ; e ritirandone 1’ armata, ne
sciolse l' assedio. > • LIX. Nell’ anno seguente i Romani elessero consoli
Tito Largio Flavo e Quinto delio Sicolo. delio, dolce per indole e popolare, fu
messo dal Senato con metà dell’ armata su le cose politiche per vegliare contro
dei novatori: Largio ordinate milizie e stromenti da imprender gli assedj,
parti per la guerra co’ Fidenati ; E spossatili colla diuturnità dell’ assedio,
e col disagio di ogni cosa, desolavali ognora più, minando i muri, ei^ gendo
terrapieni, avvicinando macchine, nè lasciando di e notte di stringerli, tanto
che sen prometteva in breve il t. I i
All. >li Roma lS6 secondo Catone, aSR eecondo Varroue, • /Jg6 avanti
Cristo] di espugnarli. Né le città Latine, su le quali contando ì Fidenati
trovavansi in guerra, potevano ornai più salvarli. Imperocché niuna città
bastava sola da sé per liberarli dall' assedio: nè le forze comuni di tutte si
erano riunite ancora : ma li capi del|e città Latine a’ frequenti messaggi de’
Fidenati rispondeano sempre di un modo, cioè che presto giungerebbe loro il
soccorso: non però mai nino fatto moveasi pronto su le promesse, né le speranze
scintillavano più in là delie parole. Nondimeno i Fidenati non diffidavano in
tutto de’ Latini: ma persistevano su la espettazione di essi affronte di tutti
i mali, sopialtutto della fame, la quale facea senza combattere strazio grande
degli uomini. Spedirono, è vero, alfine come stanchi da’ mali a chiedere al
console tregua di un numero certo di giorni per deliberare intanto su la pace
co’ Romani, e sui modi onde riordinarla. In realtà però ciò non cbiedeano per
deliberare, ma per fornirsi di compagni di arme, come alcuni disertati di
fresco da essi indicarono, giaoché nella notte innanzi aveano spedito i
cittadini loro più cospicui, e più validi tra’ Latini, perchè iu forma di
oratori suppbcassero quel popolo. Largio, ciò saputo, ingiunse agli ora tori
che deponessero le armi e spalancassero le porte, e poi favellasser di tregua :
iu altro modo non pace, non armistizio, non moderazione, non umanità
presumessero dai Romani. Frattanto provvide che gli ambasciadori deputati ai
Latini. non rientrassero in città ; preoccupando con guardie rigorosissime le
vie che vi conducevario. Tal che diffidatisi gli assediati di un ajuto
qualunque degli alleali si videro astretti a pregar veramente l’iaimico. B
riunitisi, conohiusero di soiTrire la pace, comunque il vincitore la desse. Altronde
il console ( tanto i costumi de’ capitani di que’ tempi respiravano 1’ amor
della pa> tria, e tanto erano lontani dalle maniere tiranniche che pochi san
fuggire de’ capitani presenti, invaniti dal C 0 i mando I ) il console sebbene
prendesse la città niente vi permutò di voler suo : ma fattala deporre le armi,
e presidiatala, conducendosi a Roma e convocando il 3^ nato, lasciò che esso ne
deliberasse. Lieti i Padri del rispetto del valentuomo verso loro dichiararono
che i più nobili dj Fidene secondo che il console li giudi casse capi della
ribellione, si battessero colle verghe, e ei decapitassero : su gli altri poi
disponesse egli stesso come glien parrebbe. Largio divenuto 1’ arbitro di tutti
sparse in vista del pubblico il sangue, e confiscò li beni di alcuni pochi
accusati dal partito contrarlo; ma concedè che gli altri ritenessero la patria
e le robe loro, e solamente ne dimezzò le campagne, poi dispensate a sorte tra’
Romani lasciati in guardia della fortezza. Alfine dopo ciò ricondusse in casa
1’ esercito. LXI. Risaputasi fra’ Latini la espugnazione di Fidene, ogni città
ne fu sospesa e tremante, e mal soddisfatta de' capi suoi ; come tradito
avessero li confederati. C fattosi consiglio in Ferentino, quei che
persuadevano la guerra, assai vi accusarono gli altri che la dissuadevano.
Erano de’ primi Tarqulnìo, e Mamilio il genero di lui e li capi tra gli
Aricini. Rapiti dal dir loro, quanti erano i Latini, vollero generalmente la
guerra contro de' Romani, e diedero scambievole giuramento, che tiiuua l8o
città tradirebbe il comune, nè farebbe pace sema il consenso delie altre
decretando : che qualunque non os-> servasse i patti decadesse dalla lega
alla esecrazione e nimicizia di tutti. Sottoscrissero e giurarono questi patti
i deputati degli Àrdeati, degli Aricini, dei Boiaiani, dei Bubentani, dei
Coresi, dei Corventani, dei Gabj, dei Lavrentini, de' Laviniesi, dei Labiniani,
de' Labicani, de' Nomentani, de' Moreani, de' Prenestini, de' Pedani, dei
Querquetulani, de' Satricesi, de' Scaptini, de’ Sezzesi, de' Teliini, de'
Tiburtini, de'. Tuscolani, de' Tolerini, de' Trienni, de' Veliterni. Doveansi
scegliere tra gl’ idonei alle armi, tanti in ogni città quanti ne parrebbono ad
Ottavio Mamilio e Sesto ^ Tarquinio, i quali erano generalissimi nominati. E
per giustifìcare ancor più li titoli della guerra spedirono a Roma da ogni
città li personaggi più insigni come oratori. Venuti questi in Senato dissero :
che quei della Riccia si richiamavan di Roma, perchè qucuido i Tirreni mossero
contro loro la guerra, essa non solo die a’ primi libero il passo per le sue
terre, ma li coadjuvò su quanto era d' uopo, ricoverandoli mentre poi ne
fuggivano e salvandoli tutti, inermi e feriti : eppure non ignorava che quelli
portavano guerra al corpo tutto della nazione : e che se avessero domalo Dioaigi nel namerare questi popoli siegue
l’ordine dell’ alfabeto latino e non del greco : del resto numera popoli quando
nn tal Bruto nel lib. VI. di quest' opera § 74 dice ebe furono trenta i popoli
latini concorsi a tal guerra. Dovrebbero dunque additarsene altri sei. Nel
codice Vaticano si numerano ancora i Tolerini che noi abbiamo ugualmente
allegali nel testo. La nomenclatura per quanto aia stata emendala non par
libera ancora da ogni storpiatura.. ' i8r la Riccia; niente pià gli avrebbe
impediti, sicché non soggiogassero le altre città. Pertanto annunziavano che se
Roma voleva darne conto a quei della Riccia nel tribunale comune de’ Latini, e
rimettervisi al giudizio di tutti, non avrebbon essi cagioni di guerra. Ma se
tenendosi all alterigia sua consueta ricusava affatto condiscendere sul giusto
e su V onesto inverso de’ confederati ; minacciavano che i Latini tutti la
moverebbero con tutte le forze la guerra. LXn. A tale invito il Senato alieno
di fare cogli Ari cini una causa dov’ essi giudicherebbero, e dove prevedeva
che i nemici non sentenzierebbero di questo sola mente, ma vi aggiungerebbero
ordinazioni ancora più gravi, decise che accettava la guerra. Argomentava dal
valore e dalla sperienza de’ suoi tra le arme che Roma non incorrerebbe in
danno ninno: apprendendo però la moltitudine de’ nemici, sollecitò più volte con
ambascia tori le città vicine per confederarsele ; se non che spe divano i
Latini ancora nelle stesse città legazioni che accusassero a lungo Roma, e la
contrariassero. Gli Err nici adunati a consiglio di stato diedero all’ una e
alr altra ambasceria risposte sospette nè salutevoli, dicendo che per ora non
si vincolavano con alcuno; ma voleano posatamente discutere qual de’ popoli
seguisse causa più giusta, e prendeansi per discuterne un anno. I Rutoli in
contrario promisero senza arcano mandare soccorsi ai Latini : ma dissero che se
Roma volea deporre le inimicizie, essi mansuefar ebbono i Latini, e ne
concilierebbono gli accordi. Risposero i Volaci che si stupivano della
impudenza de’ Romani ; perciocché sapendo essi quante volle gli avessero offzzl
conTenlftnti a pcgnere ^elfa tnrblo ratiBcò; dando t principj certi di una
tirannide a norma : Quindi i capi del
Senato si fecero a considerare lungamente e providamente il personaggio che
avrebbe a comandare. Paiea loro che vi fosse necessità di un nomo espedito
negli affari, più che perito nell’ arme, e savio, e temperato, sicché poi non
> delirasse per l’ampiezza del comando; insorama di uno il quale oltre le
belle doti, quante ai buoni comandanti si convengono, sapesse presieder con
fortezza, nè cedere mollemente alle istanze. Di un uomo tale appunto
abbisognavasi allora. .Videro concorrere doti siffatte quante seu chiedeano in
Tito Largio, uno de’ consoli ; laddove delio il collega, uomo altronde
buonissimo, non era nè attivo, nè bellicoso, nè imponente, nè temuto, ma edite
troppo in punire chi non ubbidiva. Nondimeno il Senato prendea .verecondia di
levare a que^o un’autorità che aveva secondo le leggi, e di concentrare .nell’
altro il potere di ambedue, anzi un poter più che. regio. .Teniea per qualche
maniera che delio riflettendovi, non si gravasse della rimozione sua, come
disonorato dai Padri ; e camhiale le maniere del vivere, si ponesse alla testa
del popolo, c turbasse dal fondo la repubblica. Esitando tutti, e gran tempo,
per la verecondia di proporre ciocché ideavano, un seniore, venerabilissimo tra
gli uomini consolari, diede un tal suo parere, per cui fu salvo l'onore di
ambedue li consoli, scegliendo essi appunto il personaggio più acconcio al
comando. Diceva : Poiché il Senato ha risoluto, ed il popolo ha ratificato che
il poter del comando si affidi ad un solo, restano ai Padri due cure non
picciole : chi debba sottentrare ad una autorità pari alia monarchia, e chi
possa legittimamente nomiruuvelo. Or egli suggeriva che l’uno de’ consoli sia per
cessione, sia per sorte', eleggesse il romano più idoneo, a far 1’ utile e il
bene della patria: giacché trovandosi allora in città magistrati sacrosanti,
non vi abbisognavano gl’ interré come nella monarchia, per eleggere di accordo
chi succedesse al comando. ' i Applaudivano tutti al partito, quando levatosi
un altro disse : Ali sembra o Padri che debbasi alia sentenza aggiungere: che
reggendo di presente la repubblica, due valentuomini, de’ quali non trovereste
i migliori, V uno 'debba dare la nomina, e l’ altro riceverla, talché scelgati
essi fra loro il più idoneo ; e C uno e i altro se ne abbia onore e
soddisfazione uguale, quello perchè sceglie nel collega il più degno, c questa
perchè scelto sen trova : dolcissime e bonissime cose ambedue. Ben vedo che
sebbene io non avessi ciò aggiunto ; pure avrebbono i consoli così DWaiGI, toma
II. il praticalo ; egli è meglio^ nondimeno che il facciano eziandio col vostro
volere. Parve a tutti ciò detto a proposito, e niuno più notandovi altra cosa,
ne decretarono. I consoli ricevuto il potere di eleggere fra loro il più idoneo
al comando, fecero una mirabilissima cosa, e ben varia dalle affezioni dell’
uomo. A vicenda r uno dicea 1’ altro, e non sè, degno del comando : così
passarono tutto quel giorno, encomiando l’ un l’altro, e insistendo ciascuno per
non comandare: tanto che gli astanti in Senato ne furono in grandi perplessità.
Sciolto il Senato, i parenti più prossimi di ciascuno, e li Padri più
venerabili recatisi a Largio assai lo stimolarono £no a notte avanzata,
dichlaraùdogli come il Senato poneva in esso ogni speranza, e dicendo che le
sue ritrosie volgevansi in pubblico danno: egli tuttavia ricusava, ora
supplicando, ed ora contradicendo. Adunatosi nel prossimo giorno il Senato,
mentre colui ripugnava, nè levavasi ancora dal suo parere su le istanze comuni,
Clelio sorge, e lo nomina, come gl’interré solevano nominare, e lascia il
consolato. Fu questi il primo che, solo, fu reso àrbitro in Roma della guerra,
della pace, d’ ogni affare, col nome di Dittatore sia per la podestà di ordinare e dettare
leggi su’ diritti e sul bene degli altri, come glien pareva e piaceva,
chiamandosi da’ Romani Editti gli ordini e prescrizioni sul giusto e su l’
ingiusto : sia per essere allora un tal. uomo detto e dichiarato da un solo e
non dal popolo secondo i riti della Ad.
di Roma aS6 socondo Catone, a58 secondo Varrone, • ar. Cristo] patria, perché
comandasse. Guardaronsi dal dare al magistrato di una città libera un nome
esecrabile e grave per rispetto di quelli che ubbidivano, sicché in odio del
titolo non si conturbassero, e per rispetto di chi prendeva il comando, sicché
nè fosse costui offeso dagli altri senza saperlo, uè gli offendesse egli co’
modi consueti nel grande potere. E certo il nome di dittatore non bene l’
ampiezza ne significa del potere ; non essendo la dittatura che un Dispotismo
elettivo. Sembra che i Romani ne traessero pur da’ Greci la istituzione.
Imperocché gli Esimneti che chiamavansi antichissimamente tra loro erano, come
dichiara Teofrasto nel libro intorno del regno, despoti elettivi. Li creavano
le città non per tempO' indefinito o perpetuo, ma nella circostanza, e fin
quando sembrava che giovassero loro, come li Mitilenei già scelsero Pittaco
contro gli esuli, compagni di Alceo poeta. Tennero questo metodo I primi che
aveano appreso per esperienza ciò che giovava. Imperocché nelle origini era
ogni greca città sovraneggiata, non però dispoticamente come tra’ barbari, ma
secondo le leggi e le patrie consuetudini : ed un re si avea tanto più per
potente quanto era più giusto, e più fido alle leggi, e men schivo de’ patrii
costumi : ciocché s’ intende per Omero il quaì nomina i sovrani, vindici del
diritto, e de/f onesto. Tennesi lungo tempo la signoria dei re come quella de’
Lacedemoni sotto fisse Mèi testo:
intarrtXnt, e SiftttTttrtXuf. cioè che si reruuio sul giusto e su C onesto. costituzioni. Ma cominciando poi taluni di
questi a trascendere gli usati poteri, poco concedendo alle leggi e molto ai
genj loro ; ne furono i popoli in tutto disgustati, e rovesciarono 1’ autorità
de’ monarchi, e le loro maniere : e stabilendo leggi e creando magistrati,
assunsero questi come custodi delle città. Ma perciocché non bastavano nè a
proteggere il giusto le leggi poste da essi, nè a coadjuvare le leggi li
magistrati o li comissarj che avean cura di queste ; e percioccliè il tempo col
volger suo mena tanta varietade ; furono astretti a fare stabilimenti non
ottimi si, ma certo i più consentanei alle vicende che li sorprendevano o di
sciagure abborrite, o di smoderate prosperità. Per le ' quali confondendosi '
lo stato della città, e bisognandovi un pronto riparo ed un arbitro immediato,
furono necessitati a rialzare l’autorità dei monarchi e dei re, velandone coi
nomi la esistenza. Cosi li Tessali denominarono Tettar' ~ chi questi arbitri, e
gli Spartani li chiamarono Armosti per timore d’ intitolarli tiranni o monarchi
: aggiungi. che teneano per cosa scellerata rinovare poteri abattuti tra
giuramenti ed esecrazioni su 1’ oracolo de’ numi. Quindi, come ho detto, a me
sembra che i Romani prendessero da' Greci l’esempio: Licinio però crede che i
Romani ideassero un dittatore a norma degli Albani ; scrivendo cbe questi,
venuta meno la regia discendenza dopo la morte di Numitore e di Amulio,
eleggessero annui presidenti col potere appunto dei re, ma con titolo di
dittatori. Io non ho voluto esaminare onde Roma derivasse il nome, ma sibbene
onde pigliasse la idea dell’ autorità che in tal nome si ' addita. Se uon che
forsb non è pregio dell' opera che scrivasi di ciò più luDgameate. Ora dirò
brevemente ciocché Largio il primo dittatore facesse, e con quale apparato
decorasse la sua dignità ; persuadendomi che siano più utili ai lettori le
materie appunto che porgono in copia esempj splendidi ed opportuni pe’
legislatori, e capi de’ popoli, in somma per quanti vogliono governare e
maneggiare il pubblico Imperciocché non io prendo a descrivere le istituzioni
> e li modi di una città vite e negletta, né li consigli e le pratiche di
uomini ignobili e di niuna espettazione, sicché lo studio mio su tenui e
volgari cose paja ad altri frivolezza e molestia : ma di una città legislatrice
di tutti, e di capitani che la sollevarono a tanto potere; cose tutte che se un
amante della sapienza giunga a non ignorare ; ne sarà per politico ravvisato.
Investito Largio appena del suo potere dichiarò maestro de’ cavalieri Spurio
Cassio, già console nella olimpiade 70. Osservavasi tal costume da’ Romani fino
a’ miei giorni, e ninno mai, scelto per dittatore, ne tenne la dignità senza
maestro de’ cavalieri. Quindi a rilevare la potenza di una tal dignità, per
imporre piuttosto che per osarne, ordinò che i littori marciassero per la città
con fasci e scuri secondo il costume ivi proprio de’ re, tralasciato poscia da’
consoli, e primieramente da Valerio Poplicola per diminuire la odiosità del
comando. Spaventati con questo ed altri segni di regia dominazione i turbolenti
eà i novatori, comandò a lutti i Romani di adempiere la migliore delle leggi
.di Servio Tullio, sovrano popolarissimo, cioè di assegnare per tribù li loro
beni, li nomi delle mogli e de’ figli, e la età loro e de’figli. Terminato in
breve il registro per la severità de’ castighi, perdendosi da’ contravventori i
beni e la cittadinanza ; si rinvennero cento cinquanta mila settecento e più
Romani adulti. Poi separando gli uomini di età militare dai provetti, e
riducendoli in centurie ; li divise tutti, fanti e cavalieri in quattro parti :
e ritenutane una, che era la migliore, per sé, fece che delio già suo collega
nel consolato se ne eleggesse un altra qualunque tra le rimanenti : che Spurio
Cassio il prefetto de’ cavalieri avesse la terza, e Spurio Largio il fratello
la quarta ; la quale fu comandata trattenersi e presidiare insieme co’ vecchi
la città. Egli poi, com’ ebbe pronto quanto bisognava per la guerra, menò le
milizie in campo aperto; appostando tre armate ne’luoghi appunto donde
sospettava che i Latini uscirebbono. E considerando esser proprio de’ savj
capitani fortificare le sue cose come debilitare quelle del nemico, e terminare
le guerre senza battaglie e stenti, o certo col minimo danno delle milizie ;
anzi considerando che sciauratissime e luttuosissime più che tutte sono le
guerre tra’ popoli amici e congiunti ; concludeva che si aveau queste a finire
con tratti di clemenza piuttosto, che di rigore. Adunque spedendo occultamente
persone non sospette ai più riguardevoli de’ Latini, li persuase a rendere la
pace alle loro città: e spedendo insieme apertamente ambasciadori ad ogni città,
come alla rappresentanfa generale di tutte; ottenne senza difficoltà che non
tutti avessero più l’antico ardore per la guerra; alienandoli principalmente
cogli ossequiosi modi e co’ benedzj dai duci loro. In opposilo Mamilio e Sesto,
che aveano da’ Latini rice TUto il generai comando, riunite nel Tnscolo le
forze, si apparecchiavano come per piombare su Roma ; se non che spesero su ciò
gran tempo o che aspettassero le città le quali tardavano, o che non buoni
apparissero loro gli auguri santi. Intanto alcuni di loro spiccatisi dall'
esercito devastavano la campagna romana. Largio, risaputolo, spedi delio su
loro col fiore dei cavalieri e de’ soldati leggieri : e costui, presentatosi
inaspettatamente, gli assalì, e ne uccise, imprigionandone la più gran parte.
Largio curatine li feriti, e guadagnatiseli con altre amorevolezze li rinviò
senza offesa o prezzo al Tuscolo ; mandando riguardevolissimi romani ton essi
per ambasciadori. Or questi operarono che si sciogliesse l' armata latina, e si
facesse tra le città la tregua di un anno. Largio, ciò fatto, ricondusse l’
armata dalla campagna: e designando i consoli depose prima che ne spirasse il
tempo la dittatura senz’ avere ucciso, o bandito, o ridotto comunque a gravi
mali un romano. Cominciato T invidiabile esempio da un tal uomo si mantenne in
quanti ottennero poi quella dignità fino alla terza generazione prima della
mia. Imperocché la storia fino a quest’ epoca non presenta ninno il quale non
esercitasse quella dignità moderatamente e qual cittadino, quantunque Roma
fosse astretta più volte a sospendere le magistrature ordinarie, e concentrare
tutto nelle mani di un solo. E non sarebbe gran meraviglia se personaggi ottimi
della patria pigliando la dittatura solamente nelle guerre cogli esteri si fossero
tenuti incorrotti nella grandezza del potere: ma pigliandola nelle sedizioni
interne, grandi e molte, per togliere I sospetti di regni e tirannidi
rinascenti, o per altra sciagura, lutti, quanti la ottennero, conservaron
sestessi iqiniacolati, e simili al primo dei dittatori. Tanto che tutti
unanimemente conclusero che la dittatura era 1’ unico rimedio contro de’ mali
intrattabili, e 1’ ultima speranza dii salute quando sparse sono le altre
speranze. dalla procella. Quattrocento anni però dopo la dittatura di Tito
Largioj a memoria de’ Padri nostri parve tal carica biasimevole ed esecranda
per Lucio Cornelio Siila che primo ne abusò, vendicativo e 6ero : talché li
Romani allora sentirono a prova, ciocché aveano prima ignorato, che la signoria
de' dittatori non era se,, notk liran nide : imperocché costui ordinò un Senato
di uomini comunque, infìacchi 1’ autorità del tribunato, devastò città intere,
distrusse e creò regni, ed altre cose fece e disfece dispoticamente, le quali
lungo sarebbe a raccontare. Oltre i cittadini uccisi in battaglia, ne trucidò
nemmeno di quaranta mila, datisi a lui prigionieri, dopo averne prima
tormentati alcuni. !Non è questo il tempo di discutere se egli fe’ ciò
necessitato o per utile del comune : solamente ho voluto dimostrare che ne
divenne abominato c spaventevole il nome di dittatore: ciocché pur succede ad
altre cose ammirale e disputate dagli uomini, non che alle sole dominazioni:
perciocché tulle le cose appariscono belle e giovevoli se bene si .adoperino,
come danncvoli c turpi se mal si dirigano ; di (he ne è causa la natura che in
lutti i beni ha sparso i germi dei male ; se noa die di tali cose diremo
altrove più propriamente. L’ anno prossimo a questo nella olimpiade 'j i ^
nella quale vinse allo stadio Tisicrate Croloniatejessendo Ipparco F arconte di
Ale ne, presero il consolato Aulo Sempronio Atratino e Marco Minucio. Li anno
prossimo a questo nella olimpiade 71. nella quale vinse allo stadio Tisicrate
Crotoniate essendo Ipparco arconte di Atene, presero il consolato Aulo
Sempronio Atralino e Marco Minucio , ma niente vi operarono degno di ricordanza,
nè in città nè fra le armi : perciocché la tregua co’ Latini dava loro placida
calma cogli esteri, e la legge decretata dal Senato di sospendere la esazione
dei prestiti, finché la guerra imminente avesse buon termine, avea sopito le
somfi) Àn. di Roma aS7 secondo Catone, 259 secondo Vairone, • 4 recchi per la
guerra. Il complesso de’ Romani era vo- lentei'oso e propensissimo a combattere
; ma il più dei Latini eravi disanimato e forzato : dominando per le città
uomini quasi tutti corrotti dai doni e dalle prò messe di Tarquinio, e di
Mamilio, rimossi dalle cure pubbliche quanti favorivano il popolo e ripudiàvan
la guerra. Cosi non più dandosi a chi la volea la facoltà (li discorrere, si
ridussero i più corucciati a lasciare in copia la patria, e fuggirsene in Roma.
Nè quelli che dominavano ve gl’ impedivano, ma teneansi obbligatissimi ai
competitori, dell’ esilio spontaneo. Li riceveano i Romani e compartivano tra
le milizie interne, e mescbiavano alle coorti urbane quanti ne venivano con
mogli e figli, ma spedivano gli altri a' castelli intorno e per le colonie,
sopravvegliando intanto che non facessero' mutamenti. E consentendo tutti che
bisognavaci novamente un arbitro assoluto il qual potesse ordinare a suo modo
ogni cosa, fu nominato dittatore Aulo Poslumio il console più giovine da
Virginio il collega : e costui, come già 1’ altro dittatore scelse per suo
maestro de’ cavalieri Tito Ebuzio Elva, e registrati in poco tempo tutti i
Romani già puberi, ordinò la milizia in quattro parti, reggendone egli 1’ una,
dandone a reggere la seconda a Virginio il compagno nel consolato, la terza ad
Ebuzio il maestro de’ cavalieri, c An.
di Roma aSS secoado Catone, aCo secondo Varrone, • 4e essi agevolerebbero ossea
più le cose loro. Se non che mentre deliberavano ancora giunse coll’ armata sua
da Roma Tito iVirgiuio r altro console, marciato improvvisamente nella notte
dinanzi : e prese anch’ egli campo in altra altura assai forte. Di modo che i
Latini rimasero intracchiusi, nè più idonei ad un assalto, avendo a sinistra il
console e a destra il dittatore. Adunque tanto più sen conturbarono tra quelli
i capitani i quali non voleano se non partiti sicuri, e temerono che tardando
si riducessero a consumare le loro provvigioni, le quali non erano molle.
Postumio notando quanta fosse la imperizia loro nel comandare spedi Tito Ebuzio
maestro dei cavalieri col nerbo de’ cavalli e de’ soldati leggeri ad .occupare
un monte rilevantissimo in su la via, per la quale recavansi i viveri dalle
loro terre ai Latini. Andò questa milizia espedita con la cavalleria, e
condotta di notte tra selve non frequentate ; prese il monte prima che i nemici
se ne avvedessero. V. I capitani nenuci osservando invasi anche i posti forti
che erano loro alle spalle, nè più avendo speranze buone sul trasporto
indubitato de’ viveri da’ paesi loro, deliberarono respingere i Romani dal
monte prima che vi si assicurassero ancora cogli steccati. Adunque Sesto r un
d’ essi presa la cavalleria vi si lanciò con impeto ; quasi la cavalleria
Romana non si tenesse a ribatterlo : ma tenendosi questa bravissimamente contro
gli assalitori, Sesto durò qualche tempo ora dando voi ta, ora tornandole a
fronte. Ma perciocché quel luogo riusciva opportunissimo a chi ne avea le
alture, e costava assai travagli e ferite a chi vi si recava dabbasso ; e
perciocché giungeva ai Romani un soccorso di milizia legionaria mandata
appresso da Postumio ; egli ritirò, non potendo altro fare, la cavalleria negli
alloggiamenti. I Romani impadronitisi appieno del luogo, si misero a
fortificarlo pubblicamente. Dopo ciò parve a Sesto e Mamilio ndn essere più da
indugiare gran tempo, ma doversi decidere la sorte con una pronta battaglia : e
parve allora anche al dittatore di esporvisi, quantunque avesse ne’ principi
ideato di dar fine alla guerra senza combattere, sperando giungere a ciò,
specialmente per la imperizia de’ capitani. Imperciocché da’ cavalieri custodi
delle strade furono sorpresi de’ messaggeri che andavano dai Yolsci a’ Latini
con lettere di avviso che, indi a tre giorni al più, verrebbe milizia copiosa
di rinforzo da loro, come altra dagli Eroici. Or ciò ridusse i duci Romani a
venire, sebbene contro il proposilo, a pronta giornata. Datosi da ambe le parti
il segno della battaglia ; si avanzarono gli uni e gli altri al campo
intermedio, e cosi vi ordinarono le armate. Sesto Tarquinio ebbe a reggere 1’
ala sinistra de’ Latini, ed Ottavio Mamilio la destra. Tito 1’ altro figliuolo
di Tarquinio comandava il centro óve erano i disertori e fuorusciti Romani. La
cavalleria divisa in tre parti fu dispensata alle ale ed al centro. In opposito
Tito Ebuzio ebbe 1’ ala sinistra de’ Romani contro di Ottavio Mamilio, e Tito
Virginio il console si contrappose colla de stra a Sesto Tarquinio; Empiva de’
genj suoi Postumio stesso il dittatore 1’ armata di mezzo, e moveala contro
Tito Tarquinio ^ e gli esuli da Roma j i quali eran con lui. Il complesso delle
milizie venute a combattere erano ventiquattro mila fanti e tre mila cavalieri
nella parte Romana, e quaranu niila fanti, e tre mila cavalieri nella Latina.
VI. Quando erano per andare a combattere i capitani Latini, aringando ognuno i
suoi, diedero mille eccitamenti di coraggio, e ricordarono lungamente ciocché
bisogna al soldato. Dall' altra parte il Romano vedendo cbe i suoi temeano come
quelli che cimentavansi con gente assai più numerosa, e volendoli sollevare da
quella paura, fe’ radunarli, e poi tra corona di senatori, onorabili per anni e
per credito, cosi concionò : Gli Dei cogli aitgurj, colle viltime, con ogni
segno divinatorio promettono alla nosti'a patria Li libertà, ed una propizia
vittoria; contraccambiandoci della pietà verso loro, e della giustizia
esercitata da noi verso gli altri in tutta la vita : per lo contrario, inìmici
sono, come deano, de' nostri nemici, perchè tante volte e tanto da noi
beneficali, essi parenti, essi amici nostri ', essi legatisi a noi di
giuramento per avere appunto gli amici stessi ^ i nemici, ora spregiato ogni
vincolo, ci movono una guerra ingiusta non per decidere qual di noi si abbia la
preminenza e il comando, ciocché sarebbe il meno de mali ; ma in favor dei
timnni, e per fare la patria nostra che è libera', schiava ai Tarquinj. Ora
intendendo voi o centurioni e soldati, che militano con voi gli Dei, quelli
stessi che hanno sempre difesa Roma, si con^ viene che rnagnanimi vi
dimostriate in questa battaglia : molto più che ben sapete che gli Dei
favoriscono i bravi combaltitori, quelli che quanto è da loro fan tutto per
vincere, e non quelli che figgono i 'pericoli, md quelli che li sostengono per
salvare' sè stessfi Inoltie a voi sono apparecchiati dalla sorte altri mezzi
non pochi per la vittoria, e tre soprattutto manifèstissimi. Vn. Il primo è la
fedeltà scambievole, requisito principaliss'tmo in chi disegna vincere l’
inimico ; imp^ciocchè non' dee già cominciar • questo giorno a rendervi amici
fidi e costanti; ma la patria ha da tanto tempo preparato' a voi tutti un tal
bene. V oi allevati in urta terra, educati di una maniera sagrificate agl’ Iddj
su di altari medesimi :. e voi avete fin qui partecipato i tanti beni e
sperimentato insieme i tanti mali, i quali rinforzano, anzi rendono
indissolubili, le amicizie fra gli uomini, quante volte presentasi loro un
cimento comune su gravissime cose. In secondo luogo, se voi soggiacerete .ai
nemici, già non sarà che alcuni di voi restino immuni, altri subiscano r
estrema degl' infortunj ; ma tutti, sì, tutti perderete la gloria vostra, f
impero, ' la libertà j noit più padroni delle mogli, non più de' figli, non più
_ •' delle sostanze, non più altro bene vostro qualunque. ^ E li vostri capi,
li vostri pubblici magistrati ‘ miserandamente moriranno tra flagelli e
tormenti. Se già non offesi da voi punto nè poco, fecero a voi tutti ogni
maniera cT ingiurie ; e che mai potete aspeltarvene ora se vincano, nella
memoria che hanno de’ mali ; che gli avete ridotti fuori della patria, che gli
avete spogliati de’ beni, nè consentile che tornino alle case, paterne ? L’
ultimo de’ mezzi indicàtir, nè minore degli altri se rettamente sen giudichi,,
è che noi troviamo le cose tra’ nemici men prospere che non pensavamo. E certo
vedete voi da voi stessi che tolto gli Anziati, niuno è qui per soccorrerli
nella guerra. Noi concepivamo che verrebbero per essi tutti i Eolsci ; e Sabini
ed Ernici in copia, e mille altre vane paure ci i fingevamo. Erano questi tutti
sogni de’ Latini, immaI ginati su promesse vane, su speranze senza base. Quindi
altri nel meglio ne abbandona la causa, spregiando r euUorità de’ sì belli
capitani:, altri li terranno ^ anzi a bada che li soccorreranno,
temporeggiandoli con lusinghe ; e quelli che or si apparecchiano, come tardi
per la battaglia, inutili diverranno. Che se alcuni di voi pensano che giusto
sia I ciocché io dico, eppur temono. la quantità de' nemici, j. a I I €onoscanò per una breve iilruzione, o
piuttosto ricordo, che essi temono non temibili cose. E prima conside\ tino che
il pià di' loro è stato forzato alle arme contro di ìtoi, come ce lo ha con
tante opere e detti mànìfestato ; e che gli spontanei, quelli che di lor
piacere combattono pe’ tiranni sono ben pochi, e piuttosto una parte
insensibile rimpetto di voi. Appresso considerino che le guerre guidale a buon
successo non la superiorità' nel numero, ma nella fortezza. E lunghissima opera
sarebbe ricordar quanti eserciti di barbari, quanti di Greci, tuttoché
preminenti di numero, siano stati disfatti da piccioli corpi e quasi non
credibili a dir. Ma tralascio gli esempj altrui : dite ^ quante guerre non
avete voi ben guerreggiato con armata minore della presente, e contro
apparecchi assai pià potenti di questi ? Dite ; voi fin qui teiribili agli
altri che avete combattuti e vinti, siete ora voi dispregeiSbli a questi
Latini, ai Folsci loro alleati, perchè non vi han essi mai sperimentato Jra le
arme ? Sapete pure voi tutti quante volte i nostri padri gli hanno in campo
superati ambedue. E vi par verisimile che la condizione da’ vinti sia dopo
tante perdite migliore, e peggiore sia quella de' vincitori dopo tanti
bellissimi fatti ? E chi,' se abbia mente, chi mai dirà questo ? Anzi ben io mi
'stupirei se alcuno di voi paventasse questa turba ove si pochi sono li bravi,
e spregiasse la milizia nostra si forte e si numerosa ; che nè pai' numerosa nè
pià forte mai ne abbiamo finora schierato in battaglia. Che pià : deve, o
cittadini ì esservi impulso grandissimo a non temere, nè ricusare i pericoli t
ejsere come vedete qui pronti ai pericoli, e correre con voi la sorte stessa
delle arme i primarj de’ senatori, quelli che la età o la legge gli esenta
dalla milizia. Che^sl; che egli sarebbe vituperoso che -uomini nel fior degli
anni temessero i pericoli quando i provetti gli affrontano, Avran cuore i
vecchi di ricevere per la patria la morte se dare non là possono ai nemici; e
voi li sì. vegeti, voi che ben potete • f una e l’ altra cosa, o salvarvi e
vincere senza danno, o certo magnanimamente operare, e soffrire, voi non
vorrete nè cimentare la sorte, nè la Jama .procacciarvi de’ valorosi F No, ciò
di vói non è degno, o Homani, ai quali sopravvanzan tante mirabilissime gesta
degli antenati, le quali niuno loderebbe mai quanto basta : e se voi vincerete
questa guerra, i vostri posteri ancora si gioveranno di tante vostre
gloriosissime imprese. Ma perchè nè sia senza frutto chi si delibera K alle
grandi azioni ; nè si trovi col danno chi ne teme i rischj oltra il debito,
udite prima d incorrerla, Indite qual sarà la sorte dell’ uno e delt altro.
Chiunque ìlei combattere imprende belle e magnanime gesta ne sarà da chi ’l
vede encomiato ; ed io, quando dispenserò li premj che .ciascuno' -dee
raccoglierne. secondo il costume della patria j quando. darò insorte le, terre
pubbliche, io costui ne appagherv, sicché pià di nulla abbisogni. Al contrario
chiunque nel cuor suo vile, offensivo de’ numi, si deciderà per la fuga, costui
si troverà per me colla morte che fogge ; chè ben è meglio per esso e per altri
che un tale cittadina perisca : e così perendo, non che attere i funebri onori
eia tomba ^ si resterà, non emulato' nè pianto, in abbandono agli uccelli e
alle fiere. Con ioli previdenze, andate : combattete alacremente ; e V abbiate
per guida alle grandi azioni la speranza buona, chè dato a questo cimento un
termine generoso, come tutti desideriamo, avrete ottenuto amplissimi beni,
avrete liberato voi dal timor dei tiranni, avrete, come doyeasi, corrisposto
alla patria, che chiedea la gratitudine vostra per avervi generati e nudriti,
avrete operato eh i teneri vostri figli, le vostre mogli non sqffrano oltraggio
da nemici, e che ì vecchi vostri genitori vivano in calma il picciolo avanzo di
vita. Felici voi d quali riservasi tornare da questa guerra col trionfo, mentre
li figli vostri' ve ne aspettano, e le spose, e li genitori. Quanto sarete
celebrati, quanto ' invidiati pel coraggio di dare voi stessi per là patria !
Tutti deano morire valentuomini o no] ma il moribe con dignità' e CON GLORIA
NON È PROPRIO CHE DE' VALENTUOlilNIAncora egli continuava tali detti magnanimi
; quando ecco spargersi nell’ esercito un ardore divino, e tutti ad una voce
gridare : ardisci, e guidaci. E qui Postuniio encomiando la loro prontezza; e
votandosi agl’ Iddj, se avea buon successo nella guerra, di fare grandi e
sontupsi sagrilìzj, e ^lendidissimi giuochi da rinnovarsi in. Roma ogn’ anno
rilasciò le milizie perchè si oi'dimssero. Quindi come i duci diedero il segno
e le, trombe l’invito a ^mbattere; lanciaronsij gridando, quinci c quindi prima
i soldati leggeri e li oavalietà, e poi le lej^ioni le quali aveano
schierameotd ed armi consimili. Fecesi di tutti una mischia vivissima, ^dottasi
tutta al dar delle mani. Tennesi questa lungo tempo contraria alla espcttazione
di ambedue, sperando gli Ubj e gli altri che non avrebbero nemmeno a combattere,
ma che a prim’ impeto forarebbero, ed intimorirebbero rinunieo; i Latini
alhdati alla cavalleria loro numerosa quasi i’ urto ne fosse irreparabile alla
cavalleria Romana; e li Romani aU’andarne audaci c spregianti ai perìcoli,
quasi cosi avessero a soprailare l’ inimico. Non ostanti tali primitivi
concetti degli uni su gli altri, vedeano tutti seguire il contrario. Quindi
considerando che il mezzo di salvarsi e di vincere era la propria fortezza non
la paura de’ nemici ; militarono bravlssimamente anche sopra le forze ; e varie
ne furono le vicende e le sorti. XI. Primieramente li Romani del centro dov’
era il fiore de’ cavalli con Postumio dittatore, e'dove combatteva egli stesso
tra’ primi, cacciano di posto i loro compettitori dopo ferito con uno strale in
una spalla, cd inabilitato a valersene, Tito l’ uno de’ figli di Tarqurnio ;
sebbene Licinio c Gellio senza esaminare le cose verisimili e possibili,
suppongano esser questo che militando a cavallo restò ferito lo stesso re
Tarquinio, uomo più che nonagenario. Caduto Tito, le sue milizie .\nofaa Tito Lhrio i di questo parere,
quantunque avesse considerata la difficoltà degli anni : ^li scrìve in
Postumiwn prima inacìesuos aiihortantem i/utruentemtfua, Tarquinius super but
quamquam jam alate et viribus crai graiùar equnm infestas admitil. Nà SODO
mancsti altri re che in quella ^ fornivano tutti gl' incarichi del regno o
còmbattevano. Massiuissa fu I’ uno di.questi, cd .àntea re degli 'Setti mori
combattendo, vecchio pi4 (he di novant’anni tennero fronte alcun tempo, e
sollecite ne raccolsero vivo il corpo, non però fecero altro più di generoso,
ma rinculavano incalzate via via da’ Romani, 6nchè soccorse da Sesto l’ altro
6glio di Tarquinio co’ fuorusciti Romani, e da truppa scelta di cavalieri si
arrestafono, e tornarono su l’ inimico. Cosi ripigliato Corano combattevano
questi nuovamente. Intanto negli altri coi> pi segnalandosi più che tutti i duci Ebuzio e
Mamilio, fugando ovunque volgeansi chi resisteva, e rior dinando i loro se
scompigliavans! ; vennero a disfida in fra loro : lanciatisi 1’ uno su l’ altro
portaronsi colpi gravissimi, ma non mortali, Ebuzio spingendo 1’ asta per la
corazza al petto di Mamilio, c Mamilio traforando il braccio destro di Ebuzio:
tanto che ne caddero ambedue da cavallo. Portali amedue fuori della battaglia
Marco Va lerio che era un’ altra volta luogotenente anzi il più vecchio, prese
le veci di Ebuzio maestro de’ cavalieri : ma contrastando colla sua la
cavalleria nemica, e contenen dola per breve tempo, infine fu violentato e
respinto assai lungi ; perocché gèinsero in ajuto al nemico i fuorusciti Romani
a cavallo, o di milizia leggera: e Maiadìo stesso riavutosi dalla percossa era
tornato in campo con cavaleon Filippo Macedooe. E Luciioo scrive che Tarqptinio
superbo più che nonagenario viveva robustissimo in Coma. Forse Licinio e Gellio
non son dà riprendere. Dee poi notarsi, che Tarquinio; anche secondo Dionigi,
visse più di novani’anni. Vedi § ai di questo libro. ' Cioù Mamilio nell’ ala destra de’ Latini ed
Ebutio nella sinistra de’ Romani, percbù già stavano appunto in queste aie ; uù
Diouigi lia (inora dello che avessero cambiato posto. lerla numerosa e col nerbo de’ soldati
espeditì ; anai in questa pugna cadde trafìtto da un’ asta Io stesso luogotenente
Valerio quegli che il primo avea
trionfato de’ Sabini, e rialzato lo spirito di Roma infìacchito pei danni
ricevuti da’ Tirreni : e con lui pur caddero altri molti nobili e valorosi
Romani. Sorse sul caduto corpo di esso una lotta vivissima facendosi scudo allo
zio li due Publio e Marco, fìgli di Poplicola. Or questi consegnandolo intatto
colle armi sue, mentre respirava ancora, ai scudieri perchè Io riportassero
agli alloggiamenti; lanciarono sestessi in mezzo al nemico spinti dall’onta
ricevuta e dall’ardore dell’ animo : ma piombando d’ ogn’ intorno i fuoruscili
su loro, alfine carico r uno e r altro di ferite mori (a). Dopo tale infortunio
r armala Romana fu cacciala di posto, ed assai malmenata dalla sinistra fino al
centro. Il dittatore al conoscere che i suoi fuggivano, ben tosto si staccò per
soccorrerli con i cavalieri che aveva d’ intorno : e dato ordine a Tito Erminio
di andare coll’ ala della caval Intende il Valerio fratello di Valerio
l’oplicola: però il primo Valerio è detto tio de’ fìgli di -Poplicola. Il Valerio
del igotliti, li menò contro 1’ armata di IMamilio, ed egli stesso avventandosi
addosso di lui die era il più grande e più gagliardo di quanti gli erano a
fronte, lo uccise; ma fattosene a spogliare il cadavere, egli ancora vi
soccombò trafitto .dal brando di un tale in un lato. Sesto Tarquinio, duce
dell’ala sinistra Latina, resistendo tuttavia tra tanti mali, avea cacciata di
posto 1’ ala destra de’ Romani : come però vide Postumio venire su lui col
uei'bo de’ cavalieri, disperatosi corse in mezzo a’ nemici. E qui circondato
da’ fanti e da’ cavalieri ed investito, quasi una fiera d’ ogu’ intorno, mori,
ma non senza averne anche egli stesi molti di quelli che lo investivano. Caduti
i duci, pienissima fu la fuga de’ Latini, e la presa de’ loro alloggiamenti,
abbandonati pur dalle, guardie. Dicchè i Romani se n’ebbero molti e belli
vantaggi. Gravissima fu la perdita de’ Latini, tanto che moltissimo ne
decaddero : e la strage fu tanta, quanta mai più per addietro ; imperocché di
quaranta mila fanti e tre mila cavalli, come ho detto di sopra, nemmeno dieci
mila tornarono salvi alle case. XIII. È fama che in questa battaglia si
rendesser vi_sibili al dittatore, ed al seguito suo due cavalieri adorni del Gore
primo di giovinezza, grandi e belli assai più 2i8 delle antichità.’ romane che
la condizione non sostiene dell’ uomo ; e che ponendosi alla testa della
cavalleria romana, peKotessero colle aste i Latini che le si avventavano, o' li
sospingessero a rapidissima fuga. E fama è similmente che dopo la fuga de’
Latini, e la presa de’ loro alloggiamenti, presso al crepuscolo vespertino,
appunto quando la zuffa ebbe fine, si dessero a vedere in abito militare nel F
oro romano due giovani altissimi, e vaghissimi ', spirando in volto ancora 1’
ardore della battaglia, dalla quale venivano, e reggendo cavalli, molli di
sudore. Dicesi che smontati l’ uno e 1’ altro da’ cavalli, lavavansi nell’onda,
la quale sorgendo presso il tempio di Vesta forma una lacuna, picciola si, ni
profonda : ma che fattisi molli intorno di loro, e chiedendone se punto
recassero di nuovo dall’ esercito, rilevarono ad ei Ciocch’era della battaglia,
e come 1’ aveano guadagnata: e che partiti poscia dal Foro non più furono
veduti da alcuno, tuttoché seu facesse ricerca grandissima dal comandante
lasciato in Roma Come però nel giorno appresso riceverono i capi della città
lettere dal dittatore, e conobbero 1’ assistenza dei due numi, e tutti i
successi della battaglia ; giudicarono che i .due personaggi apparsi fossero,
com’ era verisimile, gl’ Iddii stessi, e conchiusero che erano le immagini di
Polluce e di Castore. Attestano la comparigione inaspettata e meravigliosa di
questi Numi, molti segni ancora, come il tempio fondalo a Castore e Polluce nel
Foro, appunto dove comparvero j e la fonte vicina, chiamati c creduta sacra
finora, e li sagrifizj magnifici che il popolo ne celebra ogni aqno per mezzo
de’ a fare nè 1’ una nè l’ altra di
queste due cose: che. era bensì, da giovine iL trasporto d’ allora per
combattere ; ma che assai più biasimevole sarebbe' il fuggirsene a casa : e che
qualunque de’ due parliti seguissero, andrebbe a genio de’ nemici. Era il
parere di questi, cbe di presenta 'si triucierassero e preparassero quanto
bisognava per la battaglia, e clic intanto spedissero ai Volaci per chiedere
che inviassero nuove forze onde pareggiare quelle de’ Romani, o che
richiamassero le altre già’inviate. La sentenza però sembrata più persuasiva e
ratificata da’ capi fu di mandare al campo romano alcuni osservatori col nome
di ambasciadori onde preservarli, li quali, complimentandolo, dicessero al
capitano, che il comune de' Volsci mandavali per ajuto de'Bomani: si doleano
però che giunti tardi per la battaglia non troverebbero uemmen gratitudine di
tanto amore, vedendo come l’aveano già vinta a grande lor sorte, anche senza
degli alleati. Con tali dolci maniere illudendo, c dandosi per amici, andassero,
spiassero, conoscessero la moltitudine de’ nemici, le arme, gli appareccbj, i
disegni. Conosciuto ciò, discuterebbesi qual fosse il migliore, lo aspettare
nuove truppe, o menare le presenti all’ assalto. Poiché si riunirono tutti in
questa sentenza, ne andarono gli oratori eletti da essi al dittatore : e poiché
recati nell’ adunanza vi esposero gl’ insidiosi loro discorsi ; Postumio
soprastando alcun tempo, alfine rispose: Voi siete o Volsci venuti qua con rei
consigli sotto belle parole,: nemici nelle opere, volete presso noi la stima di
amici. Voi foste inviati dal vostro comune ai Latini per combatterci. Ora. non
essendo voi giunti a tempo per • la bat&iglia ; anzi vedendo questi già
vinti, cercale deluderci con dirne cose contrarie a quelle che eravate per
Jdré. Ma nè sincera è r amicìzia del parlare che assiunete in vista del tempo
presente, nè sincero il titolo della vostra legazione ; ma pieno è di malizia e
d’ inganno. Non voi veniste sensibili pe nostri beni, ma per investigare qual
sia lo stato tra' noi di debolezza 'e di forza. Messaggeri ne' detti, voi non
siete che esploratori nè fatti. E negando questi, ogni cosa, soggiunse che
presto li convincerebbe. E qui produsse le lettere dei Volsci intercettate da
lui prima delia battaglia, e chi le portava ai duci dei Latini, nelle quali
prometteano mandare a questi un soccorso. Riconosciute le lettere, e palesato
dai prigionieri il comando che aveano ; arse la moltitudine di manometter que’
Volsci, quali spie sorprese nel delitto. Non però volle Postumio che essi,
nomini probi, si diportassero come i malvagi ; dicendo esser meglio
serbare permesso a quelli a’, quali
solcasi, che die^fes^ i loro pareti ; Tito Largio, il primo de’ dittatoti
create già per l’anno antecèdente
consigliò che usassero'^ la sorte sobbriamente. Diceva ' essere encomio
grahdissimo per una città come per un uomo se rion lasciandosi corrompere dalle
prosperità, le sostiene con regola e con dignità : odiarsi tutte le prosperità,
quelle principalmente per le quali possono ingiuriarsi, e gravarsi i Vuol dire tre anni addietro: come fu notalo
da Silburgio. miseri e li sottomessi. iVon confidassero su la sorte, essi che
àveano sperimentato tante volte ne’ beni, e ne' mali proprj, quanto fosse mal
ferma e mutabile: nè Kiducessero i nemici 'alla necessità di pericolo estremo
per la qualè ipesso gli uomini s’ innalzano, e combattono sopra le forze.
Temessero, se prèndeano pene irreparabili e dure su chi avea mancato, di
provocarsene f ira comune di ogni popolo sul quale aspiravano di comandare ;
imperocché decaduti dalle maniere consuete colle quali eransi rendati chiari di
oscuri parrèbbono aver fatto ' della sovranità una tirannide, nqn lìn governo
éd un patrocinio. Dieea che mezzana non irremisibile è la colpa, se città già
libere,• anzi usate al comando, nOn sanno dall’ antico grado discendere. Se
quei che anelano il meglio, siano sé falliscono il colpo, vendicati
immedicabilmente ^ niente ipipedirà, che gli uomini, generati tutti con intimo
amore della libertà si distravano gli uni cogli altri. ^AggiuDgefra che assai
piti nobile, assai piti fenho è il principato^ che amministrasi tenendo i
sudditi colld beneficenza ' non co’ supplizf : perciocché dà quella' nasce la
benevolenza, e dà questi il timore > e ciocché si teme, ^^si odia vivàmente
per necessità di natura. Da ultimo pregayali a pigliar per esempio le opere
bellissime pqr le quali gli antenati loro'tajfto erano encomiati'^ ' e qui
ridiceva com' èssi aveano niàgnificatò" Bonia ^à piccola, non diroccando
le città prese',' nè Spopolandole nè spegnendovi almeno gli adulti, ma
riducendqle colonie di Bofna, e concedendo la cittàdLinanza a tutti i yinti che
in Jtoina vollero domiciliarsi. Tilo Largib mirava col dir sao principalmente a
questo, che si riqovasse co’ Latini l’alleanza, com’ eravi staU,'nè più
ingiuria dcun% di qualunque città si ricordasse. Servio Sulpizio punto non
contradisse intorno la pace e la rinovazione dell’ alleanza. Siccome di oomini
che aveano tr^viatot E costui pigliandone -vesti e cibi per r esercita, ^e. scegliendone
trecento .. ostaggi, dalle famiglie più cospicue, _ parti come ^ avesse
dissipata la guerra. Non però fu, questo un dissolver!^ 'ma .piuttosto un
dlHerirla, e dar causa di apparecclij ad essi, preoccupati dal giungere loro
inaspettato. Ritiratosi l'esercito romano, si accinsero i Volaci di bel nuovo
alla guerra, e munirono e meglio presidiarono le città, ed ogni luogo acconcio
da rifuggirvisi. Si consociarono con essi per l'impresa i Sabini, e gli Ernie!
svelatamente ; ma segretamente molti altri ancora. I Latini, essendo venuti ad
essi a,mbasciadori per chiederne 1’ alleanza, li legarono e menarono a Roma. Fu
sensibile il Senato alla / costanza della lor fede, e più ancora alla prontezza
colla quale > solcano spontaneamente per esso cimentarsi, e combattere,
^^iudi restituì loro gratuitamente, ciocché pur vedea di’ essi desideravano, ma
vergognavansi dimandare, intorno atbeimila fatti prigionieri nelle guerre eoa
essi : e perchè il dono, prendesse una forma degna de’ parenti, -li rivestì
tutti con abiti proprj di uomini liberi. Del resto fece intendere che non
abbisognavasi di sòccorso latino, dicendo che bastavano a Roma le proprie forze.
per vendicarsi de’ ribelli. E cosi risposto ai Latini'^ decretò la guerra
contro de’Volsci. Ancorò il 'Senato sedeva nella Curia, ancora considerava
quali milizie destinasse a marciare ; quando fu visto nel Foro un uomo che
antichissimo di anni, sordido ne’ vestimenti, e ha^'buto ^ capelluto ., gridava
ed invocava soccorso dagli uomini, Accorsa la moltitudine Intorno; égli postosi
in luogo donde fosse visibile disse: Io. generato libero y dopo. 'èssere finché
n era la ptà., marciato in tutte le spedizioni, dopo averi' sostenuto vent’
otto battaglie ^ e riportato pià volte,i premj militari.,' alfine quando
sopravvennero i tempi che strinsero Jìonm alle ultime angustie fui necessitato
a prendere wi prestilo per supplire al tributo che mi si chiedeva: perchè il
mio campicetlo' era desolato da’ nemici, e le' rendite urbane tutte. per la
penuria de’ viveri mi si consumavano. Cosi non avendo come più redimere il
debito, fui condotto dal prestatore con due miei figliuoli a servire.
Comandandomi poi quel padrone non facili cose io contraddissi ; e ne fui con
moltissimi talpi battuto^ E così dicendo squarciò la lurida veste ;,e mostrò
pieno il petto di ferite, e grondanti le spalle di sangue. E. qui ululando, e
piangendone la moltitudine .?' ^1 Serrato si disciolse : e tutta la città fu
percorsa da’ poveri che. deploravano la infelice lor swte, ^ cliiedeano
soccorso da’ vicini. Uscirono allora dalle Case
tutti quelli che erari servi pe’ debiti, abbuffati le chiome, e la
maggior parte colle catene alle mani,,' e co’ ceppi nei piedi, senza che alcuno
osasse reprimerli: e so altri osava pur toccarli, erane manomesso co’ dU'ittL
della, forza. Tanta rabbia in quel punto invase il' popolo ! Nè molto dopo il
popolo fu pieno di uomini che fuggivano la forza di chi signoreggiavali.. Appio
a, come .autore non ignoto de’ mali, temette coutfa di sè le ffe della
moltitudine, e s’involò, fuggendo, dal-Foro. Ma Servilio deposta la veste
contornata di porpora, e gettatosi lagrimando appie di ciascuno ; a stento li
persnase a contenersi per quel giorno, e tornar; nel seguente, mentre il
Serrato provvederebbe iij qualche modo
su loto. Cosi dipendo, Ds’ creditori e comandando al banditore di proclamare,
die ninno de’ creditori potesse trar seco pe’ debiti alcun cittadino, finché il
Senato su ciò deliberasse, e che tutti gli astanti 'ne andassero ove più /deano
senza timore ; chetò la turbolenza. Partirono allora dal Foro: ma nel prossimo
giorno vi' si riunì non solo la moltitudine della città, ma r altra ancora de’
campi vicini; tanto che sull’ alba già .il Foro ne ribolliva. Adunatosi il
Senato per discu te re ciocché era da fare, Appio chiamava il compagno
adulatore del popolo e capo' della insolenza de’ poveri : e Servilio
rimproverava lui come austero, caparbio, e fabbro de’ mali che pativano: nè ci
avea niun fine alla disputa; Intanto latini cavalieri spronando vivissimamente
i cavalli si apprésentarono al Foro, annunziando essere già usciti 1 nemici con
-.esèrcito poderoso, e già sovrastaìre alle cime -de’ monti loro. Cosi dissero
questi : e li cavalieri, e quanti avéano ricchezze e gloria ereditaria,
armaronsi in fretta, come.su. pericolo estremo; laddove i poveri ;•
sjngolarmenle gravati da’ debiti, nè toccavan armi, né -soccorrevano in alcun
modo a’ pubblici bisogni: anzi gioivano, ed accoglievano con desiderio la
guerra esterna, come quella che redimerebbe loro dai mali presenti. E se altri,
gli' esortava a respingere gli inimici, mòstràvanò a lui le catene é. li ceppi,
e lo confondevano addinrtandando, se Cosse mai degno combattere per difendersi
tanto benefizio. Anzi taluni osarono perfino dire., esser meglio servire ai -Volsci,
che soffrire i vilipendj de’ patrizj. Infine., era tutta la città ripiena di
ululàti; di tumulti, e di ogni lutto di femmine. A tale spettacolo i senatori
pregarono ii console Servilio, come più autorevole presso del popolo, a
soccorrer la patria. E costui convocandolo al Foro, dimostrò la urgenza del
tempo presente, e coiùe non ammettesse discordie civili : pregava e supplicava
che piombassero unanimi tutti sul nemico, non che tollerassero che rovinasse la
patria, ov’ èrano le divinità paterne, e le tombe. degli antenati, cose
preziosissime tutte presso i mortali. Sentissero verecondia pe genitori
incapaci a difendersi per la vecchiezza ; e pietà delle donne che bentosto
sarebbero astretti a subire gravi ed inesplicabili affronti : ioprattiitto commiscrassero
che teneri figliuoletti, cèrto non educati a tale speranza, avessero a finir
tra' le ingiio'ie e i vilipendj spietati. Quando tutti al paio concordi, tutti
al paro infiammati, avessero tolto il rischio presente; allora discutessero
comèra da ordinare un governo eguale, comune, salutevole a tulli, e 'tale, che
nè i poveri insidiassero ''agli averi, del. ricco,, nè il ricco i poveri ne
conculcasse ^ cose tutte in società dannosissime. Allora discutessero con quale
pubblica discrezione fosse da provvèdere ai poveri, con quale agli altri li
quali dopo dati i prestiti per soccorrere, ora ne erano ingiuriati : nè dalla
sola Roma si leverebbe la fede do contralti, bene principalissimo tra gli
uopiini e cuslóde dell' armouia nel corpo delle città. Dette queste e slmili
cose, quali convenivano al tempo, da ultimo provò com’ era la benevolenza sua
stala sempre costante verso del popolo^ e.pregò'che in contragcamblo, almeno di
questa, si unissero per la spedizione j essendo a' lui data ^'.amministrazione
della guerra, e quella di Ron^a alt compagno. Protestava che la sorte avÉvd
così destinate a Ipro le. parti : che il Senato tn>evalo\ assicurato di
cpncedere quanto egli prometteva al popolò;,.'eche egli aveva assicurato il
Senato cìie\ il .pòpolo non tradirebbe la patria ai nemici. Ciò detto ido^ose
al banditore dì pubblicare che hiunof poiesséarrogarsi le case di quelli che
rnilitassètó. oon lui. ccfntro.^i Vblshi, nè venderle, nè impegnarle^ nè.
rendet .sérVQ' pe' contratti alcuno della stirpe di èostbro, np impedire :
veruno a guerreggiare : perwtessero pei^' Sècjondò^ i patti le 'azioni de’ pre^
stamri.'coutre'qaellijche -noli, prendeano le armi. Come i pòveri ódirono tiòj.
decisero, e lanciaronsi tutti, pienirdi ardore aUa guerra'; vchi stimolato
dalla aperto dì, guadàgnare ; cbi ..dalla benevolenza pel capitano,,^ et
gVan'.-p.firte' per. levarsi da ‘Appio e dai vilipendi; ^ersQ q^^rv lllnrra
et ! màli : finché, vinsero noRofecero
che lungo tempo si 'oppo’neàiercr ai sopravvenendo’ ài ^Rqmani'laVlèro
cavalleria vamente 'i, Sabini r ’e fatta'assai' strage, ttfrnaroho a Roma
conducendo seéo'in’’cópia li prigidhln.''ETmpnb^oi cei/cati e messi nella
'carcere feSabln^éhefècaùsi a. Roina sul titolo, di veder gli ^spettàcoli,
dóveariq’ se^rido Taccordo all’ avvicinàrsi'aéi lóro, prebccuparne ^ T luoghi
piu forti : e li sagnfizj ihterrbttK per' (a guerra fiiroho per decreto del
Senato raddoppiati ; talché oc fu ^oju e riposo nel popolo. Ancora
festeggiavano 1 quand’ ecco ambasciadori dagli Arunci, popolo che occupava i
più be’ luoghi della Campania. Presentatisi questi in Senato dimandavano' il
territorio tolto dai Romani ai Volsci Eccetrani e dispensato agli nomini
mandativi per guardia della nazione : dimandavano insieme che tal guardia si
richiamasse; altrimenti verrebbero quanto prima gli Arunci su’ Romani, e
vendicherebbero tutti i mali che aveano causato ai loco vicini. Replicarono a
ciò li Romani. Ambasciadori, annunziate agli Arunci che noi Tlomani teniamo per
^uslo che altri lasci a’ posteri suoi ciocché ha conquistato per valore su
nemici : che la guerra degli Arunci non la temiamo ; giacché non è questa per
noi nè la prima nè la più terribile : che noi costumiamo combattere con chi
vuóle per t impero e pel bene ; e se la cosa riducasi ora all arme, intrepidamente
all arme verremo. Dopo ciò movendosi gli Arunci con esercito poderoso, e li
Romani con quello che aveano sotto gli ordini di Servilio ; si scontrarono
presso la Riccia città lontana centoventi stadj
da Roma. Accamparonsi ambedue su di alture forti, e poco distanti fra
loro: e poiché vi ebbero trincierati gli alloggiamenti, scesero al piano per
combattere. Avendo Appio cosi detto, ed acclamandovelo strepitosamente i
giovani, quasi egli desse il ben della patria ; Servilio ed altri seniori
sorsero per contraddirlo : furono però sopraffatti da giovani che erano venuti
preparati ed insistevano con forza grande; tantoché prevalse inGne la sentenza
di Appio. Dopo ciò li consoli, sebbene i più volessero Appio per dittatore,
come l’unico da por freno alle sedizioni, pure lo esclusero di concerto, ed
elessero Marco .Valerio frateDo di Pubblio già primo console, uomo anriano e
popolarissimo di credito, persuasi che a lui basterebbe la terribilità della
sua carica; e che si abbisognasse più che tutto di un uomo placido, perchè non
si ^cessero delle innovazioni. ^ XL. Valerio investito della sua dignità, e
scelto per maestro de’ cavalieri Quinto Servilio fratello d> Servilio,
collega di Appio pel consolato ; ordinò che il po^ polo si radunasse a
parlamento. E raduna tovisi albra la prima volta ed in gran moltitudine, da che
guidato all’ armata erasi poi scisso manifestamente al dimettersi di Servilio
dai magistrato ; Valerio ascese in ringhiera e
Qursto Valeria nel § 13 delMibro presente si dice ucciso in baiiaali ;
ed ora si desorWe colile diitaiore. Vedi la nota al S 11 ciiaia. disse :
Sappiamo o cittadini che sempre di vostro buon grado hanno a voi comandato
alcuni della stirpe dei p^alerj, da' quali liberati dalla dura tirannide, non
foste mai rigettati nelle' oneste domande^ nè temeste violenza ; affidandovi a
quelli che sembravano e sono popolarissimi infra tutti. Pertanto non io qui
parlo y quasi voi abbisognate di essere illuminati che noi convalideremo al
popolo la libertà la quale gli abbiamo da principio vendicato : io parlo per
ammonirvi solo brevemente affinchè siate pur certi che vi manterremo quanto
promettiamo. Non ammette che vi deludiamo V età nostra venuta alla perfezione
^e men sostiene che vi ri^riamo, il grado supremo che abbiamo, e finalmente
dMbianm pur vivere V avanzo dei nostri giorni tra voi per iscontarvela se
parremo di avervi abusati. Io tralascio però queste cose giacché non
abbisognano di molto discorso tra voi che le conoscete. Ma ciò che avendo voi
sopportato dagli altri, pormi che dobbiate ragionevolmente temerlo da tutti,
nel vedere che sempre il console che v’invitava contro i nemici, prometteavi
dal innato, senza mantenervele mai, le cose, per voi necessarie ; questo io vi
convincerò che non dovete di me sospettarlo, principalmente per tali due
argomenti : prima perchè a deludervi in tal modo' mai sarebbesi il Senato
abusato di me che amantissimo sono del popolo, avendone altri più. acconci : e
poi perchè non mi avrebbe mai condecorato della dittatura per la quale io posso
concedervi anche senza di lui ciocché il vostro meglio mi sembra. Digitized by
Googli !ì5o delle Antichità’ romane. Non crediate che io dia mano al Senato per
ingannarvi f nè che io consultando con esso vinsidii. E se voi così giudicate ;
fate ciocché pià volete di me, come del più, scellerato tra’ mortali. Ma
liberate, datemi udienza, da tale sospetto gli animi vostri : ripiegate la
collera dagli amici su vostri nemici che vengono per levarvi la patria, e per
fare voi schiavi di liberi, sollecitandosi a premervi con tutti i mali y
riputati gravissimi dagli uomini. Già non lontani si dicono dalle nostre
campagne. Sorgete, accingetevi, mostrate loro che la milizia Romana in
discordia, tissai pià vale della loro, tutta unanime. Se presi noi tutti da un
ardore, piomberemo su loro ; o non ci aspetteranno, o prenderanno le pene degne
del^ r audacia loro. Considerate che i nemici che a voi portano la guerra sono
i Fblsci, sono i Sabini, quelli che tante volte avete combattuti e vinti: e che
non ora han fatto pià grande il corpo nè pià generoso di prima il cuore ; ma
che ben altro se lo hanno ; tuttoché ci disprezzino per le patrie gare. Quando
avrete punito V inimico, io vi prometto che il Senato darà buon fine alle
vostre contese pe’ debiti, ed alle oneste dimando secondo la virtù che
mostrerete nella guerra. Intanto libere siano le sostanze, libere le persone,
libera la fama de’ cittadini Romani dalle azioni de’ prestiti, e di ogni altro
contratto. Per quelli poi che combatterai!, con impegno bellissima corona fia
la patria ridiriaata, luminosa la gloria tra compagni, e pari la nostra
ricompensa a vivificar le famiglie, c magnificarne cogli onori la stirpe.
Siavi aSi esempio, ve n’ esorto, V ardor
nùo verso de' pericoli : io stesso come imo combatterò de’ pià robusti tra voi.
Udì tali detti, coDsoIandosi il popolo, e come quello che non più sarebbe
deluso, promise di arrokrsi per la guerra; e sen fecero dieci corpi militari,
ciascuno di quattromila uomini. Prese ogni console tre di questi corpi con
quanta cavalleria gli fu compartita. Il dittatore prese gli altri quattro col
resto de’ cavalli. Ed apparecchiatisi ben tosto, marciarono a gran fretta Tito
Velurio contro gli Equi, Aulo Verginio contro i Volaci, ed il dotatore Valerio
contro de’ Sabini; rimanendo a guardia della città Tito Largio co’ più vecchi,
e con piccolo corpo di giovani. La guerra co' Volsci ebbe prontissima
risoluzione : imperocché necessitati a combattere, pensando gli antichi mali, e
come aveano milizia più numerosa, piombarono i primi, anzi pronti che savj, su’
Romani, appena si videro accampati, gli uni dirimpetto degli altri. Attaccatasi
vivissima la battaglia, fecero molte magnanime cose ; ma scontramdone ancor più
terribili, fuggirono finalmente. Il loro campo fu preso, e Velletri loro città
principale fu ridotta per assedio. Lo spirito poi de’ Sabini fu invilito ancor
esso in brevissimo tempo, essendosi 1’ una e 1’ altra parte deliberata a
campale battaglia. Dopo ciò la campagna fu saccheggiata, e presi alcuni
villaggi, ove i soldati acquistarono schiavi e roba in copia. Gli Equi
all’udire la fine de’ compagni, riflettendo la propria debolezza An. iti Roma a 6 o secondo Catone, 363
secondo Varrone, a Ì93 av. Cristo. si misero su luoghi forti ; e ritirandosi
alia meglio per le cime di monti e balze presero tempo e mantennero alcun poco
la guerra. 'Non però poterono ricondurre illeso r esercito, perchè
sopravvenendo i Romani arditissimamente su pe’ dirupi ; ne espugnarono a forza
il campo. Dond’ è che fuggirono dalle terre de’ Latini, e le città si ridiedero
colla facilità, colla quale erano^ già state prese al giungere del nemico.
Alcune però furono espugnate, non cedendone le guarnigioni ostinate il comando.
Riuscitagli la guerra secondo il disegno, Va lerio trionfò, com’ era 1’ uso,
per la vittori^ e congedò la milizia, quantunque non paressene al Senato tempo
ancora, afBnchè i poveri non esigessero le promesse. Quindi a diminuire la
sedizione in Roma, scelse alquanti di questi, e li mandò nelle terre acquistate
colle arme 'e tolte ai Volsci, perchè le possedessero, e le presidiassero. Ciò
fatto chiese ai Padri che avendo avuto il popolo tanto pronto a combattere, gli
osservassero le promesse. Non però davano questi udienza, ma si opponevano come
dianzi all’ intento,; perchè li giovani e più violenti e più numerosi tra loro,
fatto partito, brigavano ancora in contrario, e chiamavano con alta voce la
prosapia di-^ lui adulatrice del popolo, e conduci trice alle ree leggi, tanto
care ai Valer] su le adunanze e su’ tribunali; 'malignando che aveano con
queste annientato tutto il potere de’ patrizj. Esacerbatone Allude alla legfi^ falla da Valerio 1’ aano
347 di Roma secondo Catone, colla quale davasi ad un privato il diritto di
appellare al popolo dai magistrali che lo aveano condannalo. Vedi 1. 5, S
9molto Valerio, e dolutosi come se calunniato a torto patisse pel popolo,
compianse il vicino fin d’ essi cbe cosi consigliavano : e com’ è verìsimile
nel suo caso, presagendo loro pi& cose, altre per passione, altre per
intendimento maggiore degli altri, s’involò dalla Curia, convocato il popolo disse : Cittadini,
dovendovi io piena riconoscenza per la prontezza colla quale mi vi deste per In
guerra ; e più. per la virtù la quale dimostraste in combattere ; io molto mi
adoperai perchè foste voi ricompensati con ogni modo, principalmente col non
essere delusi nelle promesse che io vi feci a nome de’ Padri, quando fui scelto
consiglierò ed arbitro di ambe le partì, onde ridurvi allora scissi, a
concordia. Nondimeno ora sono impedito di soddisfarvi da uomini che non mirano
il bene della 'comune ma solo il proprio, almen di presente. Questi prevalendo
di numero prevagliono con una potenza che ad essi la gioventù concede più che
la perizia degli affari.' Ed io, sono vecchio come -.vedete e vecchi pur sono i
miei compagni buoni solo nel consigliare, ed invalidi per eseguire, e la
provvidenza su la repubblica sembra ridotta propriamente a questo, che r una
parte pregiudichi V altra. Io sembro al Senato un vostro fautore, e voi mi
accusate come benevolo troppo verso del Senato. 5e il popolo innanzi carezzato
da me fosse venuto meno alle promesse del Senato, sarebbe la giustif razione
mia, che voi. siete i mancatori, e non io. Ora però non mantenendosi i patti
dal Senato, mi è necessario dichiarare che è senza mia parte quanto patite, e
che io medesimo sono come voi, anzi più, di voi, circonvenuto e deluso.
Imperocché. non solo io sono offeso con ingiuria a tutti comune, ma in ispecie
con quante mormorazioni di me vanno facendo. Di me si mormora che io per far f
utile de’ privati dispensai senza il voto del Senato a’ poveri Va voi le
spoglie prese nella guerra ; che io rendei del popolo ciocché era di tutti, e
che per impedire che il Senato vi malmenasse, licenziai, ripugnandovi lui, la
milizia che dovea tenersi ancora nelle terre nemiche fra le marce, e i Vavagli.
Mi si rimprovera la spedizion de’ coloni nella regione de’ V^olsci, perchè ho
io comportilo una terra ampia e buona a poveri Va voi, piuttosto che donarla a
pcUrizj ed a cavalieri. Soprattutto mi si provoca indignazione moltissima
perchè io nel fare la leva ho assunto più che quattrocento do’ vostri tra
cavalieri ; don^ è che ricchi ne son divenuti. Se ciò mi avveniva quando
fiorivano gli anni, ben avrei insegnato co’ fatti a’ nemici, qual uomo avessero
vilipeso. Ora essendo io più che settuagenario, invalido a provedere fino a me
stesso, e reggendo che non più la vostra sedizione può da me racchetarsi ;
rinunzio la' dittatura : e chi vuole, io gliel concedo, faccia di me come
giudica, se crederi comunque da me danneggiato, XLY. Intenerirousi tutti a que’
detti e gli fecero se gulto quando parti dal Foro. Ma questo appunto esasperò
contro lui li senatori: e ben tosto ebbe tali conseguenze. I poreri non più
celatamente nè di notte, come per addietro, ma pubblicisshnamente riunÌTansi,c
trattavano di scindersi da’ patrizj. Il Senato, disegnando impedirneli, diede
ordine ai consoli di non dimetter r esercito. Certamente eran questi arbitri
ancora delle reclute, come sacre pe’ ligami de’ giuramenti militari. £ per
questi vincoli ninno attentavasi di abbondonaroe le insegne ; tanto la
riverenza potea de’ giuramenti ! Alle^ gavasi per titolo della ritenzione, che
gli Equi e li Sa^ bini eransi convenuti per la guerra contro de’ Romani. Ora
essendo i consoli usciti colle schiere, ed essendosi accampati non lontani 1'
uno dall’ altro, i soldati radu naronsi tutti in un luogo colle arme, e per
istigazione di un tal Sicinio Belluto se ne ribellarono ; appropiandosi le
insegne, cose tra’ Romani onoratissime e sante, come simulacri di Numi. E
creatisi nuovi centurioni, ed un capo in Sicinio Belluto; occuparono non
lontano da Roma presso 1’ Aniene un monte che sacro si chiama 6n da queir
epoca. Pregando, sospirando, prornettendo, li richiamavano i consoli ed i
centurioni ; ma Sicinio replicò: Qual fare è il vostro o Patrizj che ora
vogliate richiamare quelli che avete espulso dalla patria, e che di liberi gli
avete schiavi rendati ? Con qual credito mai ci assicurerete le promesse, le
quali siete rimproverati di aver tante volte tradito? Piuttosto, poiché volete
in città, soli, aver tutto ; andate ; abbialevelo : non vi angustiate pe'
bisognosi, e pe miseri. Per noi sarà buona ogni terra; e qualunque ne terremo
per patria, solchè vi si abbia la libertà. Annunziatesi tali cose in Roma,
tutto vi fu .\n. dì Roma a 6 o tccoudo
Catone, 263 secóndo Varrone, e 49 ^ T. Cristo. romore e pianto: e là correva il
popolo, intento a la> sciar la città, qua li patrizj cbe voleano alienameli,
colla forza ancora, se ricusavano. Soprattutto eravi clamore e pianto alle
porte ; ed ingiurie vi si facevano, come tra’ nemici, con parole e con opere,
niun più riverendo nè la età, nè l’ amicizia, nè la gloiia della virtù. Non
potendo però, come scarsi, i soldati di guardia destinativi dal Senato
custodire le uscite, le abbandonarono, sopraffatti dalla moltitudine. Allora
versandosene fuora gran popolo ; parca lo spettacolo, còme la città fosse
presa. Gemeano, si rimproveravano quelli che ' restavano, vedendo che
desolavasi. Dopo ciò si fecero molte consultazioni ; si accusarono gli autori
delia separazione; ed intanto correano li nemici, depredando la campagna, 6no a
Roma. Li fuorusciti presero i viveri necessarj drile terre intorno, nè punto
più le danneggiarono. Tenendosi in campo aperto accoglievano quanti venivano da
Roma, o da’ castelli intorno ; tanto che ne divennero numerosi ; perciocché vi
concorrevano, non solamente quelli che voleano levarsi dai debiti, dai giudizj,
e da altri; angustie imminenti, ma tutti eziandio gl’ inBngardi, gli oziosi, i
malcontenti ; quelli che in malfar si emulavano, che Invidiavano l’ altrui ben
essere, o che per altri mali, e cause comunque, discordavano dal governo.
XLVII. Adunque si eccitò ne’ patrizj turbazione, ed angustia grande, e paura,
come se li fuorusciti e li nemici stranieri fossero per venire quanto prima
contro di Roma. Poi, quasi tutti ad un segno, prendendo coi loro clienti le
armi, altri corsero alle strade donde pensavano clie giungessero gl’ inimici,
altri ai castelli per difenderne i posti forti, ed altri ai campi innanzi la
città per trincerarvisi, e quei che per la vecchiaja non poterono iàr nulla di
ciò, furono distribuiti per le mura. Come però seppero che i fuoruscili nè si
univano coi nemici, nè saccheggiavano la campagna, né faceano altro danno
considerabile, respirarono dalla paura ; e mutato pensiero, esaminarono come si
riconciliassero. Suggerirono i capi del Senato mezzi di ogni genere, diversi
per lo più fra loro; ma li più anziani suggerirono i più discreti, e più
convenienti ai tempi ; facendo riflettere che il popolo twn ti era separalo da
loro per malizia, ma in forza de proprj mali, o delle promesse non mantenutegli,
e che auca così risoluto V utile suo piuttosto tra la collera che tra la calma
della ragione, vizio consueto nella ignoranza. Aggiungevano che i più di questi
conoscevano di avere mal deliberato, e cercavano emendarsene, se il buon punto
ne avessero iiche già ne' ei^an le opere come di chi si pente ; e che
volentieri tornerebbero nella patria se potessero, augumrvisi un avvenire
felice, dando loro il Senato perdono, e pace decorosa. In mezzo a tali consigli
supplicavano che essi che erano i gratuli non sentisser la ira più che i
minori’, nè differissero stolti a riconciliarsi allora .quando fossero
necessitati a far senno, e curare il male più piccolo col più grande, vuol dire,
quando' avessero a tedere le armi, e le persone, e togliersi da sè stessi la
libertà : cose tutte quasi impossibili a farsi. Usassero moderazione,
pròponessero i primi gC ulili consigli, e la riunione, avvertendo che se era
proprio de' patriiù] comandare e dirigerò ; era propria ancora de' buoni C
amicizia e la pace. Mostravano che la dignità del Senato non minorasi quando
provede alla sicuiozza col sopportare pazientemente le perdite necessarie ; ma
quando opponesi tanto ostinatamente alla sorte che la repubblica ne rovini :
gli stolli trascurare la sicurezza per amor del decoro : ben essere da ceivare
ambedue queste cose : ma dove sia da cedere V una o C altra, doversi la
salvezza riputare più necessaria. Era l’intento li tali consiglieri che si
mandasse a fuorusciti per trattar della pace non altrimente che se la colpa
loro non fosse insanabile. Piacque cosi appunto al Senato ; e scelti personaggi
accontissimi, li diresse a quelli che erano in campo con ordine d’ intenderne i
bisogni e le condi' zioni colle quali volessero in cittlt ritornare ;
perciocché se fossero discrete e fattibili, jl Senato non le rigetterebbe :
intanto se depenessero le arme, e tornassero in Roma, promettea loro perdono e
dimenticanza perpe tua di tutto il passato : come belle ed ntili le ricompense
a chi servisse valoroso, ed affrontasse ardentemente i pericoli per la patria.
Recarono gli oratori e comunicarono tali voleri al campo, aggiungendovi cose
consentanee. Non accettarono' i fuorusciti l’ invito : anzi rimproverarono a’
patrizi T orgoglio, la dnrezza, le simulazioni loro perchè fingevano ignorare i
bisogni del popolo, e quelli pe’ quali si era separato. Ci assolvono, diceauo,
da ogni pena per la ribellione, come fossero i padroni, essi che abbisognano
dell’ ajulo nostro. Quando giunga su loro, e sarà tra non molto, con tutte le
forze il nemico ; non potranno alzare nemmen lo sguardo contr esso, e pur ci
voglion far credere che non sia bene loro t esser difesi ; ma felicità di chi
si unisce a difenderli. Aggiunsero a tal dire che se vedevano già le angustie
di Roma ; comprendereb- bero poi meglio con quali nemici avessero a
guerreggiare : e qui minacciarono molto e veementemente. Non contraddissero a
ciò, ma partirono, e dichiararono i legati a’ patrizj le risposte dei
segregati: e Roma, uditele, se ne turbò ; e temette più che per addietro. Il
Senato non sapendo come espedirsi o diffenrc, si disciolse, dopo avere più
giorni ascoltate le infamazioni e le ac> cose vicendevoli de’ suoi capi fra
loro. Il popolo rimasto in Roma per benevolenza verso de’ patrizj, o per
desiderio della ..patria più non somigliava sestesso; dileguandosene gran parte
nascostamente o in pubblico > nè sembrandone il resto affatto più stabile.
Fra tali vicende i consoli, avendo poco più tempo per comandare, fissarono il
giorno pe’ comizj. Venuto il tempo nel quale aveansi a riunire nel campo Marzo
e scegliere i proprj magistrati; ninno ambiva, nè sostenea di esser consolo.
Adunque nella Olimpiade setlantesÌDa seconda nella quale Tisicrate da Crotone
vinse allo stadio, essendo arconte in Atene Diogneto ; il popolo rielesse al
consolato due vecchi consoli Postumio Gominio e 'Spurio Cassio, uomini cari
alla moltitudine ed ar grandi, da' quali già domati i Sabini aveano lasciato di
competere dell’ impero con Roma. Or questi riassumendo il loro grado alle
calende di settembre, vale a dire prima del tempo consueto ai consoli
precedenti, convocarono innanzi tutto il Senato per deliberarvi sul ritorno del
popolo. CbieslO' il’ parere di tutti ; invitarono a dire Menenio Agrippa, uomo
allora venerabile per età, credulo più che gliaU tri insigne in prudenza, e
lodato principlmente' per loi scelta de’ suoi regolamenti, perchè teneasi^al
mezzo non fomentando 1’ arroganza de’ nobili, nè lasciando che i| popolo
operasse tutto a suo modo. Or questi esortando il Senato alla riconciliazione,
disse r Se quanti qui siamo o Padri Coscritti fossimo tutti di un animo; e se
niuno si opponesse a far pace col popolo, comtmque la facessimo, per giuste o
per ingiuste condizùy^ ni ; e se questo fosse proposto unicamente d diseu^ tere
; dichiarerei, con poche parole dà che ne penso. Ma perciocché alcuni giudicano
che sia dà ponderare ancora se forse riesca più utile far guerra a fuorusciti ;
non credo che io possa in ^ pocoinsinuare dà che dee farsi: ma sento il bisogno
tt istruir ampiamente su la pace quanti tra voi ne discordano. Imperocché
questi conducono a cose contraddittorie ; spaventano voi, che già ne temete, su
mdli da nulla o lievi a curarsi, e trascurano gl' immedicabili e gravi.
Certamente cosi propongono perchè non decidono delr utile colla ragione, ma col
furore e coll’ impelo. E come si direbbe che essi provvedono le cose proficue,
o fattibili almeno, quando stimano che Roma, una A^oi di Roma a6t ceoodo Catóne, o63 secondo
Varrone,e 4{)t arami Critu. a6i città si
grande, ed arbitra di tante genti ^ e già in~ yidiata e molestata da’ vicini,
possa ritenerle e difenderle facilmente senza il suo popolo, o che possa in
luogo del suo sì scellerato introdurre altro popolo che per lei combatta del
principato ; che con lei sia di buon accordo su la repubblica, e sempre
moderato in pace ed in guerra ? Eppure non altro potrebbono dirvi quei che
tentano dissuadervi dalla pace. L. Ma qual sia la più stolta di queste cose,
vorrei che voi stessi lo decideste dalle opere. Considerate, che alienatisi da
voi li più poveri perchè abusaste della loro infelicità senza modestia e senza
politica, e che recatisi appena fuori della città senza farvi o macchinarvi
altro mede, col solo intento di averne una pace non ingloriosa, molti de’
vostri nemici abbracciarono con trasporto questa occasione come dono della
sorte, e riedzan lo spirito, e credono venuto per loro fitudmente il tempo
felice da battere il vostro impero, di Equi, i Eolsci, i Sabini, gli Etnici,
questi che mai si alienano eìal farci la guerra, esatperali ora dalle sconfitte
recenti, già devastano le nostre campagne. Que’ Campani, que Tirreni die
vacillavano nella nostra soggezione ora parte fi abbandonano matdf estàmente,
parte in occulto • vi si preparano. E gli stessi LeUirti, quantunque nostri
congiunti, a me non semhran procedere di buona fede, costanti neW amicizia; ma
odo che guasti sono in gran numero per amore di un cambiamento, che tanto gli
uomini alletta. Noi die abbiamo fin qui portato in campo aperto la guerra su
gli altri; noi ci stiamo or qui dentro, difensori delle mur^; lasciando senza
seminarli i nostri terreni, anzi 1 vedendovi saccheggiali i villaggi, via
levale le predo, e fuggirsene di per sestessi gli schiavi, senza che abbiamo
rimedj a tanti mali. Non pertanto noi ' tutto soffriamo, perchè speriamo ancora
che il popolo ci si riconcilj, ben sapendo che da noi dipende il toglierecon un
solo decreto la sedizione. Ma se pessimo è lo stato nostro in campagna;, non è
meno funesto e terribile dentro le mura. Noi ' non ci siamo .apparecchiati già
da gran tempo, come per un assedio, nè bastiamo di numero contro tanti nemici.
La nostra gente è poca, nè da guerra, e plebea, per gran parte, merce nar f,
clienti, artefici, custodi tton affatto saldi dello stato turbato degli
Ottimali : e le continue loro diserzioni verso de’ fuorusciti ce li hanno
rendati tutti sospetti. Soprattutto essendo le nostre campagne dominate da
nemici, ed impossibilitato il trasporto de’ viveri ; abbiamo a temer di una
fame : e quando a tal disagio saremo; tanto più ci spaventerà la guerra, la
quale senza questo ancora non concede mai calma allo spirito. Quello poi che
supera tutti i mali è vedere le donne dei segregati, vedere i teneri figli, i
padri cadenti, che sqqallidi e miserandi si rigiran pel Foro e per le vie, che
piangono e supplicano e stringono a ciascuno la destra e i ginocchi, e
deplorano la solitudine loro presente e più ancor la futura, spettacolo in véro
desolante ed insopportabile ! Niuno è si barbaro che non s intenerisca a
mirarlo, e non si appassioni sul destino degli uomini. Che se abbiamo a
diffidar su plebei ; dofremo rimoverne gt individui, altri come inutili nelr
assedio, ed altri come amici non saldi. Or se questi rimovansi, quid forza
rimane in guardia di Roma ? o da quale soccorso animati ardiremo star contro
dei mali ? V unico nostro rifugio, P unica nostra buona speranza è la gioventù
patrizia : ma poca come vedete ella è questa, nè bastante a darci i grandiosi
disegni. Che dunque impazzano, quei che propongon la guer^ ra, o perchè mai ci
deludono, e non consigliano piut~ tosto di cedere fin da ora senz ar^ustie, e
senza sangue Roma ai nemici ? Ma forse io ciò dicendo son cieco, e predico per
terribili, cose che non son da temere. Roma non corre altro rischio che di un
cambiamento, cosa certo non difficile ; potendovisi facilissimamente introdurre
mercenarj e ' clienti in copia da ogni gente e luogo, posi van divulgando molli
de contrarj al popolo, uomini, viva. Dio y non dispregievolì. A tanta stoltezza
vengono alcuni ; che non propongono già consigli salutevoli, ma desideri
impossibili I Ora io volentieri dimanderei questi uomini quode tempo mai ne si,
dia per far tali cose, essendone tanto vicini i nemici : qtude condiscendenza
alt indugio o al ritardo del giugnere degli alleali in mezzo à mali che non
temporeggiano, nè aspettano ? Qual uomo, o qual Dio mai vi terrà sicuri, o
congreghem da ogni luogo in gran calma, e qui ci porterà de’ sussidj ?. Inoltre
e quali tuoi saran. ' quelli che lasceranno la patria per venirsene a noi ?
Quelli forse che haruus case e Dii Lari € viveri ed onori tra proprj cittadini
per la nobiltà degli antenati, o quelli che per la gloria risplendono de'
pnoprj meriti ? E chi mai sosterrebbe di abhemdonare i proprj commodi, e
partecipare vergognosa^ mente i mali altrui ? Eppure a noi si verrebbe non per
dividere con noi la pace e le delizie, ma la guerra e i pericoli, e questi
incerti, se a bene riescano ! Convocheremo forse una -turba, qual fu quella
rigettata da noi, plebea e senza lari? Ben è chiaro che pe' disagi suoi, io
dico pe’ debiti, per le penalità, c per cause altrettali prenderà
volentierissima. dovunque una sede : ma sebbene questa plebe sia utile, c ( per
concederle questo ancora ) sebbene sia moderata ; tuttavia ci riuscirà
generalmente, assai, meno 'buona della nostra, perchè non è rutta tra nci, nè
come noi disciplinata, e perchè ignora i nostri costumi, le nostre leggi, e le
nostre maniere. celebrasi la vostra
clemenza, il quale nè manda a noi per
conciliarcisi esso che à C offensore, nè porge risposte umane e socievoli a
quelli che noi stessi gli abbiamo inviati : ma s’ inalbera e minaccia, nè
lascia conoscere quello che voglia. Udite voi dunque ciò che iò consiglio che^
facciasi. lo nè penso il popolo irreconciliabile a noi > nè > ohe mai
farà quanto mincucip, ; dióchà mi sono buon argomento le opere sue che a’ detti
non somigliano. -Dond’ è che io lo credo assai piò che noi sollecito di
pacificarsi. Certamente noi abitiamo una patria onoratissima, e teniamo irt
poter nostro le sostanze di lui, le case, i genitori, a tutte le cose pià
preziose : ed egli si trova senza patria, senza magioni, senza i pegni suoi
più, cari, e senta V abbondanza ancora del .^vivere quotidiano. Che se alcuno
mi chieda perchè mai fra tanti patimenti egli nè accetti gl inviti nostri, nè
mandi a noi per istanza niuna, rispondo s ciò essere manifestamente, perchè
Digitized by Google 2G8 delle antichità’ romane fin (jid mn intese dal Senato
che parole senza vederne poi le opere o di benevolenza o di moderazione ; e
perchè crede di essere stato molte volte ingannato da noi che promettevamo di
provvedere su lui, senza avervi mai provveduto. Non ci spedisce ambasciadori
perchè son qui tanti che ce lo accusano, e perchè teme non ottenere ciò che
dimanda : e forse così gli suggerisce un ambizione non bene considerata; nè già
è meraviglia. Imperocché son pure tra noi non pochi, difficili, contenziosi, i
quali colle brighe loro non vogliono che cedasi punto ai cóntrarf, e cercano
per ogni via di sopraffarli senza mai condiscendere essi i primi, finché loro
non sottomettasi chi vuole essere beneficato. Or ciò considerando io penso che
debbansi spedire al popolo ambàsciadori, principalmente di stia confidenza : e
consiglio che questi ambasciadori siano plenipotenziarj, perchè levino la
sedizione coi patti che essi terranno per giusti, senza rimettersene al Senato.
Questo popolo che ora vi pare sì spregiante e grave, questo darà loro utlienza,
al vedere che voi cercate veramente la concordia, e ridurrassi a condizioni più
mitij senza chiederne alcuna vituperosa, o non fattibile. Imperocché tutti, e
specialmente i plebei, ne’ dissidj s' irf urtano con chi su loro insolentisce ;
ma si ammansano con chi li blandisce. Cosi disse Menenio; e levossene in Senato
gran romore, parlandovi ciascnno alia sua volta. I fautori del popolo
esortaVansi a vicenda a dar tutta la mano perchè rlpatriasse, avendo per capo
di questo consiglio il pii riguardevole de patrizj. Per Topposìto quegli
ottimati die cercavano che nulla si alterasse de’ costumi della patria mal
sapeàno ciò che avessero a fare, nò voleano condiscendere; nè poteano
ostinarsi. Nondimeno uomini integerrimi né caldi per l' uno o 1’ altro partito
voleano la pace, intenti a questo di non essere assediati tra le mura. Or qui
fattosi da tutti silenzio il più anziano dei 'ìonsoli encomiò Menenio della sua
generosità, stimo landò anche gli altri a somigliarlo nella cura della
repubblica, a dir francamente ciocché ne sentissero, e compiere senza strepitò
ciocché sen decidesse: indi nel modo stesso cercandolo dei suo parere, chiamò
per nome Manio Valerio, nomo infra tutti gli ottimati carissimo ài popolo, e
fratello all’uno di quelli che aveano liberato Roiòa dai tiranni. Costui
levatosi in piede ricordò ai Padri i suoi provvedimenti, e come avendo egli
presagito più volte i terribili casi avvenire, ne tennero pochissimo conto :
poscia esortò li contrari discutere ornai su la moderazione, ma solo a vedere (
giacché non aveano permesso che si estirpasse quando era ancor piccola ) di
racchetare ora, comunque, il pià presto, la sedizione, perchè, trascurata, non
procedesse pià oltre, e non divenisse incurabile f o presso che incurabile, e
sorgente di mali senta fine. Dichiarò che le dimande del popolo non sarebbero
come per r avanti; e pronosticò che non si accorderebbe colle condizioni di
prima insistendo per la sola remissione dei debiti, ma che vorrebbe forse un
qualche difensore, onde tenersi illeso nell' avvenire : affermava che dopo
introdotta la dittatHra era venutameno la le^e tutelare della Uhtrià la quale
non per^ metteva a’ patrizj di uccidere alcun cittadino non giudicato, nè di
cederlo giudicato reo nelle mani de’ lorocontradditori, e la quale concedeva a
chi volea V appelto f di portare le cause al popolo da’ patrizj f tanto che
quello si eseguisse che il popolo ne decidesse^ Poco mancarvi che non fosse
statà tolta al popolo tutta la potenza esercitela già da esso ne' tempi ad dietro,
quando non potè ottenere dal Senato per le imprese rmlitari il trionfo a
Pubblio Servilio Prisco, uomo infra tutti degnissimo di quest’ onore.
Pertantoben essere verisimile che il popolo cosi ojfeso sconfortisi nè abbia se
non triste speranze della sua sicurezzaj Non il console, non il dittatore aver
potuto soccorrerà il popolo, quantunque il volessero,; .anzi averne partecipale
le incurie e V avvilimento, perchè studia vansi provvedere su lui. Essersi poi
cospirati per im pedirli non uomini autorevolissimi fra li patrizj, ma uomini
oltraggiosi, avari,. acerrimi ne’ rei guadagni,
quali, pe’ grandi prestiti a grandi usure, aveano ridotto schiavi ì pià
de’ cittadini ; dicea che questi facendo loro leggi dure, orgogliose. aveano
alienata tutta la plebe da patrizj ; e che datosi per capo Appio Claudio,
odiatore della plebe, e propizio ai pochi y rimescolavano tulli gli affari di
Roma. E se la parte savia del Senato non si contrapponesse, la repubblica
pericolerebbe di essere schiava o distrutta. Da ultimo dichiarò ben fatto
valersi del parer di Menenio, e chiese che si spedisse al popolo qiumto prima:
procurassero i deputati quanto volessero la calma della sedizione : ma se il
popolo non accettava le dimando loro, essi quelle accettassero del LIX. Sorse,
invitato, dopo lai Appio Claudio, uomo contrario al popolo, e grande estimatore
di sestesso, nè senza cagione. Perocché nel vivere suo quotidiano era moderato
e santo, nobile nella scelta de' provvedimenti, e tale da conservare la dignità
de’ patrizj. Costui pren dendo occasione dell’ aringa di Valerio, disse :
Certamente sarebbe Valerio men riprensibile se palesava unicamente il suo
parere, senza condannare quello de’ contrarj ; giacché non avrebbe nemmen egli
ascoU tato i suoi vizj. Siccome però non fu pago di dar consigli onde renderci schiavi
ai cittadini pili vili, ma sferzò pure i suoi contrarj, cimentando anche me ;
così vedomi necessitato assai di rispondere, e di respingere primieramente le
calunnie a me fatte. Son io rimproverato di una condotta nè' sociale, nè
decorosa, quasi io cerchi per ogni via far danari, quasi spogli molti de’
poveri della libertà, e quasi da me sia derivata in gran parte la separazione
del popolo. Ben vi è facile però di conoscere che niente di ciò è vero, niente
probabile. Or su, dimmi, o Valerio, quali sono quelli che ho io ridotti servi
pei debiti, quali i cittadini che ora tengo nella carcere ? (filale dei
fuorusciti si è privato della patria per la durezza e per V avarizia mia ?
Certo non potrai tu dirlo. .Anzi tanto è lungi che alcuno sia da me riilotto
servo pe’ debiti che. io sparsi tra molti V aver mio, nè mi rendei schiavo, nè
disonorai niuno di quei che mi hanno defraudato : ma tutù ne son Uberi, e tutti
me ne ringraziano, e stansi nel numero degli anici e de clienti miei pià
familiari. Nè ciò dico per incolpare chi non opera come me, nè per ingiuriare
chi ha faUo cose concedute dalle leggi; nta solo per levas'e da me le calunnie.
In ciò poi che mi accusa della durezza e del patrocinio mio sui scellerati,
chiamandomi odUpopolo ed oligarca perchè favorisco il comando de’ pochi, in ciò
son io da riprendere quanto voi che avete ricusato, come pià riguardevoU, di
soggiacere ai men degni, e di lasciarvi togliere il comando dei vostri antenati
da una democrazia, pessimo infra tutti i governi. Nè già perchè egli
soprannomina oligarchia il comando de’ pochi dovrà questo disciogliersi per le
beffe del nome. E pià giustamente e propriamente possiamo noi riprendere lui
come un adulatore del popolo, ed un ambizioso di tiranneggiare. Perciocché
niuno ignora che la tirannide nasce dalle adulazioni della plebe : e che la via
speditissima a rendere le città schiave è quella che mena al comando col mezzo
de’ cittadini peggiori. Or egli ha fin qui carezzato costoro, nè tuttavia cessa
di carezzarli. Ben vedete che questi abietti, questi miseri, non avrebbero. mai
ardito d’ insolentire in tal modo se non fossero stati eccitati' da questo sì
riguardevole e bello amatore della patria, come se l’ tali trattare, Abhiam per ostaggi le loro
mogli, i loro padri, e tutto il parentado, dei quali non potremmo ckiedtrne
altri migliori dd\Numi, Questi, li collocheremo • nói, questi al cospetto dei
loro congiunti, minacciando, se tentano assafirti, di ucciderli con estremi
supplizj: ina, credetemi, dove ciò sappiano, voi li riceverete inermi',
supffikhevoli, piangenti, pronti ad ogni pena. Terribili sono tali necessità, e
frangono, ed annientano ogni baldanza.E questi sonod riflessi -^pd quali non
dobbiamo la guerra temere degli esuli. Le mirtacce poi di altri popoli rum ora
Ut prima volta si trovarono fnire in paroUf; ma 'per ^addietro ancora ci si
scoprirono sempre rtùnori delt apparenza quante volte i popoli fecero di noi
paragone. M quelli che tengono per insufficienti le intime nostre forze, e però
temono appunto la guerra, quelli non bene le han calcolate. Ai citrini da noi
separati, se il vogliamo, possiamo contrapporre scegliendoli e liberandoli, il
' fiore de’ servi. Certamente vai meglio donare a questi la libertà, che
lasciarsi torre da quelli il comando : tanto più che stati essendo questi tante
volte presenti ne’ nostri campi hanno sperienza che basta di guerra. Per
combattere poi cogli esteri usciremo ' noi stessi pieni di ardore e meneremo
con noi tutti i clienti, e tutto il resto del popolo : e perchè sia questo '
cspedito a cimenti, rilasceremp ciascuno privatamente, e non max per legge, ad
esso i suoi debiti. Se dobbiamo in vista de’ tempi cedere in parte e
temperarci; non dee mai farsi questo con cittadini che ci s' inimicano, ma
cogli amici, perché sappiasi che noi concediamo grar zie, eomthossi e non
violentali’, che se queste non bastino, se bisognino altre fòrze, f arem
venirne dai presidii e dalle colonie: e quanta siala moltitudine loro, è facile
raccoglierlo dalC ultimo censo. 1 .Romani atti (die arme son cento trenta mila,
e di questi appena la settima tparte è fuggita ' da noi ( 1 ). Non commentoro
qui le' trenta città de’ Latini, le quali come voitre alleate ^ combatteranno
di bonissima voglia per voi, sol che decretiate di ammetterle alla vostra
cittadinanza che > sempre .vi hanno domandata. Ora vi aggiungo' (.e finisco
) quello che rileva fra le arme assaissimo, e che voi non avete avvertito, o
certo niun dice de’ Padri. Chi cerca il buon esito delle guerre, di niente ha
tanto bisogno, quanto di egregi capitani. Or di questi la nostra città soprob[Questo
ceuso non par quello fatto da T. Largio primo dituiorr, ma l’altro fissato da
Sigouio oell’ anno sGu di Roma, ov dice eba furono numerati più che centodieci
mila ciuaUini. benda, ma scarsissime ne sono quelle de' nemici. Lè grandi
milizie se ricevano duci mal atti alle arme, si svergognano, e rovinano di per
sestesse con danno tanto maggiore, quanto sono più numerose: ma i buoni
condottieri presto rendono grandi anche picciole armate. Di qua seguita che
fiiìchà avrem uomirU buoni al comando, mai avremo penuria di quelli che fac
cianci comandare. Or ciò considerati^, e ricordando voi le imprese di Roma ;
certo mai non porrete decreti meschini, vili, indegni. Che dunque, se alcuno
tnel chiede, ( e già forse bramate da gran tempo saperlo ) che dunque io
propongo che facciasi ? Io pro-> pongo che nè spediscansi ambaseiadori d
fuorusciti ^ nè sen decida arti, finché raccolto il voto de’ senatori SI
dedicassero ai voleri dei più. Se violato 1’ uno e r altro di questi cousigli,
faceano di lor voglia la pace ; protestavano che noi permetterebbero, ma vi si
opporrebbono di tutto lor animo, colle parole finché dovevasi, o colle arme in
ultimo se bisognava. Era que> sto partito J1 più forte, aderendovi quasi
tutta la gio ventù palriaia. In opposito piegavano al partito di Me-s uenio e
di Valerio tutù quelli che aveano cara la pace, p cbe torneano soprattutto per
1’ età loro, considerando quanti siano .nelle città li mali delle guerre civili.
Mossi però dai clamori e dai tumulto dei giovani, adombrati dall’ ambizione
loro, e dall’ arroganza contro de’ consoli, e timorosi che indi a poco si
venisse alle mani se nou cedevano; si volsero in ultimo a piangere, e supplii care,
piangendo, i conirarj. Sopitosi coi tempo lo strepito, e tornato il silenzio, i
consoli abboccatisi fra loro, cosi conchiusero. Noi vorremmQ primieramente o
Padri Coscritti, che voi tutti foste unanimi d intelligenza e di volere in^
torno la salvezza del comune : se no, che i più gio^ vani almeno cedessero, non
ripugnassero d seniori, considerando, che ancK essi giunti alT età di questi
avran pari onori dai discendenti. Ora siccome vediamo voi caduti in una
discordia, rovinosissima fra i mali umani, e sorgere qui mollo f arroganza de’
giovani ; e siccome poco ornai soprawanza del giorno, nè possono aver fine le
discussioni ; ritiratevi dal SeruUo : tornerete in cUtra adunanza più placidi e
con sentenze migliori. Che se qui persevera l’ amore delle contese, non più ci
varremo de' giovani por giudici, né per consiglieri su ' quello che giova : ma
precluderemo il disordine con una legge ; determinando la età che aver dee chi
consiglia. Quanto a’ seniori se non si uniscono ne' sentimenti ; torneremo a
dar loro la parola, e ne risolveremo le dispute per una via speditissima, la
quale è meglio che voi udiate e conosciate precedentemente. Voi sapete che noi
abbiamo fin dalla fondazione di Roma, che il Senato è t arbitro, è vero, di
ogni cosa, ma non di crearei magistrati, rum di fare le leggi, rum di
portare o cesseue la guerra ; le quali
tre cose il popolo le difinisce in "ultimo col suo voto. E siccome ora non
consultiamo che su la guerra e la pace ; cosi debbe il popolo, liberissittur
ne' suoi voti ratificare indispensabilmente i vostri decreti. Quando voi dunque
avrete dichiarato i vostri pareri, ru>i scguerulo questa legge, inviteremo
la moltitudine al Foro, perchè ne sentenza. Così le' contese avran fine ;
mentre ciò che la pluralità dei voti destinavi, quello abhracceremo. Senza
dubbio son degni di quest’ onore quelli che si tennero finora henaffetti alla
patria, io dico i compartecipi de' nostri beni e de mali. Sciolsero, ciò detto,
radunania. Fecera nei giorni appresso annunziare a tutti de’ villaggi e della
campagna che si presentassero, e similmente al Senato che si riunisse nel di
stabilito ; e qnaudo videro la città riempita di popola, e gli animi de’
patrizj mossi dalle preghiere fatte tra le lagrime, e tra’ lamenti de’ vecchi
genitori, e de’ teneri '6gli de’ profughi, recaronsi nel tempo destinato sul
finir della notte al Foro, angusto a tutta ia moltitudine. Venuti al tempio di
Vulcano donde solcano aringar l' adunanza, lodarono primieramente Il popolo
dello zelo e della prontezza nell accorrere in tanta frequenza: quindi lo
esortarono che aspettasse in calma la risoluzione del Senato; animando intanto
gli attenenti de' profughi a buone speranze, come quelli che riarrebbero tra
non molto i loro pegni dolcissimi. Dopo ciò passando in Senato vi tennero
benigni e modesti ragionamenti, ed invitarono ancor gli altri a proporre
consigli vantaggiosi, ed umani. Chiamarono innanzi tutti Menenio, il quale
alzatosi in piede rivenne ai suggerimenti di prima stimolando il Senato alla
pace : e riproponendo che si deputassero ai segregati bentosto de’ personaggi,
arbitri di concordare. Invitati poi secondo 1’ età sorsero a mano a mano gli
uomini consolari: parve a tutti questi che fosse da seguire il parer di Menenio
; finché toccò ad Appio di favellare. Or questi sorgendo t'eggo, disse, o Padri
Coscritti che piace ai consoli e poco meno che a tutti di rimpatriareil popolo
colle condizioni eh’ ei vuole: che fra tutti i contrarj della pace or io
rimangomi solo, esposto aie odio di quello, e niente utile a voi. Ala non per
questo rimovomi dalle mie prime deliberazioni : nè ripudio da me stesso ciò che
intendo su la repubblica. Quanto piò. restomi derelitto da quelli i quali come
me ne sentivano ; tanto piò col volger degli anni ne sarò pregiato tra voi,
sarò in vita coronato di gloria, e morto sarò benedetto dalla ricordanza de
posteri. Sia pure o Giove Capitolino, o Dei presidenti della nostra città, o
eroi e genj, e quanti in guardia avete il suolo Romano, sia pur Diomcj, urna
IT. i a8a. hello ed utile a tutti il
ritorno de fuorusciti, e delusa resti la espettazione eh’ io ni' avea su 1’
avvenire. Ma se pe’ consigli presenti dee venire (e fia ciò palese tra non
molto ) alcun disastro su Roma, deh ! rettyicateli voi prestamente, e fate la
nostra salvezza. Deh ! siate benevoli e propizj a me che non avendo mai voluto
dir le piacevoli per le utili cose, non tradirò nemmen’’ ora il comune per la
mia sicurezza. Io così volgomi a pregare gV Iddj ; perchè non abbisognano più,
parole. Ripeto la sentenza di prima : assolvasi IL POPOLO RIMASTO IN CITTa’ DAI
DEBITI ; MA COMBATTANSI CON TUTTO L ARDORE I FUORUSCITI TINCBÈ STARANNO SU LE
ARMI. E ciò detto Gnl. Poiché le sentenze de’ seniori concordaronsi con quella
di Menenio, e poiché venne il discorso ai giovani ; standosi tutti in
espettazione, sorse Spurio Nauzio, un rampollo della prosapia nobiliasima
originata da quel Mauzio compagno di Enea nel guidar la colonia, e sacerdote di
Minerva m'bana, il quale nel trasmigrare aveane portato seco il divin simulacro,
dato poi successivamente in custodia a’ suoi discendenti. Ora Nauzio che parea
per le sue belle doti più nobile ancora di tutti i giovani, nè lontano mollo
dall’ ottenere la dignità consolare, cominciò la difesa comune di questi :
diceva che quando nel Senato Anche
Virginio fa meniioue di questo Nauxio, che egli chiama Pfautt, nel libro 5. Tum
senior PfaMes, unum Triionia Paìlas, Quaeitt docuit, muUaqus insignem reddidit
arte, Haec responsa datai precedente avetmo pronunziato in contrco'io de' padri
non fu già per amore di contendere o insuperbire con essi, ma solo mancando, se
aveano pur mancato, per inesperienza di anni : e qui soggiunse che farebbero
fede di ciò col variar sentimento : che lasciavano a loro come più savj
decidere co’ voti il ben del comune : essi non contrarierebbono, ma secon'
darebbero i seniori. E dichiarando Io stesso ancor gli alni giovani, toltine
pochi, legati di parentado con Appio ; i consoli ne lodarono la verecondia ; ed
esorta tili ad essere sempre tali ne' maneggi ' pubblici, elessero tra’ seniori
piÀ cospicui dieci deputati, uomini consolari tutti, fuori che uno. Furono gli
eletti, Manio Valerio, Tito Largio, Agrippa Menenio figlinolo di Gajo, Publio
Servilio figliq di Publio, Postutnio Tuberto figlio di Quinto, Tito.Ebuzio
Flavio figlio di Tito, Servio Sul picio Camerino figliuolo di Publio, Aulo
Postumio Albo prima alle tose loro quei
che le aveano lasciate. Presi tali ordini, partirono i deputati nel giorno (1^
Nel testo si omeltoDO Maoio Valerio, Tito Largio, e si nolano altre maacaaxe in
questo luogo. Noi alitiamo seguita la lesione di Porlo medesimo. Precedè la
fama il giunger loro, divulgando nel campo tutte le cose fatte in città : dond’
è che lasciando tutti le fortificazioni uscirono immantinente incontro a’
deputati che erano in via. Aveaci nel campo un uomo turbolento affatto \ e
sedizioso, acuto a preveder da lontano ciocché avverrebbe, nè insufficiente,
come parlator lusinghiero, a dirne quanto ne pensava. Chiamavasi questi Lucio
Giunio col nome appunto di lui che tolse i tiranni : e voglioso di assumerne il
nome per intero, facessi intitolare Bruto ancora. Rideano i più su la cura vana
di esso^ e Bruto il chiamavano quando pungere lo volevano. Or questi mise in
cuore a Sicinio, duce dell’ esercito, che il bene del popolo non istava nel
rendersi troppo facilmente, sicché men degno ne fosse il ritorno per le umili
condizioni ; ma nel resistere lungamente, simulando come in tvia tragedia. E
profferendosi egli a Sicinio di parlare in favore del popolo, e suggerendogli
altre cose che erano da fare o dire, lo persuase. Dopo ciò Sicinio, convocato
il popolo, impose a’ legati che dicessero le cagioni per le quali
venivano.Recatosi in mezzo Manio Valerio come il più provetto e popolare, e
contestatagli dalla moltitudine la sua benevolenza con grida e saluti
amichevoli, alfine, fatto silenzio, disse: Niente, o popolo proibisce che vi
riconduciate alle vostre case, niente che vi pacifichiate co’ Patrizi. Il
Settato ha per voi decretato' un ritorno utile e decoroso j e di non pià
ricordare o vendicare il fatto finora. E noi che vedeva propensissimi per voi,
come da voi rispettati, ha qui deputato con poteri assoluti di concordare :
affinchc noi non opinando nè congetturando su vostri desiderj, ma udendo da voi
stessi con quali condizioni chiedete riconciliarvici, ve le accordassimo se
moderate, se non impossibili, nè impedite da indecenza insanabile, sene’
aspettare il voto de’ Padri, e senza intristire V affare colle dilazioni, e
colla invidia dei contrari. Avendo il complesso de’ Padri così per voi
decretato ; ricevetene il dono lieti, pronti, e benevoli s pregiandone
degnamente una sorte sì bella, e ringraziando vivamente gV Iddj che Roma, la
dominatrice di tanti popoli, che il Senato, regolatore di tutto il bene che è
in essa, mentre V usanza della patria non permette che cedasi ad alcuno, cedano
alle istanze vostre solamente, nè pretendano come i più. grandi su’ men grandi
discutere minutamente quanto conviene ad ambedue, ma primi essi vi spediscano
per. la pace : che non piglìasser con ira le risposte imperiose da voi fatte ai
primi ambasciadori, ma pazientassero alt orgoglio e fierezza di una ostinazione
giovanile, come il buon padre sul figlio non savio : che volessero indirizzarvi
una seconda ambasceria, diminuire i loro diritti', e rimettervisi dove la
moderazione il consente. Giunti a tanta felicità non esitate a dime ciocché
bisognavi, e non esorbitate o cittadini : lasciate le sedizioni : tornatevi
giubilando alla terra che vi ha generati e nudriti : Allude ai scDatorì che arrebbono perorato in
contrario nei Senato. Già non le deste voi li trofei e le ricompense pià belle,
riducendola quanto è da voi solitaria, o come un campo da pascolarvi. Se
trascurate questa occasione, forse ne richiamerete pià volte la somigliante.
Taciotosi Valerio fècest innanzi Sicinio, e I disse, che chi ben consulta non
riguarda V utile da una banda sola, ma lo contempla nel suo rovescio ancora,
principalmente in affare di tanta importanza. Pertanto comandò che chi volea
rispondesse a ciò, deponendo ogni verecondia e timore. Non permettere la natura
delle cose che essi benché ridotti a tante angustie cedessero per paura o per
vergogna : E qui, fatto silenzio, e gli uni riguardando su gli altri, e
cercando chi perorasse pel comune; ninno si presentò. Ma replicando Sia aio
altre volte l’ istanza venne alfine in mezzo secondo gii accordi quel Ludo
Ginnio desideroso di essere cognominato Bruto : ed avuto a far dò grandi
significazioni dalla moltitudine, tenne questo ragionamento : Il timore che
avevate de’ Patrizj o compagni è scolpito ancora per quanto vedo, e triorfa
negli animi vostri. Abbattuti da questo timore esitate far qui, udendovi tutti,
i discorsi che usavate tra voi. Forse ciascuno confida che il vicino suo
aringherà sul comune, e che piuttosto incorrerà tra’ perìcoli ogni altro e non
egli : ami che egli tenendosi in salvo, goderà senza perìcoli parte del bene
che possa mai nascere dall ardire degli altri : ma stolto è questo concetto.
Imperocché se tutti aspettiamo la stessa cosa, la codardia di ciascuno sarà
nocevole a tutti; c dove ognuno figurasi la sua sicurezza; ivi insieme con
tutti rovinerà la comune. Ma se non avete appreso finora che per le arme ci
togliemmo la paura, e per le arme avete consolidata la vostra libertà ; conoscetelo
ora almeno, ed i Patrizj, essi stessi ve 10 insegnino. Questi orgogliosi,
questi durissimi uo~ mini, non vengono come prima comandando e minacciando, ma
supplicandoci, ed esortandoci a tornare alle nostre case : e già cominciano a
trattarci come liberi veramente. Che dunque or più vi anneghittite e tacetq ?
Che non la Jote da liberi uomini ? c se avete già scosso il freno : che non
dite qui ora pubblicamente ciocchò avete sopportato da loro ? O miseri ! e
quali patimenti temete ? se io stesso v invito a parlar francamente ? Io dunque,
io stesso mi rischierò di dire liberamente per voi ciocché è ffusto, senza
niente occultare. E poiché Valerio dice che niente proibisce che vi rendiale
alle case vostre concedendovisi dal Senato il ritorno, ed essendosi decretato
di non perseguitarvi ; io risponderò a lui cose nemmeno vere che necessarie a
dire. Oltre i motivi ben grandi e varj, tre ne sono o Valerio fortissimi e
chiarissimi che c impediscono di rimetterci a voi deponendo le armi. Il primo è
che venite a noi per esortarci come traviati; e Radicate beneficenza vostra
accordarci il ritorno : 11 secondo è che invitando noi a pacificarvici, niente
dichiarate le condizioni compiacevoli o giuste su le quali possiamo ciò fare :
è poi ! ultimo che niente di quanto ci promettete sarà per essere stabile,
giacchè avete continuato a rigirarci e deluderci tante volte. Discorrerò di
ciascuna di queste cose, incominciando dai diritti ; giacché sempre dai diritti
si vuol cominciare sia che trattinsi le cose private, sia che le pubbliche. Noi
dunque se ve ne abbiamo mai fatte, noi non chiediamo nè impunità nè
dimenticanza delle ingiurie. E non yorremo piò. rio starci a parte della vostra
città, ma dandoci in balia della sorte e dei genj che ci guidino, ci fermeremo
là dove .porta il destino. Ma se per colpa vostra noi siamo ridotti alla
condizione in cui ci troviamo ; e percpè non confessate che voi li quali foste
gli oltraggiatori, voi abbisognate anzi di perdono e di dimenticanza ? Come
dite di accordarci voi questa ; quando avreste a dimandarcela ? Come così vi
magnificate quasi voi calmiate lo sdegno verso di noi, quando dovreste cercare
che noi verso di voi lo placassimo ? Cosi confondete la natura della verità,
così la dignità dei diritti pervertite ! Che poi non siate voi gli offesi ma
offensori; che voi beneficati tante volte e tanto dal popolo per fondare la
libertà e V impero, lo abbiate non bene contraccambiato ; uditelo, e
convincetevene. Io non parlerò se non di cose che voi sapete, e se alcuna mai
sarà falsa ; reclamate per gli Dei ve ne prego, non che stiate a bada
pazientando. Il nostro governo primitivo fu monarchico, e lo abbiamo conservato
per sette generazioni. In tutti que’ principati il popolo non fu mai conculcato
dai re, specialmente dagli ultimi. Anzi lascio di dire che derivò da quel
dominio molti e segnalati vantaggi;. a8g impemcchè per obbligarlo a sestessi e
console porgeva al popolo, noi non più memori verso di voi dei mali antichi,
noi pieni di lusinghiere speranze per f avvenire, ci dedicammo tutti a voi
stessi; e dissipate in poco tempo tutte le guerre, tornammo con seguito folto
di schiavi e di prede bellissime. E voi, ne avete voi dato ricompense giuste, o
degne de’ pericoli ? ma quando mai ? troppo lungi ne siamo. Anzi ne avete
tradito le promesse che imponevate al console di farci a nome del comune. E
quest’ uomo bonissimo, del quale abusavate per deluderci, lo avete. questo
privato del trionfo, quando degnissimo ne era più che tutti i mortali. Nò già
per altra cagione così ancor lo spregiaste, se \ non perchè vi dimandava che
adempiste le promesse, e perchè sdegnato mostravasi che ci beffaste.
Ultimamente ( vi aggiungo questo solo intorno al diritto, e finisco ) quando
gli Equi, i 5abini, i Volsci insorsero di comun voto, e concitarono ancor gli
altri, non foste ridotti, voi venerabili e gravi, a ricorrere a noi negletti e
vili, colmandoci di promesse per iscamparvela ? e non volendo parer d’
ingannarci come altre volte, trovaste per coprir la impostura questo Mania
Falerio, uomo amantissimo della plebe. E noi credendogli come a uomo dal quale
non saremnw traditi perchè dittatore, ed amicissimo nostro f ci consociammo
novamente a voi per questa guerra, e vincemmo i nemici con ‘ battaglie non
poche, nè pieciole, nè ignobili Ridotta la guerra a bellissimo fine prima
ancora delle sperante comuni, tanto foste alieni da renderne grazie, e ben
copiose al popolo, else cercavate ritenerlo anche senza voglia, sotto le
insegne e fra V armi, per trasandar le promesse, come trasandarle destinavate
fin dal principio. E non tollerando il valentuomo la beffa, nè la infamia delV
opera, e riportando in città le bandiere, e rilasciando tistti per le proprie
case ; voi, presone motivo onde non far la giustizia, ingiuriaste lui, nè
serbaste a noi veruna delle convenzioni con tre abusi gravissimi, perchè
profanaste la maestà del Senato, annientaste il credito di un tal uomo, e rendeste
inutile cC vostri benefattori il merito delle fatiche. Omj potendo noi dir
queste e simili cose non poche, non abbiamo o Patrizj voluto piegarci (die
umiliazioni ed alle preghiere, nè accettare come i rei di gravissime colpe, il
ritorno su la obblivion del passato. Sebbene, essendoci noi qui riuniti per
concordare ; non dobbiamo ora investigare pià sottilmente queste cose, ma
vociamo trascurarle e dimenticarle, • e tenercele. Che non dite voi dunque
palesemente a qual fine siete qui deputati, e qual cosa venite per chiederne ?
Su quali speranze volete in città ricondurci ? Qual sorte abbiamo a prendere
per guida del nostro ritorno ? Qual giubilo, quale benevolenza ci aspetta ? Fin
qui non abbiamo punto ascoltate esibizioni umane e benefiche, non onori, non
magistrature, non sollevamento dalla indigenza, nè altre cose qualunque, sebbcn
tenuissime. Quantunque non dovea già dùcisi ciocché siete per fare, ma ciò che
fate, perchè sperimentandovi subito benevoli nelle opere vostre, vi
argomentiamo ancor tali per l’ avvenire. Ma io penso che voi risponderete a ciò,
che voi siete qui plenipotenziari, e che qualunque^ cosa ci persuaderemo a
vicenda, sarà stabilita. Or_ sia ciò vero; e ne sieguano conformi gli effetti ;
niente vi contraddico. Bramo però sapere le cose che da loro ci si faranno dopo
queste. Vale a dùe, quemdo avremo noi detto su quali condizioni vogliamo il
ritorno ; e quando ci saran concedute ; chi ci sarà di esse mallevadore ? Su
quale sicurezza deporremo le armi, e metteremo le nostre persone di bel nuovo
nelle lor mtmi ? Su quella forse dei decreti che si faran dal Senato, non
essendovene ancora ? Ma qual cosa mai impedirà che annullino questi con altri
decreti, quando così paja ad Appio e ad altri che pensan com’ egli ? Con^
teremo forse su la dignità dei deputati che ne porgono in pegno la fede loro ?
Ma prima ancora ci han deluso colla interposizione di tali uomini. Riposeremo
forse ne trattati fatti innanzi agV Iddj, e confermati da loro co' giuraménti?
Ma io temo di ogni fede umana consimile, vedendola da quei che comandano
vilipesa. E so, nè già ora per la prima volta, che i trattati forzosi tra chi
brama esser libero e chi vuol dominare han vigore soltanto finché la necessità
così porta. Or quale è queir amicizia e quella fede nella quale siamo costretti
ad ossequiarci contro voglia, insidiando t uno il tempo dell' altro ? Allora
incessanti i sospetti e le calunnie; allora le invidie e gli od] ed ogni
maniera di mali: allora la gara di preoccuparsi a distruggere V emolo ;
riuscendo ogn indugio a mal termine. Non vi è, come tutti sanno, guerra più.
trista della civile : questa i vinti fa miseri, ed ingiusti li vincitori : e li
'vinti han dagli amici i lor mali, i vincitori agli amici li causano. Or voi
dunque o Patrizi vogliate chiamar noi a pari circostanze, a pari bisogno non
desiderabile ; e noi o plebei non ci rendiamo loro mai più: ma come la sorte ci
ha divisi, così teniamoci in calma. Abbian pur essi tutta Roma, senza noi se la
godano, e ne raccolgano soli ogni bene, essi che han ridotto fuor della patria
noi miseri, noi disonorati plebei. E noi andiamocene pure dove gt Iddj ei
guidano, considerando che non la nostra ma t altrui città lasciamo. Niuno di
noi qui lascia non campagne proprie, non abitazioni paterne, non sacerdozi, non
‘ magistrature comuni come in sua patria per t esercizio delle quali siavi
ritenuto pur contro voglia ; anzi nemmeno lasciammo qui per noi la libertà,
quella che ci avevamo colle arme e con tanti travagli acquistata. Imperocché
parte i nemici, parte la miseria quotidiana, parte V alterigia degli usurieri
ci han guasto e consunto e tolto ogni cosa : tanto che noimiseri eravamo
ridotti a coltivare le terre di questi zappando, piantando, arando, pasturando,
divenuti conservi degli schiavi loro da noi presi colle arme; e chi di noi
portavamo catene alle mani, chi ne piedi, chi nella cervice finalmente, come
fere intrattabili. E qui non ricordo le ferite, gli avvilimenti, le battiture,
le fatiche da notte a notte , ed ogni altra sevizia, e non le ingiurie, e non C
orgoglio che ne abbiam sostenuto. Liberati, la Dio mercè, da tanti e sì gran
nudi, fuggiamo ben contenti quanto possiamo e sappiamo, e prendiamo per. duci
della fuga la sorte e gl’ Jddj li quali veglian per noi, considerando come
patria nostra la libertà, e la virtù còme nostrà ricchezza. Ogni popolo nè,
ammetterà, sì perchè non molesti, come perchè utili a chi ne riceve. E ci siano
in ciò' di esenqtio molti Greci, Dal
tempo prima dell’alba fiuo a aera. e
molti barbari, e principalmente gli antenati tii quelli e di noi. Gli antenati
nostri passando con Enea dal£ Asia nelC Europa fondaronsi nel Lazio una patria
: e poi spiccandosi da Alba sotto gli au spicj di Romolo che guidava la colonia,
pigliarono sede ne' luoghi appunto abbandonati da noi. Abbiamo noi forze non
già poco maggiori che essi, ma triplicate, e celione molto più giusta di
trasmigrare. Quelli partivan da Ilio perseguitati da nemici, e noi di quà dagli
amici : e ben è più misera cosa essere espulsi dai domestici, che dagli
estranei. Quei che a Romolo si ligaroho per compagni trascurarono la patria per
cercare terre migliori : ma noi lasciamo un vivere senza città, un vivere senza
case paterne quando rechiamo la colonia : e certo la rechiamo non odiosa agl
Idàj, non molesta agli uomini, nè gravosa a terra niuna ; non rei' del sangue e
della strage de’ cittadini che ci han discacciati, non rei del ferro o del
fuoco messo ai campi che abbandoniamo, nè di altro monumento qualunque
fondatovi di eterna inimicizia; come spinti da necessità sconsigliata rei se ne
fanno i popoli traditi nett aUeanza. Noi chiamati in testimonio i genj e gl' Iddj
che guidano con giustizia le cose mortali, e lasciandQ'che essi prendano per
noi la vendetta, abbiamo chiesto unicamente di riavere i nostri teneri figli, i
(secchi Padri, che in città si rimasero, e le mogli in fine, se alcune pur
vogliono dividere con noi la nostra sorte. Contenti di ricevere questo, non
altro dimandiamo da Roma, E voi tanto impolitici f tanto insocievoli verso de'
miseri, vivete felici, e come più desiderate. Appeaa Bruto ebbe ciò '' detto si
tacque. Parve agli astanti tutto vero quanto disse intorno ai diritti, e quanto
per accusare la superbia de’ senatori, principalmente quando dichiarò che la
semplicità dei patti era tutta piena d’ intrico e d’inganni: ma quando infine
delineò gli alTronti che aveaoo patito dagli usucierì, e ciascuno ricordò li
suoi mali ; niup v ebbe sì fermo di animo, che non si desse a piangere, e
lamentare i danni comuni. Nè impietosirono già sol essi, ma fino gl’ inviati
dal Senato. Non poteano que’ seniori contenere le lagrime, pensando la calamità
per la separazione de' citudini : e rimasero gran tempo tra 1’ afflizione, e
tra ’l pianto senza sapere ornai che più dire. Cessali gli alti gemiti, e
tornato il silenzio nell’ adunanza, procecedelte per farvi le difese Tito
Largio autorevole sopra tutti i citudini per anni, e per dignità, come lui che
due volte console, e già rivestito della ditutura, avea con esercitarla bene
più che gli altri, renduu venerabile, e sanu una carica altronde odiata. £
datgsi a parlare sopra i diritti, e ulvolta incolpando gli usuraj perchè aveano
operate cose durg, e disumàne ; talalira rimproverando i poveri come non giusti
nel' chiedere che si rimettessero ad essi i debiti per forza anzi che per
grazia, e nell’ esacerbarsi col Senato piuttosto che con quelli che impedivano
che si'ccmcedesse loro alcuna cosa anche moderaU; e dippiù tentando mostrare
cl^e picciola era la parte del. popolo, .ingiuriosa suo mal grado, e necessiuta
a dimandate per la igopia gravissima la condonaeione dei debiti, ma più grande
assai la parte la quale esigeva ciò perche viveasi scorretta, insolente,
voluttuosa, e preparata a supplire co’ furti alle sue passioni, talché '
doveansi ben distinguere i poveri dai ribaldi, quelli che erano da compatire da
quelli che erano da odiare ; ed aggiungendo in (ine discorsi consimili, veri si
ma non grati generalmente; non soddisfece tutta la udienza. Dond’ è che sorsene
strepito grande di voce, altri sdegnandosi. quasi rincrudisse loro gli affanni,
ed altri confessando che dicea pur troppo il vero. Ma perciocché gli ultimi
erano assai minori di numero, scomparivano tra la moltitudine degli altri, e
prevaleano soprattutto i clamori degli adirati. À queste cose ne aggiugnea
Largio poche altre su la partenza e precipitanza loro, quando ripigliando la
parola Sicinio il capo del popolo ne riaccese assai più lo sdegno con dire :
che ben poleano da un tal parlare, comprendere quali onori e quali
ringraziamenti ne avrebbero, se tornassero nella patria. Se quelli che slansi
nel colmo de’ pericoli, ed abbisognano del braccio del popolo, e per questo a
lui vengono, non san trovare nemmen ora discorsi moderati ed umani; qual animo
dee credersi che avranno quando siano .le cose riuscite loro secondo il
disegno, e quando chi offendono ora colle parole, sia sottomesso loto ancora
nelle opere ? Da quali insolenze mai si conterranno ? da qual; flagelli, o da
quali tiranniche sevizie ? Se a voi dà il cuore, ei dicea, di servire tutta la
vita incatenati, battuti, straziati col ferro, col fuoco, colla fame, con ogni
guisa di maU; su, non perdete tempo,
gettate le armi, seguitateli. Ma se V è pure in voi desiderio di libertà ; non
pazientate ornai più. Ambasciadori ! o dite su quali cortidizioni ci richiamate
; o partite daW adunanza ; perchè non lasceremo più che vi parliate. E qui
tacendosi lui, tutti gli astanti ne strepitarono, acclamandolo, perchè area
detto a proposito. Restituitasi quindi la calma Menenio 'Agrippa il quale areva
interloquito in Senato sul popolo, e proposto e fatto principalmente che gli s’
inviasse un’ ambasceria plenipotenziaria, fe’ cenno di volere aneli’ egli
discorrere. Riuscì la richiesta gratissima ; e parea come r augurio che
udirebbe nsi allora Analmente condizioni giuste, e salutevoli ad ambe le parti.
E subito esclamarono tutti a gran voce, che parlasse. Poi si chetarono, e si
profondamente, quasi fessevi solitudine. Parve uu tal uomo, com’ era verisimile,
assai persuasivo nei suoi discorsi, e tutto confacevole ai voleri della
udienza: è' fama però che in ultimo proponesse una tal favola sul gusto delle
Esopiane espressivissima delle circostanze, e che con questa principalmente li
guadagnasse. Dond’ è che la favola fu creduta degna di ricordanza, e rapportasi
io tutte le storie antiche. L’, aringa di lui fu questa : Popolo, noi veniamo
dal Senato a voi, non per difendere lui, nè per accusarne voi: nè già pormi che
il tempo ciò chieda, nè che ciò sia prosperevole per la sorte della .repubbUca.
Ma noi veniamo con tutto f ardore e V efficacia per 'levar le discordie, e
rimettere la > repubblica nel 'buon ordine primitivo^ rivestiti per ciò fare
di^ un potere assoluto. Pertanto non pensiamo che,sian ora da esaminare i
diritti > come fece con orazione lunghissima questo Giunio ; pensiamo
piuttosto che debbansi con gli amorevoli modi ricongiunger gli spiriti. Qual
fede sia poi per garantire le nostre convenzioni, ve lo esporremo, appunto come
ne cibiamo deliberato. Considerando noi else le sedizioni si curario in ogni
città col to gliere i semi delle discordie, abbiamo giudicato ne cessarlo di
conoscere e spegnere le cause produttrici della divisione. Or trovando noi che
le esazioni dure de’ presuli sono la origine de’ mali presenti ; così le
correggiamo. Decretiamo che quanti soggiacciono a debiti, nè possono
estinguerli, ne siano del tutto assoluti. Decretiamo Uberi tutti, quanti son
detenuti per aver differite le paghe oltre i tempi legittimi, e decretiamo
liberi infine quanti furono in mano consegnati dei creditori per sentenze
speciali di giudici^ annullando noi queste totalmente. Cosi ripariamo ai
contralti precedenti tenuti come causa della sedizione: ma quanto a centratti
avvenire facciasi come ne ordinerà la legge che sarà costituita da voi, da
tutto il popolo, dal Senato. Dite, non erano queste le cose che vi
alienas>ano da’ Patrizf ? Non giudicavate voi che sareste conienti, e che
altro di più non bramereste, se le impetravate Oggi vi si concedono ; andate,
tornatevi' gittiilando alla patria. I riti poiche convalideranno ed
assicureranno questi trattati saran quelli appunto delle leggi, usati nel
depórsi delle inimicizie. Il Senato approverà pur egli questi trattati ^ e darà
loro forza di Digilized by Google 3o2 delle Antichità’ romane leggi quando
scritti gli avremo. Anzi schiviamoli qui noi come ne piace ; ed il Senato vi
sarà sottomesso. E che questi si rimarranno indelebili ; che il Senato non
potrà mai sopraggiungervi nulla in contrario, noi qui deputati, noi li primi ne
facciam garanzia sul corpo, e vita, e stirpe nostra, e con noi pure ve ne fan
garanzìa li senatori che firmeranno il decreto. Imperocché mai, ripugnandovi
noi si decreterà cosa niuna contro del popolo ; giacché noi -siamo li primi del
Senato, e noi li primi a dichiarare i nostri pareri’. ven farà da ultimo
garanzia la fede comune atutti i Greci, e a tutti i Barbari, quella che niun
tempo mai potrà cancellare, quella che con giuramenti, e libagióni rende i Numi
vindici degli accordi, e su la quale chetaronsi tante, e non picciole nimicizie
de’ privati, e tante guerre di repubblica con repubblica. Or questa fede
ricevetela ancora voi ; sia che vogliate permettere a noi, pochi si, ma capi
del Senato, di giurarvi a nome di questo,^sia che vogliate che tutti i Padri
sottoscrivano e giurino con rito santo di serbarvene i patti inviolati. E tu, o
Bruto, non incolpare il pegno delle destre, non le libagioni, non la fede data
invocandone i Numi, né togliere tali espedienti bellissinii degli uomini: e voi
non vogliate tollerare che costui ricordi le promesse tradite dai scellerati e
dai tiranni, da quali tanto è lontana la virtà de’ Romani. Or lasciate, che io
soggiunga (e terminò) una cosa non ignorata i fiè controversa da rtiun dei/
mortali. Ma quale è mai questa? Essa importa >'t utit colmine,. e saU/a le
parti f una colt altra : essa è r unica e sola che ci raccolse già tutti in un
corpo, e che mai farà separarci. Abbisogna, nè mai cesserà di abbisognare la
moltitudine imperita di sas>j che la dirigano ; come un complesso di savj
idonei a dirigere abbisogna di chi lascisi governare. Nè ciò per immaginazioni
sappiamo, ma per esperienza. Che dunque ci riduciàmo a tremare brigandoci gli
uni con gli altri ; o che ci logoriamo in triste ^parole ; essendoci
facilissimo tornare alt utile nostro ? Che dunque non ci espandiamo, ed abbracciamo,
e voliamo (dia patria, aUe antiche delizie, agli oggetti di tanti dolcissimi e
soavissimi nostri desiderj ? A che cercare impossibili assicw'ozioni? A che
fidanze malfide^ come in guerra nemici fierissimi che in tutto sospettano il
peggio ? A noi, o plebei, a noi membri del Senato, basta la sola vostra parola,
clte non sarete se tornate iniqui con noi: e perchè ? perchè sappiamo il vostro
buon allevamento, la istituzione legittima, e le altre virtù che avete in
guerra ed in pace dimostrate. E se i contratti oggi ottengono a nome del comune
una riforma, così dimandando la fedeltà, così la speranza, degli uni verso
degli altri ; teniam certo ancora che siano per corrispondere in voi le altre
buone doti : e niente da voi cerchi (uno ^i giuramenti, niente gli ostaggi, nè
altro pegno qualunque di sicurezza ; nè però mai contrarieremo le vostre
dimande. Ma ciò basti su la fedeltà intorno • la quale Bruto c incolpava. Che
se in voi resta aricora alcuna, invidia non degna, che vi àccita a pensar'
pravanten^s del Senato •, io dùò pur. di questa : e voi attenti, in calma,
ascoltatemi o plebei. 1 ' Somiglia ad un corpo umano una repubblica :
perciocché l uno e t cdtra risultano da più parti ; nè ciascuna delle parti in
essi ha forze eguali, né porge un uso medesimo. Adunque se le membra del corpo
umano ricevessero tutte, come il senso, la voce, e poi nascesse discordia fra
loro congiurandosi tutte le altre ad una ad una contro del ventre, e, li piè si
dolessero che il corpo intero poggiasu loro, le mani che solo esse traltan le
arti, procacciano il necessario, combattono co’ nemici, e pongono molti t^ri
beni in comune-, gli omeri perchè p'orVan essi ogni peso, la bocca perchè parla,
la testa percitè vede, perchè ode, e perchè comprende tutti i sensi onde il
complesso vive del corpo ; e se quindi dicessero, or tu buon ventre fai tu
niuna di queste cose ? quale riconoscenza, qual utile tu ci rendi? Anzi tanto
sei lontano dal cooperare e dal compiere con nei alcun utile comune ; che ne
impedisci e conturbi, e quel che è più intollerabile, ci necessiti a servirti,
e portarti di ogn intorno quanto ti sazj negli appetiti tuoi. Orsù; chè non ci
rendiamo noi liberi, nè cessiamo dalle cure che .in grazia di lui sosteniamo ?
Se così piacesse loro, se nhtna parte più fornisse le proprie funzioni-, or
potrebbe il corpo a lungo 'sussisterne ? Anzi in pochi dì consumerebbesi dsdla
fame, pessimo fra tutti i mali ; e niuno può dirne il contrario. Or concepite
pure altrettanto di una repubblica. Compiono questa molti generi di persone
niente, infra li>r,sornigUanti'; e ciaicùno le porge un uso proprio di lui t
come le nsembra lo porgono al corpo. Chi coltiva i campi f chi pe' campi
combatte co' nemici : chi ne reca assai beni tr^Jicando pe' mari ; e chi travaglia
in su le arti necessarie. Se ciascun genere di queste personeinsorga contro il
Senato, che è l’ ordine degli ottimali, e dica ; qual cosa, o Senato, tu ci fai
di bene ? e per qual causa, non avendone tu alcuna; vuoi, comandare sugii
altri? Non ci terremo una volta da questa tirànnide tua ? nè vivremo
indipendenti ? Se con tali pensieri si levasse ognuno dalle usate incombente ;
cosa impedirà che una tale sconcia repubblica miseramenteperisca per la fame,
per la guerra, per ogni male ? Istruiti dunque, o voi del popolo, che come ne'
corpi nosU'i il ventre accusata a torto da molti, nudrito nudrisce, conservato
conserva ; e quasi uim dispensa universale, porge ad ogmino il' suo bene, e la
sussistenza in un tutto ; così nelle repubbliche il Senato che matteria il
comune e provvede a ciascuno V utile suo, tutto salva e custodisce e dUrige ;
cessate di lanciar contro lui voci ccUunniose, quasi per lui siate fuori della
patria, e ne andiate raminghi e mendici. Il Senato non volle mai questo, nè
farawelo : anzi vi chiama, evi supplica, e vi stende le mani, e vi spalanca le
porte, e raccoglievi. Intanto che Menpnìo concionava, sorgeano ad ora ad ora
voci varie e molte da^i astanti. Ma pai> chè sul fine del suo ragionatiteoto
si diede a comma veri!, e 'deplorare le disgrazie e la sorte immiucnle su
DlOUtai, lomo II. a di ambedue, su quelli rimasi in città e su gli altri che ne
erano usciti ; si misero tutti a piangere, ed unanimi ad una voce gridarono che
li riconducesse alla patria, né più s’ indugiasse. E poco mancò che partissero
tutti a furia dall’ adunanza ; rimettendo ogni cosa ai deputati senea brigarsi
più oltre della sicurezza. Se non che Bruto facendosi innanzi ritardò l’ impeto
loro, dicendo : che erano pur buone per quei del popolo le promesse del Senato,
e chiedendo che grazie appieno gli si rendessero per le cose a loro concedute.
Aggiungeva ancora di temere per l’ avvenire che uomini una volta oppressivi, si
dessero, venutone il tempo, a ricordare, e punire le cose operate dal popolo.
Jtimanervi una sicurezza sola per quelli che temono questo dagli Ottimati, cioè
quella di rendere indubitato che, se vogliono, non posson piii offenderli.
Finché sta in essi il poter danneggiare, non mancheran de malvagi che il
vogliano. Pertanto se il popolo ottenga tal sicurezza ^ -non altro resteragli
da chiedere. Ripigliando Menenio, ed invitandolo a dire qual sicurezza pensava
che al popolo bisognasse, concedeteci, disse, che noi ci scegliamo ogni anno
dall' ordine nostro alcuni magistrati i quali non siano ad altro autorizzati
che a proteggere gli oltraggiati, e gli oppressi nel popolo, nè lascino che
alcimo sia defraudato de' suoi diritti. Alle^ cose accordateci aggiungete in
grazia ancor questa, ve ne preghiamo, ve ne supplichiamo, se la pace esser dee
non in parole, ma in fatti.. 11 popolo udendo un tal dire lo accompagnò con
grandi e lunghe acclamazioni, raccomaiidau dosi ai deputati che gli
concedessero anche questo. I deputati ritirandosi daU’adunanza, e conferendo
alquanto in fra loro, vi ritornarono dopo jion molto. Taciutisi tutti, Menenio
fattosi iunanzi disse : La dimanda è grande e piena o plebei di enormi
sospetti. A noi viene timore ed ansietà che non abbinasi a fare due città di
una sola. Quanto è da noi, nemmeno in ciò vi ci opporremo, or voi compiaceteci
(tende anche (Questo al ben vostro ) date a tre deputati che tornino in Aonuif
e narrino al. Senato la richiesta. Non ci arr roghiamo noi di risolverne >
quantunque abbiamo da esso U potere di concordare come ne piace, arbitri in
tutto di prafnettere.. Siccome il caso che ci occorre è inaspettato e nuovo ;
così ce ne riportiamo ai Padri, quasi in esso V autorità ci si limiti. Ci
persuadiamo, pelò ‘ che essi ne sentiran come noi. Frattanto io qui resto >,
e con me parte dei deputati. Valerio e gli altri onderanno. Stabilito ciò gl’
incaricati d’ informare il Senato spronarono i cavalli alia volta di Roma.
Proponendo i consoli in Senato la richiesta; Valerio opinò che si concedesse.
Appio, nimico Gn da principio di ogni, accordo, contraddisse anche allora
chiarissimameute, esclamando e rilevando, chiamatine in testimonio i Numi, i
germi dei mali che impiantavano alla repubblica. Non però convinse la pluralità,
desiderosa, come ho detto, di .spegnere la discordia. Adunque il Senato
autorizzò con suo decreto lè promesse dei deputati ai popolo, come pure che gii
accordassero la sicurezza che dimandava. Fatto ciò tornando il giorno
ap|>resso i deputati nei vi eapoM0a4.";^HH Ieri del Senato. Quindi
esortando ' MenenioU'^poii^lD d’inviare alquanti a’ quali il Senato desse la
Sull' ftdé ; fu spedito Lucio Giuùo Bruto, del qnale abbiÀtt'i^no di sopra, e
Marco Decio, e Spurio Icilio con esso. Andò metà dei deputati compagna di Bruto
in Roma. Agrippa, pregatone, si rimase nel campo, per istender la legge a norma
delia quale il popolo creerebbe i suoi magistrati. 'Nel di seguente Bruto
rìlortiò già fatti i patti col Senato per mezzo de’ Feciali, che cfaia>
mano. Divisosi allora il popolo in Fratrie,
come ah tri qui nominerebbe quelle che essi dipono Curie, dichiarò suoi,
magistrati dell’ anno Lucùr Gìnnio Bruto,
Cajo Sicinio Belluto, 6 no a > quel di loro capi, e con essi ancora
Ca}o e Publio Licinio ì e Cap Icilio Ruga. Assunsero questi cinquei primi' la^
potestà tribunizia, quattro giorni avanti le idi di ’decembre {%), CO 7 me pur
nel mio tempo si pratica. Firttterle ’eiéEÌoni'parve a’ deputati del Senato,
adempito l’ intento della loro missione. Ma Bruto, convocata l’ adunanza ' del
popolò, consigliò che dichiarassero i suoi magistrati Santi ed: invìo Lìtio,
Dionigi, ed altri storirn antichi non ben si accordano sn la nomina di questi
magistrati. Livio dice che i due i primi nominati furono Cajo Licinio, e L.
Alhiud. e che questi poi si scefaero tre colleglli tra quali fiv Sicinio V
autore delia seditìone. -Ma^ Dionigi pone per primi Lucio. _Giunio Bru^o, e C.
Sicinio Bellirto : a quindi C. e Fuhiio Liciuro, e C. Icilio Ruga. (3) Anni di
Roma 361 secondo Catene, s63 aeeondo Varrona, a 491 avanti Cristo.. 3o9 labili
slabilenilone la sicurezza colle leggi e co’giiiramenti. Piacque ciò a tutti, e
si fece su lui e su collcghi la legge : che niuno forzaste un tribuno ) come un
altro qualunque a far mai cantra sua voglia ; ni lo battette, ni lo uccidesse,
né ordinasse ad altri di balte rio, o di ucciderlo. Che te alcuno a dà
contravvenga anche in parte ; itane reo capitale ; se ne diano a Cerere -i beni
: e chiunque lo uccide, abbiasi coma puro dalla strage. E perchè non si potesse
mai più far cessare questa legge, ma restasse immobile iu ogni ar venire ^ si
stabili che ì Romani giurassero tutti co’ riti santi dì osservarla ' essi, ed i
posteri loro perpetuamente.E si aggiunse ai giuramenti la preghiera, che gli
Dei superni, ed inferni fossero propizj a' chiunque favoriva la legge, ma
contrarj a quanti la violavano, come cootaminati di delitto gravissimo. Da indi
sorse ne’ Romani il-cosWme che persevera pur ne’ miei giorni, di riguai^ dare
le persone de’ tribuni come sacrosante. XC. Concordato dò, fecero un aitare su
le dme della montagna ovo s’^erano accampati, e lo denomina rono nell’ idioma,
loro, l’altare di Giove la cito su la fiducia di respingere i nemici che si
avan zavano ; ma costretti bruttamente a fuggire^ prima di dare alcuna nobile
prova, nemmen fecero punto di ger nevoso combattendo poi su le mura. Adunque i
Ro> mani in un sol gioruo s’ impadronirono sehzà tere dei lor territorio, e,
ne presero a forza la citti, nè con molto travaglio. Il comandante Romano
concedè '. .. 'V (t) Vuoi' (lire Edile. Era qacsto vócaboìo proprio d’ RoroasK'
che le miline si approp lasserò le robe invase; e presi diala la città, ne andò
col resto deli’ esercito contro l'altra città de’ Volsci, chiamata Polusca, non
molto lontana da Longola. Nè osando alcuno di uscirgli incontro, percorse
facilissimamente U campagna, e ne investi le maia. E datisi i soldati, chi a
spezzare le porte, chi a scalare le mura ed ascenderle; Polusca anch’essa fu
presa nel giorno medesimo. Il console scel-, tivi alcuni pochi, autori della
ribellione, li fe’ morire : e multati gli, altri in danari, e spogliatili delle
arme; gli astrinse a dipendere in avvenire dai Romani. Lasciato anche in
guardia di Digitized by Google 3aa Delle
antichità’ romane ni. Volgendo la olimpiade sessantesima quarta, in-' tanto che
Milziade 'era arconte di Atene, i Tirreni dei contorni del golfo Jonio,
cacciati poscia di là dai Galli, e gli Umbri con essi, e li Dauuj, ed altri
barbari in copia tentarono distruggere Cuma, Greca città tra gli Opici fondata
dagli Eretrj e da’ Calcidesi , senz’ altra vera cagione, se non che ne odiavano
la prosperità. Imperocché Cuma famosissima di quei tempi in tutta r Italia per
la ricchezza, per la potenza, e per molti altri beni, avea le terre le più
fruttuose della Campania, con porti utilissimi presso al Miseno. Invidiandone i
barbari il si gran bene, le mossero incontro con diciotto mila cavalli e con
cinquecento mila fanti (a), e non meno. Accampatisi questi non lungi dalla
città surse un portento meraviglioso, quale non ricordasi accaduto mai nè tra’
Greci dovunque, nè tra’ barbari. I fiumi che scorreano presso gli alloggiamenti
( Volturno nominavasi 1’ uno, e l' altro il Ciani (3) ) lasciando lo Gli Eretrj ed i Calcidesi erano popoli dell’
Eukea o Ne^o ponte. Elrelrìa era distante venti miglia da Calcide. Vi erano dus
altre Eretrie. Vedi tom. i, la not. al S 4^ parla della prima. (a) Par troppo
torrente contro di una città : forse vi à d>aglio nei numeri. (3) Vi sono
altri lìami di pari nome. Questo à quello additato da Virgilio 1. a, Georg.,
Vicina Veitvo Ora jugo,el vaeutt Ctanius non aeqmt acervis. Antonio Boudrand:
(vedi novum Lexicon Geographic.) chiama questo fiume Agno ; e dice che passa
presso di Acerra, di Aversa e Mintomo. Forse il Ciani h quello stesso fiume che
ora chiamasi JPatria nelle catte geografiche scendere lor natarale si ripiegarono, rifluendo gran tempo dall’
imboccatura alle fonti. Vista la meraviglia, fecero core i Cnmani di piombare
su’ barbari, come se i Numi fossero per deprimere l’altezza di quelli, e per
sublimare loro che depressi ornai ne pareano. Pertanto dividendo in tre corpi
la gente militare, con uno guaiw darono la città, con altro le navi, e coi
terzo, :hieratoio avanti le mura, aspettarono l’ inimico che inoU travasi.
Seicento erano i cavalli Cumani, e quattro mila cinquecento i fanti : pure si
pochi di numero tennero fronte a tante migliaja I IV. Ck>me i barbari
seppero che eransi appareo:hiati per combattere, dato un grido, coisero in
barbara for> ma, disordinati e misti, cavalli e fanfl, appunto per
annientarli tutti in un colpo. Il luogo, dove innanzi la città si affrontarono,
era una valle angusta, rinchiusa da lagune, e da’ monti, propizia al valor de’
Cumani, ma nemica alla fdUa de’ barbari. Dond’ è che, travolgendosi e
calcandosi questi, gli uni gli altri in più luoghi, e principalmente su pel
fango intorno la palude, si distrussero in gran parte fra loro, senza pur
venire aUe mani colia Greca milizia di Cuma : e quell’ esercito appiedi si
numeroso, e disfatto, e sbaragliato da sestesso, fini qua e là fuggitivo, senz’
avere operato nulla di generoso. Li cavalieri però si avventarono, e molto
travagliarono i Greci : ma non potendo circondar l’ inimico per r angustia del
loco, e temendo i destini che combatteano per Cuma colle piogge, co’ tuoni, co’
fulmini, si diedero anch’ essi alla fuga. In questa battaglia i cavalieri
Cumani militarono tutti luminosamente, riconoDigiiized by Google 3a4 delle
Antichità’ bomane sciutine quindi come autori della vittoria. Si distinse so'
pra tutti Aristodemo cTiiamato Màlaco ; imperocché solo opponendosi, uccise il
capitano nemico, e molti valorosi. Finita la guerra porgeansi sagriGzj di
ringraziamento ai numi, e davasi magnifica sepoltura agli estinti in battaglia
: ma quando si ebbe a decidere a chi si dovesse la corona, come al più forte ;
assai se ne disputò. Li giudici più ingenui, e con essi anche il popolo,
voleano che ad Aristodemo si concedesse ; ma i più potenti, e con loro tutto il
Senato, ad Ippo'medonte, duce de’ cavalieri. Di que’ tempi era in Guma il
governo degli ottimati, nè molto il popolo vi potea : ma natavi sedizione
appunto per tal controversia, i seniori temendo che tanta ambizione finisse
colle armi e colle stragi, persuasero ambedue li partiti di dar "pari
onore all' uno e all’ altro di que’ valorosi. Da quell’ ora divenne Aristodemo
Malaco il protettore del popolo : e poiché ‘si avea procacciato una persuasiva
nei discorsi di Stato, commovea con questa la moltitudine, allettando lei con
stabilimenti gradevoli, beneficando coll’aver suo molti ' de' poveri, e
rimproverando i potenti che si appropiavano ciocché era del comune. Dond’ é che
ne divenne ai primi degli ottimati molesto e terribile., V. Venti anni dopo la
battaglia co’ barbari vennero ambasciadori dalla Riccia co’ simboli di pace al
Cumani per supplicare che li soccorressero nella guerra contro i Tirreni.
Imperocché Porsena re di questi dopo la pace con Roma dando metà dell’ esercito,
come esposi ne’libri antecedenti, ad Arunte suo figlio, lo aveva inviato,
voglioso che n’era, ad acquistarsi un dominio : e costui di quel tempo appunto
assediava gli Arieini rifugiatisi tra le ;nura, sulla idea di prenderne tra non
molto la città colla fame. A tale ambasceria li primi degli ottimati odiando
Aristodemo e temendo che non causasse alcun male al governo ; concepirono di
avere il buon punto di levarsel d’ intorno con delicate maniere.v Persuadendo
il popolo a spedire due mila per soccorso degli Aricini, e nominandone capitano
Aristodemo come il più insigne nelle armi, fecero poi tal maneggio, nde
iusingarsi che colui perirebbe o per le battaglie co’ nemici, o per le fortune
di mare. Imperocché resi dal Senato arbitri di scegliere quei che dovrebbero
andare di rinforzo, non v’ inchiusero alcuno de’ più famosi e più riguardevoli
; ma reclutando i più poveri e più scellerati .da’ quali aveano sospettato
sempre delle sommosse, ordinarono con questi l’ armata, e riducendo in mare
dieci navi antiche, pessime a correr le acque, e dandone il comando a Cumani
poverissimi, ve la soprapposero, con minacciare di morte chiunque ne
disertasse. VI. Aristodemo, dicendo unicamente che non ignorava le mire degli
avversar) che in apparenza Io mandavano per soccorrere, ma in realtà per farlo
soccombere ; assunse il comando dell’ esercito. E facendo ben tosto vela co’
deputati Aricini, e superando a stento e con pericolo il tratto interposte, di
mare, approdò sui lidi più prossimi dell’ Aricia. E lasciata guarnigione
sufBciente alle navi, e fatto nella prima notte il cammino il quale vi restava,
che certo non era lungo, si presentò su 1’ alba inaspettato agli Aricini.
Accampatosi presso di loro, e persuasi gli assediati di uscire all’ aperto
sfidò ben tosto i Tirreni a battaglia. Schieratisi ed attaccatisi, gli Aricini
resisterono piòciolo' teinpo, e piegarono e rifuggironsi in folla tra le mura.
Aristodemo però coi pochi scelti Gumani che avea d’ intorno, so~ Bienne tutto
il forte della battaglia, ed uccisone di sua Diano il duce, mise in fuga i
Tirreni, riportandone una vittoria nobilissima. Ciò fatto, e magnificato dagli
Aricini con doni copiosi rinavigò speditamente verso Cuma peressere egli stesso
nunzio della vittoria. Teneano dietro a lui molte barche Aricine colle spoglie
e coi schiavi presi ai Tirreni. Avvicinatosi a Cuma e messe a proda le navi,
concionò tra 1’ armata. E molto accusando i capi della città, e molto
encomiando quelli che si erano segnalati nella battaglia, e dispensando argento
e parteci pando a ciascuno i doni degli Aricini; pregò che di tali beneficenze
si ricordassero, quando sbarcherebbero nella patria, e lo fiancheggiassero se
mai gli ottimati gli creavan pericolo. Confessandosi tutti obbligatissimi per
la salvezza insperata che aveano da lui ricevuta, come perchè tornavano colle
mani non vuote in famiglia ; e protestando che darebbero a' nemici anzi
sestessi che lui ; Aristodemo, rirtgrazionneli, e sciolse 1’ adunanza. Quindi
chiamandone al suo padiglione i più ma liziosi e prodi, e guadagnandoli tutti
co' doni, co' bei discorsi, e colle spc>anze lusinghiere, li fé pronti a
mutare il governo che vi era. VII. Presi questi per ministri e per combattitori,
istruitili parte a parte su ciò che avessero a fare, e messi in libertà gli
schiavi che conduceva per obbligarsi ancor essi, viaggiò piò oltre colle navi
coronate 6no ai porti di Cuma. I padri e
le madri de’militari, tutto il parentado, i Ogli insieme e le mogli, venutili
ad incontrare mentre scendevano a terra, lagrimavano, gli abbracciavano,. li
baciavano, li chiamavano con tenerissimi nomi. Tutto il resto della moltitudine
urbana ricevette fra tripudj ed acclamazioni il capitano, accompagnandolo fino
alla casa. Di che dolenti i capi della cittò, quelli principalmente che gli
aveano affidato 1’ armata e ne aveano con altri modi tramato la rovina, facean
tristi colloqui su T avvenire. Aristodemo lasciati decorrere alquanti giorni
onde rendere agi’ Iddj li suoi voti ^ e ricevute intanto le sue navi da carico
rimaste indietro, alfine venutone il tempo, disse voler esporre in Senato le
cose operate nella guerra e mostrargli le prede riportatene. Riunitisi in
numero i primarj, ed i magistrati nel Senato, egli fattosi innanzi prese a dire
e narrare tutte le cose operate nella battaglia : quando gli uomini
apparecchiati da lui per 1 impresa, accorsi in folla nel Senato co' pugnali
sotto gli ‘ abiti, vi uccisero tutti gli ottimati. Si diedero allora a fuggire
e correre, chi alle proprie case, chi fuori delia città, quanti erano al Foro,
eccetto i complici del disegno, i qnali avevano occupato la fortezza, il porto,
ed ogni luogo monito delia città. Nella notte seguente sprigionando quanti vi
erano ( e molti ve ne erano ) dalle pubbliche carceri, destinati alla morte, ed
armandoli con altri suoi amici, tra quali (t) In segno della -riltoria
riportala. G>si ae’trionfì ai coronavano ancora LI FASCI erano gli Schiavi
Tirreni, ne fece un corpo di guardia per la sua persona. Fatto giorno,
convocato il popolo a parlamento, ed accusativi a lungo gli uccisi, disse che
erano stati meritamente % puniti ; avendo per tante volte insidiata a lui la
vita : ma che, quanto agli altri .cittadini, egli darebbe loro la libertà, la
eguaglianza .dei diritti, ed altri beni copiosi Vili. Ciò dicendo, ed elevando
tutto il popolo a speranze meravigliose, stabili due regolamenti, pessimi tra
tutti i regolamenti ^ ed iniziativi di ogni tirannide, io dico la nuova
division delle terre e la remissione dei debiti. Figli promettea provvedere su
l’una e l’altra cosa, purché fosse eletto comandante assoluto, finché il comune
fosse in salvo, e v’ordinassero uno stato popolare. Con piacere ud) la plebe e
tutti i peggiori che avrebbonsi a ghermire i beni degli altri: ed egli, avutone
un potere indipendente, aggiunse un nuovo decreto col quale deludendo ancor
essi, alfine tolse a tutti la libertà. Imperocché fingendo temere torbidi e
sedizioni de’ nobili contro dei .plebei per le assoluzioni dai debiti e per le
divisioni nuove de’ terreni, disse che a precludere una guerra ed un eccidio
civile, trovava un solo rimedio, cioè che, tutti prima di ridursi a tal male,
recassero dalle loro case le arme, e le consacrassero agl’ Iddj per averle nel
bisogno pronte contro i nemici esterni se ne venivano, e non contro sestessi:
pertanto esser bonissima cosa che stessero quelle presso de' Numi. Persuasi di
tanto i Cu> mani ; egli nel giorno stesso ebbe le armi di tutti, e negli
altri appresso fe’ cercare le case di • ognuno, \iccldendovi molti buoni, sul
pretesto che non avessero portate ai Numi tutte le armi. Dopo ciò fortificò la
tirannide sua con tre generi di guardie : il primo fu di que’ vilissimi e
reissimi cittadini co’ quali tolse 1’ autorità degli ottimati : il secondo fu
de’ servi indegnissimi renduti liberi da esso perchè aveano trucidati i loro
pa> droni : ed il terzo furono i militari assoldati da’ barbari più inumani.
Erano questi nommen di due mila, e validissimi più che gli altri nelle arme.
Tolse le immagini degli uccisi da ogni luogo sacro e profano supplendovi in
vece loro le sue. Le case, i campi, ogni avere di questi lo donò tutto ai
complici suoi nel preparargli la corona, riservando per sè l’ oro e 1’ argento,
e quanto altro è base della tirannide. Ma li doni più numerosi e più grandi li
profuse tra gli assassini dei loro padroni ; i quali chiesero perfino in moglie
le donne e le figlie de’ padroni medesimi. Quantunque però niente avesse in
principio curata la stirpe virile degli uccisi, alfine si accinse a sterminarla
tutta in un giorno, sia che per un qualche oracolo, sia che per computi
verisimili concludesse che perpetuava con questa a sestesso uno spavento non
piccolo. Ma perciocché vivamente nel distoglievano quelli presso a’, quali dimoravano i figli e le
madri, egli vo-lando concedere loro un tal dono, gli assolvè, sebbene contro
sua voglia, dalla morte. Per cautelarsi però da loro sicché congiurandosi non
.insorgessero contro il suo regno ; comandò che uscissero tutti dalla città chi
verso r uno e chi verso l’ altro luogo : e vivessero per le I Saidliti del tiraoDu alli quali egli stesso
le area mariiate campagne senza istruzione e coltura, propria di liberi
giovinetti, con pascer le greggi o con altri campestri esercizi, minacciando di
morte chiunque di loro in città fosse preso. Cosi quelli, abbandonati I patri
> sosteneansi come schiavi per le campagne, servendo agli uccisori medesimi
de’ padri loro. E perchè niente) pi& ci avesse di virile o di generoso
prese ad effeminare colle Istituzioni sue tutta la gioventù Cumana, togliendole
I ginnasi e gli esercizi militai, e variandone le maniere già consuete del
vivere. Volle che I giovani come le donzelle nudrisser la chioma, e bionda la
riducessero e ricciasserla, e ricciata di reti lievi la cii^ condassero ; e
portassero toghe talari e ricamate, e clamidi sottili e molli, vivendosi all’
ombra. Donne, educatrici loro, li accompagnavano, recando parasoli e ventagli
ai spettacoli di suono e danza e simiglianti musiche dissolutezze: ed esse li
lavavano, esse portavano ai bagni i pettini, e gli alabastri con gli unguenti,
e gli specchj. Con tal modo ammorbidiva i giovani fino ai venti anni,
concedendo allora che passasser tra gli uomini. Ma egli che avea cosi
vituperato e danneggiato i Cumani, egli che non avea risparmiato loro nè
impudenze, nè sevizie, egli alfine già vecchio, quando si credea sicuro nella
tirannide, Sterminato con tutti, i suoi, ne pagò le giustissime pene ai Numi ed
agli uomini. X. I prodi che insorgendo liberarono la patria dalla tirannia di
lui furono i figli de’ cittadini uccisi : quelli che egli avea risoluto in
principio di trucidare tutti in nn giorno, ma che poi risparmiò, come ho detto,
vinto dalle istanze de’ satelliti suoi, maritati da lui colle madri loro,
comandando che abitassero per le campagne. Pochi anni appresso viaggiando egli
pel contado e vedendoli già adulti e molti e floridi ; temè che non n
congiurassero ed assalisserlo : e macchinò di prevenirli ed ucciderli tutti
prima che niuno se ne avvedesse. Adunque consultandosene • cogli amici,
deliberava con essi le maniere sollecite e piane ma occultamente, onde
spegnerli. Sepperlo que’ giovinetti per indizio forse di alcuno che ne era
consapevole, e, forse mossi da con getture probabili, fuggironsi ai monti,
dando di piglio ai fèrri degli agricoltori. Corsero ben presto in ajuto loro i
fuorusciti Cumani rifugiati in Capua, tra’ quali erano i più cospicui, e
seguiti in gran parte dagli ospiti loro Campani, i figli d’ Ippomedonte, di
quello che nella guerra Tirrena avea comandato la cavalleria. Essi armati
recavano a’ compagni le armi con una truppa non picciola di amici e di
mercenarj della Campania. Alfine riunitisi scorrevano e turbavano predando i
campi nemici, ritoglievano gli schiavi dai padroni, ed ogni altro qualunque
dalle carceri, e gli armavano, e quanto, non poteano trasportare o menar seco
lo davano alle fiamme, o alla mòrte. Ansio dubitava il tiranno come avesse a
combatterli, perchè nè sapeasi quando impren derebbero, nè teneansi fermi
sempre in luoghi medesimi, ma regolavano le loro incursioni o colla notte fino
all’ aurora, o col giorno fino alla notte. Avendo più volte spedito milizie ma'
indarno a guardia delle cani pagne, a lui ne venne un tale degli esuli
malconcio di battiture, spedito ad arte da essi quasi un disertore. Costui
chiedendo la impunità promise al tiranno di guidare 1’ armata che manderebbe
con lui, nel luogo appunto ove quelli sarebbero nella notte imminente. Indotto
il tiranno a credergli perchè non chiedea verun premio, e porgea sestesso in
ostaggio, spedi li suoi duci più fidi, seguiti da molli cavalieri e da’
mercenari, con ordine di conduire a lui, legati almeno, i più, se non tutti
quegli esuli. Il disertore eh’ erasi a ciò posto menò tutta la notte 1’ armata
a disagi gravissimi per vie non trite e per boschi, in parti le più lontane
dalla città. Come i ribelli e l profughi posti per le insidie intorno all’
Averno, monte vicino alla città, conobbero pe’segnali dati dagli esploratori
che l’armata del tiranno era uscita, mandarono circa sessanta i più arditi di
loro che cinti da irte pelli portavano fi)sci di sarmehti. Or questi nell’ ora,
quando accendonsi i lumi, chi per l’ una e chi per 1’ altra parte entrarono,
quasi opera), la città senza essere conosciuti; ed entrali cavarono da’
sarmenti le spade che vi occultavano, e si raccolsero tulli ad un luogo. Donde
marciando in schiera alle porte che menano all’Averuo, ne uccisero i custodi
che dormivano, e spalancatele, v’ introdussero tutti i loro che v’ eran già
prossimi, nè per tanto il fatto ^ ravvisa vasi ancora. Scontravasi per sorte in
quella notte una pubblica festa, ond’ è che tutti oziavano per tutto in città
tra le bevande ed altri diletti. Or ciò diè loro gran sicurezza di trascorrere
tutte le vie che guidavano alla casa del tiranno : e nemineu qui trovando nelle
entrate molti, nè .vigilanti, ve gli uccisero senza stento, oppressi dal sonno
o dai vino : ed internatisi in folla trucidarono nell’ abitazione, quasi una
greggia, tutti gli altri, ornai pei vino non più arbitri de’ corpi nè degli
animi loro. Or qni preso Aristodemo, i figli, e tutti i parenti, e battutili
gran parte della notte, e torturatili, e devastatili con ogni male, gli
uccisero finalmente. Cosi sterminando dalle radici quella stirpe di tiranni
fino a non lasciarvi non fanciulli, non donne, non consanguineo ninno ; e
rintracciati tutta la notte tutti li cooperatori a fondar la tirannide ;
andarono, nato il giorno, nel F oro, e con Tocatovi il popolo, e depostevi le
arme, renderono la patria a scstessa. Or questo Aristodemo nel quartodecimo
anno della sua tirannide in Cuma, questo vulcano gii esuli compagni di
Tarquinio cbe giudicasse tra loro e la patria. Ripugnarono alcun tempo i
deputati de’ Romani, come quelli cbe nè erano a tal fine venuti, nè avevano dal
Senato i poteri per difendere ivi Roma. Non profittando però niente, anzi
vedendo quel despota propendere in contrario per le brighe, e per le istanze
degli esuli ; chiesero un tempo per le difese, e depositarono una somma per
garanzia di eseguirle essi stessi. Ma poi nel correre di questo tempo, quando
niuno più vegliava su loro, fuggirono, ritenendosi il tiranno gli schiavi, li
giumenti, e li danari che aveano portalo per comperare de’ viveri. Tali furono
gl’ incontri di queste legazioni, e così riuscì loro di tornarsene in patria
sebbene senza l’ intento. Ma la legazione spedita neU’Etruria comperatovi
miglio e farro lo trasportò su barche fluviali a Roma, e Roma ne fu nudrita
sebbene per poco ; fiocbè consumatili,
ricadde ne’ disagi medesimi. Non erari genere di alimenti a cui non si
rivolgesse. Dond’è che non pochi tra la scarsezza, e la inconve' nienza de’
cibi non soliti, s’ avean male nella persona, o diventavano a tutto impotenti,
non soccorsi nella pcvvertà. Come ciò seppero i Yolsci domati di fresco, s’
istigarono con vicendevoli occulti messaggi a riprender le armi, quasi fosse
impossibile che i Eomaui resistessero bersagliali dalla guerra e dalla fame. Ma
i numi propiz) che vegliavano perchè non rimanessero in preda a’ nemici, ne
dimostrarono allora più chiaramente la protezione. Di repente si mise
tra^Volsci una tal pestilenza, quanta non leggesi mai stata in Greche o barbare
terre, disfacendoli promiscuamente di ogni età, di ogni fortuna, di ogni
temperamento, validi o invalidi. Mostrò soprattutto gli eccessi del, male
Yelletri, città insigne, de’ Yolsci, e grande allora e popolosa. La peste
appena ne rispailniò la decima parte, investendovi e consumandovene le altre.
Ond’ è che i superstiti a tanto infortunio, mandati ambasciadori, e dichiarata
a' Romani la loro solitudine, sottomisero fa città. E siccome aveano prima
ricevuto de’ coloni da essi ; ne chiedeano di presente ancor altri. XIII.
Impietoùrono, sapendoli, ai loro mali i Romani ; nè pensarono che si avessero a
premere come nemici fra tanta sciagura, dacché pagavano agl’ Iddj le pene per
ciò che voleano fare su Roma. Piacque loro, di riammetter Yelletri, e spedirvi
numero non picciolo di coloni presagendone sommi vantaggi. Parea che il posto,
se presidiavasi acconciamente, sarebbe ostacolo grande e ritardo a chiunqae si
voleva rimescolare e sommoversi. E concepivasi che la penuria di Roma non poco
si scemerebbe se una parte notabile di popolo altrove si trasferisse.
Inducevali soprattutto a spedire una colonia la sedizione che vi si riproduceva,
non essendovi ancora sopita in tutto la prima. Imperocché il popolo discordava
un altra volta come per addietro, e ne odiava i Patrizj : e molta era 1’
amarezza dei discorsi co' quali accusavano la poca cura, e la scioperatezza di
essi perchè non aveano a tempo preveduta nè riparata la penuria futura, dicendo
alcuni perfino che ad arte aveano procurato la caresua per astio e desiderio di
affliggerne il popolo in memoria della ribellione. Per tali riguardi sollecitissima
fu la spedizione della colonia, de slinativi dal Senato tre condottieri. Da
principio udiva il popolo con diletto che trarrebbonsi a sorte i coloni, perchè
sarebbe cosi levato dalla fame, e perchè viverebbe in terra felice : ma poiché
rifletté che la peste ge aeratasi nella città che gli avrebbe a ricevere aveva
distrutto i suoi cittadini, e temè che in tal modo ancora maltratterebbe i
coloni, variò poco a poco di sentimento. Tantoché non molò, anzi meno assai che
il Senato ne permetteva, esibironsi per la colonia : e questi bentosto ne furon
pentiti come sconsigliati, e scansavano di uscire. Da tale vincolo erano
trattenuti questi e quanti altri non più si acconciavano ad andare. Ma
dertretato avendo il Senato che la colonia si ricavasse dal complesso di tutti
i Romani secondo le sorti, e stabilendo dure ed irreparabili pene per chi
ricusava ; alfine fu per tale necessità condotto il numero conveniente in
iVelle tri. Noo raoUi giorni appresso un’ altra colonia fu tra> sferita in
Norba, città non ignobile dei Latini -. XrV. Non però segui da ciò ninna delle
cose con~ gbietturate da’ patrizj secondo la speranza di spegnerele discordie.
Imperocché la plebe rimasta intrisi più ancora, vociferando con assai clamore
contro de’ padri nelle adunanze prima di pochi, indi di molti, per la fame
divenuta gravissima; e concorrendo al Foro volgeasi lamentosa ai tribuni suoi
perchè 1’ aiutassero. Or tenendo questi adunanza, fattosi innanzi Spurio Icilio
allora capo di essi perorò lungamente contro de’ padri aumentandone quanto potè
la malvolenza. Egli istigò pur altri a dire pubblicamente ciocché sentivano, e
principalmente Siccinio e Bruto allora edili, invitandoveli a nome, appunto
come capi già del popolo nella prima sedizione, ed inventori, anzi magistrati
la prima volta della podestà tribunizia. Presentatisi dissero anch’essi,
udendoli il popolo vogliosissimamente, malignissime cose già da molto tempo
premeditate, come se la carestia fosse procurata per malizia de’ ricchi, perchè
il popoloavea loro malgrado, ricuperata colla sedizione la libertà. Dissero che
i ricchi non aveano pur la miaima parte del disagio dei poveri : molta essere
la loro non curanza de’ mali, perchè aveano cibi occulti e danari onde
comperarli se introducevansi, laddove i plebei mancavano di ognuna di queste
due cose: protestarono che mandare i coloni a’ luoghi contagiosi, era un
avviarli a rovina visibile e funestissima, aggravando quanto più poteana A tempo di Plinio era nn ammasso di rovine.
Restava circa sei miglia lontana da Segni ameasogiomo. con parole il male.
Chiedeano qual sarebbe il fine a tante sciagure, e richiamavano loro in memoria
gli an> tichi Hagelli, ond’ erano stati malmenati da’ ricchi ; ag>
giungendo ancora iinpuuissimamenie cose consimili. Da ultimo Bruto la Gni
minacciando, dicendo cioè, che se secondavano, egli necessiterebbe quanto prima
a spegner r incendio quelli stessi che eccitato Taveano. E così r adunanza fu
sciolta. XV. Intimoriti i consoli su tali innovazioni, e solleciti che le
adulazioni di Bruto verso del popolo iiou terminassero in grandi sciagure,
intimarono nel prossimo giorno il Senato. Ivi si fecero discorsi molti e varj
da essi, come dagli altri seniori. Pensavano alcuni che si dovesse blaudire i
plebei con ogni dolcezza di parole e promessa di opere, e renderne i capi più
moderali con esporre lo stato delle cose, e convocarli e consultare insieme il
bene comune : io opposito altri consigliavano che non cedessero, uè si
abbassassero verso del popolo : essere la moltitudine, imperita, e caparbia :
insolente, incredibile 1’ ardore dei capi che 1’ adulano : facessero piuttosto
costare che non ci avea ne’ patrizj colpa ninna, c promettessero ovviare,
quanto potè vasi, al male. Redarguissero e miuacciassero di pene condegne i
sommovitori dei [K>polo, se nou si chetavano. .\ppio era il primo in tal
sentimento, e prevalse in mezzo alle grandi opposizioni de’ padri. Tanto che il
popolo turbalo all’ udirne tanto da lungi i clamori accorse alla curia, e tutta
la città fu sospesa nella espeltazione. Dopo ciò li consoli usciti adunarono il
popolo, restandovi breve DlOXlGi t Zumo 21.parte del giorno, e tentarono di
esporgli i voleri del Senato. Contraddissero i tribuni, nè già fu vicendevole
nè ordinato il colloquio. Gridavano, interrompevansi ; tanto che non era facile
agli astanti distinguere i loro pensieri, e ciò che volessero. Diceano i
consoli cb’essi come di autorità premineute doveano comandare in tutto alla
città ; laddove i tribuni replicavano che i consoli avean dritto in Senato, ma
su le adunanze del popolo i tribuni : questi aver tutto il potere su quanto si
dee discutere e sentenziare da’ voti del popolo. Prendea parte, vociferava per
essi la moltitudine, pronta ad assalire se bisognava, chiunque ostasse loro.
Altronde i patrizj acclamavano, e davan animo ai consoli, circondandoli.
Vivissima era la contesa per non cedere gli uni agli altri ; quasi allora
appunto si cedessero i diritti una volta per sempre. Già il sole era per
tramontare, e tuttavia concorrea dalle case nuovo popolo al Foro: e se la notte
non li troncava, forse i dissidj finivano a colpi, ancora di pietre. Bruto
perchè ciò non seguisse, fecesi innanzi, e chiese ai consoli di parlare ;
promettendo di sedare il tumulto. Concederono questi che parlasse, parendo loro
che si deferisse ai consoli mentre quel capipopolo ciò chiedeva da essi,
presenti i trihuui. Fatto silenzio, Bruto senza dir altro interrogò li consoli
di tal modo: Ki ricordale voi che lasciando noi le divisioni, ci accordavate
per^ diritto che quando i tribuni adunassero sotto qualunque fine il popolo, i
patrizj nè intervenissero all’ adunanza, nè la turbassero ? Ce ne ricordiamo,
disse Geganio. E Bruto ripigliò : qual male aveste voi dunqué da noi che c
impedite, nè permettete che i tribuni dicano ciocché vogliono? E Geganio
rispose: perchè non voi, ma noi consoli avevamo chiamato il popolo a
parlamento. Se fosse stalo invitalo da voi, non V impediremmo ; anzi nemmeno
curiosi ci brigheremmo in ciò che si tratta : ora essendo da noi convocalo, non
v' impediamo che Jdvelliale ; ma che noi ne siamo impediti, ciò non è giusto.
Allora Bruto, abbiamo vinto, disse, o popolo: concedesi a noi dagli awersarj
q> anlo chiedes’amo : ora desistete, chetatevi, ritiratevi : domani
promettevi dichiarare quanta forza V abbiale. E voi tribuni cedete ad essi di
presente nel Foro : non sempre già qui cederete qiumdo abbiate compreso ( e
presto lo comprenderete, io prometto chiarirvene ) il potere del vostro
magislialo. Abbasserete cotanta loro preminenza : e se troverete che io V abbia
deluso, fate ciocché vi piace di me. XVII. E uiuno più contraddicendo,
ritiravausi tutti dall’ adunanza : non però gli uni e gli altri con pari
divisaniento. Credeano i poveri che avesse Bruto ideato qualche nobile impresa,
e che non indarno la promet' lesse : ma i patrizj trascuravano la leggerezza di
lui, pensando che T audacia delle promesse non andasse più in lò delle parole;
non essendo conceduta dal Senato ai tribuni altra autorità che di proteggere il
popolo, se non facevasi ad esso ragione. Non però la cosa parca spregevole a
tutti, specialmente ai seniori, ma che dovesse attendersi che la manìa di un
tal uomo non generasse mali insanabili. Bruto la notte appresso svelato il
parer suo fra i tribuni, e raccolta una massa non tenue di popolo, ne andò di
conserva nel Foro : e prima clie si facesse di chiaro, occupato il tempio di
Vulcano donde eglino soleano concionare, invitarono il popolo a parlamento.
Empiutosi il Foro di un concorso, quale mai più V era stato, presentasi Icilio
il tribuno, e parlavi luughissimamente contro de’padri. Egli commemora quanto
han latto in danno del popolo, e come nel giorno addietro aveano impedito lui
fin di parlare contro i poteri ancora della sua dignità. E qui disse : e di che
altro tarem più padroni se noi siam di parlare ? Come potremo soccorrere voi se
ojffesi, quando ci si toglie la libertà di adunarvi ? Son le parole i preludj
delle operazioni : nè ignorasi che quelli che non possono dir ciocché pensano,
nemmen possono far ciocché vogliono. Pertanto o ripigliatevi, disse, la potestà
che ci deste, se non volete mantenercela inviolabile; o proibite con legge che
alcuno più ci si opponga. A tal dire provocavalo il popolo che egli stendesse
la legge : e siccome teneala già scritta, la lesse. £, dispensati i voti, fe’
che il popolo immantinente ne decidesse ; parendogli non esser questo un affare
da esitarne, o differirlo, perchè non avesse altri inciampi dai consoli. La
legge era questa : Concionando un tribuno al popolo, niuno aringhi in contrario,
nè interrompalo : e se alcwio contravvenga, dia mallevadori ai tribuni di
pagare, chiamatone in giudizio, la multa che gl imporranno : e non dandoli,
egli sia punito di morte, li beni di lui sien sacri, e tutte le controversie su
tali multe spettino al popolo. I tribuni confermata coi voli la legge dimisero
1’ adunanza : ed il popolo si ritì rò, tatto di bu on anirno, e pieno di
riconoscenza per Bruto, come per 1’ autore della legge. Dopo ciò li tribuni
ripugnavano ai consoli molto, e su molte cose : nè il popolo ratificava i
decreti del Senato, nè il Senato approvava decisione niuna della plebe. Cosi
teneansi contrapposti e sospetti. Non però r odio loro, come avviene in simili
turbolenze, procedette a danni irreparabili. Imperoccbè nè i poveri investirono
mai le case de’ ricchi ove concepivano che troverebhon de’ cibi riservali ; nè
mai si lanciarono su palesi merci per involarle : ma pazienti comperavano a
gran costo il poco, e sostcneansi di radici e di erbe se penuriavan di argento.
Nè mai li ricchi per dominare soli nella città violentarono colla forza
propria, o de’ clienti, (eh’ era pur molta) la classe indigente, esiliandone o
trucidandone ; ma conduceansi come padri savissimi inverso de’ figli, con cuore
sempre benevolo e premuroso tra le lor delinquenze. Or tale essendo lo stato di
Roma, le città vicine invitavano qual più volealo de’ Romani tt traslatarsi nel
seno di esse, allettandoli con dar loro la cittadinanza, ed altre propizie
speranze : ma le une invitavano mosse dai bei genj per benevolenza e pietà nei
mali altrui, le altre (ed eran le più !) per invidia della prosperità passata
della repubblica. E furono ben molli quei che partirono con tutte le famiglie,
e posero altrove il soggiorno : ma taluni di questi, riordinato lo stato,
ripatrìarono, e tal’ altri mai più. Or ciò vedendo i consoli parve loro, per
voler del Senato, che avesse a farsi una iscrizione di soldati, e porre in campo
un esercito. Prendeano occasione speciosa a tanto dall’ essere la campagna
tante volte danneggiata dalle scorrerie, e saccheggi de’ nemici ; calcolando
ancora i beni che nascerebbero dall’ inviare un esercito di là da’ confìni :
mentre quei che restavano avrebbero, come diminuiti, le vettovaglie in più
copia: e gli altri colle arme vivrebbero io siti più abbondanti a spese dell’
inimico, e la sedizion tacerebbe, almen quanto si tenesse in piedi l’armata.
Tanto più poi sembrava che resùiuirebbcsi la calma tra patrizj e plebei, quanto
che dovrebbei'o militare insieme, e partecipare i beni e i mali a fronte de’
pericoli. Non però la moltitudine ubbidiva, nè si presentava spontanea, come
altre volte, per essere iscritta. Non vollero i consoli foi^ zare secondo le
leggi i renitenti : ma alcuni patrizj s’iscrissero volontarj co' loro clienti,
congiungendosi ad essi che uscivano, anche picciola parte di popolo per
militare. Era duce di quest’ esercito quel Caio Marcio, il quale espugnò la
città de’ Coriolani, e riportò la corona dei forti nella pugna cogli Anziati.
Or vedendo lui per capitano, i più de’ plebei che aveano piglialo le anni vi si
confermarono, altri per benevolenza, altri per la speranza di esserne diretti a
buon fine. Imperocché famosissimo egli era quest’ uomo, e grantal esercito fino
ad Anzio ; impadronendosi di schiavi ^ e di bestiami in copia, senza dirne il
mollo grano che era ne’ campi ; tornandone indi a non molto ricchissimo fatto
di viveri : tanto che quei che s’ eran rimasti, eran mesti e dolenti verso de’
tribuni, pe’ quali sembravano privi di un tanto bene : cosi Geganio e Miuucio
consoli di queir anno trovatisi in tempeste varie e grandi, e più volte in
pericolo di rovinar la cilli, non operarono nulla con troppa efficacia : pur
salvarono la repubblica più savj che prosperi nell uso delle circostanze. XX.
Marco Minucio Augurino, ed Aulo Sempronio Atraiino eletti consoli dopo loro,
presero per la seconda volta quel grado. Non imperiti nell’arme, e nel dire,
empierono con assai provvidenza la città di grano e di ogni maniera di viveri,
come si ristringesse all’ abbondanza la concordia del popolo. Non però poterono
ottenere 1' uno e 1’ altro bene ; ma venne colla sazietà pur l’orgoglio in
quelli eh’ eran saziati. E quando meno pareva, allora fu su Roma il pericolo
maggiore che mai per addietro. I commìssarj spediti pe’ grani, comperatone
negli emporj entro terra o sul mare, lo aveano già trasportato a' pubblici
serbato)'. Quand’ ecco i negozianti pure di viveri ne condussero d’ ogn’
intorno in Roma : e Roma comperando a pubbliche spese i lor carichi, li
custodiva. Vennero i primi i commissarj spediti in Sicilia, Geganio e Valerio
con piene assai barche ; portavano in esse cinquanta mila moggia siciliane di
grano, metà procacciato a lievissimo costo, e metà regalato e mandato a spese
sue dal tiranno. Nunziatosi in città 1’ arrivo delle navi portatrici de’ grani
siciliani ; discussero i patrizj longamente come avesse a disporsene. I più
moderati e popolari fra loro, considerata la pubblica calamità, consigliavano
che il grano donato dal re si donasse ancora a tutti del popolo, e che 1’
altro Anni iti Roma 263 seconda Catone,
265 secondo Varone, e 469 avanti Cristo.
tìet.le Antichità’ hotmane comperato coll’ erario, si vendesse loro a
picciol mercato, ricordando clie per tali beneficenze principalmente si
ammansano gli onimi de’ poveri verso de’ ricchi. Per r opposito i più arroganti
fra loro, ed amici del comando dei pochi, sentenziavano che aveasi con tutto r
ardore e l’ ingegno a deprimere il popolo, ed eccitavano a non fargliene se non
carissima la vendita, perchè la necessità li rendesse per innanzi più savj e
più conformi alle leggi. Fra questi amici del comando de’ pochi era pur quel
Marcio, chiamato Coriolano, uè già dicea come gli altri in occulto e con
riguardo i proprj sentimenti, ma di proposito, e con ardore, sicché molti del
popolo lo udirono. Avea costui non che le cause comuni contro del popolo,
motivi privati e recenti onde parer di odiarlo meritamente. Cercando esso ne’
comizj ultimi il consolato, il popolo se. gli oppose, ad onta de’ padri che lo
sostenevano, nè permise che lo conseguisse ; perchè sospettava che un tal uomo
colla chiarezza ed ardire suo prendesse ad abbattere il tribunato ; e tanto più
ne temea che vedeva che tutti i patrizj aderivansi a lui, come a niun altro mai
per addietro. Inbammato costui dalla ingiuria, e macchinando riordinar la
repubblica su le antiche maniere, adoperavasi, come ho detto, palesemente,
incitandovi pur gli altri, aU’annientamento del popolo. Lui cingeva un seguito
di molti nobili e ricchissimi giovani, e per lui stavano molti clienti,
prosperatine già nella guerra. Esaltato da questi, andavano fastoso, e
minaccievole, e fra tutti chiarissimo; non però ne ebbe termine fortunato.
Adunatosi pe’ casi presenti il Senato e proponendo, com’ è costume, il proprio
parere prima li seniori, tra quali non molti con trariarono manifestamente la
plebe ; alfine ridottasi la disputa ai giovani, egli chiese da’ consoli il
poter dire ciocché voleva : e tra ’l favor grande, e la grande attenzione di
tutti cosi contro del popolo ragionò. Che U popolo non siasi ribellato per
necessitA e per disagi, ma sollevalo dalla rea speranza di abbattere il comando
de' pochi, e farsi egli stesso l’ arbitro del comune ; credo ornai che lo
abbiate o padri compreso voi tutti, considerando la incontentabilità sua nel
pacificarcisi. Non era il solo disegno suo di violare la fede de' contratti, e
di abolire le leggi che la garantivano, senza passare più oltre. Esso per
levare il magistrato de' consoli, ne fondava un altro nuovo, c lo rendeva
sacrosanto ed immune per legge, ed ora, e voi non vel conoscete, lo ha con un
plebiscito recente immedesimato al poter dei tiranni. E per certo, quando gC
incaricati di un tal magistrato col pretestare i bei titoli di proteggci'e i
plebei malmenati opereranno con esso e disporranno come a lor piace, quando
niuno, non uomo privato, non pubblico, potrà impedirne gli abusi per timor
della legge la qual toglie anche il dire non che il fare, minacciando la morte
a chi pur lascia fuggirsi una libera voce in contrario ; dite, e qual altro
nome dee mettere allora chi ha senno a tal magistrato se non quello di ciò che
è veramente, e che voi tutti confesserete, quello cioè di una tirannide ? Siasi
un solo che tirantt^ggia, siasi il popolo tutto, e qual divario ? quando uno
appunto è l’operar di ambedue? Era ottimissima cosa non lasciare mai che il
seme s’ introducesse di un simil potere y e soffrir prima tutto, come il
valorosissimo jéppio voleva, antivedendone da lauto tempo le ree conseguenze.
Ma giacché ciò non si fece, ora almeno sradichiamolo, gettiamolo dalla città
mentre è debole ancora, e facile da superarlo. Certo voi non siete, o padri
coscritti, nè i primi, nè i soli a’ quali tocchi ciò fare ; quando molti già
tante volte deviando dalle buone risoluzioni su di affari gravissimi ; e
ravvoltisi in necessità sconsigliate, tentarono estinguere il mal già cresciuto,
se impedito nel nascere non lo avcano. E quantunque la penitenza di chi lardi
fa senno sia da meno della previdenza ; tuttavia sott’ altro rispetto apparisce
non inferiore, rmnullando V errar già commesso coll’ impedir che si termini. Se
alcuni di voi han per gravi le operazioni del popolo, se pensano doversi lui
prevenire sicché più non esorbiti, ma vien loro la verecondia di parere i primi
a rompere i patti e li giuramenti; sappiano, che se fan ciò, saranno
incolpabili innanzi gl’ Iddj, e compiran la giustizia col? utile proprio ;
giacché non eomincian essi /’ oltraggio ma lo respingono, non tolgon essi i
patti, ma chi prima li tolse puniscono. E grandissimo argomento siavi che non
voi cominciate a rompere i patti, non voi l’alleanza, ma il popolo il quale non
più soffre le leggi colle quali ottenne il ritorno. Non chiese già egli i
tribuni per danneggiare il Senato ; ma per non essere danneggiato. Eppure or ne
usa non per ciò che lo dee^ nè per ciò che fu crealo, ma per turbare e
confondere lo stalo della repubblica. Ben vi ricorda dell ultima adunanza, e
delle cose dettevi dot tribuni, e quanta euroganza e quale disordine vi
dimostrassero. Ed ora, niente più savj, quanto fasto non menano al vedere, che
tutta la forza della città sta ne’ voti, e ne’ voti ci vincon essi, tanto
maggiori di numero ? Se dunque han essi incomincialo a frangere i patti e le
leggi; che dobbiamo noi fare se non rispinger la ingiuria p se non ripigliarci
giustamente ciocché ingiustamente ci han tolto ? e frena' tante lor pretensioni
ognora più grandi? e ringraziare gl Iddj che non han permesso che essi coll
acquisto del primo potere divenissero savj per t avvenire ; ma gli han ridotti
a tal vituperio e briga per la quale voi di necessità tentaste ricuperare il
perduto, e custodir ciocché resta, come si dee? Se volete riavervi; non altra
occasione mai fia così buona, quanto la presente. Ora la più parte di essi è
vinta dalla fame, e /’ altra non potrà resistere lungamente per l indigenza, se
abbia i viveri scarsi e cari. Li più rei, quelli non mai propensi al comando
de’ pochi, ridurransi a lasciarci, ma gli altri più miti diverranno ancora più
docili, nè mai più vi turberanno. Custodite dunque, non iscemate di prezzo i
viveri, e fate che vendansi il più caro che mai. Voi ne avete oneste occasioni,
e pretesti lodevoli nella ingratitudine di un popolo che mormora, quasi abbiate
voi prodotta la carestia, nata dalla ribellione loro, e dal guasto che diedero
alle campagne, levandone e trasportandone ciocché vollero come da terre
nemiclie, e nelle spese dell’ erario per la spedizione de’ commissarj in cerca
di viveri, e nelle tante altre ingiurie, onde foste oltraggiali. Conoscansi fin
da ora quali sono i mali co’ quali ci afliggeranno, se non facciamo tutto a
piacere del popolo, come i capi loro dicono per atterrirci. Se vi lasciate
fuggir di mano questa occasione ; ne sospirerete le mille volte una simile. E
se il popolo sappia una volta che voi macchinavate di abbattere tanta sua forza,
ma ne desi-, steste ; tanto più vi si renderà gravoso, tenendovi nei vostri
voleri come nemici, e come impotenti ne’vostri timori. Si divisero a tal dire
di Marcio i pareri, e molto si romoreggiò nel Senato. Imperocché quelli che da
principio contrariavan la plebe, e ne ammisero malgrado loro la pace, tra quali
erano i giovani, quasi tutti, e li più ricchi e più riguardevoli de’ seniori ;
esasperandosi della impudenza di essa, encomiavan quest’ uomo come generoso,
come amico della patria, e che parlava il ben del comune. Ma quelli che
propendeano, come prima, verso del popolo, nè stimavano le ricchezze oltre il
dovere, nè credevano cosa alcuna necessaria quanto la pace, eransi corucciati a
tal dire, non che vi aderissero. Volevano che si vincessero i poveri colle
dolci, non colla violenza : essere la dolcezza una cosa non solo conveniente ma
necessaria ; principalmente per la benevolenza verso de’ eittadini : e
chiamavano que’suoi consigli non libertà di detti, e di opere ; ma delirj :
nondimeno questo partito, come picciolo e debole, era sopraffatto dall’ altro
più forte. Oi! dò vedendo i tribuni ( eran questi presenti, invitati in Sonato
da’ consoli ) gridarono e fremerono, chiamando Marcio peste e rovina della
città ; come lui cbe usciva in discorsi si rei contro del popolo. E se i
patrizj non lo frenavano coll’ esilio o con la morte, mentre svegliava in Roma
una guerra civile, essi, diceano, che lo punirebbero. Or qui nato un tumulto
ancora più vivo pei discorsi dei tribuni, principalmente dal cauto dei giovani
cbe mal sopportavano quelle minacce ; Marcio animatone parlò più veemente
ancora e più risoluto. Io, diceva, io se voi non la finite di far qui
turbolenza, e di sommovere i poveri; io da ora innanzi mi farò cantra voi non
colle parole, ma colle opere. Or qui riscaldatosi più ancora il Senato, i
tribuni vedendo che più erano quelli che volevano richiamare, che serbare i
poteri conceduti alla plebe, fuggirono dal Senato gridando, e protestando gl’
Iddj, vin non fate voi parer vere le calunnie che di voi si spar^ gono ? e che
savj sono pel pubblico, quanti consigliano che non pià crescer si lasci questa
vostra potenza violatrice delle leggi ? A me così par certamente. Afa se
vorrete far cose, contrarie a quelle delle quali vi accusano, moderatevi, ve ne
consiglio : ricevete a cor placido, e non con ira, i discorsi dai quali siete
investiti. F’oi se così fate, ne parrete uomini dabbene, e coloro che vi odiano,
ne saran/w pentiti. Avendovi cojè noi fatto ragione amplissima come pensiamo,
non siate, ve n esortiamo, indegni di voi. Folendovi noi implacidire non
esasperare ; miti, umane furono le opere colle quali vi abbiamo trottato : io
dico, per tacere le antiche, quelle fattevi di recente pel vostro ritorno.
Certamente sarebbe pur giusto che voi vi ricordaste di queste ; mentre noi
vorremmo dimenticarcene. Tuttavia la necessità ci stringe a ricordarvele per
chiedervi in contraccambio di tanti e grandi benefizj che noi già concedevamo
alle istanze vostre, che nè si uccida, nè bandiscasi Un uomo amantissimo della
patria, e nobilissimo infra tutti nella guerra. Non poca sarebbe la perdita,
voi lo vedete, se Roma fosse privata di tanta virtà. Egli è giusto che
mitighiate lo sdegno verso lui, risgiiardando almeno quanti ne salvò di voi
nella guerra, e ripetendone le belle sue gesta, non perseguitandone lé vane
parole. Niente vi hanno i detti nociuto di lui, ma moltissimo i fatti vi
giovarvno. ' Che se pur siete inflessibili in suo riguarda, donatelo almeno a
noi, donatelo al Senato che vel chiede : rendete una volta la stabile calma, e
la sua unità primitiva alla patria. E se voi non vi piegherete alle nostre
persuasive ; riflettete che neppur noi cederemo alle vostre violenze. Così il
popolo messone a prova o sarà cagione a tutti di amicizia sincera e di beni
maggiori; o nuovo principio di una guerra civile, e di gravissimi mali. I
tribaoi, avendo Minuzio cosi perorato, consideratane la moderazion del dire, e
come la plebe mossa dalia dolcezza delle sue promesse, ne furono sdegnati e
dolenti, e soprattutti Cajo Sicinio Belluto, quegli che avea suscitato i poveri
a ribellarsi da’ patrizj ed erane stato nominato capitano, 6nchè fìiron su
Tarmi. Nemicissimo degli ottimati, era perciò stato portato a grande chiarezza
da’ cittadini. Ora creato per la seconda volta tribuno giudicava che a ninno
giovasse men che a lui che la città fosse appieno concorde, e ripigliasse la
forma antica. Imperocché vedeva che se governavano gli ottimati, egli nato e
cresciuto ignobile, senza luce alcuna d’ imprese in pace o in guerra, non
avrebbe più gli onori, nè la influenza medesima ; anzi che correrebbe pericoli
estremi, come sommovitore dei popolo, ed autore di tanti suoi mali. Fissato
adunque ciocché avrebbe a dire e fare, e consultatosene co’ tribuni compagni,
poiché li ebbe unanimi, sorse, e lamentata brevemente la disgrazia del popolo,
lodò li consoli perchè degnati si fossero di rendere ragione ai plebei, senza
spregiarne la loro bassezza : e d'sse che rìngraziava i patrizj ancora, perchè
nasceva finaluaente in' essi la cura della salate de' poveri ; e che molto più
egli ciò contesterebbe 'a nome di tutti i colleghi, quando darebbero pur le
operc> simili ai hitti. Cosi proemiando, e parendone anzi sedato, e propenso
alla pace, si volse a Marcio presente ai consoli V e disse i E tu o valentuomo
niente ti difendi coi tuoi cittadini su quanto hai detto in Senato ? Chè non
supplichi piuttosto, e ne plachi lo sdegno, sic’ chò miti sieno nel
sentenziartene ? Già non 'vorrei che tu negassi un tale tuo fallo, avendolo
tarili ve ; nè che, tu Marcio, tu pià altero in cor tuo che un privato, ti
volgessi ad invereconde difese. Sarà parato non indegno ai consoli ed ai
patrizj di aringare essi in tuo bene, nè parrà per te degno che tu lo facci su
te stesso? Or cosi parlava -costui ; ben conoscendo che quel generoso non
soffrirebbe mai di essere T accusator di sestesso, e chiedere come colpevole la
esenzion della pena, nè mai contro l’ indole sua ricorrerebbe alle umiliazioni
ed alle suppliche: ma che o ricuserebbe fare ogni difesa ; o facendola coll’
innato ardimento suo, niente tempererebbe nè il popolo, nè il dire. E cosi fu ;
perchè taciutisi, e presi i plebei, quasi tutti, da bel desiderio di liberarlo,
purchéegli ne &vorisse la occasione, manifestò tanta insolenza e dispregio
per essi ; che nè, presentatosi, negò le parole da lui dette in Senato, nè come
pentitone, si diede ad impietosirli e placarli: ma fin sul principio non li
volle, come privi di autorità competente per giudici di cosa ninna, pronto per
altro a sottomettersi, com era la legge,
al tribunolc de’ consoli, se alcuno volesse ac> cusarvelo, e cbiederoe
soddisfazione pe’deui, o per le, opere. Diceva eh’ egli era, colà venuto,
giacché vel chiamarono, parte per riprendere le loro prevaricazioni, e la
incoutentabiUlà j manifeslala aemprepiù nella separazione y e dopo il riiomo ;
e parte per consigliarli, per fiammata, soffiandovi, 1’ ira del popolo,
concluse l’ao cosa, che il tribunato ne sentenziava la morte, per r oltraggio
fìtto agli edili, che egli percosse e respinse, mentre per ordin suo lo
arrestavano il di precedente: non finire che su chi gC incarica, gli oltraggi
de’ ministri, E così dicendo ordinò che portassero Marcio al l’altura che
sovrasta sul Foro. È questa un dirupo ro> vinoso e vasto donde solcano
precipitare i rei condan nati alla morte. Corsero gli edili per prenderlo: ma
dato un altissimo strido, si levarono conira loro in folla i patrizj, e quindi
contro de’ patrizj il popolo : e molto era in arabe le parti il disordine,
molto lo in giuriarsi. Io spingersi, Tassalirsi. Se non che gli autori di un
tanto moto furouo rattenuti e necessitati a moderarsi dai consoli i quali,
cacciatisi in mezzo, coman darono ai littori di rimover la turba. Tanta era
allora negli uomini la riverenza per quel magistrato, e tanto il pregio deir
autorità suprema ! Intanto Sicinio non piò saldo, ma perturbato, e timoroso di
ridurre i partiti a respingere forza con forza, non volendo lasciare, nè
potendo continuare la impresa una volta tentata, era pensierosissimo su >ciò
che fosse da fare. Or lui vedendo in tanti dubbj Lucio Gin nio Bruto, quel
capipopolo che ideò le condizioni della concordia, uomo acuto specialmente in
trovare, ove mancano, gli espedienti, venne, e solo con solo, suggerì che non
si ostinasse in una disputa ardente, nè legittima : mirasse tutti i patrizj
irritati, e tutti pronti alle armi se vi fossero invitati dai consoli, ma
dubbiosa la parte migliore del popolo, nè ben animata a permettere senza previo
giudizio la morte dell' uomo più. insigne di Roma : cedesse per allora, egli
così consigliava; badasse a non combattere i consoli per non eccitare mali
manieri : piuttosto indicesse a un tal uomo, fissandone un tempo qualunque, di
perorar la sua causa, i cittadini votassero per tribù su lui: e ciò sen facesse
che la pluralità de’ voti dichiarerebbe. Non competere che ai tiranni la
violenza che ora minacciavasi, facendosi il tribuno accusatore in un tempo e
giudice ed arbitro della pena : ma in una repubblica doversi agli accusati le
difese come voglion le leggi, ed il gastigo secondo il voto dei più. Cedette
Sicioio a tale consiglio non trovandone altri migliori, e fattosi innanzi disse
: Foi vedete o plebei V entusiasmo de’ patrizj per la violenza e le stragi :
vedete come tengon voi tutti da meno che un solo caparbio che oltra^a una
intera repubblica. Non conviene che noi li somigliamo e corriamo alla nostra rovina,
cominciando o respingendo una guerra. Ma perciocché alcuni di loto allegano,
come onorevol pretesto, la legge la qual non permette che uccidasi un cittadino
' senza previo giudizio, ed allegandola ci tolgono d infliger le pene ; diasi
pur luogo alla legge ; quantunque ne’ nostri disagi abbiamo noi mai sofferto nè
cose giuste, nè secondo le leggi da essi. Dimostriamoci anzi probi colle
clementi maniere, che del numero de’ vostri of Linno VII. 36 1 Jénsori colla
violenza. Ritiratevi ; aspettate, nè già sarà molto, il tempo avvenire. Noi
preparando in^ tanto le cose che importano, fisseremo a codest’ uomo un tempo
perchè si difenda, e non eseguiremo se non la vostra sentenza. Quando v' avrete
in mano i suffragi secondo la legge, votatene allora la pena che merita. E ciò
basti su questo proposito : Che poi giustissima facciasi la compra e la
distribuzione dèi grani, noi vi provvederemo, se questi (\) ed il Senato non vi
provvedono. E ciò detto disciolse i' adunanza. Dopo questo evento i consoli
convocando il Senato considerarono posatamente come dar fine alla discordia
presente. Sembrò loro primieramente che dovessero cattivarsi il popolo con
vendergli i viveri a picciolo e fàcil mercato, e poi persuadere i lor capi a
chetarsi in grazia dei Senato, nè astringere più Marcio al giudizio, e
temporeggiare in fine lunghissimamente, se non lasciassero persuadersi, finché
l’ ira del popolo si diminnissc. Ciò decretato portarono e proclamarono al
popolo tra pubblici applausi l’ editto su i viveri cosi concepito che :
sarebbero i prezzi de' generi necessari al vitto quotidiano, tenuissimi come
innanzi la sedizione. Poi col molto insistere presso de’ tribuni ebbero per
Marcio dilazion quanta vollero, se non piena assoluzione. Anzi essi stessi gli
procacciarono altro indugio, valendosi di questa occasione. Gli anziati,
spedita una banda di pirati, aveano predato non lu ngi dal lido, I CoDsvii.mentre tornavano in casa, le navi e
i deputati del re di Sicilia, che aveano recalo i grani in dono ai Romani, e
volgendone ogni cosa come di nemici ad olile, ne teneano in carcere le persone.
I consoli, ciò saputo, spedirono agli Anziati : ma non potendone per
ambasciadori ottener la giustizia, decisero marciare colle armi su loro.
Adunque fatto il ruolo di tutti gl’iegli ninna delle cose ordinate dalle leggi
su de’ giudizj. Pareva ai consoli, deliberatisi col Senato, che non fosse da
permettere che il popolo s’ impadronisse di un tanto potere. Or si diè loro un
titolo giusto e legittimo d’impedirneli ; e credeano, usandolo, di renderne
vani lutti i disegni ; tanto che invitarono a colloquio tutti i capi del
popolo. Congregitisi cou quanti erauo gli opportuni per essi, Minucio disse :
Tribuni, ci è piaciuto decretare che bandiscasi la sedizione da Jloma con tutte
le forze, nè più nudrasi contesa ninna col popqlo ; vedendo voi principalmente
che tornavate dalla violenza alla giustizia ed alla ragione. Or noi lodando voi
di questo proposito, abbiamo reputato che il Senato, come è patria usanza, vi
precedesse co’ suoi decreti. E potete contestare voi stessi che dalP ora che i
nosU'i avi fondarono Roma, il Senato che la ebbe, ritenne sempre questa
precedenza : e che il popolo senza la previa risoluzione idi lui mai nò giudicò,
nè votò non solo in questi tempi, ma nemmeno in quelli dei re. Tanto che li re
non rimettevano al popolo, se non le cose decise in Senato, e così le
confermavano. Non vogliate dunque levarci questo diritto, nè abolire tal bella
istituzione primitiva. Preanvmonile il Senato, se avete il bisogtto di cose
moderate e giuste, e quello che il Senato ne avrà giudicato, quello notificate
al popolo, e ne decida. Cosi discorrendola i consoli, Sicinio mal sopportavali,
nò volea render aibitro di cosa ninna il Senato. Ma gli altri, eguali a lui di
potere, seguendo i suggerimenti di Lucio
consentirono che si facesse questo previo decreto. Imperoccbé ancor essi
avevano Lucio Bruto: forte come pensa il Ccleoio, dee leggersi Decia in luogo
di Imcìo, .Certamente in questi affari elibe parte anche Deciò nominato prima e
poi da Dionigi: vedi I. fi, § 8S. Bruto aveva, tt vero il pronome di Lucio ; Ma
Dion'gi nou lo ha mai contratte guato ancora col solo pronome. r)ELLr antichità’ romane falla ( nè i consoli
la esclusero ) la istanza ragionevole ; Che il Senato desse la parola anche ai
tribuni, che sono i procuratori del popolo, come agli altri che volevano
aringare favorendo, o contrariando; e che infine, dopo udite le discussioni di
tutti, -allóra ciascun padre porgesse il suo voto, premesso il giuramento
legittimo, come ne’ giudizj, e dichiarasse ciocché gli paresse il giusto e V
utile della repubblica : e quello si tenesse per valido che i più.
preferissero. Concedendo i tribuni che si decretasse come i consoli dimandavano
; si divisero. Raccoltisi nel giorno appresso i padri in Senato, i consoli vi
esposero le convenzioni: e quindi chiamando i tribuni gl’ invitarono a dire le
cause per le quali venivano. £ qui fattosi innanzi Lucio, colui che avea
condisceso che si facesse il previo decreto, disse : Potete ravvisare o padri
ciocché sia per succedere, vuol dire che noi saremo accusati appresso il popolo
dell’ essere qui venuti, e che V accusatore sarà quel nostro collega, per quel
previo decreto che V abbiam conceduto. Pensava costui che -non dovessimo noi
chiedere da voi quello che ci attribuiscon le leggi, nè prendere per benefizio
quanto avevamo per diritto. Chiamali in giudizio correremo in rischio non tenue,
che condannati, abbiamo a soffrire bruttissimamente come chi diserta, e
tradisce. Ma quantunque ciò sapessimo ; noi siamo qui venuti, superiori a noi
stessi j confidando su la rettitudine della causa, e mirando ai giuramenti
secondo i quali voi do' 'vete dirigere le vostre sentenze. Noi tenui siamo, e
disacconci pià assai che non conviene, a parlar di tali cose, che piccole
certamente non sono. Porgeteci non pertanto udienza y e se queste vi parranno
giuste ed utili, e vi a^iungo, necessarie ancora pel conw ne, vogliate
spontaneamente concedercele. Primieramente dirò sul diritto. Quando o senatori
cacciaste i monarchi avendo noi compagni nelr opera, e fondaste il governo nel
quale ora siamo, ed il quale noi non riproviamo, voi vedendo i plebei aggravati
ne’ giudizj se mai li facevano ( e molti scn facevano ) co’ patrizj, emanaste
per suggerimento di Publio Valerio consolo una le^e per la quale permettevasi a
tutti i plebei sowerchiati da quelli di appellare al popolo : e per niun altra,
quanto per questa legge, procacciaste la concordia di Soma, e respingeste i re
che vi tornavano in seno. Jn forza di questa l^ge citiamo codesto Caio Marcio
dinanzi al popolo, e gli prescriviamo che risponda su cose nelle quali tutti ci
diciamo da lui sowerchiati ed offesi. Nè su questo abbisognavi previo decreto
del Senato. Imperocché voi siete gli arbitri di deliberare i primi, ed il
popolo di confermare co’ voti quello su cui le le^i non pollano ; ma dove ci
han le leggi, sono immobili, e debbono osservarsi, quantunque niente ora voi,
perchè si osservino, decretaste. Già non dirà ninno che in caso di aggravio ne’
giudizj un privato appelli validamente al popolo, nè validamente v’ appellino i
tribuni. E forti per tale concession della legge, veniamo qui, non senza
pericolo, ad esser sotto voi giudici. Pel diritto della natura, diritto che non
è scritto, nè introdotto come le altra leggi, noi vogliamo che il popolo non
sia nè da pià nè da meno di voi : mentre con questo diritto ha con voi
sostenute molte e grandissime guerre, e mostrato ardore vivissimo per compierle,
contribuendo non poco perchè Roma le desse, non ricevesse da alwi le leggi. Or
voi farete che noi non siamo da meno che voi se frenerete col terror di un
giudizio chiunque attenta contro le nostre persone e la libertà. Pensiamo che i
magistrati, le precedenze, gli onori debbansi compartire ai primi e pià
virtuosi tra voi : ma pensiamo pure ben giusto che essendo tutti sotto un
governo, tutti dobbiamo ugualmente e senza riserva o non essere offesi ^ o
riceverne pari soddisfazione. Come dunque a voi concediamo que’ gradi sublimi e
luminosi, così non vogliamo esser privi dei diritti eguali e comuni. Ma sebbene
potrebbero aggiungersi le mille cose, bastino le dette fin qui sul diritto. Or
quanto sian utili queste cose, quanto il popolo le apprezzi se faccianst,
lasciate che io brevemente ve lo esponga. Su dunque : se alcuno vi dimandi qual
pensiate il pià grande de’ mali, quale la cagioH pià pìonta della roiàna delle
città ; non di~ reste che sia questa la dissensione? certo che sì. Or chi è si
stolido, chi sì fatto a rovescio, chi sì
ne“ mico della eguaglianza, il qual non veda, che se concedasi al popola di
giudicare le cause che gli spettano, avrem la concordia ; ma se gli si neghi,
leverete a noi per fino la libertà ( chè la libertà si toglie, a chi le leggi
si tolgono e li giudizj ), e ci ridurrete ad insorgere nuovamente, e
combattervi ? Certo che nelle città dalle quali si escludono i giudizj e le
leggi, la discordia soUentra e la guerra. Chi non si è trovato in guerre civili
non è meraviglia che per la inesperienza non senta ribrezzo de mah antecedenti,
nò precluda i futuri. Ma quelli, che caduti come voi tra pericoli estremi,
felicemente se ne liberarono, sgombrando i mali come permetlevasi dalle
circostanze ; quelli, io dico, se vi ricadono, qual mai scusa aver possono
sufficiente e decorosa ? Chi non condannerebbe la stoltezza e delirio vostro
grandissimo, considerando che voi li quali per non avere la plebe discorde vi
piegaste, non ha gìiari t a tante concessioni, forse non tutte convenevoli ed
utili, ora vogliate in discordia tornarvela, tutto che non siate offesi negli
averi, nelf onore, o in altre pubbliche cose, e solo per favorir chi la odia ?
Se non che voi ciò non farete se savj. Con piacere io V interrogherei quali
concetti erano i vostri quando ci concedevate il ritorno colle condizioni che
chietlevamo. Ne apprendevate voi forse ragionando un bene ? o fu necessità che
vi ridusse a cedere ? Se ne apprendevate il bene di Roma, e perchè ora non vi
ci attenete ? se fu necessità, se impossibilità di essere diversamente, or che
vi dolete del fatto ? Bisognava, se pur tanto potevate, non cedere forse da
principio ; ma ceduto avendo una volta, non dovete più rimproverarvene. A me
sembra o padri che voi seguiste il vostro migliore nel paci/icarvici : ma se fu
necessità di scendere a condizioni; ella è pure necessità mantenercele. Voi gV
Iddj chiamaste vindici degli accordi, imprecando molte e terribili pene a
chiunque li violava di voi o de nipoti in perpetuo. Ora io non Pedo perchè
dobbiamo tediare pih a lungo voi che tanto bene il sapete, con dire che giuste
ed utili sono le nostre dimande, e molta la necessità che vi astringe a
corrisponderle, se memori siete de Muramenti. Voi capite, o piuttosto ( giacché
io non dico cosa che voi non sappiate ) voi tenete presente che rileva per noi
non poco il non desistere dalla impresa per violenza o per inganno, e che un
fortissimo stimolo ci ha qui condotti, offesi gravemente, e pià che gravemente,
da quest’ uomo. Date dunque su quanto ho detto il vostro voto, ma, dandolo,
considerate qual sarebbe il vostro animo verso quel plebeo, se alcuno pur ve ne
fosse, il quale tentasse dire o fare centra voi nelle adunanze, ciò che qui
codesto Marcio ha pur tentato di dire. Le convenzioni della pace sacrosante al
Senato, quelle che munite più -che con vincoli adamantini j ninno di voi, per
averle giureUe, nè de’ vostri discendenti può sciogliere, finché Roma fia Roma
; quelle ha il primo codesto Marcio tentato di rovesciarle, non essendo nemmen
quattro anni che si conclusero, e tentato ha di rovesciarle non col silenzio,
non da oscurissimo luogo, ma qui, pubblicissimamente, al cospetto di voi
tutti', sentenziando, che non dovea più lasciarsi, ma ritogliersi a noi la
podestà tribunizia, che è la primaria ed unica difesa della libertà, e col
mezzo della quale potemmo ri^ congiungersi. Nè qui C ardinsento finì del suo
dire, ina vi consigliava a ritorcela ; divulgando come una ingiuria la libertà
dei poveri, e tirannide nominando r uguaglianza. Risovvengavi ( era questa la
più infame delle istanze sue ) com’ egli disse allora, che era pur venuto il
tempo di ricordar tutte le ingiurie del popolo nella prima discordia, e come
esortava quindi a mantenere la stessa penuria di viveri, giacché il popolo,
logoro dai disagf diuturni si ridurrebbe a cedere in tutto ai patrizj. Non
resisterebbero i poveri gran tempo comperando a carissimo prezzo cibi scar-^
sissimi ma parte se ne andrebbero lasciando la cUtà, e parte rimanendovi,
perirebbero infelicissimamerUe, E così delirava, così era in ira ogF Iddj ciò
persua~ dandovi; che non discerneva che oltre i tanti mali co quali
travagliavasi per annientare i trattati del Senato, quando avrebbe ridotto i
poveri i quali eran pur tanti, alle angustie de viveri, questi poveri appunto
farebbonsi addosso agli autori delle angustie, non più tenendoli per amici.
Tanto che se voi pur delirando approvavate il suo parere; non restava più mezzo
: ma ne andava la rovina intera del popolo, o de patrizj. Imperocché non ci
saremmo già dati quasi schiavi a spatriare o morire : ma chiamando i genj ed i
numi in testimonio de' mòli che soffrivamo ; avremmo riempiute, ben lo
intendete, le piazze, e le vie di ukdergogne ; sin che tu abbi un altra difesa
qua^ Itlnque; scendi da quel tuo enlusiatmo orgoglioso e tirannico, toma, o sciaurato,
ai concetti del popolo : renditi simile agli altri', prendi come chi ha peccato
e raccomandasi, un abito dismesso, addolorcvole
conforme ai disastri, e cerca il tuo scampo ; umiliandoti, non
insolentendo dinanzi gli oltraggiali da te. Sianti esempio di bella
moderazione^ le opere, le quali se tu avessi ùnitalo, non saresti ora ripreso
dai tuoi cittadini, io dico, quelle di tanti buoni, quanti qui ne vedi,
segnalati per tante virtù militari e civili, quante non sarebbe facile nemmeno
in grati tempo pen.orrere. Li quali quantunque grandi e risspettabili ; niente
mai fecero di duro, niente di or^ goglioso contro noi si tenui e bassi, e primi
intromiìsero discorsi di pace, primi la pace offerirono, quando la sorte ci
avea separati, e concedcron la pace non su le condizioni che essi riputavan
migliori, ma su quelle che noi chiedevamo ; dandosi infine premura grandissima
di levcu'e i disgusti recenti su la dispenstt de' grani per la quale noi gli accusavamo.
Ma tralasciando le altre cose, quali ptcghiere non fecero per te, nel tuo
superno accecamento, presso tutti, e presso ciascuno del popolo per involarti
alla pena? Appresso i consoli ed il Settato, i> quali invigilano su questa,
tanto grande città, crederon bene che al giudizio ti sottomettessi del pòpolo,
nè tu o Marcio a bene lo tieni ? Questi tutti non han per un biasimo il pregare
per tuo scampo il popolo, e tu per biasimo tei prenderai? JVè ciò li bastava, o
magnanimo ; ma quasi fatta una belV o pera, ne vai con fronte altera e
magmfìcandoti, e niente adoperandoti a mansuefarli? per non dire che insulti,
che rimproveri, che minacci la plebe. E pretendendo lui quanto niuno di voi ;
non vi sdegnerete, o Padri, a tanto orgoglio ? Se voi tutti risolveste di
accingervi ad una guerra per esso ; egli dovrebbe amarvene, e tenersi tutto
pronto per voi, non accettar però mai un tal bene privato col danno comune, ma
sottomettersi alle difese, alla sentenza, a tutte infine le pene, se
bisognasse. Questosarebbe l’ obbligo di un vero cittadino, di uno che vuole il
bene colle opere, non colle parole. Ma le violenze presenti qual ne additano
mai C indole sua, quale la inclinazione ? quella appunto di violare i
giuramenti, di tradire la fede, di rescinder gli accordi, di far guerra al
popolo, di oltraggiare le persone dei magistrati, di non sottometter la propria
per niuna mai di queste cause, e di girarsela franchissimamente, non come un
eguale di tanti cittadini, ma come uno che niun teme, e di niuno abbisogna,
immunissimo in tutto da tribunali e discolpe. Or non è questo un vivere alla
tirannica? certo che jì / Eppure a conforto di quest’ uomo spargono aure lievi
e suoni dolci, alcuni tra voi che pieni di odio implacabile verso del popolo
non san vedere che questo male si termina anzi contro de’ nobili che degl’
ignobili, e credonsi affatto sicuri, sol che deprimano il partito che è loro
contrario per natura. Ma non così sta il vero, ingannati che siete. Prendete a
maestra la esperienza che Marcio stesso vi somministra, prendetene il corso dei
tempi: illuminatevi per gli esempj stranieri insieme e domestici.^ e ravvisale,
che la tirannia la qual nudtesi contro i plebei, contro tutta la città si
alimene ta: e che la tirannia che ora contea noi s’ incornine eia,
fortificatasi, contea tutti ruggirà. Ragionate queste cose da Oecio, e supplite
da’ triboni compagni quelle che mancar vi sembravano, quando il Senato nè dovè
sentenziare, levaronsi i primi in piedi i seniori tra gii uomini consolari,
inviati secondo r ordjne consueto dai consoli, e quindi via via gli altri men
riguardevoli per queste qualità : seguirono ultimi i giovani, ma non disser
parola ; perocché ci avea di que’ giorni ancora tra’ Romani la verecondia, che
niun giovane si arrogava saperne più degli anziani. Pertanto accostaronsi essi
alle sentenze de’consolarì. Erasi preordinato che i senatori presenti
giurassero prima, come ne’ tribunali, e poi dessero il voto. Appio Claudio il
patrizio, come ho detto, più acerbo col popolo, e che mai non aveva approvato
che si concordasse con esso, mal soffriva che ora si facesse un pari decreto, e
disse : Avi'ei veramente voluto, e più voltf ne ho supplicato i numi, essermi
sbagliato io circa il sentimento su la pace col popolo, vede a dire che il
ritorno de’ fi frusciti non era nè giusto, nè decoroso, nè utile; tanto che
quante volte sen prese a trattare^ tante io primo ed ultimo mi vi opposi, anche
abbona donalo da tutti. Anzi avrei voluto o padri, che voi li quali per le
speranze concepute del meglio, cora- (UscendesCe ed popolo sul giusto e su t
ingiusto, He compariste ora più savi di me. Hiuscitevi però le cose, non come
io desiderava, anche pregando_ne i numi, ma come io prevedeva, e cangialevisi
le beneficente in vilipendio ed odio ; io lascerò, come estraneo a ciò che dee
farsi, di riprendervi e di contristarvi in vano per le vostre mancanze,
quantunque sarebbe pur facile, ed è pur questo f uso dei più. Dirò piuttosto
ciò che può rettificare le cose passate, quelle almeno che non sono in tutto
insanabili, e renderci più savj circa le presenti. Quantunque non ignoro, che
dicendo io liberamente i miei sentimenti, parrò farneticare e sagrifìearmi, ad
alcuni di voi, li quali considerino quanto sia disastroso il parlar
francamente, e riflettano la calamità di Mcuxio, il quale non per altra cagione
ora corre perìcolo della vita. Ma io non penso che la cura della propria
salvezza sia da pregiarsi più che il pubblico bene. Già questa mia persona è
tutta pe’ vostri pericoli, tutta pe' cimenti della patria ; tanto che gl’
incontrerò generosissimamenle, come piace agl’ Iddj, con tutti voi, o con pochi
^ e solo ancora, se bisogna. Nè finché io vivo, mai mi terrà la paura dal dire
quello che io penso. E primieramente io voglio elte vi persuadiate una volta
senza eccezioni che il popolo è malaffetto, e nemico al governo presente f e
che qualunque cosa gli avete, coma deboli, corueduta, £ avete spesa
vanissimamente, e vi è stala cagione di vilipendio, quasi conceduta £ abbiate
per forza, non a ragion veduta, c per beneplacito. Considerate come il popolo
si appartò da voi, pigliando le armi, e come ardi mostrarvìsi palesissimamente
per inimico, non o^eso da voi realmente, ma fingendosi offeso : perchè non
polca corrispondere a suoi creditori, e dicendo, che se decreten ate la
remissione dei debiti, e la condonazione delle colpe commesse per la sedizione,
non desidererebbe più oltre. 1 più di voi, non però tutti, sedotti da vani
consiglieri ( cosi /atto mai non lo avessero ! ) deliberarono di anntdUire le
leggi, mallevadrici della fede pubblica, nè più ricordane, nè perseguitare l’
esorbitanze passate. Egli però non si tenne già contento di questa concessione,
pel solo bisogno della quale diceva di essersi ribellato ; ma ben tosto pretese
altra prerogativa più grande, e meno legittima : io dico quella di eleggersi
ogni anno dalt ordin suo i tribuni, pretestando il troppo nostro potere, peichè
fossero scudo e rf i^io d poveri oltraggiati ed oppressi, ma in realtà tendendo
insidie alio stato delta repubblica, e volendola ridurre democratica. Adunque
vi persuasero questi consiglieri a lasciare che entrasse in repubblica il tr
ibunato ; come in fatti vi entrò per isciagura comune, e princìfxdmente in onta
del Senato, mentre io, se bene ve ne ricorda, tanto ne schiamazzava,
protestando ai numi ed agli uomini, che introdurreste tra voi una guerra
interna ed implacabile, e presagendovi tutti i mali, quanti ve ne avvengono. E
questo buon popolo che vi ha egli fatto dopo che gli avole conceduto il
tribunato? Non ha già valuta’o degnamente tanto dono, anzi nemmeno da voi prese
con prudenza, e con verecondia, come so glie lo abbiate accordato, premuti e
costernali dalle forze di lui. Ha detto che aveasi a rendere sacro,
inviolabile, sicuro pe giuramenti, ed ha pretesa un autorità migliore che rwn
quella da voi destinata pei consoli. E voi avete tollerato ancor questo, e là
tra le vittime giuravate la roidna di voi e de’ vostri di-scendenti. E dopo
questo ancora che vi ha fatto egli mai questo popolo ? In luogo di
riconoscervene, dolora per le altrui
sciagure, e sa compatire gli uomini costituiti in dignità, se la sorte loro
travolgasi. Tuttavia diresse a Marcio la maggior parte del discorso mista di
ammonimenti, di esortazioni, e di preghiere che facevano violenza. E giacché
egli era la causa. della discordanza del popolo dal Senato, e calunniavasi come
tirannica la esuberanza delle sue maniere, e temeasi che per lui si desse
principio alle sedizioni e ai mali gravissimi, quanti ne sorgono dalle guerre
civili; pregavalo a non verificare, o non confermare almeno le incolpazioni e
le paure con quel suo nou gradito contegno : assumesse un abito più umiliato :
sottomettesse la sua persona per dar conto a quelli che chiamavausi oltraggiati
da lui : si presentasse alle difese contro di un accusa ingiusta si, ma che in
giudizio appunto si annullerebbe. Sarebbe un tal fare più sicuro per la
salvezza, più splendido per la fama che desiderava, e più consentaneo colie
opere antecedenti. Dichiarava che se ostinavasi anziché raddolcirsi, e se
riduceva, persuadendoli, i padri a subire ogni pericolo per òsso, misera
sarebbe per loro se vinti la perdita, ma turpissima se vincitori, la vittoria.
E qui tutto davasi al pianto, riepilogando i mali gravi e non dubbj che
straziano nelle discordie le città. LY. Tali cose esponendo con molte lagrime
non artificiose 'e noa finte, ina vere, egli venerabillstima per anni e per
meriti, come videne commosso tutto il Senato, cosi con più confidenza seguitò,
dicendo : Se alcuno di voi conturbasi, o padri, pensando che introducesi un
tristo costume nel concedere al popolo di votar su patrizj, e che non produrrà
niun bene f autorità de' tribuni che tanto si fortifica, sappiate che voi siete
errici, e v ideate il contrario di quel che conviene Imperocché se mai vi sarà
metodo salutare, metodo per cui non si tolga né la libertà nè le forze a Romec,
e per cui le si conservi in perpetuo la concordia ; senza dubbio il metodo
principalissimo sarà quello che assumasi anche il popolo al goverrto, talché
non sìa questo nè pretta oligarchia, nè democrazia, ma un tal misto di tutti. E
questa la forma che più che tutte ne giovi ; perchè ciascuna delle altre,
applicata sola, com è per sestessa, scorre facilissimamente alle insolenze ed
alle ingiustizie; laddove quando una forma si abbia ben contemperata da tutte,
allora se una parte commovesi ed esce dalr orditi suo, vien contenuta sempre
dall altra, che è savia, e tiensi al dovere. La monarchia divenuta dura^
superba, tirannica, suole abbattersi da pochi valenti uomini : la oligarchia,
qual voi t avete al presente, se troppo s' innalza per le ricchezze e per le
aderenze, nè più tien conto della giustizia e della virtùf si annienta da un
popolo savio : un popolo savio e che vive secondo le leggi, se poi volgesi ai
disordini ed alle ingiustizie; è sopraffatto dalle arme, e rimesso piomat, tamo
II. '. j5 Digìtized by Google 386 DELLE antichità’ ROMANE in dovere dal pià
forte. Voi trovaste, o padri, rimedj efficaci perchè il potere di un solo non
si mutasse i n tirannide. Voi scegliendo in luogo di un solo due capi della
repubblica, e dando loro il comando non per un tempo illimitato, ma per un
anno; destinaste oltracciò per invigilarli i trecento patrizf, i più anziani e
più grandi, da' quali è composto il Senato. Ma voi, per quanto si vede, non
avete fin qui messo per voi niun che vi osservi, e tenga in dovere. CeT’~
tornente io finora non temei che vi corrompeste ancor voi tra t abbondanza, e
la grandezza dei beni, per-chè non è molto che avete liberato Roma da una
vecchia tirannide ; nè aveste mai comodo di scapricciarvi e cC insolentire per
le guerre continue e lunghe. Ma riflettendo io ciocché può succedere dopo voi,
e quante mutazioni suol produrre la diuturnità dei tempi ; temo che i potenti
del Senato si rimescolino, e riducano per occulte vie finalmente il governo in
tirannide. Ma se comunicherete il comando col popolo, non sorgerà quindi alcun
male. E se altri ( giacché tutto dee prevedersi da chi consulta su la
repubblica) se altri tenti elevarsi più de’ colleghi e del Senato,
procacciandosi un seguito di uomini pronti a congiurare e ad offendere ; costui
citato dai tribuni al popolo, per quanto egli sia grande e magnifico, renderà
conto ai negletti ed ai poveri : e trovatosi reo, ne subirà le pene che merita.
Ma perchè il popolo con tal potere non insolentisca nemmen esso, nè guidato da
capi rei s’ inalberi contro de' buoni, tiranneggiando che nasce tmcìie nel
popolo la tirannide ) ; lo invigilerà, nè pennellerà che ne abusi un uomo
distintissimo per saviezza. Un dittatore eletto da voi con potere assoluto,
inappellabile, separerà dalla città la parte infetta di popolo, nè lascerà che
la sana se ne corrompa. Egli, riordinati i costumi e le preclare maniere del
vivere, nominati i magistrali, che giudica savissimi per la cura del pubblico,
ed eseguili tali cose in sei mesi, rientri di bel nuovo nella classe de’
privati, conservando per sè t onore, e non più. Pertanto considercutdo vqì
questo, e giudicando bonissima tal forma di repubblica, non vogliate da ciò che
chiede escludere il popolo. Ala come avete attribuito al popolo che scelga ogni
anno i magistrali che regolino, che ratifichi o annulli le leggi, e decida
della guerra e della pace, cose tutte rilevantissime e principali tra quante in
uno stato sen facciano ; nè avete di niuna di esse lasciato cubitro
indipendente il Senato ; cosi chiamale anche il popolo a parte dei giudizj,
massimamente se alcuno sia accusato di offendere la stessa repubblica,
eccitando sedizioni, preparando la tirannide, convenendosi co’ nemici di
tradirci, e macchinando mali consimili. Imperocché quanto più renderete
terribile agl indocili ed ai superbi la trasgression delle leggi, e le
innovazioni di Stato, mostrando intenti su loro più occhi e più guardie ; tanto
più la repubblica starà nel suo fiore. Dette queste e cose consimili, tacque.
Convennero nel parere medesimo gli altri senatori sorti dopo lui, eccettuatine
pochi. E standosene ornai per formare il decreto ; chiese Marcio la parola e
disse : Quale, o padri coscritti, io sia stato verso la repub^ blica, come io
sia venuto in tanto pericolo per la benevolenza mia verso di voi, e come ora io
ne sia da voi contraccambiato fuori della mia espettazione, voi tutti il vedete,
e meglio lo intenderete ancora dopo dato un fine alle mie cose. Ed oh ! se come
la sentenza di Valerio prevale ; così vi giovasse, ed io mi sbagliassi nelle
mie congetture sul futuro. Almeno però perchè voi che siete per emanare il
decreto, conosciate le cause p^r le quali mi consegniate al popolo, nè io
ignori su che sarà combattuto nelt adunanza di esso ; intimale ai tribuni che
dicano alla presenza vostra la ingiustizia su la quale mi accuseranno, e qual
titolo diasi a questo giudizio. LVin. Egli cosi diceva, perchè congetturava che
a vrebbe a difendersi appunto pe’ discorsi fatti in Senato, e perchè voleva che
i tribuni convenissero che su que sto appunto verserebbe l’azione. Ma i tribuni
consultatisi lo accusarono che brigato avesse la tirannide, e su. questa accusa
chiedevano che venisse a difendersi. (Schivi di restringere 1’ accusa ad una
sola causa, e questa nè valida nè cara ai Senato ; riserbavansi il potere di
accusarlo su quanto volevano > pensando che resterebbe così Marcio spogliato
di tutto il soccorso del Senato ). Marcio dunque replicò: se io debbo essere
giudicato su questa calunnia, mi sottometto ed giudizio del popolo, nò mi
oppongo che ne stenda il Senato 'il decreto. Piaceva al più de’ padri che su
ciò si rigirasse l’accusa e per due fini: perchè da indi in poi non più sarebbe
un senatore incolpato per dire cioc> chè pensava nelle consultazioni ; e
perché di leggieri quel valentuomo se ne purgherebbe, sobbriissimo altron de,
ed irreprensibile nella vita. F u dunque, secoudo ciò, steso il decreto pel
giudizio : e dato a Marcio tem po per preparar le difese da indi al terzo
mercato. Tenevasi allora, e tuttavia si tiene da’ Romani il mercato in ogni
nono giorno. In questi adunandosi i plebei dalle campagne in città ; vi
cambiavan le merci, e vi discutevano le liti private : e ricevendo i voti ;
sentenziavano su le cause pubbliche, riservate loro dalle leggi, o dal Senato.
Negli otto giorni intermedj a’ mercati viveansi nelle campagne, essendone i più
di loro lavoratori e poveri. I tribuni preso il decreto, e recatisi al Foro,
v’adunàrono il popolo : e lodatovi con ampj encomj il Senato, e lettavene la
sentenza ; intimarono il giorno nel quale si finirebbe quella causa ;
raccomandando a tutti d’ intervenire, perchè discuterebbono importantissime
cose. LIX. Divulgato ciò ; vivissime furono le cure e i ma neggi de’ plebei e
de’ patrizj ; di quelli come per punire un arrogante, e di questi perchè non
restasse all’ arbitrio de’ loro avversar] il difensore del comando de’ pochi.
Pareva ad ambi che si mettessero in quella causa a pericolo i diritti tutti
della vita e della libertà. Giunto il terzo mercato, si ridusse dalle campagne
in città tanta moltitudine, quanta mai più per addietro, occupando infino dall’
alba il Foro. I tribuni la invitarono a riunirsi per tribù, separando con funi
il sito dove ciascuna si alluogherebbe. L’ adunanza su quest’ uomo fu la prima
la quale votasse per tribù , sebbene assai si opponessero i palrizj perchè ciò
si facesse ; chiedendo che si tenessero, com’era l’uso della patria, i comizj
per centurie. Imperocché ne’ primi ten>pi se il popolo dovea votare su di
una causa qualunque rimessagli dal Senato ; i consoli adunavano i comizj per
centurie, compiendo prima i sagrifìzj legittimi, che in parte si compiono
ancora. Il popolo ordinato come nei tempi di guerra sotto i centurioni e le
insegne, adunavasi nel campo di Marte posto innanzi della città. Quivi non
prendevano e davano tatti insieme il lor voto ; ma ciascuno nella propria
centuria, secondo che eran chiamate dai consoli. Ed essendo le centurie cento
novanta tre, e dividendosi queste in sci classi, chiamavasi innanzi tutte, e
dava il suo voto la prima classe, la quale formata dei più riguardevoli per
sostanze, e primi negli ordini militari, comprendeva diciotto centurie equestri,
ed ottanta appiedi. Appressò votava 1’ altra classe la quale men comoda per
sostanze, seconda nell’ ordine della battaglia, e men cospicua de' primi per
armatura, formava venti centurie; aggiuntene ancor due di artefici, i quali
apprestano legni e ierro, ed ogni altra macchina militare. Costituivano i
chiamati nella terza classe venti centurie, inferiori tutte nell’ onore, nell’
ordine della battaglia, e nelle armi, non simili a quelle de’ precedenti. Gli
altri chiamati appresso, rispettabili anche meno in pregio di sostanze e di
armi, ma più sicuri di posto nella battaglia, divideausi ugualmente Anni di Roma a63 secoado Catone, aR5 secondo
Varrone, a 4^ aeCristo. ia venti
centurie ; alle quali se ne univano altre due y di suonatori di corni e di
trombe. Qiiamavasi per quIn-i>. 4 t S'So j ù tratta la materia medesima. I
soldati che qui si dicoDo immuni dai cataloghi militari, erano certameule
liberi dalle coscrizioni: peraltro potevano militare se volevano. (a) Nella
prima classe ci aveano ottanta centnrie appiedi a diciotto a cavallo, ìu lutto
novanlollo vedi loco citato. Le altre classi in tutto costituivano
novantacinque centurie : perchè la seconda classe comprendeva venlidua
centurie: la terza venti: la quarta di nuovo ven lidne : e la quinta trenta;
risultaudo la sesta da una sola. Digitized by Google 3q2 delle antichità’
romane bio da ricorrere al voto fioale de’ poveri. Era questo il refìigio
estreirio, se mai le cento novantadue centurie scindeansi in parti eguali ; e
ne preponderava la parte alla quale quell’ ultimo voto si volgeva. Chiedeano i
difensori di Marcio che si adunassero i comizj ordinati secondo gli averi,
immaginandosi forse che il valentuomo sarebbe liberato dalle novantotto
centurie' della prima classe quando le chiamavano, o dalie altre almeno della
seconda o della terza. Ma sospettando eziandio ciò li tribuni, conclusero che
si avesse a riunire il popolo per tribù, e così renderlo giudice della contesa
; perchè nè i poveri ci avessero men potere dei ricchi, nè i soldati leggeri
men di quelli di grave armatura, nè la moltitudine, differita per 1’ ultima
chiamata, fosse impedita a dare egnal voto. Divenuti tutti pari nell’ onore. e
nel voto, avrebbero ad una sola chiamata dato i loro suffragi tribù. Or pareano
i tribuni più giusti che gli altri, col pensare che il giudizio del popolo
fosse veramente del popolo, non della parte fautrice degli ottimati ; e che su
le offese di tutti, tutti dovessero sentenziare. Conceduto ciò con stento da’
patrizj, essendosi ornai per disputare la causa, Minucio 1’ altro de' consoli
ascese il primo in ringhiera, e disse quanto eragli stato commesso dal Senato.
E prima ricordò tutte le beneficenze, quante il popolo ne avea ricevute da’
patrizi : e poi chiese in contraccambio di queste, eh’ eran pur tante, che il
popob concedesse una grazia, necessaria ad essi che la domandavano, pel
pubblico bene : quindi lodò la concordia e la pace e rilevò di quanti beni Sten
causa I’ una e T altra nelle citUi: condannò le sedizioni e le guerre
intestine; e mostrò, che ne erano stale distrutte le città con gli abitanti,
anzi le • intere nazioni : raccomandò che secondando l’ira non isceglies sero
il peggio per lo migliore: che provredessero il futuro con saviezza, non si
valessero in consultazioni gra vissime dèi consiglio de cittadini più tristi,
ma di quelli che tenean per bonissimi, da’ quali sapeano sere stata tanto
giovata in guerra ed in pace la patria, e de’ quali non era giusto che
diffidassero, quasi avessero già mutato > natura. Era 1’ intento di tanti
discorsi, che non dessero niun voto contro di Marcio, ma in vista prindpal
mente di essi assolvessero quel valentuomo ; ricoi> dandosi quale egli era
stato per la repubblica, quante guerre avea portato a buon termine per. la
libertà e per r impèro di Roma, e come non farebbero cosa nè pia; nè giusta, nè
degna di. loro, se ingrati alle opere segnalate di lui ne punissero le vane
parole. Esservi bellissima la opportunità di dimetterlo ; giacché egli presen
tava la sua pmeona ai nemici, per subirne in pace il giudizio che di lùi
formerebbero. E se non che riconciliarsegli, persistevano duri, implacabili con
esso, almeno giacché il Senato trecento i: più insigni della città, facevasi a
supplioudì, s’ impietosissero e mansuefacessero, ciò considerando ; nè per
punire un nemico ributtassero le {ghiere di tanti amici, ma in grazia di tanti
valealuomini condonassero la pena di un solo. Dette queste consimili cose,
aggiunse in ultimo, che se assolvesserò dopo dati i voti un tal uomo,
parrebbouo ril.iaciarlo per non esser stato un ofTeusore del popolo : ma se
proibivano di prosegniroe il giudieio, mostrerebbero di donarlo a tanti che per
lui supplicavano. E qui taciutosi Minucio, fecesi innanzi Sicinio il tribuno, e
disse: che. uè egli tradirebbe la libertà del popolo, nè permetterebbe di buon
grado che altri la tradissero. Pertanto se i patiizj sottomettevano realmente
un tal uomo al giudizio del pòpolo, iàrebbe che su lui si votasse, nè punto da
ciò i si scosterebbe. ^ E; qui subentrando Minucio replicava : Poichésiete o
tribuni fermi in tutto eli dare il voto su quest’uomo; almeno non lo accusale
di altro che della offesa imputatagli. K poiché lo dinunziaste reo di ambita
tirannide di chiarate e convincete, ciò con gli argomenti t ma' non vogliate
.nè ricordare nè accusare le parole, le quali 10 incolpavate, di^ carer. detto
in Senato.^ Imperocché 11 Senato lo dichiarava immune da que'sta colpa j e
sentenziò phe al popolo si. presentasse '..per le cause convenute. E qui lesse
la seuteoBa. E pò,bn gli altri più potati de’ tfibutii. Manon eà' tosto' tocoù
atMarciu-di perórare, combaciando da capo, numttò quante spedizioni militari
avea sostenuto dalla prima età sua>per.^ blica, quante corone trionfali
avea' riportate da saoi cc.^^ mandanti, quanti erano i nemici presi da lui
prigionieri, quanti li Cittadini salvati nelle battaglie. E ad ogni dir suo
mostrava i premj dati al suo valore, e ne profferiva io testimonio I capitani,
e ne chiamava a nome i cittadini liberati. E questi si presentavano sospirando
e supplicando i cittadini a non uccidere, nè distruggere come nemico chi era la
causa della loro salvezza ; chiedendo la vita di un solo per quella di tanti,
ed esibendo in luogo di lui sestessi, perchè come più voleano ne disponessero.
Erano i più di loro del popolo anzi al
popolo utilissimi. E preso il popolo da verecondia all’ aspetto ed alle lagrime
di tanti ne impietosi, e ne pianse. Quando Marcio squarciandosi 1’ abito,
mostrò pieno il petto, piene le altre membra di cicatrici, e dimandò se
credeano poter esser le opere di un uomo stesso salvare il popolo in guerra dà
nemici, e saU alo opprimerlo nella pace : e se chi fonda una rannlde, caccia
dalla città una porle del popolo, dal (filale principalmente la tirannide si
alimenta e corrohora. E lui parlando ancora, tutti i più mansueti, e più umani
del popolo esclamavano, che si rilasciasse: e vergognavansi che stesse fio dal
principio in giudizio per simil cagione un uomo che avea tante volte spregiata
la propria salvezza per quella di tutti. Ma tutti i più invidiosi, tutti i più
malevoli ai buoni, e più pronti alle sedizioni, soffrivano di mai in cuore di
avere a liberare un tal uomo : tuttavia non sapeano che più fare, non apparendo
in esso indizj nè di tirannide, nè di ambizion di tirannide, e su ciò dovessi
giudicare. Or ciò vedendo quel Decio che avea ragionato in Senato, e procurato
che si stendesse il decreto per la causa, levatosi in piede fece silenzio e
disse : Poiché, o popolo, i patrizj hanno assoluto Marcio dalle parole dette in
Senato, e da fatti violenti e superbi che le seguirono: nè vi hanno lasciato
mezzi onde accusarlo ; udite, non le parole, no, ma la egregia cosa che questo
valentuomo vi apparecchiava ; uditene £ orgoglio, la sovverchieria, e conoscete
qual vostra legge, egli privatissimo uomo, violasse. Koi tutti sapete che
quante spoglie nemiche ci riesce di acquistar col valore, tutte per legge son
del comune, e che niuno, nemmeno lo stesso capitano, non che un privato, ne è £
arbitro ; sapete che il questore le prende, le vende, e, fattone danaro, lo
versa nel pubblico erario. Or questa legge che niuno da cheRoma è Roma non solo
non ha mai violato, ma nemmeno ha ripreso come non buona ; questa già firmala,
invalsa, questa ha £ unico Marcio conculcata, appropriando le prede che erano
del comune, £ anno scaduto, e non prima. Imperocché essendo noi scorsi su le
terre degli Anziati, e pigliato avendovi prigionieri, e bestiami, e frumenti,
ed altro in copia ; egli non depositò già tutto' nelle mani del questore: e
nemmeno, alienandolo, ne mise il prezzo nel£ erario : ma divise in dono agli
amici suoi per cattivarseli, tutta la preda ; or questo io dico eh’ egli è
argomento certissimo di tirannide. E come no ? Costui beneficava col tesoro
pubblico li suoi adulatori, li custodi della sua persona, li cooperatori della
tirannide. E vi affermo che questo fu come un abrogare manifestamente la legge.
Or su, facciasi pure innanzi Marcio, e dimostri £ una o £ altra delle due;
omelie egli non compartì le belliche prede a’ suoi amici ; o che se bene ciò
fece, non ruppe la legge. Ma egli non potrà dire ninna di queste due cose.
Imperocché voi sapete ( una e V altra, la legge e t opera : Nè mai potrete coll
assolverlo, dar vista di conoscere i diritti ed i giuramenti. Lascia o Marcio
le corone ed i premj, lascia le ferite ed ogni ostentazione, e rispondi a
questo, su che li concedo ornai che tu parli. Cagionò tale accusa grande
mutazione; e li più dolci, e più premurosi per I’ assoluzione di questo uomo si
rallentaron ciò udendo. E li più perfidi, quali erano i più della plebe,
deliberati allatto di perderlo, vi si ostinarono ancor più, per una occasione
si grande, e simanifesta. EU’ era ben vera la distribuzion della preda, non era
però fatta per mal genio, nè in vista di una tirannide, come Decio calunniava,
ma solo con fine benissimo, con quello cioè di riparare ai mali della
repubblica : perchè essendo allora il popolo discorde ed alienato da’patrizj, i
nemici dispregiandoli, ne scorrevano e ne predavano di continuo le campagne. E
quante volle parve al Senato di spedire una forza che li reprimesse, ninno
usciva del popolo, anzi giubbilava contemplando i casi d’ intorno, nè le forze
dei patrizj bastavano a contrapporsi. Or ciò vedendo Marcio promise ai consoli,
se lo creavano capitano, di portar su' nemici un’armata spontanea, e di
pigliarne ben tosto vendetta. Ottenuto Marcio il potere, congregò li clienti,
gli amici, e quanti voleano partecipare le sue fortune, e la sua gloria nelle
armi. E quando parvegli che si fosse raccolta milizia sufficiente ; la menò su’
nemici che niente ne prevedeano. Scorso in region doviziosissima, ed arbitro
divenuto di amplissima preda, permise alle sue milizie che tutta se la
dividessero, afUnchè li compagni dell’ impresa, raccoltone il frutto, andassero
pronti anche agli altri cimenti : e quelli, che impigrivano in casa,
considerando da quanti beni, a’ quali poteano partecipare, gli allontanasse la
sedizione; divenissero più savj per le spedizioni seguenti. Tale era su ciò la
idea del valentuomo. Ma la turba invida e tenebrosa, considerandone con
malvolere le operazioni, credette vedere in esse un predominio, nna largizione
tirannica. Dond’ è che il Foro si riempié di clamori e di tumulto : nè più
Marcio, nè il consolo, nè alcun altro sapeano che rispondere, riuscendo la
incolpazione inaspettata ed improvvisa. Poiché dunque ninno più faceane le
difese; i tribuni dispensarono alle tribù li suffragi, proponendo per pena del
delitto Y' esilio perpetuo, io credo perchè temevano, che se proponevano la
morte, non sarebbevi stato condannato. Dato da tutti il voto, e numeratili, non
vi fu gran divario. Imperocché essendo allora ventuna le tribù le quali
ottennero il voto, nove si decisero per la liberazione di Marcio, tanto che se
altre due vi si aggiungevano, sarebbe stato, còme ordina la legge, liberato per
la uguaglianza. Se le trìbCk erano at, e
nove si dichiararono per Marcio: dunque dodici lo condannarono; e però ire o
non due altre trilnt ci Toleano per uguagliare i Voli della condanna e dell’
assoluzione. Forse Dionigi Tuoi dire che se la tribù condaunaTauo cd undici
assolvevano, l’efHcacia de’ voli era la stessa in guisa, che per uu voto di più
non cnndannavasi il reo, ma si rilasciava. Se ciò è, nel lesto non vi è
discordia, ma la voce dovrà tradursi I Fu questa la prima oitasione di un
patrizio al popolo per esserne giudicato : e d’ allora in poi fu stabilito il
costume che i tribuni chiamano chi lor piace de’ cittadini a subire il giudizio
del popolo. £ dopo tal fatto ancora assai il popolo si elevò, decadendo
nomtneno il potere de’ pochi, perché ne furono ridotti ad ammettere > plebei
nel Senato, a concedere che aspirassero agli onori, a non vietare che
prendessero i sacerdozi, e a dividere con essi per forza e loro malgrado, o per
provvidenza e saviezza, i tanti bei pregi, un tempo proprj solo de’ patrizj,
come ne’ luoghi opportuni diremo. Del resto l’ uso di citare i cittadini
primai'j al giudizio della moltitudine può somministrare materia ben ampia di
discorso a chi vuol biasimarlo o lodarlo ; perciocché molli uomini probi ed
egregj ne sostennero cose non degne della loro virtù, fatti inglòriosameute
uccidere e malvagiamente pe’ tribuni : e per r opposito ne pagarono pnre la
debita pena molti uomini aiToganti e tirannici, astretti a dar conto del vivere
e procedere loro. Quando dunque vi si faceano con cor buono le discussioni, e
vi si reprimevano le esorbitanze dei graudi, quella sembrava mirabilissima
cosa, ed erano da tulli lodata : ma quando a torto il merito vi si prostrava
de’ valentuomini egregj nel governo del comune ; sembrava orribilissima, e gli
autori se he accusavano non per la uguaglianza de' voti come abbiamo (allo ma
per la efficacia de’ voti. Sappiasi in fioe che talono de’ critici afferma che
le tribù allora erano 3i, e non 3i ; ma il Sigonio de civiiate Rom. G. 3, ed
Onofrio Vanvlno al c. 8, sostengono che erano realmente Tcntuna. della
coDsnetudtne. Esaminarono, evvero, più volte i Romani se la dovessero annullare,
o custodire come r aveano ricevuta dagli antenati ; ma non diedero mai fine
all’ esame. E se pur io debbo dirne ciocché ne penso, a me ne sembra la
istituzione, se per sé si consideri, vantaggiosa, anzi necessariissima a Roma ;
esservi però più o mcn bene riuscita, secondo il carattere dei tribuni.
Imperocché se scontravansi savj, giusti, e solleciti del pubblico, più che del
proprio lor bene, e se chi offendeva la patria ne era, come dovea, castigato;
in tal caso un timor vivo frenava ancor gli altri dai fare altrettanto. E 1’
uomo buono, 1’ uomo avvanzatosi eoo cuore puro ai maneggi pubblici né subiva
pene vergognose, né gìudizj, alieni dal procedere suo. Ma quando aveansi il
poter tribunizio nomini scellerati, intemperanti, avari, succedeane tutto
l’opposito. Tantoché non dovessi rettificar come erronea la consuetudine, ma
curar piuttosto come si avesser tribuni probi ed onesti, senza che tanta
autorità temerariamente si conferisse. Tali furono le cagioni, e tale il
termine della prima sedizione de Romani dopo la espulsione dei re. Io ne parlai
lungamente, perché ninno si meravigli come i patrizj permisero che il popolo si
attribuisse tanto potere, nè succedessero intanto come in alure città, gli
eccidj e le fughe degli ottimati.' Ciascuno brama conoscere delle insolite cose
la cagione ; proporzionandosene a questa la credibilità. Dond’è che io conclusi
che non sarei stato creduto in gran parte o in tutto, se io diceva nudamente, e
senza allegarne le cause, che i patrizj aveano ceduto ai plebei la primazia ; e
che polendo dominare come nei comando dei pochi, aveano fenduto il popolo
arbitro di affari gravissimi: e cosi concludendo ; volli esprimerle tutte. E
poiché ira loro non si violentarono e necessitarono colle armi, ma
coocordaronsi colla persuasiva, giudicai portare il pregio dell’ opera, che si
esponessero soprattutto i discorsi tenuti allor dai primari ciascun dei
partiti. E ben io mi stupirei che taluni pensassero doversi i falli della
guerra descrivere minutissimamente, e taivoha consumassero tante parole intorno
di una sola battaglia dicendo la natura de’ luoghi, la proprietà delle armi, la
forma delle ordinanae, le ammonizioni del capitano, e tatti i motivi, quanti
coadiuvarono la vittoria ; nè poi credessero che narrando i movimenti, e le
sedizioni civili sen dovessero insieme riferire i discorsi pe quali si
operarono impensate e maravigliosissime imprese. Certa-' mente se nel governo
de’ Romani vi fu portento degno di encomi, e della emulazione di tutti, fu
questo a parer mio, famosissimo più che i tanti, che pur vi furono stupendissimi,
vuol dire che i plebei spregiando i patrizi non si avventa sser su loro,
uccidendone in copia i più insigni, ed usurpandone i beni, e che quelli che
esercitavan le cariche non conquidessero di per sestessi o co’ soccorsi di
fuori tutto il popolo, rimanendosene poi liberi da paure in città ; ma che a
guisa di fratelli co’ fratelli, e di figli co' padri in una savia famiglia, la
discorresser fra loro su’ diritti comuni, e finissero le controversie col
dialogo e colia persuasione, senza permettersi gli nni contro degli altri
azione alcuna inir DtOSttGl, tomo //• iG qua ed insanabile, come nelle loro
sedizioni ne fecero i Corciresi, come gli Argivi, i Milesj, e la Sicilia intera,
e tant’aliri. E jier queste cause io volli anzi estenderne che ristringerne la
narrazione ; e ciascuno ne pensi come glien pare.. Avuto allora il giudizio un
tal esito, il popolo si parti con una vana ghiattauza; concependo aver tolto il
comando dei pochi. Altronde i patrizj ne andavano umiliati e mesti, ed
incolpavano Valerio per suggerimento del quale avevano rimessa al popolo la
sentenza. E quelli che riconducevano Marcio, impietositi, ne sospiravano e ne
lagrimavano : non però vedeasi Marcio né piangere, nè lamentare la sorte sua,
nè dire o fare cosa qualunque, non degna de’ sublimi suoi genj : anzi dimostrò
più ancora la generosità e fortezza deir animo suo, quando giunto in casa
ridevi la moglie e la madre che aveansi squarciata la veste, e pesto il petto,
e gridavano, come sogliono in simili casi, donne separate dai loro più cari per
1’ esilio, o per la morte : niente invili tra le lagrime, niente tra’ clamori
delle donne. Ma dato loro un amplesso, le animava a tollerar virilmente la
disgrazia, raccomandando ad esse i suoi figli. Grande era 1’ uno di dieci anni,
ma sosteneano l’ altro colle braccia ancora. E senza dare altri pegni della sua
benevolenza, e senza tor seco ciocché bisognavagli per 1’ esilio, usci
sollecitamente dalle porte, non indicando a ninno, dove si trasferiva.,Venuto
pochi giorni appresso il tempo de’comizj, furono dal popolo scelti consoli
Quinto Sulpicio Camerino e Spurio Largio Flayo per la seconda volta. Turbarono
quest’anno la città molti segni di celesti terrori. Imperocché apparvero a
molti visioni insolite, e voci si udirono senza niun che parlasse ; le
generazioni degli uomini e delle bestie assai scostandosi dal naturale
tendevano al mostruoso ed all’ incredibile: e si udivano m più luoghi risonare
gli oracoli, e donne da divino furor sorprese annunziavano alla città
lamentevoli e terribili sorti. Si aggiunse a tanto un tal contagio
nellamoltitudine. Fece questo assai strage di bestiame, ma non molta fu la
mortalità degli uomini, non estendendosi il morbo più in là che a far dei
malati. E chi diceva succedere l’ infortunio per disegno de’ numi i quali si
vendicavano dell’essere espulso dalla patria il migliore de’ cittadini ; e chi
dicea che gli eventi non erano opera divina, ma fortuiti, come tutte le vicende
degli uomini. Poi si presentò, portatovi in una lettiga, un infermo, chiamato
Tito Latino di nome, vecchissimo d’anni, fornito a sufficienza di beni, e che
avea per lo più vivuto nella campagna, lavorandola colie sue mani. Costui
venuto in Senato rivelò che avea tra il sonno veduto Giove Capitolino che
standogli a fronte, ua, disse ; fa intendere d tuoi cittadini che nelT ultima
pompa che mi celebrarono, non mi diedero un buon capo per la danza. Pertanto mi
ripetano, e compiano un altra festa di nuovo, non avendo io accett ata la
prima. Dicea costui che risvegliatosi non faeea verun caso delia visione, ma
teneala come una delle comuni ed illusorie. Quando ecco infine gli si presentò
nel sonno Anni di Roma a64 secondo
Catone, 66 secondo Varrone, e 48iS av. Cristo. la immagiue stessa, e bieca e
sdegnata, che non avesse annunziato i comandi al Senato, e minacciandolo, se
non gli annunziava immantinente che apprenderebbe con grave suo danno a non
trascurare gt IddJ. Questa seconda visione, egli disse, che la riguardò come la
prima, vergognandosi di assumer rincarico, egli vecchio e lavoratore, di
portare al Senato i sogni suoi, pieni di augnrio e di terrore, perchè non vi
fosse deriso. Or pochi giorni appresso il vago e giovine suo figlio, senza
malattia, e senza niuna causa sensibile fu rapito da morte improvvisa. E ben
tosto il simulacro stesso del nome apparendogli nel sonno gli dichiarò che egli
area già colla perdita del figlio subita la pena della sua trascuraggine, e del
dispregio delle celesti voci, ma che ben tosto ne subirebbe ancor altre. Udendo
tali cose disse che contentissimo ne accettava Uannuntio, Se avesse a morirsi,
non più curando la vita: che non gli diede il nume però questa pena, ma che
gl'internò per tutto il corpo dolori acutissimi ed insoffri-^ bili, non
potendone movere parte alcuna senza tormento estremo. E che allora infine
comunicato ^evento agli amici, venivane per consiglio loro al Senato. Pat^a,
ciò dicendo, che poco a poco si riavesse dal dolore. Alfine compiuto il
discorso, usci di lettiga, ed invocato il nume, ne andò per la città libero e
sano in sua casa. Il Senato ne fu spaventato ed attonito , Questo fatto è riportato aoclie da Livio.
Cicerone Io allega nel lib. I de Dininalione. Quanto è facile sognare con chi
sogna l Ma il Senato avea bisoguo d’ illudere un popolo superstiiiuso, e ne
secoudò li delirj. Per tali vie la verità si confonde, e si allouuna! nè sapeva
inf]ovinare ciocché il nume signifìcasse, e qual fosse nella festa antecedente
il duce, de’ salti che buono a lui non paresse. Àlfìne un tale, memore delr
evento, lo disse ; e tutti se gli accordarono. Qr fu r evento cosi : Un Romano
non ignobile consegnando un suo schiavo agli altri conservi perchè lo menassero
alla morte, ordinò per renderne più romorosa la pena, che lo traessero,
flagellandolo, pel Foro, e per tutti, quanti erano, i luoghi più insigni della
città. Precedè costui la festa che la città avea prescritto che si facesse in
quei tempi a tal nume. Coloro che lo spingevano al supplizio slargandogli e legandogli
ambedue le mani ad un legno, postogli dietro il petto e diretto per le spalle
fino agli estremi delle braccia, lo seguivano, e lo battevano nudo co’
flagelli. Stretto costui da tale necessità gridava e con sconce voci, quali il
dolore gliele suggeriva, e tra salti indecenti, per le battiture. Or questo
giudicarono tutti che fosse il saltatore non buono indicato dai nume. E giacché
sono a tal parte d’ istoria penso non dover tralasciare i riti che nella festa
si tengono dai Romani: non perchè più bella ne sia la narrazione per giunte
teatrali e per fioriti discorsi, ma perchè sia più credibile il proposito
rilevantissimo, vuol dire, che greche furono le colonie fondatrici di Roma, e
venute da famosissimi luoghi, e non barbare e non prive di case, come alcuni
hanno esposto. Imperocché nel fine del primo libro, tessuto da me su la origine
sua, promisi convalidarla con mille forti argomenti di leggi, di costumi, d'
industrie che vi persistono ancora, quali si ricevette dagli avi ; nè giudico
che basti a chi scrive le storie antiche de’ luoghi delioearle come degne di
fede perchè tali si odono da’ paesani, ma per l’ opposito giudico che a
renderle credibili abbisognino queste di altri documenti invincibili, quali
'sono principalissima mente le cerimonie, ed il cullo usato in ognr città verso
i numi e i genj patrj. Certamente li Greci e li barbari custodiscono queste
gelosamente per lunghissimo tempo frenati dalla riverenza de’ numi vendicatori.
E ciò fanno i barbari soprattutto per molte cagioni da non essere qni
ricordate. E ninno ha mai persuaso a dimenticare o corrómpere alcuna delle
divine cose gii Egizj, i Lìbj, li Celti j gli Sciti, gl’ Indi # e generalmente
tutti i barbari, seppure caduti sotto il comando di altri non furono
necessitati ancora di volgersi ai riti loro. Roma però non fu mai ridotta a tal
sorte, anzi essa diede agli altri le leggi perpetuamente. Se traeva da’ barbari
l’origin sua, dovette pur da’barbari derivare s le istituzioni nazionali, per
le quali g[iunse a tanta fortuna : e quindi dovette astringere tutti i sudditi
a venerare gl' Iddj con le forme Romane come niigliori. Se dunque i Romani eran
barbari, niente poteva ritardare che barbara si rendesse tutta la Grecia che
ornai da sette generazioni ne porta il giogo. Alcuno forse crederà che bastino
per segno non piccolo delle pratiche antiche, quelle che ancor vi si usano. Ma
perchè altri noi prenda come insufhciente per la opinione non giusta, che i
Romani quando vinser la Grecia, con piacere ne assunsero i costumi come
migliori, ripudiando i proprj ; ho deliberato aiv _ gomentar dal tempo quando
essi non ci dominavano ancora, nè avevano olire mare 1’ impero, valendomi deir
autorità di Quinto Fabio senza che altra me ne bisogni. Imperocché antichissimo
tra quanti scrissero le cose ror.. .u., ce le accredita -non solo perciò che ne
ha udito, ma perciò che ne ha veduto ancora. Il Senato, come ho detto di sopra,
aveva decretato quella lesta, per adempiere il voto fattone da Aulo Postumio
dittatore, quando fu per combattere le cittàribellatesi de’Latini, che
tentavano rimettere Tarquinio sul trono: ed aveva decretato che si applicassero
ogni anno ptr li sagriGcj e pe’ giuochi cinquecento mine di argento ; e
puntualmente ve le applicarono fino alla guerra con i Cartaginesi. In questi
sacri giorni si faceano molte cose conformi alle greche usanze circa il
concorso, 1’ accoglienza de’ forestieri, e le immunità, cose tutte > ben
difficili a descriversi. Le cose poi, che concernono la pompa, i sagrifizj, ed
i certami, erano come sieguono, e ben da queste si possono argomentare, quali
fossero ancora, le tante cbe sen taciono. Prima cbe si desse principio ai
giuochi, le persone che aveano il potere più graude, avviavano dal Campidoglio
la pompa, conducendola pel Foro al Circo Massimo : e nella pompa eran primi i
lor figli prossimi alla pubertà : ma que’ garzoncelli che poteano per 1’ età
far parte della pompa ne andavano a cavallo se fossero di equestre famiglia, o
a piedi, se a piedi dovessero mili^'U'e; e .quali nc andavano ad ale e caterve,
e quali a corpi ed ordinanze maggiori come per essere istruiti: e ciò ptrcliò
fosse visibile ai forestieri la gioventù Romana che era per giungere alla età
militare, e quanto ne fosse il numero^ e quanta la bellezza. Venivano appresso
loro i guidatori di quadrighe, di bighe, ed altri che pompeggiavano su cavalli
non aggiogati. Seguivano quindi i combattitori di certami leggeri o gravi; e
nudi si vedevano, se non quanto velavano le parti del sesso. E tal costume
conservasi ancor tra' Romani come nei prìncipi aveasi pure tra’ Greci, finché
tra’ Greci vi fu tolto dai Spartani: Perchè il primo che prese a nudarsi il
corpo e nudo corse ne’ giuochi Olimpici nella olimpiade decimaquinta fu Acanto
di Lacedemonia; laddove innanzi lui vergognavansi i Gi'eci di avere tolto nudo
il corpo ne’ spettacoli, come certifica Omero scrittore antichissimo e
degnissimo più che tutti di fede, il quale introduce gli eroi cinti da una
zona. Quindi descrìvendo il certame di Ajace e di Ulisse ne’ funebri onori di
Patroclo disse : Sceser cimi di zona ambi alla pugna. E ciò dichiara ancor più
nell’ Odissea, narrando il pugilato di Irò e di Ulisse in tal modo : SI disse ;
e tulli encomiaro Ulisse, E di una zona circondàndo i lombi, Gli ampi e voghi
suoi femori scopria, ' E nude Sen vedean le vaste spalle,, Nudo il petto t e le
braccia. Ed introducendo quel misero che non volea combattere, ma ne temea ;
scrive : Cosi diceano : ad Irò il cor si scosse .•. Cinserlo i proci di una
zona, e tutto Tremante lo sospinsero alla pugna. Tal costume primitivo de’ Gred
serbato fino ali’ ultimo tempo dai Romani dimostra che questi non lo appresero
ultimamente da noi, anzi che non lo mutaron col • tempo, come abbiamo noi
fatto. Teneau dietro agli atleti, cori di saltatori divisi in tre bande : erano
i primi adulti, imberbi gli altri, e giovani gli ultimi ; venivano quindi
sonatori che davan fiato a tibie di antica forma, e picciole, come costumasi
ancora, e citaredi che toccavan col plettro lire eburnee di sette corde, ed
altre ancora di più, barbiti nominati. DI questi era mancato l’uso ne’ miei
tempi tra’ Greci quantunque fosse lor proprio : ma tra’ Romani conservasi In
tutti i sagrifizj 'di antico rito. Erano 1’ apparato de’ saltatori purpuree
toniche, cinte con metalliche fasce, e spade che ne pendeano, ed aste anzi
corte che giuste : vedeasi negli altri uomini elmo di bronzo con cimieri vaghi,
e pcnnacchj che P adornavano. Era di ogni coro il duce un uomo il qual dava
agli altri la forma del ballo ; rappresentando moti marziali e vivi, con ritmo
per lo più proceleusmatico. Era greca antichissima pratica anche quella di
saltare colle armi e Pirrica si chiamava, sia che Minerva cominciasse la prima
dopo la disfatta de’ Titani a danzare e saltare colle arme tra cantici
trionfali per la vittoria ; sia che prima ancora fosse il Proceleusmatico cbiamaTasi no piè metrico di
quattro sillabe brevi : e quiudi si diceauo fttrfi i versi che conteueano que'
piedi. Forse furono cosi detti perché soleano premettersi, caulandoli, r7r
rttXtvrfitiTt vuol dire alle esortazioni o comandi. Quindi il ritmo
proceleusmatico ne’ balli dovrebbe avere allusione a tali piedi o versi, ed
esortazioni. rito Introdotto da’ Cureti, quando educando Giova voleano
carezzarlo col suono delle arme, e con lièti moti e cadenze, come la favola
narra. Omero più volte, e principalmente nella foiDiazione dello' scudo che
dice donato da Vulcano ad Achille,
mostra l’ antichità • di questo rito, e la nascita sua tra’ Greci. Imperocché
rappresentando in esso due città, l' una ornata di pace bella, e l’ altra
straziata dalla guerra, delinea, com’era naturale, la felicità di quella con
feste, con matrimonj, e conviti, e dice : Faeton la danza i (Rovani, e
frattanto Vdiati il suon di tibie, e cetre ; e tutte, Meravigliando ai limitar
di casa, Stavan le donne. E di nuovo elogiando con vago ornamento nello scudo
un altro coro di giovani e di vergini Cretesi dice : Aveaci espresso V inclito
Vulcano Un vario coro somigliante a quello. Che Dedalo formò per Arianna, Che
in si bei ricci avea la chioma attorta : Qui giovinetti e ver^nelle vaghe.
Tenendosi per man, facean lor dama. Ed esponendo 1’ ornamento di questo coro
per dichiarare che i giovani saltavano colle arme, scrive ' E quelle 'avean
vaghe ghirlande, e questi Aurate spade a cinti argentei appese. E parlando dei
duci del salto loro, di quelli che davano agli altri le prime mosse, dice :. Il
popolo prendea dolce diletto Intorno al coro; e due de' saltatori Clan cantando
e danzando a tutti in mezzo, Nè solo potrem yedere la somiglianza co’ greci
riti da qnfsie danze marziali ed ordinale, usate da' Romani ne’sagrifìcj e
nelle pompe, ma dalle danze ancora sati ricFie e derisorie. Dopo i cori armati
vedeansi in mostra cori imitatori de’ satiri, non dissimili dalla greca Sicinne.
L’abito in chi Vappresentava un Sileno erano ispide vesti, chiamale da alcuni
Cortee ; e manti con ogni varietà di
fiori: in quelli poi che somigliavano un satiro erano perizomi e pelli caprine,
e sui capo criniere irte di lioni, e cose altrettali. Or questi beffavano e
contraffaceano serj moti, spargendovi del ridicolo : e gli andamenti de’
trionfi assai palesano che era antico e proprio de’ Romani il motteggio e la
satira. Imperocché permettevasi u quelli che segui van la pompa lanciar beffe e
giambi so gli uomini più riguardevoli, c fino su’ comandanti ; siccome un tempo
in Alene era^ permesso che nè lanciasser quelli che sul carro se^itavau la
pompa, e che ora cantan versi improvvisi. Eid io ne’ funerali di personaggi
cospicui, specialmente se già fortunati, vidi tra le altre pompe cori in forma
di satiri che precedevano il feretro, e saltavano come nella Sicinne. Che poi
il gioco e la danza alla guisa de’ satiri non fu ritrovamento de’ Liguri nè
degli Umbri nè di altri barbari, abitanti dell’ Italia, ma de’ Greci ; temo di
sembrare molesto, volendo a lungo convincere una cosa della quale già si
conviene. Dopo questi cori pasA Vossio
scrive più cose intorno a qeeslo genere di saltasione nel I. a c. 19. lusiiiul.
Poei. (a) Cortee proviene questa voce da ^cfTts r:hc siguitica Jìeno, erba CC.
’ e savano molti sonatori di tìbie e di
cetere : e poi quelli che portavano profumi di aromi e d’ Incensi, e quelli che
portavano lavori meravigliosi di oro e di argento sia de’templi, sia del
comune. Venivano In ukimo della pompa recati su le spalle di nomini I simulacri
divini foggiati come quelli de’ Greci quanto alla forma, agli, abiti, al
simboli ed al doni, secondo che que’ numi es-‘ sendooe stati I trovatori, gli
aveano, ciascuno., donati ai mortali, nè solo v’ erano I simulacri di Giove, di
Giunone, di Minerva, di Nettuno, e degli altri che li Greci contano tra I
dodici numi ; ma di altri più antichi da’ quali la favola origina i dodici ; io
dico i simulacri di Saturno, di Rea, di Temide, di Làlona, delle Parche, di
Miiemosine, in somma di lotti, quanti hao templi, ed are fra i Greci, come
quelli de’ numi che favoleggiansi nati dopo che Giove ottenne l’impero, vuol
dire quelli di Proserpina, di Lucina, delle Ninfe, delle Muse, delle Ore, delle
Grazie, di Bacco, e quelli de’ semidei, l’ anime de' quali spogliate de.l
corporeo frale diceansi andate in cielo, e goilervi onori simili ai divini,
cioè quelli di Ercole, di Esculapio, di Castore e Poi luce, di Elena, di Pane,
e di altri mille. Se dunque i fondatori di Roma eran barbari, e se v’istituiron
tal festa; com’era possibile mai che adorassero tutti I numi e genj della
Grecia, negligentando I propr) ? Almeno mi si dimostri un altra gente non
greca, la quale avesse Erodoto narra nel
libro seconda che: i Greci derivarono questi dodici Numi dagli Egiij.
L’interprete di Apollonio scrive die questi erano : Giove, Apollo, Mercurio,
Nettuno, Marte, Vulcano, Giunone, Diana, Pallade, Cerere, Venere, e Vesta. tali
sante cose come nazionali ; ed allora si condanni la mia dimostrazione come non
buona. Terminata la pompa facean sagri Gzio i consoli e que’ sacerdoti a’ quali
spettavasi, e la forma del santo rito era quale appunto tra noi. Lavatesi le
mani, lustrate le vittime con acqua pura, sparsi i frutti di Cerere sul capo di
esse, e poi fatti de’ voti, comandavano infine ai loro ministri d’ immolarle. E
quale di questi mentre la vittima era in piede ancora ne percotea le tempia
colla mazza, e quale nel cadere la trafiggeva colle coltella. E poi
scorticandola c squartandola prendean le primiziedi ciascuno de’ visceri e di
ogni membro : e sparsele con farina di fiiTo, le portavano ne’ bacini a quelli
che sagrilìcavano : e questi soprappostele all’ altare, le arde-^ vano, e
spruzzavano intanto di vino. E poi facile intendere dalle poesie di Omero
essersi ciascuna di queste cose fatta secondo le leggi istituite da’ Greci
pe’sagrifizj: perciocché descrive gli eroi che si lavan le mani ed usano farina
di farro con sale dicendo : E lavaron le mani, e sparser farro : E che ne
tagliano i capelli e li gittano al foco in quei detti : Ma cominciando il santo
rito getta 1 capelli sul foco ; E li descrive che colpiscono colle mazze in
fronte le vittime, e che cadute le immolano come fa nel sagrifizio di Emeo.
Percotela, di quercia alzando un tronco, Cui rapido poi lascia ; e lascia
insieme Lo spirito la vittima, e qui gli altri Miseria in inani, e ne arrostino.
E descriveli che pigliano le primizie delle viscere, e di altri membri, e le
infarinano, e le bruciano su gli altari: come fa nel sagri fì ciò medesimo. E
da ogni parie le primìzie piglia Be’ membri tutù, e crudi ancor li copre Di
grasso, e di farina ; e dagli al foco. Ora io so per averlo veduto, che i
Romani osservano ancora tali riti ne' loro sagrificj : e su questo argomento,
anche solo, mi rendei certo, clie i fondatori di Roma non furono barbari, ma
grecivenuti da tutte le parti. Ben può essere che alcuni baiiiari somiglino in
pane ai Greci nelle istituzioni de’ sagriliz), e delle feste ; ma che in tutto
somiglino loro, ciò non è verisimile. Mi resta ora di dir brevemente de’
giuochi che faceano dopo la pompa. Era prima la corsa delie quadrighe, delle
bighe, e dei cavalli sciolti, come nei giuochi Olimpiaci e Pitiaci de’ Greci in
antico, e fiu di presente. Ne’ certami equestri si conservano ancora tra’
Romani due istituzioni antiche, come furono fondate in principio, quella cioè
de’ carri a tre cavalli, la quale ora in Grecia è cessata ; sebben vi fosse
anticbissima e già ne’ tempi eroici ; introducendo Omero de’ Greci che ne
usarono nelle battaglie. Imperocché essendo due cavalli congiunti come nelle
bighe un terzo accompagnavali contenuto e tratto colle redini, e chiamato
parioron appunto dall’ esser più libero ; e non come gli altri in biga. L’
altra cosa di cui restano ancor le vesiigie ne’ riti aniichi di alcune poche
città di Grecia è la corsa di quelli che anduvau su’ Carri ; peroccliè finite
le gare a cavallo, smontati dal carro quelli clt e sedere presso
del focolare in silensio era un
aulichissioia maniera di
supplicare. Addita anche
ciò Tucidide nel t libro,
discorrendo di Temistocle:
e si vede un
tal rito piò chiaramente io
Plutarco nella vita di
Coriolano, appunto iu
questo luogo. le calamità
che lo (lageilavaDO, e lo ìnchinaTano
a ricorrere perfino ai nemici, pregavalo ad
avere idee miti e benevole verso
chi rivolgevasi a lui, non
a tenerlo, mentre davaglisi nelle
mani, come avvemrio, nè a mostrar
la sua forza
contro gl' infelici
e depressi, e ri flettere
piuttosto quanto istabili
fossero le sorti
degli uomini. £ ciò puoi, disse, apprendere principidmente da me, che
già potentissimo fra
tutti in città
grandissima, ora derelitto, infelice, bandito, senza patria, debbo
correr la sorte
che vuoi tu
destinarmi. Io, se tu amico
me ne rendi, io
ti prometto far
tanto bene ai Volsci, quanto male
ad essi cagionai, mentre ne era
nemico. Ala se
prevedi tuU' altro
di me, siegui r ira tua, dammi
in sulC atto
la morte, immolando colle stesse
tue mani il
supplichevole tuo, presso a’ tuoi
focolari. IL Or lui
cosi dicendo, Tulio gli
stese la destra, e sollevandolo, animavaio a confidare
; perocché non sof^ frirebbe
cose indegne della
sua virtù : professavasi insieme obbligatissimo che
avesse ricorso a lui,
per essere questa non
picciola significazione di
onore : promise che renderebbegli
amici tutti i Volsci, cominciando dalla patria
sua, nè mentite ne
furono le parole.
Dopo non molto tempo
deliberandone da solo a
solo, Marcio e Tulio, conchiuscro
di movere la
guerra, Tulio, concentrando tutte le
forze de' Volsci, voleva
marciare immantinente su Roma,
mentre era agitata
ancora dalla sedizione, e
sotto consoli imbelli.
Marcio in opposito pensava che vi abbisognasse
prima un titolo
onesto e giusto di
guerra ; dicendo che
gl’ Iddj mcschiavansi
a tulle le cose, e panico Urmenle
a quelle della guerra quanto
sono più rilevanti, ed
oscure nell’ esito.
Aveaci allora tra’ Volsci e tra' Romani
sospension d’arme, e tregua
ed amicizia, conchiusa poco
innanzi per due anni.
Se tnovi, disse,
inconsideratamente e precipitosamente
la guerra, tu sarai
colpevole di aver
rotti gli accordi, nè
te ne avrai
propizj gVIddj ; ma
se aspetti che i Eomani
ciò facciano ; si
giudicherà che tu
risospingali, e protegga la confederazione che
violano. Ben ho io
con assai provvidenza
trovato come ciò
facciasi, e come essi i primi
volgansi alle arme, e noi siam giudicati
et imprendere una
guerra giusta e santa. Bisogna che
per maneggio nostro
essi i primi offendano il
giusto : e tale è questo
maneggio che io finora
ho celato profondamente, aspettandone il
tempo, e che ora di
necessità, sollecitissimo, ti
svelo, procurandone tu la
esecuzione. Debbono i Romani far
sagrifizj e giuochi assai
sontuosi e magnifici, e molti
accorreranno di fuori
agli spettacoli. Attendi
la occasione, ed accorri
tu pure a tanto
apparato, dando opera
insieme, che vi
accorra, il più che
per te si
possa de’ Volsci. Come
tu sia in
città, fa che alcuno
degli intimi tuoi vadane
ai consoli, e dica loro
secretissimamente, che i
Volsci tra la
notte assaliranno Roma, e che
perciò vengono in
tanta moltitudine. Tu ben
sai quanto apprezzeranno
la nuova : vi
cacceran senza indugio da
Roma, e vi porgeranno un
titolo giusto di risentimento. HI. Esultò
Tulio meravigliosamente, ciò udendo
: e differito il tempo
d’ imprendere ; diedesi ad
apparecchiare la gnerra.
Approssimatisi poi gli
spettacoli, ed essendo già
consoli Giulio e'
Pinario ; am>rsevi da
tutte le città la
gioventà più florida
dei Yolsei, come Tulio bramava. La
maggior parte non
avendo ricetto ndle case
e preo degli ospiti, presero alloggio
in sacri e pubblici
luoghi; e quando giravansi
per le strade,
ne andavano a crocchi e moltitudini
: tantoché già su
loro in città si
faceauo discorsi e sospetti
non buoni. In
questo mezzo venne ai
consoli un delatore
apparecchiato da Tulio, come avea
Marcio suggerito : e quasi
avesse a svelare a' nemici
una pratirà arcana
in danno degli amici
suoi, strinse ’i consoli
a giurare di salvar
lui, né mai dire
ad alcuno de’ Yolsei
chi avesse ciò
palesato, e poi dinuneiò gli
assalti mentiti. Parve
ai consoli vero il
racconto, e ben tosto invitati
i senatori ad uno ad uno,
si congregarono. Presentatovi
il delatore, ed avutene
le eguali promesse, replicò la
dinunzia medesima. Coloro a’
quali parea già
cosa piena di
sospetto che venuta fosse
agii spettacoli tanta
gioventù di una sola
nazione nemica, assai più
ne temerono, aggiungendovisi ora
una dinunzia della
quale ignoravano la frodolenza. Parve
a tutti che si
cacciasser di città
quei forestieri prima che
il di tramontasse
con bando di morte
a chi non ubbidisse;
e che li consoli
invigilassero sicché
tranquilla ne fosse
la uscita, e senza offese. lY.
Decretato ciò dal
Senato, altri scorrendo le
strade intimavano ai Yolsei
di partire immantinente
tutti per la porta
detta Capena, ed altri
con i consoli li
scortavano, mentre
partivano. Or qui
più che altrove
si conobbe quanta mai
fosse, e quanta vigorosa quella moltiiadine ; uscendo
In un tempo
tutu per una
porU. Usci sollecitissimo Tulio
prima che tutti, e prese non lungi
da Roma un
tal posto, dove raccogliere
gli altri che seguitavano.
E quando tutti furono
giunti, convo> catane l'
adunanza, assai v’ incolpò
li Romani, dichia> rando grave
ed indicibile 1’
affronto de Volsci, unici
ad essere espulsi fra
tanti forestieri : ed
eccitandoli tulli perchè ciascuno
lo raccontasse in
sua patria, e vi trattassero le maniere
di vendicarsene e reprimere
per l’avvenire tanta insolenza
ne’ Romani. Cosi
dicendo ed infiammandoli, dolenti già
per 1’ oltraggio, sciolse 1’
udienza. Ricondottisi in
patria, ridissero ciascuno ai compagni
la ingiuria, esaggerandola,
unto che
ne furono tutti esacerbali, nè poleano
rattemperarne lo sdegno. E spedendo una
città all’ altra
degli ambasciadori, chiesero un
congresso generale, per concordarvisi
intorno la guerra. Succedeva
tutto ciò per
briga di Tulio principalmente. Cosi
li magistrati di
tutte le città, e moltitudine grande
ancora di altri
adunaronsi nella città di
Eccetra, ripuUU la più
acconcia per congregarvisi. Dettevi assai
cose dai capi
di ogni città, si
dispensarono i voli finalmente, e
prevalse il partito
di mover la guerra, avendo primi
i Romani conculcato gli
accordi. Y. E qui proponendo
i magistrati varj che
si discutesse la maniera
di fare la
guerra, presentatosi Tulio consigliò che
si chiamasse Marcio, e da
lui si udissero i metodi di
abbattere la potenza
Romana ; giacché ninno più
di lui conoscea
da qual lato
questa fosse inferma, e da
quale vigorosa. Il
consiglio piacque e tutti
cscla I I tnarono che si chiamasse
immantinente il valentuomo. Marcio ottenuta
l’ occasion che volea, presentatosi mesto e piangente soprastette
alcun tempo e poi
disse: Se 10 vedessi
che tutti pensaste
ad un modo
su la mia disgrazia, giudicherei non
essere necessario difendermene. Ma considerando
che Ira indoli
tante e varie evvene
forse alcuna che
forma concetti né
veri nè degni sopra
di me, quasi il
popolo m' abbia
per cagioni solide e giuste espulso
di patria ; debbo
innanzi tutto dir qui
tra voi circa
il mio esigilo.
E voi che ben sapete
P infortunio che io
m’ ho da'
nemici, e come indegnamente
io sia perseguitalo
dalla sorte, voi, mentre
qui lo espongo,
contenetevi, prego, nè
vogliate desiderare d
intendere ciocché dee
farsi, prima che ne abbiate
compreso chi sia
che i^i consiglia.
Breve ne sarà il
discorso quantunque pigliato
dalle origini. Era 11
governo Romano da
principio un tal
misto del comando di
un solo e dei
pochi ; fnchè Tarquinio, r ultimo de'
monarchi, tentò volgerlo tutto
in tirannide. Adunque i capi
nel comando de’
pochi insorgendone, lo espulsero
: e subentrando essi al
maneggio del pubblico, basai orto
una reggenza più
savia per confessione di
tutti, e più buona. Ma
da ora in
dietro non più che
Ire o quattf anni, i più
miseri, e li più oziosi de'
cittadini, dandosi capi scelerati,
ne coperser d ingiurie
; tentando infine di
abbattere l' aulì] Queste
lagrime forse le
TÌile più Io
storico che Marcio.
It contegno Ji >{uesto
valoroso era stalo
hen altro coi
tribuni e col popolo li
Roma come apparisce
dal libro antecclcnte
j e 'come può coucloJersi dal $
del presente. /oriUÌ
de pochi. I capi
del Senato ne
incollerirono tutti, e cercarono
come reprimere la
insolenza de' rivoltosi. Di
mezzo a c/uegli ottimati
udppio C uno dei seniori, degnissimo di
lode per tanti
titoli, ed io V uno de’
giovani, parlammo sempre liberissimamente non per
combattere il popolo, ma
perchè sospetta ci era
la prepotenza de'
ribaldi; non per
rendere schiavo niuno, ma per
garantire a tutti la
libertà, come ai migliori il
comando sul pubblico. VI.
Or ciò vedendo
que’ tristissimi capipopolo
vollero in priruipio tor di mezzo
noi franchissimi oppositori : e gittarono le
mani, non già su
tutti due in un
tempo perchè il
fatto non fosse
grave troppo ed esoso, ma
su me primieramente
che era il
più giovane, e men dijfcile
da opprimere. Cosi
tentarono di perdere me
prima senz' (uUorità
di giudizio, e poi mi chiesero
dal Senato per la morte.
Ala venuti lor meno
ambedue que tentativi
; mi citarono ad
un giudizio ( ed essi aveano
ad esserne i giudici ) per incolpazioni di bramala
tirannide ; nè videro
che rùun tiranno tenendosela
co’ pochi combatte
il popolo, e che piuttosto
egli col popolo
conquide il partito
più valido nella città.
Un giudizio mi
destinarono non per centurie, com’ era C
uso della patria,
ma un giudizio come
tutti consentono, iniquissimo,
e, la
prima e f unica volta, su me
praticato, un giudizio dove i
merccnarj, li vagabondi, e quanti insidiano
gli averi altrui,
preponderavano su' boni
che voleano salvi
i diritti ed il
pubblico. E tante erano
in me le
ragioni per non esserne
condannato, che sottomesso ai
giu 1.3 ditj di
una turba, odiatrice in
gran parte de' buoni, e però mia
nemica^ non fui
sopraffatto che per
due voti: sebbene i tribuni
divulgassero che assai
sarebbero disonorali nel loro
comando, e patirebbono da me l estremo
de mali se
io fossi assoluto, ed
insi^ stessero intanto contro
me con tutto F
ardore e la sollecitudine nella
causa. Così malmenato
damici cit^ ladini, reputai che
più non sarebbe
vita la mia, se non
prendessi di loro
vendetta. Quindi sebbene
il potessi, ricusai vivere
senza cure, o tra’ parenti nelle città
de’ Latini, o nelle colonie
fondale di recente dà
miei maggiori : e tra
voi mi ricorsi, che
io ben sapeva essere
tanto -offesi da’ Romani
e nemicissimi loro, per
farne con voi
quanto -potessi le
vendette colle parole, se
le parole vi
bisognavano ; o colle opere, se
le opere. Intanto
io vi rendo
amplissime grazie ; perchè mi
avete voi ricevuto, e perchè mi
date tali significazioni di
onore, niente ricordando, nò
contando i mali che
un tempo voi
rtemici miei, avete da
me sostenuto fra
le arme. VU. Or
dite, e qual genio sarei
io mai se
spogliato da uomini per
me beneficati, della riputazione e degli onori
quali tra miei
mi si competevano,
e privato della patria, della
famiglia, degli amici, dei
numi patemi, delle tombe
avite e di ogni
altro bene; se ritrovate
tra voi tutte
queste cose per
le quali già in
grazia ài essi v
infestai colia guerra
; ora terribile non mi
dimostrassi con quelli
che nemici mi
furono in luogo di
cittadini, e propizio agli
altri che amici mi
si rerìdono di
nemici ? Io sicuramente
non terrei nemmeno per
uomo chiunque nè
ax>esse nitnicizia per chicli
fa guerra, nè
benevolenza per chi
lo ha salitilo
:non iilitno mia
patria una città
che mi ha
ripntliato, ma quella, dove sehben
forestiero divengovi cittadino
: nè già reputo
amica la terra
ove sono oltraggiato, ma quella ove
trovo la sicurezza.
E se Dio ne
porga il favor suo, e voi
pronta, com’ è giusto, C
opera vostra ; seguiranno, spero,
grandi e subiti cambiamenti, foi ben
sapete che i Romani
cimentatisi con tanti nemici
non han temuto
niun più che
voi ; e che niente cercati più
attenti quanto indebolire
Ya vostra nazione. E pigliandole colle
arme, e devUmdovele colle speranze di
amicizia, ritengonsi le vostre
città per questo, appunto, perchè unendovi
tutti in un
corpo non portiate su
loro la guerra.
Se voi dunque
a vicenda persevererete
procurando il contrario
; e se avrete come ora, tutti un
animo per la
guerra ; Jacìlmente
abbcUterete la loro
potenza. Vili. E poiché ricercale
il parer mio
sul modo di entrate
in campo e dirigervi,
sia per attestato
della esperienza mia, sia della
vostra benevolenza, sia per [ uno
e { altro ; io dirò
tutto, e senza velo. Primieramente vi esorto
a vedere che vi
abbiate una causa religiosa e giusta
di guerra. E come
religiosa, come giusta, come utile
insieme ve l’ abbiate
( in udite. Picciolo, sterile, aveano da
principio i Romani il lor
territorio, ma vasto, e buono è quel
che vi aggiunseio, togliendolo a’
vicini ; e se ciascuno dei
derubati tipela il suo,
tiiutia città diverrà
quanto Roma picciola, debole, bisognosa. Or
io penso che
voi doiHate i primi
cominciare. Spedite ambasciadori
che richiedano le vostre
città, quante ne tengono, e che intimino loro
di abbandonare, quanto han
fabbricato per le vostre
campagne, e li premano a rendervi, quanto si
hanno di vostro
appropriato colle armi:
nè vogliate prima che
vi rispondano, romper la
guerra. Cosi facendo otterrete
V una o t altra delle
cose che più bramate.
Vuol dire, o ricupererete le
cose vostre, senza pericoli
e spese ; o rinvenuto avrete
il titolo onesto e giusto
di prender le
arme : giacché tutti confesseran per
bellissima la condotta
di non chieder r altrui, ma il
proprio; e di combattere
in fine se non
ottengasi. Or su, qual
cosa pensate, faranno i Eomani
a tali vostre proposte
? che renderanno forse le
vosUe regioni ? ma
qual cosa impedirebbe
più mai che lasciasser
tutto t altrui? se
verrebbero poi gli Equi
e gli Albani, se i Tirreni
e tanti altri a ripetere ognun le
sue terre. O pensate
che riterranno le vostre
cose, nè vorranno affatto
la giustizia ? Così appunto io
ne penso. Voi
dunque protestandovi, i primi,
offesi da loro;
e volgervi per sola
necessità alla guerra ; avrete
compagni, quanti spogliati de’ beni hanno fin
qui disperalo ricuperarli
altrimenti, che per le arme.
Bellissima è poi la
occasione, e di cui non
avrete mai più
la simile per
andar su Bomani, preparata fuori
di ogni speranza
dalla sorte propizia agli
offesi; perciocché li
Romani, discordi e sospetti fra loro a
vicenda, nemmeno luin
capi idonei per la
guerra. E questo è quanto
io poteva suggerire
e raccomandar con parole agli
amici, detto lutto
con cuor sincero e benevolo
: quanto poi si
dovrà provvedere e compier
colle opere, lasciate
che i duci deli
armata lo curino. RispeUo
a me son per
voi, comunque di me disponiate;
e mi sforzerò di
non riuscirvi U pm ignobile
sia de’ soldati
sia de’ centurioni, sia de'
capitani. Spendetemi dove pià vi son
uUle, e tenetevi cerio, che io,
che già contro
voi guerreggiando, tanto vi
ho danneggiato; ora,
per voi combattendo altrettanto vi gioverò. IX.
Marcio cosi disse, e U Volsci, menlre parlata ancora, davan segno
di gradirne i discorsi
: ma poi che ucque, miti a gran
voce allesUrono che
benissimo consigliava ; e
senza concedere che
altri più disputasse, ratificarono il
parer suo. Quindi
stesone il decreto,
e scelti immantinente i personaggi
più riguardevoli di
ogni cillA, gl’ inviarono ambasciadori
a Roma : dichiararono Marcio membro
de’ consigli in ogni
città, e lo auumzzarono
a conseguire in ciascuna
le magistrature e gli onori
più grandi che
vi erano. Per
altro anche innanzi le
risposte de’ Romani, si
diedero agli apparecchi
di guerra. E quanti erano
ancora disaaimali per le perdite nelle
battaglie antecedenti, tutù si
rincorarono quasi fossero per
abbattere la potenza
Romana. Gli oratori spediti a Roma, presentali al
Senato, dissero, che sarebbe
a’ FoLsci carissimo
cessare le controversie
coi Romani, e viverne da ora
innanzi alleati ed
amici senz artifici ed
inganni : e dichiarano che
stabile sarà questa fede e
quest' amicizia, se riabbiano
le terre e le
città che furono
tolta loro da’
Romani : laddove in altro
modo nò pace
mai vi sarà, né amicizia
coslan. 1-j te ; giacché
V offeso è naturalmente in
guerra perpetua colf offensore.
Cliiecleaao pertanto di
non essere colla esclusione
delle giuste dimcuide
necessitati alla guerra. X. Detto
dò, fecero i padri ritirar
gli oratori, e consullaron fra
loro. E cónchiusa la
risposta ^ li riobia> maroQO in
Senato, e dissero :
Conosciamo o Fólsci che voi
non f amicizia cercate
; ma pretesti splendidi di
guerra : perocché ben
vedete che mai
vi saran concedute le
dimande, per le quali
venite, indegne, inammissibili.
Se voi date
ci aveste da
voi stessi e pentitine'
poi ci raddomandaste
le vostre terre
; non sareste affatto oltraggiati, non riavendole.
Ora però voi oltraggiate
noi, pretendendo ciocché è degli
altri: giacché non eravate
voi gli arbitri
delle terre, se la légge
delle armi ve le toglieva.
^ noi teniam per giustissimo quanto
possediamo. per le vittorie
: nè primi noi abbiamo
fondata questa legge, nè
la crediamo degli uomini, anziché degli
Dei. E se i Greci, se
i barbari tutti se
ne valgono ; noi
non tlaremo già in
ciò segrà di
debolezza, nè renderemo punto
delle nostre conquiste. Imperocché
ben sarebbe vituperosissima cosa lasciarsi
per timore e per
stoltezza ritogliere ciò che
per senno e per
nuignanimità si possiede. Noi
nè a combattere vi
necessitiamo, se non volete ; nè
se volete, ve ne
ritiriamo. La rispingeremo, se ce
la incominciate, la guerra.
Riportate ai Folsci queste
risposte, e dite, che
se pigliano essi i primi
le arme, noi gli
ultimi lo deporremo, Diomai, tomo ut. Prese
qpeste risposle Je
riferirono gli tmibascia dori al
Comune de Volaci.
E convocato di bel
nuovo U Consiglio, si concbiuse
in fine d’ intimare
a nome di tutta la
nazione la guerra
ai Romani. Quindi
scelsero Tulio e Marcio con
assoluto potere capitani
di tutta 1’
armata, e decretarono che si
ascrivesser milizie, si contribuisser
danari, c si facessero
altri apparecchi, quanti ne
vedean necessarj per
la impresa. 'E già
essendo per isciogliersi l’ adunanza
; Mar.io levatosi in piè disse
e Bonissimo è quanto si è
qui decretato dal
vostro Comune ; e facciasi pur
tutto a suo tempo.
Intanto però che qui
scrivonsi le milizie, e preparansi le
altre cose che dimandano
cura e tempo ; io e
Tulio ci
porremo in su r opera..
Seguite noi, quanti
volete, saccheggiando le
campagne nemiche,
partecipare a gran prede. Io
vi prometto, se il
del ne ajuta, molti
e grandi vantaggi. Li Romani
non sonasi ancora
apparecchiati, vedendo che noi
non abbiamo riunito
le forze; sicché potremo senza
paura scorrere a nostro
bell agio tutte le
loro campagne. Accettato da’ Volsci
anche questo partito,
j duci uscirono immantinente, e
prima che in
Roma se ne sapesse, con molta
soldatesca volontaria. Tulio
si gettò con parte
di essa nel
territorio latino per
impedire i soccorsi che
di là ne
andrebbero al nemici, e Marcio guidò le
altre aUe campagne
di Roma. 11
male giunse improvviso a quelli
che vi erano
; e. caddero in poter de' nemici molti
ingenui Romani e molti
schiavi; e bovi e giumenti’,
ed altro bestiame
non poco. Quanto era
derelitto di grano, di
ferramenti, o di altro onde la
terra cohirasi, tutto fu
predato, o disfatto. Dii uU timo
recando 'fino il
fuoco, lo gettarono i Volscl
pe’ca sali ; tanto che
quelli che ne
furono spogliati, non po3
secondo Varrone c 486
aranii Cristo. perocché ne
andarono ai Volsci
appena si ebbe
la guep. ra, e concordarono, e
giurarono T alleanza. Or
questi spedirono a Marcio la
milizia più numerosa
e più risolutai. Dato
da questi un
principio, molti altri ancora favorivano occultamente
i Volsci ; mandando loro
dei sussidi non però
per decreto o pubblica
approvazione. E se taluno de’
loro voleva a quelli
coogiungersi', 've gl’ incitavano, non che
gl’ impedissero. Dond’
è che i Volsci accozzarono
in breve tempo
tanta milizia, quanta mai
più per addietro, nemmen quando
le loro città
più 6orìvano. Marcio che
ne era il
duce la gittò
di bel nuovo su
le campagne di
Roma ; e tenendovisi molti
giorni, devastò quanto crasi
lasciato nella prima
incursione. Non prése però
questa volta prigionieri
molti ingenui uomini, giacché, raccolte
le cose più
pregévoli, ransl questi ritirati^
in Roma o ne’ castelli
più vicini, e meglio
fortiGcalj. Ma depredò
il bestiame che
non arcano potpto ridurre
altrove, e gli uomini che
lo pasturavano, come il
grano tenuto ancora
nelle aje ed
altri prodotti che raccoglie vanSi o che erano
già pe’ grana). Cosi
derubata 6' guastata ogni
cosa, non osando alcuno
di conlrapporglisi, riportò nuovamente
in patria 1’
esercito, carico di grandi
acquisti, e quindi lento
in sua marcia.
I Volsci veduto'!’ ampio guadagno,
e convintisi dell’
abbattimento de’ Romani, che
predatori già delle robbe
altrui, miravano ora devastarsi
impunemente le proprie; ne
imbaldanzirono soprammodo, e concepirono pur la
speranza di dominare, quasi fosse
per loro facilissima e vicinissima
cosa annientare il
potere degli avversar]. Adunque
facaano agl’ Iddj
sacriBzj di nngrauamento,
oraavapo i templi ed i
pubblici fori di spoglie
che dedicavano. E tutti
iu feste, in
sollazzi, ammiravano e
celebravano Marcio, qual uomo
ipsignitaimo fra gli
altri nella guerra, e qual duce
cui ntun pareggiava non
Romano, non Greco,
non barbaro cajiitano.. Soprattutto lo
felicitavano della sua
prosperità ; vedendo che
quanto intraprendeva,
riuscivagji tutto speditissimamenle,
secondo i disegni. Tanto
che ninn v’era di
età militare il
qual, volesse non esser
con lui; ma spiccavansi,
e venivano da tutte
le città per
aver parte nelle sue
gesta. Il duce, corroborato ]’
ardore dei Volici, e
depresso il coor
de’ nemici, e ridottolo ad irrisolutezza indegna
de’ valentuomini, marciò coll’
esereito contro le
città che alleate
di essi teneansi
ajncora fedeli:. ed avendo ben
tosto apparecchiato quanto
ricercavasi per gli
assedj, piombò su’ Tolerini, gente del, Lazio.
I Tolerini, preparatisi
molto prima per
la gueiv ra, e portalo in
dllà, quanto^ bisognavacl della
campagna, ne scontraron l’ assalto.
Ben resisterono alcup tempo, combattendo e ferendo
ip copia i nemici,
dalle mura, ma risospinti è travagliati
poi fino a sera
dai feombolierì, le
abbandonarono in gran
parte. Marcio, compreso ciò, diede
ordine ad altri
che applicasser le scalchila
parte derelitta del
ricinto: ed egli
ne àndò col fior
de’ bravi alle
porte ; sebbene infestato
cogli strali dalle torri
: e là ^^zzali i
serragli, il primo si mise
in città: ma
perciocché si era
disposta alle porte una
schiera folla e poderosa
di nemici; questi
lo riceverono virilmente ; disputandogli lungo
tempo intrepidi r intento,
finché perdutine molti, dieder
volta, e sbanduiì fuj^ronsi jier
le vie. Gl
insegoi Marno, acciden(Ione c|uanli
ne sopraggiangeva ; se
'gettate le anni
non volgeansi alle preghiera.
lolanto gli asc^i
per le scale impadronironsi delle
mura. Cosi la
città fu presa, e Marcio separò dalle
prede quanto era
donativo pe' numi, o decorazione per
le città de’
Yolsci, abbandonando il rea’
soldati, Aveanci nell’acquisto
uomini, danari, grani; tanto
cUe non riuKl
facil cosa a vincitori
tor via tutto in
un giorno. Adunque
menandoselo, o trasportandolo successivamente di
per seslessi, assalto, prese ad
investirne in gran
parte le mura. I Bolani, aspettatane 1’
ora conveniente, spalancano
le mura
; e sboccandone in numero, a schiera, e con ordine
; si avventano su
quelli che stavano
a fronte: ed uccisone molti, e più
antera feritine, e ridotti gli altri
a turpissima fuga,
cioulraron le mura.
Marcio, che non era presente
al sito dell’
inforinnio, conosciuta la fuga de
Volsci accorse di
tutta fretta con
pochi : e raccogliendo quei che
vagavan dispersi, li ticongiun^
e rìaoimò : poi
riordinatili, edimostrato ciocch’ era
da fare; comandò loro
di attaccar la
città verso le
porte appunto. Ricorsero i Bedani a’
tentativi medesimi,
emergendo in gran mollitudine dalie
porte. Non gli
aspettarono i Volsci, ma ripiegandosi
fuggirono giù pel
declivio come il
duce avea già suggerito.
Non videro i Bolani
l’ inganno, e tnoltissime li seguitarono
: quando slontanatisi già
dalle mura ; Marcio che
avea seco il
fiore de’ giovani, diede su loro :
e qui molta ne fu la
uccisione ; fuggissero o resistessero. Seguitando
poi li respinti
fino alle porte, li prevenne; internandovisi a 'forza,
prima che si
richiudessero. Impadronito^si
il duce appeua
delle porte ; ecco giugnere altra
moltitudine di Volaci.
Li Bolani abbandonate le mura, rìpararonsi nelle
case. Divenuto in tal
modo r arbitro anche
di questa città, concedette a’
soldati di farne schiavi
gli uomini, e di porne
a sacco le robe. E trasportatane, come altre
volte, successivamente, a grand’
agio, tutta la preda, abbandonò la
città finalmente alle fiamme. Pigliando quindi
1’ esercite, ne andò
su’ Labicàni. Eran
questi, come altri, 'Colonia già
degli Albani, ma popolo
allora ancb’ esso
dei Latini. Or
egli per atterrirli fin dentio
le mura, sparse, giuntovi appena, su’Joro campi
il fuoco, principalmente in
quelli donde era .per
essere più visibile.
Ma i Labicani, avendo ben fortificate le
mora nè sbigottirono
p?r 1’ arrivo
di lui, nè diedero
segno alcuno di
debolezza : ma si
opposero e pugnarono
generosamente; trabalzandoli piùjvolte
fin da sopra le
mura. Non però
resisterono ' con successo;
combattendo pochi contro
di molli, e senza requie
mai, nemmen picciolissima i giacché 'frequenti erano
intorno la città gli assalti
successivi de’ Volsci
; ritirandosene via via gli
stanchi, e cimentandosi
altri l'ecpnti. Adunque data
per un intero
giorno battaglia, nè
fattasi pausa emmen su
la notte-, furono
dalla stanchezza astretti
a lasciare in fine
le mura. Marcio,
espugnatele, ne rendè é schiavi li
cittadini, e dté tutto in
preda a’ soldati.
Di là trasferendo 1’
esèrcito io ordinanza
contro la città'
de’ Pedani, Latina anch’
essa di popolo, la
pigliò di forza, giuntovi appena.
E trattatala come le'
altre già prese, levandone in
su 1’ alba
le truppe, le menò
béntotfto sa Corbione. Ma
nell' approssirharvisi gli
abitanti 1’ apersero, ed
uscirongli incontro,
presentando simboli di
pace, e la ' resa loro
senza combattcrè. Ed
egli, encomiatili come savj nel
provvedere a séslessi,
comandò che gli
portassero grano ed argento, come
l’ esercito ne bisognava
; e ricevuto tutto secondo
i comandi, marciò co snoi
contro Coriolo. Gederonò gli
abitanti pur questa
senza resistenza ; ma perciocché
con pienissima propensione
supplirono viveri, danari, e quanto
Kn chiese, nè ritirò 1
armata ; come su
territorio àmico. E per
fermo ; egli procurava! con
ogni sollecitudine che
quelli che si
rendevano non subissero i mali
causati dalla guerra
; ma riacquistassero,
intatte le loro
terre, e li bestiami, e gli
schiavi che aveano
lasciati ne’ loro
poderi : nè permetteva che le
truppe alloggiassero belle
città di essi ;
perchè non fossevi danno
di furti o prede, ma
le accampava presso' le
mura. XX. Di 'qua mosse
l’esercito verso Bovilla
città cospicua allora è contata
tra le primarie
de’ Ladini, che Nel
lesto dice Boia:
ma forse dee
leggersi Bovilta \ percbl;' Coriolgoo già
era stato ai
Toleriai, a Bota, a Labico, a Pedo,
a Corbipne, ed a Coriolo.
-Potrebbe dubiigrsi se
sia scritto Bovilla
nel $180 nel presente
di questo libro
: Si descrivono tulle
due come so r alture
; parlandovisi di declivj
; e Boriila eia nella
via Appia in piano, secondo Cloretio. erair pochissime.
Nod Io accolsero
già quei che
v’ erano dentro,' confidati
nelle fortificazioni 'assai vàlide,
e nel numero dei difensori.
Adunque egli eccitando
le trupper a combattere generosanaente, e proponendo amplissimi premj. a’ primi che
ne salisser le
mura; si accinse
all’as^ salto. Or qui
vivissima sava ; n^i
perchè, spalancate le porte ne
uscirono in furia ed
in copia, e ne incalzarono'
abbasso quanti ne erano
a fronte. Assai perirono
di Voisci in
quella sortita, e diuturna fu
la zuffa sopra
le mura ; sicché
mai più speravano d’ invaderle.
Ma il duce
supplendo nuovi soldati non
fe’ conoscere la perdita
degli altri: e raccese l’ardore dei
vacillanti; portandosi egli ‘stesso
alla parte di esercito
che pericolava : Nè
spiravano coraggio i delti soli, ma i fatti
ancora 'di lui :
corse a tutti I pericoli, nè lasciò
tebtativo, finché non si
preser le mura.
Irilpadronitosi poi della
città, messa parte
dei vinti a 61
di spada per. le
leggi dei forti, e parte rendulala
schiava, ricotadusse f
esercito. E^Ii rimenavalo
dopo una segnalala vittoria c^'co
di spoglie bellissime,
e ricco de’ tanti
danari, ivi presi, quanti in ninna delle
città coqquistate. Dopo ciò
tutta la regione
percorsa 'Era in po
ter sùo, nè più
gli resisteva ninna
'città se non
Lavinia, la -prima delle città
fondate da’ Trojani approdati
con Enea nell’ Italia, dalla
quale dm vano i
Romani come di sopra
fu dichiarato. Gli
abitanti pensavano dover
prima incontrare ogni male,
che 'mancar di
fede ai discendenti loro. Adunque
vi ebbero attacchi
terribili su le mura,
e battaglie veementi per
le forltficazioiu:^non però sì
espugnarono a prini impeto
; ma parve abbisògnarvt assedio, e tempo. Postosene
Marcio all’ assedio
cinse intorno la dtià
di vailo e fossa, e guardò le
strade, perché non le
si recassero esterni
soccorsi e viveri. I Romani
udita la rovina
delle città vinte, compresa la necessità
delle Fendutesi a Marcio, pressati da’
messaggi quoiidiaid delle altre, fedeli
ancora, che imploravano
ajulo,, spaventati insieme
dalla circonvallazione che
tiravasi intorno Lavinia, e convinti che
se cadea questo iurte
> la guerra verrebbe
addirittura su loro, crederono uno solo
il rimedio a tanti
mali, decretare il ritorno
di Marcio. Tutto il
popolo, gridava questo, e li
tribuni voleano lare. una legge
per annullarne la
condanna : ma^ li patrizj
si opposero, ricusando
che si ' annullassé alcuna sentenza enianàta.
E petuo. Che dunque
impedisce che rivenghi
alla dolce, alla carissima
vista de' tuoi pià
congiunti, e ricuperi t
amatissima patria, e comandi, come
ti si conviene, a chi comanda,
e sii duce de' duci,
e ne lasci C amplissima gloria a'
tuoi figli e nipoti
? E che tali e tante
promesse avran prontissimo
effetto, noi, quanti qui
vedi, noi tutti ne
siamo i mallevadori. Finché
nè stai di fronte
col campo e colla
guerra, non parve al Senato
nè al popolo
far su te
decisione ninna di clemenza
e di moderazione ; ma
se ti levi
dalle arme, avrai, né tardi, e noi
lo porteremo, il decreto del
tuo ritorno. Tali sono i
beni se
alla patria ti
riconcilii: ma se ti
ostini, se t odio non
deponi verso noi ;
dure e molte ne
saranno le conseguenze
: ed io due le
pià manifeste te
ne addito ; vuol
dire : la prima che
avresti il barbaro
amore di un'ardua
anzi impossibile cosa, di abbattere
cioè la potenza
di Roma, e colle arme
de' Volsci : C altra
che quando pure tu
ben ^ indirizzi e riesca
alf intento, ne sarai creduto
il pià sciaurato
de' mortali. E perchè
io così congetturi su
te ; lo ascolta
o Marcio, nè t’ inacerbare
sul franco mio
dire. E prima ne
intendi la impossibilità. Molta
è in Roma, e tu U>
sai, la gioventìi
paesana : e se le
si tolga ( e torrassele per la
necessità presente in tal guerra
) la sedizione, racchetando
il timore comune
tutti i dissidj, non pià li
V jIscì, ma niuna gente
d’ Italia ci abbatterrà.
Molte sono le milizie
de Latirù, molte quelle
degli alleati, coloni di
Roma, le quali aspettati
che in breve
giungano per soccorrerci. 1 capitani, come te, seniori
o giovani, tand sono di
moltitudine, quanti in tutte
lo altre città non
sono. Ma t ajuto
pià grande di
tutti, quello che non ei ha
mai deluso ne’ grandi
accidenti, e che pili vale
di tutte le
forze degli uomini,
è la beneifolenza de’ numi, per
la quale teniamo
questa città già da
otto generazioni non
pur libera, ma
felice, ed arbitra di
tante nazioni, JVon
pareggiarci ai Pedani, ai Tollerim, agli altri
popoletti, de’ quali
sormontasti le cittadelle.
Anche un altro
duce minore di te, e con
esercita minore che
questa tuo, violentato
avrebbe tali fiacche
e poco presidiate munizioni. Ma
considera la grandezza
della nostra città, la luce sua
per tante imprese
guerriere, e C ajuto divino
pel quale, già picchia, tanto s’
inff-andì : nè concepire che si diversifichi
codesta tua forza
colla quale vieni a tanta
cimenta : anzi ricordati
che un esercita meni
di Folsci e di
Equi che noi
stessi abbiam vinta
in tanto battaglie
in quante osarono
di affrontarci : Talché ben
vedi che porti
a combattere i men forti contro
i pià valorosi, e chi
sempre perdette contro vincitori
costanti, E quand’ anche
fosse il contrario ; pur
sarebbe da meravigliare, che tu perita
di guerra non
sappi, che ne' pericoli
non è pari r artlire
in ehi difende
i suoi beni, ed in chi
cerca gli altrui
; che questi se
non vincono, niente vi scapitano;
ma niente agli
altri pià resta,
se perdonoE questa principalmente è la
causa che le
grandi armate svaniscono contro
le piccole, e le
migliori. contro le men
buone. Chè può
la terribile necessità, ponno i pericoli
estremi spirare' corono
anche ad indoli che
non ne abbiano.
E quanto alC arduità deb r impresa
potrei dire piò
cose, ma bastino queste. Mi
resta a fare un
solo discorso, cui se
accompagnerai colla ragione
non colf ira, vedrai
che esso è giusto, e ti verrà
pentimento del procedere tuo
: ma quat è mai
questo discorso ? Gli
Dei non concessero a niuno
che nasce mortale
solida scienza delt avvenire
: nè troverai da
tutti i secoli alcuno
cui tutto riuscisse propizio
senza mai contrarietà
della sorte. Perciò li piò awanzati
in prudenza, quale il vivere
lungo e la molta
esperienza la recano, deano prima di
accingersi ad una
impresa considerarne il termine,
non solo se
riesca come pur
lo vorrebbono, ma nel
caso ancora che
devii dai disegni:
e ciò deano i comandanti principalmente delle
‘ guerre, a' quali, quanto piò
essi dispongono gravissimi
affari, tanto piò tutti
ascrivon la origine
de' buoni o tristi
successi ; tal che se
vedono esser niuno, o ristretto e piccolo
il danno dell'
azione se la
sbagliano, allora la
intraprendono, ma se vario
e grande lo vedono, la
tralasciano. Or fa
tu similmente ; prevedi
avanti di operare ciocché
sia per incontrarti, se manchi, o se
tutto non ti
viene a seconda nella
guerra. Tu sarai colpevole presso
gli ospiti tuoi
di aver tentato
imprese, grandi piò che
eseguibili. Concepisci ( nè
già lasceremo impuniti quelli
che han preso
ad offenderci ) che r esercito
nostro vengavi novamente
^ e devasti le loro
campagne : non potrai
evitare, 0 di essere
obbrobriosamente trucidato da
quelli a’ quali sei
causa di mali
sì grandi, o da noi
che ora vieni per
uccidere e per soggiogare.
Forse essi stessi
innanzi di patirne alcun
male, tentando far pace
con noi dovran consegnarti
alla patria che
ti punisca : e già
Greci e barbari assai,
ridotti a pari vicende, dm'ettero ciò
sopportare. Or ti
pajono queste picciolo cose, non degne
a discorrerle, o tali che debbansi trascurare, o non piuttosto
mali estremi a patirsi
^ fra tutti i mali? XXVni. Ma
via; n abbi tu
pure il buon
termine; e qual frutto allora
ne avrai così desiderabile,
così meraviglioso ? qual mai
gloria ne avrai
? Deh ! considera questo ancora.
Ti succederà primieramente
di esser privo degli
obbietti che piò,
ami, e piò ti appartengono ; io dico
della madre alla
quale porgi amara la
ricompensa di averti
generato e nudrito, e de'
tanti travagli che
sostenne per te :
dico della savia consorte la
qual vedova e solitaria
sta desiderandoti, e
deplorando dì e notte
il tuo esilio
: e finalmente de' due tuoi figli a quali
aspettavasi, come ai posteri di
egregj progenitori, che ne
percepissero pieni di fama
buona gli onori
se la patria
fosse felice. Di questi
tutti sarai costretto
a vedere le dolorose e sfortunate catastrofi, se ardirai
sospingere fino alle mura
la guerra ; giacché
a ninno de' tuoi
perdoneranno gli altri che
temono pe' ctai
loro, e che patiscono
disastri eguali da
te. Concitati dalla
propria calamità doranti terribilmente
e spietatamente a balterli, ad
ingiuriarli, e far loro
ogni specie di
vilipendj : e di ciò
non questi che
il fanno ma
tu ne sei r autore, che
ve gli astringi.
Tali i frutti sono che
gusterai, se ti giunge
V intento. Or su
contempla la lode che
te ne avrai, la
emulazione, gli onori,
cose tutte desiderevoli a buoni:
Z’ uccisore sarai
nominato della madre, C
uccisore de' figli, il
traditore della consorte y la
rovina della patria.
£ ninno buono, niun giusto
vorrà, dovunque tu capiti,
partecipare ai tuoi sagrifizj, alle tue
libagiorU, al tuo consorzio
: nè sarai caro a
quelli nemmeno per
la benevolenza de’ quali
ciò fai : ma
godendo dascun d'essi
il frutto della tua
empietà, detesteranno la ostinazion
del tuo cuore. Lascio
di dire come
senza /’ odio
che avrai fin da
piò miti, ti sarà
intorno la invidia
[non piccola degli eguali, il
sospetto degl’ inferiori, e per queste due
emise, le insidie, c ta/ui altri
infortunj, quanti è verisimile
che sopravvengano ad
un uomo, privo
di amici in terra
di estranei. Lascio
di dire le
furie che ispiransi da’
numi e da’ genj
negli empj e ne’
facinorosi, dalle quali, straziati
ne’ corpi e nelC
anima, vivono sciaurata la
vita, aspettandone misera ancora la
fine. Tali cose
considerando o Marcio ' correggiti
; e cessa d’ inseguir la
tua patria. Riguardando
la sorte come autrice
de’ mali che
hai da noi
tollerato, o fatto a noi, toma
felicissimo a' tuoi, ricevi
gli empiessi carissimi della
tua madre, le amorevolezze soavissime della
tua sposa, ed i baci
dolcissimi dei • tuoi figli
: almen simili
cose di sè.
Ma qual altro
può gloriarsi o centurione, o
comandante d aver presa come
io la città
de’ Coriolani f O
qual altro in un
giorno stesso ruppe
f annetta nemica come
io ruppi quella degli
.daziati, che veniva
per soccorrere gli assediati
7 Lascio di ricordare
che dopo tesi
pegni di tnrtà potendo
io prendere in
copia dalle prede
oro, argettto, schiavi,
giumenti, gceggie, e terre vaste,
e feconde, non volli : ma
intento a serbarmi principalmente senza invidia,
pigliai per me
solamente dalle prede un
cavallo militare, e da prigionieri
t ospite mio, ponendo tutto il
resto ad util
comune. Dite : era
io per tanto
degno di premj
o di pene ? Dovea subire la
legge da’ vilissimi
cittadini, o darla io loro ? O non
mi espulse il
popolo pcf questo, ma
per La lode
h, perebt Coriolano
prese con pochi
la città, sema essere
ni ooniaodanle, nà
tribuno, a' qMii sarebbe
alato unto piti facile
invaderla colle milisie
dipendenti. chè io
era nel retto
della vita, un
intemperante, un suntuoso,
un senza leggi?
Ma chi potrà
dimostrarmi un solo, pe
miei piacer non
legittimi esule dalla
pa^ trio, spogliato dalla
libertà, privato degli
averi, o ridotto ad
altra sciagura qualunque
? se nemmeno i nemici
mai di tali
cose m’ incolparono
o calunniarono, contestando
anzi tutti come
irreprensibile la vita mia
quotidiana? La scelta,
dirà taluno, abbonila de
tuoi governamenti ti
procacciò questo male ;
Ut polendo eleggere il
meglio ti appigliavi
al peggiore : e dicesti
e facesti tutto perchè
in patria cadesse
il comando degli Ottimati,
e s' impadronisse del comune la
moltitudine imperita, e
scellerata, O Minucio ! Ben
io mi adoperava
in contrario, e provvedeva che il
Senato, maneggiasse in
perpetuo il comune, e restasse la patria
forma di governo.
Per tali belli
stabilimenti, creduti sì pregievoli
da’ nostri antenati, io me n ebbi
dalla patria la si fausta
e beata ricompensa,
cacciatone non solo
dal popolo, o Minucio, ma molto
innanzi pur dal
Senato, il quale, quando io
mi opposi a'
tribuni che m incolpavano
di tirannide, mi animò
da principio con
vane speranze, quasi osso
fosse per operare
la mia sicurezza, ma
poi temendo de’ plebei
mi si distolse, e mi cedette
a’ nemici. O Minucio ! tu
eri console quando
faceveui il previo decreto
pel giudizio, e quando
Falerio, cita tanto ne
fu lodato, esortava col
dir suo, che io fossi
al popolo consegnato.
Ed io temendo
dal Senato un decreto
che mi consegnasse
; condiscesi, e promisi di andare
f e presentarmi io stesso
in giudizio. Ma dP
Minucio, rispondi : parvi al
popolo solo, o pure al Senato
ancora io parvi
degno di castigo per
lo buon inaneggio
e condotta mia pubblica ? Se
così edlora a tutti
ne parve ; e tutti
mi scacciavate; egli è chiaro
che quanti così
deliberavate, odiavate
allora la giustizia,
nò restava in
Roma alcun luogo che
sostenesse il bene.
Che se il
Senato, violentato, si
rendette al popolo, e quella fu
/’ opera della
necessità non del
cuore ; confessate che
siete il gioco degli
scellerati, nè resta
al Senato podestà niuna
su qurmto mai
scelga, E ciò stando, mi
chiederete che io men
venga ad una
città dove i buoni son
vittima dei ribaldi?
Troppo di stolidità
mi condannate ! Or su:
diamo che io
persuadami, e che deposta,
come chiedete, la guerra, ne
andiamo ; qual sarà
dopo ciò f animo
mio ? quale la
vita ? Sebbene eletto
il partito piò
sicuro e meno pericoloso t cercando io poi li
magistrati, gli onori,
ed altro che io
credo competermi, soffrirò di
adulare la turba che li dispensa?
vilissimo diventerei di
magnanimo, e niente più V antica
virtù mi gioverebbe.
O restando ne’ miei
costumi, e serbando le istituzioni mie del
viver civile mi
opporrò a quelli che
diverse ne sieguono ? Or
non è manifesto che
il popolo di nuovo
mi combatterebbe, che a nuove
pene mi citerebbe, cominciando l'accusa
da questo, che
io ridonato da esso
alla patria, pure ai
piaceri di lui
non mi conformo ? Certo
non dee dirsi
cdtrimente. E qui sorgerà tal
altro insolente tribuno
che simile agl'Icilj ed
ai Decj m incolpi
di scindere i cittadini
fra lorOf d insidiare il
popolo, di tradire la
patria a' nemici, di
tentare, come Decio me
ne imputava, la tirannide, o taC altra
ingiustizia, come ad esso
ne paja; giacché non
mancano a chi ti
odia i pretesti. Pro durransi
dopo queste, nè già
tardi, le imputazioni ancora su
le cose da
me fatte in
tal guerra, che io
percossi la vostra
regione, che rapii
prede, che espugnai città, che
di quelli che
le difendevano parte
ne uccisi, e parte a’
nemici li consegnai.
E se gli accusatori allegheran tali
cause ; che dirò
io per ispedirmene
? o con quale soccorso
sosterrommi ? Non è dunque
chiaro o. Minucio
che belle v' avete, ma
pur finte le
parole, e che un bel
velo date ad un
impuro disegno ? Non
a me concedete il ritorno
; ma vittima al
popolo me portate
; e forse ( giacché buone idee
su voi non
mi vengono ) vi
siete concertali a ciò fare, seppure
ciò non voleste,
senza prevedere ( e vi si
accordi ) i mali che
ne avrei da soffrire.
Or che varrebbemi
la vostra ignoranza
? che la vostra
stoltezza ? se non
potreste, anche volendo,
niente impedire, necessitati di
concedere anche questa colle
altre cose alla
plebe. Se non
che non piti bisognan
parole a mostrare che
questa, che io chiamo
via prontissima di
rovina : niente, sebben voi la
chiamate ritorno, gioverammi per
la salvezza. Che poi (
giacche m' invitavi
a riguardare ancor questo ) niente o Minucio
mi giovi per
la buona fama, niente
per P onore, niente per
la pietade, anzi che io
opererei turpissimamente ed
empiiss imamente se a voi
mi rendessi; ascoltalo
dalla mia parte.
Io militai già contro
questi Folsci, e molto nel
militare li danneggiai ; procacciando alla
patria impero, forza,
chiarezza. Non convenivasi
thè io fossi
onorato dai beneficati, ed abborrito
dagli offesi ? jdppunto
; se a ragion si operava.
Ma la sorte
perverti tutto, e rivolse ciocché
t uno e C altro mi
doveano in contrario. Voi per
le cose onde
io era a questi
nemico, mi spogliaste di
tutto il mio, e,
quasi ciò fosse
nulla, mi bandiste : laddove, questi che
avean tanto infortunio da me,
mi raccolsero questi
nelle proprie città povero, abbietto, senta casa e
senza patriaNè bastando
loro questo splendido, questo generosissimo tratto ; mi
han conceduto cittadinanza, magistrature y onori,
quanti ven sono
piti grandi in
tutte le loro città.
Ma lasciamo questo
: ora mi han
fatto comandante assoluto delV
esercito posto oltra
iete a chiedere, e non 4^ me,
la pace
o la tregua. Tuttavìa non vi do
questa risposta : ma
venerando gl’ Jddj patenti, rispettando le
tombe avite, commiserando la terra
ove nacqui, le femmine, i fanciulli non degni
che su di
essi ricadano le
colpe de’ genitori e degli altri
; e j nommen che per
questo o Minucio, in grazia
di voi che
foste qua deputati
dalla città ; vi rispondo, che
se i Romani rendono
ai folsci le
terre tolte loro, e le
città che ne
tengono, richiamandone i proprj
coloni; se fanno
pace con essi
comunanza perpetua di
diritti, come co’ Latini, e giuramenti ed
esecrazioni contro de’
violatori de’ patti; io
do fine alla
guerra. Annunziate primieramente
ad essi questo, poi, come avete
presso me perorato, aringate presso
loro sul giusto
: e quanto è bella cosa che
ognun s’ abbia il suo,
e vivasi in pace :
quanto pregevole che
niun tema nè i
nemici, nè i tempi : e come
è biasimevole che chi
ritiene l’ altrui si
esponga senza necessità
alla guerra con
pericolo delle cose anche
proprie. Dimostrale loro
che non eguali sono i
premj vincendo o perdendo
per chi appetisce r altrui : e se
vi piace aggiungete, che quelli che
han voluto prendere
le città degli
oltraggixti, se infine poi non
prevalgono, perdono pur la
terra, e la città loro, e vedono malmenate
obbrobriosamente le mogli, portati
i figli agli affronti,
e li padri lorOj fatti
schiavi di liberi, nelC
estrema vecchiezza ; Persuadete insieme il
Senato che dovrà
tanti mali alla stoltezza sua
non a Marcio. Terocchè
potendo fcàre il giusto
; potendo non incorrer
ne’ mali ; corrono
agli ultimi rischi,
aspirando sentpre alC
altrui. Questa è la
risposta; nè potreste
altra averne dame:
andate, ponderate ciocché a fare
v abbiate : io vi
do trenta giorni per
decidervi. In questo
tempo ritiro o Minwciò
in riguardo tuo e
degli altri t esercito
da questi campi, che
asscù se vi
rinuuiesse, ne sarebbero
danneggiati, Al ventesimo giorno
mi ci aspettate
a pigliarne la risposta. Ciò detto
sorse, e sciolse 1’ adunanza
: e nella notte seguente
presso 1’ ultima
vigilia levò l' esercito, e lo condusse
OMilro le altre
città Latine, sia ebe realmente
fosse persuaso che
di là verrebbono
de’ sussid) a’ Romani, come
1’ ambasciadore avea
detto, sia che egli ne
spargesse la voce
per non sembrare
d interromper la guerra
in grazia de’
nemici. E piombando sopra Longola, ed impadronitosene senza
fatica, e fattovi come nelle altre,
dei schiavi, e delle prede;
venne alla città de’
Satrìcani. Presala, e
tenutovisi pitxiolo tempo, ordinò
che parte dell’
esercito recasse le
spoglie raccolte da ambedue
queste città in
Eccetra, ed egli marciando coir altra
parte venne a Ceda,
che chiamano. Otte nutala, e derubatala -,
si gittò nel
teiritono de’ Polu scani . Non
valsero nemmen questi
a resistere ; ed espugnatili,
si avanzò verso
le altre città
: prese di as
Questa Toce è aiqbigaa.
Lirio nooiioa Tiebbia
; ed altri ia questo
luogo di Oiooigi
vorrebbe por Silia
Seste : ma questa par troppo
lootaaa pel viaggio
di Marcio. (ij Lapo
parve leggere Ttuelarù. salto gli
Albieti ed i MugiUaui
; e ricevette a patti i
Corani. Divenuto in
trenta giorni padrone
di sette citti ; si
rivolse a Roma con
più milizie che
prima : e fermandosene lontano
poco più che
trenta stadj, si accampò presso la
via Tuscoiana. Intanto
che prendeva ed univa
a sé le città
de’ Latini, parve ai
Romani, consultale lungamente
le proposte di lai,
di non
far cosa indegna della
repubblica. Pertanto, se i Yolsci
partissero dal territorio loro, degli
alleati e de’ sudditi, e lasciasser la
guerra e spedissero ambasciadori
per trattare la pace ;
il Senato decidesse
allora e ne riferisse
al popolo le condizioni
: non decidesse però
mai nulla di umauo
su loro, finché stavano
con ostili maniere
su le campagne di
Roma e degli alleati.
Couciossiachè li Romani (Muervarono sempre
altamente di non
far mai nulla pe
comandi, nè pel terror
de’ nemici ; ma
di compiacere, e contentare gli
avversar] pacificatisi, e rendutisi, nelle dimande
se fosser discrete.
E Roma ha mantenuto tale sublimità
di carattere in
molti e grandi pericoli, nelle guerre
co cittadini e cogli
esteri, e tuttavia lo mantiene.
Deliberate tali cose, il
Senato scelse am)>asciadori altri
dieci tra’ consolari, perchè dimandassero a Marcio che
non desse ordini
duri nè indegni
di Ro Silbnrgio
sospetta ebe io luogo di
Albiètì debba leggersi
Lahitiiati ciot Laviniaui
di Lauinio, la presa
del quale era
stata tralasciata, come si t
veduto di sopra.
Il cognome di
Lucio l'apirio Mugillaoo prova
che vi ebbe
una città Multila
di nome, donde tono i MugiUani. montai. ama Ili. t
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DELLE Antichità’ romane ma, ma
deponessc le nimicizie, ritirasse le
truppe dal territorio, e
cercasse di trattare
con modi persuasivi
e conciliativi, se voleva che
gli accordi tra
due popoli fossero permanenti
ed eterni ; giacché
gli accordi sia privati, sia pubblici, conceduti per
la necessità e pei tempi,
finiscono appunto co’ tempi
e colla necessità. Or questi, eletti ambasciadori, non si
tosto. udirono l’ arrivo di Marcio, andatine a lui, dissero assai
cose atte a guadagnarlo,
badando di non
offendere co' discorsi
la maestà della repubblica.
Marcio però non
rispose altro se non
che consigliavali ( e questa
era 1’ unica tregua
che dava
) a tornar fra tre
giorni con deliberazioni
migliori. E volendo essi replicare
; non lo permise
: ma impose che partissero
immantinente dal campo.
E minacciando che li tratterebbe
come spie se
non ubbidivano ; quelli ammutoliti
partirono incontanente. I senatori quantunque udite
le risposte ostinate
e le minacce di Marcio, pnre
non decretarono di
portare 1’ esercito di
là dai confini, sia
che ne temessero, come raccolto in
gran parte di fresco,
la inesperienza, sia che
1’ abbattimento temessero dei
consoli, poco intraprendenti
per sestessi, e giudicassero pericoloso
il cimento ; sia che
i segni celesti interdicessero loro
quella uscita per mezzo
degli uccelli, degli oracoli
Sibillini, o di altra
visione : cose che
non sapeano gli
uomini di allora, come
i presenti, trascendere.
Adunque deliberarono di guardare
la città con
vigilantissima cura, e di
respingere dalle
fortificazioni gli aggressori. Ciò fatto
e preparato ; nè tuttavia
disperando di piegar Marcio, se
lo pressassero con
deputazione più augusta
e più grande, decretarono che
pontefici ed auguri, e quanti
arcano sacri onori
e ministeri nelle pubbliche divine
cose ( e molti sono
fra loro e sacerdoti
e santi ministri, e questi i più
cospicui pel sangue paterno,
o pel merito proprio)
andassero in copia co’ simboli delle
divinità riverite e festeggiate
in Roma, e cinti di
sacre vesti, al campo
nemico, e vi replicassero
gli stessi discorsi.
Giunti questi, e dettovi quanto aveano
dal Senato, Marcio non
rispose nemmeno ad essi
per ciò che
chiedevano; ma consigliò
che partendo adempissero gli
ordini se volevan
la pace; o la
guerra in città si
aspettassero : del resto
intimò che non
più ritornassero a lui per
far parlamento. Caduti
ancora di questo tentativo, e deposta ogni
speranza di pace, si apparecchiavano i Romani
per 1’ assedio
;, collocando i giovani più
vigorosi alle fosse
ed alle porte, e li
veterani già licenziati ma
pur buoni ancor
per le armi, alle
murai Le mogli loro, quasi
approssimatasi già la tempesta, lasciato il
decoro col quale
si tenevano in casa, correano ai
templi piangendo ed
abbracciandosi a’ simulacri de’
numi. Ed ogni
sacra magione, specialmente quella
di Giove in
Campidoglio, risonava di ie
minei ululati e di
suppliche : in questa
una matrona preminente per
lignaggio e per dignità
trovandosi allora nei meglio
degli anni, attissima a provveder
ciocché deesi (Valeria ne
era il nome)
sorella di quel
Poplicola il quale
aveali già liberati
dai tiranni', eccitata
da istinto divino, si fermò
nel grado più
alto del tempio, convocate le
donne compagne,
primieramente le consolò
ed animò a non
smarrini ne’ mali, poi
diede a vedere che
restavaci una speranza
di scampo, riposta in
loro nniramente, se faceano
quanto era d'uopo.
Allora r una di esse
ripigliò : Con quale
opera nostra mai potremo
noi donne salvcwe
la patria, non sapendo
più fare ciò
gli uomini ? E qual
forza ahhiam noi,
deboli, sciaurate F E
Valeria, non le
arme, disse, abbisognano, non
le mani ; dispensandoci da ciò
la natura, ma
le arnorevolezze e la
persuasiva. Or qui, fàltusi clamore, e pregandola tutte
a svelarlo se pur ci
avea rimedio alcuno, disse
: In questo lutto, in
questo disordine di
vestimenti prendete compagne anche altre
donne, e menando con
voi li vostri
figli, ne andiamo in
casa di Veturia
la madre di
Marcio. E ponendo i nostri figli
dinanzi le ginocchia
di essa, e lagrimando ; scongiuriamola che
impietosita di noi non
colpevoli di male
ninno, e della patria
ridotta in pericolo estremo, vada
al campo nemico
; e vi meni i suoi nipoti,
la madre loro e
noi tutte, le
quali la seguiremo co'
nostri figlioletti : e che
interceditrice presso del figlio,
lo dimandi, lo
supplichi a non fare la
calamità della patria.
Lei piangendo e rimovendolo; nascerà forse
alcuna compassione o mite
pensiero in quesF uomo, che
già non ha si
duro ed impenetrabile il cuore
da respingere fin la madre
che abbraccigli le giruscchia. Poiché le
astanti ne approvarono
il dire; ella supplicando i numi
di dare persuasiva
e grazia alle istanze, loro
pari) dal tempio.
La seguitarono le
altre ; e prese dopo ciò
per comp-igne alti’e
donne, ne andarono in fòlla
alla casa della
madre di Marcio.
Volannia la mo glie
di Marcio seduta
presso la suocera
si meravigliò nel vederle, e disse : E che
possiamo noi farvi, o donne, cito in
tanta moltitudine venite
ad una casa di
sciagura e di aflizione?
E Valeria soggiunse: i?tdoUe
a pericoli estremi noi,
con questi fanciullelli, veniamo a te
supplichevoli, o Feturia, per
implorare^ tonico e solo ajulo,
e primieramente che abbi
pietà della patria non
mai fin qui
stata in man
de' nemici, eicchè non
vegli soffrire che
ora la libertà
le si tolga dai
Folsci; seppur conquistando
la patria la
rispar~ mieranno, non la
struggeranno dai Jondamenti.
Dipoi per noi preghiamo
e per questi miseri
fgU, sicché non veniamo
tra gli strazj
degf inimici, noi
niente ree de mali
accaduti. Se un
cuor ti resta
in parte almeno, clemente ed
umano; deh! tu
ne compassiona, o F fluria,
tu donna, e tu partecipe
de' diritti sacri, inviolati delle
donne : prendi
teco Folunnia, questa ottima
donna, e con essa i
suoi figli, prendi
coi figli nostri pur
noi supplichevoli a un
tempo e magnanime, e vieni al
tuo figlio, persuadi, insisti, ni
dar fine
alle suppliche, finché pe'
tanti benefizj tuoi non
ottieni da lui
che si rappacifichi
co’ suoi cittadini, e rendasi alla
patria che lo
ridomanda'. Ut, ben 10
sai, trionferai di
lui, che pietoso,
certo te non dispregierà prostrata
a’ suoi piedi.
E tu riconducendo 11 figlio
tuo alta patria,
ne avrai, corni
è giusto, splendore sempiterno,
perchè C avrai liberala
da tale ()) Meli’
uso della Religione
comune rischio e terrore: e sarai
cagione a noi di
essere oHo~ rate presso
degli uomini ; perchè
avremo sciolta la guerra
che non potè
da essi dissiparsi.
Parremo cojI le discendenti
veramente delle femmine
che mediatrici terminarono la
guerra di Romolo
co’ Sabini ; e conm giunsero duci e
nazioni, e grande renderono
di piedola la
città . Magnìfica sarà t
impresa, o Feturia, d' aver seco
riportato il figlio, d’aver liberata
la patria > salvate le sue concittadine
; e di lasciare ai posteri
suoi luce indelebile
di virtù. Dacci,
o Fetum ria, con cuore spontaneo
e vivido questa grazia
; vieni, ti accelera ; poiché
grande, imminente il pericolo non
ammette più indugio, o consiglio. XLI. Giù
detto, tutta in pianto, si
tacque. E piangendo pur esse,
e pregando vivamente le
compagne; iVeturia, vinta dalle
lagrime, dopo breve
silenzio, disse: Foi seguite, o Falena, leggera e fiacca
speranza ; promettendovi un
ajulo da noi ;
donne infelici. Ben abbiamo
tenerezza per la
patria, e volontà di saL'ore I cittadini, qualunque
mai siano; ma
la potenza e la efficacia ne
mancano per compiere
ciocché vogliamo. Marcio, o F
ileria, ne rifugge da
che il popolo
fe’ di lui r amara
condanna, ed odia tutta
la casa insieme colla
patria. E ciò diciamo, sapendolo da
Marcio stesso', non da
altri; perocché quando
soggiaciuto alla condanna venne
in casa in
mezzo agli amici, trovando noi addolorate,
abbattute, co’ figli suoi
su le ginocchia, e che piangevamo, corri era
giusto, e Vedi 1.
a, $ 4^ espone
disicsantenle tale storia deploravamo la
sorte che ci
soprastava nel perderlo
; egli fermatosi alquanto
da noi lontano,
insensibile come una pietra,
e co’ sguardi fissi,
partesi, disse ^ Marcio
da voi, o madre, o Volunnia
donna bonissima, cacciato
dai suoi cittadini perchè
prode, perchè amico
della repubblica, e perchè subito
ha tanti travagli
per la patria.
Voi sostenete, come si
conviene a femmine virtuose, tanta calamità, non facendo
mai nulla d’ indegno, mai nulla di
vile: consolandovi in
questi fanciulli sulla
mia privazione, educateli degni
di noi, e della stirpe.
Gli Dei concedano ad
essi, uomini divenuti, sorte più
buona ; ma virtù
non minore. Addio.
Io vado, e lascio questa città
che più non
cape gli onesti
uomini. Addio numi tutelari, e tu
Vesta, paterna divinità,
e voi quanti siete Dei
di questo luogo.
Appena ciò disse, noi
misere, noi dal dolore
impedite, scoppiando in
gemiti, e per^ cotendoci il
petto portai'amo a lui,
per riceverli an~ cara, gli
amplessi estremi : ed
io menava meco
il maggiore de’ figli, e la
madre avevasi in
braccio il minore. Quando
egli, ritirandosi e rispingendoci, disse: Da
ora innanzi Marcio
non più sarà
tuo figlio, o madre,
togliendoti la patria
in esso il
sostenitore della tua cadente
età, nè più sarà
da questo giorno
il tuo sposo, o Volunnia: ma sii pur
felice, un altro
cercandotene più di me
fortunato : nè più
sarà padre vostro o figli carissimi:
ma orfani e solitarj
presso queste crescete fino
agli anni virili.
Ciò detto, nè soggiungendo altro, nè
comandando, e non significando
nemmeno ove andasse, uscì di
casa, o donne, solo, senza servi, in
disagio, senza portare seco
delC aver suo neppure
il vitto di
un giorno. E già
volge t anno quarto eh’
egli fuggì dalla
patria, e riguarda noi
tutto come straniere, niente scrivendo, niente mandandoci a dire, e niente
volendo di noi
risapere. Or presso un
cuore si duro, si
impenetrabile, o Troieria, qual forza
avranno le preghiere
di noi alle
quali non dava, partendo £ ultima
volta, non un amplesso, non
un bacio, non significazione niuna
dì affetto? Che se
tuttavia domandate voi
questo, e volete in tutto vederne
wniliate ; concepite, che io e
Volunnia a lui ci
presentiamo co’ figli.
Quali discorsi io madre, dirìgo
la prima, quali preghiere
porgo al mio figlio
? Dite, ammaestratemi.
Chiederò che per^ doni
a suoi cittadini da
quali ( e senza che
offesi gli Oi’esse ) fu
privato della patria
F Chiederò che inteneriscasi o compassioni la
plebe, che su
lui non seppe intenerirsi, tré compassionarlo? Che
abbandoni e tradisca quelli che
esule lo hanno
raccolto, i quali sebbene
malmenati già un
tempo da lui
tanto e sì feralmente, pur non £
odio gli
mostrarono di nemici, ma
la benevolenza di
amici e di congiunti
? E con qual cuore pregherei
io mai questo
mio figlio che amasse
chi lo sterminava,
ed oltraggiasse chi
lo salvava ? Non sono
questi i discorsi di
una madre savia al
suo figlio, non di
una moglie al
marito : nè voi ci
astringete, o donne, che
imploriamo da lui
cose non giuste presso
degli uomini, nè
pietose presso gli Iddii:
piuttosto lasciate noi
misere nella umiliamone ove siamo
per la sorte, senza
che noi pure
svergfsgniamo piu ancora
noi stesse. Taciutasi lei,
surse un tanto
lamentarsi di femmine, e tale
un pianto ne
riinbotnbò, che udendosene i • clamori per
gran parte della
cUlà, si empierono di popolo
le vie d’ intorno
la casa. Poi
rinovando Valeria più lunghe
e più commoventi preghiere, le
altre donne, com’ erano congiunte
di amicizia o di
sangue con r una o l’ altra
di loro, supplicavano ancora
in atto di stringerne
le ginocchia. Tantoché
non più restendo
per l’ afflizione fra
tanto piangere e supplicare; cedette infine
Vetutla, e promise di andarne
oratrice per la patria
co' figli e colla
moglie di Marcio, 'e^
con quante cittadine voleano.
Racconsolatesi allora vivaiùeuté, ed invocati
i numi a favorire le
loro speranze, partirono
dàlia casa, e nunziarono ai
consoli il fatto.
E questi, lodandone là
buona volontà, convocarono
ed interrogarono i padri, se fosse
da concedere che le
femmine ^uscissero. Or
molto, e da molti
se ue disputò; tanto che
giunti a sera dubitavano
ancora ciocché fosse da
fare. Dicevano molti
non essere piccolo
cimento permettere che le
donne andassero co’
figli al campo
dei nemici; imperocché se
questi, spregiando le
leggi sacre degli ambasciadori
e de’ supplichevoli,
volessero che le femmine
non più 'rìtornassero, prenderebbono Roma senza
combattere. Pertanto consigliavano
che si lasciassero andare a Marcio
solamente le donne
che a lui si appartenevano insieme
cu’ figli. Altri
però giudicavano che non
si concedesse che
andassero nemmeno rpieste; anzi
esortavano di custodirle
gelosamente, e di considerai
le come
ostaggi sicuiissimi, perchè
la città nou
subuse grave disastro.
Per l’ opposito altri
proponevano che si accordasse
a quante donne volevano, di
uscire, perchè^ le donne
congiunte a Marcio,
fornissero con ' più
dignità la mediazion
per la patria.
Dicevano che non succederebbe
ad esse niente
di sinistro; giacché
ne sarebbero mallevadori primieramente
i numi col favore santo
de’ quali si
moveàno ad intercedere
; e poscia il duce stesso
al quale ne
andavano, come uomo puro ed
inviolato in sua
vita da ogni
ingiusto ed empio
attentato. Vinse finalmente il
partito che accordava
alle dònne di andare,
e còn decoro amplissimo
di ambedue; del Senato
come savio, perchè vide
ciocché era a farsi il
migliore, senza punto turbarsi
al grande perìcolo
; e di Marcio finalmente
per la sua
pietà, perché fh
confidato, che niènte oliraggerebbe
tal parte imbelle,
espostasi a lui quantunque egli
fosse nemico. Steso
il decreto, e recausi l consoli
al Foro, e raccoltovi
il popolo, essendo già
notte, vi palesarouò il
voler del Senato, e preordinarono, che tutti
al nuovo giorno
accorresserò alle porte per
accompagnarvi le donne
che uscireld)ero. Busi frattanto, diceano,
che curerebbero quanto
era d'uopo. Era ornai
l’alba vicina;, quando
le donne portando i figli loro, andarono colle
faci, e presa in sua casa
Vcinrìa, la condussero alle
porte. I consoli idlesUte
mule da tiro,
e carri, ed altri trasporti
moltissimi, ve le acconciarono,
e seguironle per, lungo tratto: le
accommiatavano intanto i senatori
ed altri in buon
numero con auguri,
con preghiere, con
eocomj, rendendone cosi più dignitoso
il viaggio. Come
si potè dal campo
distinguere, che donne,
lontane ancora, si àvanzavano,
Marcio spedi de’
cavalieri per apprendere che fosse
quella moltitudine, e perehé dalla
catti ne veoisse. E risapendo
da loro che
venivano le donne Romane
oo 6gli, e che innanzi
-di tutte era la madre di
lui, e la moglie
co’ figli suoi;
stupì da principio
che femmine potessero aver
cuore di avanzarsi
co’ Ggli senza guardie
al campo nemico, e darsi a vederè
ad uomini insoliti, lasciata la
verecondia conveniente a matrone ingenue e pudiche, e la paura
del pericolo nel
quale incorrerebbero, se
questi volgendosi airutile
più che al giusto, volessero acquistarle,. e giovarsene. Ma
posciacbè furono vicine, deliberò di
uscire dal campo
con alquanti ' verso la
madre, comandando ai littori
che quapdo le fossero
dappresso deponessero le
scuri, e le abbassassero i
fasci. Usavano i Romani
questo rito quando i magistrati minori
s’ incontravano co’
maggiori ; ed il rito
persevera ancora. Osservò
Marcio allora tal
pratica, e rimosse tutti i segnali
dell’ autorità sua ;
quasi egli dovesse presentarsi
ad una autorità
maggiore : tanta fa la
riverenza, tanta' la sollecitudine
sua per la
pietà verso la madre. Fattisi ornai
vicini, si avanzò la
prima per riceverlo la
madre, ahi ! quanto miseranda, squallida vestunenti, e
logora gli occhi
dal piatito. Come
la vide, Marcio, duro, imperturbabile
fin’ allóra contro tutti
gli assalti, non più
valse a persistere nel proposito
suo: ma
vinto dagli affetti
del cuore umano
corse, la strinse, la baciò, la
chiamò con tenerissimi
nomi: e molto lagrimandone, e curandone ; la
sostenne, mentre venuta meno
abbandonavasi a terra. Soddisfiitta
la tenerezza sna
verso la madre, ricevendo la
donna sna che sea
veniva co’ figli
disse ^ Fornisti o Koluimia
gli offizj di
ottima donna, > uh’endoli presso
la mia genitrice: ed
io godo come
su dono dolcissimo
infia tutti, che non t
qhbandonasli nella sua
solitudine. Dopo ciò chiamato
a sé 1’ uno e
l’altro de’ figli, e carezzatili come si
conveniva ; si rivolse
noVamente alla madre, invitandola
a dire per qual
fine veniva: ed
ella soggiunse che il
direbbe, udendola tutti ; giacché
non chiederebbe se non
giustissime cose. Lo
esortava dunque che sedesse
nel luogo appunto
dal quale solea
far giustizia a’ suoi
militari. Con piacere
udì Marcio la
proposta, pen hé varrebbesi
di assai più
regioni per rispondere alle istanze
.di essa, e darebbe dv
opportunissimo luogo fra la
turba la risposta . Adunque
recatosi al tribunal militare
fe da indi
rimovere e calarne al
pianteiTeno la sedia, giudicando non
dover lui tenersi
p’ù alto che la
madre, nè còn maestà
niuna contro di
lei. Poi fatti sedere
presso di sé
li più cospicui
de’ capitani e dei centurioni, e lasciando che
intervenissero quanti
volevano ; significò alla
madre che incominciasse. Veluria, poste innanzi
del tribunale la
donna di Marcio co’
figli e le altre
più ragguardevoli tra le
Romane, ' pHmieramente rivolti gli
occhi alla terra, pianse
lungamente, p mosse tenera compassione
negli astanti : poi raccogliendo
sé stessa disse
: Le donne, o Perché
sarebbe siala risposta
pubblica; udendolo cbi
Tclcea ; e perché cjuel
luogo stesso, di
dignità e di comando
aerebbé ricordalo Ila madre
le ubbligaiionf Che
egli arcTa co'
Votaci. (a) Anni di
Roma a06 sccoodu
Calorie, a63 secondo
Varoue, e 4^ arami Criaio. Marcio figlio,
considerando gC info rtunj
che su di esse
piomberebbero se la
città divenisse de nemici,
diffidatesi di ogn
altro soccorso, poiché tu
davi le sì dure,
le jì ostinate
risposte agU uomini
che chiedeano un fine
alla guerra ; queste
donne, o Marcio ^co’ /?glioletti,
in questo lugubre
apparato ricorsero a me tuà
madre, ed a V olunnia tua
sposa per supplicarci 'a non
permettere che avessero
tanto male ‘da
te, più che da
ogn altro, esse cfie
non ci aveano
offeso punto nè pocO',
e che grande ci
aveano dimostrata la benevolenza
nella nostra sorte
felice, e viva nommeno
la compassione quando
ne dec'ademmo. Noi
ben possiamo testificarti che
dalf ora che
tu lasciavi la patria, daW ora
che noi restavamo
derelitte nella solitudine, e nel nulla, esse
di continuo ci
visitarono, ci consoletrono, e
piansero al pianto
nostro. Memori di tanto
io e questa tua
donna, coabilatHce mia, non abbiamo
già ripudiato le
loro preghiere, ma preso abbiam
cuore di cercarti
; e pregarti, corno ci
atìdimandavano, per la patria. E lei
parlan(h> ancord, Marcio ripigliava
: rnadre ! se' tu
venuta per un
impossibile, venendomi a chiedere, che
io Iralisca quelli
che mi hanno
ricettato a quelli che mi
bandivano, quelli che mi
donavann i beni, più
grandi fra gli
uomini a quelli che tutto
il mio rn
involavano. Io pigliando
questo cofnando, dos a
malle\'adori i genj ed i
numi,, che non
avrei tiadito gU ospiti
miei, nè finita
la guerra se
cosi non fosse piaciuto
a tutti i Volsci. Pertanto
adorando gt Iddìi su
quali giurai, riverendò
gli uomini a quali vincolai la
mia fede, guerreggieiò
fino alla decisione co'
Romani. Se renderanno
mì f^olsci le
terre che" ne possiedono
colla forza ; e se
amici se ne
fwanno, accomunando ad essi
tutto, come co' Latini
; deporrò ' le armi : altrimente
mai contro di
essi le deporrò
/ Voi dunque andatene.,
o donne, riferite ai
vostri un tal dire, e persuadeteli a non
pretendere ingiustamente [
altrui, ma contentarsi
del prpprio, quando altri lascia
che lo abbiano.
Non aspettino che
si ritolga loro colla
guerra, quanto colla guerra
usurparono ai. Volsci; perocché
li vincitori non
saranno già paghi di
ricuperate i lor beni,
ma vorranno quelli ancora
de’, vinti. Se
ritenendosi, e difendendo ostinatamente ciocché lor
uon si spetta,
vanno incontro m pericoli,
accusino sestessi, e non
Marcio, e non altri de'
mali che piomberanno
su loro. E tu
-daW altra parte', o madre, io
figlio tuo le
ne prego, non mi sollecitare a cose
non degne, nè
giuste; nè, unendoti d miei e tuoi
malevolissimi, volete
credere a te contrarj
quelli che 'ti
sono per natura
amicissimi : ma standoti,
coni è ragìc^nevole, presso me, vegli
riguardare per patria quella
che io riguardo',
e possedere per' casa quella
che io possiedo,
e godere con me gli
onori miei, e la mia
riputazióne, presi per parenti, per
amici e nemici tuoi,,
quelli appunto cK io prendami. Bandisci, o misera, f afiìanno sostenuto
finora per la mia
fuga, e pesfa in
tale tua forma
.di afliggermi. Gli altri
beni, o madre, più belli della
speranza, più grandi del
desiderio mi son
dati da mimi, e dagli
ùomini. L’affanno che
io prendea su
te, non contraccambiandoti col
nudrirli ne' senili
tuoi giorni, diffuso per
le mie viscere,
amareggiava e levava la mia
vita da ogni
bene. Se meco
ti rimani, se
partecipe ti fai di
ogni mia cosa;
più non mi
mancherà alcuno -tra L mortali. E
qui taciutosi lui, Veturia
sopraslando breve tempo &nchè, cessassero le
lodi cbe molte
e grandi gli si fecero
da’ circostanti, soggiunse: Non
io. Marcio figlio, ti voglio
il traditore de'
Volsci, che ricevitori tuoi nelC
esìlio, ti onorarono in
iMtte guise, e ti affidarono il
comando di ses tessi
; nè voglio che.
tu da te solo
finisca senza il
voto comune, la
guerra contro i patti e i giuramenti, chè
facevi loro, quando prendevi armata
: nè temere che
la madre tua
siasi di tanta malvagità
riempiuta ; ‘ che inviti
C unigenito e carissimo figlio a cose
vituperose e non giuste:
ma cJtiedo che tu
levi col pubblico
voto la guerra, ridu^ cendo i V ytsci
a temperanza, e ponendo tra le due
genti pace ì>ella
e decorosa. E ciò sarà
fatto, se al presente movi t
armata e la ritiri,
e fai tregua per un
anno ; perocché spedendo
e ricevendo in questo tempo
ambasciadori, procaccerai
pace stabile, e vera
amicizia. Tu ben sai
che f Romani, se il
disonore, o la impossibilità non
lo vieta ; faranno
vinti dalle persuasive ogni
cpsa : laddove violentali, come ora vuoi
tu violentarli, non concederanno
mai cosa picciola
o grande, come puoi tu
conviruertene da tanti esempj, ed ultimamente
dalle cose concedute
ai Latini che deposeco
le ormL 1 Volsci,
dirai, sono assai
' più pertinaci, come
avviene ai gran
fortunati. Ma se ricordi
loro che ogni
pace vai più
della guerra: e che più
stabile è quella che
si fa per
amicizia la quale rende
i cuori propizj, che non, f
altra la
quila per necessità si
riceve: esser proprio
de’ sa>’i moderare la sorte,
quando stimano averla;
non però mai
ft^ cosa indegna nelle
vicende infelici e meste
; se dirai loro gli
altri documenti quanti
sen trovano ( notissimi
a voi che il pubblico
maneggiate ) per indurre a dolcezza
a mansuetudine ; scenderanno dalt
eUterigia ove sono, e concederanno che
facci quanto credi
a loro giovevole, Ma se
resister^anno, se non ammetteranno
il dir tuo, sollevati dalle
belle Jbrluna provenute
da te e dal tuo
comandare, cqme siati quéste
immutabili ; rendi loro
palesemente co lesto
tuo capitanato, nè il traditore
sii di chi te lo
afJidcR>a, nè il combattitore de’ congiuntissimi tuoi ;
cose, T una e t altra indegnissimo. Queste soao, o Marcio figlio, le
cose che io vengo
a supplicarti che sian
fatte da te, non
impossibili come tu dici,
ma pure da
ogni '' rimorso di ingiustizia, e
di malvagità. Tu temi '( sono
questi i titoli che
vai magn'ficanio col
discorso ) tu temi
d’ incorrere sé fai
quanto consiglioU, la
taccia rea come
d’ ingrato versa i tuoi benefaUori, i quali ti
accolser nimico, e ti a
nmisero a tutti i-loro
beni, quali se gli
hanno co^ loro che
nacquero cittadini. Ma
dì j non hai
tu lendulo toro
il molliplice e bel
contraccambio ? non hai suj'ferato i benefizj
loro colt amplitudine immensa
dei tuoi? Costoro che
leneano pel sommo
e pel più amabil
de beni viversi
liberi usila patria
; gli hai tu
ridutU (fuesti non
solo arbitri stabilmente
di sestessi, ma tali
infine da bilanciare, se tornasse
lor megliò, di abbattere
la potenza de' Romani,
o di partecipare, ugualmente alla
repubblica che Roma
ha fondato. Lascio' di
dire con quante
spoglie abbi ornalo
le loro città per
la guerra, e con
quanta ricchezza premiato quelli che
vi militav vedo che^
gU orgogliosi che quei
che' spregiano le
preghiere -de supplichevoli, corrono all
ira de' numi
ed alia sciagura
finalmente. Certo gl' Jddii
• istituirono e ne dierono
tale costume,essi i pruni
ptrdanano s e fqcili si
rappaciane';, e molti si. placarono
già pe’ voti j
e' pe'
sagrifizj verso di uomini,
lontani per grandi
reità da loro".
Quando o A/arcio tu tioti
vagli che. l’
irà de’ celesti
sia mor-^ tale, ma immortale
quella, degli 'uoniini ; • forai
con rettitudine f e con dignità
tua o della patria, se
ne condoni gli errori, essa
già correggendosene, e
placandotisi, e rendendoti quanto prima
ti levava. Che se
implacabile ti rimani, rendimi questo deposito, questo
benefizio y i quali niun altro
può ripeterti i e pe’ quùli
hai tu non
le minime, ma le auiplissinte è pregiatissime doti,' onde
tutto ottenesti,, rendimi il
corpo tuò e l’ànima.
Derivate le hai
queste da ma; ; nè
luogo o tempo, nè beneficenze, nè • grazie
di Fblsci o di
altri mai tanto
' eccederanno e saliran fino^
ai cieli ;.
che tu possi
csmcellar la natura,,nò
pù't udirne i diritti.
Mio sarai pur
tu semproj e sempre il
bene del vivere
a me dovrai perla
prima, e 'farai senza scusartend
quanto ti additnandoCiò
prescrive la natura
ai viventi che
sentono e che ragionano { >e
di ciò confidata
puf io, ti supplico
o Marcio figlio a non
portaré guerra alla
patria;, o qui sto
per oppormiti se
le fai violenza.
O me tua madre che
mi ti oppongo
sagrijicherai prjma di tua
mano alle furie, e cosi
darai principio alla
guerra; o, se temi
la infamia di
matricida, cedi o figlio
alla madrfi tua ; dammi, flie
il puoi, questa grazia.
Se questa leg^e che
niun tempo ha
mai tolto, mi
assiste, mi protegge > non
è giusto o Marcio che
io sola sia da
te priva degli
onori che essà
mi concede. Ma
Icssciando questa legge, ricordati la
tanta e gran sc^ie de'miei
benefizj. Io prendendo
a curar te fanciulletto, orfano del
padre tuo védova me
ne rimasi, e gli stenti tutti
soffersi onde allevasi,
madre tua non solo, ma
padre in ur[
tempo, educatore é sorella
dimoetrandomiti, ed ogni altra
spficie . di teneri .oggetti. Divenuto tu
grande, potendo io
liberarmi dalle • cure,
nutritandomi ad •altri, e darmi nuovi
figli e nuove speranze
sostenitrici della vecchiezza;
non volli, hià restài
ne' tuoi lari
'domestici, contenta della vita medésima, e ristringendo a 'te
sólo ogni mia
consolazione, ogni bene. Di
questi ine. ne privasti tu,
parte di voler tuo, parte
senza volerlo, rendendomi infelicissima tra le
madri. ^ qual tempo,
da che toccasti l' età •virile, qual
tempo io pissr
mai sene’ agitazioni e terrori? e quando
ebbi, mai l' anintà
tranquilla so' pra di te,
vedendo che acciimolavi
guerra a guerra, che passavi
da battaglia a battaglia,
e ricevevi ferite su ferite
?. . Lll. E quando ti
desti alla repubblica
cd al maDigilized
by Google ’ Lifino vm. 69
ncggìo de' pubblici
affari, gustai forse io
tua madre diletto alcuno
? Eh ! Che ne
divenni allora più
misera, mirandoti in mezzo
alla civil sedizione.
Imperocché le uìe provvidenze
pér le quali
più sembravi valere, e per le
quali sostenendo i patrizj, spiravi indignazione contro
del popolo, queste mi
spaventavano tutta, considerando, per
quanto tenui motivi tramutasi la
sorte degli uomini:
e sapendo dai tanti casi
uditi che qualche
ira, divina traversa
i valentuomini, e la invidia umana
li perseguita. E_
così non fossi stata, come
io ' m' era
troppo vera indovina degli eventi!
fa civile, invidia t' assalì,
ti sopraf/kee, ti sifclse
dalla patria,. Il
refto della vita
mia, se vita può
dirsi da che
partendoti ' mi lasciasti
co' figli tui, passò
tra questa desolazione.,
Va questo apparato
di lutto. Per tutto
questo io che
molèsta mai non
ti fui, nè ti
sarò finché vivo, ti
prego che vagli
serenarti una volta co' tuoi
cittadini f' c finir C Ira
acerbissima che nudri contro
la paù'kt. E con
ciò di cosa
io ti prego non
buona per me
solq, ma per
ambedue. Per le Se
tea persuadi, nè scorri
ad azioni non
degne ; perchè avrai
C anima immacolata e libera
da ogn’ ira, da
ogni^ terrore di
furie persecutrici, e p6r me poi,
perchè la fama
che men yetrà, mentre
vivo, dai cittadini, e dalle
cittadine. Tenderà beati
i miei .giorni f e quella che mi sarà
dispensata come io
presagisco, dopo^ morte,
renderà sempiterno il
mio nome. E se 'dopo
morte riceve alcun
luogo le anime
sciolte da corpi; riOn
riceverà già la
mia quel sotterràneo rp tenebroso ove
dicono che i detnoni
soggiornano ; nq 1 il ampo
che chianìdn di
Lete; ma C etere
sublime e puro, ove
dicono che albergano
con prospera e beata sorte
i JigUifoli de’ numi.
JB’ià divulgando anima min
la pietà e le
grazie onde m’hai
riverita, ten chiederà per
sempre dagt Iddii
la degna ricompensa. Ma se
dispregi la madre
tua, se inonorata la' rimandi
n per me
fortunata nò per le,
la quale hai
salvato la patria,
e perduto insieme il pietoso
ed amantissimo tuo
figliuolo. Cosi detto, si ritirò
ne' siioi padiglioni
; comandando che lo seguitassero la
inoglie; la madre
-,, i fi^i : é vi
si. tenne tutto il
resto dei giorno, eonsultaudo, con esse
ciocché era da fare.
Enrono le risoluzioni
: che nè il
Senato proponetse al popolo, nè
il popolo decretasse
nulla del suo ritorno, prima che
.si persuadesse aWolsci r amicizia e la
cessaziofs della guèrra.
Egli leverebbe e ritirerebbe /'
esercito, marciando cofne tu
terre di amici: Dato
conto del suo
capitanato, e dimostratina i beni;
pregherebbe quelli. che glie
lo aveano càtfi flato,
a’ volersi ricongiungere
per giuste condizioni
ai nemici,. ed incarieore
lui pefchè vi
fosse ne patti
t ofpùtà, senza niuna fmdolenza.
Che se protervi
pei successi filici non
aecettósser la. pace; egli
si spoglie rebì>e del
comando. In. tal
caso o non sosterrebbero essi di
^leggete un altro
per ^mancanza di
buoni capi ioni ; o cimentandosi di
'affidare le forze
ad un altro qualunque, imparerebbero
a grande lor danno,
ciocchi era V utile a Jare.
Tali sono le
deliberazioni ira loro tenute,
e riconosciute per eque e
giuste, e capaci presso tutti
di buona faina,
oggetto principalissimo delle
cure del valenluomo. Ben
erano essi agitati
da un timido sospetto che
la turba irragionevole
speraozala di debellar
riiiinii co, delusane, alfìne
infuriasse; e
setiz’amihctter discorso trucidasse come
traditore' quel suo capitarlo;
tuttavia deliberarono
d’inedutrere non pur
questo ma ogn^allro
più tetro pericolo, e serbare
vh-tuosameule la fede.
E poiché il giorno piegava
a sera; datesi vicendevoli
signiflcaziout di affetto,
uscirono da' padiglioni, e quindi le
donne tornarono a Rema. Esitose
Marcio agli astanti
le cause che lo
inducevano a scioglier là,guerra, e pregò lungamente t sòldan che'gb'el
condqnassero, e che tornati
in patria, ricordevoli de’
suoi beneQzj,. non''
permettessero essi compagni suoi, che
subisse alcun reo
trattamento dagli altri. Ej
ragionate altre cose, tutte
persuasive, t:omandò che iaces^erq
le b^gagHe, oude partire la
notte 'seguentPi LVi Coinè
seppero dalla fama,' percorsa alle, donne, die Icvavasi
il pericolo loro, uscirono lietissimi
i Romani dalia dtlà per
incohlcarle; dicendo e fàcendo
ora a cori, ora ad
uno ad uno,
salutazioni e' cantici e tripudj, quali gli
latino e li dicono
quelli che' da
rischio terribile passano prosperità
non pensata. Si
menò poi Ja notte
tutta' In feste
e conviti : nel giórno
appresso il Senato adunato
da consoli su
Marcio dichiarò che si
differisse in tempo
più acconcio a risolver
gli onori da farseglt
: ma. che per
lo zelo ditnostrato
sì desse alle donne
nc’ pubblici antichi registri
un elogio che
ne'portasse eterna la
memoria, tra’ posteri, ed un
donativo, qual sarebbe il
pti\ car ed ' ' i Romani
-colende ; giorno appunto
che disciolse la 1 “ ^,
Cotiolano si approssioiò.due volte
a Roma j 'la prima
volU ai accampò preaso
le fosse delle
Cluvìlie.-io distaosa di
ciitipie miglia, e la seconda
io luogo anche
piò vicino a Roma,
iiitburgio scrive, che io
questo secondò luogo
appunlo fu eretto
il tempio delta Fortiuia Mulirhrc.
A questa sci\tei]sa sembra
corritpondero ricchezze,
noh ricéVò con
dispiacere la iùtérro zvon
della guerra, e^ favorendo
il valentuomo, escusavàlo se
non la dltlmava,
mosso daUe prègbieve
e dalla compassion della madre.
Ma la gioveUtù
rimaka nelle città,, tocca
da invidia per.
le grandi prede
fatte dalFe scrci'to, e’
delusa delle speranze
che aveva, se
prendei^ dosi Roma ne
era Oaccàto l’orgoglio;
ne fremette, e fi esulcerò
contrd'del capitano. £ finalmente
assunti, per ca|)i della
scellcrsgginc uomini
.potentissimi tra quelle
genti, imbarbarì, e commise
nn indégnissimo fatto.
Istigavala aoprattattO Azzio
Tulio circondato da
non pochi di ogni
città. Costui non
polendo più la
invidia sua contro ‘Marcio; aveva
già da uii
tempo risolato di
ucciderlo occultamente e
frt^dolentemeote, se quel duce xiuscendo ne’
disegni e 6accando Roma tort^Va
dal sottometterla ai Volsci, o di
darlo manifestamente ai suoi
partigiani ^d ucciderlo
come traditore, se
falliva nella impresa, è
tornavane senza l’ intento.
Ora ciò fece appunto.
Imperocché ' convocando
gente non poca;
le accusò quel .valentuomo
argomentando dal vero
il falso, e conghietturando dalle
cose già' state, quelle -che
non sarebbero mai t poi
comandò che deponesse
il comando, e desse conto
del suo capitanato.
Once costui delle truppe
rimaste nelle città, come
ho detto di
sopra, ‘era l’arbitro di
raccogliere le adunanze,
e di chiaipare chi voleva
in giudizio. Marcio
giudicava non dover
contrapporsi a ninna delle
dué intimazio.ni ; solamente
discordava nel metodo di
soddisfarvi ; 'credendo che
égli dovesse prima dar
conto de’ fatti
della ' guerra, e pqi deporre, se così paresse
a tutti i 'Volséi, il comando.
Affermava che non dovesse
di tanto esser
arbitra una sola
città corrotta in gran,
parte 'da Tulio; ma
tutta la nazione, raccolta in
comizj legittimi, ove fossero
spediti deputati da 'ogni . città, come
portava il 'costucrie,
quando aveansi a discutere i grandi
jeffari. Opponevasi a ciò
Tulio,' ben vedendo cbe se
Marcio, ahroòde parlatore,
facciasi tra la pompa
di capitano a dar
conto delle 'tante e belle sue
gesta trionferebbe^ della moltitudine
; c non' cbe suhire le
pene • de’ traditori, ne diverrebbe
più onorato e )>iù
grande. Impe^occbé ’ sarebbero
per concedergli tutti che
solo finisse a piacer
suo la guerra, ed
arbitro re stereljbe di
ogni cosa. Adunque
per molto tetnpo
se no suscitarono ogni
giorno dicerie vicendevoli, e reclami in Senato,
éd altercazioni vive
nel Foro ; uou
essendo lecito a niun di
essi 'far violenza all’ altro, garautito dalla dignità
pari della magistratura,. Or
poiché non dovasi fine,
alla disputa ; Tulio
comandò a Marcio di venire
in dato giorno
a deporre il suo
gradò, e sottomettersi ai proressi
di tradimento, E sollevati
eon lusinghe' di benefizi
> uomini audacissimi, e
messili per capi della
scellcraggiuc indegna; si
portò nel Foro
destinato. 'Asceso ' nel tribunale
accusò Marcio con
tòòlte incolpazioni ; ed istigò
la moltitudine a'
degradarlo a fo4'za, se spontaneo
non lasciava il
comando. ' LIX, Accese Marcio
anch’ esso per;,
far le difese
; ma ì grandi clamori de’ seguaci
di Tulio gli
tolsero di parlare. Dopo
ciò gridandosi: {ira, ferisci, lo efreonJa' rouo, e con .nembo
di sassi lo,
uccisero uomini inso-, lentissimi. Ed
essendo lui strascinato
Foro, quelli che erano presenti
allo spettacolo, e quelli
che Vi sopravvennero dopo eh’ egli erst
spirato, deplorarono il
valeniaoiiio ; perchè' non
degna avea da
loro la ricatupensa.
E Hdiceano quanto bene
avea fatto al
comune, e r arresto' .voleanO
degli uccisoci, perchè
dato.aveano esempio di opèra.
ingiusta, e lesiva delle
'.città, spegnendo
senz’iimmelterne le difese
violentemente un di loro, c questo,, comaudante. Ne
fremeauo soprattutto i
compagni di lui
uclle spedizioni. Epoiché
non erano stati da
tanto d’ impedirne i mali mentre
viveva ; delU berarono riconoscerlo
de’benefizj, almeno dopo
la morte; recando al
Foro quanto alla
deliha onorificenza ricluedesT
de’'valentoomini. Quando lutto
fu pronto > collocarono lui con
veste di capitano, su
letto vaghissimamente ornato : poi
facendo precedere quelli
che recavano le prede,
le spoglie, le
cotone, le immagini
delle citli prese da
lui ; ne sollevarono
il feretro i giovani più
segnalati fra le
armi. Lo portarono
al sobborgo più ragguardevole, accompagnandone il
cadavere i 'cittadini tutti con
gemiti e la^inDe. uomo
il. più grande di
tutti 'al suo
tgmpo' nelle armi.
Continente da lutti
i pacetri che traspòrUmo
i giovani, seguiva 'la giustizia
ifon involontario per
le leggi che
forzano col timore de’ supplizi', ma
spontaneo, come per
inclinazione d’indole bennata. Non
tenea per virtù
non offendere ; e bramava
non solo di
esser puro egli
stestd da ogni malfare,
ma credea giusto
di astringervi -anche gli '^allri. Magnanimo', liberale,
intentissimo a soccorrere quando cpnoscevalo, il bisogno
degli amici, npn era
inferiore a ninno de’ patrizj
nel roaneggio.del pnbblico. C se
fa sedizione della città
non lo avesse
impedito da' pubblici .•(Tari, forse' Roma
preso avrebbe da'
regolamenti suoi grande aògumeolo
d’iiQpero. Ma'già. non
può farsi cbe tuKe
le virtù si
uniscanó nella natura
di un nomò ;
nè da seme mortala
e caduco sorgerà mai
niutlo per ogni parte
peidetto. LXI. Il ‘destino
che ' propizio area
sparso in esso i
germi di
tali virtù^ vé
ne mise alfiri
ancora di sciagure e dì
mali. Non era
dolcezza nè illarità
ne’ suoi modi, non degnevolezza
ne salmi e ne’
colloqui, .. non' facilità di
placarsi, non moderazione nell’
ira se contro
alcnno la concepisse, grazia in6ne,
quella die adorna
tmte le nmane cose.
¥élnto lo avresti
sempre difficile, e sempre
acerbo, f^ocquero a lui
mólto tali maniere,
e soprattutto la severità
sua ^moderata,' incredibile, e senza scintilla mai
di chnuenza ne|)ar
custodia dei giusto
e delle leggi. Ma ben
sembra vero il
detto^d^ filosofi antichi, che
le virtù specialmente
quelle delia giustizia,. sono moderàzioni, e non estremità
de costumi : perocché sia che
la ginstizia manchi
dal mezzo, sia 'che
lo ecceda ; non più
giova i mortali, cagionando talvolta
gran danni, e ridùcendo a
stragi > miserande, ed immedicabili inali. Nè
fu cbe la
troppo sollecita e troppo
austera esigenza del giusto
la quale ridusse
Marcio fuori della patria,
e senza il frutto
delle altre belle
sue doti. Potendopiegarsi per
atòunà maniera al
popolo, e lasciare qualche cosa
af loro desiderj
e divenire il primo
fra loro ; non volle
: ma contrariandoli in
qualunque cosà ' la
quale ad essi
non si dovea,
se ne concilò
l’ odio, c fu cacciato dalla -patria. Potendo,
appena ^ sciolse la guerra, lasciare
il comando deifarmata,
e trasferire alet 8o trove
la sua dirnora, Gncbè gli
fossi! conceduto il ri
torno alU patria,
anzi 'che esporre ^ stesso
à nemici, ed alle stoltezze
della moltitudine ; ne
vide la necessità di ‘farlo, e non volle.
Ma giudicando 'dovere affidare sè
stesso a chi gli
aveva affidata T armata, .c
conto del suo capitanalo,
e se irovavasi. reo
di co.sa alcuna subirne le
pene secondo le
leggi; raccolse amaro
U frano di tanta
giustizia. Pertanto sé
col disciogìiersi de’
corpi aiicUo l’anima, qualunque' cosa ella
sia, si discioglic,
né punto ne so^ravvanza;
io non vedo
come.chiamare beati quelli elle
non goderono della
loro virtù niun
frutto, anzi pci^ essa
perirono. M.i se
le anime nostre
’Soprav- vivono Immortali affatto
come pensano alcuni
;'0 qùalebe tempo
almeno dopo la
.-partenza' loro dal
corpo, il più lungo
quelle do’, buon;, ed
.il più breye
quelle dei malvagi (it;
certo parrà beq
grande ai. virtuosi
l’ onore che li seguita,
loipérocclié sebbene la
fortuo' stasi loro contrapposta; avranno
buona fama e langbissima
la ri cordanza tra’ vi vanti, come
appunto ' accadde a questo uomo. Perocché
non solaincute ’mofto
io piansero e Io onorarono, i Yolsci
come virtuosissimo; ma
li Romaui, conosciutone appena
il caso, riputandolo sciagura
altissima di Roma, ne fecero
pnvalo e pultbJ/co lutto.
Le donne come usano
in morie dei
domestici loro amaiiss.ifni, lasciarono da
un canto l’ oro, la
porpora, ei • V. [1 Vossio
nel lil> i ^ de
IJoloturia dctltice d
f|iicslo passo ch^ Diouigi
crcdctle che le
auhne esùtono Jpu
!a tnofie del
colpo ma solo -per
un tempo limitalo
; e per ciò lo
ridice nella classe
dt (|iicl!i che pensavano
quaulu alla durazioue
delle anime come
gU Stoici \ 8 I atterono
fra loro senza
regola, senza comando, misti
e confusi: tanto che
grande ne fu la
strage in ambe
le parti ; e forse
totale ne sarebbe stata
la rovina, se il
sole non tramontava.
Ma cedendo, loro malgrado,
alla notte, che inipedivali
di contendere, separaronsi, ed
alloggiaronsi ciascuno nel
Aa. di Ruma
aGG secondu Catoue,
aGS secoudu V'arrooe, e 48G 8T.
Cristo.DJONICI. tomo Iti. fi proprio
campo. La maltina
i duci lerando le
truppe si ricondussero alle
loro case. Udirono
i consoli dai diser.tori
e da altri divenuti
prigionieri col fuggire
dalla battaglia, qual furia
e quale flagello divino
fosse nell’esercito; non però
colsero la occasione
tanto a proposito per essi
non lontani più
di trenta stadi,
nè gl’ incalzarono nella ritirata
: nel qual tempo
se essi freschi, in buon ordine, avessero perseguitato
gli emoli stanchi, feriti, confusi,
e già pochi di
molti, di leggieri
gli avrebbero totalmente distmtu.
Sciogliendo aneli’ essi
il campo, tornarono in
patria sia che
fossero paghi del bene
dato loro dalla
fortuna, sia che non
fidassero su r annata loro
non disciplinata, sia che
assai valutassero il perdere
anche pochi soldati.
Ma giunti in
città vi furono vituperati, riportandovi fama
di pusillanimi per tale
condotta. Mè facendo
altra spedizione, rassegnarono
il poter
loro a’ consoli
susseguenti. Presero l’ anno appresso
il consolato Cajo i^quilio
e Tito Siccio, uomini periti
di guerra . E facendo
questi proposizioni di
guerra; il Senato
decretò che si spedisse
un’ ambasceria per
chiedere soddisfazione secondo le
leggi dagli Ernici,
popolo amico e confederato, il quale
aveva offesa Roma
nel tempo della
guerra de’ Volsci e degli
Equi con prede
e scorrerie su le terre
contigue : e decretò che
intanto che ne
avessero la risposta i consoli
iscrivessero milizie quante
ne potevano, convocassero con
messaggi gli alleati, ed
apparecchiassero sollecitamente
col mezzo di
molti ministri Roma Catone Varrooe LiDno vili.
83 armi, grano, (lanari, e quanto
è necessario ()cr la guerra.
Tornali, cspcKero gli ambasciadori
le risposte degli Ernia,
i quali diceano non
esservi pubbliche convenzioni tra loro e
tra’ Romani, e che pensavano
già sciolte quelle che vi furono
tra loro e tra
Tarquinio, come detronizzato, e
morto in
terra straniera : che
le prede e le incursioni
non furono ingiustizie
del pubblico, ma di
privati intesi al
guadagno: e che non
doveano però nemmeno
gii autori di
quelle consegnarsi al supplizio:
e lamentandosi che avessero
anche gli Eroici patito
altrettanto ; signiQcavano che
volentieri accetterebbero la guerra.
Il Senato, ciò udendo, decretò che si
dividessero in tre
parti le nuove
reclute descritte: che il
console Cajo Aquilio
marciasse coll’ una
sugli Eruict già in
arme aneli’ essi: che
Tito Siccio, l’altro
console, ne andasse coll’ altra
su i Volsci : che
Spurio Largio, nominato da’
consoli comandante della
città, prend cero ciò primi
li Volsci ; e ben
tosto la ottennero
; dando l' argento multato
dal console, e somministrando
quani’ altro bisognava
all’ esercito ; dopo
avere promesso che sarebbero
ì sudditi de’ Romani,
né più da
tali ao> cordi si
leverebbono. In ultimo
gli Eroici vedutisi
rimasti soli, trattarono coi console
di amicizia e di
pace. Ma Cassio assai
richiamandosi di essi
con gli ambasciadori, disse, che prima
doyeano far quanto
conviene ai vinti ed
ai sudditi, e poi
discorrer di pace;
e soggiungendo gli ambasciadori
che lo farehhono
se moderata e possibile ne
fosse la esecuzione, comandò loro che
gli portassero in
grasce i viveri di un
mese, ed
in argento la
somma onde stipeudiarue
t soldati secondo il solito
per sei mesi:
e definendo un numero di
giorni entro cui
potessero tutto apprestatali
; concedette intanto ad
essi una tregua.
Presentarono gli Ernici ogni
cosa con prestezza
ed impegno, e spedirono di bel
nuovo i parlamentar] di
pace. Li lodò
Cassio c li rimise
al Senato. Ne
deliberarono i padri a lungo;
e piacque loro che
si ammettessero questi
all’ amicizia, c Cassio il
console esaminasse, e
decidesse le condizioni de’ trattati
da conchiudersi. Approverebbero i padri
ciooch’ egli ne
stabiliva. Prescritto ciò dal
Senato; Cassio tornando
in città chiedeva un
secondo trionfo per
aver sottomesso i popoli più
riguardevoli : ant>gavasi però
quest’ onore per le
aderenze, piuttosto che di
giustizia lo ricevesse tinperocchc non
avendo nè prese
città per assalto,
nè disfatti eserciti in
campo aperto ; non
potca menar seco in
spettacolo i prigionieri e le
spoglie che sono
gli ornamenti dei trionfi.
Ma lo amare
il piacer suo ;
non le risoluzioni simili
a quelle degli altri, gli
concitò subitissima invidia. Impetrato
il trionfo pubblicò
la concordia, com’ aveala
firmala con gli
Eroici. Erano le
condizioni trascritte da quella
conchiusa già co’
Latini. Dicchè mollo si
dolsero i più provetti
ed autorevoli, e tennero lui
per sospetto, sdegnati che
gli Eroici, estraneo popolo,
fossero pareggiati di
onore ai Latini
loro congiunti ; e quelli che
dato non aveano
neppur minimo segno di
benevolenza partecipassero le
cortesi retribuzioni di chi
tanti dati ne
avea. Soffrivano ancora
di mal' animo la
superbia di quest’
uomo, perché onorato dal Senato
non aveali a vicenda
onorati, fissando e
pultblicando i patti come
glie ne parve
; non di concerto comune coi
padri. Così la
troppa felicità nuoce, non giova ; divenendo
insensiòilmente per molli
cagione di orgoglio incredibile,
e stimolo di desiderj
superiori alla natura; come
avvenne a costui. Condecorato
allora dalla città egli
solo fra tutti
con tre consolati
e due trionfi ampliava l’ onorificenza sua, ambizioso del
regio potere. Considerando però
che la via
più sicura per
chi ambisce il regno
e la tirannide è quella
di guadagnare il popolo
co’benefizj, e di costumarlo
ad essere alinien tato
da chi dispensa
le pubbliche cose ;
a questa si rivolse, e senza manifestarsene ad
alcuno. E perocché ci aveva
un terreno amplissimo
del comune ma
trascurato e goduto da^ ricchi
; deliberò di compartire
questo tra’l popolo. E se
contentato si fosse
di procedere fin
qui ; forse riuscito
sarebbe ue’ disegni. Ma
trasportatosi a troppo ;
cagionò sedizione nou
picciola, e fine sciaurato a sestesso.
Imperocché presunse congiungere
alla divisioa del terreno
non pure i Latini
; ma gli Ernici, ricevuti ultimamente per
cittadini. Tali cose ideando
a conciliarsi quelle nazioni, convocò nel
glotoo dopo il
trionfo il popolo
a parlamento. Quindi asceso in
tribuna com’ è 1’
uso de’ trionfatori, prima dié
conto delle opere
sue, delle quali
era la sostanza : che
fatto console Ut
prima %>oUa vinse
i Sabini, e li rendè
sudditi a Roma alla
quale disputavano il comando
: che fatto console
per la seconda, racchetò la
civil sedizione, e restituì la
plebe alla patria : e ridusse amici
e (compartecipi della cittadinanza di Roma,
i Latini che erano
consanguinei, ed emoli eterni
delt impero e della
gloria di lei;
tantoché non più la
contrariarono, ma
riguardarono Roma come patria
loro. Chiamato la
terza volta al
consolato necessitò li V ilsci
ad essere amici, di
nemici che erano, colle
armi, e sottomise spontanei
gli Ernici, popolo vicino, grande,
potente, ed attissimo
a nuocer molto, o giovare. Eisponendo queste
e simili cose chiedeva
al popolo che attendesse
a lui, provido soprattutti ora e
per sempre della
repubblica, e chiudendo il discorso disse che
farebbe e tra non
molto tali e tante
beneficenze che supererebbe quanti
erano encomiati di
aver amato e salvato il
popolo. Oisciolta 1'
adunanza invitò nel giorno
appresso a raccogliersi il
Senato sospeso e timoroso
pe’ delti antecedenti di
lui. Prima di
ogni altra cosa propose
un tal suo
sentimento tenuto occulto
alla plebe, e chiese ai padri
che giacché questa
era stata si utile
per la libertà
dando mano a farli
dominare su gli altri, prendessero cura
di lei e le
dispensassero il terreno, pubblico in
sestesso per essere
acquistalo colle armi, ma goduto
in fatti senza
niun dritto da
patrizj impudentissimi : e
poi chiese che
si rendesse dal
pubiuale fu sopraimominaiu Poplicola. potenti per
aderenze e ricchezze, e
tutto che giovani, non
inferiori a niun pari
loro nei trattare
le pubbliche cose esercitavano
la questura. Ed
arbitri per questo -di intimar le
adunanze accusarono al
popolo con incolpa zioni
di tirannide Spurio
Cassio il console
dell’ anno precedente, che
osò d’introdurre le
leggi su la
partizione delle campagne ; e • preGggendogli il
giorno, lo citarono a giustiCcarsene presso
del popolo. Adunatasi
nei giorno prescritto gran
gente essi invitandola
ad ascoltare dimostrarono che le opere manifeste
di quest’ uomo
non comprendeano nulla di
buono : primieramente perchè mentre
i Latini appagavansi di
essere ammessi alla
cittadinanza, e riputavano
sommo il favore
se la ottenevano; egli console
non solamente concedè
la cittadinanza che dimandavano,
ma decretò che
si desse loco
il terzo delie spoglie
della guerra, se in comune
la sostenessero:
secondariamente perché rendette
amici in luogo
di sudditi, concittadini in
luogo di tributar)
gli Eroici che, vinti, doveano ben
esser contenti se non erano
danneggiati collo smembramento
delle lor terre;
anzi ordinò che si
desse loro pur
la terza parte
delle prede e 'Tlelle campagne che
fossero mai per
conquisure. Tanto che divisa
la preda in
tre parti doveano
i sudditi e foresuerì
pigliarne due parli, ed
i paesani e padroni una
sola. Dimostravano che da
questi due assurdi
ne segnirebbe r uno o altro, se
volessero pe’ molti
e segnalati servigi
condecorare un altro
popolo come i Latini,
o come gli Eroici che
ninno prestato ne
aveano, vuol dire:
o che non avrebbero che
dar loro , o se
volessero pareg Il
lesto di Rciske
si togUmero e confiscassero i beni
del padre che
ne avea svelato
le brighe per la
tirannide ; e per questo
io decidomi piuttosto per
la prima narrazione.
Le ho nondimeno
riferite ambedue, perchè coloro
che leggono aderiscano
a quale più vogliono.
Insistendo poscia alcuni
perché si uccidessero i figli ancora
di Cassio; parve
al Senato aspra
la inchiesta nè utile.
E congregatosi decretò che
si rilasciassero, c
vivessero sicurissimi da
esilj, da infamie, da ogni
sciagura. Da quel
fatto si stabili
tra’ Romani r uso,
custoditovi fino a’
miei giorni, che vadano
immuni da ogni pena i
figli di
padri delinquenti, sian essi figli
di tiranni, di parricidi
o di traditori, che tra loro
è il massimo dei
delitti. E quelli che
vicini al nostro tempo, circa il
fine della guerra
Marsia, e della guerra
civile dandosi ad
abolire quest’ uso, impedirono finché dominarono
che i figli dei
proscritti da Siila giungessero agli
onori paterni e prendessero
posto in Senato, sembrarono far
opera degna della
esecrazione degli uomini, e
della vendetta de’
numi. Perocché col volger
degli anni raggiunse
loro la giustizia, vendicatrice non riprovata, per la
quale furono dal
colmo della gloria precipitati
ai fondo delia
miseria; non lasciandosi del lignaggio
loro se non
la prole nata
di femmine. E colui
che li distrusse
riordinò quei costume
com’era ne’ prìncipi. Pfeaso di
alquanti greci però
non è così mite il
costume; perchè alcuni
credono giusto che i
gli de’
tiranni co’ tiranni
finiscano; ed altri
con perpetuo esilio li
punistxtno; quasi non
consenta la natura
che sorgano figli buoni da’
padri rei ; nè
figli rei da
buoni padri. Ma su ciò lascio
che altri discuta,
se migliore è l’uso;
de’ Greci o migliore
quel de’ Romani
: ed io prosieguo la
storia. Dopo la
morte di Cassio
i fautori del comando de’ pochi divennero
più baldanzosi, e spregiatori del popolo.
Laonde gl’ ignobili
per nome e sostanze
se ne abbatterono ; accusando
molto sestessi di
stoltezza, perchè aveano colla
condanna' di lui
distmito il custode fidissimo della fazion popolare.
Era questa la
causa per la quale
i consoli non eseguivano
il decreto de’ senatori pel quale
doveano eleggere i dieci
che determinassero la terra
pubblica, e riferire in Senato
quanta parte ne fosse
da dividere, ed a quali
persone. Adunque si
tenean de’ crocchi
mormorandovisi in ciascuno
so l’ inganno, ed incolpandovisi più
che tutti i tribuni
precedenti come traditori del
comune ; slmilmente faceansi dai
tribuni d’ allora
continue le adunanze
e le richieste della promessa.
Or ciò vedendo
i consoli deliberarono
rimovere col pretesto
di guerra la
parte sediziosa della
Aagatto. città ; percccbé di qae tempi
il territorio era
iofesiato da’ ladronecci, e
dalle scorrerie de
popoli circonvicini. Adunque per
far la vendetta
degli aggressori aveano inalberato i segnali
di guerra, ed iscriveano
le milizie della città.
Ma, non dando i poveri
il nome loro,
non potevano astringervi a nonna
delle leggi gl
indocili, {jerocchè li tribuni
proteggevano la moltitudine, e lo avrebbero impedito,
se altri tentava
portar la violenza su
le persone, o le robe
di chi ricusava.
Adunque lanciarono i consoli molte
minacce, che non permette rebbero che
alcuno rivoltasse la
moltitudine ; e svegliarono
ne’ cuori un
secreto sospetto che
nominerebbero un dittatore il
quale sospendesse tutti
gli altri magistrati, ed avesse
egli solo un
potere supremo ed
irrefragabile. In tale apprensione
i plebei temendo che
il dittatore fosse Appio, uomo
duro e dlflìcile, piegaronsi a soffrire ogni cosa, piuttosto che
questa. Descrittone il molo, i consoli presero
le milizie, e marciarono su l’ inimico.
Gettatosi Cornelio nel territorio
de’Vejenti ne portò
via la preda
sorpresavi. Allora i Yejenti spedirono
ambasciadori, ed egli
rilasciò loro i prigionieri
per date somme,
e concedè la tregua di un anno.
Fabio coU’altr armata
piombò su la terra
degli Equi, e quindi su
quella de’ Volsci.
Pazientarouo i Yolsci alcun
tempo, ma non
molto, che fossero i campi
loro predati e devastati:
poi spregiando i Romani come venuti
con armata non
grande impugnarono in buon
numero le armi, ed
uscirono su le terre
degli Anziati per
Incontrarli : se non
che ne andarono anzi
precipitosi che savj :
perocché se giungevano
inaspettati, e K>rprendeano i Romani
mentre erano qua e là
dispersi; ne avrebbero assai
variato le vicende; ma
il console istruito
del giunger loro
dagli esploratori, richiamò bentosto
i suoi, sbandati com’ erano, da’
foraggi, e dié loro la
ordinanza conveniente alla
guerra. Come i Volaci che
.-venivano confidando e spregiando, videro fuori
dell’ imaginazione tutte
le forze nemiche ordinate e raccolte, sbalordirono alio
spettacolo inopinato : nè più
curando la salvezza
comune, provvide ognuno alla sua, e
dando volta, con
quanto aveàno di velocità,
fuggirono tutti chi
per una e chi
per altra via; salvandosene la
maggior parte nella
città . Solamente nu picciolo
corpo il quale
era più che
gli altri ordinato ritirandosi alla
cima di un
monte, quivi pose le
armi e vi pernottò. Ma
ne’ giorni seguenti
essendo dal console circondala 1’
altura e chiusene tutte
le uscite, necessitato dalla fame
si sottomise, e cedette le
arme. 11 I console fe’
vendere pe’ questori
quanto vi era, prede, spoglie, prigionieri,
onde riportarne danaro
alla patria. Non molto
dopo levò 1’
esercito dalle terre
nemiche e a suoi lo
ricondusse, ornai standosi 1’
anno per terminare. Giunto il
tempo da creare
i magistrati, i patrizj che
vedevano il popolo
irritato e pentito della
condanna di Cassio,
deliberarono di sopravvegliare perchè
non facesse movimenti elevato
di nuovo a speranze
di donativi e di divisioni
di terre da
taluno che prendesse gli
onori consolari pieno
della facondia per
aringarlo e travolgerlo. Parve loro
che se il
popolo desiderasse ponto di
ciò, potesse impedirsegli
con eleggere un
console ad esso
non £tvorevole. Ck>nchiuso
ciò confortano perchè aspirino
al consolato Fabio
Cesone 1’ uno
degli accusatori di Cassio
fratello di Quinto,
console attuale^ e Lucio Emilio
altro patrizio propensi^mo
agli Otti mali. Non
potendo il popolo
impedir questi due
che aspirassero al consolato, usci dal campo e si
levò dai comizj. Perciocché
ne’comizj centuriati tutto
il poter de’snfiragj assorbivasi
da’ cittadini più illustri
e primi di ordine ; e di
raro cosa alcuna
si decideva col
voto ancora delle centurie
intermedie di ordine:
la classe estrema poi
nrila quale votava
la parte più
misera e più numerosa non
avea, come innanzi fii
detto, se non un
voto solo, il quale
era 1’ ultimo. Adunque negli
anni dugento settanta
dalla fondazione di Roma
essendo Nicodemo 1’
arconte di Atene divennero
consoli Lucio Emilio
figliuolo di Mamerco,
e Fabio Cesone figliuolo 'di
Cesone. Ora succedette loro secondo
il desiderio di
non essere pertui> bati da
sedizioni civili; per
essere la repubblica
investita di fuori. E le
cessazioni delle guerre
esterne sogliono rieccitare le
nazionali, e dimestiche tra’ Greci, tra’
bar bari, e dovunque, principalmente tra’ popoli
che vivono Ira le
armi e i travagli per
amore della bbertà
e del comando ; perchè gli
animi avvezzi a bramare
ognora più, ridotti senza gli
esercizj consueti difficilmente
si contengono. Su tal
vista comandanti savissimi
fomentano sempre alcuna discordia
cogli esteri; giudicando
migliori le guerre nelle
regioni altrui che
nella propria. Allora Roma Giatonc Varrone] I 1 I fecondo
il genio appunto
de’ consoli, occorsero come bo
detto, le insurrezioni
de’ sudditi. Imperocché li
Volsci sia che hdassero
ne’juoti interni di
Roma, contendendo il popolo
co’ magistrati ; sia
che fremessero per
la infamia della precedente
disfatta, ricevuta senza
combattere; sia che insuperbissero per
le forze loro
che eran grandissime; sia che
seguissero tutte insieme
queste cagioni; aveano deliberato
ikr guerra ai
Romani. E raccogliendo i giovani da
tutte le dtté
marciarono con parte dell’esercito
contro le città
de’ Latini e degli
Ernici, e coll’ altra che era
la più numerosa
e più forte teneansi pronti a ribattere
chiunque si avanzasse
contro le loro. 1 Romani ciò
saputo deliberarono dividere
1’ armata in due
corpi, e guardare con
uno le terre
degli Ernici e de’
Latini, e correre coll’ altro
a depredare quelle dei iVolsd. Avendo i consoli, com’ è loro
costume, tirato a sorte le
milizie ; Fabio Cesone
assunse il comando di
quelle che andavano
a soccorrere gli alleati, e Lucio marciò
colle altre contro
la città degli
Anxiati. Avvicinatosene ai confini, e vedutevi le
armi nemiche, si accampò
su di un
colle a fronte di
^e. Ma uscendo i nemici ne’
giorni consecutivi più
volte in campo, e sfidando alia
battaglia; egli credette
avere il buon
punto, e cavò le sue
schiere. Ed ammonitele, e riammonitele prima del
cimento ; alfine diedene
il^egno e le avventò.
Bentosto i soldati alzato
il grido consueto
della battaglia pugnarono folli, a schiere e coorti.
Esaurite poi le lance, i dac;di cd
ogni arme da
tiro si scagliarono, rotando le
spade, gli uni
su gli altri
con ardire e desiderio eguale
di misurarsi. Era iu ambedue
simi lissima la maniera
di combattere : nè
maggiore tra Ro mani
la saviezza e la
sperieuza che gli
aveva rendati già più
volte vincitori, nè maggiore
la costanza e la sofferenza per
1 esercizio di
tante battaglie ; ma
le doti stessissime brillavano
pur tra’ nemici
6n dall’ ora, che fu
duce loro Marcio,
famosissimo duce romano.
Adun(jne gii uni
resistevano agli altri
senza cedere il
posto preso in principio.
Ma dopo alquanto
i Volaci a poco a poco si
ritirano, schierati, e con ordine,
tenendo fronte ai Romani.
Tendea quel movimento
a dividere le milizie di
questi e combatterle da
lut^o elevato. In opposito
i Romani credendo che
questi principiasser la fuga
tennero anch’ essi a
passo a passo in buon
ordine dietro loro
che si ritiravano.
Ma poiché videro che a
rilancio conevano agli
alloggiamenti anch’ essi rapidissimi, in disordine
li seguitarono. Intanto le
centurie estreme e la
retroguardia, quasi già vincitrici, spogliavano i morti, e davansi a predare
la regione. Vedendo ciò li Voisci
che facean credere
di fuggire, giunti appena alle
Urincee, voltata faccia, si
contrapposero : e quelli che
erano negli alloggiamenti, spalancate le
porle, accorsero numerosi da
più parti. Or qui
cambiarono le vicende
della battaglia : chi
perseguitava fugge, e chi
fuggiva perseguita. Perirono, com’ è naturale, molti bravi
Romani incalzati giù
pel declivio, e circondati ;
essi pochi, dai molti.
Non dissimile sorte incontrarono
quanti eransi dati a
spogliare e predare, impediti di retrocedere
schierati e con oi^ dine
; imperocché sopraHatti ancor
essi da' nemici
restavano iracidali o prìgiooierì. Quanti
però di questi
o di quelli respinti giù
pel monte fuggivano
in salvo ; soccorsi, benché tardi,
dalia cavalleria, tornavano
al6ne a’ proprj alloggiamenti
: e parve che a non
essere intc-ramenie distratti
giovasse loro un’acqua
dirottissima dal cielo, ed un
bujo qual formasi
per nebbia profondissima ; perocché non
potendo i nemici vedere
più di lon tano, infkslidirottsi a seguitarli
più oltre. La
noue appresso il console
movendo l’ armata la
ritirò cheta, in buon ordine, sicché 1’
inimico noi comprendesse.
Al tornar della sera
mise il campo
presso la ciué
di Longòla t scegliendo
un’altura idonea, onde. respingerne gli assalitori. E qui
fermatosi curava gli
egri .dalle ferite, e rianimava gli
aiHitti dalla vergogna
delia disfatta impensata. Tale er^
lo stato de’
Romani. Li Volacipoi
come al nascere
dei giorno conobbero
che quelli eransi di
loggiati; portarono più da vicino
il campo loro. Quindi
spogliato avendo i cadaveri
de’ nemici, raccolto i
semivivi che davano
speransa di guarigione, e seppellito gli estinti
loro compagni, rientrarono la
città di Anzio che
prossima rimaneva. Qui
cantando inni e porgendo in
ogni tempio sagrifìzi
per la vittoria, si
diedero ne’ giorni seguenti ai
conviti e piaceri. E se
teneansi a quella vittoria,
né intraprendevano altra
cosa; la guerra avrebbe avuto
per essi nn
esito fortunato. Imperocché li
Romani non aveano
cuore di uscire
dagli alloggiamenti per combattere
; anzi desideravano di
lasciare le terre nemiche, anteponendo nna
fuga ingloriosa ad una morte DIOIfJGI, tomo ut.
manifesu. Infiammati però
da speranae maggiori, perderoDO la
gloria ancora della
prima vittoria. Udendo
dagli eipioratori e dai disertori
che i Rbmani andati
salvi eran pochi, e per lo
più feriti ; ne
concepirono disprezzo grandissimo,
ed impugnate le
armi marciaron sa
loroi Li seguitarono senza
1’ armi moiri
della città per
vedor la batuglia, e per fare
insieme prede e guadagni.
Ma quando giunti all
altura circondarono gli
alloggiamenti, e presero a
svellerne gli steccati
; proruppero prima su di essi i oivalieri
Romani, postiti a piede per
la condizione del luogo,
e poi li triarj, schieratisi strettissimi. Sono questi
i veterani a’ quali
si dà la
guardia degli alloggiamenti, se le
milizie escono per
combattere, ed a’ quali per
mancanza di altri
ripari si ha
restrerao indispensahil ricorso
quando avviene strage
funesta de’ giovani. Ne
sostennero i iVolsci la
irruzione e pugnarono gran tempo
pieni di valore.
Ma non favoriti
poi dalla natura del
aito se ne
rimossero : e fatto a’
nemici danno tenue, nè
degno di memoria,
e ricevutolo essi più grande
ancora; calarono alia
pianura. Messi quivi
gli alloggiamenti, schierarono
ne’ giorni appresso
1’ armata, e provocarono i Romani
alla battaglia : nè
pertanto uscirono questi al
paragone. 1 Volsci vedendo
ciò li spregiarono : e convocate le
milizie dalle loro
città ; si ap pareccbiarono per
espugnarne le trincee
colla moltitudine. E ben erano
per fare alcuna
cosa di grande
riducendo per patri e colla
forza il console
e i suoi che già penuriavano
; ma giunse prima
di loro il
soccorso Romano, e furono
traversati da compiere
con bellissimo (ìpe la
guerra. Imperocché Fabio
Cesoue l’altro console,. I I 5 Mpen rono compartiti
pe’ corpi varj.
I consoli dopo avere
sup> plite le coorti
mancanti, tirarono a sorte il
comando degli eserciti. Prese
F abio l’ esercito sostenitore
degli alleati, e Valerio 1’ altro
che accampava tra’Yolsci
; recandovi le nuove reclute.
I nemici saputo il
giugner di lui, deliberarono far
venir nuove troppe, trinderarsi in luogo
più forte, nè
coìrere, come prima, per
lo dispregio rovinose vicende.
F orqirono i duci tutto
ciò speditissimàmente,
intenti l’ uno, e l’ altro a guardare
le trincere sue dagli
assalti, non ad assalir
le inimiche, per espugnarle.
Cosi decorse non
poco tempo fra
terror vicendevole che
1’ ano 1’
altro investisse. Non
poterono però l’uno e l’altro
osservare sino al
fine il proposito. Imperocché quante
volte spedivasi alcuna
parte di esercito pe’
frumenti o per altro
bisogno ; davansi attacchi e percosse, con
esito non sempre
vittorioso per ' Cesare (a)
Altenlare so’ Iribaoi
era delitto graTÌssimo, perchè le
persone loro si riguardavano
come sacre ed
inviolabili : Quindi Cicerone nel
lib. 3 de legibns
scrive: quodque ii
prohibessint, quodque plcbem rogaisint
ralitm està ^ taneiique
turno. vin. I ig UD
de' partiti. Ne
perirono in tante
scaramacce non pochi ; restandone feriti
ancor più. Non
riparava le perdite Romane alcun
nuovo rinforzo venuto
altronde ; mentre i Volsci,
sopravvenendo ad essi
schiere su schiere, si erano moltissimo
ampliati. Dond’è che
animatine i duci loro,
cavarono dalle trincee
1’ esercito per
la battaglia. Usciti i Romani
nommeno e schieratisi a fronte,
insorse una mischia
grandissima di cavalli,
di fanti, di soldati
leggeri, pieni tutti di
ardore e di > sperienza e ciascuno col
disegno che dipendesse
da lui solamente la
vittoria. Cadutine dall’
una e dall’ altra
parte molti estinti, e piò ancor
semivivi ; si ridussero
a pochi quelli che tuttavia
rimanevano tra la
mischia e il pericolo.
Or non potendo questi
fare le azioni
di guerra perchè
gli scodi destinati a difendere, pieni di
dardi conGccativi ^ aggravavano
la sinistra, né permettevano
che si tenesse ferma
in atto di
ripercotere i colpi, e
perchè le spade erano
ornai spuntate, rotte, inutili ; tanto
più che il combattere
di tutto il
giorno gli aveva
stancati, mer^ vati,
illanguiditi a ferire, e la sete,
il sudore, l’aiTanno
travagliavali come chi
combatte a lungo nelle
ardentissime ore di estate;
la battaglia non
prese termine me morando, ma 1’
nnò e l’ altro duce
ritirarono ben vo lentieri
le armate : e tornarono
a’ proprj alloggiamenti^ Non uscivano
più gli uni o
gli altri a combattere,
ma standosi dirimpetto spiavano
a vicenda le sortite
degli emoli pe’ bisogni
di guerra. Parve
nondimeno, e molto in Roma se
ne discorse, che la
milizia Romana, potendolo,
non facesse nulla
di luminoso per
odio contro del console, e per indignazione
su’ patrizj, mentitori nella dÌTÌsione
delle terre. In
opposito i soldati acctisa vano
il console come
insulficiente ; scrìvendone ognuno lettere ai
suoi. Tali furono
gli eventi nel
campo in Roma intanto
molti segni celesti
annunziarono l’ira divina
con voci, e viste inusitate. E tutti
i segni concorrevano a questo, come i vati
e gli spositorì delle
sante cose, te nutone consiglio, interpretavano, che alcuni
de’ numi erano esacerbati, perché non
riceveano gli onori
legit timi, o riceveano sagrifizj
non puri, nè
pii. Faceasi dunque grande
ricerca, 6nchè diedesi
indizio a’ sacerdoti che
l’ una delie vergini, custodi del
fuoco sacro ( Opimia
n’ era il nome)
avea la verginità
contaminato, e con la
virginità le sante
cose. Or questi
con indagini e discussioni chiarìtlsi
.esser vero pur
troppo il fello
indicato, spogliarono quella delie
sacre bende, e condottala di su
|1 foro, la seppellirono viva
tra sotterranee pareti. Flagellarono
poi nella pubblica
luce ed uccisero due
convinti del fello
con essa. E ben
tosto favorevoli le sante
cose, e favorevoli si ebbero
le risposte degl’indovini, come per
la pace venduta
da’ numi. XC; Giunto
il tempo de’comizj, e venutivi i consoli, ebberì briga
e contenzione assai viva
tra’ patrìzj e tra
’l popolo su’ personaggi
che avrebbero da
pigiare il comando. Voleano quelli
promovere al consolalo
giovani intraprendenti né amici
della plebe ; e per
insinuazione loro chiedevalo il
figlio di Appio
Claudio, di quello riputato già
si contrario al
popolo ; ed era
questo figlio pieno di
orgoglio e di audacia, e potente per
amicizie e clientele più che
lutti dell’ età
sua. Per l’ opposito
il popolo nominava a far
l’ utile pubblico e volea
per con vm: 1
3 1 soli personaggi anziani, notissimi per
le d^ci maniete sole
vi marciasse colle
armate. Fu tal decreto un
sub> bjetto di contraddizioni : perocché
molti non lasciavano che la
guerra uscisse, ricordando a’
plebei la partizion delle terre
decisa già da
cinque anni dal
Senato, e come tra le belle
speranze furono defraudati, e protestando che non
particolare ma comune
sarebbe quella guerra, se
la Etruria tutta
levavasi unanime a soccorrere
ì suoi nazionali. Non poterono
però nulla tali
sediziosi discorsi;
imperocché per le
insinuazioni di Spurio
Largio anche il popolo
ratiScò la sentenza
de’ padri : pertanto
i consoh cavarono gli
eserciti, e gli accamparono separati r uno dall’
altro, non lungi da
Yejo. Si tennero
in tal modo più
giorni: non uscendone
però l’inimico coll’armata
; datisi a saccheggiarne i campi, sen
tornarono con quanta poteano
più preda in
patria. Or ciò e
non altro vi ebbe
di memorabile sotto
questi consoli. L JLj
anno appresso nacque
disparere tra ’l
popolo e tra i senatori su
la scelta de'
consoli : imperocché questi voleano promovere
al consolato due
di cuore patrizio, laddove la
moltitudine due ne
volea popolareschi. Arse la
disputa finché tra
loro si persuasero,
che ambedue le parti
dovessero nominare, ciascuna,
un console. Pertanto il
Senato elesse Fabio
Cesene per la
seconda volta, quello
appunto che aveva
accusato Cassio come reo
di tirannide, ed il popolo
creò Spurio Furio Roma Catone Vairone. laS nella
olimpiade settantesima quinta
; essendo Calliade Arconte in
Atene, al tempo appunto
che Serse fece
la sua spedizione contro
della Grecia. Or
avendo questi preso appena
il comando, yennero in
Senato gli ambasciadori
Latini per supplicarvi,
che si mandasse
loro coir esercito l’ uno
de’ consoli, il quale
non permettesse che la
insolenza degli Equi
procedesse più oltre.
Annunziavasì insieme che
la Etruria tutta
era in moto, e che
tra non molto
uscirebbe colle armi
per essersi già riunita
in (x>mizj generali
: come pure che
avendo i Vejenti insistito
per congiungersele contro
i Romani, ne aveano Gnalmente
ottenuto, che potesse ogni
Tirreno parucipare alla impresa:
dond’ è che fatto, si
era un corpo riguardevole
di Vejenti volontari, per militarvi. Or
ciò vedendo i magistrati
Romani deliberarono che si
recintasser le armate, e che
li consoli uscissero
con esse r uno per
combattere gli Equi, ed
esser il vindice
dei Latini ; e l' altro per
marciare contro l’ Etruria.
Opponessi a ciò Spurio Sidnio
l’uno de’tribnoi, è con gregando ogni
giorno il popolo
a conclone raddomandava le
promesse dal Senato, e protestava che
non pen> metterebbe, che si
eseguisse niuna delle
cose decretate da’ padri
su’ nemid o su
la dttà, se
prima non creavano i Died, per deBnire
le terre del
pubblico, e non le compartivano,
come eransi obbligati
in verso dd
popolo. Implicavasi, nè sapeva che
fare il Senato
; quando Ap> In
atconì codici ti
legge Icilio: e Lirio
stesso nel lib.
4, dice : auetoret fuitte
tam Uberi popolo
mffrayì leitios accipio, ex
famitia i/ifeetUtima patribue
Irei in eam
antuun Uibunot plebù ereaioi. e pio Claudio
suggerì che si
procurasse la dissensione
tra questo e gli altri
Tribuni ; perciocché vedea, eh'
essendo r oppositore
inviolabile, ed impedendo
col poter dei^ leggi
i decreti de’ padri, non
rimaneva altra via
da rintuzuraelo, se
non quella che
un altro di
eguale onore e potenza operasse
in conurario, e proibisse ciocch’
egli proibiva: consigliava inoltre
che quanti prenderebbero successivamente il
consolato si adoperassero, e mirassero sempre ad
avere iàmigliari ed
amici de’' tribuni, ripe
tendo non esservi
altr’ arte da
iuvalidame il potere, se non quella
di ridurli discordi. II.
Parve ai consoli
che Appio ben
consigliasse, ed essi, e gii altri
de’più potenti si
afiàticarono vivamente,
perchè quattro de’
tribuni si dessero
ai voleri del
Se> nato. Or questi
cercarono alcun tempo
persuadere colle parole Sicinio
a desistere dalla mira
che i terreni si' dividessero innanzi la
fin della guerra.
Ripugnando e giurando, e
dicendo però costui
protervissimamente, che vorrebbe
piuttosto vedere la
città caduta in
poter dei Tirreni e di
altri nemici, che lasciare
placidi a sestessi que’ che
godeansi le terre
del pubblico, pensarono di prender
quindi la bella
occasione di parlare, e di
operare contro tanta arroganza, non udita
con piacere, nemmeno dal
popolo. Adunque dichiararono
che gliel proibivano ; e fecero
svelatamente, quanto piacque al Senato, ed
ai consoli. Dond’
é che Sicinio rimasto
solo non era più 1’ arbitro
di cosa niuna.
Fecesi dopo ciò la
iscrizion dell’ annata, e si
apparecchiarono dai privati, e dal pubblico
con ogni diligenza
le cose tutte necessarie per
la guerra. I consoli, tirata a sorte
la spe. 127 dÌEioQ
loro, uscirono ben
(osto all'aperto, Spurio
Furio contro le città
degli Equi, e Fabio Casone
contro i Tirreni. Corrispondevano i successi
appunto ai disegni
di Spurio ; non avendo
i nemici nemmen cuore
di venire alle mani :
e potè di quella
spedizione raccogliere danari e prigionieri in
buon numero ; imperocché
per poco non scorse
tutto il territorio
nemico, menando o portando
via. Concedè tutte
le prede in
dono ai soldati
: e se parea già
da gran tempo
l’amico del popolo;
più che mai se
lo accarezzò con
tal suo capitanato.
Del quale, finito il tempo, ricondusse l’ esercito
intero, inviolato,
ricchissimo divenuto, alla patria. IIL
Fabio Cesone diresse
nemmeno bene il
comando deir armata, por andò
privo delle lodi
delle opere, non per colpa
sua, ma perchè fin d’
allora che fe’
giudicare, e dare a morte Cassio
il console, come
intento alla tirannide, non avea
più lafiètto del
popolo. Donde che li
soldati suoi non
erano disposti nè
ad ubbidire colla prestezza la
quale abbisogna al
duce, che ordina, nè ad espugnare
con ardore quantunque
muniti di fòrze convenienti, nè a guadagnare
colle insidie i posti
opportuni al buon successo, nè
a fare cosa niuna
dalla quale raccogliesse onore
e fama buona pe’
comandi che dava. Le
altre iocongruenze poi
colle quali spregiavano esso capitano
erano per lui
meno gravi, nè di
tanta rovina per la
patria. Se non
che quel che
fecero in ultimo creò
pericolo non lieve,
e grande ignominia per
ambe> due. Imperocché scesi
a battaglia campale fra i
due colli su quali
alloggiavano diedero molte
e splendide prove di valore, fin
a scingere i nemici a dar
volta ; non però gl'
inseguirono nella fuga, sebbene
il capitano ve gli
scongiurasse, né vollero con
fermezza asserliame gli alloggiamenli
; ma lasciata la
bell opera imperfetta, si ritirarono
alle proprie trincee.
Anzi tentando il
console capitano dire alcune
cose : molti
a gran voce ne lo
beffarono, e redarguironlo che
avesse per la
im> perizia sua nei
comandare, fatto tra
lor la rovina
di tanti valentuommi: ed
aggiungendo altre maldicenze
e querele, esigerono che sciogliesse
il campo, e li riconducesse a Roma, come insufficienti
ad una seconda
battaglia, se il nemico
su loro tornasse.
Nè puntò si pie
garouo per le
ammonizioni, nè si commossero
pe’ g> miti, e per le
suppliche di lui, nè
le grandi minaccie ne
riverirono { ma sd^nandosene
ognora più si
ostinarono. Per le quali
cose tanta, e tanto universale
fu la insubordinazione, e il dispregio
pel capitano; che
le-vatisi intorno la mezza
notte, dismisero le tende, e raccolsero le armi ;
trasportandone li feriti, senza
comando ninno. ly. Il duce
vedendo ciò fu
costretto dare il
segno per tutti della
partenza ; temendo 1
audacia e l’ anarchia loro : ed
essi come salvatisi
colla fuga, pervennero in gran
fretta su 1’
alba presso di
Roma. Le guardie
delle mura ignorando che
fossero amici, brandirono le
armi, e chiamaronsi a
vicenda ; e tutto il
resto della ciltè
si empiè di confusione
e tumulto, come per grande
sciagura : nè si aprirono
le porte, se non a
di luminoso, quando si
ravvisò eh’ era 1’ esercito
loro. Questo poi,
Secondo ua’ altra leiione
il teaio Mrebbe
: ami tentando aieuni
dare ai cotuoU
nome d' Imptradore ec. per
tacere la infamia
deli' abbandono del campo,
corse a riscbio non lieve, traversando disordinatamente di notte
le terre nemiche.
Imperocché se gli
emoli se ne avvedevano, e lo inseguivano, niente impediva
che lo sterminassero. Cagione, come
ho detto, di questa
irragionevol partenza, o fuga,
fu l’odio del
popolo contr dei capitano,
e la invidia su
la onoriBcenza di
lui, af> finché più
autorevole non divenisse
per la gloria
del trionfo. I Tirreni conosciutane
al quovo di
la rimozione, spogliarono i cadaveri
de’ Romani, presero e trasportarono i feriti, e
saccheggiarono nelle trincee
tutti gli apparecchi,
certamente ben grandi, come
per guerra diuturna. Alfine dopo
avere, quasi vincitori, depredate le
terre nemiche più
prossime, ricondussero in patria 1’
armata. V. Creati consoli
dopo questi Cajo
Malllo, e Marco F abio per la
seconda volta, siccome il
Senato decretò, che marciassero
contro Vejo con
armata quanta po> teano
numerosa, intimarono il giorno
per la iscrizioa dei
soldati. Ben pose
loro Impedimento per
questa Til>erio Pontificio
T uno dei tribuni
con reclamare il
de-creto su la partizione
delle terre : ma
essi, come aveano fatto
i consoli antecedenti,
guadagnando altri de’
tribuni, disunirono que' magistrati, e cosi diedero
esecnzlone pienissima ai voleri
del Senato. Finita
in pochi di la
coscrizion militare, uscirono contro
de’ nemici ; conducendo ciascuno due
legioni, reclutate dalf interno
di Roma Catone Varrons] Roma, e
milizia non minore
; spedita dalle colonie
e da’ sudditi. Giunse
dai Latini e dagli
Emici il doppio del
soccorso intimato, non però
li consoli lo
usarono tutto, ma
rimandandone la metà, li
ringraziarono amplissimamente
di tanto
buon animo. Accamparono
innanzi di Roma una
terza armata floridissima
di due legioni, per
guardia del territorio, se mai
vi si presentasse altro esercito
nemico improvviso ; e lasciarono a difenderne
le fortezze e le
mura gli altri
non più compresi nella iscrizion
militare, ma validi
ancora per le armi.
Quindi guidando gli
eserciti fin presso
di Vejo ne misero
il campo su
due colli non
molto lontani fra loro.
Accampavasi davanti la
città l’armata nemica, numerosa e buona pur
essa ; anzi maggiore
non poco della Romana
per esservi accorsi
i primarj di tutta
la Etmria co'lor dipendenti.
All’aspetto di tanta
moltitudine, allo splendore delle
armi, assai temerono i consoli di non
listare a vincere, se metteano
l’ esercito loro non
bene concorde a fronte dell’ esercito unanime
de’ nemici. Adunque deliberarono i consoli
fortificare il campo, e prender tempo, finché l’ audacia
nemica, elevata da un
irragionevol disprezzo,
desse loro la
opportunità di ben fare.
Seguivano dopo ciò
preludj continui di
battaglie, e brevi
scaramucce di soldati
leggeri ; non però
mai nulla di grande
o di lumino). VI. Mal
soffrendo t Tirreni la
dilazion della guerra accusavano i Romani
di viltà perchè
non uscivano a battaglia, e magnifica vansi, quasi avessero
questi ceduta loro r aperta
campagna. Anzi tanto
più si elevavano
a spregiare le milizie
nemiche e vilipenderne i consoli
;. 1 3 I quanto che
credeano gl’ Iddj
combattere pc’ Tirreni.
E certo caduto un
fulmine nel quartiere
di Cajo Mallio ]'
uno de’ consoli,
ne abbattè la
tenda, ne mandò sosso pra
i focolari, ne macchiò le
arme, le bruciò d’
intor no, o in tutto glie
le distrusse ; e ne
uccise il più co
spicuo de’ cavalli
dei quali valessi
nel combattere, ed alquanti de’
servi. E condossiacbè gl’
indovini diceano che i numi
annunziavano la presa
del suo campo,
e la rovina de’ personaggi
più riguardevoli ; Mallio
levò l’ e centrò nel campo
stesso del compagno.
I Tirreni conosciuta la traslazione, ed uditane
la causa da’
prigionieri, s’ ingrandirono
tanto più nel
cuor loro, quasi
il cielo ancora guerreggiasse
i Romani; e moltissimo confidarono di vincerli.
E gl’indovini loro i quali
sembrano aver meglio che
quelli di altri
popoli esaminato i segni superni, e d’onde
scoppino i fulmini, e dove
finiscano dopo il colpo,
da qual Dio
vengano, e con quale presagio di
bene o dì male;
esortavano che si
andasse al nemico,
inlerpetrando il segno
avvenuto a’ Romani
in tal modo : poiché
il fulmine cadde
nella tenda consolare ov'
è il centro del
comando, e disfecevi tutto
insino ai focolari
; egli è indizio divino
a tutto l’ esercilo
deir abbandono del
campo espugnato a forza, e della rovina
de' più riguardevoli.
Se dunque, diceano, coloro che
ebbero U fulmine restavansi
nel luogo fulminato, nè
trasportavano ciocci erano
significato infra gli altri
; la presa di
un campo, e la distruzione di
un’armata sola avrebbe
appagato lo sdegno del
nume cite U contrariava. Ma
perciocché cercando
precedere col senno
gli Dei si
trassero aiì aluo campo,
lasciato deserto il
proprio, quasi il
segno celeste fosse pel
luogo non per
gli uomini ; quindi è che [ ira
' dà' ina fulminerà lutti
e chi trasmutatasi, e chi li
raccolse. E siccome mentre
la necessità divina prenunziava la
presa del campo
essi non aspettarono, ma lo
cederono di per
sestessi a nemici, così non il
campo abbandonato sarà
preso di forza, ma
quello che ricettò chi
lo abbandonava. I Tirreni, udite
tali cose dagl’indovini, invasero con
parte dell’ esercito
il campo derelitto
da’ Romani, per valersene, contro dell’
altro. Erane il
luogo ben forte, e mollo
accomodato per impedire
chi da Roma andava
all’ esercito. Fatte
poi diligentemente altre
cose colle quali superar
l’ inimico, recarono in campo
1’ armata. Ma standosene
i Romani in calma, i più
audaci fra loro scorsi
e fermatisi a cavallo presso
le trincee, rampognarono tutti, quasi
femmine : e dicendo simili
i duci loro agli
animali più timidi, gli
sbeffavano, e chiedeano l’
una delle due, vuol
dire ; che se
disputavano altrui la gloria
delle armi ; scendessero
in campo, e ne decidessero
con una sola
battaglia : ma se
riconosceansi per codardi
; cedessero le arme
ai più forti, subissero la
pena delle opere,
nè più aspirassero
a nulla di grande. Replicavano
altrettanto ogni giorno:
ma per ciocché niente
ne proGttavano ; deliberarono rinserrarli intorno intorno
con muro, per
astringerli, almeno colla fame,
alla resa. consoli
lungo tempo guardarono
solamente ciocché facevasi non
per codardia nè
per molIcsza, essendo
Tuno e l’ altro animoso
e guerriero; ma perchè temevano
il mal talento,
e la ritrosia nata e
perpetuatasi ne’ soldati
plebei fin d’ allora
che il popolo tumultuò per
la division delle
terre. Ancora stavano loro
su gli orecchi, e su
gli occhi le
cose che avea fatte
nell’ anno precedente
per astio sul
console, vituperose né degne di
Roma, cedendo la
vittoria ai vinti, e sostenendo fin
gli obbrobrj di
una fuga non
vera, affinchè colui non
trionfasse. Vili. Volendo tor
vii finalmente dall’
esercito la sedizione e richiamare alla
concordia primitiva la
moltitudine ; e dirigendo a
ciò tutti i disegni
e le providenEe ; poiché
non poteano ravvederla
uè co’ supplizj
parEÌali come protervissima
ed armata, nè co’
discorsi come insofferente di
essere persuasa, concepirono che
due vie rimarrebbero per la riconciliazione; vuol
dire; la infamia di
essere vilipeso da’ nemici
per gli uomini
(che pur ce ne
avea ) d’ indole
moderata, e la necessitò,
coi tutti paventano, per gl’
indocili al bene.
Adunque per effettuare ambedue
queste cose, lasciarono
che i nemici li
disonorassero colle parole, biasimando la
calma loro come la calma de’
vili ; e li necessitassero coi fatti
pieni di arroganza
e disprezzo a tornar valentuomini, se tali
non dimostravansi per
sestessi. Speravano, se ciò
faceasi, grandemente che accorrerebbero tutti
al quarlier generale fremendo, gridando, ed istando
di esser condotti al
nemico. Or ciò
appunto addivenne ; imperocché
non si tosto
prese il nemico
a rinchiudere con fossa e steccalo
le uscite dal
campo, i Romani considerata
la indegnità dell’
opera, ne andarono prima in
pochi, indi in folla
alle tende dui
consoli, c vi
schiamazzarono, e come di
tradimento li redarguirono; protestando infine
die se niun
de’ due li
guidava, essi di per sestessi
volerebbero colle armi
alla roano su gli
avversar). Ciò fatto
da tutti, giudicando
i consoli venuta alfine la
opportunità che aspettavano, imposero agli araldi
di chiamarli a parlamento.
Allora Fabio recatosi innanzi disse
: Sohìati, capitani, tarda è la
vostra indignazione su vilipendj
che vi si Jan da’
nemici ; nè più in
tempo è la volontà
che at'ete di
combatterli, pei'che m annestatasi
troppo dopo il
bisogno. Allora doveasi
ciò fare quaruìo
li vedeste la
prima volta scendete dalle trincee, e cercar la
batiaglia: jdllora bello era
il combattere pel
comando, e degno della sublimità de’
Romani. Ora necessario
ne si è reso,
e certo non di egtuile
decoro, quatulo ancora vincessimo. Nondimeno sta
pur bene che vogliate
una volta ri' scuotervi, e riavervi
delle occasioni tralasciate,
E molto siete lodevoli per
tale ardore verso
le nobili gesta
; imperocché procede da
virtù, e vai meglio cominciar ciocché deesi
aruhe tardi, che
mai. Ed oh!
cosi tutti V abbiate sentimenti
consimili per t util
vostro, e vi animi tutti uno
zelo medesimo per
combattere. Paventiamo noi però
che i trasporti de’
plebei contro de’ magist
rati per la
division delle terre,
siano cagione al pubblico
di sciagure, E ciò
noi paventiamo, perché i clamori, e le istanze, e la
insofferenza per uscire, non
è forse in tutti
t ejffctto di un
disegno medesimo. Ma quali
di voi anelale
uscir dai campo
per punir f inimico ; e quali
per fuggirvenc. E cagione
del tintor nostro
non sono già
gl’indovini, non le
congetture; ma fetui più
che notorj e non
antichi, anzi freschi delt
anno precedente, come
tutti sapete, quando uscendo contro
questi nemici medesimi
un esercito nostro numeroso
e forte, e pigliando fn la
prima battaglia un esito
propizio per noi, mentre
Cesane mio fratello, console
condottiero poteva espugnare
gli alloggiamenti loro e riportare
alla patria una
vittoria luminosa, alquanti presi
da invidia della
gloria di lui perchè
nè era popolare
nè mirava nel
suo governo a far
le voglie de’
poveri, levarono le tende
la notte stessa dopo
la battaglia, e fuggirono fuori
di ogni comando, senza
valutare il pericolo
che comprendevali nelf andare
privi di ordine
e di capitano per
le terre nemiche, e fra la
notte, e senza riguardare quanta vergogna ri
avrebbero, perchè quanto era
in loro, cedevano C impero
a nemici, essi già
vincitori ai viziti. Tribuni, centurioni, soldati ! in
vista di tali
uomini, non buoni nè
per dominare, nè per
farsi dominare, che pur
sono molti e caparbii, e colle armi, non abbiamo noi
fin qui voluto
la battaglia, nè osiamo ancora
per tali compagni
decidere in campo
la somma delle cose, perchè
non sian essi
tT impedimento e di danno
a chi presenta tutto
il buon animo.
Ma se la divinità
richiami ancor essi a
buon senno, se,
lasciate da parte le
discordie per le
quali ha il
nostro comune tanti mali e
sì gravi, e differitele ai
tempi di pace, vorranno redimere
ora col valore
{ obbmbrio passalo: niente impedisce
che ne andiamo
caldi di belle
speranze al nemico. Oltre
le tante opportunità
di vinrere, le più.
grandi e più solide
ce le porge
la stoli^ dità degli
avversar] medesimi. Costoro
superiori a noi di molto
nel n limerò, ed
atti con ciò
solo a contrahhilanciare t animosità
e perizia nostra, han privato sestessi fin
di quest’ unico
vantaggio, consumando il più delle
milizie in guardia
delle loro fortezze.
Ap-presso, quantunque
dovrebbero fare ogni
cosa con diligenza e saviezza
considerando con quali
e quanti grand uomini abbiano
a misurarsi, pur vanno
conarroganza ed incuria
al cimento, come sian
essi invincibili, e noi sopraffatti
dal terrore di
essi. E le fosse con
che ci cingevano, e le corse
a cavallo fin sotto ai
nostri alloggiamenti, e tan^ altre
ingiurie colle parole e colle
opere, questo appunto
dimostrano. Or via dunque,
ciò riguardando e le
tante e sì belle antiche
battaglie nelle quali
gli avete vinti
: andatene con ardore a questa
ancora. E quel luogo
dove ciascuno sarà collocato, quello concepisca
essere la casa, i poderi, la patria
sua : concepisca che
chi salva il vicino
in battaglia salva
sè ancora: e che
abbandona sestesso a nemici chi
abbandona il compagno.
Ilammentatevi soprattutto che
di quelli che
persistono valorosi e combattono,
pochi no
soccombono ; laddove pochi ne
scampano, e a stento, di
quelli che piegano, e figgano. X. Egli
seguitava ancora, in mezzo
a lagrime copiose, tal discorso
animatore, e chiamava a nome ciascuno de’
tribuni, de’ centurioni, e
de’ soldati, nolo a lui per
le belle prove
di valore date
nel combattere, e prometteva a chi
più segnalato sarebbesi
nella batlaglia molti
e gran pegni di
benevolenza, onori, r;c> cliezze, soccorsi d’
ogni guisa in
parità delle imprese
; quando proruppe da
tutti una voce
che inviuvalo a con6dare, e portarli al
nemico. Cessata questa, gli
si fece innanzi dalla
moltitudine Marco Flavoleio, plebeo di condizione
ed arteGcc, non vile
però, ma per le sue
virtù pregiato, e prode in
guerra ; e per tali
due rispetti condecorato in
campo di una
presidenza luminosa, cui sieguono
ed ubbidiscano per
legge sessanta centurie. I Romani
chiamano primipili nel
patrio idioma tali condottieri.
Or quest’ uomo, altronde grande
e bello, postosi in parte,
donde fosse a lutti
visibile, alfine disse: K oi
temete, o consoli, che
le opere nostre non
corrispondano alle parole
? Io per il
primo vi darò su
mestesso le assicurazioni
meno equivoche della mia
promessa. E voi cittadini, voi compagni della sorte
medesima, voi che avete
risoluto di pareggiare ai
detti le opere, non
sbaglierete facendo quanto io
fo. E qui, sollevando la
spada, giurò con formola sacra
e solenne ai Romani, per
la sua buona fede, di non
tornare, se non dopo
vinti i nemici, alla patria.
Sorsero al giuramento
di Flavoleio lodi
amplissime d’ogn’intorno.
Fecero bentosto altrettanto
i consoli e mano a mano i duci
minori, tribuni e centurioni ; e la
moltitudine finalmente. Yidesi
dopo ciò molto
buon animo in tutti,
molta benevolenza fra
loro, molta confidenza, e
fermezza. Partiti dall’
adunanza, chi metteva il freno
ai cavalli, chi
le spade aguzzava
e le lance ; e chi
riforbiva gli scudi
; ond’ è che tra
poco tutta 1’
armala fu in pronto
per la battaglia.
I consoli, invocali gl'
Iddìi con voti,
con ugrifizj, con suppliche,
perchè fossero i duci essi
stessi di quella
uscita, portavano fuori
degli steccati l’esercito,
schierato in buon
ordine. I Tirreni vedutili scendere
dalle loro trincee, ne
stupirono, e vennero ad incontrarli
con tutte le
forze, XI. Come furono
gli uni e gli
altri sul campo,
e le trombe annunziarono il
seguo delta battaglia, corsero quinci e quindi
con alti clamori.
E fattisi i cavalieri su i cavalieri,
ed i fanti so i
fanti; pugnarono, e molu fu
la occisione in
ambe le parti.
I Bomani dell’ala destra comandati dal
console Mallìo malmenavano
il corpo che li
contrastava, e smontati da cavallo
combattevano appiedo: ma quelli
dell’ala sinistra erano
circondali dal corno destro
de’ nemici. Imperocdiè
essendo ivi la
milizia tirrena più elevata
e più numerosa, i Romani ne erano
battuti, e coperti di
ferite. Comandava in
questo corno Quinto Fabio
luogotenente e già due
volte console. Egli resistè
lungo tempo, ricevendovi ferite
sopra ferite ; ma poi
trafitto da una
lancia nel petto
fino alle viscere, esangue ne
stramazzù. Come ciò
udì Marco Fabio il
console che crasi
ordinalo nel centro, pigliò seco i più
bravi, e, chiamato
Fabio Cesone l’uno
dei fratelli, marciò verso 1’
altro Fabio . E proceduto buon tratto,
e trascorso all’ala destra
de’ nemici, venne a quelli che
circoudavano i suoi. Dato
l'assalto, causò strage cupa a
quanti avea tra
le mani, e fuga
ad altri che erano
da lontano. Trovato
il fratello che
respirava Il ferito.
Par questo il
senso migliore. Nel
testo si legge in
luogo di Fabio.
Qui dunque si
hanno tre Fabj, Marco, Quinto, c Cesone, fiaiclli
lutti tre. ancora,
lo soUcTÒ; ma
questi non molto
sopravvivendo, morì. Crebbe qui l’ira a’ vendicatori suoi
su’ nemici. Nè più riguardando
la propria salvezza
lanciatisi in piccieda sebiera nel
mezzo di essi, dove
erano più folti, vi
alzarono monti di cadaveri.
Pericolò da questa
|>arte la milizia toscana, ed
essa che prima
incalzava en incalzata dai
vinti. Per l’ opposto
c|oelli dell’ala sinistra
che gii crollavano, e gii meticvansi
in piega li
dove era Mallio, quelli
fugarono i Romani contrapposti.
Imperoo cbè trafitto Mallio
con una lancia
da banda a banda
in un ginocchi o, c riportato da’
suoi che lo
circondavano agli
alloggiamenti ; i nemici lo
credettero estinto, e se ne animarono
; ed assistiti pur da altri
forzavano i Romani, ridotti senza
duce. I Fal^ dunque
lasdalo il corno sinistro
furono di nuovo
astretti a soccorrere il destro.
I Tirreni, vistfli che venivano
con esercito poderoso, desisterono dall’
inseguire : e strettisi fra
loro, combatterono io ordinanza, perdendovi molti
de’ loro ; e molti
nocidendovi de’ Romani. XII.
Intanto i Tirreni ebe
avevano invaso gli
alloggia menti lasciati da
Mallio, aizaione il segnale
dal capitano, marciarono con
gran fretta ed
ardore verso gli altri
alloggiamenti Romani perchè
non bene forniti
di guardie. Era il
loro concetto verissimo
; perché tolti i triarj
e pochi giovani, non v’ erano
se non mercadanii, e servi, ed artefici.
Ma ristringendosi molti
in picciolo spazio presso
le porte, ebbevi
una viva e terribile
zuffa con strage copiosa
e vicendevole. Accotzo con i
cavalieri Mallio il console
per ajuto ; cadde
col cavallo, nò
potendo risorgere per le
molle ferite vi
morì. Perirono ancora intorno
a lui molti giovani
valorosi : e per tale infortunio gli
alloggiamenti furono espugnati
; vcriGcan dosi cosi li
vaticini fatti ai
Tirreni. E se avessero
ben usato la sorte
presente, e guardato quegli
alloggiamenti; sarebbero
stati gli arbitri
delle provvigioni de’
Romani e gli avrebbero
costretti a partire obbrobriosamente : ma datisi
a predare le cose
rimastevi, e li più a ristorarsi ancora, lasciaronsi fuggir
di roano una
bella occasione. Imperocché nunziatasi
appena all’ altro
console la presa del
campo, accorsevi co' fanti
e cavalieri migliori. Li Tirreni
saputo che veniva
cinsero le trincee
; e fecesi battaglia
ardentissima tra chi
voleva ricuperar le sue
cose, e chi temea, se ricuperavansi, 1’ ultimo
eccidio. Ma traendosi in
lungo, e riuscendovi
migliore assai la condizione
de' Tirreni, perchè combatteano
da luogo elevato contra
uomini stanchi dal
'combattere di tutto
il giorno; Tito Siccio
legato e propretore, consigliatosene con il
console, intimò la ritirata
; e che si riunissero ed
attaccassero tutti le
trincee dal canto
più facile. Trascurò la
banda verso le
porte per un
discorso plausibile che non
lo ingannò; per
questo cioè, che i
Tirreni sperando salvaf&i, ne uscirebbero
: laddove se di ciò
disperavano circondati da
nemici senza uscita
niuna; sarebbero necessitati a far
cuore. Portatosi in
una sola parte l’assalto;
non più si
diedero i Tirreni a resistere; ma spalancate
le porte, salvaronsi ne’
proprj alloggiamenti. II console, rimosso il
pericolo, scese di nuovo a dar
soccorso nel piano.
Dicesi che questa
battaglia de’ Romani fu maggiore di
tutte le antecedenti
per la mollltudine degli
uomini, per la durazione
del tempo, e per l’ alleraarvi
della sorte ; imperocché
venti mila erano i fanti,
tutti di Roma,
floridi e scelti, oltre
mille dugento cavalli che
univansi alle quattro
legioni ; ed aU trettanta
era la milizia
de’ coloni, e degli alleati.
La }>attaglia conunciaia poco
prima del mezzogiorno
si estese 6no air
occaso, e la sorte ondeggiò
quinci e quindi gran tempo
tra vittorie e tra
perdite. Occorsevi la
morte di un console, di
un legato, stato due
volte console, e di tanti
altri capitani, tribuni, e
centurioni, quanti mai piu per
addietro. Il buon
esito della giornata
fu creduto de’ Romani
non per altro, se
non perché li Tirreni
fra la notte
lasciarono il proprio
campo, e passarono altrove. Il
giorno appresso fattisi
i Romani a saccheggiare il
campo Tirreno abbandonato, e seppellire le morte
spoglie dei loro,tornarono agli
alloggiamenti. Dove
riunitisi a parlamento diedero
i premj di onore a quelli
che avevano combattuto
da valorosi, e primieramente a Fabio
Gesone fratello del
console, che avea fatto
grandi, e meravigliose gesta : in
secondo luogo a Siedo, cagione
che gli alloggiamenti
si ricuperassero ; ed in
terzo a Marco Flavoleio
duce di una legione,
si pel giuramento,
che per la
magnanimità sua tra pericoli.
Rimasero dopo ciò
per alquanti giorni
nel campo ; ma ninno
più dimostrandosi per
combatterli tornarono alla patria.
In Roma per
battaglia si grande
laquale prendea fine
bellissimo, voleano tutti aggiungere r onor del
trionfo al console
che tornava : ma
il console stesso noi
consentì, dicendo, non essere
pia cosa, nè giusta, che
egli s’ avesse
pompa e corona trionfale per
la morte del
fratello e del collega.
E qui lasciate le insegne, e congedalo 1’
esercito, depose ancora i) consolato
due mesi prima
del termine suo, non
po> tendo ornai più
sostenerlo per la
grande finta che lo
travagliava e riduoevalo in
letto. Il Senato scelse
gl’ interré pe’
comizj, e convocando il
secondo interré la
moltitudine nel campo
Marzo, vi fu nominato
console Tito Yerginio, e per la terza
volta Fabio Cesone,
colui che ebbe i
primi premj della battaglia
ed era fratello
insieme del console, che avea deposto
il comando. Questi,
decidendo ciascuno per sé
l’esercito col mezzo
ddle sorti, uscirono
in campo, Yerginio per
combattere i Yejenti e Fabio
gli Equi che scorrevano, depredando,
le campagne Latine . Gli Equi
all’ udire che i
Romani venivano, si levarono
iu fretta dalle terre
nemiche, e ritiraronsi alle proprie
città, sopportando che si
derubassero le terre
loro : tanto che il
console col subito
venir suo s
impadroni di danari, di
persone, e di altre
prede in copia.
Si tennero i Vejenti
in principio tra
le mura ; ma
quando parve loro di
avere il buon
ponto, usarono su’ Romani
sbandati, ed intenti alla
rapina delie campagne.
E perciocché piombarono numerosi,
in buon
ordine contro di
essi, non sedo ue
ritolser le prede;
ma uccisero, o fugarono quanti si
opposero. E se Tito
Siccio legato non
accorreva, e li frenava, con soldatesca
ordinata appiedi e a cavallo, niente .impediva
che I’ esercito
in tutto si
distruggesse. Ma giunto lui
per impedir ciò,
si affrettaci) Adoo di
Room 37S aecaudo
Catone, 377 secondo
Marrone e 479 av.
Cristo] I 43 rono a rlunirsegli, senza eccettuarne
alcuno, tutti i dispersi.
Coocenlralisi tutti occuparono
a sera un colle,
e vi pernottarono. Animati
dalla prosperità li
Vejenti accamparonsi presso
del colle e chiamarono
altri dalla città, quasi
avessero addotti i Romani
in luogo, privo
in tutto de’ viveri, e poiessero tra
non molto necessitarli
ad arrendersi. Accorsavi gran
moltitudine, si misero due campi
ne’ lati possibili
ad espugnarsi del
colle ; ed altre picciole guarnigioni
in siti men
facili ; tanto che
tutto ribbolliva di armati.
Fabio l’ altro console
intendendo per le lettere
del compagno che
gli assediati nel
colle erano agli estremi,
e sul punto ornai
di rendersi per la
fame, se alcuno non
li soccorreva ; raccolse
1’ esercito, e corse su’
Vejenti. E se giungeva
un giorno più
tardi; niente gli sarebbe
valuto, ma trovato avrebbe
l’ esercito rovinato.
Imperocché quei del
colle costretti dalla
penuria ne uscirono per
correre a morte più
onorata ; e fattisi alle
prese co’ nemici, combattevano esausti
dalla fame, dalla sete,
dalla veglia, da ogni
disagio. Ma dopo non
molto, quando videsi
l’esercito di Fabio
che giungeva numeroso, in
buon ordine, tornò
la conBdenza ne’ Romani, e la
paura negli avversar).
Dond’ è che i Tirreni
più non estimandosi
acconci per fare
giornata cx>ntro di un
esercito fresco e potente, abbandonarono l’ impresa, e
partirono. Ma non
si tosto le
due armate Romane si
ricongiunsero, fecero un amplisnmo
campo in luogo munito
presso della città.
Trattenutisi quivi più giorni, e saccheggiatone il
meglio del territorio
di Vejo; rimenarono in
‘patria gli eserciti.
Avvedutisi i Vejenti che
le milizie Romane
eransi levate dalle
insegne, presa ia gioventù
più spedita che
essi tenevano ia arme, e quanta ne
era presente de’
loro vicini, si gettarono su
campi confinanti, e li depredarono
pieni di fratti, di bestiami, di
uomini ; per essere
i contadini calati da’ castelli
a pascere i bestiami c lavorare
le terre su la
fiducia che aveano
nell’ esercito Romano
trincierato innanzi di
loro. Non eransi
questi ai partir
dell’esercito affrettati a
ritirarsi colle cose
loro, non temendo che
i Vejenti, tanto danneggiati,
dessero cosi pronta la
ripercossa a’ nemici. Fu
la irruzione de’
Vejepti piccola se se
ne guardi il
tempo ; ma grandissima
per la quantità de’
campi saccheggiati : ed
avanzatasi fino al Tevere
verso il monte
Gianicolo a meno di
venti stadj da Roma ;
le recò
dolore e vergogna insolita
; non essendovi sotto le
insegne milizie che
impedissero a quella di estendersi.
Cosi l’esercito de’
Vejenti prima che
queste si riunissero ed
ordinassero, corse desolando, e
parti. XV. Adunatisi quindi
il Senato e i consoli, c datisi a considerare in
qual modo fosse
da far guerra
a’ Vcjenti ; prevalse
il partito di
tener ne’ conOni
milizie di osservazione pronte
sempre in campo
per la difesa
del territorio. Couturbavali che
grande ne diverrebbe
il dispendio, laddove l’ erario
era esausto per le imprese continue, nè più
bastavano i beni ai
tributi ; e molto più contnrbavali
la recluta di
tali presidj da
spedirsi perocché ninno
voleva star in
guardia per tutti:
dovendosi travagliare non a volta
a volta, ma sempre.
Essendo per tali due
cause mesto il
Senato; i due Fabj
(a) 1 due Fabj
sono Marco Fabio,
e Fabio Cesoue nomiaati
di topna.; 145 convocarono qnanti
partecipavano il loro
lignaggio. Con saltatisi, promisero
al Senato di
andare spontaneamente essi per
tutti a tal rischio, conducendo seco
amici e clienti, e
militandovi a proprie spese
; finché durerebbe la guerra.
Ed esaltandoli per
la disposizion generosa, e contando tutti
di vincere anche
per (jnesta opera
sola, pigliarono essi famosi
in città le
aripe tra’sagrifizj e tra i voti,
e ne uscirono. Era
duce loro Marco
Fabio il console dell’
anno precedente, quegli
che vinse i Tirreni in
batuglia. Esso menava
presso a poco quattro
mila, clienti per la
maggior parte ed, amici, ma
trecento sei ve n’ erano
delia stirpe de’Fabj.
Usci non molto
dopo su le orme
loro l’armata Romana,
comandata da Fabio Cesone,
Tuno de’ consoli. Avvicinatisi
al Cremerà, fiume non
molto discosto da
Vejo, fordficaroiio su di una
balza precipitosa e dirotta
un castello opportuno
a difendere tante milizie, e vi
scavarono intorno doppie fosse, e vi elevarono
torri froquenti. Cremerà
fu nominato ancor esso
il castello dal
fiume. E conciosnachè molti esercitavano,
ed il console
stesso coadiuvava quel lavoro, fu terminato
prima che noi
pensassero. Allora cavò r esercito, e marciò su
1’ altra parte
alle terre dei yejenti, poste incontra
al resto della
Etruria, dove quelli
tenevano i bestiami, non aspettandovi
mai l’arme Romane. Fattavi
gran preda se
la recò nel
nuovo castello, esultandone per
due cause, cioè per
la vendetta non tarda
pigliata su’ nemici, e per
1’ abbondanza che dava
copiosissima ai soldati
che lo presidiavano,
percioc chè niente
ne riservò per
l’ erario, o ne dispensò
tra lo DIONIGZ, tomo in.
1 sue milizie,
ma tulio concedette
a quelli che guarda^ vano
la regione, greggi,
giumenti, gioghi di
buoi, ferramenti, e quanto
era utile per
la coltura. E dopo ciò
rlmenò 1’ esercito
a Roma. Erano dopo
fondato il cartello i Vejenti
a mal termine ; non
polendo nè lavo t^re
con sicurezza le
terre, nè ricevere esterne
vetto> vaglie. Imperocché li
Fabj diviso in
quattro parti la gente
loro, con una difendevano
il castello, e le tre altre
scorrevano la regione
nemica pigliando, e traspor> landò. E quantunque
molte volte i Vejenti
gli assalirono con truppe
non poche nell’ aperto, e se
li tirarono dietro in
terre piene d' insidie
; essi nondimeno vinsero r uno
e r altro pericolo ; e fatta
glande uccisione, n
ricondussero salvi al
castello. Pertanto non
osavano più li nemici
d’ investirli, ma tenendosi per
Ib più tra le
mura, np faceano furtive
sortite. E cosi ne
andò quel r inverno. XVI. Entrati
l’anno appresso (a)
in consolato Lucio Emilio, e Cajo Servilio, fu
nunziato a’ Romani, che i Volsci e gli
Equi eransi convenuti
di portare su
loro la guerra, e d’ invaderne tra
non molto le
terre; e verissimo ne era
1’ annunzio. Imperocché, armatisi gli
uni e gli altri prima
dell’ aspettazione, corsero, e
devastarono, ciascuno, la regione vicina
a sestesso, persuasi che non potrebbono
i Romani combattere in
un tempo i Tirreni, e
rispiiigere altri che
gli assalissero. Poi
so Cioè quelli
i quali prcaidiavauo il
casiello aoUo gli
auspicj di Marco Fabio. Roma Catone Varroae]
{iravveiiendo altri ridicevano
che I’ Elriiiia
tutta levavasi in guerra
coulro i Romani, e
preparavasi di s[>edire
ia comune un soccorso
a’ Vejenti. Or
lo avevano i Ve> jenti f incapaci
di espugnare il
castello, imploralo qu>
sto soccorso ; commemorando la
unità del sangue, 1’
amicizia, e le tante
guerre che aveano
insieme combattute. Anzi aVeano
dimandata l’ alleanza loro
nella guerra co’ Romani
non si per
questi riflessi, come per
quello ancora, che i Vejenti erano
su la frontiera
dell’ Etraria ; e frenavano una
guerra, che versavasi da
Roma su tutta la
nazione. Convinti di
tanto i Tirreni promisero mandare tutti
i sussidj che richiedevano.
Per 1’opposto il Senato,
informatone, risolvette spedire
tre eserciti. Ed arrolate
in fretta le
milizie; fu spedito
Lucio Emilio sa i Tirreni.
Usci pur con
esso Fabio Ceso
ne, colui che avea di
fresco deposto il
comando, ottenuta dal .Senato la
facoltà di ricongiungersi in
Cremerà, e partecipare t
pericoli della guerra
colle genti Fabie
che il fratello aveaci condotte
in difesa del
luogo : ma egli
v’ andava co’ suoi
compagni ornato di
autorità proconsolare. Cajo Srrvilio
l'altro console marciò
contro i Volsci, e Servio Furio proconsole
contro gli Equi.
Seguivano ciascun di essi
due legioni Romane, e truppe alleate
non minori di Eroici, di
Latini, e di altri. Servio
il proconsole espedì la
guerra con termine
rapido e lieto ; perciocché fugò gli
Equi con una
battaglia, e senza stento ; impaurendoli al primo
investirli : e poi rifuggitisi
questi ne’ luoghi forti ; ne
devastò le campagne.
Ma Serviliu il console
fattosi a combattere con
fretta ed orgoglio,
incontrò ben altra sorte
da quella che
ne aspettava: Opposiiglisi
i Volsci bravissimameote, vi perdette
molti va lentuomini: tanto
che si fidasse
a non far più
battaglia: ma standosi negli
alloggiamenti, deliberò di mantenere la
guerra con tenui
mosse e scaramuccie de’ soldati
leggeri. Lucio Emilio mandato
nell’ Etruria, trovando accampati innanzi della
città li Yefenti
con grandi rinforzi di
quella nazione, non indugiò
per imprendere : ma dopo
un giorno da
che erasi trincerato, presentò le schiere
in battaglia. Vi si lanciarono'
i Vejenti arditissimamente:
ma divenuta questa
eguale in ambe
le parti; prese i cavalieri, e. gli
avventò su 1’
ala destra de’
nemici ; e perturbatala;
corse su la
sinistra, combattendo a
cavallo dov’era luogo
da cavalcarvi, e dove
no, smontando, e combattendo a piede.
Venute in travaglio
ambedue le ale, nemmeno ' il
centro potè più
sostenersi, forzato dalla fanteria
: e fuggirono tutti verso
gli alloggitrmenti. Emilio
allora gl’ inseguì
con le milizie
ordinate, e molti ne uccise.
Giunto presso gli
alloggiamenti diedevi con mute
continue 1’ assalto, ostinandovisi tutto quel
giorno e la notte
seguente : finché nel
giorno appresso languendo i nemici
pel travaglio, per le
ferite, e per la veglia, se
ne impadronì. Quando
i Tirreni videro i Romani trascendere
le trincee, le abbandonarono, e fuggirono quali
in città, e quali
a’ monti vicini. Tennesì il
console per quel
di negli alloggiamenti
nemici ; ma nel giorno
prossimo onorò con
doni convenienti i più segnalati
in combattere, e concedette
a’ soldati quanto era ivi
stato lasciato, giumenti, schiavi,
c tende piene di
ogni ricchezza. E 1’
esercito Romano se ne
ricolmò quanto non
mai per altra
battaglia; impe 1 4p rDcclièJi Tirreni
vivono vita delicata
e sontuosa in patria, ed
in campo ; e portan
seco, non che le
cose necessarie, suppelletlili
ancora di pregio
e di artifizio, ond’ esserne
in piaceri e delizie. Ne’ giorni
appresso stanchi da’
mali i Vejenti spedirono ambasciadorì
i più anziani della
città cq^ modi de’ supplichevoli per
trattare intorno la
pace col console. Or
questi sospirando, prostrandosi^
e dicendo,^ tra molte lagrime, quante
cose mai sogliono
impietosire; indussero il console
a questo, che permettesse
loro d’inviare oratori a Roma
per dar fine
in Senato alla
guerra : e che non
danneggiasse in tanto
la terra loro, finché
ne tornassero colie risposte.
Ad ottenerne però
questo, promisero, come volle
il vincitore, dar grano
per due mesi, e danari per
sei pe’ stipeudj
di tutta V armata.
E portate, e ricevute, e dispensate
tra' suoi tali
cose, il console conchìuse con
essi la tregua.
Il Senato, uditi gii ambasciadori, viste le
lettere del console
che molto pregava, e raccomandava che
si finisse il
più presto la guerra
co’ Tirreni ; deliberò
dar la pace
che dimandavasi : e che
nel darla il
console Lucio Emilio
stabilisse le condizioni che
gli sembrasser migliori.
Il console a tale
risposta si concordò
co’ Vejenti, facendo una
pace anzi umana, che utile
pe’ vincitori, senza riserbare
per essi delle terre, senza
impor nuòve multe,
nè garantire i patti cogli
ostaggi. Or ciò
lo mise in
grand’ odio, e fu causa
che non avesse
dal Senato ringraziamenti, come savio
nel procedere suo.
Imperocché chiese il
trionfo; ed i padri si
opposero ; incolpando 1'
arbitrio de' suoi trattati, definiti senza
il pubblico voto.
AlìGaché però nou sei
prendesse ad ingiuria, nè
sen corucciasse ; lo destinarono a portare
le armi contro
de’ Volaci in
soccorso dell’altro console, perchè,
come fortissimo nomo eh’
egli era, desse ivi, se
poteasi, buon fine alla
guerra, e dissipasse 1’ odio
dell’ azion precedente.
Ma costui sdegnato sa
la negazion degli
onori fece presso
del popolo lunga accasa
de’ senatori, cpiasi dolesse
loro che spenta fosse
la 'guerra co’
Tirreni. Diceva, che ciò
facevano ad arte in
conculcaménto de poveri, perchè i poveri, delusine già
tanto tempo, non
insistessero per la division
delle terre, se tornavano
dalle guerre di fuori.
Queste e simili contumelie
lanciò con indignazione vivissima su’
patrizj, e sciolse 1 armata
che avea con lui
combattuto, e richiamò, e congedò
1’ altra che era
tra gii Eqni
sotto Furio proconsole.
Con die renelle conti ricchi i poveri. Presero quindi
il consolato Cajo
Orazio, e Tito Menenio nella olimpiade
settantesima sesta, quando vinse
allo stadio Scamandro
da Mitilene, essendo in
Atene Fedone P arconte^
Il torbido interno impedì questi
a principio ne fatti
del comune, fremendo la
moltitudine, nè tollerando che
si fornisse niuna
pubblica cosa innanzi la
divisione delle terre.
Ma poi, vinto il
popolo dalla necessità, lasciò quanto
facea sommossa e tumulto, e
ne andò
spontaneo in sul
campo. Imperocché le undici
popolazioni Tirrene non
comprese nella Roma Catone Varrone.
stimi molto potere
ai tribuni di
malignare doni contro del
Senato,, e di alienare
n ciò principio alla
guerra. Levaronsi, ciò
convenuto, dal par- lamento. Indi a
non mollo spedirono
i Yejenti a raddo mandare' da’ F
abj il
castello, e già tutta 1'
Etruria era sa r arme.
I Romani, conosciuto ciò per
lettere spedite da’ F abj, decretarono che
uscissero ambedue i consoli r uno alla
guerra che sorgea
dall’ Etruria, e 1’ altro
a quella che ardeva
già co’ Yolsci.
Orazio marciò con
due legioni e con truppe
alleate ben forti
contro de’ Yolsci, Menenio dovea
con altrettanta soldatesca
incamminarsi contro r
Etraria. Ma intanto
che si apparecchia,
e s’in> dogia ; il castello
di Cremerà fu
preso, e distratta la stirpe de’ F
abj. La
sciagura de’ quali si
narra a due modi r uno
non persUadevole, 1’ altro
piò prossimo al vero.
Io gli esporrò
tutti due, come gli
ebbi. XIX. Narraoo alcuni
che sovrastando no
patno sagrideio che
doveasi porger da’Fabj,
uscirono gli uomini con
pochi clienti per
compierlo, ed andarono, senza
esplorare le strade, non
ordinati sotto le
insegne, ma incauti e negligenti,
quasi passassero terre
amiche, nei giorni lieti della
pace. I Tirreni, saputane anzi
tempo r andata, disposero
tra via le
insidie con parte
dell e> sercito, mentre 1’
altra parte veniva
in ordinanza non molto
addietro. Approssimatisi i Fabj,
sorsero i Tirreni dalle insidie, e gl’ invasero
di fronte, e di fianco
; assalendogli non molto dopo
da tergo il
resto de’ Tirreni.
Circondatili d’ ogn’
intorno con fionde, con
archi, e dardi, e lance ;
gli uccisero tutti
colla moltitudine dei colpi.
Or tale racconto
a me sembra poco
persuasivo. Imperocché non par
verisimile, che tali
uomini, addetti com’ erano
alla milizia, ne
andassero dal campo
in città senza il
voto del Senato
per sagrìficarvi ; potendo
il santo rito fornirsi
per altri del
lignaggio medesimo, già provetti
negli anni. Che
se tutti erano
partiti d Roma senza
che stesse ne’patrj
lari alcuno de’ Fabj;
nemmeno può credersi, che uscissero
dal castello quanti
di questi il guardavano;
imperciocché se ne
andavano tre o quat tro, bastavano a compiere
il santo rito
per tutta la
prosapia. Per tali cagioni
a me non sembra
credibile questo racconto. L’ altro
che io reputo
piò verisimile su
la distruzione di essi, come
su la presa
del cartello, così procede. Andando
questi di tempo
in tempo per
foraggiare, e. spandendosi ognora
più da largo,
come quelli che prosperavano
ne' tentativi ; i Tirreni, raccolte gran forze,,
si accamparono, senza
che il nemico
ne sapesse, in luoghi
vicini : poi facendo
uscire da’ castelli
masse di pecore, di buoi, di
cavalli, come per pascere, accendevano i Fabj ad
invaderli: ond’ è che venendo
questi predavano i pastori, e
menavano seco i bestiami.
Davano i Tirreni di continuo
tal ca, traendo i nemici
sempre piii lontani dal
campo : or quando
ebbero con gli
allstlameoti perpetui dell’
utile rallentate le
provvidenze loro per la
sicurezza; misero di
notte gli agguati
in luoghi opportuni, intanto che
altri stavano su le allure
per esplorare. Nel giorno
appresso mandali innanzi
alcuni soldati, come per difesa
de’ pastori, cavarono
mollo bestiame da’ castelli.
Come fu nunziato
ai Fabj, che se andavano
di ià dai
colli vicini, troverebbero ben
tosto il piano ripieno
d ogni bestiame
senza valida guardia
: lasciarono nel castello
un idoneo presidio, e vi si
diressero. E trascorrendo
frettolosi, ardenti veri, e dicendo
opera loro, quanto
è l’opera di 'una sorte improvveduta, ed inevitabile
; li renderono insolenti, se
già erano esasperati.
Fra tanti mali i
consoli spedirono con molti
danari chi comperasse
grano dai luoghi vicini
: e comandarono che chi
teneane in casa oltre
i bisogni moderati della
vita, lo recasse al
pubblico: e destinatone i
prezzi convenienti, e fatte
queste e cose altrettali,
ammansarono i poveri che
si sfrenavano, e si rivobero
di bel nuovo
agli apparecchiamenti delia guerra. E certo tardando
a giugnere le vettovaglie di fuori, e finite in
breve le interne,
non aveaci altro scampo
da’ mali: ma doveasi
neceariamente o rischiare tntte le
forze e snidare i nemici
dai territorio, o morire tra
le mura per
le discordie e la
fame. Adunque elessero farsi incontro
ai nemici, come al
meno dei mali. E levatbi di
città coll'esercito valicarono
circa la mezza notte
su picciole barche
il fiume, e prima
che il giorno fosse
luminoso, già teneano il
campo presso a’
nemici. Donde cavato nel
giorno appresso 1’
esercito, 1’ ordiua Di
ani illiberali • sordide.
Silbtirgio inleade (|r.
Quindi è che se dividasi
390U per laS
risulta -i6. Casaub. le trasmutarono
in, àlire di
pecore e’ buoi, tassato
anche il numero di
questi per le
ammende avveniife, che i
magistrati imporrebbero su’ privati.
La condanna di Menenio
fa causa che i
patriaj si sdegoas'sero
col ppolo, nè più
gli permettevano di
fare la divisione
delle terre, nè voleano in
cosa ninna condiscendergli. Ma tra
non' molto lu potilo
il pplo de’ suoi
giudizj, appunto nell’ udire la
morte di Menenio..
Imperocché non crasi questi
mal p(ù veduto
nelle adunanze, o" ne’
pubblici luoghi: e polendo pagare
l'ammenda (giacché non
pochi de’ suoi eran
pronti a soddisfarla pr
esso ), e con ciò non
perdere' niun pubblico
diritto j non volle
: ma giudicando pri la
ingiuria alla morte;
si tenne in
casa, nè più ammise
prsona, e rifinito dal dolore
e dalla ’ fame ' abbandonò la
vita. E tali sono le
Operazioni di quest’ anno.
Divenuti consoli Pulsilo
Valerio Poplicòla e Cajo
Nauzio, fa condotto
a giudizio capitale anche un
altro patrizio Servio
Servilio, console dell’anno
precedente, non laokò -dopo
che aveva lasciato
il coma'udo. Due tribuni
Ludo Cedicio, e.Tito Stazk)
erano quelli che lo
accusavano’ al popolo chiedendo ragione
non d' ingiustizia alcuna,
ma degl’
infortuni suoi, perchè nella ballagUa
co’ Tirreni spintosi
egU fin sotto
alle trincee nemiche con
più ardirò che
prudenza, e rincalzatone da
quei d’ entro' che ne
uscirono in copia, vi prJetle il
meglio de’ giovani.
Questo giudizio parve
ai patrizi il più
duro di tutti.' E congregavansì, e doleansi, Abdo
di Roma 979
Mcoado Catoast aSi
secondo Varrone, e 473 >r.
Cristo] lG5 è teneano per gran
male se il
bell’ ardire, e il non ri
cu sarsi
ai pericoli accusarasi
ne’ capitani che
non tro vavan propizia
la. sorte, e da
quelli che non erano
nemmeno stati ne’
perìcoli : dicevano, che qne’
giudizj aarebbero, coni’ era verìsimile, cagione di
timori e di ignavia ne’ comandanti, e di
non &r loro
mai piu con cepire
nuovi trovameoti : che
perita ne sa.rebbe
la libertà, come annientata.!’ antorità del
capitano. Ed insistevano caldamente presso
la plebe >. perchè
non conrebbe il . danno se
puoi vanti i dttci
> pe’ successi non buoni.
Venuto il tempo
del giudizio, fattosi innanzi Lneio
Cedicio, uno de’ tribuni,
accusò Servilio di
avere per imprudenza ed
imperizia di comando
menata i’ armata incontro a pericoli
manifesti, e rovinato il Bore della
repubbnca : tanto ohe
se informalo beo
tosto il console ' compagno della
sciagura volando a lui
coll’esercito, non respingeva
i nemici, e salvava i suoi;
niente impediva che non
fosse disfatta anche
tutta 1’ altra
milizia, e che in avvenire
per metà decadesse, non che si
ampliasse la'' potenza di
Ronìa. E cosi dicendo
presentava per testimOnj i centurioni, quanti ve
n’ erano, èd alcuni soldati,
i quali, volendo rilevare
sestessi dall’ infamia della
disfatta e della foga,
d’ allora, versavano sul capitano
là colpa degl’
infortito) del combattimetnto. Quindi inspirando
viva compassione, verso
gli estinti in quella
giornata, exl esagerando
quel male, ne
ricordò con. molto .disprezzo
ancor altri, i quali detti
in comune contro i ' patrìzj, scoraggiavano chiunque
di loro volesse intercedere per
Servilla ; é dopo ciò
gli concedè la
diiE Servilio pigliando a difendersi
disse ^ Ciftadini, se mi
chiamale al giudizio,
e cìuedete ragione del "mio
capitanalo ; san pronto,
a renderla : ma se mi
oliiàmate ad una
pena già risoluta, e'
mente pift giova eh’
io dimostri che
non v oJ[esi; prendete
fusa-, temi come avete
già stabilito. .Egli'è
pur meglio eh’ io mora
non giudicato cK
ottener le difese,
nè persua-, dervele ; perciocché sembrerei patir
con giustizia ogni cosa
che su me
sentenziaste. Altronde voi
meno sa~ rete colpevoli,
se togliendomi le
difese, jnentre oscura ancora
c la mia colpa, se
colpa ho mai
fatta ; secondate 1 vostri risentimenti.
Il pensier vostro' dalla
vostra udienza mi -sarà
chiaro : il silenzio
o' il tumulto
mi saran d argomento se m’
avete alle ^scolpo
chiamato, o alla pena. E biò
detto si tacque.
E fatto silenzio, e gridando
ben molli che
facesse, cuore, e dicesse ciocché voleva, cosi
ripigliò: Cittadini, se
.voi siete i‘ giudici, non i nemici
miei ; di leggeri
spero XOftVincervi, che non v’
oj^esì ; e comincio da ciò cito' tutti
sapete. Io fui scelto
console ’coll ottimo
V-erginio, quando i Tir^
reni fortificatisi nel
colle imminente a Ronìà, domi navano, tutta
intorno la campagna,
sperandosi di abolire ben
tosto, ambe il
vostro f principato. Eravi in città
fante, discordia, defeienza onde
risolvette. Incontratomi in tempi
così. turbati e terribili ruppi, unito
al collega, due volte
in battaglia i nemici, e gli astrinsi
a lasciare, il castello, 'che guardavano. Feci dopo
non molto cessare
la fame, ricondotta t
abbondanza npl Foro, e consegnai d consoli
susseguenti sgombro da’ nemici
il territorio che
n’ era pie-HO,
e Roma sana da
tutti i mali politici, i cot pipopoU l’
avea/io inabissata. So
dunque non è de^ litio
vincere gt inimici, e di
che mai son
io ’^lpevole presso vai ?
O conte ha Servilio
offeso il popolo',
se alcuni bravi incontraron
la morte col,
maU:hio combai tere ? Già
non v’ è niun
Dio che asiicuri
ai capitani la vita
de suoi militari
; nè prendiamo, d, comando con
patti e formale di
vincer lutti i nemici
^ e non perdervi aldino de'
nostri. E chi mai, s egli
è uomo^ chi si offrirebbe
di riunire in
sè tutti i bei
tratti di consiglio buono, e di
sorte ? Anzi i grandi
risuUad con pericoli grandi
s' ottengono. Nè già io
sono il
primo éte m’
avessi tale ÒKonlro in
combattere, ma se l
ebbero, dOei, quanti fecero
pericolose battaglie con
poche schiere contro
lè molte nemiche. Incalzarono
alctzni i nemici, e poi
furono incalzati: ne
uccisero, e ne furono
decisi, anche in più
nurhero.siri capitani,
riuscitici altri con
termine buotto, ‘altri con doloroso
? E perchè dunque^ lasciate
gli altri, e me 'giudicale
; se a norma ponderale
delle leggi le opere, non
degne della sapienma
e del capitanato ? Quante
imprese più audaci
ancor della' mia cadde
in pensiero capitani^ di
compierle, quando la circostanza non ammetteva
consigli sicuri,' é già
maturati^ Chi strappando le
insegne dalle. mgni de'
soldati, le gittò fra nemici, perchè i suoi
scoraggiati ed intimoriti
d -rìànimassero a forza, istruiti, che chi non salvatale
ne avrebbe morte
ingloriosa dal comandante, jiltri scorrendo
sul territorio nemico, ucdicarono e ruppero
i ponti de' fiumi
valicati, perchè i soldati
non. vedessero scampo nella
fuga, se la
tramavano, e com^battessero
coji ardore e ferrnezza.
Altri dando alle fiamme le
bagagUe e le tende, necessitarono ' i suoi a ritrovare nelle
terre nemiche quanto
lor bisognava. 'Lascio' mille
altre imprese', audaci
tutte, ed ideate da capitani, che
ió .potrei pur
dire 'su la
storia, e su la sperienza, e per le
quali ninno mai, faUilagli .la
prova, soggiacque alle
pena E già niuno può
redarguirmi che mettendo
i compagni ad aperto pericolo, io xnen
tenessi lontano. Se io mi
vi esposi cogli .altri, se
ultimo me ne
ritolsi, se vi 'corsi
la sorte comune di
tutti ; e diche • sono
io reo ? Ma basti
il fin qui
detto su me. Voglio
ora dirvi alóune
poche cose intorno del
Senato e de’ patrizj, perocché f odio
pubblico contro di loro
per la division
sospesa àeUe terre
deot neggìa eutcora a me,
nè l accusatore mio
occultò que-^ sto
facendomene parte non
piccola delt accusa.
E questo dir mio
sarà libero ; giacché
diversamente nè io saprei
parlarvi, né > voi
profittarne Popolo! voi nè
giusti siete nè
retti non rendendo grazie
al Senato de' tanti
e 'grandi benefit j che ne
aveste ; e sdegnandovi che non
'per invidia ma
per calcolo di
ben pubblico, vi si
oppone .in cosa
che' dimandate, la quid
conceduta tusai nocerebbe
'.al comune. Piuttosto
dovevate accettarne i
consigli pome' nati -da principj
sol dissimi, pel bene di',
tutti, e tenervi dalle sedizioni'} 0 se non
potevate con tal
sano discorso frenar
gli appetiti, t non sani, dovevate implorar
te dimande, persuadendo, non violentando,
Imfièroechè li doni spontanei titnpettp
de’ violenti son
più cari per
chi li dona y e più
stabilì per . chi. H riceve..
Or • voi, viva Dio, non ' avete
ciò cónsiderato : nia
commossi ed inaspriti dai
capipopolo,. come il mare
dai venti che insorgano, F un.
dopo F altro, non avete
lasciato che la patria
riposasse, nemmen picciolotempo.,, tra la xoima, 'e
il sereno. Dondt
è che. noi. dobbiam
pensare migliore per noi la guerra,
che la pace
;^iacchà nella guerra maltrattiamo
i nemici, ma gli
amici nella pace. Se
voi lipulate tutti
burnii e lutti utili,
come sono, 1 decreti del
Senato ; perchè, non
avete riputato tale anche
questo ? E se credete
che il Senato
non provveda con semplicità,
mq che male,
e vituperosamente amministri, 'perché
noi degradate / voi
tutto, e ven prendete le cariche, e consultate e guerreggiale voi
per la potenza
di Roma, ma, lo stuzzicate, e lo indebolite poco a poco, chiamandone i personaggi
più illustri in giudizio?
Certo sarebbe pur
meglio che fos situo
tutti insieme combattuti, che càìunmati
ad -uno ad uno. Sebbene, non
siete voi, con’ io
diceva, la cagione di ciò,
ma i capi del
popolo che vi
sommovano, non sapet^o essi
nè ubbidire y nè
comandare. E per ciò che
spetta alla loro
imprudenza ed impe^ rizia',
già più volte
sarebbefi la nave
rove^aicita. Eppure il Senato
che ha riparato
tante volle i loro
sbache. fa che
la vostra repubblica
navighi rettamente, ' ascolta
^ peggio della maldicenza
da loro. Or
queste cose, vi piacciano o no-,
le ardisca io
dire con ogni verità:
e vorrei piuttosto morire;,
videndorm di una libertà
'profittevole ab pubblico
{. che salvarmi adulandovi. G}si, dicendo,, senza volgei^i
a lamentare o deplorar la
sciagura, senza uniilianti a suppliche,
e proslrai^ioni non degne
y e senza' ..palesai^ affezione
alcuna men che generosa, lasciò che
parlassero gli altri, 'dogliosi di ' coadiuvarlo arringando,
o testificando: Lui di scolpavano, molti
che eran presenti, singoK\rmente Ver giuio, gii cpnsòle.
co'n euo lui, riputato
l’autore della vittoria! Coitui
non solamente dimostrò
Servilio irreprensibile, ma degno
che si encomiasse
‘ed otiofasse come peritissimo
in guerra, e savissimo tra’
capitani. Diceva che se
credeano buono iì
termine della gaerra dovevano ringraziar
lutti due ; o tutti
dile punirli se sci
aurato ; giacché avevano
.tntti;.dne avuto 'doiiiu ni i
consìgli, le opere, la fortuna.
Commovea non solo
il discorso di lui
ma la vita intera, speriménUtta
in tutte le belle
ationi. A^iungevasi, ciocché ispirò
piò compassione, la forma
addoloievole, (piai suoL essere
in qiielli che han
sofferto, o siano per soffrire
tamii terribilL Tanto
che li' congiunti degU
uccisi, quelli che pareano
più. implacabili contro 1
autore tl^l danuo, Ia sciaronsi vincere-,
e deposer lo sdegno
che ne aveano manifestato ; imperocché
qinna tribù nel
dare il voto
ló diede per la
condanna. E tal fu la fine
de’ pericoli di Servilio.
Marciò non mólto
dòpo contro i Tirreni r armata Romana
sotto gli auspicj
dei console Pubfio Valerio, perocché
si era d^
bei nuovo levau
in arme la città
di Vejo, ubendpsde i Sabini, alieni fino a
quei giorno di unirsele, quasi aspirasse
cose impossibili : quando
però vider(> Menenio
in fuga e presidiato
il monte prossimo a Roma, giudicando ^ scadute
le forze Romane, e
sbaldanzito 1’ animo
di quella 'repuUilica, eoncertaronsi co’
Tirreni, spedendo loro milizie
numerose. I Vejenti
confidati su le
schiere proprie e su
quelle giunte di fresco^
da’ Sabini frattanto
che aspettavano le ausiliarie
degli altri Tirreni
anelavtino, di volarsene a Roma
col più dell’
esercito, quasi ninno, ne
uscirebbe a combattere, ma dovessero
per assalto espugnarla, o ridurla con la
fame. Indugiandosi però
essi ed aspettando i confederati, lehti
a ingiungersi, Valerio ne
prevenne i disegni, guidato
contra loro il
fiore de’ Romani, .e gli alleati,
con sortita non
manifesta, ma occulta
quanto polevasi. Imperocché .uscito
da Roma sul
far della sera, e valicato il
Tevere ; si accampò
non lontano dalla
città. Poi levando F esercito
su la mezza
notte, si avanzò con marcia
oi-dinata; e prima che
fosse il giorno,
investi r nna de’ campi
nemici. Erano due
questi campi ; di^ sgiunti, ma non
molto, fra loro, l’ uno de’
Tirreni, r altro, de’
Sabini. Fattosi primieramente
stil campo Sa bino,
assalirlo fb prenderlo
; ''dormendovi i più senza' guardia sufficiente,
'come in terra amica, e liberi da ogni
sospetto, nwntre non si
annoqziavano in parte
ai cuna i nemici.Preso il
campo, quali furono uccisi
tra il sonno, quali ^orti
appena’, o mentre si
armavano, e quali armati già, mal
resistendo disordinati e dispersi: la -più parte
peri, fuggendo verso
.1’ altro campo,' sorpresa dalla cavalleria. Valerio', invaso'
il 'campo Sabino, marciò su r altro
de’ Vejenti, postisi in
luogo non abbastanza sicuro: ma
non poteano più
gli assalitori ghingeM
oc-' culti, per essere il
giorno già chiaro
; e datoyi da fnggitivi
r avviso della strage
Sabina, e di quella imminente ai
Tirreni. Pertanto eca
necemario andar con fortezza
al nemico. 'Ecco
dunque resistere con
ardore sommo i. Tirreni avanti
j^i alleggia'menti, e fervisi'
aspra tenzone e strage vicendevole.;
stando 'lungo tempo
incert^ e pendendo or
quinci Or quindi
la sorte della guerra.
Alfine dan volta
i Tirreni, sospinti dalla cavalleria Rpmana, e ricacciansi tra
le uincee.. Segueli il consolé, ed
approssimatosi alle trinclere
nè ben formate, nè
in. luogo, come ho
detto, abbastanza sicuro, le assaU
da più parti
; travagliandovi tutto il
resto del giorno, nè desistendone
por nella notte
appresso. I Tirrenivinti da’
mali incessanti / a'bbandonano su l’
alba il CAmpo ; altri
in città iuggeo4o$i, altri dispergendosi
pei boschi vicini. Il
console, invaso par questo
campo, diè riposo ; in
quel giorno all’
esercito : e net seguènte
com> parti la preda
copiosa de’ due alloggiameuti
tra le Site milizie, coronando co
premi ^ usati chiunque
s’ era più segnalato nel
'combattere. SenrUio il
console dell’ anno precedente, quegli che
sfuggi le ^ne
popolari, mandato ora
luogdtenente di Valerio,
parsé aver pià
che tatti risplenduto fra le arme, e sospinto i Vejeqti
alla fuga; è per tale
SUO merito ne
ebbe il primo
i premj, riputati' più
grandi tra' Roiliani. 'Fatti quindi
spogliare i cadaveri nemici, e>
seppellire quelli de’suoi, marciando, e venendo il
console coll’ esercito
ne’ campi prosskni
a Vejo; sfidò quelli
d’ entro per
la battaglia. Ma
non presentandovisi alcono, e conoscendo altronde
esser cosa ben ardua
pigliarli di assalto, come
chiusi in città
fortissima, scorse ingran parte
il lor territorio,
e si glttò su s quello
dé’ Sabini. E saccfaeggikto pei^.,
più giorni', pur questo, ^ che
era ancora intatto
; ricondusse l’ esercito carico di
prede àmplissimi in
patria. ‘ Usci di
città molto a dilungo per
incontrarlo ' il popolo
cintp di ghir ciò
Furio ; il
Senalo decretò che
Tnino de’due mar, classe
^contro di Vejo, ed
essi decisero, come
u$ayasi, colle sortì, chi
andasse. E 'toccato a Malliq,
vdlò colr armata, e mise
il campo presso
a’ nemici. I Vejenti
ristrettisi fra le
mora, resisteroùO intanto,. e spedirono alle città
Tirrene, _ ed ai Sabini,'
recenti loro ' alleati,
chiedendone che mandassero
sollecito ajuto, .Ma
perciocché non furono secondati -e
consumarono .tra poco i
viveri ; alfine ^ necessitati
dalla fame, uscirono, i personaggi
più provetti e 'più
veóer;iodi e co’ simboli di.
pace, ne andarono ambasaiadori
ai console per
intercedere ' da esso
il fin della
guerra. M^o comandò
che poetassero a lui li
viveri di due
mesi per'.tulta.rarmsui). o tanto
di argento da
stipendiamela per un’anno,
e ciò.Roma fatoae Vacroae. fatto, perirebbero al
Senato per trattarvi
la pace. Ac> cattarono i Vejenti
le condiaioai, e dati
beu^tosl gli stipendi, e per concession
del console, anche in
luogo del grano il suo prezzo, ne
andarono a Roma. Introdotti in
Senato cercarono perdono
t delle cose operate fin’ allora, e requie
dalla guerra in
tu.tio. l’ avvenire.
Disputate più cose
per l’una e l'atra
sentenza, al line prevalse
quella che insinuava
la riconciliazione, e
vennesi ad Una
tregua di quaraot
anni., Gli oratori,
avuta la pace, assai
de ringraziarono Roofa, e partirono. In opposito
Mallio vi tornò
finita la guerra, e vi
chiese, e n’ebbe il trionfo
a piede . Fecesi, reggendo
questi consoli, il censo ; ed i
cittadini che assegnarono
sè Stessi, i beni, e li
figli '^ià puberi, fotono,
poco più. che cento
fneUta' mila; Giunti
dbpo quesU al
consolato . Lucio Emilio
Mamertx) per la
terza volta e Giulio
Yopisco nella olimpiade settantesima
settima (a), nella quale vinsè
allo stadio Date
Argivo, mentre Caritè era
l’a ' contedi Atene
; ebbero assai travaglioso
e turbato il comando, sebben tacesse.
la guerra di
fuori. Standosi ogni nemico
in calma ; ineprsero
per le se4izìoni
interne, in pbricoti,
prossimi a rovinar la
repubblica. Sciolto il popolo
dalia otilizia insistè
ben tosto per la
division delle' lem. 'Imperocché
fra i tribuni aveacene uno
baldanzoso, nè disacconcio
alle arringhe. Gneo Genuzib.eia deiso,
l’ istigatore dei popolo.
Egli ad ora
L’ovatiooe. Roma Catone Varrauc].
177 nJ
ora adunauJolo, per conciliarsi
i poveri ; pressava i
consoli all eseguire
il decreto del
Senato sa la
divi sion delle terre.
E questi ricusavano dicendo, non
esserne la esecuzione stabilita
pel consolato loro, ma
per quello di Vergiiiio, e di Cassio
a’ quali era diretto
il decreto : similmente che
gli ordini del
Senato non erau leggi
perpetue, ma previdenze,
valide per un
anno. In mezzo a tali
pretesti non potendo
costringere i consoli che aveano
autorità più grande
della sua ; diedesi a protervi consigli.
Mise in pubblica
accasa Mallio e Lucio, consoli dell’
anno precedente, e
prescrisse loro il giorno
nel quale dovésse
giudicarsene, pronunziando svelatamente
per titolo dell'
accasa, ch’essi aveano offeso il
popolo col non
avere nominati i decemviri, com'era il decreto
del Senato, per dividere
finalmente i terreni. Che se
non menava in
giudizio altri consoli
quando dodici erano i consolati
dalla emanazione del
decreto, ma faceva rei, questi
due soli, della promessa
tradita; davano per cagione
la mansuetudine sua.
In ultimo disse; che
i consoli attuali allora
unicamente ridurrebbonsi a divìder
le terre, quando vedessero
alcuni de’ trasgressori puniti dal
popolo, considerando che avverrebbe anche ad
essi altrettanto. Ciò detto, esortati tutti
a venir pel giudizio, giurò per
le sante cose, che
egli osserverebbe il proposito, ed insisterebbe
con tutto l’ardore
su la condanna di
quelli, e prefisse il
giorno in cui
sen farebbe la causa.
I patrizj, ciò udito,
caddero in molto
timore e sollecitudine, come
dovessero liberare que’
due, e reprimere 1’ audacia
del tribuno. Deliberarono
resistere DIOXIGI . tomt
Iti. i> al popolo
fortissimameote, e bisogoandovi, colie
armi ancora, né permettergli cosa
ninna, se mai la
decretasse contro la dignità
consolare. Non però
vi bisognò violenza ninna, cessando il
pericolo con risoluzione
inaspettata e repentina.
Imperocché quando mancava
al giudizio un giorno
solo; Genuzio fu
rinvenuto morto nel suo
letto p senza indizio
niuno di uccisione
non per isu-azio, o capestro, o
veleno, nè per altre
insidiose maniere.
Risaputosi il caso, e portatone il
cadavere nel Foro, parve questo
come un impedimento
divino, e ben tostò il
giudizio fu tolto. Imperocché
niun tribuno osò di
riaccendere la sedizione, anzi molto
condannò le lune di
Genuzio. ' Se dunque
i consoli quando il
cielo chetò la discordia
avessero ceduto, non
insistito in contrario ; non sarebbero
incorsi in altro
pericolo. Ma datisi ad
insolentire e spregiare il
popolo, e fatti vogliosi di
mostrargli quanto era
il potere del
loro comando ; causarono
mali gravissimi. Intimata
una iscrizioa militare, e forzandovi chi
ricusava, con multe e verghe
: ridussero il più
del popolo alla
disperazione, principalmente
per tali
motivi. Publio Valerone, un plebeo, d’
altronde illustre fra le
arme, e già capitano
di centurie nelle guerre
precedenti, fu segnato da
essi per semplice
legionario. Or lui reclamando, e ricusando un
posto che lo disonorava
quando non aveva
demeriti anteriori, sdegnaronsi
i consoli de’ liberi
modi, e comandarono ai
Kttori di nudarlo
a forza, e di batterlo. Il
giovine invocava i tribuni, e
chiedeva, se era colpevole, di
essere giudicato dal popolo.
Ma non udendolo, ed
insistendo i consoli perchè
i latori sei menassero, e lo bal^ lessero;
egli riguardò la
ingiuria come insoffribile,
e divenne appunto il
vindice di sè
stesso. Imperocché, fortissimo eh’
egli era, trae de’
pugni in faccia, ed
atterra il littore che
primo lo investe, e poi l’ altro.
Esasperandosene iconsoli, e
comandando a tutti insieme
i satelliti di avventarsegli
; parve raiion superbissima
ai plebei ebe eran
presenti. E congregandosi ; e schiamazzando per
istigarsi 1’ uno V
altro alla vendetta;
ritolsero il govane, e respinsero
colle percosse i littori.
Alfine si spiccavan su i
consoli, e se questi non
isparivan dai F oro ; sarebbevisi
fatto male gravissimo.
Per tale evento tutta
la città se ne scinde
; ed i tribuni placidi
fin’ allora, fremendo ne
accusano i consoli : e le
contese per la ditnsion
de’ terreni cangiaronsi
in altra più
grave su la forma
del governo. Imperocché
irritandosi i paU-isj come i consoli, quasi fosse
l’ antorilà conculcata di questi
; voleano precipiur dalla
rupe l’ audace che
insorse su i littori. Per
1’ opposi to i plebei
riuni vansi, e vociferavano e
conciUvansi a non tradire
la libertà. Si rimettesse
la causa al
Senato, vi si accusassero
i consoli, e se n esigesse un
castigo, perchè non lasciarono goder de’
suoi dritti, e traturono come
uno schiavo, e diedero
a battere un uomo
libero, un cittadino, che
chiedeva l’ ajuto de’
tribuni, e di essere, se fosse
reo, giudicato dai popolo.
Fra tali contrasti
e ritrosie di cedere gli
uni agli altri, decorse tutto
il tempo di
quel consolato senza fatti
di guerra, o di
governo, belli e memorandi. Xh. Venuto
il tempo de’comizj
furono dichiarati consoli Lucio
Pina rio e Publio
Furio . In principio di
quest’ anno la
cilià fu piena
ben tosto di
religiosi e divini terrori
pe’ molli portenti
e segni che apparvero. £ li vali, e gl'
interpreti delle sante
cose, dichiaravano tutti,
esser questi gl’
indizj dello sdegno
celeste per alcuna sacra
cosa, fatta con ministero
non pio, nè puro. E dopo
non mollo ne
venne su le
donne un morbo, chiamato contagioso, e tanta moruliià
per le gravide principalmente, quanta mai
più per addietro.
Imperocché partorendo prole immatura
e già morta, perivan con essa.
IVè le suppliche
ne’ templi e nelle
are de’numi, nè i
sagrifizj di espiazione
fatti a scampo della
patria o delle famiglie,
portarono un fine
ai mali. In tal
rio stato un
servo diè cenno
a’ pontefici, che una
delle vergini sacre, custodi del
foco inestinguibile, ( Orbilia
ne era
il nome ) avea
la sua verginità
estinta, e che non pura sagrificava
; ed essi traendola
dai Santiìario, e dandola a giudicare
; poiché per gli
argomenti fu rea manifesta, la batterono, e condottala con
pompa lugubre per la
città, la seppellirono viva.
Di quelli poi
che ebbero il mal'
affar colla vergine, 1’
uno si diè
la morte di per
sè stesso; l’altro
fu preso nel
Foro pe’ soprastanti delle sante
case, e flagellato come uno
schiavo, ed ucciso. Dopo
ciò fini ben
tosto la infermità
sopravvenuta alle femmine, e
la tanto
lor perdita. La sedizione
già si diuturna
in Roma de’plebet co’
patrizii, vi ribolli per
opera di Publio
Valerone tribuno, quello che
ntll' anno precedente
aveva disubbi|i) Anno
di Roma aSa
secoudo Catone, aS;
secondo Varrone, e 4^0
av. Cristo] dito i consoli
Emilio e Giulio quando
il segnavano per legionario,
di centurione che era. Costui
nato di stirpe vilissima, e cresciuto in
grande oscurità e disagio, fu
creato tribuno dal
ceto de' poveri, appunto perchè sembrava
che avesse il
primo tra’ privati
umiliato il grado consolare, autorevole Gu’
allora come quello dei
monarchi, 'e molto
più per le
promesse che dava di
togliere, giurilo al tribunato, la
potenza de’ patrizj. Costai quando
l' ira del cielo
era cheta, convocando il popolo,
fece uba legge
su le elezioni
popolari trasmutando i
comizj che i Romani
chiamano per curie
in quelli per tribù.
Io sporrò qual
sia la differenza
degli uni e degli altrL
Li comizj curiati
perchè fossero va^ lidi, conveniva che
precedesseli il decreto
del Senato, che il
popolo vi desse
il voto di
curia in curia
; e che oltre questi due
requisiti, niun segno, nè augurio
celeste vi si opponesse
: laddove gii altri
comizj compivansi dalle
tribù con un
giorno solo senza
decreti anteriori del Senato, senza
sagriGzj, e senza le divinazioni degli auguri.
Due degli altri
quattro tribuni volean
com’ egli la legge
; ed esso tenendosi
amici que’ due ;
ne andava superiore a fronte
degli altri che la ricusavano i quali eran
meno. I consoli, il Senato, i patrizj intendeano
tutti a distoglierla e renderla
vana. E recatisi in folla
al Foro nel
giorno preGsso dai
tribuni per fondare la
legge, vi furono aringhe
di consoli, di senatori provetti, e di chiunque
il volle, per dimostrare
gli assurdi di essa.
Risposero i tribuni, e di bel
nuovo i consoli ; e prolungandosi mollo
le altercazioni, fecesi notte, e
l’ adunanza fu sciolta.
Proposero nuovamente i
tribuni pel terzo
mercato la diacussion
su la legge
; ma concorsavi gente anche
in pi et copia, se
n’ebbe un fine simile
al precedente. Or
ciò vedendo Publio,
deliberò di non permettere
ai consoli di
accasare la legge, nè
al patrizj di
trovarsi al dar
de’ sufiì'agj. Perocché questi co’
loro amici e clienti
non pochi, ingombravano gran parte
del F oro, facendo animo
a chi denigrava la legge, e remore a chi
difendevala, e cose altrettali
che nel
dar dei voti
sono indizio di
violenza e disordine. XLII. Se
non che ne
interruppe i disegni tirannici nn’ altra calamhé
mandata dal cielo.
Imperocché sorse in città
nn morbo pestilente
che infuriò pnr
nel resto d’ Italia ; non
però quanto in
Roma. Nè valeva
per gii infermi soccorso
umano, morendovi del pari e
chi era con ogni
diligenza curato, e chi
non lo era.
Nemmeno giovarono allora suppliche, sagrifizj, espiazioni private o pubbliche, alle quali
necessitati si rivolgono
gli uomini io tali
casi per estremo
rimedio. Il male
non distinse non età, non
sesso, non vigore, non debolezza, non arte, non
cosa ninna di
quelle che pajono
renderlo più leggero; ma
comprendea del paro
Uomini e donne, giovani e vecchi.
Non però durò
gran tempo, e questo impedì
che la città
ne perisse totalmente.
Si gettò come torrente
o incendio su gli
nomini con impeto furibondo, ma passeggero.
Quando il male
diè requie ; Publio era
per uscire di
carica. E siccome non potea
stabilire in quel,
resto di tempo
la legge ; soprastando
i comizj j chiese di
nuovo il tribunato
per l’anno seguente, fatte
molte e grandi promesse
al popolo: e di nuovo
se lo ebbe
egli, e due de’ compagni. Per Topposito
i patrizj tentarono far
console un uomo aspro,
odiatore del popolo,
e che non lascerebbe
punto diminuire l’ autorità de’
pochi : io dico
Àppio Claudio, 6glio di
queir Appio eh’
crasi tanto opposto
al ritorno del popolo.
Or quest’uomo che
moltissimo contraddiceva alla scelta
dei tribuni, questo che
non avea nemmeno voluto venire
al campo p’ comic],
sei crearono con- sole, quantunque assente, avutone precedentemente il decreto
del Senato. Terminati ben
tosto i comic] > per
esserne partiti i poveri appena
udito il nome
di Appio ; pre^ sero
il consolalo Tito
Qninuo Capitolino ed
Appio Claudio Sabino, nomini
non simili di
caratteri e di voglie . Perocché
Appio voleva distrarre
tra le milizie di
fuori il popolo
ozioso e povero, afGnchè coi suoi
travagli guadagnasse dai
beni ' del nemico
il vitto giornaliero, di cui
tanto penuriava, e rendendo UliK servigi
alla patria, non fosse
malafFelto e molesto a’
padri che governano il
comune. Dicea che
avrebbe puiv le cagioni
plausibili di guerra
una città che
si procacciava il comando, e che era
da tutti invidiata
: chiedeva che
argomentassero dalle cose
passate le future, esponendo quanti
moti erano stati'
in città, e come sempre nella
cessazion della guerra.
Quinzio però non pensava
di portare ad
altri guerra : dichiarando
che dovea bastar
loro quando il
popolo ubbidiva chiamato contro ai
pericoli esterni, che sopravvengono
e stringono, e dimostrando, che
se forzassero nel
caso preti) Anno di
Roma a83 secondo
Catone, aSS secondo Varrone, av.
Cristo] sente gl' indocili, indurrebbero la
disperazione come i consoli
precedenti 1’ avevano
indotta. Dont} è che
porrebbonsi essi a repentaglio
o di opprimere la
sedizione col sangue e colle
stragi, o di scendere con
vitupero ad appiacevolire la
plebe. Comandava Quinzio
in quel mese ; tantoché non
potea 1’ altro
console far nulla
senza il consenso di
esso.. Ma Publio
e li compagni ripigliarono senza indugio
la legge, che non
aveano potuto stabilire nell'
anno precedente, aggiungendo a questa, che
si creassero ne'
comizj stessi ancora
gli edili: o che tutto
in fine, quanto
si trattava o risolveva
dal popolo, si trattasse
e risolvesse nel modo
medesimo con i comizj per
trìbùr Or ciò
era l’ annientamento manifesto del
Senato, e l’ inalzamento del popolo. A tale notizia
mpensierirono, e discussero i consoli, come togliere
pronti e sicuri la
sommossa e la sedizione.
Appio consigliava che
si chiamassero alr armi
quanti volean salva
la forma della
repubblica ; e che si
numerassero tra’ nemici
quanti si opporrebbero ad essi
che le impugnavano.
Ma Quinzio giudicava
che si dovesse prendere
il po[x>lo colla
persuasiva, e con.vincerlo
die per ignoranza
de’ -veri interessi sla
nciavansi a rovinose
risoluzioni. Dicea esser
t estremo 'della de^ menta
estorcere colla forza
da’ cittadini ritrosi
ciocché aver ne poteano
di buorr grado.
Ora approvando pur gli
altri senatori il
parere di Quinzio
; i consoli ne andarono al
Foro, e chiesero da’ tribuni
un’aringa, ed il giorno
in cui farla.
Ottenuta a stento l’una
e l’altra istanza, venuto il
giorno richiesto, e concorsa
al Poro moltitudine d’ ogni
genere preparata per
opera de’ due magistrati in
favor loro, presenlaronsì i consoli
per censurarvi la legge.
Quinzio, uomo altronde discreto, e persuaso che
il popolo avessi
a guadagnar col discorrere, chiese il
primo udienza, e ragionò cose a
propo sito, e con piacere di
tutti ; cosicché li
fautori delia legge impotenti
a dir cose pii^
giuste o benigne, assai ne
furono imbarazzati. B se
il console collega
non lavasi ancora troppo
gran moto ; forse
i plebei riconoscendo che non
cercavano nè il
giusto, nò il bene
ripudiavan la legge. Ma
perciocché colui tenne
un discorso superbo, e grave ad
udirsi da’poveri ; il
popolo ne fu crocciato, implacabile, e discorde,
quanto mai piò
per addietro. Non parlò
costui come a uomini
liberi, a cittadini arbìtri di
fare e disfare le
leggi : ma quasi
parlasse con nomini vili, forestieri, né liberi
solidamente; vi lanciò detti
amari, insoffribili: vi
lamentò le assoluzioni dei debiti, e ricordò la
separazione dai consoli
; quando dato di
piglio alle insegne, che
pur sono, santissima cosa,
abbandonarono il campo, volgendosi ad un
esilio volontario. Richiamò
li giuramenti che
avean fatti, quando presero per
la patria le
armi, che poi contro lei
sollevarono. Pertanto diceva
che non sarebbe meraviglia se
essi che avevano
spergiurato gl’iddj, lasciato i
capitani, e diserta, quanto era in
loro, la p^ttria, e che vi
erano tornati, confusavi
la buona fede,
e sovvertitevi le leggi ed
il governo, ora non
si dimostrassero moderali ed
utili cittadini : mai
incitati da nuòvi desideri ed
eccessi, talvolta
chiedessero magistrati proprj, scelti dall’ordin
loro, e questi iudipendentì, inviolabih ; tal’
altra chiamassero in
giudizio per cagioni turpissime que’palrizj
che loro paressero,
trasferendo dal celo più
puro al più
sordido i poteri con
cui Roma faceva un
tempo giudicare sull’
esilio e la morte;
e talora i mercenari e privi de’
palrj lari com’
erano, fissassero leggi
ingiuste ed oppressive
contea i bennati, senza lasciare
al Senato la
facoltà di proporle
prima col sno decreto, tolta ad
esso una prerogativa
che aveva V sempre avuta
senza contrasto, fin
sotto de’monarchi, e de'
tiranni. E dette molte
altre cose consimili, senza lasciare indietro
memorie amare, nè
risparmiare nomi ingiuriosi ; alfine
pronunziò questo ancora
per cni tntto il
popolo ne infuriò, vale
a dire che mai
la città che terebbesi
totalmente dalle sedizioni
ma che sempre
infermerebbesi per nuovi
mali, finché fossevi il
poter dei tribuni ; affermando
che negli affari
politici si dee
vedere che i principi sian
buoni e giusti, giacché da
buon seme si ha
frutto buono e felice,
ma infelice e reo
da reo seme. Diceva : se
questo potere fosse
erttraio in città di
buon accordo per
ulil comune; venutovi
col favor degli augurj
e della religione, sarebbe stalo
a noi causa di
molti e gran beni, di
unione, di leggi savie,di speranze
belle dal ctmto
dé’ numi, e di mille altre
cose. Avendovelo però
introdotto la violenza,
la prevaricazione, la discordia,
il timore di
una guerra interna, e tutti
i mali più odiati
fra gli uomimf
come con tali principii
ne sarà mai
fausto e salutare? Ben è superfìua cosa
cercar farmachi e cure
quante sen possono ai
mali che ne
germogliano finché restavi
la radice viziata. Nè mai vi
sarà termine, mai requie alcuna
dallo sdegno celeste, finché ques^
invìdia, in saziabile furia in
città s’ annida, e lorda, ed infracida tutto. Ma
per tali cose
vi sarà discorso,
e tempo più acconcio. Ora,
poiché si vuole
rimediare alle còse presenti
; io lasciando ogni
acerbità, vi dico :
N& questa legge,
nè altra qualunque
non approvata prima
dal Senato sarà
mai valida nei
mio consolato. Ma
so> n Sterrò con parole
gli ottimati, e quaudo anche
1’ o pere vi
bisognino, nemmeno in queste
sarò vinto dagli
avversar). E se non
prima ayete saputo
quanta sia r /lutorità
de' consoli, nel mio
consolato lo saa prete,
a Àppio cosi disse, quando
Cajo Lettorio il piò
provetto e più venerabile
de’ tribuni, uomo riconosciuto non ignobile
in guerra, e buono al
maneggio degli affari, sorse e replicò, cominciando da
alto, e ragionando a luogo sul
popolo, quante diftìcili spedizioni avessero intrapreso
i poveri, da lui vilipesi, nonsolo nel
tempo dei re, quando
forse era necesiiià, ma dopo la
espulsione loro per
acquistare alla patria
la libertà e il comando.
Pur non ebbero, dicea, ricompensa ninna da
palrizj, né goderono alcuno
de' pubblici beni; ma
quasi presi in
guerra, furono privati
injino della libertà
: e se volevano conservarsela
dovettero. abbandonare la patria, cercando una
terra ove non fossero, essi
liberi uomini, insultati^ Senza violentare, senza obbligare
colle arme il
Senato, ebbero nella patria il
ritorno, condiscendendo a
lui che chiedeva e pregava
che si rendessero
alle abbandonate lor cose,
fi qui spose
i giuramenti, e rammentò gii
accordi fatti per
questo ritorno; tra’ quali
v’era I amnistia di tutto
il passato, e la
concessione a’ poveri di eleggersi
magistrati i quali proteggessero
loro, e resistessero a chiunque
volesse mai conculcarli.
Scorrendo su ^li subjetd, aunoverò le
leggi fondate poco
prima dal popolo ; come
quella su la
iraslasion dei giudizj
per la quale il
Senato cedeva ài
popolo che chiamasse
in giudizio qual più
volesse de’ patrizj
; e 1’ altra sul
dar dei suffragi, la
qual rendeva arbitri
de’ voti i comìzj per tribù, non quelli
per centurie. E così ragionato
Sul popolo ; rivolgendosi ad Appio
disse : E tu ardisci
et insultar quelli
pe’ quali la repubblica
divenne di piccola
grande, e luminosa d' ignobile ?
tu chiami sediziosi
gli altri ^ e rimproveri loro tome
fuorusciti ? Quasi non
tutti rammentino ancora ciocché
avvenne tra noi, vuol
dire che gli
avi tuoi levarono il
capo contro de’
magistrati, abbandonaron Ut patria,
e supplichevoli qui s' alloggiarono. Se non
forse voi che
avete abbandonala la
patria per amore della
libertà, voi v avete fatto
un opera belìa^ fié
^ella è quella de’
Romani che han
fatto altrettanto, Tu ardisci
calunniare l’ autorità de’ tribuni
conte introdotta a mal fatto
; e persuadi qui noi
che c involiamo questo sacro, questo
immobile rifugio de’
poveri, confermatoci da numi a
dagli uomini per
tanto grandi cagioni ? Ta
tirannissimo, ninUcissimo che
sei del
popolo ! E non giungi
nemmeno dunque a vedere, che
ciò dicendo, oltraggi il
Senato, oltraggi la tua mùgislratura
? Insorse pure ' tutto
il Senato contro dei re,
più non
potendo so ferirne
la superbia c gli affronti
; e fondò il consolalo, e prima di
bandirli da Rema f coesi
altri ministri del
regio potere. 2'antochè ciò
che dici contro
del tribunato come
introdotto mal fato, per la origine
sediziosa, ciò dici ancora
contro del consolato
; giacché non altra
causa il fé nascere
se rwri lo
scuotersi de’ patrie j contro dei re.
Ma che parlo
io di queste
cose con te
quasi con cittadino buono
e Moderato, quando tutti sanno
che tu sei di^ stirpe
mal grazioso, anzi acerbo, anzi
infesto al popolo, nè buono
da ingentilire la
salvatichezea tua ? X)
perchè non pospongo
i detti, e ^ investo co’ fatti, e
ti mostro che
tu che non
ti vergogni di chiamare
il popolo un
sordido, e senza casa, tu
non sai
quanta sia la
forza di lui ?
quanta quella del suo
magistrato a cui le
leggi ti obbligano
di dar luogo e di
cedere ? ma già
lasciati 1 rammaricìd delle parole, comìncio le
opere. E ciò detto giurò
col giuramealo, più rive reado
infra loro, di sostenere
la legge; o di
morire. E qui taciutisi
lutti, e latti empiutisi di
ansietà su ciò che
farebbe : comandò che
Appio ne andasse
dall adunanza. E perciocché non
ubbidiva, ma cingendosi coi littori
e colia turba che
aveasì perciò condotto
di casa, ripugnava ad
andare ; Lettorio, intimato pe’
banditori silenzio,
consigliò che i tribuni
facessero portare il
console nella carcere. E qui
la guardia di
lui si avanzò, comandata, come ad
arrestarlo ; ma il
littore, che il primo se
la ebbe innanzi, la
battè e respinse. E levatosi romor grande
e rammarico; v’accorse lo
stesso Lettorìo, eccitando la
turba in ' suo
ajulo. Se gli
oppose Appio con giovani
bravi e numerosi; ed
eccone quinci e quindi viluperauoni, grida, spinte ; talché
la contesa divenivane
zuflà, ornai cominciandovisi il
trar delle pietre. Se
non che ripresse
tali colpi, e fece chn
il male non procedesse più
oltre Quinzio l’ altro
console, cacciandosi egli c
li più
anziani de’ senatori, tra
le minacce, e supplicando e scongiurando tutti
a desistere. Non avanzava allora
se non picciola
parte del giorno,
e però si divisero finalmente, ma di
mal’ animo. Incoiparonsi i magistrati a vicenda
ne’ giorni appresso
: il console accusava i tribuni
che tentassero di
annientare il suo grado
col volere in
carcere chi lo
rappresentava ; ed i tribuui
il console, pe’ colpi
portati su persone, sacre ed inviolabili
per la legge
; e de’ colpi avea
Lettorio i segni manifesti
nel' sembiante. Intanto
stavasi la città scissa
e fremente. I tribuni ed
il popolo occuparono
il Campidoglio, non tralasciandone mai la guardia,
giorno' e notte : il Senato
adunatosi tenne lunga
e travagliosa discussione
intorno ai modi
di chetar la
discordia, considerando la
gravezza del pericolo, e come nemmeno
i consoli fossero uniti
fra loo); giacché
volea Quinzio conr^dere al
popolo le istanze
• moderate, ed Appio vi ripugnava, a costo ancora
della vita. E poiché ninna
cosa avea termine, Quinzio presi nn
per uno i tribuni
ed Appio, orando, scongiurando,
raccomandava loro di
antepoiTe il ben
pubblico al proprio. E vedendo
alfine ornai rimplacidili quelli, ma
duro in sua
caparbietà il console
compagno; persuase Leitòrio e i seguaci
di lui, sicché
rimettessero al Senato l’esame
de’ privati e pubblici risentimenti.
ConTocato quindi il
Senato, lodativi ampiamente
i tribuni, e scongiurato il compagno
a non contrastare la
salvezza pubblica, invitò tutti,
secondo il solito, a dirne il
parer suo. Invitato per il primo
Publio Valerio Poplicola, disse: che
doveansi dal pubblico
condonare, non portare in
giudizio le incolpazioni
vicendevoli de' tribuni e del
console su quanto
s’ avean fatto o sofferto
nel tumulto; perchè non
erosi fatto per
mal animo, nè per
ben propiro, ma per
gara di preminenza
in repubblica: quanto alla
legge poi sen
facesse previo decreto in
Senato ; giacché Appio
console non voleva che
senza questo al
popolo si proponesse.
Del resto provvedessero tribuni
e cofisoli insieme il
buon ordino, e C armonia de'
cittadini nel dar
de' suffragi. Approvarono lutti quel
dire ; e ben tosto
Quinzio fe’ dare
il volo a’ senatori
su la legge.
AcCusolla Appio per
più capi, e -molto i tribuni
se gli opposero,
ma vinse (ìnalmente
di gran lunga
il partito per
introdurla ì stesone il decreto
del Senato, ne
tacquero le gare
de’ magistrati, il popplo di
buon grado lo
accolse, e fece co’ sufTragj suoi
la legge. Da>quelip fino
a miei tempi i comizj per
tribù decidono col
volo loro la
scelta de’ tribuni
e degli edili ^enza
dipendenza ninna dagli
augurj^e dalle cose di
religione. E tal fu
la soluzione de’
dissidj che di que’ giorni
conturbarono Roma. L. Piacque
dopo non molto
ai Romani di
arrolar le milizie, e
spedire ambedue ^ consoli
contro gli Equi e
li Volsci: perocché
nunziavasi loro eh’ erano
uscite truppe Roma Catone Varrone]
in gran
numero deli’ uno e
dell’ altro popolo
e depredavano gli alleati
Romani. Apparecchiati dunque
in fretta gli eserciti, e sceltone colle
sorti il comando
; Quinzio marciò contro gli
Equi, ed Appio
contro de’Volsci. Ma ciascun
dei due consoli
v’ ebbe le
vicende che meritava. Imperocché l’armata
di Quinzio benevola
al vaientQomo per la
moderazione, e per la dolcezza
di lui, ne ubbidiva pronta i comandi, e le più
volte anche senza
comandi affrontava i pericoli,
per acquistargli fama
ed onore. Dond’è che
scorse in gran
parte, saccheggiando, la region
de’ nemici ; senza
eh’ ardissero questi
venirne alle mani : e raccoltevi amplissime
prede, e vantaggi, e dimoratavi
alcun tempo scevra
in tutto da
mali; si presentò di
bel nuovo in
patria, rimenandovi il suo
capitano luminóso per le
belle azioni. Ma
1’ arntata, andatane con Appio, lasciò
per odio di
lui ipulti patrj
dovéri; perocché fu mal
animata in ogni
spedizione e poco curante il
suo duce: e quando
le bisognò far battaglia
co’ Volscl, schieratavi da . esso, ricusò
di venire alle mani.
Centurioni ed antesignani, chi lasciò
la schiera sua, chi gettò
1’ insegna, e rifuggironsi agli
alloggiamenti. E se
gl’inimict, sorpresi dalla
stranissima fuga, ed' intimoriti
per essa di
un qualche inganno, non
desistevano dall’ incalzarli ; perivane
il più de’Romani.
Or ciò faceauo a mal
cuore del capitano, sicché egli
sulr esito di fauste
battaglie, non crescesse
col trionfo, e con
altri onori. Nel
giorno appresso ora
il console redarguendoli per la
fuga -ingloriosa, ora esortandoli
a cancellarne la infamia
con un generoso
combattimento, ora
minacciandoli che varrebbesi
del rigor delle
leggi se ig3 non teneansi
fermi contro a’
pericoK, essi ìadociii tut>' lavia Io
intronarono colle grida, e cltiesero che
li ri> tirasse dalla
guerra, come invalidi a pi&
resistervi per le ferite.
E quasi feriti davvero, ' aveansi alcuni
fasciate membra sanissime. Appio
adunque, necessitatovi, ritirò r esercito dalle
terre nemiche; ed i
Volaci tenendogli dietro, ne
ticoisero'non pochi. Giunti
in terre amiche, il
cònsole convocatili, e
fintine i grandi lamenti, annnnrìò che.
punirebbeli come i disertori.
E quantunque seniori e
magistrati militari assai
lo pregassero a temperarsi, nè volgere
la patria di
danno in danno
; egli non tenne conto
di alcnno, e stabili la
pena. Quindi i centarìoni le cui centurie
fuggirono 'e li
portatori delie bandiere,
che le
aveano peivlute, gli nm
furono decapitati colle scuri, e gli
altri Colle verghe
battuti e morti. Del
resto della diilizia
ne peri, tirata a sorte, la
decima parte per
tatti. Tale fra
Romani è il castigo per
chi lascia l’ ordinanza, o getta la
insegna. .Dopo ciò egli, duce
odióso, condocendo 1’ avanzo
dell’ esercito mesto è disonoralo
; ornai sovrastando i oomiz), si rimise in
patria. Dichiarati consoli,
dopo questi, Lncio Valerio per
la seconda volta, e Tiberio Emilio
; i Tribuni contenutisi già
per qualche tempo, introdussero di bel
nuovo il
discorso su la
division de’ terreni. £d
andatine ai consoli,
chiesero supplichevoli ed
insistenti che si mantenessero al
popolo le proihesse
fattegli dal Senato
Addo di Roma
384 , piacciavi
udirle o no, vi
dico,, veracissimo e libero,
come utili di
presente, e sicure per P avvenire, se lascerete
mai persuadervene ; quantunque
per. me che affronto
pel pubblico bene
l'odio altrui saran causa
di mali non
pochi. Imperocché ragionando
antivedo, e presentami i
casi altrui come
norma de'miei. Appio cosi
disse, e consenlendo con lui
quasi tutti, fu sciolto il
Senato. Irriuronsi i tribuni
per la ripulsa : e partitisi, considerarono come
punirne un tal uomo.
In mezEO al
molto discutere piacque
loro di sottoporre Appio ad un giudizio
capitale. Pertanto accu sandolo
.nell’ adunanza del
popolo, invitarono tutti a venire
in giorno determinato, per sentenziare
su lui. Sarebbero queste
le incolpazioni, vuol dire
che stabiliva massime ree
cofilro il popolo
; che riaccese in
città la sedizione ; che
alzò viqlento le
mani sul tribuno
ad onta delle leggi
sacrosante ; e che duce
delC esercito, sen tornò
pieno di sciagura, e (T infamia.
Annunziate tali cose al
popolo, e destinato il giorno
in cui di(^ vano
che ne farebber
la causa, intimarono ad
Appio di comparire a difendersi.
Sen dolsero e prepararonsi i padri
Con tutto l’ ardore
a salvarlo. Eid esortandolo
a cedere al tempo, e prender abito
conveniente alle cir> costanze ; replicò
che mai non
farebbe azione vile, nè degna delle
precedenti; e che sosterrebbe
anzi mille morti che
prostrarsi supplichevole ad
alcuno. Rimosse alquanti
‘che eran pronti
d’ Intercedere per lui, dicendo: die sarebbegli
stata doppia vergogna, se
vedesse altri fare per
lui ciocché non'
dovea fare nemmeno
per sè stesso. Dette
queste, e cose consimili,
senza cambiar vestimenti, nè
tener di sembiante,
nè llul fìnsero
che per una
Infermità morisse. Portatone quindi
il cadavere nel
Foro, -il Gglio di lui
fattosi innanzi ai
tribuni ed ai
consoli dimandò che convocassero
Tadananza legittima; e ^mettessero a lui di
lare sul padre
suo la -funebre
laudazione, usala in morte
de’ Valentuomini. Intimarono ai
consoli l’adu nanzB ; ina
vi ripugnarono itribuni, ed
imposero al giovine di
tor via quei
cadavere. Non sofferse
il popolo né guardò
con indifferenza clte
inonorato il cadavere
si rimovesse ; ma concedette
al > 6glU> di
rendere i consueti onori al
padre : £ tale fu
la fine di
Appio. I consoli arrotarono, e cavarono
di città le
milizie ; Lucio Valerio per
combattere gli Equi e
Tiberio Valerio i Sabini ; perciocché
gli ultimi ne’
tempi della sedizione entrarono
il territorio romano,
e danneggiatane gran parte,
ne partirono con
amplissima preda : gli
Equi poi venuti
più volte alle
mani, e presevi molte
ferite, eransi riparati
in luogo fortissimo,
nè più ne scendevano
per combattere. Ben
tec^ò Valerio di
assediare quelle trincee, ma ne
fu proibito dal
cielo. Imperòcclié mentre
v’andava e ponessi all’opera;
si mise il cielo
in caligine, in pioggie, in
fulgori, e tuoni spaventevoli.
Se ne sbandò
l’ esercito, ma sbandatosi
appena cessò la
procella : e fecesi grande
serenità. Prese il console
come cosa di
religione un tal
fatto : e perciocché gl’ indovini
diceano non essere
da por quell’assedio ; egli diè
volta, e saccheggiò la
terra; e lasciata in utile
de soldati la
preda, ricondusse in patria
l’eser cito. Tiberio Emilio
però scOrrea fin
dal principio con assai
negligenza le regioni"
de’ nemici, nè aspettavano ornai più
le milizie; quando
uscirono a fronte i Saliini, e sen fece
battaglia ordinata, quasi dal
mezzodì fino a sera.
Sorprese dalla notte
ritiraronsi le armate
ciascuna aoi al suo campo, nè
vincitori nè vinte.
Ne’giorai appresso i duci presero
cura de’ loro
estinti, e munirono di fossa gli
alloggiamenti ; ambedue con
proposito di difender' visi, non di
uscirne per offendere.
Poi col volger
del tempo levarono le
tende, e partironsi cogli eserciti. L’
anno dopo nella
olimpiade settantesima
ottava in cui
vinse nello stadio
Parmenide di Possido> nia, mentre Teagene
vea l’ annuo magistrato
di Atene, furono in
Roma consoli Aulo
Verginio Cclimoutano e Tito
Numicio Prisco. Ascesi
appena questi al
comando, ridicevasi che giungevano
i Volsci con esercito
poderoso. Nè mólto dopo
fu invaso da
essi, e dato alle Gamme un
posto ne’ dintorni
di Roma : e non
essendo questo mollo lontano
; il fumo stesso
annunziava alia città
l’in ibrtunio. Immantinente, essendo
ancor notte, inviarono i consoli de’ cavalieri
per osservare, e misero guardie su
le mura; ed
essi stessi schieratisi
fuori delle pqrte co’
soldati più spediti, v’
a^ettavano i ' rapporti de’
cavalieri. Fatto giorno raccolta
la milizia che
avevasi iu Roma, andarono
contro a’ nemici: ma
questi, derubato il luogo'
ed incendiatolo, ne
erano ben tosto
partiti. Liberarono r
consoli )e cose
che ardevano ancora, e lasciatovi un
presidio sen tornarono
a Roma. Pochi giorni appresso
usci coll’ armata
propria, e con quella degli alleati
l’ uno e 1’ altro
console : Yergiulo contro degli
Equi e Numicio contro
de Volsci : e ciascuno
se n’ ebbe fra
le armi il
successo che desiderava.
Devastando Verginio le terre
degli Equi non
ardirono questi Attuo
di Roma z85
tecondo Calotte, >87
secondo Varroac, e 4^ av.
Cristo. di venire alle
mani. Ben posero
nna imboscata di
uomini scelti ove speravano
di piombare su
l’inimico sban> dato; ma
vanissima ne fu
la speranza. Imperocché
saputosi ben tosto pe’
Romani, fecevisi vigorosa battaglia: ove gli
Equi tanto perderon
de’ suoi die più
allora non vennero al
paragone delle armi.
Numicio marciò su la
città degli Anziati, 1’
uua allora delle
primarie tra’VoIsci, ma non
se gii oppose
armata niuna, riducendosi
tutti a rispingerlo da
entro le mura.
Fu dunque saccheggiato gran tratto
della lor terra,
e presa una cittadella in
sui lido, la
quale era per essi come
arsenale ed emporio, ove
concentravano il molto
che andavano depredando sul
mare. L’ esercito
si attribuì per
concessione dei console gli
schiavi, i danari, i bestiami, le merci
: ma gli uomini
liberi che non
erano periti tra la
guerra furono presentati
all’ incanto. Si acquistarono
nommeno su gli
Anziati ventidue navi
lunghe, ed apparecchi ed armi
di navi. Alfine
per comando del
console i Romani ne
bruciarono le case, ne
devastarono l’ arsenale, e
ne distrussero da’ fondamenti le
mura; perchè, ritirandosene essi, quel
luogo non fosse
un castello vantaggioso per
gli Anziati. Tali
furono le azioni
separate de’ consoli ; poi.
gettatisi insieme sui
territorio dei Sabini, e
depredatolo, rimenarono a Roma gli
eserciti; e r anno finì. L’anno
appresso fatti appena
consoli Tito Quinzio Capitolino, e Quinto
Servilio Prisco, tutta
la milizia romana fu
in arme, e spontanea si
presentò Auno di Roma
aS6, secondo Catone,
aS8 secondo Varrone, e 4^
av Cristo.. ao3 quella degli
alleati, prima che richiesti
ne fossero. Dopo ciò
fatte suppliche ai
nami, ed espiato
l’esercito, mar> ciarono i consoli
contro a nemici.
Li Sabini contro
ai quali era andato
Servilio, non che schierarsi
in batta> glia, non nscirono
nemmenoall’ aperto: ma
tenendoM dentro del chiuso,
lascravano che si
devastassero loro le terre,
s’ incendiasser ’ le case, e gli
schiavi se ne
fuggis . sero. Dond’ i che
i Romani tornarono a grand’
agio dalle lor terre, carichi di
preda, e risplendenti di glo ria.
E cosi terminò la
spedizion di Servilio.
Quinzio, ed il seguito
suo, movendosi con marcia
più che mili tare
contro gli Equi, ed
i Volsci, venuti ambedue
dalle regioni loro in
un sito stesso
a combattere per gli
altri, ed accampatisi davanti
di • Anzio : diedesi
a vedere improvviso. E
fermatosi non lungi
dal campo loro
in tm luogo, basso per
sé medesimo, che era
quello ap> punto dove
prima fa veduto
e vide gli avversar), posevi le
bagaglie per far
mostra di non
temere i nemici, quantunque superiori
di numero. Or
com’ ebbero ambedue tutto
in punto per
la battaglia, uscirono in
campo, cd avventatisi pugnarono
infino al mezzogiorno. Non cedevano,
non superavano, quésti
o quelli, ristorando sempre la
parte che vacillava, co’sussidj ordinàli per
questo. Allora quando
come superiori di nnmero, cominciarono i Yolsci
e gli Equi a vantaggiare
^ e pre> valerne; non avendo
i Romani moltitudine, pari all’ardore, Quinzio veduti
estinti molti de’
suoi, e ferito il più de’
superstiti, era per intima
ve la ritirata
: ma temendo poi di
dar vista ài
nemici di fuggire;
concluse, ch’egli dovea cimentarsi.
E scelto il nerbo
de’cavalieri. Digitized by Google 2o4
delle antichità’ bomane vola
in soccorso de'
laoi nell' ala
destra, dove principalmente
perìcclavaoOi Ed ora
sgridando di codardia
li duci stessi, ora ricordando
le passale battaglie, e dipingendo la infamia
ed il pericolo
loro se fuggivano; alfine disse
una cosa Gota
sì, ma cbe rincorò
li suoi più che
tutto, e sbigottì F
ibiiuico. Egli divulgò
che r allr ala sua
incalsava già gli
avversar}, e già stava
prossima agli alloggiamenti
r e divulgandolo, spronò sui nemici
; e sceso di cavallo
co’ bravi suoi
cavalieri, prese a
combattere di piè
fermo. Tornò l’ audacia
aUora nei suoi che
ornai si abbandonavano, e divenuti quasi
altri da quelli cbe
erano, fulminaronsi tutti
sul nemico. Talché li
Volsci contrapposti -appunto
in quella parte,
dopo aver luogo tempo
résislito, piegarono
finalmente. Quinzio
fiigaiili appena, rimonta il
cavallo e corre all’ altr’ala,
e mostravi a’ fanti suoi
disfatta l’ala nemica,
e raccomanda che non
sieno per virtù
minori de’compagni. Dopo ciò
niono più de' nemici 'tenne fronte, ma
fuggirono tutti alle
trincee. Non gl’
inseguirono lungo tempo i Romani, ma
beutoste se he
rivolsero forzali dalla stanchezza,
nè più 'avendo ornai
l’arme, pari al bisogno.
Decorsi alquanti giorni, convenuti per seppellire gli
estinti e curare i mal conci, avendo
già riparato quanto mancava
loro per combattere,
fecero nuovo conflitto intorno
gli alloggiamenti romani.
Imperoccliè venute nuove
reclute ai Volsci
e agli Equi dalle terre
circonvicine, inanimito il
capitano perchè i suoi erano
il quintuplo de’
Romani, e perchè vedeva le trincee
di questi su
luogo non abbastanza
munito, credette il buon punto
d’ assalirvegli. Con
tal disegno guidò. . ao5 su la
mezza notte 1’
esercito intorno al
vallo de’ Romani, e cinseli, e tineli in
guardia, percbè inosservati
non s’ involassero. Quinzio
saputa la moltitudine
de’ nemici, ebbe caro di
accoglierla. Ed aspettaudo
che fosse • giorno,
e principalmente Tura nella
quale il Foro
suol riempirsi, quando vide > che
i nemici venivano ornai stanchi
dalla vigilia e dalle
scaramucce, non per
centurie, nè in schiera, ma
confasi e sparsi; immantinente, spalancale le
porte, precipita su loro
col nerbo de’
cavalieri, mentre i fanti lo
seguitavano serrati e stretti. Sbalorditi i Yolsci
dall’ audacia, dopo aver
sostenuta bteve tempo la
furia della irruzione,
rinculano, e lasciano gli alloggiamenti. E percbè
non lungi da
questi aveasi un colle
alquanto elevato ; vi
accorrono, come a riprendervi
requie ed órdine. 'Non
riuscì però loro
di fermarsi e di riaversi, giungendo ben
tosto i nemici, stretti quanto
poteano colle coorti, per
non esserne trabalzali,
nell’ ascendere a forza
la pendice. Fattasi azione vivissima
per gran parte
del giorno, ne
perirono molti diagli ani e
degli altri. I Volaci, 'tuttoché superiori nel
numero,. e rassicurati dal posto
occupalo, nou goderono alcuno
de’ dué vantaggi
: ma violentati dall’ardore e dalla virtù
de’ Romani, abbandonarono il
colle. F uggendo però verso
le trincee, molti ne
soccomberono. Imperocché non cessarono
i Romani d’inseguirli, ma tennero
immantinente .dietro loro, senza
desisterne, finché ne presero
a forza il campo.
Impadronilivisi dei
prigionieri e di ogni
cosa lasciatavi cavalli, armi, danari, che erau
pur molli, passarono ivi
la notte. Nel giorno
appresso il console,
apparecchialo ciocché bisoDigitized
by Google 2o6 delle
antichità’ romane goava per un assedio, diresse 1’
esercito alla città
degli Ansiati, uon lontana più
di trenu stadj.
Per avvenlora ivi slavan
di guardia alquanti
Equi ausiliarj e custodivan le mura, e questi per
terrore della baldanza
romana naacchinavan
fuggirsene. Saputo dagli
Anziati, ed impediti partirne,
congiurarono dar la
cittade a’Roraani che si
appressavano. Gli Anziati
avuto sentore pur
di questo, cedettero al
tempo : E imnvenutisi cpn
loro ; si diedero a Quinzio, in modo che gli
Equi pe^ patto
si dimettessero,
accettassero gli Anziati
in città la
guarnigione, e seguissero i
comandi de’ Romani.
Divenuto pertanto il console
arbitro della città,
pigliatine stipendi ed altri
bisogni dell’ esercito, e presidiatala, se
ne ritirò. Uscitogli per
tal gesta incontra
il Senato, lo
accolse gratissimamente, e
lo onorò
del trionfo. L’anno -appresso
furono consoli Tiberio Emilio per
la seconda volu,
e Quinto Fabio Ggliuolo dell’ uno dei tre
fratelli, duci già della
guarnigione spedita in Cremerà^
ed 'ivi periti co’ loro
clienti. Ora. favorendo Emilio console
ai tribuni, e rimescendo qu^ti di
bel nuovo il
popolo intorao la
divisione de’ campi
; il Senato voglioso
di cattivarselo, e
sollevarne i poveri, stabili di
compartir loro uu
tratto del territoifio
conquistato r anno avanti su
gli Anziati. Furono
deputati per la divisione
Tito Quinzio Capitolino, quello appunto
a cui si erano
gli Anziati venduti, e Lucio Furio
ed Àulo Verginio. Non
stumio Albino per
la prima volta,
e Quinto Servilio Prisco per
la seconda. Nei
lor giorni gli
Equi risolvei Roma Catone Vsrrone
e tero vioiai-e i patti, recenti co’
Romani, per questa cagrane.
Gli Aoziati che
avevano case e campi, rimasero nella lor
patria, coltivando le terre
ad essi concedute, come quelle
attribuite ai coloni, a’
quali davano con regole
Gsse parte del
frutto :quelli perd
che unila più avevan
di questo, si
trasmigrarono. Gli accolsero
di buon grado gli
Equi fra loro ;
ma uscendone, d^>redavx> le terre
latine : dond’ è cbe
'i più audaci, e più
poveri ancora degli Equi, fecero
causa con essi.
Lamentarono i' Latini r insulto in
Senato, e'tdiiesero che
mandasse loro un esercito,
o loro concedesse di
ribattere gli autori delia
guerra. Il Senato, udito
eiò, nè inviare un esercito, né
permise ai Latini
che lo menassero : ma scelti
tre ambasciadori, capo
de quali era
Fa-,bio, quegli che l' anno
avanti avea conchiuso
il trattato, ordinò loro
di chiedere dai
primarj della nazione, se
mandava il pdbtdico
per qite’ latrocini
ne’campi degli alleati di
Roma, anzi di Roma
stessa, ne’ quali eransi anche
fatte alcune scorrerie
da, quegli esuli : o se
il pubblico non avea
di ciò colpa
ninna : E se diceano che
r opera era de’
privati senza volere
del popolo ; chiedessero
nelle mani le
predé nomuMno ohe i
predatori. Venuti gli oratori, ed
ascoltatili ; gli Equi
diedero oblique risposte, dicendo,
che 1’
opera non era
certo fatta per pubblico
voto, ma che
non istimavano bene consegnarne gli
autori, perché, ridotti già
senza patria, e vaganti,
erano come supplichevoli
stati ricevuti nelle campagne (t).
AddoloravaSi Fabio, e reclamava
i patti Vuol c^ita
pareva loro come
tradire la fede
oepiiale, $e ti
conergnaTeoo. Linno IX.
209 traditi, pur vedendo che
gli Equi s’inGngevano, e dimandavano tempo a consultarsi, e lo intrattenevano come pe’
doveri ospitali ; si
rimase infra loro
con di> segno di
esplorare le cose
della città. E visitando
ogni luogo sul titolo
di vagheggiarvi le
cose dei templi
e del popolo, gli opifizj
delle arme da
guerra o Gnite o che si
lavoravano, comprese i loro disegni.
Tornato n Roma disse
in Senato quanto
aveva udito, e veduto. Ed il
Senato, non più dubbioso, decretò che si
mandassero i F eciali per
intimare agli Equi
la guerra, se non
cacciavan da loro i
fuorusciti di Anzio, nè promettevano rintegrare
i danneggiati. Replicarono gli Equi
baldanzosi, Gno a dir che
accettavano, nè già di mala
' voglia, la guerra. Li nigione
su’ turbolenti di
Anzio, onde rassicurarsene, e
Spurio Furio l’altro
de’consoli coll'esercito contro
degli Equi. Marciò ben
tosto 1’ uno e
1’ altro
; nfa gli Equi udendo
uscita già l’armata
romana si mq^sero
da’ campi degli Ernici per
incontrarla. Vedutisi appena
fra loro, tutto che
non fossero molto
distanti, per quel giorno si
trìncierarono. Nel giorno
appresso i nemici vennero quasi
alle trincee de’Romani
per. esplorarvenè gli
animi. E poiché questi non
uscivano alla battaglia,
fattevi delle scaramucce, e niente
di memorando, sen
partirono assai Allude
ai Romaui' portali non
molto prima iif
Aniio, come coloni pcrchi nel
tempo slesto invigilassero
e lenestero iit soggeunn^ Ig
città proclive alla
ribellione magnificandosene.
Il cohsole lasciate
nel giorno seguente quelle trincee,
come non molto, sicure, trasposele in sito
più acconcio, e vi scavò
fossa più profonda
^ e vi piantò steccati più
alti. Crebbe a tal
vista il cuor
dei nemici, e molto più quando
ad essi pervennero
altri snssidj de’ Volaci
e degli Equi ; tanto
che senza più indugi
marciarono al campo
romano. Il console considerando
che a lui. non
bastava r>esercito contro le
dpe nazioni, spedisce
alcuni cavalieri con lettere'
in Roma perchè
mandisi a lui pronto
soccorso, pericolandogli
tutta l’ armata. Giuntivi
questi su la mezza
notte, Postumio il collega
di lui ricevendole, fe’ convocare
per via di
molti araldi i padri
in Senato: e prima che il di
si chiarisse, crasi
decretato che Tito Quinzio
già console per
la terza volta
portasse bentosto con autorità
proconsolare il fior
de’ giovani a piedi
ed a cavallo sul nemico, c che
Aulo Postumio il
console raccolte il più
presto le altre
milizie, a raccoglier le
quali vi
abbisognava più tempo,
li soccorresse. Quinzio riuniti sul
principio del giorno
presso a cinque mila volontari, dopo
non molto marciò.
Gli Equi ciò
sospettando non istavansi a bada
: ma deliberati d’
assalir le trincee de’
Romani prima che
vi giungesse il
soccorso, si divisero in
'due corpi, e t’ andarono
per espugnarle colla forza, e col
numero. Fecesi per
tutto il giorno calda
battaglia, spingendosi
questi audacemente in più
parti su’ ripari, nè
reprimendosene pe’ tiri continui
delle lance, degli archi, e
delle fionde. Adunque, confortativisi a vicenda,
il console ed il legato
spalancando in uri tempo
le porte, ne sboccano,
e piombando co’soldati più
validi da ambedue
le parti del
campo su i ne mici,
ne rispingono quanti
vi salivano. Messili
in fuga, il console
insegai breve tempo
i soldati a lui coatraposti,
e poi si ripiegò:
ma il fratello
suo e Publio F urio il
legato trasportati dalla
impresa e dall’ ardore
corsero incalzando e
uccidendo fino al
campo nemico ; e non avean
seco se non
due coorti, numerose in
.tutto di mille uomini.
Gli avversar) loro
be erano intorno
a cinque mila, osservato
ciò, si avventano
dagli steccati.. E mentre questi
vengon di fronte, la
cavalleria, fatto un giro, prende
alle spalle i Romani.
Publio ed il
seguito suo cosi circondato
e disunito dal resto
de suoi ben potea
salvarsi se cedeva
le arme, esibendogli
questo i nemici, cbe assai valutavano
far prigionierì que’mille bravi, quasi
potessero in vista
di essi ottener
pace ono rata: ma i
Romani spregiato l’invito
ed animatisi a non far
cosa indegna della
patria, combatterono e spirarono tutti Ira’
cadaveri de’ nemici. Morti
questi, gli Equi inebbriati
dal buon successo presentaronsi
alle trincee romane
elevando confitto alle aste
il capo di
Publio e di altri
cospicui, per iscoraggirne quei
d’ entro, e necessitarli a ceder
le arme. Ma se
venne ad essi
pietà per la
sciagura degli estinti compagni, e se ne
pianser la sorte, si
moltiplicò ben anche lo
spirito per combattere
e l’ onorato amore di vincere
o di morir come
quelli prima che
andar prigionieri.
Circondati dunque, com’erano
de’ nemici, passarono i
Romani senza' sonno
là notte, riordinando le parli
che aveano soiferto
nelle trincee, e quant’ altro mai
potea respingere gl’ inimici se
tentavano un altra volta
investirveli. F ecest nel
giorno appresso di
bel nuovo r assalto,
schiaotandovisi lo steccalo
in più parti.
Più volte furono gli
Equi respinti da
quei d entro
che ne uscivano a schiere, e più volte
nell’ audacia delle
soi> lite, lo furono questi
dagli Equi. Durò
tutto il di la
vicenda: quando fu
il console romano
ferito nel femore da
uno strale a traverso
dello scudo, e feriti
pur furono ^ molti
de’ più rignardevoli, quanti li
combattevano infoiano. Ornai vacillavano
t Romani, quando su l’ imbrunir della sera
ecco inopinatamente apparire
Quinzio per soccorrerli col
corpo de’ prodi
volontarj. I nemici,
vedutili che avanzavano, diedero di
volta, lasciando l’assedio
imperfetto: ma quei
d’ entro incalzandoli
nella ritirata facean strazio
della retroguardia : se non
che indeboliti per la
più parte dalle
ferite, non gl’
inseguirono a lungo ; ma presto
si ripiegarono verso
il lor campo. Dopo
ciò si tennero
gli uhi e gli
altri lungo tempo fra
le trincee, guardando sestessi. Quindi mentre
il nerbo de’
Romani era impegnato in
campo, altre milizie di
Equi e di Volaci credendo il
buon punto d’ ime
depredando la regione, uscirono tra
la notte ; ed
invasala in parte
lontanissima dove gli agricoltori
viveano scevri d’ogni
paura, occuparono non poco
di robe e di
nomini. Non però
ne ebbero bella in,dné
né facile la
ritirata, imperocché Postumio
il console mepaudo
agli assediati nel
campo i soccorsi adunati, appena udì
le operazioni de'
nemici, si presentò loro
contro la espettazione.
Non sbalordironsi essi, nè
tremarono, ma ponendo
a bell’agio le bagaglio e le
prede in luogo
sicuro, e lasciandovi guarnigione
delle antichità’ romane che
bastasse, marciarono ordinali
al nemico. Venuti
alle mani, sebben pochi contro
molli, fecero memorabili
prove. Imperocché precipitandosi giù
dalle campagne uomini in
copia cinti di
lieve armatura conir’
essi che eran tutto
arme il corpo, fecero
grande uccision dei Romani
; e per poco non
si ritirarono, lasciando nell’altrui territorio un
trofeo su gli
assalitori. Ma il
console e con esso i cavalieri
più scelti spronandosi
a redini abbandonate su’ loro, dov^
erano il forte, e combattevano ; ve li
sbaragliarono e prostrarono
in copia. Battuti que’
pnmi, anche il resto
dell’ armata respinto fuggì : e la
guaniigìone delle bagaglie, lasciatele, s involò di
su pe’ monti
vicini. Cosi pochi
moriron di essi nella
battaglia ; ma moltissimi
nella fuga, perchè ignari de’
luoghi ed inseguiti
dalla cavalleria de’
Romani. Intanto Servio 1’
altro console persuaso
che il collega ne
veniva a lui per
soccorrerlo, e temendo che 1 nemici
^non gli uscissero
incontra e glien traversasser la strada
; risolvè frastornameli, con assalirli
negli aU loggiamenti. Questi
però lo prevennero;
perciocché sapuu la
sciagura de’ compagni
dai predatori salvatisi, levarono il
campoj e nella notte,
che fu la
prima dopo la battaglia,
rientrarono in città,
senza che avesser
potuto tptanto aveano disegnato.
Ma se ne
periron di loro tra
le battaglie e i foraggi
; ne soggiacquero nella
fuga d’ allora assai più
di prima (ra
quelli che restavano addietro. Aggravati
questi dal travaglio
e dalle ferite, Iraendosi a stento
innanzi, perchè non .prestavansi
ad essi i lor membri, stramazzavano, vinti principalmente dalla sete, presso
de’ ruscelli e de’
dumi : e raggiunti da’cavallert romani,
erano trncidali. Netnraeno
i Romani tornarono felici in
tutto da quella
f guerra ; perdutivi molti valentuomini,
ed il legato
che vi si
.era segnalato, più che
tutti, nel combattere. Non
pertanto rivennero in patria
con una vittoria
non inferiore a ninna.
E ciù fecesi in quel
consolato. Sacceduti consoli
Lucio Ebusio, e Pnblio
Servilio Prisco ; k
Romani plinti da
mori>o contagioso, quanto mai
più per addietro, non
fecero in queir anno
cosa ninna degna
di rimembranza nè in
guerra nè in
pace. Gettatosi quel
morbo in prima
tra gli armenti de’
cavalli, e de’ bovi, e poi delle
capre e delle pecore, disfece quasi
tutti i quadrupedi. Quindi serpeggiando tra'
pastori e tra’ coloni
via via per
tutta la regione, in ultimo
invase anche Roma.
Non è facile ridire quanti
servi, quanti mercenàrj,
quanti della, classe
indigente perissero. Da
principio se ne
trasportavano i cadaveri a mucchi
su’ carri : ma
poi quelli. de’, men
riguardevoli si gettarono
nella corrente del
fiume. Contasene perito il
quarto de’ senatori, e con essi i
due consoli, ed il più de’
tribuni. Cominciò quel
morbo intorno a’ primi
di settembre, e prosegui per
un anno in^ro, investendo e consumandone di
ogni, sesso e di ogni
età. Saputosi tra’ vicini
il disastro romano,
gli Equi ed i Yolsci
lo riputarono occasione
bonissima da levare sene
il giogo, e fecero patti,
e giuramenti, di alleanza fra
loro. Quindi preparato
quant’ era d'
uopo per 1’
assedio, uscirono gli uni e
gli altri il
più presto colle
Roma Catone Vartoae milizie; inondando
su le prime
il territorio de Latini
e degli Emici, onde
precludere a Roma il
soccorso degli alleati. E nel
giorno che giunsero
ai Senato gli
oratori de’ due popoli
assaliti per ottenerne
ajuto, in quei giorno appunto
era morto Ebuzio
1’ uno de
consoli standosi già
Servilio, eh era 1’
altro, per morire. Or questo, sopravvivendo anche
un poco, convocò il
Sepa to. Portativi i più
de’ padri malvivi
su le lettighe
dichiararono ai legati di
annunziare a lor popoli
^ che U Senato concedeva
ad essi di
respingere col proprio
valore i nemici, finché il consolo
si risanasse, e fosse
raccolto un esercito
per soccorrerli. A tali
risposte i Latini concentrato
ciocché poteano dalie
campagne, guardavano le mura,
trascurando ogni altro
danno. Ma gli Eroici
non reggendo al guasto ed
al sacco de’ campi, diedero all’ armi,
ed uscirono. Infine
dopo fatte luminose battaglie con
perdervi molti ^de’
loro ed uccidervi
molto più de nemici, fuggirono, necessitati, fra le
mura, né tentarono più di
combattere. Pertanto gli Equi
ed i Volsci, depredatone il territorio,
si avvanzarono impunemente
ai campi Tuscolani.
E derubati pur questi
senza che ninno
li respingesse, scorsero fino
ai Sabini ; e giratisi
impunemente anche su le
terre loro, avviaronsi a Roma.
Ben poterono essi turbarla;
non però conquistarla.
Quanlun que languidi nella
persona, e perduta 1 uno e
F altro console, mortone di
fresco ancora Servilio,
armatisi oltre le forze
i Romani, si misero su
le mura. Estese allora
per circuito quanto
quelle di Atene,
sorgeano queste parte su i
colli e su. scogli
dirotti, fortissimi per, a
19 natura, e bisogoevoli appena di
difesa, e parte assicurate dall’
alveo del Tevere,
fiume largo quattrocento piedi ,
profondo da navigarvisi
con legni grandi; rapido quant
altri e vorticoso nel
corso. Non passasi questo appiedi
se non per
vìa de’ ponti, de’
quali ve n era
allora sol uno, e di
legno, cui disfacevano nei tempi
di guerra. Il
lato di Roma
men arduo ad
espu gnarsi dalla porta
chiamata Esquilina fino
alla Collina era fortificalo
eoli’ arte; imperocché scavata
innanzi ci avevano una
fossa, larga, dove' eralo il
meno, più di cento piedi, e cupa
di trenta, è quinci e quindi
su la fossa elevavasi
un moro, cinto
da argine interno
ampio ed alto, talché
né battere quello
si potrebbe cogli
arieti, né rovesciar sbucandone
le fondamenta. Lungo
questo lato circa sette
stadj spandesi cinquanta
piedi per largo. Or
qui schieratisi in
folla i Romani respingevano
1’ as salto nemico
:perocché noù sapevano
allora i mortali né far
testuggini sotterranee, né macchine
espugnatrict delle mura. Diffidatisi
gli assalitori di
prendere la città ritiraronsi dalle
mura, e devastandone, ovunque
passavano la campagna, sea
tornarono in>patria. I
Romani come sogliono
quando restano senza chi
comandi, scelsero gl’ interré
per tenere i comizj, e vi crearono
consoli .Lucio Lucrezio
e Tito Veturio Gemino (z).
Sotto questi ebbe
requie la pestilenza;
puc 'Wel testo:
ntritfit rìkirftr : la
toco rXtrftr ’
interpreta da altri per
jugero : Svida la
interpreta per cesto
piedi. Ma tale cspoiisione noa
corrisponde. ' (a) Aano
di Roma aga
secondo Catone, 394
secondo Varrone, e 46a av.
Qrisio. 1 furono diflerite
le controversie civili
private o pubbliche: e
tentando Sesto Tito T
uno dé’
tribuni >, riaccendere quella su
la division de’ terreni;
il popolo gli
si oppose, e rimisela a tempi
più acconci. Eccitossi
in tutti in
vece I un desiderio di
punire quanti aveano
dato guerra alla repubblica ne’ giorni
del morbo. Cosi
decretata la guerra dal
Senato, e ratiScata ' dal popolo,
si arrolarono le soldatesche : e ninno
di anni militari, quantunque pri> vilegiatone per
le leggi, cercò
sottrarsi da quell’
impresa. Diviso r esercito in
tre parti 1
una fu lasciata
in guardia di Roma
sotto gli auspicj
di Quinto Fabio,
uomo consolare ; e le altre
seguirono i consoli contro
i Yolsci e gli Equi. Aveano
gii' fatto altrettanto
i nemici. Riunitesi le milizie
migliori d’ ambedue quelle
nazioni, teneano il campo
aperto sotto due
capitani per cominciare dalla terra
degli Ernici, dove ' allor
si trovavano, a devastarne quanta
ne soggiaceva ai
Romani : la parte men
atta delle ipilizie
crasi lasciata in
custodia delle città, perchè
su di esse'
ngn venisse irruzione
improvvisa dagli emoli. Avuto
infra loro consiglio, crederono i consoli
il meglio d’ investire
innanzi tutto le
lorp città sul riflesso
che la unione
delle armate si
scioglierebbe, se ciascuno udisse
ridotta in pericolo
estremo la sua
patria ; giacché
riputerebbero assai meglio
salivare le proprie cose
che guastar le ini miche.
G)sl Lucrezio piotnbò su
gli Equi, e Yeturio su i
Yolsci. Gli Equi
trascurando ogni rovina di
fuòri guardavano la
città e li castelli. In
opposito i Yolsci ardimentosi, arroganti, spregiando 1’
armata Romana come
diseguale contro la
Lisno IX. 221 lor
ffloltitudiae, uscirooo 4
combattere pel territorio proprio, e misero
il campo presso
di Yeturio Ma come accade
a milizie receuti, raccolte per
la circostanza alla rinfusa
di mezzo a villani
e cittadini, privi in gran parte
di arme o di
sperienza, non ebbero cuore
nemmen di venire
alle mani : e perturbatine i più
fin dal primo avventarsi
de’ Romani, non reggendo
nè al suono delle
arme percosse, nè ai
gridi, preludio della battaglia, tornarono con
dirottissima fuga in città.
Dond’ è che incalzati
dalia cavallwia ne
perirono molti nello stretto
de’ sentieri, e più ancora
mentre a gara si
cacciano tra le porte.
A tale disastro accusarono
i Yolsct sestessi d’ imprudenza,
nè più
tentarono di cimenUrsi. Li
capitani però che
tenevano in campo
aperto le milizie dei
Yolsci e degli Equi
all’ udire, com’ erano
investite le loro città,
deliberano di fare
ancor essi alcuna magnanima impresa, levandosi dalle
terre de’ Latini
e degli Eroici, e marciando on
quanta avean furia
e prestezza su Roma.
.Ancor essi avean
mira che rinscisse loro r uno
o 1’ altro de’
due belli disegni, cioè
d’ invadere Roma,improvvista, o
di richiamarvene le
armate di lei dai
loro territori, necessitando
ti consoli a soccorrer la patria.
Su tale pensiero
marciarono a gran fretta per
essere inaspettati su
Rotna, coll’ effetto delr opera. Avvicinatisi di
nuovo al Tuscolo,
udendo che le mura
di Roma erano
tutte piene di
arme, e che in antecedente aveva
tentalo il primo
d’ iikrodiuTe tale eguaglianza ; ma
dovette lasciar I
opera imperfetta, tro-; vandosi
U gran numero del
popolo nell' armata
in sai' campi nemici, tenutovi ad
arte.,da’ consoli, finché il tempo
finisse del loro
governo. IL Postisi quindi
a tale impresa il
uibubo Aulo Veoginio’e
li colleghi, t voleano consumarla:
ma i consoli, col Senato, e. con altri
in città. più potenti
adoperavansi costantemente
per ogni maniera,,
affinchè ciò non
seguisse, nè dovessero governare
secondo le leggi
: e. più volle sen
tenne 1’ adunanza
del Senato, piA
volte quella del popolo
; facendo i lor magistrati
ogni sforzo gli
uni contro degli altri
; doiid’ era a tutti
viàbile che verreb!>e da' tanto
Jisàdio alla città
disastro insanabile e grande. A tali |>resagj.
dai canto degli
uomini agglongevansi i terrori
dal canto del
cielo, d’ alcuni de'
quali non Irovavansi
L àmili ne’ pubblici
scritti, né, par monumento
qualunque. Ben trovavanà
occorse ancora in
antico e coiTuacazioni soorrenti
pelcielo ed. accensioni
fissa in un luogo,
muggiti e scosse continue
delia terra,. e larve qua e là
vaganti per l’aere,
e voci desolatrioi, e cose
alirallali: ma ciò
che non erasi
mai nè sperimentalo nà udito, e che
più che lutti
perturbava., era che
il cielo navigò. dirottamente pQngià
con nembo, dii neve, ma con
brani, più o men
grandi di carne;
che tali cairn momot, ltrio di
''contndirla fino al ritorno
del terso mercato.
Or molti, d^l
Seoatè giovani e vecch), nè giè
de’ più dispregevoli, la contraddissero per più
giorni cou as^ai
studiati discorsi. Stanchi
poscia 1 tribuoi per tanto
consumarsi di tempo, più
non per> misero che
altri aringasse in
contrario: ma predesti Dando il
giorno nel quale
espedire la legge, invitarono i plebei a raccogliersi appunto
in quello, giacché non sarebbero
più conturbati dalle
lunghe concioni, ma
voterebbero su di
essa per tribù.
Cosi promisero, e sciolsero 4’
adunanza. Dopo ciò li
consoli e li patrizj
più potenti andatine più
esasperali ad essi
reclamarono, e dissero che
non permetterebbero che
introducessero leggi senza previo
decreto del Senato
: SSSMUS IM lecci
t patti DELLE ANTICHITÀ’ ROMANE DSL
COMVNS DELLB ClTtjC
IfOTf DI ONA
PARTE DS~. GLI ABlTAafl
DI QUESTE : CHE
QUAWDO LA PARTE-, MEIf
SANA VI da'
leggi ALLA MIGLIORE
A PRSf.UDlO MANIFESTO DI DANNO
TRISTO, INSANABILE, SCON GISSIMO.
Quale., aggiuDgevaQO qtuU potere
avete voi o. tribuni
di far leggi
o distruggerle ? Voi non
avete con questi diritti
ricevuta dal Senato
là magistratura: voi chiedeste
il tribunato in
difesa de' poveri
offesi o soverchiati, non
per altra briga
niuna. Che se
aveste già prima tal
potenza cedendo il
Senato ad ogni
vostra pretensione ; non C avete
voi questa, perduta
col mutar dei comizj
? perciocché non i Pereti,
del Sornald', non i
voti dati per
centurie destinano voi
per tiibuni: voi non premettete
ai comizj per
la vostra creazione nè i
sagfijicj dovuti per
legge, né altri ossequj
verso de' numi, nè
pietose -opere verso
degli uomini. Come a voi
si appartiene far
cose ( quali appunto
sono le leggi)
che ahbisognavtmo' di culto
e di sagrifizj di un
dato rito, se i riti
tutti violate f Coai lissero ai
tribuni i patrixj seniori, cosi
li giovani, .che andarono cinti
da un seguito
per la città
: e rìcuperà^ rono colle dolci
i cittadini più miti
spaventando i ca-, parbj e K turbolenti se
non faceano, senno, col
terroc de’ pericoli : anzi
battendo come schiavi, ed^
escludendo dal Foro alcuni
de’ più bisognosi ed
abjelti, i qualt non curavano
se non l’ utile
proprio. • V. L’
uno di quelli
ebe ebbe maggior
seguilo, e che poteva aUora più
di lutti i giovani
fu Quinzio Cesone, figlio di
Lucio Quinzio chiamato
Cincinnato, nobile, Straricco, bellissimo, valentissimo nelle
armi, e nel dire Or questi
molto allora si scaricò su'
plebei, non aste nendosi' nè
da parole, molesiissitne ad
uomini liberi, nè da’
fatti corrispondenti alle
parole, Pertanto i pairizj lo
onoravano, e ^istigavanlò più a
tener fronte ai
perìcoli, promettendogli
sicurezza essi stessi
: ma i plebei r odiavano più
che ogni altro.
Or da 'un tal
uomo risolverono liberarsi i tribuni
avanti tutto per
abbattere in esso gli
altri giovani, e
necessitarli ad esser
più savj. Ciò risoluto, e preparati assai
discorsi e lestimon}^, lo
dtardno come reo
di pubblica offesa
per punirlo 'di morte.
Intimatogli di presentarsi
al popolo, venutone
il giorno, e convocata 1’ adunanza, perorarono a lungo coofra lui ;
nunierando tutte le
violente fatte, ed allegandone gli offesi
stessi per teslimonii.
-Or .qui data
licenza di parlare ; il
giovine chiamato a difendersi
non ubbidiva : ma volea
soddisfare ai privati
in 'quanto diceansi
oltraggiati da loi
> secondo le leggi, tenutone il giudizio
innanzi de’ consoli
: ma, il padre
di lui vedendo i plebei sofferime
malamente le ritrosie, prese a difen’^erlo
egli stesso ; dimostrando
le tante delle
accuse coqic false f ed
insidiose, e dimostrandole,. quando
negar non poteansi, come picciole, leggere, nè dégne
dell’ ira del popolo, e su cose, fatte
non per trama
o disprezzo, ma piuttosto per
enfasi giovanile di
gloria. Per questa diceva
eh’ eragli occorso
talora di fare e
tal altra di
pa> rire forse incautamente
nelle contese; non
essendo lui nel fiore
degli anni e del
senno. Pertanto pregava
il popolo non solamente
che non se
gli adirasse pel
discorrere suo, ma che giel
condonasse in vista
delle belle gesta di
esso le quali
operarono fra le
armi la libertà de’
privati ed il
comando della patria, ed
invocavano fin d’ allora
per lai quando
Avesse mancato la
clemenaa ed il soccorso
di tcuti. E qui
narrò le campagne
da lai sosténute, -e le
battaglie nelle quali
avea riportato dai capitani
la corona de’
prodi, quante volte eravi
stato la diiesa de’
cittadini, e quante avea primo
salito le mura de’
nemici : da ultimo
ri rivolse ad
impietosire e scongiurare il popolo
in riguardo della
modera^'one sua verso tutti, e del
vivere ‘suo conosduto
sempre come innocente ; chiedendo
che in grazia
almeno gli salvassero il
figlio. Compiacevasi il popolo
a tali discorsi, e
deliboravasi rendere H 6glio
al padre. Se
non che riflettendo Yerginio che se costai
non subiva le
pene ; ne diverrebbe intollerabile 1’ audacia, e la caparbietà
de’ giovani, sorse e disse : Contestata
o Quinzio è la tua
virA, la tua benevolenza verso
del Spopolo e te
ten debbe tutta la
stima: ma la
molestia, e la insolenza di
codesto tuo figlio verso
tutti non ammette
escusàzione o perdono. Egli educato
con la tua
disciplinà sì discreta,
cpme tutti sappiamo, e si popolare
; ne abbandonò gli
ammaestramenti e seguì V
arroganza de tiranni, e la
sfrenatezza de' barbari, portando
in città gf
incentivi a tristissiiHe opere.
E sia che tu
noi conoscessi per tale
; ora che tei
conosci ben dei
con noi e per
noi concitartene : che se
per tale il
sapevi, e lo coadiuvavi in quanto
egli inviliva ognora
pià' la sorte
dei poveri ; eri anche
tu lo scellerato, e mal souavati intorno la
fama di uom
probo. Afa tu
non vedevi ( ed io
stesso potrei contestartelo
) quanto egli dalla. . a3i tma uirtà
degenerava. Sebbene io
tenga però, che allora tu
non partecipavi con
esso. nelF offenderci ; dolgomif
che ora come
noi non te
ne sdegni. Ma. perchè
tu meglio conosca
qual niostro' abbi
nudrito senza avvedertene contro
la patria, quanto
tirannico, c non . puro
nemmeno tlal sangue.. dk'
cittadini ^ odi la egregia
opera sua, e contrapponi a questa, se puoi, U bellici suoi
prèmji E voi, quanti siete
imo pioto siti al
pianger di un
padre, considerate se stia bene
che risparmisi un
tal cittadino. E qui
fe' cenno a Marco
Volscio T uno de’
suoi colleghi perchè sorgesse
e dicesse quanto sapeva
di quel giovane. E fatto
silenzio, e grande
espettazioiie ; V(d> scio soprastando
alcun poco-, disse
: Oltraggiato, e pià che
oltraggiato che io
fui da quest’uomo, ben avréi voluto
pigliarmene, o cittadini, le
pene che ut
erano concedute dalle leggi
: ma impeditovi allora,
dalla mia debolezza, dalf esser
mio di plebeo, prenderò ora che
mi è dato f le
parti di testimonio, se quelle non
posso di accusatore.
Udite le acerbità, le
indegnità che men ebbi.
Era Lucio, fraltel mio,,che
io amava piti che
tutti i mortali Avea \
questi cenato mecò. presse
di un amico, quando
al giungere della notte
di levammo, e partimmo. E già
passavamo per il Foro, quando
si abbattè con
noi codesto petuUui-,te, seguito da
giouani pari suoi:
li quali, ebbrj
ed 'arroganti che erano, beffarono ed
insultarono noi, quanto, insultato
e beffato avrebbero i meschini
e gli .ignobili. Così provocati
j V uno di noi
parlò liberissimamente. Or codesto
Cesane estintando . ria cosa ttdire
' ciocché non voleva, gU
s' avventò, lo battè
: e mainìenalolo con i calci
e con ogni guisa
di sevizio^ e cT ingiurie;
io uccise. Ucciso
lui, manomise ancor me, che
ne gridava, e ne repugnava
quanto io po~ tev'a
: nè mi lasciò, se
non dopo credutomi
estinto, ài vedermi immobile
in terra, e senza voce.
Allora se no' andò giubilando come
per bellissima prova
; ed allora' gli
astanti raccòlsero noi
lordi dal sangue
j e riportarono a casp Lucio
il fnio fratello, morto, come ho
detto, e me presso che
morto, e che certo ornai poco
sperava di sopravvivere.
Occorse ciò. sotto i consoli P^ublio
Servilio, e Lucio Ebuzio, quando
spaziava in Boma
la ff-an-' pestilenza, alla
quale eravamo soggiaciuti atKor
noi. Quindi non
potei dimandarne ragione,
morti /essendo i consoli
tutti due. Succederono
poi consoli Luaezio
e Tito Terginio. Io voleva
allora ' citarlo in
giudizio ; ma ne
fui impedito dalia guerra, fasciando ambedue
per essa la
città. Jiitomati .questi dal
campo, quanto volte 16
citai presso de òiagittrati, quante volte
mi vi accostai, tante ( e ben
molti lo sannò
) fui da esso
ferito. E questo, 'o popolo, che
io ne ho
tollerato, questo vi ho
detto con tutta
la verità. Alzarono a quel
dire, gli astanti le
grida, (eolandone molti la
vendetta colie lor
inani. Ma vi
si opposero i consoli, ed i più
de’ tribuni, alieni che
in città s’ introducesse
la tea consuetudine
; tanto più che la
parte più sana
del popolo non
voleva che si
toglicssero le difese a chi
pericolava in giudizio
della vita. La
cura duirque della ginsUzut
represse allora gii
empiti della iur scienza, ed il
giudizio fii differito
non, senza contenzioni e dobbj non
piccioli, se dovesse'
intanto il reo serbarsi
neiia carcere, o dare i mallevadori
per la sua dimissione, come il
padre di lui
dimandava.' Il Senato adunatosi decretò
che se no
desse malleverìa • sotto
ob-> biigazion pecuniaria ; ed
egli libero andasse
finché di lui si
giudicasse. Or mancando
il giovine di
comparire • al suo
tempo ;. i tribuni convocarono
il giorno appresso la
molthndine, e contro lui sentenziarono
; dond’ è che i mallevadori,
eh’ eran
dieci, pagarono là multa
convenuta in sicurezza delia
sua presentazione. Colto
dunque fra tali insidie
dai tribuni che
guidavano tutta la
trama, colle itestimobianze di
Volscio, che poi false
si riconóbbero, Cesone fuggi
nell’ Etruria. Il
padre di lui
venduto il più di
sue cose, e rintegrati i mallevadori
delle multe obbligate visse
tra il disagio
e lo stento in
un poderétto; che aveasi
con picciolo abituro
lasciato di là
dal Tevere, coltivandolo con
ponchi servi, né
più rècandosi in
città per 1’ afflizione,
b la inopia, nè
riabbracciando gli mici, né iniramettendosi -a
festa, o ricreazione niuna.
Ai tribuni però
succedé ben altro
che le loro
speranze: imperocché non .solo
qon se ne
chetò pér alcun
modo la gioventù contenziosa
ammaestrata dai mali
di Cesone ; -ma
ne imperversò più
ancora, contrastando co' detti
e co’ fatti la
legge; talché non
poterono affatto stabilirla, cousumandosi in
brighe la loro
magistratura. Pertanto il popolo
confermò pel nuovo
anno i tribuni medesimi. ' fX. Ascesi
ai grado consolare
Valerio Popiicola, e Cajo .Claudio
Sabino , Roma
corse in pericoli
quanti Anoo di
Roma 39! secondo
Catons, 396 secondo Varrone, c 4''8 av.
Cristo. uiai più ^ per
la guerra cogli
i esteri, attiratale dalle d!i cordie
domestiche, come af eano j
preoooziato i libri sibillini, e li
segui dimostrati 1’
anno precedente dai numi.
Io sporrò cagione,
che suscitò U guerra, e ciò che fu
per queau operato allora da’
consoli. Li tribuni preso
di nuovo il
lor grado su
la speranza di
fondare la legge, vedendo console
Ca)o Claudio pieno
di odio ereditario contro
del popolo, e sollecito
per ogni guisa nd
impedire quanto facevano
; e vedendo i più potenti de’
giovani trascorsi -iu
fùria manifesta da
non combatterli colla forza, ed
i più della plebe
obbligati da' servigi de’
patrizj, e rimasti senza il
primo ardore per
la leggQ deliberarono spingersi
all’ intento con
mezzi più risoluti, onde atterrire
quei della plebe, e far
desistere il console. Su
le prime procurarono
spargere voci varie
per la città, poi
sederono da mattina
a sera coosultaudosi visibiloRate senza comunicarne
ad alcuno nè
consigli nè parole.
Ma quando parve loro
tempo di .eseguire
i disegni, finsero delle lettere
; facendosele recare mentre
sedeano nel Foro da
un ignoto. E come
prima Je lessero,, battendosi la .fronte, e contristandosi ne’
set^bi^nti ; levaronsi in
piede. Accorsa gran moltitudine,
ed insospettitasi che
fosse in quelle lettere
indicato alcun grande
infortunio, essi or dioaroiio,pe’ banditori silenzio
e dissero; La repubblica o cittadini sta. negli
estremi pericoli. E sé
la benevo^ lenza degl
iddj non avesse
provveduto a chi era
per. incorrervi : noi tutti
saremmo in fetali
sciagure. Chiediamo che vi
tfiniale qui breve
tempo, finché riferiamo al Senato
eiocohè ne si
avvisa, e facciamo di
cornuti volo oiocché si
debbo ; E ciò detto, ne
andarono ai consoli. Frattanto
che il Senato
si radunava, faceansi pel
Foro molti e svariati
discorsi; ripetendo altri
appo> stalaroente
ne’crocchj ciocché era
stato intimato loro da’
tribuni ; ed altri
pubblicando, come detto ai
tribuni, ciocché temeano essi
stessi, che succedesse. Chi
dicea che i Volsci e gli
Equi aveano accolto
Quinzio Cesone il giovine
condannalo dal popolo, creandolo comandante assoluto delle
due genti e che
leverebbe .gran forze
e marcerebbe contro di
Roma: echi dicea
che quel giovine d’
accordo cp’ patrizj
tornava con esterne. milizie, perché si
abolisce una volta
per sempre il
magistrato che era il
presidio de’plebei : altri
aggiungeva che eosì non
sentivano tutti i patrizj
ma i giovani soli:
e. vi fu chi ardi
fino dire che
colui si stava
occulto in città, e che
occnpenebbe i posti più
acconci. Ondeggiando cosi tutta
la città per
|a espeUazioue de’
mali, e sospettandosi tutti, e guardandosi gli
uni dagli altri
: i consoli convocano il Senato
: ed i tribuni vengono
e palesano ciocché
avvisavasi loro: parlava,
per tutti Aulo
Yerginlo e disse : • f > X.
Finché gli annunzj
che ci si
davan de' medi ^
ci sembrarono non
accureUi, ma vani e senza
fondai mento, sdegnefmmo o
padri coscritti, di pubblicarlit tal timore
che non.se ne
eccitassero grandi txirbamenti, come sogliono, alP
udirsi triste cose, e con riguardo di
non essere da voi creduti
anzi precipitosi che savj.
Non però lasciammo
tali annunzj, trascu^ rondo li
eiffaUo : anzi ne
abbiamo i investigata la ver
rità, quanto per noi
si potè.. Ora. poiché
la provit denzu celeste, la
quale ci ha
‘sempre salvato la
repubblica, ci benefica p svela
i segreti consigli y e le ree
macchinazioni di uomini
nemici agt iddj, e teniamo fin delle
lettere che abbiamo
di fresco ricevute in
pegno di benevolenza
da ospiti, che
voi poscia adirete, e poiché
concorrono e concordano gC
indizf Interni con gli^
altri di fuori, e gli
affari che abbiam tra
le mani non
ammettono più. indugio
e riserva i deliberiamo,
com’ è giusto, palesarli a vói, prima che al
popolo. Sappiale dunque
che hanno contro
il popolo congiuralo uomini
non ignobili, tra' quali
dipèsi-esser parte, non
grande però, degli
anziani, ascritti al Senato, ma
più grande de’
cavalieri che ascritti non
vi sono ; e questi, quali siano, non
è tempo ancora di
rivelarlo. Questi, come udiamo, colta
una notte oscura,
sono per assalirci
tra’l sonno, quando nè
può risapersi ciocché
è fatto, nè vaUomo a congregarci
e difenderci. Fermi sono
d'investire ‘e di uccidere
nelle case noi
tribuni e quei plebei che st opposero
iy o fossero mai
per opporsi ad essi
circa la libertà.
Quando avran tolto
noi, pensano di aver
da voi ciò
che resta, sicurissima ' mente,
cioè che
revochiate di comun
voto le concessioni da voi
fatte alla plebe.
Fedendo però che
han bisogno per compiere
ciò di prepararsi
occultamente una milizia di
fuori, e non piccola, si hanno
eletto capo queir esule
nostro, quel Ceso e, convinto delV eccidio
di cittadini, e della discordia
della città, • e pure fatto
per alcuni di qua entro, fuggir
salvo dal giudizio e da
Roma, con promettere di
procurargli il ritorno, magistrature, onorificenze, ed altri, compensi de' servigj.
E questo Cesene ha
protnesso di conduf loro, milizia
di Equi e di
Eplsci, quanta abbisognane.
Egli verrà tra
non molto co’
più audaci, introducendoli a pochi
a pochi e '.sparsamente in
ci/r tà: l^ altre
milizie, quando saremo
periti noi capi del
popolo si avventeranno
su gli alpi
del popolo stesso, i quali difendessero
ancora la libertà.
Queste, o padri coscritti sono
le terribili, le impurissime opere che
disegnano far tra
le tenebre, senza temere r ira
degli iddj, nè riguai
dare, la vendetta
degli uomini. Agitati da
tanto pericolo, a voi ne
veniamo supplichevoli, o padri,
voi scongiuriamo per
gf iddj, voi pe
genj adorati dalla
patria, voi per la
memoria dei tanti e gravi
nemici da noi
combattuti in coma-, ne,
affinchè non lasciate
che noi patiamo
le sì dure, ed
indegnissime offese : ma
v’ 'empiate come
noi di risentimento, e ne soccorriate, e puniate, come delf~ Lesi,
tali macchinatori tutti, o nei
capi almeno della infame
congiura. E prima che
tutto, dimandiamo o padri che
decretiate, come è giusto,. che inquisiscasi da noi
tribuni su le
cose deferiteci; perciocché
oltre, la giustizia, la necessità
dee rendere, inquisitori di-, agentissimi gV
investiti dal pericolo.
Che se alcuni tra
voi son disposti
di non compiacerci
punto, anzi di contrariarne in, quanto
vi diciamo del
popolo ; volsntieri conoscerò
da essi quale
vi disgusti delle. nosVe
dimande, e ciò che vogliate
da noi finalmente Che non
facciamo forse niuna
ricerca, ma trascu~ riamo la
si bufa e si
rea tempesta che
pende sul popolo ? E chi
direbbe li sì
fatti decisori esser
sani, e non corrotti) e non' partecipi della
congiura anzi chi non
direbbe che temono
per sestessi, temono di essere
scoperti, e quindi scansano che
si esamini • il vero
? Perciò non debbesi
attendere a tali uomini.
O vorranno forse che
non siamo noi
gl' inquisitori 'di dò; ma
il Senato e li
consoli? Ma che
impedirebbe che i tribuni pure
dicessero, che a loro che
han preso a difendere il
popolo / a loro si
spetta la inquisizione de plebei, se
alcuni mai congiurassero contro de'
padri e de'consoli, e
macchinassero la rovina del
Senato ? Or che
seguirebbe da ciò ?
questo appunto, che mai la
indagine si farebbe
maneggi reconditi. Noi
però mai ciò
nort faremmo, perchè sospetta ne
sarebbe f ambizione : e così
voi non bene adopererete
dando mente a coloro
che non vogliono che
noi pure slam
pari a voi ne’
casi nostri, per fare F
esame; ma benissimo
adopererete riguardando questi,
come nemici comuni.
Al presente, o padri coscritti, niuna cosa
tanto bisogna, quanto la sollecitudine: glande,
imminente è il pericolo;
e C indugio a salvarsi è
sempre intempestivo ne’
mali che non indugiano.
Lasciando dunque le
altercazioni, e i lunghi
discorsi decretate ornai
ciocché F utile vi sembra
della' repubblica. eraoo i padri
come rìsolfere: e riflettevano seco
stessi, e ripetevano 'fra loro,
come fosse ugualmente
arduissima cosa concedere e non concedere
ai tribùni di
fare inquisiaione su
loro, in affane comune
e gravissimo. Ma Cajo
Claudio 1’ uno
ajg de consoli, che tenea
per obliqua quella
loi^ proposta, sorse e disse
: iVon penso, o Kergìnio,
che costoro sospettino me
come partecipe della
congiura che dite macchinata
cantra voi, e cantra il
popolo e sospettino che io sorga
a contraddire, perchè temo per me
o per alcuno de
miei che n è complice
; giacché il tenore della
mia vita esclude
in tutto da
me tali sospetti. Io
dirò sincerissimamente e sema
riguardi ciocché reputo £ utile
del Senato c del
popolo. Molta, anzi affatto
s’ inganna Ferginio, se
concepisce che alcun di
noi sia per
dire ohe si
lasci,, sema discuterlo, im tal
affare sì grande
e necessario ; e che non debbono
aver parte, nè star
presenti alla indagine i magistrati del
popolo. Niuno è sì
stolido, niuno sì malevole
al popolo che
voglia ciò dire:
Che se dunque alcun
chiede, qual ne ho
male, ohe insorgo contra cose
che io concedo
per giuste; e che presumo io
mai col mio
dire ; io, viva Dio, ve' lo esporrò: Io
penso, o padri coscritti,
che i savj debbano considerar sottilmente
i germi e le linee
prime di ogni affare
: imperocché deesi di
ogni affare discorrere secondo che
ne stanno i principj.
Ora udite da me
ciocch' è V intrinseco del
subietto presente, e quale il
disegno de tribuni.
Non riesce ora
loro di ultimare ninna
delle cose incominciate
nè proseguite nelC anno
antecedente, perchè voi vi
opponete ad essi come
allora, nè pià il
popolo li favorisce.
E ciò conoscendo cercano necessitare
voi, sicché cediate loro anche
vostro malgrado, ed il
popolo, sicché cooperi a
quanto mai vogliono.
Ma per quanto
se ne consultassero, per
quanto volgessero da,' ogni
banda, V affare, non
trovando mezzi semplici
e buoni per V uno e V altro
intento ; alfine così
la discorsero.. Lainenliamoci
che alenai nobili
han congiurano di> abballcre il
popolo / e di uccidere
quanti ne proca nino
la salvezza. E quando
avrem &UO, che tali
cose, preparale da
gran tempo, siano. in
cittA disseminate,; e sembrino
credibili I popolo
(e credibili le
renderà a la paura)} allora
fiugeremo delle lettere
da presenti larcisi
per un ignoto
in presenza di
molti. Ne amdre>
mo quindi In
Senato, ci> sdegneremo,
ci dorremo, e cercheremo
il poter d’ inquisire
su le dinunzie
dateci. Se i patria)
ci si oppongono,
prenderemo ‘da indi
^argomento di calunniaiii
presso del popolo;
ed il a popolo esacerbato
contro di essi
diverrà ^ propizio a X .quanto
noi vogliamo. Che
se cel concedono
leveremo X di città, come trovati
complici, i più misgnanimi frA loro,
e più nemici nostri, vecch j ^o giovani.
Impe rocchè coloro intimoriti
di essere condannati
o pat tuiranno con noi
di non più
contrariarci ; o saran costretti
a lasciare la patria
: e co^ la fàzipn
contrap posta sarà desolata
. Tali sono i loro
disegni p padri coscritti, e quando
li vedevate che
sedeano o consultavano ^ al~ lora
tesseano C inganno contro
i più riguwrdevoli tra, voi,
allora complicavan la
rete contro i cavalieri
più puri. E che ciò sia vero ;
presto ve lo
dimostro. Dì, yèrginio, dite voi, su
quali pende il
pericolo, da quali ospiti aveste
la lettera ? dove
abitano, come vi conoscono', come
seppero tali nostre
cose ? Perché differiste a svelare
i lor nomi, perchè prometteste dirceli poi, nè
li avete già
detti ? Qual fu V
uomo che vi portava
le lettere ? che
noi menate voi
qui y sicché su
lui cominciamo a diicutere, se vere
elle siano y o se piuttosto, come io
penso finte da voi
? E gt
indizj interni che si accordano
co’ segni di
fuori quali sono mai
questi? o chi mai
ve li diede
? Perchè ne celate, non ne
pubblicate le prove
? Se non. che mal
si trovano prove
di cose che
non furono mai come io
credo, nè mai saranno.
Questi o padri coscritti non
sono indizj di
una congiura contro loro
ma piuttosto delle
insidie e del mal
animo che essi covano
contro di voi, come
C affare dichiaralo • per
sè stesso. Ma
voi siete -di ciò
la causa, voi
che concedeste loro le
prime cose, e portaste
a tanta potenza codesto insano
1 loro magistrato, quando lasciaste nell’ anno
antecedente che giudicassero
per falsi titoli Quinzio
Cesone y 'e soffriste
che strappasSer dal seno
un tanto difensor
de'patrizj. Da ciò
nasce chepili non serban
misura, nè tolgon di
mira i nobili ad ano
ad uno, ma
investono e scacciatio in un
globo tutti i migliori
della città : Eciò
che è peggio j non
permettono nemméno che
contraddiciate Biro, e V
atterriscono con darvi
per i sospetti, e calunniarvi
come complici de’ segreti
disegni ^ con dirvi
ben tosto inimici del
popolo, e citarvi al popolo
stesso, perchè -subiate la pena
de’ discorsi qui
fatti. Ma su ciò
diremo altrove pià
acconciamente. Ora per
istringere e non prolungare il
discorso, ammoniscavi che vi PTOIftCr, tomo in. '
it guardiate da codesti
turbatori di 'Jioma, dti
codesti seminatori de’ mali.
Nè celerò già
al popolo quanto qui
dico ; ma gli
sporrò liberissimo che
non pendo su lui
niente di. male, se
non quanto glien
fanno i tristi ed
insidiosi ..tribuni,
benevoli ne' sembianti
e nemici ne' fatti. Sorse
al dire del
console clamore m tomo
ed applauso ben
grande, e sciolsero 1’ adunanza senza ^pertncHve
che '^pià i tribuni
parlassero. Dopo ciò Yergiaio
convocato il popolò,
vi accusò il
Senato ed i consoli.
Ma Clandio ve
li escusava apptmio
co’ discorsi tenuti in
Senato. Presero i più
discreti del popolo
per vana quella paura:
ma i più sjolidi
per -vera, credendo le dicerie
: e quanti ne erano
I più soellerali, ^anti i più
bisognosi ognora di un cambiamento, vi xercaròno un
pretesto -di sedizione, je
di torbido, doù che
mi> ressero a far disceraere
il Vero dal
falso. Intanto un Sabino
non ignobile di
lignaggio, potente in averi
(Appio Erdonio ih
chiamavano.) si pose in
cuore di abbattere
la potenza romana, sia
che ne cercasse per
sé la tirannide, sia che
una grandezza ed un
dominio, ai -Sabini, sia
che tina fama
luminosa al suo nome.
Comnni'catosi, in quanto
a tale idea, con' molti
amici, divisata là maniera
dell’ impresa, ed approvatone ; riuni li
clienti, e li più baldanzosi
de’ servi suoi. Concentrati
In poco tempo
intorno a quattro mila uomini, ed apparecchiate
arme, viveri, e quanto bisognava per
una guerra, gl’
imbarcò su legni
fluviali. ?iavigando sul
Tevere, gli approssimò a Roma
dalla banda, ove sorge
il Campidoglio, non lontana
nemmeno uno stadio dal
fiume. Era la
notte in sul
mezzo: ed in
Roma calma grandissima.
Egli dunque al
favore di queo
ottenuti i luoghi piu
acconci, ricever^ gli
esuli,, liberare, gli
schiavi, sdebitar con promesse
i poveri, e consociare a sestesso
4utti gli akti
cittadini clie dal
basso loro stato
invidiavano ..ed odiavano i potenti,
e seguivano con diletto
la mutazione. La iipniagine.
che deludevalo intanto
che lo isperariziva di
ottenere quanto aspettava, era la
civil sedizione, per la
quale concepiva che
più non vi
fosse amicizia, nè ligame tra i
plebei e tra’ patrizj.
Che non fosse a lui
riuscita ninna di
tali cose r allora
disegnava chiamare con tutte
le milizie i Sabini, i Yolsci ed altri
vicini, quanti voleano iredimerst
dal giogo esecrato de’
Romani. . Occorse, però che s’
ingannasse in lutto
; jmpe> aocchè nè si
diedero a lui gli
schiavi, dè gli
esuli ripatriaronb, nè gl’
indebitati q disonorali 'anteposero'!’
utile proprio al comune,
nè i sqcj esterni
ebbero spaziò abbastanza da
preparare la guerra:
giacché tale affare,
che diede tanta paura
e turbamento a^ Romani, ebbe
Gne ben tosto ne’
primi tre o quattro
giorni. E per verità, presa
appena la fortezza, datisi gli
abitanti dei luoglù
Questa porta fu
chiamala ancora scellerata
perchè poterono per essa
uscire ma non
tornare i Pabj che
andarono a Cremerà contro i Toscani
j come iuiUcano Testo
ed Ovidio. Fasi.
a. intorao che non
erano rimasti uccisi, a gridare e fug-' gire
; il popolo non
sapendo che mai
fosse, impugnò le armi, e
Corse parte ne
siti eminenti y o ne’
spaziosi, che eran molti, della
città, e parte ne’ campi
vicini. Quanti perduto il
fiore degli anni
erano nella impotenza delle forze, salirono colle,
mogi) ai tetti
delle case per combattere di
là li forestieri, parendo loro
ogni luogo pieno di
nemici. Fatto giorno,
come seppesi che 'erano in
città prese^ le
fortezze, e chi prese le
avesse ; i coasoli andarono al
Foro, e chiamarono i
cittadini alle arme. Li
tribuni convooita la '
moltitudine dissero che non
voleano far cosa
contraria, alla patria
ne’ suoi pericoli ; ma che
riputavaào giusto, che il
popolo il 'quale espoùevasi a tanto
cimento vi si
esponesse con patti espressi : Se i
patrìzj, diceano, promettono, chiamarti done
mallevadori gli Dei,
che Jinifa la
guerra cìoon^ cederanno di
creare i legislatori, e di vivere
pari a noi ne
diritti per t avvenire;
liberiamo con essi 'la patria : ma
se ricusano ogni
partito di moderaziode
; e perchè mai cimentarsi
?' perchè gettile
la vita, quando niun
bene' ce ne ridonda
? Mentre cosi dicevano ed
il popolo se
>ne persuadeva tiè
udiva le voci di
chi altro gli
suggerisse ; Claudio. disse ohe
non tJ>bisognavasi di
tali che soccorressero
la patria non volontari, ma per
prezzo e non ' lieve
: che i pcurizj armando sestessi
e i clienti, e chiunque univasi
loro spontaneamente assedierebbero
le fortezze ; Che
se tali milizie non
pareano sufficienti; ne
chiamerebbero ancora dai Latini
e dagU Ernici : e se
la necessità stringesse,
prometterebbero la libertà
agli schiavi :
cAe infine inviterebbero, tutti,
piuttosto che quelli
che in tal congiuntura
profittavano della odiosità
de' vec~ chj fatti.
Contraddiceva a tanto Valerio
1’ altro console
: e giudicando che non
dovesse mettersi in
guerra coi patris) la
plebe già adirata
con essi .-consigliava
che si cedesse al
tempo : si pretendesse
da' nemici esterni
il diritto: ma si
usasse helle gare
domestiche equità e dolcetta,
E sembrato egli al
più dei padri
di aver dato il
consiglio migliore, ne
venne all’ adunanza del
popolo,e tenutovi un ' conveniente
discorso, lo terminò, giu>
rando, che se i plebei
si unissero a, lui
con ardore sella guerra,
q, riordinassero le cose
della città; concederebbe ai tribuni
di far discutere
al popolo la
legge che essi progettavano
su la eguaglianza
ne’ diritti, e che terrebbe modo
onde ciò che
fosse à questo piaciuto
si eseguisse nel suo
consolato. Ma ‘non portava
il destinò eh’ egli
adempiesse alcuno de’ patti,
seguendolo ornai da presso
la morte. Sciolu i’ adunanza, intorno a’ crepuscoli
vespertini accorse ciascuno a’
suoi posti per
dare a’ capi
il suo nome, ed
il militar giuramento;
e fra tali due
cure si consnmò qncl
giorno e la notte
che lo segui.
Nel giorno appresso furono
compartiti e còllocati da’
consoli i tribuni sotto le
insegne sante,
aiTollandovisi la nioltitndine
ancora abitatrice della
campagna. Ordinata così ben tosto ogni
cosa, i consoli divisero le
milizie, e ne tirarono a sorte
il comando. A Claudio
toccò d’ invigilare innanzi le
mura, aIBnché non entrasse
in sussidio altr’ armata
di fuori ; perocché
sospettavasi di un
moto assai grande, e temeasi
che piomberebbero forse
tutti i nemici su
loro. Portò la
sorte che Valerio
si mettesse all’ assedio
delle fortezze. Altri
duci furouò destinati
sb I di altri luoghi
muniti, interni alla
città ^ ed altri su le
vie che
menano al Cartipidoglio
per impedire che vi
passassero al nemico
gli schiavi e li
bisognosi temuti
soprattutto. Non venne
a Roma sussidio di
alieniti, se non de’ Tnscolaili, informati ed
apparecchiati in una notte
e guidati da Lucio
Mamilio, uomo operosissimo, e
capo allora della
nazione. Questi soli
entrarono con Valerlo a parte
de’ pericoli, et dimostrandovi
Ihtta la benevolenza e lo
zelo ; rivendicarono con
eSso le fortezze. Diedevisi da
tutte le parti
1’ assalto : chi
adattava su le donde
vasi pieni di
bitume e pece incendiaria, e lanciavali dalle
case vicine in sul colle
: chi recava, fasci di
sarmenti, e fattine cumoli ben
àltj su lo
sco' sceso della rupe
gli ardeva, lasciando che
il vento ne trasportasse le
damme: i più magnanimi
ristrettisi nelle Schiere salivan
alto di su
per vie manufatte
: ma la motti(udine colla
quale tanto sorpassavano
1 inimico, niente giovava
ad essi che
ascendevano per sentiero angusto, pièno sopra
di sassi da
trabalzameli, e tale che i
pochi vL
divenivano bastanti contro
i mólti : nè la costanza
acquistala tra le
molle ‘‘guerre incontro
ai pericoli valeva punto
per chi rampicavasi
diritto sa pei scogli.
Pcroccliò facessi la
battaglia con colpi
lontani e Dòn a corpo
a corpo onde moslraiwi
audacia e forza ; le
arme lanciate da
basso in alto
giungevano, cotn -è verisimile,
se colpivano, languide e tarde
; laddove quelle scagliate dall’
alto in basso
piombavano penetranti e piene,
secondandone il peso, \ lor
tiri. Non però invilivano gli
assalitori, ma persistevano,
necessitati, tra' mali, senza rèquie
alcuna diurna o notturna
: tanto che mancate finalmente
agli assediati le
arme e le forze, dopo
il terzo giorno
gii espugnarono. Perdeèouo
i Ro mani in questa
battaglia molti valentuomini, ed il
console', valentissfmo, come
tutti concedono. Costui
sebbene ricevute molte ferite, non
si levava da’
perìcoli : ma saliva
tuttavia la rocca, finché
gli precipitarono ad dosso
un macigno, che gli
tolse • la vittoria
e la vita. Espugnata la
fortezza, Erdonid
robustissimo che era di
corpo-, e bravissimo in
arme, destò strage incredibile idtornct di
sé, ma sopraffatto
infine dai colpi
morì. Tra quelli che -avevano
occupato con esso
il castello, pochi furoRO
pigliali vivigli più
trafissero sestessi, o perirono precipitandosi dalla
rupe. XVII. Finito cosi
l’attacco de’ Ladroni, i tribuni
riprodussero le ‘interne discordie, chiedendo dal
console superstite che adempisse
le promesse circa
la istituzioa della legge
fatte loro da
Valerio, estinto nella battaglia. Trasse GlandLò
in lungo qualche
tempo, ora con
espiar la città, ora con
fare agl’ Iddii
sagrifiz) di ringraziamento, ed ora
dilettando il popolo
con spettacoli e giuochi.
Alfine mancatigli tutti'!
pretesti disse, che
dovessi nominare. in luogo del
defunto un altro
console, perocché le cose,
fìtte da lui
solo non sarebbero
né legutime ',
né salde,' ma salde
saqebbero, e legittime fatte
da ambedue. Respintili
con 'questa replica, prefisse
il giorno pe’ oomizj
ove farsi un
collega. Intanto i capi dei
Senato concertarono con
maneggi occulti fra
loro il console da
eleggersi. Venuto il
giorno de’comizj, quando il
baDclitore chiamò la
prima classe, le
diclotto ceniarie de’ cavalieri e le
ottanta de’fanti ricchi
di più possideusa entrate nel
luogo dimostrato nominarono
console Lncio Quìdeìo Cincinnato,
il cui figlio
Cesone ridotto a già di^o
capitale da’ tribuni, avea
per necessità lasciato
la patria: >nè più si
> chiamarono altre classi
a dare il lor voto,
giacché le centurie
che lo aveano
dato superavano per tre
centone le rimanenti.
Il popolo si
ritirò pronosticando il suo
male, perché sarebbe il
consolato in mano di
chi lì odiava.
Il Senato spedi
uomini che prendessero e menassero
il suo console
al comando. Quinzio arava
allora per avventura
un campo per
seminarvi, ed egli stesso
scinto di^ tonica, col
pilco in testa, e con fascia
ai lombi, teneva dietro
ai bovi che lo
fendevano. Or vedendo
i molti che a lui
si recavano, fermò 1’
aratro, e dubitò buon tempo
chi fossero, e perchè sen
venissero ; ma precorrendo
un tale ed
ammonendolo ad acconciarsi,
andò nell’ abituro, e acconciatovisi riuscì.
Gli uomini spediti
a riceverlo, lo salutarono
tolti non dal
suo nome, ma come
console : e messagli la
veste circondata di
porpora, e dategli le scuri, e
le altre
insegne de’ consoli, lo
pregarono che in città
si portasse. £ colui
soprastando alcun tempo
e lagrimandone disse : questo
mio campiceUo. in qilesto anno
restar^ dunque non
seminato, ed io
correrò pericolo di non
avere come alimentarmene. E qui
salutata la consorte, ed
intimatole che provvedesse
alle coso dimestiche, sen venne
a Roma. Or questo
mi son’ io condotto
a dirlo non per
altra cagione, se non
perchè sì conosca quali
erano allora i primarj
di Roma, come operosi, collie savj ;
e come, non che gravarsi
di noa povertà onorata, ricusavano, non ambivano
i sovrani poteri. Dal che.
sarà manifesto, che i moderni
non so migliano a quelli
nemmen per poco, eccettuatine aiquanli, pe’
quali vive ancora
la maestà romana
e serbasi una. immagine di que
tempi. Ma basti
su ciò. Quinzio preso
il consolato chetò
li tribuni dalle innovazioni
e dalle brighe su
la legge, con intimare, ehe
àc non la
finivano, porterebbe tutti i cittadini fuori di '
Roma, minacciando una spedizione
sui Volsci. E replicando i tribuni
che lo avrebbero
impedito di arrolare l’esercito;
egli convocata un’
adunanza, disse che lutti
si erano vincolati
col giuramento militare di
seguire a qualunque guerra
fossero chiamati, li con
soli; come di
non lasciar le
bandiere e di non
far cosa contro Ja
legge. Diceva che
con assumere il
consolato, ei tenevali tutti
sotto quel giuramento.
Ciò detto, giu-> rando che
si varrebbe delle
leggi contro gl’
indocili, fe’ cavar le
bandiere da’ tèmpli.
£ perchè disperiate di ogni
aggiramento di pòpolo
nel mio consolato, non tornerò, disse',
da cnmpi nemici
se non dopo
Jinitone il tempo. Apparecchiatevi dunque
in quanto v è necessario, come per
isvernare nel campo.
Sbalorditili con tal parlare,
quando li vide
alquanto più mansuefatti supplicarlo di
esser liberi dalla
spedizione, dichiarò che sospenderebbe in
grazia loro la
guerra, purché non fa
cessero movimenti, lasciassero
eh’ egli reggesse
il con[fi) Roma Catone Varrone] -solato a suo
modo, e dessero ed
esigessero scambievole mente il
giusto. Calmata la turbòienza,
ristabilì su le
istanze loro li giudizj
interrotti da tanto
tempo, ed egli straso decise
il più delle
cause colla equità
e colla giustizia, sedendosi quasi
tutto il giorno
nel tribunale, > io atto sempre
compiacevole, mite, umano
verso de’ ricorrenti. Operò con
questo die il,
governo non sembrale
aristo cratico, che i poveri,
gl' ignobili, ed altri
infelici comunque conculcati da’ potenti,
OOn avessero bisogno
dei tribuni, 'nè
desiderassero piu nuova
legislazione per essere trattati cOn
eguaglianza, anzi che amassero
e gradissero tutti il ben
essere attuale delie
leggi. Fu iodato nel
valentuomo questo procedere,
òome pure, che
fluito il suo comando, ricusasse non
che lieto riaccettasse
il consolato offertogli nuovamente.
Imperocché il Sanato che
vedea la moltitudine
non alièna di
obbedire aU’uom buono,
rivolealo a grand’ istanza
nel consolato, perché li tribuni
brigavansi a non lasciare
uemmen pel terzo anno
il magistrato, ed
egli sarebbesi ad
essi contrapposto rattenendoli dalle
innovazioni colla verecondia
o col terrore. Disse che
non appcovava cJte i
tribuni non cedessero il
grado loro ^ ma
che egli non
incorrerebbe ' neir acciua di
essi. E convocato il
popolo e lamentatovisi lungamente
de’ riottosi a deporre, il
comando, giurò
solennissimamente di non
ricevere il consolato
innanzi di averlo ceduto.
E prefisse il giorno
pe’ comizi, e designativi i consoli, si
ritirò di bel
nuovo nel suo picciolo
abituro, c visse, come dianzi,
col travaglio delle sue
mtini. > X aSi Divenuti
consoli Fabio Ylbolano
per la terza volta, e Lucio Cornelio
, e celebrando i patrj
spet> tacoli, frattanto
circa eeì mila
Eqof, uomini scelti,
marciarono in lieve
armatura nella notte, e la
notte durando ancora giunsero
al Tuscolo, città latina, distante nemmeno
di cento stadj
da Roma. Trovatene aperte come
in tempo di
pace, le porte, nè '"custodite le mura,
la invasero al
giunger primo, in
odio de’Tuscolaci > perchè
erano gli ardenti
cooperatori dei Ror mani, e principalmente perchè
essi gli unici
aveano fatto causa di
guerra con loro
nell’ assedio del
Campidoglio. Uccisero certo degir^uomini, non però
molti nella invasione della città
; perocché mentre prendeasi quei che v’
-erano, eccetto gl invalidi
per vecchiezza e per
mali, fuggirono ^ spingendosene
fuori per le
porte. Fecero prigionieri,
le donne, i fanciulli, i servi,
e diedero il sacco
alle robe. Nunziatasi
in Roma la
espugnazione,, i consoli
conclusero che si
dovesse bemosto provvedere ai
fuggitivi e rendere loro
la patria. Opponendosi però U tribuni,
non permettevano che
si arrolasscr soldati,
se prima non
si desse il
voto su la
legge. Cònlurbandosene il Senato,
e ritardandosi là spedizione, sopravvennero altri
messi 'da’ Latini colia
nuova che là città
di Anzio erasi
manifestamente ribellata, accordandoviki i Volsci, antichi abitatori
di essa, e, li
Romani venutivi come coloni, e compartecipi de’
terreni. Giunsero
contemporaneamente de’ nunzj
ancora dagli Eroici e dissero, che già
era' uscita, e già stava nel
lor ter Adqu
li Roma' 395 secondo Catone, 397
secondo Varrone-, 457
av. Cristo] -ritorio un
armata grande di
Volaci e di Equi.
A tali a^unzj parve al
Senato che dovesse
> ornai,non indù giarsi,
ma corrersi con
tutte le forze
da entrambi i consoli
: e che chiunque ciò
ricusasse, romano o confederato :
si avesse per
inimico. Or qui
li tribuni cederono, e li consoli
descrissero quanti aveano
età militare, e convocate le
truppe alleate, uscirono
bentosto in campo ; lasciando
il terzo delle
milizie urbane in
guardia di Roma. Fabio
n andò di
fretta coIF esercito
su gli Equi fra’
Tuscolani : li più
di quelli saccheggiata
la città, sen’ erano già
ritirati : ma pochi
ne difendevano ancora il
castello. E questo assai
forte, uè bisognavi molto presidio.
Adunque alcuni dicono
che le guardie del
castello, dal quale, come
elevato, scopronsi dj leggeri tutti
i dintorni, vedendo uscire da
Roma un’ armata, lo
abbandonassero
spontaneamente: altri però
dicono, ebe postovi da
Fabio l’ assedio si
renderono a patti, e
passando sotto giogo
ebbero in dono
lai vita. Fabio venduta
la patria ai
Tnscolani, levò l’eaercito
sul far della
sera, e marciò di tutta
fretta coiv tro a’ nemici
^ Equi e Volsci che
accampavano, come udiva, con armata
numerosa intorno alla
città dell’ Algido. Viaggiando tutta
la notte si
trovò su l' alba
a fronte dei nemici
alloggiati nel piano
senza vallo, senza fossa, come
nel proprio territorio',
con disprezzo degli avversar). Or
qui confortati i suoi
a farla da valentnqmini, piombò prima
sul campo nemico
con la cavalleria, mentre i frati
alzato il grido
militare la seguitavanoAltri furono
uccisi che dormivauo, altri che
sorti appena davano all’
armi, e volgeansi a
resistere : ma li. a53 più
gettaronsi alla fuga e
si dispet^ro. Presi
con molta fiicilltà gli
alloggiamenti, concedette a’ suoi
che vi s’impadronissero di robe e
persone, salvo quanto
era dei Tuscolani. Non
istette quivi gran
tenapo, e menò 1’ armata'su
la città degli
Eccctrani, riguardevolissima allora tra
quelle de’ Volaci,
e fondata in fortissimo
luogo. Tenutovisi più
giorni da presso
coll’ esercito su
la Speranza che quei
d’ entro uscissero
per combattere, nè uscendone ; diedesi a devastare
la loro campagna
piena di bestiami e di
uomini; non avendone
gii assediati ritirato prima ciò
che v’ era
pel troppo repentino
giungere dèi nemici. Fabio
'lasciò che i soldati
facessero anche qui le
prede per loro, e consumati più
giorni nel farle
; alfine con essi
ripatriò. Cornelio T altro
console mossosi contro i Romani
di Anzio, e li
Volsci sen’ imbattè colr esercito
loro che l’aspettava
a’ confini. Fattovisi alle mani, uccisine molti, e fugatine gli
altri, s’ avanzò col campo fin
presso fe mura:
ma non osandovisi
più uscirne a combattere ; prima
desolò la lor
terra, e poi ne rinchiuse la
città con fossi
e steccati. Vinti allora
dalla necessità, ne uscirono novamente
con tutte le
forze, che erano molte
si, ma disordinate. Paragonatisi
in battaglia, sostenutala,
ancor peggio, e fuggitine scoraggiti e svergognati, si rinserrarono
un’ altra volta
tra le mura. Il
console non dando
ad essi tempo
di riaversi, portò le scale
alle mura,, e ne
abbattè con gli
arieti le porte: e cenciossiachè da
entro vi resistevano
affaticati e languidi; ve li
espugnò senza molto
travaglio. Quanto eravi monetato, quanto di oro,
di attuto, di rame,
fe’ portarlo neU'erario : gli
schiavi, e le altre prede
le fe’ raccogliere
e venderle da’ questori
; lasciando a’ soldati, quanto ve n
era, alimenti, vesti, e cose •
altretuli di lor giovamento.
Poi scelti tra i
coloni e t^a gli
Anziaii nativi i capi, clie
eran, molti, più cospicui
della rivolta, e battutili lungamente
e decapitatili inSne, si ravviò coir
esercito alla patria.
Il Senato usci
all incontro dei consoli
che tornavano, decretando che
ambedue trion lasserò: si
concordò, per finire
la guerra, cogli
Equi, che aveano perciò
spediti oratori, e nei patti
fu, che ritenessero le cittò, e eie
terre che aveauo
nel tempo che si
conehindeva la pace, ma
ubbidissero ai Romani; non
pagassero tributi, ma
somministrassero ideile guerre, come
gli altri alleati, truppe ausiliarie.
secondo >1 bisogno : e con ciò l’
anno spirò. XXII. L’anno
appresso fatti consoli
Cajo Nauzio per la
seconda volta, e Lucio
Minu^io ebbero per
qualche tempo guerra domestica
su’ diritti civili
con Verginio e li
compagni di lui, tribuni
già da quattro
anni. Ma poi venendo
alla città guerra
da-’ popoli iotorno, e paura che
le tógliessero il
régno ; presero con
trasporto l’ evento come dalla
fortuna : e fatti i cataloghi
militari, divise in tre
parti le milizie
interne e confederate, e bsciatane
una in città
sotto' gK ordini di
Fabio Vibolano ; essi
alia testa delle
^ altre uscirono immantinente, Nauzio contro
de’ Sabini, e Minucio contro
degli Equi. Iniperoccbé questi
due popoli s’ erano
di que’ giorni
ribellati a’ Romani : li
Sabini manifestamente tanto,
che si erano avanzati
sino a Fideue, città
dominati da Roma,
Roma Catone Varrone. I. a55 che
ne era distante
quaranta stadj ; laddove
gli Equi ferbavano colle
parole i ^diritti dell’
ultima pace ; facendola nelle opere
da nemici, con
movere guerra ai
Latini, confederati di Roma, quasi
i^el trattato di
pace non ressero mcbiuSo
ancor essi. Comandava
l’armata loro Gracco delio
^ uomo intraprendente, che avea
renduto quasi regio il
potere arbitrario di
cui era stato
adornato. Costui ne andò
fino al Tuscolo, città pigliata
e saccheggiata ancora nell’ anno
antecedente dagli E^ui,
che poi ne furono
espulsi dai Romani, e rapi dalle
campagne quanti uq sorprese‘ uomini in
copia e bestiami, guastandovi i
fruiti, buoni già da
ricoglierli. E giunta un’ ambasceria,
dal Senato per
intendere le cause
per le quali guerreggiavano contro
gli alleati de’Romani
quando erasi di fresco
giurata pace^con essi, nè
frattanto era occorso disturbo
alcuno tra’due popoli, e dovendo questa ammonir Clelio
a dimettere i prigionieri che
avea di quelli, a ritirare 1’
armata, e ‘ subire il giudizio
su le ingiurie o danni
fatti a’ Tuscolani ; colui
s’ indugiò lungamente scuz’
abboccarsele come impedito dalle
occupazioni. Alfine quando gli
parve tempo di
ammettere r ambasceria, e
quando i. membri
di essa ebbero
espresso gli annunzi del
Senato $ egli Soggiunse:
Mi meraviglio, o Romani, come
voi per^dominare e tiranneggiare., temale per
Turnici lutti gli
uomini, anche senza esserne
offesi. Voi non
permettete che gli
Equi si venr dichino
de' Tuscolani, contrarj
loro., senza che
ciò si concordasse nella
pace, firmala con
voi. Se dite
che abbiamo oltraggiato e danneggialo
voi ; vi rinlegretemo
a norma de' patti
: ma se venite
a chieder conto Digilized by
Goc^le 2 56 dell?: Antichità.’
romane su Tuscolani ; nienle
vale, che a me parliató, o vai quanto parliate
con quella pianta;
e frattanto additò loro un
&ggio , che prossimo
frondeggiava. I Romani cosi vilipesi
da colui non
cavarono subito, abbandonandosi
all ira, gli eserciti
: ma repUcarono un
altr ambasceria, e mandarono i Feriali
che chiamano, uomini sacrosanti,.
per attestare i genj
ed i numi, che essi
porterebbero, necessitati, una
guerra legittima, se non erano
soddisbuti ; e dòpo ciò
spedirono il console colle
milizie. Gracco all’,
intendere che i Romani venivano,
levò l’esercito, e lo
portò più ad dietro,
seguendolo pasto passo
i nemici. Egli volea
ridurli in luoghi da
vantaggiarsene ^ come addivenne. Imperocché tenendo
in mira una
valle cinta da
monti, non si tostò
i Romani vi s’ internarono, egli voltò
faccia, e si accampò su
la strada che
conduce fuori di quella.
Segui da questo,.che
i Romeni misero il
campo non dove il
volevano, ma dove la
circostanza lo permetteva. Ivi nè
era facile il
pascolo pe’ cavalli, per.
essere il luogo chiuso
da monti ripidissimi
e nudi ; nè facile I dopo
aver' consumato quelli
che portavano, procacciare a
sestessi gli idimenti
dalle terre nemiche, o mutare il
campo; standogli a fronte
i nemici, e, proibendone r
uscita. Risolverono dunque
usar la violenza, e cacCiaronsi avanti
per la battaglia
: ma respinti e feritivi largamente si
richiusero fra le
loro trincee, delio inanimato dal
buon succedo li
circondò con fosse
e steccali, su la fiducia
che premuti dalla
fame gli si
(>) Lìtio chiama
quèrcia quella che i
delta fiisgìo da
Dioiùgi.. 2,5'J
reoJerpbbero. Giupta in
i\oma la ao|ia
di ciò. Quinto FabÌ9
lasciatovi comandaute, scelse
il fiore ed
il nerbo suoi militari,, e li spedi
per soccortere il
console, sotto gli ordini di -Tito Quinzio
uome cousoUre, e questore. Mapdò, oopomeno letiére
a rCsuaio ra, e le .altre
insegne ornamento un tempo
de\. re. Saputo^
che Roma .oIeggeval(> diltàtore, non solo
non ' si rallegrò di up 4anio
onore, ina conr tuebandoseoe disse, adiaufue per
io mio occupdzioni perud',pw e il
fi allo di
ifUest' unno e noi.tidti
rje avremo grande il', disàgio
! Dopò ciò recatosi
a Roma ( 1^, confortò su le prime
i cittadini con discorso
al (•y'-Amio li Roma
agS secu'mla Caloof, ajS
fecondo Vsernas, t 4^ sv.
Lfista. •. ZJYw.v/(;/. /tZf 'popolò'
dà'enapierlo di beile
speranze! Poi'^coavocAti mai i giovani
dalia Oittà' e dalia
campagnì, soncenlrate le
truppe ausiliarie, e
nominalo maestret de’
cavalieri .Lucio ' Tarquinio,
'ignobile per la
povertà ma nobilissimo in arme,
Usci coll’esercito riuaiio
e gianto >af questore Tito
Quinzio c6e io
aspettava, prese ' pur le sue
schiere, e né andò' sul
nemico. Appe'Oi# ebbe
considerata la natura de' luoghi
ov’ erano gli accampamenti cOilooò parte
dell'armatA ntdie aliuiié
onde precladerc agli ^quà i
sussidi ed i meri,
e' riieneodo 'seco le ah re
naHizie lé avanzò
cOn -ordiqe de
'battaglia, GleliO phnto tion
si sbietti, perocché nè
la sua gente
era poca, 'Oè poco il
cor suo nella
guerra, e lo seooti^
nel sUo^ giagnerè, e ne sorse
una pugna ostinata;
Era decorso buon tempo,
e li Romani oom'e
cresciuti ’fi'à''' le arme rinovavansi Ognora
al travaglio, e
la cévallérià soccorrea |yron;a ove
erano ì iaHti'iti pericolo.
Criccò dunque Eopra0altone,
si ritirò nel
suo cantpo. Quinzio
' éllora 10 cifis^e con
aho steccato e torri
frequenti, e' quando seppe a!6nc
che penuriava' de’ vivevi, lo
investi con assalii contigui nel
stio oéntfpo,' ordinando a hSinucfó
che uscisse dall^altVà parte.
Esausti gli Equi
di viveri, disperaii di
un soccorso, -e
streiii per ogn’
intorno Halr assedm, furouo nécéssitéti
à prender ibr&a dì '
su[^ {tlichevbli, e spedire a
Qoìozìq per la
pace. E colai replicò che
la daitebbe, 'e lasccrebbe
agli Equi iSalva
la persona, se deponessero le
arme, é passassero ad' uno ad
uno sotto giogo:
traliersbbe però' qual nemico
Gracco 11 capo tkUa
guerra,, e gli altri
consiglieri delia rivolu. £ qui
comandò che gli 'recassero tali
'^ùoraiai in ferri. l turno X. a59
[/milìaVaiui gli Equi' a lutto; quando' egli
ordioó, che giacobè aveano
senza "esserne oilest
previamettie, soggettilo e derubato
il Tuscolo città
coufederau di Ruma, essi
consegnassero a lui ' CorbioBe -,
città loro perchè
ne lutasse altrettanto. Prese
tali -rrsposta partirono
gli oratori, e dopo non
molto tornarono traendo
.con st Gracoo è i Compagni
incatenali. Essi poi
cedute le arme, e lasciate 'le trincee
t ne andarono ^so
t(o ^iogo, come era
il volere del
diltaiort,. à traverso
.del.èaiupo romano.
Consegnarono tiorbione, e ebn restituire,i
prigionieri tuscolaai
ottennero soUmeotè che
ialiti prima ne uscissero
gli uomini iagfenai. Quinrio ricevuta
ht" città, comaodd che.
le prede pià -wgqardevoU sr
trasportassero in Roma, .concedéndo che
le altre si
dispensassero tra’ soldati
venuti con esso, e tragir
altri spediti prima
con Quinzio il questore
;, e" soggiungendo, che a^
soldati rinchiusi mi console.
Miiiudo avea dato
ànjplissimó lono, quando li rivenaiet dajla morte. Ciò
'fano, obbligando Minucio.a
dhnettérsi djl suo
grado, si ripiegò
verso IVoma, e'ne menò.
Uionfo luminoio, più.
che tutti .i
duci meuatoIo avessero
perche in sedici
giorni de’ die avea
preso il còniaotfo, 'uvea salvalo
l’ esercilò anaico,
disfatto i’ altro
floridissilno de’ nemici
; saccheggiata la loto
città, messavi guarnigione, e
comku va • séco In catene
il capo, e. gli
altri primarj di’qneUa
gueira. . FaoeVa soprattutto
ùieravigliu die avtmdo
ricevuto quel magistrato
per sci mési non
sei tenne quuito
eonòedeva la'> legge
: • ma coni vocata la
plebe, e ragipjiatuJe delie cosr
operate ; lo depose. E pregandolo
il Schato che
prendesse quanto vote delleterre, degli schiavi delle
prede conquistate colle armi, e pressandolo che
vivificasse la tenaiti
sua con ricchexaa ginata,
ché egli possederebbe
'glónosrsaitna, come 'tratta
colle proprie iàticbe
dal nemico', ed=o(fe rendo'gli' amici e pai'enli amplissimi doni, e pregiando più che
tutto' adagiare un tal uomo, egli
' lodatane la cortesia, non
prese nulla, ma
si ricondusse nel
piodolo suo campicello „ ' ed
antepose ad nna
splendida vita la vita 'tua
travagliósa, nobiliubdosi
per la ^povertà,
più che altri .non.
sogliaho per l’ opulenta.
Dopo non molto Nanzio
f altro console vinse
in battaglia i vamente
le armi contro
de’ Romani, e
scorKroacchegjgiando assdi della
lòr terra tanto
che quei che'
veai vano int.copia fuggendo
dalle campagne, dicevano
tatto in poter loro, quanto
è tra Fidene e Cmstumera^
Anche gli .Equi sottomessi
ultimamente sorsero^ im’ afira
volta alle armi:
e recandosene > tra la
notte i più robusti a Corbìone, città ceduta
da essi Panno
antecedente ai Romani, c sorpresavi, la gnamigioDe
nel sonno >; ve la
uccisero, salvo podhi‘^
che" per .ventura
non v’ erano.
Gli altri marciarono ju
gran moltitudine contro 'di
Ottona, Anno di Roma
397 'secondo Catone,
399 seconda Varronc,
a 4S5 Cristo.' . olimpiàde otlan dr
Gitene vinse cìni de
Latini, e -presala a prim’
impeto, fecero per la
rabbia su gli
alleati de’ -domani, docebè non
potevano su’ Romani medesimi
' uccisero tutti > puberi, eccetto quelli -ette efan
fuggiti udì’ invadersi della' cillà-r rende-, rono
prigionieri, donne, fanciulli,
vecchj,, e raccoltovi in fretta
quanto poteano trasportar
di pregevole,' ripar tirono prima'' che
v’accorressero tutti.! Latini.,11
Senato saputo ciò da’
Latini, e da’ militari salvatisi
della guarr. nigione,
decretò di 'iàr uscir
le milqsie y e con
ùse i due consoli.
Ma Verginio e i colieghi, tribuni già da
cinque anni davano
a ciò ritardo, opponendosi come negli
-anni antecedenti alla
scelta militare,, che faceasi pe’coqsojij.u reclamando
che. si Sdisse
prima la guerra domestica, -con
rimettere al popolo
l’esame della. legge, che davano
sò la eguagliauaa
.dei diritti : e la
plebe ooadjuvava t ttibaui che
asiaf malignavano, contro, del Senato.
Imapto temporeggiandosi, nè comportando
i consoli,’ che si facesse
in Senato il
previo decreto su la
legge e si proponesse
al popolo né
volendo i tribuni concedere la
leva e la marcia
delle, milizie, an^i
facendosi accuse inutili e dice^e
vicendevoli belle concioni
e nella curia,, alSne
fu ideato da’ tribuni -uu altro
disegno^ che sorprese l padri
e chetò >U sedizione attuale,^~ma fu causa di
molto ingrandimento per il popolo:
ed io sporrò .come
il popolo se
lo ebbe questo
incremento. Essendo
manomesso e predato il. territorio de’ Romani
e de’ cOufederati, e
spaziandovisi i nemici come per
una solitudine su
la speranza che
nou 'Uscirebbe oontr’ essi esercito. alcuno a causa
dcHe sedizioni di Róma,
i consoli -adunarono il Senato
per consultare come sy
pericolo estcetno. Tenutisi
raoUi discórsi, liichestò il
primo dei parer
suo Lucio(^uiozio, il> dit latore
dellVarìBO, aotecedents,
>ttomq,noo/^solo -il più grande
allora fra le
armi',; ina creduto ancora savissimo nel govefoo',
propose il coniglio
d ^ale poi persuase più
che tnttq'i tribuni
e gli altri, che
si dij^erine in tempo
più accóncio t esame
allora ‘non riecessario della legge,
è si /accise con
tutta prontezza la
guerra alfutJe’, scorsa ornai
/no, su la
etllà r nè si
perdesse imbeflemente e
Mtuperosasnente il comando
con tanti stenti acqmstato.
H che se il
popolo non -ià-s'
tmiceva; si armassero
patrizj e clienti, conguanti
altri vòleano far causa
con essi in
qaeil aringo ‘nobilissimo della patria,
e ne andassero ardenti
al nemico,pren^ dendo per
duci dell andafpiento
i Numi 'protettori di Roma. Imperocché
ne verrebbe lune
'o laUi^ buono e bel
fratto^ vuoi dire ò
che riporferebbefo ima
vittoria la più gloriósa
fra tutte le
riportate "dai loro ptaggiori, o che magfianimi'
niorirebbero pe' beni
che sìeguòno la vittoria.
'Annnnzìaira c4e> egli
stesso ^n si ricuserebbe
a tanto .esperimento, ma presento
vi pugnerebbe' qeaniq i più
coraggiosi', e ‘che rpempieno manchérebbevi alcuno
seniori che amasse-.la
libertà e li buon nome. Così
piacitito a tutti, Senza che
alouna vi ù -óppon%sc, i
consoli convocarduo il
popolo.' Cbacorsi quanti
erano in Roma
come per ndieofa
di nuov^ co se,
fattosi innanzi Cajo
Orazio, l’uno de^ consoli,
tentò volgere spontaneamente i plebei
anche alia guerra
pre sente. Ma perciocché
i tribuni vi 'ripugnavano,
'ed i LTUno X., 263 plebei,!a> senti vn coq
essi; recatoseli console
Un altra volta in
tneszo disse : Beìia
marlwigliasa impr^a ifi vero
é^la vostra -o f^ejrginìo
ck^. abbiale stacpatò
U popolo dal Senato
! e cho. dal^ canto
vostro avesstmo già perduto
quanto abbiamo, ereditato
dagli .avi, e ffuanlo .oUepiUo
co')Ttoftrì sudori Ma
noij npn, cederemo noi
questo, senza lordarsi
nemmeno di polvere) ma
impugnando le orini
con .quanti vprrap
salva la patria ne
andremo al cimento,
i^erantiti su la
bontà dell’impresa. E se àLui}' Dio
rimìui. le belle.,,
le' giustissime imprese') se la
sorte che da tanto ' tc/Apo
prò • spera questa cillà
-, non t ahbqndona
sqibnontereniò il nemico., Ma
se alcun, Dio
me gravita. sopra 4 c’
ci si oppope
per, bt salvezza . di -Jiqma
) certo JC voler nostro
x di nostra propensione
non perirà-; che Jortissimamente per
la pat/ia moriremo.
'E voi li
belli, U generosi capi che
siete di ' Roma, guardata pure colle
vostre mogli le
case, abbandonando e tradendo noi:,, ma
nà te noi
vinciamo onoràta sarà la
vostra vita, nè sicura
se perderemo. Se
pur non siete
‘animali (lidia misera speranza
che inémici dàpo.' rovinati i patrizj, preserveranno voi
per gratitudine, a
coricederànuo che godiate
la vostrd patria,
la libèrtà, il comando, e tuUi t befù
-^/ie ora v’
avete. Sb, questo appunto a voi
copeederanao cfue’ nemici a'
quali men / tre vói
pensavate pìà 'saviamehte
avete levato tardo iersìtorio, distratte
ttgtle c'ktà, JaUine' schià^i i >popoli, ed irudzati
toni itrofei, tanti manUmérUi
di nemicizfa, e sì luminosi,
che mai^per età
non perirahpo. Ma perchè
io mi addoloro
còl popolo il
qtude non fu mqi
taUù’o ài voter
non piit tosto
o Vt^fginìo con Voi che per si
bella maniero, io dirigete
? Noi' certo necessitali b. non
-pensar bassamente noi
deliberata abbiamo, e ninno
cel vielirà, 'difarci a combattere per la
patria: jna voi
che abbandonate, voi
che ^ tradite il comune, voi
neavrete condegna, irreprensibil vendetta dal
cielo: nè' fuggirete ‘già questa,
se quella fuggite degli
uomini. Nè crediate
già che io
ciò dica pertatterrirvi : 'ma
sappiate che quanti
siano qui lasciati per
guardia dèlia città,
se mai gf
inimici prevalilo Ho ^ ne
destineremo come a noi
si conviene.' Se od
alcuni^ ìfarbatì, ornai tra
le unghie de'
nomici, venne in cuore
di non lasciare
ad essi' non
le mogli, ~hon i figli, non
le cùlà, ma
di ardere .gueste, e di uccidere 'quelli; non
farànno altrettanto sé"
li Èomani de' quali
è proprio il dominare.?
' Certo' degeneri non
saratmo : ma còmi
notando da vqi
> che' nemicissimi Stata,s. ogrii
amica\lor cosa distruggeranno. ^onsidarMe ora
up'i questo, ié> considerandolo ; fatevi -le adunatvte e le
leggi. ' ~ • Detto tali
^ose e ‘molte consimili,
presentò li più provetii
de patrie] che
piangevano. A tale''s[>euaoolo
molti del popolo
boa contennero nemmeno
essi le la gtime:
t destatasi grande commoxlone
per gli acmi e
per la maestà di
tali uomini, il
console sopraÀandò alquanto disse : 'Impugneranno questi
seniori le 'armi
per voi giovani nè' voi ve
nè' vèrgognelete, occultandovi'
fin .sollotarm é" vi
terrete lontani da
questi duci, che padri
sempre, avete nominati ? 'Sciaguo^i
voi ! nè degni pure
di èsser detti cittadini -di
questa èittà fonSala
"da c'olbro che
àveano por iole
fpaile il padre, aperto
loro dà numi
lo teatnpo ^ra
le armi e le fiàmmè Catm Yergioìo
temè ciré il
pòpolo fosse commosso dà)
quel discorso per
non SDfhii{V 'dl
dover mettersi quella
guerra coOlro il
sub dire, fecési
avanti' e soggiunse; Noi non
vi abbandoniamo'né. Vt'
6-adiamo, Hè mai vi
.abbandoneremo o padrii come
per addietro mai'^ foste da
noi derelitti su,
et impresa niurtae
di mettere custodi' delia
libertà te leggi
a cui tutti ubbidiscano^ Che se
ciò vi .sa
male p, Se
sdegriate concederle a' vostri
cittadini questa grazia,'
e'^ riputate com’
essere la mocte. vostra
ammetlére il popolo nelC eguaglianzd; non' pià
vi darem briga
su dà, ma vi
chiederemo ' altro' dono, avuto
il quale farse
noh avrem pià
bisognò di nuova legislazione:
se nonché ci
vien paura che non
ottérremo nemttten questo, sebbene non
sia ponto lesivo dei
Senato, e sia ^uUo bmief
ceedonorevole al popolo. E replicando
il 'consoleche se rimetteanb
la istanza vai Senato, non
sarebbe oegata loro
cosa, che discrcia fosse-;
ed invitandoio a dire
ciocché dimandasero, '
Verginio abboccatosene alquanto
^co’-suoi colleght rispose,
che lo
dirèbbe al Senato,
'fiopo ciò Ji
consoli adnnarooo il Senato, ed
egli venutovi ^ e divisatovi quanto edmpetevasi
al po>pólo, chiede
che si duplicassero i magistrati del
pòpolo, ed .ogni
anno in luogo
;d> ciò que ài
nonaipaiserD dieci', tiibuni.
Alcuoi, ca{>0 de’qaaii era
Laoio QuipzioV àatorevolissinto Pilota, in
v Senato, pensavano clie.ciò pon.
offenderebbe Ja repubblica e ooDsigll nico vi
si'dppose Cajo Claadio, figlio di
Appio /dau dio, deir
avvertano 'perpetuo a voleri
del popolo, se non erano
^a nórma 'delle,
leggi. Egli ereditati
i ' sentimenti del padre, impedì
quando. fu console che
si concedesse ai' tribpni
d. inquisire contro
de’ cavalieri, calunniati di
congiure, ed ora
con iuiligo ragionamento
di^ mostrava, che il popolo
non diverrebbe più
moderato e più docile y ma
più incansiderato e più
grave. lùiperocchù appelli
che sarebbero ' dt
poi giunti 'al
iribonaio noi prenderebbero gii'
per questo eoa. legame'
.che li tenesse ai
patti, ma beP. presto
tratter^bero di divìsioue di 'terre 4^
dl,e^[}ia|ità dì drritir',,e
certdtei;ebbera parlando e
..brigando de cqiUe
cose, estensive 'delia potenta del
popolo, eotne dmpaqenti
1 onor del
.Seoato^.-ìlfosse ntolti tH^ tal
dire graodemeote i.
ma Quinzio a ritrasse ammaestrandoli voler 1’
otite del Sedato
che i tribooS si
moltipKcttseil, giacché i
molti men 8’ at^rdan
dei poclii t esser
rocspediziooe>^ Toccò a MìducÌo
Ja gaem co’
Sabfm ad Orazio
1 altra' eoo
gli Eqaiye ben lostb marciarono ‘atubedi^e. L Sabini
gtuuy dando le Idko
città.; non curarono
.'che' ì Romani si menassero >6
portasae.ro quanto .r’ era
pez le campagne. Gii
Equi a|ledirono 'Ito’ armala' per coalrxitarli;
ma -tutto ebe pugnassero nobilissimamente / non
poterono superarli, e si ritirarono
ne^sitatt oeile loro^
città, perduto il castello
pel quale avaano
co/nbattùlo'. Orazio respinti i nemici, -iPatto assai
danno alle, lor
itette.^ abbattè le mura
di Corbinne r ne
rovesciò da’ fondamenti'
le mse, e -ricondusse in
Roma l e(wreito. Sotto Marco
Vaieriòy e Spurio Verìpoio
consoli delH anno segne'nte,
non osci dà’ confini
nato, e • convoràlv. il
Senato. E condosslachè un
littóre, comandatone,
rispinse Taraldo ; icilio
e i suoi coUeghi degnatine presero
e trassero 'il littore me per balzarlo ^la
‘ rupe I consoli tuttoché
sen tenesseró 's[^giatls$inù non poteano.fiir
violenza, e redimere quel
prigioniero: e''^i volsero ptf
ajuto agli altri' tribuni-: 'Perooché niuu pifò
sospendere p proibire gli
atti di alcun tribuno,
se non quegli che
tribuno, sia parimente
giaqchéji tribuni s’ erano
preoccupati già, da molti e potenti.
Unico -contraddisse .a.tal
dire Caju Claudio,
comprovandolo molti ; ma
-si decretò che il
silo al -popolo sì
concedesse. Dopo ciò.
presenti i pontefici,‘ gli auguri,
e due sagrificatori, fatti secondo
il rito.sà^ifizj e preghiere, e
convocati da’ consoli
i 00niizj centurìati si
'confermò la leg^e, e descritla sQ
colonna^ metallica, e portata
ne|l’ Avventiòq ' fu
collocata nel tempio di
Diana. Poscia coqgregatisi J plebei
tirarono a sorte il suolo
dove fabbricare e fabbricarono, occupando ciascuno, lo
spa^o che poteva.
Unironsi al-r. • i r edifiso
dì qò^lcke cak
due o M' pèrsone, e talvoiu piùancora, prendendosi
uno i pianterreni . e
gl! ahri i piani,'àupdnori. E 'cosi
tl’. armo si
consumò eoj^i^bbricare. Riusoi
pesò complicatò e varìo e pieo di grandi
avVenluee l’ anno
seguente (j)’, nel
optale eletti consoli .T'ito' Ro™iliO e Cafo
Veturio, furono riassunti al
Hribanale ‘Icilio e i
coUegbi. {mperoccfaè fu
di nuoro suscitata da’ tribuni
la dril sedizione
ebe parea venuta ihene;
e sorsero guerre dagli' esteri
: ma queste non 4^e
danneggiarla, ' giovaróno
non poco la
repubblica, non toglierne gl’
in^rlH diSsidj ; essendole’
consueto e viceodevole di '
esaére ’anaoime tra
le guerie, ma
discor> diosa' nella pace,
distraiti - di ciò
quanti salirano al
con- solato prendevano eoo trat^rtOi
se nascevaoo,Te guerre cogli
esteri. E ce i ^oemìd
erim' 'cheti ; essi
stèssi finge- vano’ manoanze pretesti
0' debi- ^litavasi tra lo
sedizioni.' Animati nel
modo 'stesso i-'oOn soli 'di quest’'am^,
deliberarono cavar 1' esercito'
contro L taemìci spi timore che
i' poveri e gli
oziosi. qoaiìn- ctassero a
perturbare - la pacel
Or essi- ben
la rutebde vano,'cbe 'vuoisi-
distrarre la mollitudioe
ndle gtiè'rre cogli esteri
i’hia non beò
intendevano com’ eseguiscasi.' '
Quando avrebbero dovuto
flir leve moderate
ì Qotìae ilo città mal
affetta ; si diedero
a 'castigarvi colla forzà
tùtii i ’ranitenti i senza Cfonsazione
o dispensa, iriando ine- sorabili ^il rigor
4elie. leggi sù
gli àVen> e su
le persone. 'ny Anqo
di' Roma agg secoodo
Calooc, joi seoondo Varroue,
a 453 av. Critto.. Presero da
tal proceder^ occasioae
di bel onovo
i tri buoi di concitare
la plebe ; e radonatala, vi strepitarono per più
cause, come ancora, perchè aveano. .fatto portar nella
carcere molti che
reclamavano 1’ ajuto
de’ iriboni: e dissero che'
essi che soli
he aveano l’ autorità
dalle leggi, gli assolveano da
quel rechi [amento. ' Vedendo però che
niente ne profittavano, anzi ' che
laccasi la coscrizione piti
severamente, incominciarono ad
oppor visi co’ fatti.
E resistendo I conscM .colla
forza del grado loro
; sen fecero altercazioni
e scaramnCce. La tenea
pei consoli la . gioventù patrizia, ma
teneala • pe’ tribuni
la turba oziosa e povera
: e quel giorno assai prevalsero i LODSolif
su' tribuni. Ne'
giorni appresso versandosi
in> città più turba. dalle
campagne, i tribuni, vedutisi
òmai con forze' da
contrapporsi, convocarono
assai spesso il
popolò-, ^e mostratigli'! ‘minbui loro
malconèr ' dalle piaghe, prolestaropo che
deporrebbero il magistrato
se non erano da
esso gàraoliti. Irritatasene
la nioltitudiée ; dt^'no
i coiv soli a ' dar conto
al popolo del
procedete' loro. Nóp
gli attesero questi; ed
andatine i 'iribòni alia
curia ove il Senato ^a^e va 'già
consultandoqe
lo.aupplicaroooi a non
trascurare essi tribuni,
offesi -bruttisiihiàmrate,
uè il spopolo, che
era dell’ aita
loro privato. -^E qui ùàrracono quante ne
aveano sopportate da’
consoli, e le mapohinazioni di
quesb contr essi
ond’ erano svergognati'
non pure flel grado ) ma' nelle penonc.
Laonde chiedeaao che ^.consoli
facessero l Una
delle due, vuol dire, se
negavano di aver
fatto . cesa vietata datie
leggi controde’ tribuni
vemsserò e giurando Ift
negassero all’ adoaaaza ; se
di giurare non
sostenevano, venissero, c vi
rendessero, conto ; e le
tribù entenziereLbero su
loro. Si difesero i cousoli,. dando a vedere
ebe i tribuni erano la
origine de’, mali, per
la caparbieti, per l’audacia di
profanare Je persone
de’ consoli, prima con
avere imposto aisatelliti jorp 'e
agli edili di
portare in carcere uonjini rivesliti
di ogni potere,
e poi con tentar
di assalirli col raeazo
de' plebei più
temerarj ; e qui sponeano quanto fosse
il^ divari a dalla
tribunizia alla, consolar dignità, piena 'questa di
regio potere, e nata
l’altra solo per protegger'
gli ttppressi. Tanto
esser lungi che
potes^ro far votare
la moltitudine contro
de' consoli, che noi póteauo
nemmeno contro il
minimo de’ patriz|
senza un decreto espresso
del Senato. Pertanto
'minacciavano, se i, tribuni
faceano' votar la moltitudine
di dàr. rju’me a
patria). Continuandosi ‘ppr
tutto.il giorno i
pochi contro de) ' r • . Vedi Ii
che si ripiegasse lo
sdegno su’ lor
fautori, castigandoli a
norma delle leggi. Se
quel giorno i tribuni
trasportati dall’ira lanciavansi
a far cosa alcuda
contro del Senato,
p de consoli, niente avrebbe impedito
che la città
di per sé
rovinasse. Tanto eran tutti
pronti per armarsi
e .combat Uni t Ma perché
sospeser 1’ afiàre, dando
' a sé tempo per meglio
consigliartene; serbarono essi ' moderazione, e r fra del
popolo n'n fu
mitigÀa. Intimarono pel
tc^'zo mercato dopo quel giorno una
assemblea popolareove
condannire; i consoli ad
una emenda in
mgeoto, e sciolsero 1’ adunanza.
Approssimandoti pe^ò quel
-giórno desisterono anche da
lah intrapreta dicendo,
di coneedecp ciò alle istanze
di uomini i più
'venerandi per anni e
• per grado. Poi
congreg-indo il popolo;
dichiararono die essi rimettevano
le offese proprie, sul
desiderio di motti buoni,
a’ quali nop era
lecito contraddire : ma
che le ingiuri^ fette
al popolo e punirebbero
queste, anzi le
toglierebbero. Imperocché diretumente
aggiùngerebbero tra le leggi
pnr quella su la divisiori
delle terre differìlit ornai
da treni’ anni, e quella su’
diritti eguali r • N. ’ Kel lesto
v^it nuot’aiiante, forse ot
nè per dono,> nè
per compera, nè per
altro legittimo mezzo
che^ possa dimòstrarvisi. Se
ne avessero questi
dimandata parte pià grande, che
noi dopo • avere
come noi tra~ vagliato
neW acquistarle ; certo
non sarebbe stato
de gno di uomini, degno
di cittadini che
pochi si ap propiassero" ciocché
era di tutti;
ma pur stata
una causa vi sarebbe
a tanta ingordigia^ Ma
quando non potendo dimostrare
alcuna opera grande
e magnanima per la quale
si tengono ciocché
è nostro, non sen vergognano
'né lo
rilasjdano y nemmeno convintine
; chi potrà comportarli? Or su,
per Dio, se
io nfetilo in ciò,
venga chiunque di
questi onorandissimi, venga, e
dimostri per quali
splendide e belle gesta presuma pià
parte di me.
Forse ha guerreggiato
pià anni, in pià
battaglie, con pià ferite, con
pià onore di po
rotte di
spoglie, di prede, o di cUtre
marcfm da vincitore, per le
quali /’ inimico
se ne umilia, e la, patria > magnificata ne
sfol^ra ? Dimostri il
decima almeno di quanto
io v ho dimostrato.
Per, certo i pià d’ essi
non potrebbero allegare
nemmen. la minima parte
delle mie gesta
: anzi alcuni di
loro non par.^ rebbero
di' avere sofferto nemmen
quanto il popoletlo pià
basso. Grandi essi
ne detti, noi sono
certo nelle armi, pià vagliano
contro l' amico, che a fronte dell' inimico: non
pensano essi di
avere una patria a tutti comune, ma
propria di loro, quasi
non siano stati per
noi liberati da’
tiranni, ma dà tiranni
ab-^ biano noi preso
come un lòt
bene. Questi (perocché bacaselo /e
ingiuriò continue pià o
men ^andi j eh tutti
sapete ) sono giunti
a tanta in scienza
^ efu^.non soffrono che alcuno
di noi dica
libere yoci, o che solo
apra la bocca
su la patria.
E 'Sputió Cassio, quello che
ptimó^ parlò su
la le^e agraria-,
quello che illuitre per
tre eonsólati, e per,
due trionfi gloriosi, e che avea
dimostrato tanta solerzia
nel comando nplitare e civile, quanto niun
altro in quei tempii
qùeH' uomo si
grande lo accusarono
i con•soU’j come intento
alla tirannide, lo
sopraffecero con falsi teslìmonj, e,
Jìnalniente^ precipitandolo dalla rupe,, Io uccisero',
nè per altra
cagione se iwn
perché era V amico della
patria e del popolo.' E Cajo Genuzh) tribuno'
vòstroche riproduceva dopo
undici anni la stessa
legge, e citM>a in
giudizio i consoli deir anno
antecedente come trascurati
'a compiere i v decreti
del Senato tu
la partition delle
terre, lo lèvaron di
mezzo appunta il
giorno avanti, il
giudizio con occulte maniere
i non potendolo colle
manifeste. Donde tte venne
.a successori grave
timore, e niun più st
mise a quel rischio
: e già sono trend
anni che sopportiamo, quasi perduta
il nostro potere
nella tirannide. Ma lasciamo il
resta. I magistrati vostri attuali, quelli che
voi avete rendati
siseri per le^e ed
mvMabili, a quanti mali non
incorsero per voglia di
difendere gli oppressi
tra 7 popolo ? Non
furono questi ètpulsi dal
Foro a pugni e calci,
e con ogni altra guisa
di vilipendj ? Vò
'siro era V affronto; e voi vel
comportaste nè cercaste
vendicarvene con., i'^g
darne i voti almeno, in
che solo vi
resta la libertà. e Ma
su prendete spirita
o miei cpmpopoUiri. Presene tino
i tribuni la legge
su la partizione
dellecampagne'; _e voi
la confermate co’
voti vostri, nè soffrite pur
voce chi reclami.
Voi non abbisognate
o tribuni di esortazione a questi
opera ; voi posti
vi ci siete, e benissimo fate a
non desisterne. E se
la caparbietà', se là
insolenza de’ giovani
vi' si opponga, e rovesci le
urne in'' che i voti
raccolgonsi, o./i voti vi levino,
o scondita tal, altra cosa
nel' dar de sofì fragi
ntastrate -loro quanta
' il potere siasi
del tri i bunato. Che
se non è lecito
degradar^ i constai, sot topOnete
ai. giudizio i privati, de’ quali
si vatgonó per le
violenze ; e fate che
il popolo' voti
su loro come su
conculcatori delie leggi
sacre y e distruttori del dostro
magistrato. Or Jui
cosi dicendo, ta moltiludibe
nè fa cóm> mossa
tanto intimainente, e
manifestò tanta ira
contro gU oppositori, che,
copie ho divisato
dai princt[yio, non vofesa
memmen tollerarne t discorsi.
Quaodo sorgendo Icilio tribuno
dii^e : che eran
pur buoni 1 suggerimenti di Siccio,
e lan^mcnte lo encomiò,
tuttavia dimostrò cìie non
era cosa nè
giusta, nè sociale negar
la parola a chi vojeya
perorare in contrario, prìncipalmeote' di> acutendosi una
legge colia quale
far prevalece il
diritto alla Ibraa varrebboosi di
occasioni consitnili, qpelK
che non
avevano pensieri eqni
uè ginstì sul
popolo, a turbar la pUè
novamentp, e'rimovetae ciocché
le gio /asse. E ciò
detto prescrivendo ^ il. giorno
seguente ai, contraddittori della
legge, sciolse 1’ adunanza.
I consoli a4umildjili oiuiglio
privato de^'pairìxj più
energici al lora e più
floridi, dimostrarono cbe dovea
leg^ impedirsi per ogni
modo prima' colie parole,
è poi colle opere, se
il popolo non
lasciasse persuadérsi. AdunqH^ raccomandavano a tutti
che andassero la
ma^a al poro ciascuno
quanto più poteva
con amici e cliènti:,
e quindi che alcuni ài
stessero .ed aspettassero
intorno la tributiti onde parlasi
all’ adunanaa, ed altri
in più crttcchj
tna>. versassero il Foro, per
intraccbiudere, il popolo,
é vietarne la riunione. Parve
questo U partito migliore, e prima cbe
il di si
chiarisse, erano molli posò
del Forò presi gii
'da’ patriÉj. Vennero dopo
^ciò li' Iriboni
e li consoli, quando il
banditore invitò chiunque
voleva dir contro la
legger Presemaronsi perciò
molti onesti uomini, ma il
remore e il disordine
non lasciai ascoltarne
le voci. Imperocché qoal
déflli astanti esortava 'ed
animava i di ^ cuori, e quale
gli urlava e'rigettavali nè la
lode'preyalèva de’fautori, né
lo strepito degli
avversar): Sdegna ronsi .protestarono r consoli,
che il popolo
dava prìn cipio alla
vioTenza col non
volere ascoltare: ma replicarono i triboni che
avendo essi ascoltato ben
per cinque anni, non laceano
cosa da odiarnéli, se
non voileaoo più tollerare trite
contraddizioni, e rant^de. Còsi
ne andara il
più delia giornata,
quando il popolo
chiese di votare/ Allora
i giovani patria) credendo
che più non iCoise
da sufferire, impedirono il
popolo che si
raccogliesse in tribù, tolsero
a chi li portava
i vasi de' voti, e battendo e spiugendo, cacciarono quanti
erano a ciò deputati, nè
$en parlivauo. Alzarono
le grida i tribadi e géttaronsi nel _
méz^o di
essi : e questi cederono
e là sciarono die ipvioiati
' passassero ovnnqne, ina
passare ovnnque nob Isàdavano
il popolo'xbe li
seguitava, o quello che tumultuando
e disordinandosi qua e là
per lo Foro moveasi
verso di loro.
Cosi divenne inutile
al popolo il soccorso
de’ tribuni : ed i patrizj
ila. vinsero, nè lasciarono
che si ammettesse
la legge. Le
famiglie che più sembrarono
coadjuvare i consoli furono
le tre de’ Posiumj, de’
Sempronj, de’ Clelj, cospicuissime
tutte per lo splendor
de’ natali, e potenti assai per
amicizie; per ricchezze, e
riputazione, .come insigni per
le imprese nella guèrra.
Si consente che
da questi -dipendè prìncipalmebte che
la legge non
si ammettesse. Nel giorno,
appresso i tribuni prendendo
i l>le bei più rlguardevolT
discùssero ciocché fosse
da ‘fare: e tutti di
comun voto statuirono
di non citare
in giudizio i cposoli, ma i'
privati che erano
stati loro! minjstrij; la
punizione de qudi
ecciterebbe come Siccio'
avvertiva meno diceria contro
del popolo. Adunque
cominciarono dih'geotemcnte a
discutere, quabti 'fossero da :
processare, qpal titolo Ressero
al giudizio e qtialé.
ne sarebbe, '.e quanta la
pena. 1 più buj
di carattere consigliava
nò che si desse
a tutta un aria
di graveùa e di
terrore f in opposito i' più
miti voleano moderazione
e ^clemenza, é Siccio era,il'
capo di questi, e ve
li persuase ; io
djco colui che perorò
per la partizion
delie terre diuonti
del popolo. Parve loro
che si trascùraaserogli àitri
patrizi, e si menassero al
popolo i Clelj, i Posiumj,
i Sempronj a subirne le pene 'delle
opere' fotte : si ! accusassero,’ .di aver soverrbiato
.ed rnipedUo i tribuni
dal forc'uliiiiutre la deftsioQ 'della legger
qaido lè l^gt
facre -dei Senato-e del
popolo,hqn tsoucedoM ad;
alcuno, di p/dl^i ri chiuso
t ed alfine sen
venne il tempo
di giudicare coloro. I cooteli ed i,
patria] (rau questi
i migliori) a^^ sunti per
consultatvisi -opinavano che si
dovesse concedere a! tribuni, la
punigione, affinché i|upedki Uoa causassero male
tpaggiore 1 e lasciare che i
^plebei furi-' Ixmdi versassero
r ira loro sù
le.soÀanxe degli accusati affiprhè paesane
arendeita quanta ne
voleanp, V iirq>Ucidnsero pér l’
avveAire prinoipalmente ché il
danno negli averi potrebbe
risarcirai a chi aosteuevalo.
Or Unto appunto àddivénne.
Imperocché condannati questi,
scnaaapptfrìre in giudizio,
il popolo Inasprito
se ne^raddolci,ì tribuni pensarono
che fossè rendalo,
loro un moderato eivil potere
e sostegno: ed i'patrizj -restituirono ai condannati le lo'to
^stanze reiHmendole, a prezzo
eguale da chi areale
dal pubblico comperate.
Con tali riparisidissiparono i mali
imminenti ^lla repubblica.
Dopo non molto
riprodussero i. tribuni
il discorso su la
legg^y àia l’avviso
deliairmzioae repeatina
de’ucjidci sul Tusoolo
fu causa bastante
ad im^edirneli. ^ceeiuccliè precipitandosi li
Tuscolani in folta
a, Roma 'dicendo essere giunta
una artnaNi grande
di Equi, che ava già
devaatatq le foro
campagne, e ohe tra pochi gieini
ne espugnerebbero fin k
ciwà se
ben tosto non sibccorpeTauo
; iK Senato decretò
‘che v’ andassero entrambi U consolù
.ed i consoli, intimata
la leva, fchk tnarono
tutti i dttsdini alle
anni. Ebbevi anche
allora del snsurro, oppibnendovisi i tribnni
alla iscrizion mili^ tare, né. volendo
die gl’ indocili
si pòm'ssei'O col
rigor delie leggi: ma
tutto io indarno.’ Imperocché -il Senato, raccoltosi, decretò
che uscissero alia
guerra i ' patck) coi loro
clienti : che quanti
voleano avér parie
nel aalvaro la patria,
avessero ancor parte
nelle sante cose
de’ numi, ma che niuna
più ve n’
avessero quei -che
lasciavano i consoli. Saputosi
il decreto del'Sen^o
nell’ adunanza del popolo
mólti si misero
spontaneamente all' impresa. Vi
si misero i p{ù
ingenui per la
verecondia 'di non soccorrere toha
città confederata,' diauuta
wmpre per r aderenza sua
con Roma : tra
questi fu Siceio
1’ accusatore presso del
popolo degli usurpatori
delle 'pobblidie terre, -il
quale menava seco -ottocento uomini,
timi co me -lui
di età superiore, nè
piè vincolati dalla
legge ^a combattere ma
pieni della riverenza
del valentuomo pe’ grandi
benefizj ricevutine aveano
ripntato cosa non degna
di abbandonarlo, mentre
rinsciva egli a fitr guerra. Òr
questa tra la
milizia d’ allora
fu di gran lunga
la' migliore per
la perizia iu
combattere, Come per
T'ardire tra’ pericoli. Seguitarono
anepr altri T eaercito vinti dall’ aderenza e dalle
istanze de' seniori. E il èri
pur k milizia 'pronta sempre a
tnui {.pericoli per amor
deUe prede, che si
fan tra4e arme..
Pertanto in poco tempo
ebbest un armata
numerosa, e .'fornita splendidissimameute. .! nemici
udite che i Romani
marcercbbero contre ^ essi, ravviafóQO terso
la" patria r esercito : ma i
consoli avanzando,a .gran
>freilao per 6eno, e gl
investirono improvvisi, mentre
scendevano a tor r acqua ; e più
volte a battaglia li
provocarono. -Or attagiia
; e cavò le milizie dalle
trincee#. e comparti
fcavslieriie fanti per coorti,
ciascuno ne’luoghi' Convenienti
; alfine chiamando Siede gli
disse : iVbi combattiamo
da quindi o Succio, 1 nemicL Tw mentre
noi ed efsi
ci risparmiamo apparecchiandocip va di fianco
per quella via sul
monte ove è il.eaatpo nemico,
e v assalùci quei che
ilo guardano, affinchè gli altri
che slan contro’
noi ne teman la
perdita, e tentando soccQnjerlo
ci volgari le spalle
; e cor/ie. avviene ^in
una subita ritirata, si
affi. foUirt tutti per
una strada, e con fUcilità
li., conquidiamo : o se qui si rimangono
; lo perdano il^
campo ^ loro. La
milizia che -lo
presidia, per quanto
seti concepisce, già non
è. per sè
foige, ma pan
mettere tutta la fiducia
bliquamente per quella
slracbi, impossibile a salirsi
di, rutscosòr dei
nemici: ma io vi
condurrò per vie non, visibili ad
essi; e ben mi
presagisco trovarle tali òhe
ci -guidino sul morite,
e sul campo. Inanimiìevi dunque i e speràlCk
Ciò detto s
avviò Wk fa
selva, '> eorsooe buoa tratto,
a’ imbattè con un 'cHtadioo, parti tosi non
so d’ onde, e fattolo arrestare
;, sei prese a guida.
E colui rigirandoli gran
tempo attorno del
mon te, li pose al
fine su di
nn colle rimpetto
degli aHog la battaglia
ebb^ un fine decisoli
Imperocché -Siccio co’
suoi, non Si
toifo fu -presso degli
alloggiamenti, trovalbne'' il
danto verso di sè
derelitto dalla iniliiia, intenta tutta,
come n spetta cólo dal
canto verio del
combattimento > vi diede
faci lissimitmente assaltò, -e
sonrontpvvi :. e prorompendo
in grida
; corsele come dall’ alto
^ addosso. Sopraffatta quella dal
mate impensato e concependo
che venisse non qne’
pochi ma l' altro
console colle > sue
schiere si precipitò fuori
delle trincee, per la
'più. gran parte senz’arme. Que’di
Siccio ne' uccisero 'qua
uà ne presero, e signori già
degli alloggiamenti,
ripiombarono sa gli altri
nel piano. Gli
Equi, conoscintadalla foga e dar damori
la presa degli
alloggiamenti,’ e veduti dopo
non molti^.i nemici correre
loro alle spalle,
noo 'mostraùlno .già cnof
'generóso, ma dnordinadsi,
ceecàrono scanapo per varj
sentieri. Ma iu
questi appunto fecesi
strage copiosa, non avendo i Romani
lasciato d’ iusegnirli
a trucIdarvegU fino alla
notte. Siccio ne
era l’uccisor più graude Ira
Ilice d’imprese bellissime:
e quando vide le cose. nemiche ornai
ridolte al suo
temiihe, egli già
fatta notte, tripudiando e
forte magnificandosene rimenò
la sua coorte agli
alloggiamenti espuguati. 1 suoi
npn sedo illesi ed
inviolati da’ mali
che ne temeyanó
„ ma 'empiutisi tutti di gloria
vivissima, lo chiamavano padre
y salvatore, Dio, ed
ogni altro bel
nome, nè finivano
di felicitarlo con amplèssi
ed -altre esuberanze
di 'gioja. Intanto r altra. milizia romana
tornava al campo
tuo ‘ dall’ inseguire i nemici. Era
già la mezza
notte, quando' Sfecio raminando
1’ odio suo
'bontro de’ (Gasoli
che,lo oveano spedito alia
morte -, si pose in '
animo, dì tor loro
la gloria 4el buon'
successo. Rivelato il
cor suo tra’
compagni, e sembratone a
tatti benissimp, anzi ammirandone Ognuno i concetti
e F ardire, .^li prese
e fe’' prender le armi, e prima
uccise guanti trovò 't|tnvi nomini, cavalli,
ed altri animali
degli Equi, e pòi
mise in fiamme i padiglioni, pieni di
arme, di vesti, di
apparecchi di guerra, e di
robbe moltissìmé, recàtevi
dalla [ureda tascoiaua
: al fine, dopo svanita
ogni cosa tra r incendio,
parti su I’
alba senza altro
che le arme, e rientrò con
marcia rapidissima in
Roma. Osservativisi questi appena, solleciti tra
le arme, tra ’b
sangue, tra i cantici della vittoria, eccovi grande
il concorso, e la smania di
visitarli, ed intenderne le
cose .operate., Ed essi,
andatine alForo, ve
le narrarono ài
tribuni: ed i tribuni, intimata
un’adunanza; comandarono loro
che vi favellassero. Era
già grandè la
moltitudine ; quando Siedo recatolesi
iunanzi narrò la.
vittoria \ e' le maniere del
combatlimentp j >e come
il campo nemico
era preso per ie '
forze sae>e degK
ottocento suoi, spediti
dal console a morire, e come
infine le altre
• milizie combattute^ dai
-consoli ne ifurono
ridotte a fiìggjre, Chiedea
per tanto che non
sapessero grado, se non a
luì dèlia vittoria dicendo
in' ultimo : noi veniamo
sMve le persone e le
arme, nè pattiamo coià
ninna grande o picciola
delle involate ài
'nemico. Il' popolo
-alf udirli', impietosì, lagrìmò, vedendo la età,
considerando la fortezza de’
valentuomini, e crucciandosi, • e smabiandó so chi
voluto ne aveva
privare la patria.'
Sorkène, come era l’intento
di Siccio, l’odio di
tutti contro de’ con soli.
Il Senato srésso'non
soffrì ciò di
buon animo, nè decretò
per essi il
trionfo' o altro pe’ fausti
cornettimenti. H popolo poi
veduto if tempo
della scelta dei magistrati, nominò 'Siedo tribuno
; conferendogli la dignità della
• qpale erà' 1’
arbitro. E tali furono
le cose più rilevanti
operate in qòeiranno.
'• 1 XLVllI. Spurio
Tarpeo, ed A11I9 (i^
Térmipio pr^ sero il
consolato per l’
anno seguente (0).
Questi carezzarono di continuo
il popolo con
più medi, ccène col previo
decreto del Senato
su’ magistrati; imperocché “
Si coniulti SigoDÌo
su Livio. Di
là si raccoglie
cìie forse dea Irggtt ti' jfterh. \ ' Anna
di 'Roma 3ao. secondo
Catone.. ^o secoado Varrone, e av'. Cristo.,. ' (3) Cioi
che si potessero
multare i magistrati arrogami
o clie trascendevano i
limili^dei loro poteri.
Vedi.g 5o^i rjueito
libro. Nondimeno vi è chi
crede che vi
si parli del
senatusconialto fallo
emanare dai consoli
perchè li tribuni
potessctp ìar approvare
dal DlOillGT, amo Iti. •
' ' ' nsoli ultiini.
Intanto prima che
d di Sén Venisse 'di' quella causa.^
facendo l’uno e^l’ altro
d^li accusati calde brighe
e raccomandaziodi, essi, come
già consoli, assai speravano su
del $éQato ; • e teneano
per leggero., il pericolo, promettendo i seniori
di quel ceto ed
i giovani che ilon
lascerebbero far tal giudizio.
Ma ì tribuni prevependo tutto
da lontabo, e non
valutando preghiere; non minacce,
non pericoli ; a{q>ena
giunsene il tèmpo,'
convocarono .il popolo.
Eransi già riversati da’
campi in città
poveri e lavoranti in
gran numero : or
.-questi aggiunti alla
moltitudine interna 'empierono
il Foro, e le vie
che vi conduconp. popolo il
progetto sa la
formasione del.le leggi, eguali
per tatti ; 'argomeaio
allora di controTeraie, -come apparisce
dalle, coa'e precedenti/'’ -• (r) Forae
Icilio tribuno dell’
anno precedente. ..r-XLIX.,
laQ^oUo.per il primo
il gÌRdluo' tU' Romi lio,
.Sieda fattoti (^vaati
.accurà le> violenze
di lui nel •DO
consolato contro de’
tribuni, e le insidie contro
di aè e della sua
coorte nel suo
capitanato. E endo egli
voluto esimere' da
quella spedizione. Matxo .Jciiio, coetaneo ed
qmico'SUOf figlio di' uri
tale dellfi coorte^,
perchè qifesti non
ujttme. ài un tempo
col ^adre -à
morire ^ e che avendo
ottenuto da Aulo V srginio, zio suo, e luogotenente afiqrq delle
nfilizie di recarsi' ai
consoli^ chiederne quésta grazia
; i coruiyli ebbero cuore
di .coatraddirh, ed egli, fa ridotto
al conforto nùsero
delle lagrime ^ non restar^do à (iti
che dèplorarela calamità,
delf amico : che
t antico pel quale
pregqvaf udito ciò,
se_n venni, 9 chiesto di
parlate protestò choj
avea pur grandi
gli obblighi agi inteAiessori
suoi, rna che. mai
grad^ebbe anche ottenutala una concessione che
levavagli d' esser pietoso inverso
del sangue suo :
nè nidi
si Hmove/ubbe dal padre
quanto più si
avyiava a. morte, certa
come tutti sapeane : anzi
ne andrebbe con
lui pey difenderlo fin dove
potrebbe, e correrne, la sorte
medesima, Or costui ridicendo
tali cose, niun fu
" che nou commiscrasse la
sorte di tali
uomini : ma quando
poi chiamati, comparvero per attestarla, (cilio ' padre, e figlio, e oarrarono
cioochè era. di loro;
non poterono i più del
popolo contenere le
lagrime. 'Perorò, se ne
difese Ròmilk>,'non ossequioso,
non pi^érole-ai tem pi
; ma fastoso, e, grande
ne’ concetti ' suoi, coÉàe
non si avesse a dar
cónto del consolato. Adunque l’ira
ne crebbe de’ cittadini, e rendati
arbhri di sentenziame, deliberarono ripercoterlo,' e condannarlo co’voti
di' tutte le tribù
;. talché la' condanna
fosse una ' multa
di assi dieci mila.
Siccio, 'sembrami, risolvè
ciò non senza
nna .provi denza : ma
perchè scadesse il
favór de' patrizj
su costui, nè facessero
broglio nel darsene
ih voto, considerando che la
emenda era in
danari e non ‘altro
; e perchè li plebei
fossero più pronti
a .pronunziarne la pena, non
dovendo spogliare l’àom
consolare di patria, nò
di yita. Condannato
Romilio fu dopo
pochi giorni condannato eziandio
Yeturio.' Anche la
multa suafa pecuniarìa, ma
suddupla di quella
del consolato. Adunque
non \ più governavano
misteriosamente, ma Con intento
manifesto ai vantaggi
del popolo. E priipa stabilirono
ne’comizj benturiati per
legge: che tutti i
magistrati potessero punire
quelli i quedi ecce devono
o disordinavano i loro poteri, perchè per
addietro non altri che i
consoli pòteano far
questo. Per Qoi
di'cinqoa mila aui.
Ora ciò sembra
ragionevòle; perchè esseodo Romilio
oppositore più che
Velario de’ tribooi, dovea sentirne danno
maggiore. Nondimeno Livio
afTerma che Romilio
fa condannalo per dieci
mila assi, e Velario per
(piiadjci mila ; il
che ha -fallo, interpreiare la
voce a/oUssi qui dire
minatamente, a voi, che vef. sapete, quanto ho sofferto
dal pòpolo non
per mie private
ingiustizie i ma per la
henevolenza mia verso
di voi; tuttavia ciò
ricordo per neceisità,
affinchè vediate che
io parlo per lo
migliore,, non per
adulare il popoìp, che
mi è eontrarioi Nè alcuno
si meravigli, -je io che
fui d altro asviso più
volte, e quando fui ^console
e prima, ora mutato
mi sia sttbitamenté
;J nè vogliate concepire che
non bene consigliassi
allora,, o non bene mi ritratti
ah presente. Io
finché vidi, o padri,,
superiore lo .stato
de nobili, lo
favorii, come doveasi, non. curando quello
dei popolo. Ma
poiché fatto savio da’
mali miei, vidi. a gran
costo che il
poter vostrq è minore
dei vostri voleri
; e che piegaridovi alta
necessild più volle
avete lasdèUo manometter
dal popolo quelli che vi sostetievimA, rdiora più,non
tenni gh antichi pensieri.
E ben vorrei che
rion fossero a me, nè
al collega mio
succedute le cose
per le tjtiali
voi tutti su noi'vi
condolete. Ma poiché
finite sono, tali nostre
vieef^e, e possiamo solo
curar' t avvenire, provvedendo 'che ailri
non soffran Iq
stesso, v'i esorto ad uno.
xid uno I é tutti
insieme che órdinialé m bene, almeno il
presente:
àmpcrocchò'JèUcissimamente
governasi una repubBlica, la qual
si èontempera alle sue
cose; quegli è il
consiglierò migliòre che
pòrge il parer suo
per cònio di
utile pubblico^ -non di
nirnidxte private o furóri;
e benissimo lei. porgerà
su'tempi di poi chi
pigha esempio delle
cose JWhtre dalle
passale. Noi., o padri, quante
sfolte si disputò, si 'donlése
tra'l Senato e tra ’l
popolò ; tante ne
àvemmo per alcun modo
lapeggio con morti,
v esilj, con sfingi' (T Uomini
insigni. Or quale
sciagura maggiore per una. repubblica che
le si tolgano
i cittadini migliori, ò
senza Una cauia
? Pertanto io vi
esorto che questi ve ù
risparmiate; nè gettiate
i consoli presenti
a''màmfesti pericoli,
abbandonaisdoli poi tra
la tempesta, al pentimento.
Deh! che non
gettiate ai ‘pericoli niim altro
qualunque, e sia pur
egli piccolissimo per la
repubblica. La principale
fierò delle cose
che vi' raccomando, è che
mandiate deputati,'qiusli nelle grecite
città d" Italia, e quali in
Alene ; perchè vi cerchìn
le leg'gi migliori, e più confacevoli
a’ nostri costumi, e Sce le
fìpot'i.iio: che Ibrnnti
questi, i consoli propongano al
Senato, quali debbansi 'scegliere per legitlatori
con Jfual potere,, per
quanto tempo, e cosp altrettali
come egli le
crederà spedienti : finalmente che lasciate
le discordie col
popolo, e di cofinetlervi
disgrafia a disgrazia,
principalmente per una legislazione, la quale
ha seoo, se tiòn
altro uM apparqto 'almeno
di maestà. . Seooodarooo i dpe
consoli ài parer
di Rqntiliò con più
ragioni premediut^ e, molti
altri xonsiglieri lo secoodaronof; tanto
cbè la plorftità'vi
^ deprsj^. E già già se ne
slendeva ài decreto,
quando Slocio'.il^ trtbimot quegli cbe
zyevz accusalo iLomilio
sorse, e fattone ekn gio
copioso, ne laudò la
mutazione, e cbe non ayesse anteposto Je
nimicizie sue all’
util comune,-,ma ^tto ingennào^entè 9ÌÒ.
eb’era il bene.
Peritai meritp^ soggiunse, IO
gir rendo qvesC
ossequio, 0 ^ptesta ricono^
saenza : io U>
assolvo dalla multa
impostagli' nel giudizià, e
dà pra
in poi, me ^
riconcilio : perocché ci ha
sopra^atlo ftel .bpne.
Egli disse } e già altri
tribuni presenti
acconsenlironò. I^on sostenne
RomiUodà, prenderne quel conlnccambio
; ma lodati i .tribuni
protestò cbe pagherebbe la
multa, essere questa
sacra ai numi: e non
fare cosa né giusta
nè pia, chi
spoglia h numi di quanto
si dee laro
per legge : e.
coti £e$;9. Steso
il decreto dal Senato, 'e
confermato dal popolo, ' furono eletti a prendere
le leggi da
Greci Spurio Posiiunio, Setvio. Sulpicio, ed
Aulo MalHò . Furono,
questi a ' ., " ^ „ In
Lirio si legge
PuM Sulpicio .in laog'o
di Servio Salpido come
scrivesi '.in Dionigi.
Servio Sulpicio fu
eOosdle l'anno 193,
ma Publio non si
trova cbe 'mai
lo fosso. Tanto
Liiio quanto Dionigi numeraao Aulo
Manlio Ua i depùiati,
cd. Aulo Maoliq
seooado pubbliche spese forn^
di triremie > di ogni
arredo ; quanto si
convenisse ialia maestà
' dell' impéno ; e cosi l’anno
-spirò. ' LUI. Nella
olimpiade ottantesima seconda,
quando Lieo Tessalo' di
Larissa vinse allo
stadio, e Cherofiino era
l’arconte di Atene,
compiutosi 1’ anno,trecentimo
dalla fondasionb di
Roma, cretti consoli
' Publio Orazio, e Sesto Qaintilip
j, proruppe nella ^città up
morbo coptagioso, il
inaggioi% di quanti
ue erano ricordatL Vi
'perirono quasi tutti
i sèrvi, e circa .Una metà
di cittadini. Non. piò i
medici avean cuore
d( curare gl’ iniermi, non i domestici, non gli
amici di porgere
loro le cose necessarie
; perocché volendo
'assistere gU -altri còl
tatto e col commercio
ne coutr^evan i malu
Donde è che piò famiglie
si^ desolarono per, deficiènza di
assistenti. Non era la
minima delle sciagure
quella so la esportazion decadaveri,
^ certo era causa'.cliè
il morbo non venisse
meno subitamente. Su
le prime per
la verecondia, e la copia
de’ funebri apparecchi
bruciavano o seppellivano i
-morti : ma poi
curando poco la
verecondia, o non avendo ciocché
bisognava, ne gettavano
molti nelle chiaviche, e più ancora
nella corrente del fiume.
nd’ è che spinti
ai scogli e alle
arene delle rive, songeane danno
gravissimo ; perchè spiccavasene Oiooipi fu
contotq r aono s8o i
laddove io Livio
leguaai .ia quell’anno per coufole
G. Manlio. S;
dunque ì deputali erano,
còm'a veri$imile, tuui uomini
co^olari, il tèstodi Dionigi
in questi -luegbi trovasi
più eastigato che
quello di LCvio.
t .-(t) Aono di
Roma 3oi secondo
Catone,, 3o3. secondo
Varrone, e 45 av. Crisio.
"‘uBao x; '7 un odor
fetidissimo, il quf^e
col corso dé’ reali
causava subite mutezioni ai
corpi anche saqi.
Nè l’acqua portatq dal
dame era più
buona da beveme
si per 1’
odor tri sto, ri per le
ree digestioni a designarvi
i consoli, e designatili ',
propoiTebbero' io sieme con
questi ai padri la
scelta de’ legislatori.
^ Aocordativisi i tribuni,
essi intimarono -i comizj
prima assai deir usato, e destinaieno consoli
Appio Clandio, 0 Tito
'Genuzio. Dopo questo
.omettendo, quasi già fòsser di
altri, .tutte -li cure
{fùbliliche, più non
datano ascolto ai tribuni
', e solo miravano
a sottrarsi di briga nel resto
delia loro raagistratnra. Occorse
intanto cbo Mencaio l’ iroò
de’ consoli s’ ìnfernuMe
di juna' lunga malattia, e vi fu
chi disSe che
il languore sopravvenutogli per -l’ affanno
e per 1’ abbattimento,
la rendeva in sanabile.
E' Séstio sol
titolo che egli
non "potea’ solo
per. . 1, a()9 aè fiir aiedle,' respingeva 4e
istanzt de’ tribuni,^ e voleva che
si vbigessero a miO^i
niagislrati. E questi non
avendo altoo lYiodó, furono
astretti in privato,
e nelle adunanze pufablicbe dirigersi
ad Appio, e suo collega, quantun> qùe non
avessero ancora preso
il coniando. Or
gli ridussero alQue questi
uomini, empiendoli' di
grande spe> ranza di
onori e, di
potere, se prendessero a” cuore
gli interessi del'popdfo. Imperocché -Appio iu
invaso dal1’ ambizione
di avere una
qualche nuova magistratura, di fondare
leggi di cònCordia
e di pace", e di
far che tulli estimassero
'che la patria
sola comandava^u‘ citu dini. Ornato
però di una' grande
magistratura non vi à
contenne; ma inebbriàtone
da’ poteri sublimi,^^tr^orse
ai furori di
perpetuarsela, e per poco non
giuose alla tirannide ; cqme
spbirò ne’ suoi tempi. Allora
dunque cosi pensaodota
con cuore -buono, '6no
a {lersuademe il. collega egl’ invitato
più' volte dai tribupi alle
adunanae, vi 'si (^dusSe, e 'tenpevi molti ed
umani ragionamenti. I quali
rigiravansi. ip t^eslo che piaceva
a hd come al
collega suo', prÌTtcipalmeiUe che si
destinassér le leggi,
e si chetassero. le discara
die civili su
diritti ; e diceano ciò '
palesissimàmeute ; come pure
che ''essi ',
perchè non entrati
al comando, non aveano
'facoltà di nominare
i cosUtutori' delle leggp ‘
che noH
si opporrebbero per '
mòdo 'alcuno a Menenio’
console e suo ^collega
se dava esecuzione
al decreto delSenato, anzi’ che
do coadj'uverebbero e ringràzierebbyo ; che'
se Menenio e il
compiano reylica e protesta( Soggiungevano), che trovandoci
noi designati per consoli
f Tton ^uo ' nominare
altre' magislrature lé quali
prendano podestà pari' alla
consolare ; noi dal canto,
nostro non saremo
V ostacolo della operazione : perchè
sporttanoi cederemo la
nostra soprastanza, se cosi •
piace in
Senato, ai nuovi
che sceglieransi in. ^ogo
de' consoli. Elocomiava
it popolo' la buona
volonlà di tali
.uomini ; e spiolMÌ, tutti
ia /olla nella curht, Sesto
( non poiendoviai tcovare
Menenjo per la iufern^ità
) costretto a convocare egli
solo il Senato, propose la
deliberazione su le.
leggi. Ben si
disputò qninci e quindi copiosaiaeute da. chi
lodava l’essere coiuanihto dalle
leggi, e da chi chiedeva
che si ritenessero le costumanze
paterne: ma prevale
il, parere de’ consoli designati
propostovi da Appio
Claudio, interrogatone per
il pritpo : vuol
dire cAe si
icegliessero dieci i più cospicui
tra padri : che
forrtandastero su tutta la
repubblica per un
anno dal giorno
deità elezione'col potere' che 'ci aveatip
i consoli', e primari re : e che-.fiotànto che
governavanp i decemviri .cessasse ogni altra
.màgislralura: che qqesti
proponessero le leggi più
utili alla ivpubblica, scegliendone le
migliori da quelle riportate
pe' deputali dalla
Grecia, e dalle usante.
della patria; che
le leggi scritte
da decemviri, approvale • che
fissero dal Senato
e ratificate dal popolo,, valessero
per tutto f avvenire;
e che i magistrati che
si creerebbero a norma
di queste leggi, discutesteror a rtórma
appunto di esso
i, conti atti d'e' privali, e pròvyedessero al
pubblico. .,LYL. Preso questo
decreto ne anderonò
i tribuni al/ adunanza, e
letto velo; assai
vi encomiarono i padri, ed
Appio che lo
aveva proposto. Giunto
poscia il tempo :^ . ‘ 3oi de’ comizj, i iribun! convocatovi
il popolo, fecero ve Dirvi
i censoU/ designiti perchè g[li
osservà^ro le promesse: e questi presentatisi
; deposero il consolato.
Non finiva il popolo
di encomiarli e lodarli:
fattosi quindi a dare il
voto pe’ legislatori scelse a tal
grado -ipiestl due per i
'primi. Imperocché, ne’
comizj per centurie furono eletti
legislatori Appio (gaudio,
e>Tito Genuzio^ li due' che
doveano èsser consoli
l’anno seguente : Pu
blio 'Sestiò., insqle ^ dell’ anno corrente,
li tre Publio Postnmió, Cervio Sulpicio, ed
-Aulo Mallio -,. r qusfli aveano riportate
le leggi da’
Greci; Romilio il
console dell’ anno antecedente
il quale condannato
peo le accuse^ di'
Sfócio dal popolo, fu
poi sentito il
primo a dir senlèDEe
fautrici ^ cemVirato • f Dettesi
quinci 0 quindi più
cose' vinse' finaltnente.il
partito di chi
consigliava che sì
tenesse ancorsi il
decemvirato su -là repubblica;
peroccbè' compilata in picciolo,t$mpo la
legislazione non pareva
La .tutto ultiosata.,
e -pareva ancora ;che
bisognasse un magistrato assoluto per
.obbligare, volessero 0 no, tutti,
a quanta ne èpa già -stata
decretata. Ma ciò-,cbe
gl’. indusse più che tutto,
a preeleggere i dieci. fu, rinlenlo di
spegnereil tribunato,
ciocché bramavano sommanaenie.
''Tali fatono i risaltati
delle pùbbliche cousuUaziom
: ma. in privato i primi
del Senato disegnavano
procurare per sè quel
magistrato Sui timore
che intrqduceodovisi uomini turbolenti nen
cagionassero grandi sciagure.
Il po polo ricevè
con diletto, e ratificò Con
pieno trasporto, dandone -il
voto, le sentenze -dej
Senato.. I dieci prefissero
il tempo
de’.comiàj-, e li più
provetti e più rispettabili de’ patrizi
ambirono quel' magistrato,
b fptì molto ebeomiato
da tutti JVppio, il
pruno ^allora del decemvirato, ed
il popoip vo)ea
.couifermarvelo, -come se
niou altro meglip
di lui -lo remerebbe.
Egli fingea su le prime
di escusarsene e 'cbiodeva
ebe Ip esimessero
da nn incarico, pieno di
travagli e d invidia
: ma poi Btimolandovelo tutti;
fecesi a chiederlo nottamenle
; anzi dolendosi dei
migliori ' de’ competitori,
come di animo non
buono verso lui
per 4a ' invidia
; favori gli amici suoi
palesissimamente. Egli dunque
nc’comizj per centurie fu
crealo per la
seconda volta datore
di leggi: e eoa esso'lai
furono creati' Quinto Fabio
detto Vibo^ lado, già 'per
'tre volte console;
edirreprensibile 6no a quel tempo
in ogni bel
costume : e ira gli
altri pa-^ trii) diletti
^uoi; Mai‘co' Cornelio, Marco
Sergio, Lucio MinuCio, Tito Antonio, e Manio Rabulejo, .uomiut non molto
chiari : de’ plebei
poi Quinto Poetelio, Cesbne Duellio, e Spurio Oppio.
Aveaci Appio assunti por
questi per adulare
il popolo coi
dire che', 1’
equità voleva, • he, stabilendosi
una magistratura uòica
su tutte le -còse
; aves^ro parie in
essa anche i plebei. Applaudito in
unte' queste cose,. e ‘parendone il
migliore dei re, e de’ soprastand
annuali ; prese la
magi.i stratura per l’ anno
che seguiva. Or
questo e non altro ' è quanto si
operò degno di
ricordauza nel primo
decemvirato presso de’ Romani. Presero nell' anno
^guente -la podestà
suprema i dieci con Appio
alle idi di maggio.
Allora i mesi legolavausi colla
Iona, e cadeva in quelle'
idi appunto il plenilooio.
Or prima legandosi
tra sagrifizl, arcani alla plebe, convennero di
non contrariarsi mai
fra loro, 'di ratificare
tutti quanto ciascuno
giùdicherebbe: di ritenersi la
magistratura ih vìta\
nè Jasciare che altri
vi sottentrasse : di
aventi' tutti onore
e potere eguali : di ricorrere
di rarii, e per necessità
sola, ai. . 3o5 i>oti del Senato
e del popòlo, e di ultimare
per lo più le
cose colC autorità propria.
Poi jrenuto il
gio;^o da pigliare il
comando, ( è questo giorno sacro
ai Romani, e guardansi tutti
di ascoltare o vedere
cose non liete ) ^ fatto
prima sagrifìzio agl’ Iddìi
secondo il rito, uscirono ben
tosto i. dieci
su la mattina
con tutti i distintivi di nn
regio potere . Come
il popolo vide, che
non osservavano più
|e mauiere popolari
e, modeste di preminenza, e
che non
avvicendavan fra loro
come prima i segni del
comando supremo; assai
ne decadde nell’ aspetto
e nell’animo. Temè le
scuri messe tra’ fasci portati da
dodici licori dinanzi
a ciascuno, i quali facean
largo, dando de’ colpi
come prima ai
tempo dei re. Era
stator questo costume
abolito ben tosto. dopo
la espulsione dei ré
da Publio Valerio, uomo
popolare, quando ne succedette
al comando. E paréndo
essere stato autóre di
ottima cosa; tutti
i consoli posteriore fe> cero
come lui, nè
più misero tra’
fasci le scuri,
se non quando marciavano,
all’ armata, o per altro
intento uscivano da Roma’.
Or quando portavano
guerra agii esteri, quando visitavano
i sudditi, assuiueans le
scuri ; .perchè r aspetto terribile
di esse-,. come dirette
contro de’ nemici e de’
servi, si rendeva mec
grave pe’ cittadini. LX. Veduto
ciò, che riputavasi
il segnate di
nn regno, si temè, come
ho detto, moltissimo, credendosi
pòduta la libertà, e creati dieci
per un solo
monarca. Con. tal modo sbalordirono
i dieci la moltitudine
: e Roma Catone Varrous, e
448 ar.
CrJslo. ' '1 PlOStGt, Itipu) in. '.
IO fermi, cbe avrebbero
a dominare per 1’
avvenire col terrore ; ciascuno
fecesi Un seguilo
dì ^oyanl i più
leDterarj, e opporiuui per esso.
Ben era da
aspettare, o sperare cbe i più
de’ poveri e sciaurati
si dimostrassero fautori della
tirannide ; anteponendo l’
utile proprio al pubblico
; ma non era
da aspettare, nè da
sperare, e certo egli fu meravigliosissimo^ che
molli patrizj potendo grandeggiare per
'sestauze e per, sangue soffrissero
di opprimere co’ decemviri
la liberi^ della patria.
' Costoro datisi a tutti i piaceri, quanti sottopongono
1’ uomo, comandavano superbissitnamente : e legislatori insieme
e giudici, tcncano per niente
il Senato ed
il popolo, ed uccidevano
e spogliavano, conculcando
ogni diritto. E perchè
azioni illegittime e biasimevoli
sembrassero noux indegne, anzi
operale per giiislizia;
nomsi accingevano a farle se
non previo esame,
ed'uu giudizio. Erano gli
accusatori inandaii da fondatori
stessi delta tirannide, creali i giudici
dal ceto de’ loro
amici; laDlochè solcano questi in
coniraccaràbio sentenziarne per
compiacerli. Molte cause però',
nè di poco
rilievo, le defìnivano
i dieci per sesiessi.
Cosi quelli che erano
per essere defraudali del loro
diritto, non trovando altro
scampo, conducevansi
necessariamente a renderseli amici.
Ood’ è che col
volgere del tempo
videsi la parte
corrotta ed inferma maggiore
della innocente. Imperocché
coloro che v' erano
concul^cati da’ decemviri
sdegnavano di rimanervi, e si ritiravano
nelle campagne, Bspettandovi
il tempo
de comizj, ^quasi coloro
finito 1’ apno
fossèro per deporre il
comando, ed eleggete nuovi
^nagislrali. Appio intanto £ i colleghi
^crisscA) le. leggi
che rimanevano in
altre due tavole,
e le aulroao alle
prime. In queste eravt
traile altre lajegge,
che non concodeàsi a^atrizj il
matrimonio co’ plebei: e ciò
non per altro, io t j , !• OLGENDO
la olimpiade ottantesipia
' terza nella quale Grisoue
Imero vinse allo
stadio mentre Filisco era
1 arconte di Atene, i Romani annientarono
il decemvirato il quale
governava già da
tre anni la repubblica.
Ora, io
tenterò descrivere dalle
origini per qual modo, quali nomini, con
i|uali cause e pretesti, seguendo la libertà, si
lanciassero a schiantare una
signoria che ovea già
profonde le radici
; perciocché ne reputo la
cognizione bella e necessaria
principalmente al Glosofo die
contempla, ed all’ uomo
dr stato che amministra, per non
dire a tutti. E certo
.molti non si contentano
^ conoscere dalia storia, solamente come gli
Ateniesi ed i Lacedemoni
vinsero, per esempio', la ^ guerra
col Persiano, aiTrontandosi in
due battaglie navali ed
nna campale contro
un barbaro che
area tre milioni di
nomini, essi che 'aveano
appena cento dieci mila
nomini insieme cogli
alleali; ma vogliono' por
co, noscere dalla storia
i luoghi ove occorsero, .ed kiten dere
le cagioni per lè quali
si compiecono le
meravigliose ed incredibili gesta, come
apprendere quali fossero i duci delle
armate greche e persiane, nè essere, per
cosi dire, defraudati, di cosa
niuna fatta ne’
combattimenti. Imperocché
dilettasi la mente
dell’ nomo por, tata quasi
per mano dai
racconti alle opere, e come
a vederle dopo ascoltatele;
E quando gli uomini
odono le civili vicende, non
appagansi di udire
la somma ed il
termine degli ’ affari, per
esempio., come gli.
Ateniesi permettessero el^e gli
Spartani demolissero le
mura, conquassassero le navi
di Atene, ponessero guarnigionè nella Iqr
cittadella è vi trasmutassero
il governo del
popolo in quello de’pochi^
senza nemmeno combattere
(.i); ma. bentosto dimandano
quali erano le
angustie di 'quella città,
onde incorse in
tali orrori è miserie, quali e di chi
li discorsi che ve 1’
acchetarono, e quanto seguila
tali cose. Dilettarsi
poi della contemplazione totale
di quanto concerne gli
affari è cQmifuq a tutti,.
come agli uomini, pubblici, tra’ quali
colloco àncora i fUosofì, quelli almeno
che pongono la
filosofìa non già
nelle Occorsero tali
fatti oelf''aoao Hltimo
detta goeri'a del
Pelopoaneso ; conws pu&
vedersi io Senofoute
nel libro secoado
lAasxnel lib. -i3
di Di odoro, t nel
LitandrQ di Plutarco.,
I parole, ma nelf esercizio
delle opere belle.
Cd oltre questo diletto,
ne segue, > no, e riducendd' quanti ner
credevano IntorTerablle il giogo
; a lasciare colle -mogli
e co’ figli lo^
patria, ed alloggiarsi nelle città
vicine, ricevutivi da’Lallni
in forza de'parentadi, e
dagli Eroici per
essere stati di
fresco creati cittadini da' Romani.
DI guisa teaoo
traversarne 'le opere
; nè vi rimasero
nemmeno gli asciiitl al
Sentito I qu^li doveano
per necessità star pronti
pe’ decemviri ; ma l
più trasferendosi con
quanto aveano in famiglia;
dimoravano, abbandonate lo
case, per le carrqiagne.
Non dispiaceano gli
allontanamenti de’ grandi personaggi
agli amatori del
decemvirato per più cause,
e principalmente, perchè I più 'giovani di questi
erano divenuti don
che scellerati, molto
insoleati, né poteauo tollerare.
1’ aspetto di
qtielll, innanzi dei quali doveano
arrossirsi della loro
impudenza. III. Derelitta cosi
la città dal
fior degli uomiai
(^), e cadùlavi ogni libertà
; gli Equi già
vinti da' Romani, cogliendo la
Occasion propizia di
combatterli, di con Anuo
di Roma 3o5
Mcondo Caioua, ìof
ascondo Vartoae, c av. Cristo. Digitized by
Googie 3i2 delle antichità’
romane traecambiarlt delle iogiorie
sostennlene, e riveodicarsi quanto
perduto ci aveano, apparecchiaronsi all’ armi, e marciarono con
grandi eserciti contro
di lei', malconcia pel
comando de’ pochi
nè idonea a tener
fronte, nè a concordarsi, nè a'
cura fecesi innanzi e disse
che portavasi a -Roma,
la guerra, da
due parti, quinci dagli
Equ^, e quindi da’ Sabini
; tenendovi un discorso ariifiziosissimo, indirilto a far
votare la leva delle
milizie e condurle imipzntioeDtc
in campagna, non peùnetteodo
T Ifare che indagiasse.
Or lui cosi dicendo
insorse Lucio Valerio,
soprannominato Polito, uomo che
grande tenessi |>e' grandi genitori:
certamente era stalo padre
di lui più,
importano, conte sarebbe il
buon ordine della
moltitudine, e che la cosa
stessa apparisca utile
a tutti, rimovendo dalla
città la ingiustizia
e la soverchieria che
vi domina, e rendendo l’
antica forma al
governo; in tal caso
sbattuti quelli che
ora inorgogliano, e gettate
le armi,
verranno a noi tra
non molto per
saldarne le ingiurie, e trattare
la pace : e noi,
ciocché i savj tutti desiderano, potrein finir
senza le armi, la guerra con
essi. Or ciò
considerando, poiché sì
grave tra le mura è
la turbolenza ; io
giudico che debbasi per
ora sospendere ogìti
cura di guerra,
e concedere a chi vuole di
proporre mezzi di
concordia, e buon ordine
interno. Noi chiamati
da queste magistrato non abbiamo
potuto già prima
di essere addotti
a questa guerra, consultare su
lo stato^ de’
nostri pubblici affari, e conoscere
se scóncio alcuno
ci avesse. Ed ora
assai riprensibile sarebbe
chi, lasciata la occasione, •cercasse di
altro discorrere : e niuno
dir può con sicurezza
che trascurato questo
tempo, come men congruo,
un altro ne
avremo pià acconcio.
Anzi se alcuno vuol
concludere V avvenire dal
passato ; trascorrerà gran
tempo senza che
possiamo qui riunirci per
deliberare. IX.' Io prego
te, Appio, e voi tutti presidenti
di Honta, voi che dovete
provvedere non al
bene vostro privato, ma a quello
Ai tutti, a non corucciarvi, se io parlo
secondo la verità, non
secondo il genio
vostro. Voi dovete por
mente, che io parlo, non
per malignare, o vilipendere il
vostro magistrtUo; ma per
additare, se pur vi è,
una via
di salvare, e dirigere la repubblica, dopo mostratine
i /lutti da’ quali è sbattuta. Quanti
han cara la
patria, debbono forse qui
tutti discorrere dell’
util comune, ma io
principalmente. Imperocché
io debbo per
la onorificenza fattami dar
principia ad opinare
: e saria vergogna e
stoltezza grande, se
io che sorgo
il primo non
dicessi le cose che
prime son da
correggere : Appresso
trovandomi io zio
paterno di Appio
il capo decemviro,
accade che più
di tutti mi
consolo, o rattristomi
secondo che bene o
non bene
governano la repubblica. Aggiungi che
ho io ricevuto
da’ maggiori miei la
civil consuetudine di
curare anzi l'
utile -pubblico che il mio,
senza guartlare a privati
pericoli ; nè io, la
tradirò io questa
civil consuetudine, nè profanerò le
gesta di que'
valentuomini. Orjt, che il
governo presente male a .noi
si conviene anzi
che incomoda, direi quasi
tutti ; siane questo
l’ argomento gravissimo, che quanti
trattavano le cose
civili ( nè già
potete voi soli ignorarlo
) ràiransi ogni giorno
da Ho 3ai ma,
lasciando le paterne
case deserte. Qual
de' plebei più rìguardevoli trasferisce
la propria sede
colle mogli e co' figli
nelle città più
vicine, e quale nelle
campagne più lontane
da Roma : E molti
de' patrizj nemmen essi
in città se
ne vivono, ma
li più si
dimorano per le campagne.
Ma che giova
parlare degli altri j quando
appena in città
se ne stanno
alcuni pochi senatori uniti
a voi per amicizia
o per sangue, e cercan gli
altri la solitudine
più che la
patria? E quando voi
v'aveste il bisogno
di adunche il
Senato, tornarono invitati ad uno ad
uno dalle campagne que'
dessi che solcano
insieme co' magistrati
guardare la patria, nè
mancare mai da
affare niuno della
repubblica. Or tdie pensate
voi che gli
uomini ahbandonande la
patria fugano i beni
o li mali ? certo che
i mali. E t essere abbandonata
da plebei, derelitta da' pevrizii
senza incontri di
guerra, di pestilenze, e di altri
disastri mandati dal
deh,, ella è sciagitra questa
non seconda a niuna
per una città, massimamente per
Roma, la quale abbisogna
di molle milizie, tutte sue ;
se vuoi
dominare stabilmente su' vicini. X.
Folete udir voi le cagioni
che riducono i popoli ad
abbandonare i templi e le
tombe degli avi, e lasciar diserti
i poderi e le case
paterne' ^ e credere ogni
altra terra più
necessaria della patria
? Certamente tali cose
non avvengono^ senza
cagioni, ed io sporrovele
queste, non occulterowele. Molte Appio
sono le accuse
e di molti sul
vostro magistrato : vere
o false che siano, noi
cerco per ora :
certo che vi
si fatino. Ninno, se
non del vostro
seguito j trova il ben
suo nell' orditi presente.
I ^andi, figli pur essi
di grandi, à quali spettavano
i sacerdozj, le magistrature, e
gli altri onori
goduti dai loro padri, fremono di
essere da voi
respinti e tolti dalle dignità
degli antenati. Quei
del celo di
mezzo che cercati la
calma del vivere, v imputano lo
spoglio ingiusto de beni
loro, lamentano il disonore
che fate alle lor
mogli, la effrenatezza
verso le loro figliuole nubili,
ed altri oltraggi
molti e gravi: e la parte
più. bassa del
popolo, non più arbitra
per voi de' voti e
delle elezioni, non
più chiamata alle
a4unanze, nè, partecipe di alcuna
civile uguaglianza, ve ne maledice
appunto per questo, e tirannico chiama il
vostro governo. XI. Ora
come voi correggerete
questi abusi, come la
lingua, incolpati che ne
siete, accheterete del popolo ? questo è ciò, che
rimanemi a dire. Facciane il
Senato previamente il
decreto : fate che
il popolo deliberi, se
torni a lui meglio
ripristinare i consoli, i
tribuni e gli altri
magistrali della patria, o continuare r ordin presente
: se tutti i Romani
avran caro il comando
de' pochi, e dinoteran co’
lor voti, che ve lo
abbiate voi questo
comando ; voi terrete
un magistrato legittimo, non violento.
Ma se vorranno di
nuovo i consoli, di
nuovo gli altri
mostrati ; voi sarete decaduti
per legge, nò più
crediate dominare, se ìton
da tiranni su
gli eguali, non prendendo
gli ottimati il comando, se
non da' cittadini
spontanei. E nel far questo, o u4ppio, tu dei
dar principio, c tu disciogliere
un comando da
te stahilUo, utile un tempo, ed
ora noceyole. E m’ odi
ciocché ne guadagni, se
mi ti arrendi,
se ne deponi
codesto malveliuto comando.
Se li tuoi
colleghi a ciò s’ indurranno'; ciascwi dirà
che buoni fatti
su /’ esempio
tuo vi si indussero
t laddove se questi
si ostinano a tenere
un dominio illegittimo ; sarai
tu benedetto che
volesti, altnen solo,
compiere il giusto
; mentre i contumaci saran con
infamia e danno gravissimo
degracUtti. Che se mai (
lo che
potria ben essere
) fermato v' aveste infra
voi secreti trattali
e parole, pigliandovi i Dei
per mallevadori, fa pur
conto che siasi
empietadv osservarli, e vera
pietà vilipenderli, come contrarf ai
cittadini, e alla patria. Imperocché
sogliono i numi esser presi
mallevadori su gli
accordi buoni e giusti; non
su gV ingiusti
e vergognosi. XII. Che se
tu esiti lasciare
il comando per
timor de' nemici, sicché non
ten venga pericolo, nè
sii stretto a dar conto
delle opete tue ;
certo non è ragionevole questo timore.
Non è sì picciolo, non
sì sconoscente il Romano
da ricordare i tuoi
sbagli, c scortlarc i tuoi benefizj
: ma contrapponendo i beni presenti ai
mali passati giudicherà
degni questi di perdono, c quelli di
lode. Potrai tu
rappresentare al popolo' le
tante belle tue
gesta innanzi del
Decemvirato, ed in .vista
di queste ottenerne
ajuto e salvezza, e
difenderti in più
modi dalle accuse, come ad esempio, che
non eri tu
che abusavi, ma un
altro senza tua saputa;
che non bastavi
a reprimerlo come tuo pari:
o che eri necessitato
a soffrire per areme altra
cosa più utile.
Ma troppo lungo
sarebbe il discorso, se
numerare volessi tutti
i modi delle difese. Coloro che
non han discolpa
niuna giusta, nè plausibile, pur confessando
il delitto, e raccomandandosi,
ammolliscono il cuor
degli offesi, con allegare il
poco giudizio degli
anni, la pravità de'
tompagnì, la vastità del
comando, o la sorte
che travia ne
calcoli loro tutti i mortali.
Or tu se
deponi il comando, tu
n avrai, lo prometto,
amnistia generale de’
mancamenti, e riconciliazione
col popolo, decorosa in mezzo
de' mali. Ma io
temo, che il pericolo
siati pretesto non vero a
non lasciare il
comando ] essendo a mille riuscito di
rinunciar la tirannide, nè
scontrarne alcun danno da
cittadini. Le cagioni
non dubbie sono un
ambizione vana che
cerca le apparenze
di una gloria vera, una
propensione pe' rei
piaceri, quali il vivere concedegli
de’ tiranni. Ma
se pià che
andar dietro alte immagini, e alle ombre
degli onori, e de’ piaceri, ne
vuoi tu ciò
che è solido; rendi
alla patria la tua
preminenza, ricevi le dignità
dagli eguali tuoi,
acquistati la emulazione
de’ posteri, e lascia loro in
luogo del mortala
tuo corpo, sempiterna la fama.
Questi sono gli
onori fondati e veri, questi gt indelebili
e cari nè rincrescevoli
mai. Pasci V animo ti.'o
de’ beni della patria:
già non parrai
di averglìt.^e dato
la menorna parte,
liberandola da signoria ce'ti dura.
Prendi esempio dagli
antenati, considera chs^
niun d’ essi mise
affetto ad un
potere dispotico ^ nè
fu lo schiavo
vilissimo de piaceri
del corpo ; eppur furono
onorati in vita, e morti
sono celebrati da posteri
; giacché tutti fan
loro testùnoniama, che furon
custodi fidissimi delC
aristocrazia ^ che Roma
fondò, dopo espulsi i monarchi.
Non dimenticare i detti
^ non i fatti tuoi
gloriosi; perciocché belle pur
furono le prime
tue mosse nella
repubblicUf e pur grandi per la speranza
^ che davano della
tua virtù. Deh ! che
siano consentanee ancor
le altre tue opere.
Deh ! ritorna a quella
indole tua Jlppio
figliuolo : sii nel genio
del governo un
ottimate, non un tiranno. Fuggi
quelli, che adulando, ti parlano, quelli pe'
quali, se’ lungi dalle
utili istituzioni, errante
dal diritto sentiero,
già’ wotr È rzRtstitiLE, CHS AtTSt
SIA DI SSL
HVOrO SXWDUTO BDOIfO, DA CHI già’
FSSSIXO lo RStfDk. Xiy.
Quante volte dir
ti volli tali
cose da solo a
solo j per instruirviti
dove le ignoravi, o per ammonirtene, dove vi
mancavi! Nè già
venni, per ciò
sola una volta in
tua casa, ma i
servi tuoi,me ne
rimandarono, e con dire, che non
avevi tu ozio
da inti'attenerd con
un tuo congiunto
; ma clu: avevi
a fare cose più necessarie
; seppur v è cosa più
necessaria della pietà verso
i suoi. Forse, i tuoi
servi, ciò conoscendo y mi vietarono
di per sé
stessi t entrata, e non per
tuo comando. E ben
io vorrei, che
così fosse. Certamente questo
mi ridusse a parlarti
di ciò. che io
volea nel Senato, non
avendolo mai potuto
da solo a solo. Ma
.le buone, e le utili
cose dovunque, 0 rippùj y son
da dire tra
gli uomini, piuttosto
che 'JaG sempre tacerle.
E che io a le rendessi gli
ojfizj dovuti alla nostra
prosapia ; ne attesto
gl' Iddj de'
quali noi dell’ Appio sangue
veneriamo i templi e gli
altari con sagrifiej comuni:
ne attesto i genj
degli antenati, a’ quali
porgiamo del paro
gli onori secondi, e li ringraziamenti, dopo de’
numi : e soprattiMo attesto questa terra,
la qual tiene
nelle sue viscere
il padre, ed il
fratello mio, che io
dedicava a te la
vita e la voce per
sit^erire il tuo
meglio. Pertanto desideroso di
rettificare, per quanto io
posso, gli sbagli tuoi
ti prego a non rimediare
male con male }
à non perdere le cose
tue mentre aspiri
ad altre pià
gratuli ; e finalmente a non
dominare agli eguali
e a maggiori, ed essere dominato
da' pià vili, c più
tristi. Se noti che,
volendoti io ra^nar
di più cose e
più a lungo, non so
ridurmici : perocché se Dio ti
rivuole a buon senno; sóprawanzano
le cose anzidetle:
ma seti abhandona
al tuo peggio, sarebbero indarno, quante io ne
aggiungessi. Eccovi, o padri coscritti, e capi tutti di
Poma, il mio sentimento
per dar fine
alla guerra, ed ordine alla
repubblica perturbata.' Se altri
tien cose migliori
a ridirne ; vincano pure
te ottime. Cosi disse Claudio
; assai speranzandosene i paIri, che
i Dieci deporrebbero il
loro magistrato. Non replicava
Appio nulla in
contrario ; quando fattosi
innanzi Marco Cornelio altro
Decemviro disse : Non
abbisognano, o Claudio, i
tuoi consìgli: su
Futile nostro provvederemo noi
da noi stessi;
perocché tale appunto ò'
la nostra olà,
da non disconoscere
ciò che ne giova, nè
scarsi siamo di
(uaici, età consultar nel bisogno.
Pertanto dispensati da
opera intempestiva ; non dare o
gran veccJào consigli, ove
non se ne richiedono.
Che se vuoi
di cosa alcuna
ammonire t o pià propriamente,
inveire su di
Appio ; inveisci a tua voglia
y ma quando se’
fuor di Senato. Quivi
entro però di ciò,
che ten
pare su la
guerra t co’ Sabini, e con gli
Equi, circa la quale
se’ chiesto del parer
tuo ; e cessa da
vaniloqui fuori di
argomento. Sorse a lai
voci Claudio nuovamente
tutto mesto, e pieno gli
occhi di lagrime,
e disse: Appio o padri, Appio, presenti voi, non
reputa me, lo suo zio, degno nemmeno
di risposta. Egli
precludemi, quanto è da esso, il
Senato, come già la
sua casa. Anzi levami, a dirlo più
veramente, dalla città ; perocché
non io potrei
rimirarvi di buon
occhio un indegno degli
antentUi, un emulatore de'
tiranni. Io dunque raccolti
i miei, e le mie cose, vammene
tra i Sabini, per abitarvi la
città di Jiegillo, dond’ è la oiigine
mia, e tenermivi finché questi
trionfano nel sì bel
magistrato, ma quando ( nè
dee molto tardare ) fta
di questo decemvirato, ciocché ne
antivedo ; allora tra
voi mi renderò.
Ma ciò basà
su me. Quanto alla
guerra, e sue cose,
consigliavi o padri, che non diate
sentenza niuna, finché i nuovi
magistrati non si abbiano.
Cosi dicendo, e svegliando grandi
ap> plausi nel Senato
pel maschio e libero
suo spirito; sedette. E qi)i rizzandosi
in piede Lucio
Quinzio Cincinnato, Tito Quinzio
Capitolino, Lucio Lucrezio, e
lutti i primari 1 senatori, seguirono il
parere di Claudio. l
Digilìzed by Google 3a8
DELLE antichità’ romane XVI.
Comarbatine i coilegbi di
Appio; risolverono di non
più chiamare, a dir la
sua mente, niodo io vista
degli anni, e dell’autorità sua
nel consigliare; ma solo
in vista delia
intrinsichezza, e dell’
aderenza con esso loro.
E qui procedendo in
mezzo, Marco Cornelio fe’
sorgere Lucio, Cornelio
il fratello suo,
uomo operoso nè infacondo
nella ragione politica, e già compagno
di consolato a Quinto Fabio
Vibulano, mentre Fabio era. •
console per -la terza
volta. Ora costui
sorto disse: Egli r
è mirabile, o padri, che uomini di
tatua età quanta ne
kan quelli li
quali hanno prima
opinato, e li quali cercano primeggiar
nel SeiuUo, portino per gare
politiche, un odio
implacabile ai capi
dello stato, quando dovrebbero, quanto è d'uopo
difenderli, animare i
giovani a combattere intrepidi
per la buona causa,
e tener per amici,
non, per nimici
i sostenitori del pubblico bene.
Ma mollo pià
mirabile egli è, che
trasferiscano là malvolenza
privata alle atse della
repubblica, e vogliano anzi perir
co’ nemici, che con
tutti gli amici
salvarsi. Eccesso di
furore, e direi accecamento divino
egli è questo; eppure
cosi li capi si
comportano del nostro
Senato. Sdegnati questi che
nel concoirere al
decemvirato, che ora
accusano, furon vinti da
altri che apparvcr
pià idonei, fan loro
eterna, irreconciliabile guerra:
e sì stolida, e sì furiosa
; da ìovesciare da
capo a fondo la
pàtria, per calunniare presso
voi li Decemviri.
Vedon essi la nostra
regione in preda
a nemici : vedono che ornai
giungono a Roma, giacché breve
è lo spazio che ne li separa
; ed in luogo
di esortare, e d’incitare i giovani
a combattere per la
patria, e di soccorrerla
essi stessi con
tutta la diligenza,
e l’ ordorè, quanto la età
loro ne ammette
; vogliono che ora voi
provvediate ad ordinare
il governo, a creare nuovi magistrati, e far tutto
piuttosto-, che conquidere gC
inimici : nè san
vedere che danno
sentenze, anzi che tengono
desiderj impossibili. XVII. E certo, fate
cosi ragione : il
Senato emani il decreto
de' comizj : i Decemviri
lo riferiscano al popolo, destinando il
giorno del terzo
mercato dal giorno presente
) perocché -, e come
staà mai valido ciocché si
vota dal popolo
j se non compiasi
a norma delle leggi ? Poi
quando abbiano le
tribà dato il voto, prendano i nuovi
magistrati la repubblica, e propongano a voi
la guerra perchè
ne discutiate. Se in
tempo sì grande, quanto ve n
ha da
ora ai comizj, si
avanzino intanto i nemici,
e vengano fino alle mura;
noi che faremo,
o Claudio? Diremo loro:
atpettate per Dio, finché
ci avrem fatti
nuovi magi a straM ? Certo
Claudio suggerìvaci a non
decretare, a nè riferire mai
cosa al popolo, nè
scriver le leve, a se
prima non siasi
deciso come vogliamo
su' magia strati. Itene
dunque, e quando udirete
creati ì cona soli, creati i magistrati, e tutto pronto
per le armi a tornate allora
per trattare con
noi della pace ;
giacB cbè voi senza
essere offesi da
nei d avete i primi a oltraggiato ; e d ricompenserete, secondo la
giusti a zia, in danaro i danni
delle vostre incursioni
: non a però vi conteremo
le stragi degli
agricoltori, non le a inginrie, e
le insolenze sperimentate
da femmine in M guuc,
nè altro male
insanabile . Ed
essi li nemici a tal
nostro invito useranno
moderazione, e lasciato che
la repubblica crei
li nuovi maestrali,
e faccia gli apparecchi di
guerra ; tomeran poi
portando ùi luogo delle
armi, suppliche per la
pace ; ed arren dendo
a voi sè medesimi. Xyni. O pur
stolti coloro d quali
van pel pensiero tali
delirj ! e milènsi noi
se non ci
corucciamo con quei che li propongono:
anzi sosteniamo di
udirli, quasi consultino su
nemici, non su la
patria e su noi! Che
non leviamo di
mezzo i cianciatori sì
fatti? che non decretiamo
sul punto, che marcisi
a difendere il territorio,
il quale
ci si devasta
? che non armiamo quanti
vi sono idonei
de cittadini ? anzi, che
non portiamo le
armi contro le
città loro ; ma ce
ne stiamo qui a
bada, ed
accusando i Decemviri, ideando nuovi
magistrati, e discutendo
forme di governo, lasciamo quant'
è nelle nostre campagne,
come nella pace, esposto al
nemico ? Che sì ;
che infine, se permetteremo
che la guerra
giunga alle mura, corriamo noi
rischio di essere
schiavi, e che ne sia lì
orna stessa distrutta.
Non sono queste, o padri coscritti, le
maniere di uomini
sani, non le
maniere di una social
provvidenza, la quale antepone
al ben pubblico gli
odj privati ; ma
le maniere piuttosto
tli una contenzione intempestiva, di un
disamar sconsigliato, di una
invidia sciaurata, la
qual non lascia esser
savio chi ne
vieti preso. Tacciano
per Dio le controversie ; che
tenterò di esporre
ciò che avete
a decretare salutevole per
la patria, ed espediente
per 1 101, come terribile
pe’ nemici. Stabilite
ora la guerra co
Sabini f e cogli Equi :
arrolate diligentissinù e prontissimi
le milizie da
guidare contro ambedue
: e quando la guerra
abbia avuto buon,
termine, quando siansi in città
ricondotte le milizie
^ quando sia già rinata
la pace ; allora
volgetevi ad ordinare
il governo, allora chiedete
conto dai dieci
delle operazipni loro
nel mostrato, allora createvi
nuovi magistrati, fondatevi nuovi
tribunali ; e quando da voi
dipendono queste cariche
onoratene i personaggi che ne
son degni ; avvertendo, che pud
tboppo non seb FONO
I TEMPI Alts COSE
MA LE COSE
AI TEMPI. Spiegatosi Cornelio
in questa sentenza
vi aderirono, toltine pochi,
anche gli altri
che dopo lui
ragionarono, altri perchè la
stimavano necessaria, come -convcnien' lissima a'
fatti presenti, ed altri
perchè piegavansi e blandivano
i Dieci per timore
delia loro autorità, la quale avea
costernato non picciofa
parte de’ padri. XIX.
'Alfine essendosi opinato
dalla più parte,
e cora parendo quelli che
volcano la guerra
superiori di numero agli
altri ; invitaron tra
gli ultimi a dire
Lucio Valerio, quello che volea
fin da principio
proporre la sentenza sua, ma
se fu ritardato, come già
scrissi. Or costui sorgendo
tenne questo ragionamento
: Fedele, o padri j C inganno dei
Dieci] Non permisero
questi che a voi favellassi, com' io
volea, nel principio, ed ora
tra gli ultimi
mel permettono ! quando
pendano che io punto
non giovi la
repubblica, sebbene io segua
il partito di
Claudio, perchè ben pochi
vi si appigliarono. Che
se io mi
dichiaro per altro
consigilo, sia quanto si
vuole bonissimo, ne sarò
vanissimo difensore ove io
contraddica gli espósti
da loro. Annoverar si
possono facilmente quei
che dopo me sorgeranno
per dire : e quando
pure consentano tutti con
me, che può
mai risultarmene, non facendo essi
nemmen picciola parte
rimpetto ai fautori
di Cornelio ? Ma sebbene
io ciò veda ;
pur non
dubito dire il mio
sentimento: a voi si
spetta, quando udito lo
avrete, di volgervi al
meglio. Quanto al
Decemvirato, e le cure sue
del ben pubblico^
concepite che io ven
dica le cose
tutte, che il
prestantissimo Claudio ven diceva
: e che debbesi far
nuovi magistrati prima che
votisi per la
guerra, giacché pur
questo chiedea con purissimo
'fine quel valentuomo.
Tentò Cornelio mostrarvi impossibili
i cos/.ui su^erimenli,
pretestando il gran
tempo che abbisognavi
per le civili r forme, quando la
guerra ne ò sopra.
Egli mise in burla, cose niente
burlevoli, e con ciò commosse, ed
ebbe molti di
voi: ma io,
fofò vedervi, che
non è impossibile, no, la
sentenza di Claudio
; come niuno di quanti
la derisero osò
dirla nocevole : e vi mostrerò come
salvisi il territorio,' e puniscasi chi temerario
danneggialo : come ristabiliscasi intanto
il comando, che era
qui degli ottimati;
e come tutto si compia, cooperandovi i cittadini, senza che
niuno tenti il contrario.
Nè sarà già
questa una mia
saviezza ; ma io non
vi addurrò se
non gli esempli
di cose operate da
voi; imperocché qual
luogo hanno tnai gli
argomenti dove la
sperienza stessa ne
ammaestra su ciò che giova ?
Fi ricorda che i
popbli stessi che
ora le manti a/w, spedirono ancora
milizie in un
tempo stesso, già è r mino
nono o decimo^ su le terre
nostre e de^ gli alleati,
sotto i consoli Cajo
Nauzio, e Lucio A/i maio
F Foi mandando allora
molta florida gioventà contro i due
popoli ; f uno de' consoli
ridotto a triocerarsi in
luoghi disastrosi, non
potè far nulla, anzi videsi assediato
nel >suo campo
medesimo, e, sul rischio di
esservi preso per
la penuria de'
viveri. Nauzio poi
contrapposto a' Sabini,
impegnato da battaglie continue, non
potea nemmeno accorrere
verso i suoi che pericolavano
: non ignoravasi che
se periva V esercito
contro degli Equi,
non avrebbe nemmeno
potuto resistere V altro contro
de’ Sabini, riunendosi
insieme i nemici. E fra
tanti pericoli intorno
della città, mentre nemmen ci
avea nelC interno
suo la concordia, qual rimedio
voi ritrovaste ? Congregativi su la
mezza notte in
Senato ( lo. che giovò
sicuramente ogni cosa, e
dirizzò la patria
che rovinava ornai miseramente
), creaste un magistrato
solo, arbitro della guerra e della
pace, sospendendo tutti gli
altri ; e prima che
fosse giorno, ebbesi un
dittatore neir ottimo Lucio
Quinzio, sebbene si trovasse allora non
in città, ma
in campagna. Foi
ben sapete le imprese
operate dipoi dal valentuomo, come apprestò forze idonee, liberò V armata
che pericolava, e punì gV
inimici, pigliandone fino
il duce prigioniero. E fatto ciò
con soli quattordici
giorni, e riparlato quan^
altro pur v era
di male nella
repubblica, depose il
comando. Così niente
impedì, volendolo voi che
si creasse il
imovo magistrato, solamente in un
giorno ; e così dovete
> credo, imitarne V esempio, e
scegliere, poiché altro non
potete, un dittatore, prima
che di
quivi usciate. Se
trapassiam questo tempo, i Dièci non
pià vi aduneranno
per consultazione alcuna. E perchè sia
il dittatore nominato
legittimamente eleggete un interré
nel pià idoneo
de cittadini; come solcasi
fare quando i re
mancavano, o li con. soli,
nò si
aveano affatto, come ora
non le avete, legittime autorità.
Spirato che fosse
per questi il tempo
del comarulo ; la
le^e a sé ne
richiamava i poteri. Or
questo o padri, che è
sì fattibile ed
utile, è ciò che vi
eswlo di fare.
La opinion di
Cornelio porta la dissoluzion
manifesta del comando
degli ottimati ; imperocché se i
Dieci divengano una
volta padroni delle arme
per tale occasione
di guerra ; temo
che. valercnisene contro
di noi. (^uei
che non voglion deporre
i fasci, depotranno essi mai
le armi f Considerate ciò :
"'guardatevi da tali
uomini ; provvedete contro
tutti gC inganni
; poiché vai meglio provveder che
pentirsi; cotne é cosa
pià savia discredere gli empj ;
che, credutili, accusarli. Piacque
il dir di
Valerio ai più
come potè rilevarsi dalle voci
loro e da quelli
che sorsero dopo
di lui ; perciocché doveano
opinare ancora i giovani, e questi, eccetto pochi, lenean
per bonissitno,quel consiglio. Cosi quando
tutti ebbero opinato, e le
deliberazioni aver dovevano un
termine ; Valerio chiese
che i decemviri proponessero la
ritrattazion dei pareri, c che
di nnovo s invitassero
a dire tutti i senatori
; c persuase ciò fàcilmente, volendo molti
di loro cangiar eli
partito. Cornelio che
avea consigliato che
si desse a decemviri
il tornando deHa
guerra, opponeasi
potentissimamente; dicendo esser
questo un affare
già discusso, e portato giurìdicamente al
suo fine col
voto di tutti : pertanto
si annoverassero i voti
nè cosa ninna
si rìnovasse. Alternavansi tali
detti ostinatamente a gran voce
da ambe le
parti, essendone scisso
il Senato; perocché tutti quelli
che voleano riformato
il disordiu civile, favorivan Valerio
; ma peroravano per
Cornelio quanti preferivano il
peggio, e temeano de’ perìcoli
da un cambiamento. I decemviri
presa occasione di
fare a lor modo
per la turbolenza
del Senato, si -attennero
al parer di Cornelio.
Ed Appio, quell’ uno
di essi, re. catosi in
mezzo disse : JVoi
v abbiamo qua convocati o padri perchè
deliberaste su la
guerra cogli Equi e
co’ Sabini, e per questo
abbiam /alto che
interloquissero quanti il volevano
^ chiamando voi tutti
dal primo aia ultimo, ciascuno ordinatamente, al suo tempo.
I tre uomini • Claudio, Cornelio, e Valerio
in fine, ne diedero tre
pareri ; e voi tutti, quanti
altri qui restavate, li ponderaste
: e ciascuno, udendolo tutti,
espose il partito
al qual si
appigliava Tutto fu a norma
delie leggi : ed
essendo ai pià
di voi parato che
Cornelio abbia presentata
la sentenza mi^ gliore
; dichiariamo che questa
prepondefa ; e scritta Ut pubblicfdamo.
f^alerio e ti' suoi partitoni,
annullino se vogliono, ma quando
sian consoli, i giudizj già finiti
: ed invalidino le
sentenze già firmale
da tutti. E' cosi
dicendo, c comandando che io
scriba legesse 3 decreto
del Senato, col quale
ordinava che i dieci
làcesser la leva
delle milizie, e
ammiuistrasser la guerra ; sciolse
1’ adunanza. Quei
della panie decemvirale
ne andavano dopo ciò
superbi e gonfi, come vincitori, e come riusciti con
esser gli arbitri
delie arme, nell’ intento, che non si
abolisse il loro
comando. Per contrario
quelli che aveano voluto
il bene della
repubblica suvansi timidi e mesti; come
se non più
ne sarebbero gli
arbitri in maneggio ninno.
Dond’ è che si
divisero con risoluzioni diverse ; riducendosi
i meno ' generosi per
indcde a concedere tutto ai
vincitori, e consociarvisi ;
laddove i men paventosi teneansi
in placida vita
lontani dalie pubbliche cure ;
e li più
eccelsi di spìrito
faceansi ua seguito proprio,
intenti a difènder sestessi,
e trasmutare il governo. Capi
di queste unioni
erano Lucio Valerio e Marco Orazio, que’
dessi appunto che
intrepidi, proposero i primi al
Senato di ritogliersi
al decemvirato : e questi
custodivano la propria
casa colle armi, e sestessi con valida
guardia di 'clienti
e .di servi per
non patir violenza, e non mostrar
di temerla insidiosa
o palese. Quelli che
non voleano in
Roma part^giar coi più
forti, nè brigarvisi in
cure pubbliche, nè giudicavano intanto ben
fatto di starvi
in ozio indolente ; ne uscivano,. parendo loro
cosa non facile
di vincere i dieci
colle arme, anzi
impossibile di abbatterne
la grande potenza ; ed
era lor condottiero
1’ insignissimo uomo Ca)o
Claudio, lo zio
di Appio Clandio
capo decemviro^ il quale
adempiva le promesse
fatte in Senato
al figlio del fratello
quando stimolavalo a deporre
3 comando. xr., 337 ne T
Io indusse . Lui
seguivano torbe di
amici e clienti; ma,
datovi da esso
il principio, abbandonarono la patria
ancor altri colle
mogli e co’ Ggli, non
già di nascosto ed
in pochi; ma a
moltitudini ed in
pubblico. Altronde i
compagni di Appio
indispettiti del fatto
si misero ad impedirlo,
cbiudendo le porte,
e ritraendone alquanti de’ profughi.
Ma poi venuti
in paura, che gli impediti
si rivolgessero alla
forza, e considerando più
rettamente come era
meglio che uscissero
che rimanessero, nemici loro,
a conturbarli; spalancarono le
porte, e lasciarono andarne quanti
mai vollero; incolpatili
però come disertori, ne invasero
le case, i poderi, ed ogni cosa
non potata portar
via per l’esilio,
apparentemente a conto del fisco, ma
in sostanza beneficandone
i loro fautori, quasi comperata
l’avessero. Or tali
imputazioni date a’ primarj
esasperarono più ancora
i patrizj e i plebei contro
ai decemviri. Nondimeno
se qiiesti non aggiungevano novi
errori ai già
detti; parmi che
avrebbero tenuto ancora lungo
tempo il comando.
Imperocché stavasi ancora in
città la sedizione,
mallevadrice del poter loro, cresciuta da
tanto tempo, e per tante
cagioni : le quali facevano
esultare a vicenda gli
uni pei mali degli
altri ; li plebei
perchè vedevano, mancato
il cuor ne’ patrizj, e nel Senato
ogni arbitrio su la repubblica; e li patrizj,
perchè vedevano il
popolo ridotto in tutto
senza libertà e senza
forze, fin d’ allora che i
dieci gli tolsero
l’autorità de’ tribuni. Ma
perciocché tali decemviri nè
moderali in campo,
nè prudenti ìu
Roma, Vedi S i5 di questo
libro. 4 v ptONlGl > ITI’, la iasistevaDO con
assai durezza centra
l'uno e Tallro par ti(o,
lo astrinsero infine
a riunirsi, e deporli colle
arme stesse, avute per la
guerra. Tali poi
furono gli ulllmi delitti pe’
quali svergognato il
popolo, ne infuriò. Dopo che
ebbero stabilito .in
Senato il de creio
per la guerra
; descrissero in fretta
le milizie, e divisele in
tre parti, ne
serbarono due legioni
per guar dia deir
interno della città. Piesedeva
a queste due Ap pio
Claudio il capo
decemviro insieme uon^
Spurio Op pio. Intanto
Quinto Fabio, Quinto Poeteiio
e Manio Rabuleio nè andarono
con tre legiodi
contro de' Sabini: partirono con
altre cinque per
la guerra .contro
degli Equi Marco Cornelio, Lucio Minucio, Marco Sergio, Tito
Antonio, e Cesone Duvilio finalmente.
Militarono con essi le
truppe latine, e di altri
alleati, non meno numerose delle
romane. Ma con
tantb milizie urbane, con
tante ausiliarie, niente riuscì
loro secondo il
disegno. Imperocché li nem'tci
spregiandoli come nuove
re clute, si accamparono vicinissimi
a loro; e ne invadevano i viveri che
erano ad èssi
portati, insidiando le strade, e
gli assalivano mentre
uscivano ai pascoli.
E se mai venivano
ordinati alle mani,
cavalieri con cavalieri, e fanti con
fami; riuscivano da
per tutto vincitori i nemici ; perocché
non pochi Romani
mandavano alla peggio ogni
cosa, indocili al capitano, come restii
per combattere. Quelli che
erano tra’ Sabini, renduti sav) da
mali minori, deliberarono
da seslessi di
abbandonare il campo: e levandosene
circa la mezza
notte ripassarono con una
ritirata, simile ad una
fuga, dal territorio
nemico nel proprio; fino a
Crustumero, città nou
lontana Digitized by Google tiBno
jfi. 339 da Roma.
Gli altri che.
teneano il campo
nell’ Algido della regione
degli Equi, ne
riceverono ancor essi
non poebe^ percosse. Ma
ostinandosi incontro a’ pericoli,
quasi a riaversi' dalie perdite, incorsero in
danni lagrimevoli.
Imperocché spintisi i nemici
su loro, cacciarono quelli che
erano in guardia
degli steccati; e salite
le trincee, occuparono il
campo, e vi uccisero i pochi
che resistevano, uccidendone anche
più nell’ inseguirli.
Quelli che scamparono colla
fhga, feriti in
gran parte, e quasi tutti
privi di arme,
ripararonsi al Tuscolo.
Del resto tende, giumenti, danari,
schiavi e tutti gli
altri apparecchi furono preda
ai nemici. Saputasene
in Roipa la nuova
i nemici del decemvirato, quelli ancora
che ne occultavano 1 odio,
si dichiararono, esultando
su la rea condotta
de’ capitani. E già
grande era Ja
moltitudine presso di Orazio
e di Valerio, capi, come
fu detto, de' crocchi
aristocratici. XXIV. Appio e Spurio
somministrarono a quelli che comandavano in
campo arme, danari, grano,
ed ogni bisogno, pigliandone
superbissimamente da’ privati
e dai pubblico: e reclutando dalle
tribù tutti gl’idonei
a combattere ; gl’'
inviarono loro in
supplemento de’ morti, e delle schiere.
Invigilarono diligentissimi su
Roma, presidiandovi i luoghi
più acconci; talché
il seguito di
Valerio non fosse occulto
nel sommoversi. Commisero
per vie sécretissime ai
capi dell’esercito di
sterminare i loro contrari,
in occulto se
riguardevoli, ma palesemente se ignobili,
sempre però con
qualche pretesta, perchè
paressero giustamente
levati. Altri mandati
da essi a foraggiare, altri a proteggere
i trasporti de’ viveri
; ed altri ad altre
belliche incombenEe lisciti
dagli alloggiamenti, non furono
mai più vedùti
in alcun luogo.
Ma li più ignobili
accusati _ di aver dato
princi'pio alla fuga, o portato secreto
notizie ài nemico, o non
mantenuto r ordine, erano in
pubblico trucidati per
ispavento comune. Così le
milizie erano in
due modi disfatte
: le fautrici del -decemvirato
pe’ cimenti col
nemico, e pei capitani le altre
che ridesideravano jl
governo degli ottimati. Appio co’ suoi
commetteva in città
delitti consimili e non pochi
: la plebe tenne
picciolo conto di alcuni
estinti quantunque fossero
molti di numel-o
: ma la morte barbara, ingiusta di
uno de’ plebei
più cospicui, celeberrimo per
le belle virtù
sue nel combattere, operata nell’ accampamento ov’ erano
i tre capitani, decise quanti
vi erano alla
ribellione. Sicciu fu I’ ucciso, quegli che
avea combattuto le
cento v^nti battaglie, raccogliendone sempre' il
premio de’ prodi, quegli che disobbligato già
per gli anni
dal > guerreggiàre, si diè spontaneo
per 'la guerra,con
gli Equi menandovi
per r amor che gli
avcano, altri ottocento, già
liberi ancor essi a norma
delle leggi da’
servigj militari : quegli
che spedito dall’ uno
de’ consoli contro
le. trincee nemiche a rovina come
parea manifesta; pur
le invase, e preparò pienissima la
vittoria pe’ consoli.
Or quest’ uomo, cercando Appio co’ suoi
di levarsel d’intorno,
perchè avea molto parlato
in città contro
i duci del campo
come codardi e imperiti io
trassero a discorsi amichevoli, lo invitarono
a deliberare con essi
intorno le cose
del campo, e dire come
fossero da emendare
gli errori de’ capitani
i e Io indussero infine
ad andare in
forma di legato all’
armata di Crustumero.
È tra’ Romani il legalo
onoratissima e santa rappresentanza, con l’ autorità de’ comandanti, e con
la riverenza e la
inviolabilità de’ sacerdoti. Lo
accolsero al giunger
suo con benevolenza i duci, e lo stimolarono
affinchè stesse e comandasse con essi ;
anticipandogli de’ doni, e promettendogliene ancora. L’uom
d'arme, tutto ingenuo
in seslesso, deluso dai
scellerati, come lui
che non capiva
i presti gj delle parole, e
quanto erano ingannevoli
; suggerì loro le cose
che utili riputava,
e soprattutto che trasferissero il campo
dal territorio proprio
a quello de’ nemici
; additando i mali che
ivi soffrivano, c rilevando i beni che
da tale passaggio
nascerebbero. Fingeano
que’duci udirne con
diletto gli ammpnimenti
: Adunque che non
ti. fai tu
duce, gli dissero, di
questo transito,
preeleggendone il sito
opportuno, tu si perito
do' f ioghi por
le tante tufi
spedizioni ? Noi ti daremo
schiera eletta di
uomini, espediti per armamento
leggiero. Avrai tu
cavallo come alT età
tua si com’iene, ed
armatura degita. dei tuoi pari.
Tenne Siccio l’invito,
e chiese cento uomini scelti. Quegli,
essendo ancor notte,
spediscono lui senza indugio, c con lui
cento i più baldanzosi
de’ loto fautori, istrutti, e mossi ad
ucciderlo con lusinga
ahiplissima di ricompense.
Or questi giunti,
ornai ben, lungi dal campo, in
luogo montuoso, angusto, e difficile
di ascenderlo a cavallo, se non
di passo, ordinaronsi,
datone il segno, in
maniera da serrarsi
in folla su
lui. Un tale, sostenitore e servo
di Siccio, valoroso tra le
34 a, arme, indovinando il
cor loro, diedene cenho
al padrone. Il quale
vedutosi in tanto
disagio di sito
da noa potervi nemmen
slanciar con forza
il cavallo', ne
salta, e postosi coir unico
sostenitore suo in
una balza per non
esservi circondato, aspetta che
ve lo assalgano.
Or tutti ( ed erano
molti ) assalendovelo ; ne
uccide intorno a quindici, feritone
il doppio : e parca, se lo
assaliva da presso, che avrebbe, combattendo, straziato ancor gli
altri. Ma questi,
conceputolo per invincibile,
e come non era dà
prenderlo a corpo a corpo
; non vennero in tal
modo alle mani:
ma tenendosi lontani
da lui; lo fulminarono con
dardi, sassi, e legni. Ed altri
avanzandosi di fianco in
&ul motttc, e riuscendogli a tergo, rotolavano dall’
alto macigni stragrandi
: talché per la moltitudine de’
dardi lanciatigli conira, e per
la enormità de’ sassi
che cade.mu romorosi
dall’ alto, lo oppressero in 'fine: e questo
fu il termine
incontrato da Siccio. Tornaitono gli
uccisori co’ feriti
nel campo, e vi pubblicarono
che una insidia
ióiprovvisa di nenrici avea
spento Siccio, e gli altri, che
assalirono i primi, e che essi
he erano a stento
scampati, ricevutine molle ferite.
Pareano questi dir
vero ; non però
si giaeque occulta la
loro per6dia : ma
sebbene avvenisse 1’
eccidio in luoghi deserti
e senza testiinonj ; i fati
stessi e la giustìzia che
invigila le cose
umane, lo diedero
a conoscere per segni indubitati -.
Imperocché quei del campo
riputando 1’ uom
forte degno di
pubblica sepol A quella
icotenza somiglia quella
lauto vera di
Arioslo can. 6 e tanto
poco tenuta in
peotieio dagli nomini. tara. e di onori
distinti rispetto degli
altri, per più
cause, e' principalmente pel
carattere suo di
legato, e per cbè libero
già da’ servigj
militari, eravisi cimentata di nuovo
per util comune;
decisero di unirsi
dal complesso di tre
legioni e di uscjre
cosi per investigarne
il cadavere, onde riportarselo
con pieno decoro
e sicurezza. Concederono
questo i capitani per
non dare sospetto alcuno delle
insidie : e prese le
arme uscirono intenti all’^opcra bella
e degna. Giunti al sito e
vistovi non selve, non valli, non
luoghi consueti per
le insidie, ma una
balta tuttar nuda
ed aperta,.ed angusta
a passarla; sospettaron
bentosto ciocch’era. Avvicinatisi
quindi ai cadaveri % mirato
Siccio e gli altri
derelitti, ma senza essere
spqgliati; si meravigliarono che-i
nemici, vincendo, non avessero
levate loro non le vesti, nè
le anni. E specolando ihtoroo
ogni cosa, nè trovando
vcstigia di cavalli o di
uomini se non
le impresse nel sentiero;
tennero per impossibile
che i nemici fossero
su loro venuti improvvisi, quasi uccelli.,
o uomini discesi dal cielo.
Ma, più che
questi e simili indi^,
il non trovarsi ivi
cadaveri, di avversar)
fu. loro argomento evidentissimo, che gli
amici ne erano
stati gii uccisori
e non i nemici. Imperocché
non parea loro
che Siccio, e quel Miscr chi
maV oprando si
confida, Che ngnor star
debba il maleficio
occulto ; Che quando
ogn’ altro taccia
intorno grida V aria e la
terra ittetsa in
che-d tepultq^ . E Dio fa
spesso che 'I
peccato guida Il peccator,
poi cV alcun di
gli ha indultoChe" si medesmo, seni' altrui
richiesta JnavOedutamstnle
mastifesla. ^44 nF.LT,E
sosteuitore suo, e gli
altri, che seco perìroofi,
sarebbero morti inulti,
specialmente se venuta
si fosse, quanto
si può, (la vicino alle
mani. Rac(:olsero. ciò
ancora dalle ferite : perocché
Siccio, come quel suo,
sostenitore, ne avea molte per
colpi di sassi
o di strali e di
spade ; laddove gli
uccisi da loro
avean colpi di
spade si, non di
sassi, o di strali e di
saette. Adunque .ne
sorse indignazione, e claipore, e
lutto. Alfine compianta
la disgrazia ; raccolsero e portarono
il cadavere ai
campo : e là gridarono
altamente contro de’
capuani, esigendo allora
allora secondo la
legge militare la
morte degli uccisori ; o che
sen fidasse almeno
il giudizio ; e già molti
erano pèr,farvisi accusatori.
Ma conciossiaché non davano
loro udienza, e nascondeano
gli uccisori, e^ne differivano il
giudizio, con dire che
in Roma darebr bero
a chi la volea
la podestà di
accusarli ; ben vtdesi che
la trama era
de’ (ùpitani. Adunque
portarono (xm magnifica
pompa Siccio al
sepolcro, alzandogli una
pira meravigliosa, e tributandogli secondo
il loro potere
altre primizie che la
legge concede negli
onori estremi dei valentuomini. Alienaronsi
allora tutti dal
decemvirato; e pensarono
come liberarsene. Cosi
l’ esercito presso
Chistumero r Fideue era
nimico a’ suoi
capi per la morte
di Siccio legato. L'
esercito acc;impato nell’
Algido della regione degli
Equi, e la molutudiiie in
Roma crasi per tali
cagioni esacerbata tutta
con essi. Lucio
Verginio un plebeo, non
secondo a niuuo nella
milizia, starasi capo di
una centuria nelle
cinque legioni, belligeranti
con gli Equi. Avea
costui per avventura
una figlia vaghissima fra ratte
le donzelle romane.
Ella portava il
nome del padre, ed
avealasi pattuita in
isposa Lucio Icilio,
uomo tribunizio, qome 6glio
di quell’ Icilio che
primo fe’ stabilire, e primo assunse
T autorità di tribuno.
Appio Claudio il capo
decemviro vista la
verginella che leggeva in
una scuola ( stavansi
allora le scuole
pe’ giovinetti intorno del Foro)
bentosto ne fu
preso dalla. bellezza ; anzi vinto
dalla passione era
così tòlto a sestes-^ so, che non
potea non passare
più volte intorno
della scuola. Or non
potendo torlasi sposa
come già sacra
ad altri, anzi perchè egli
avea pur moglie, e perchè non istavagli
bene donna plebea
di lignaggio contro
il suo grado e la
legge scrìtta da
lui nelle dodCci
tavole ; su le prime
tentò corrompere co’ danari
la giovinetta. Egli mandava
ad pra ad ora delle
donne con doni e
promesse maggiori' alle nudrici di
essa, orfana già
della madre ^ avea però
comandate le donne
che tentavano le nudrici
a non dire chi
fosse l’amante della
fanciulla, ma solo eh’
egli erg un
tale che potea, volendo, -beneficare e nuocere. Non
potendo però^ guadagnarle, anzi vrt.duta la
donzella guardata più
che prima, si mise, caldissimo che
ne era d’
amore, a camminare altra via con
meno ancora di
sénno. Fattosi chiamare
Marco Claudio, r uno de’ suoi
clienti, uomo ardito e pronto ad
ogni servigio, gli additò
la Gamma sua :
e prescrit(t) Forse nipote’,
perchfc dalla islitusione
del tribonato all' anso prescote decorsero
45 aooi. Pertanto
Lucio Icilio di
cui qui ai
ragiona o era nipote ni, Icilio
Ruga, o coOTÌen dire
che di molto
eccedesse gli anni di
Virginia destinatagli sposa
; seppure non voglia dirsi
che Icilio Ruga
generasse beo tardi
quel figlio. > togli
cioccliè volea che
facesse, e dicesse ; lo
spedi con allato uomini
impudentissimi. Costui recatosi
alla stuoia, vi tolse
la vergine, b volea recarsela
palesemente pel Ford. Impedito
però dai clamori
e dal grande oucorso,
di recarsela dove
avea stabilito; venne
al magistrato. Sedessi allora
nel tribunale Appio'
solo, rendendo risposte e r&gioni a chi
ne chiedeva. Or
volendo colui dire, sòrsene rumore
e sdegno tra circostanti, i quali tutti reclamavano, perché si aspettasse 6nchè
venissero i parenti della fanciulla
; ed Appio ordinò
che in tal modo
appunto si facesse.
Passato appena picciolo
tempo; ecco presentarsi
'Publio Numitore nomo
insigne tra i plebei, zio
materno di lei,
con, seguito di molti
amici e parenti; e dopo non
molto ecco giungere
con numero poderoso di
giovani plebei Lucio
Icilio, quegli che
per le promesse dèi
padre aver dovea
la donzella in
isposa. E questi, tutto
sospeso ed ansio
nel respiro, avanzandosi al tribunale, addimandò chi
osato avesse toccare la
giovine' cittadina, g (die
mai ne pretendesse. Fattosi intanto
silenzio. Marco Claudio,
quegli appunto che avessi
preso la donzella,
così ragion:^; O j^ppio Claudio, niente ho
io fatto di
temerario, niente di violento
contro la fanciulla. Signore, come io tono
di lei, secondo le
leggi me la
conduco. Or odi comi
ella siasi la
mia. Ho io
una tal serva
paterna che ministrami già
da tempo lunghissimo.
Or questa, familiare che ne era,
usava di
andare alla mo"liè di
f^érginio; e la moglie
di Ferginio persuase lei
gravida a concederle, quando che
fosse, il frutto del suo
ventre. La donna, partoiita una
figlia, ( ed era questa )
serlà le
promesse ; e àiedela a Numitoria,
con fingere presso
noi che uscita
fosse la di lei
prole già morta.
Numitorià tuttoché madre
non fosse di fanciulli
o fanciulle, la pigliò,
la fé' sua,
la nudrì, senza che
io sapessi nel
principio la vicenda.'
Or la so per
indizj di molti
e buoni testimonj : io
ho fatto t esame di
quella serva, e ricorro alla
legge comune per tutti
ha quale vuole
che sia la
prole non di
chi la impostura
per sua, ma di
chi 1’ ha
gene rata ; e che libera
sia se nata
di libera, e serva, se nata
di serva, de’ padroni
stessi delle madri
u. Su questa legge esigo
di riportarmi la
figlia della mia serva, pronto a subirne
il giudizio: Che se alcuno
la reclama per sua,
dia certi mallevadori
di riprodurla in giudizio
: ma se anzi
vuole chi^ ora
qui sen tratti
la causa io lo
secondo, voglioso c^e si
espedisca anzi che si
procrastini, e che io mi
assicuri con mallevadoii
la vergine. Scelgano
qual più vogliono
di questi partiti. Claudio cosi
disse aggiungendo vive
preghiere di non essere
considerato meno de’‘suoi
competitori per amici, e torlasi a forza quando glie
la ripresent'avano per
la sentenza. E perchè 11
giudizio fosse con
buona forma, sul pretesto
che il padre di lèi non
erasi presentato ; diè
lettere a cavalieri fedelissimi,
e li spedi nel
campo ad Antonio, cdroandante della
legione ov’ era Verglnio,
con ordine che ritenesse
quest’ uomo cautissima
mente, talché udite le vicende
della figlia, da fui
non s’ involasse.
Ma Io prejr vennero, attinenti che
erano alla donzella, il
figlio di Numitorio, cd
il fratello d’ Icilio, spediti avanti,
sul nascere appena della
sommossa. Giovani pieni
di coraggio fornirono prima
il vaggio sferzando
i cavalli ed abbaudonando
loro le redini
j e _ narrarono a Vergitiio
l’evento. E Verginio, ^cimane
ad ^Antonio la
cagione vera, e fintogli di aver
udita la morte
di un suo pa
rente di' cui
doveasi fare il
trasporto, e la sepoltura
secondo la legge, ebbe
il congedo. E presso
1' ora in cbe
accendonii i lumi ; se
ne andò con
que’ giovini, ma per
altra via, temendo, come avvenne, di
essere inseguito da quei
del campo e della
città; perocché Antonio, ricevuta
la lettera circa
la prima vigilia,
spedi contr esso una
banda di cavalieri,
mentre un’altra spe dita
da Roma guardò
per' tutta la
notte la strada
che vi conduceva dal
campo. Ma non
si tosto un
tale ridisse ad Appio
che Yerginio era
l’unto contro la
espettazione; egli, uscito
di' senno, ne andò con
gran seguilo al tribunale, e fece che a
lui si
chiamassero i congiunti
della donzella. Venuti' questi, Claudio ripetè
lo stesso discorso, e
dimandò cbe Appio
senza indugio decidesse l’affare;
dicendo esser pronto
chi lo esponeva, e chi lo
attestava, fin la serva, madre
vera della fanciulla. Simulava in
tutti questi atti. che
assai si sdegnerebbe, se esso
per essere cliente
di lui non
ottenea come prima la
giustizia egualmente che
gli altri ; e dimandava che ajutasse
chi dicea cose
più vere, non
chi più lamentevoli. Il padre
della donzella e gli
altri patenti escludcano la
supposizione del parto
con molti argomenti giusti e veri, per
esempio che non
ebbe cagion plausibile di
farla la sorella
di Numitorio c moglie
di Verginio maritatasi vergine
ad utl giovine
la quale partorì tra
non molto : appresso
perchè sebbene voluto avesse
iotradere in sua
casa un 6glio
altrui ; v’ avrebbe intruso non
il figlio di,
una donna schiava, ma
quello di una ingenua,
amica o parente sua,
onde ritener fedelmente e stabilmente ciocché
TÌce'’eaiée : ed arbitra
in tutto di Scersela
Come volea, scelta
s’ avrebbe la
prole non femipea, ma > vivile} imperocché
la donna che
partorisce, vinta dall'
aderenza pe’ 6gli che
partorisce, ama e nudre ciocché
la ‘natura le porge:
laddove, la donna che
imposturasi un 6g)fO
sei' cerca del > sesso migliore, non
del più ignobile.
Contro lui poi
che dava .l’ indizio,'e .contro i molti
tesu'monjedibili da Claudio
come degni di fede. allegavano cagioni
tratte dal verisimile
: vuol dire che
Numitoria non avrebbe
operalo imai palesemente e presenti molti
ingenui tekùmònj tur
fatto che abbisognava di
silenzio, e che -pbtea' fornirsi
col ministero di un solo ;
e c|ò perché la
prole edncatà non fosse
col tempo ritolta
dai padroni delia
madre. Agginngeano che
la dilazione non
picoiola' era segno
evidente che il calunniatore
non prolTeriva niente
di vero: perocché colui
che dié l’ indiziò
'della supposlzioue e gli
altri che la
cooteslano -l’avrebbero molto
'iuoansi svelata, non tenuta
Segretissima per quindi^,
anni. Frattanto redarguivano le
pròve degli accusatori,
come non vere 'né
credibili, e chiedeano che
si paragoudssero colle altre
loro, nominando molte
doqpe non ignobili le
quali dicevano aver
veduta Numitoria gravida
cOn pienezza di utero.
Olirà queste ne
additavano altre che in
fom del parentado
venute pel parto
o per la pimrpera
aveano mirato k prole, ed
iuasievano perché s’ iuViomci
terrogassero. Era poi di siderando
queste e simili cose,
e fra lóro discorrendole, ne piangevano.
Appjo altronde, come non
cauto, per matura, e
corrotto dalia grandezto
del potere, invanito di sestcsso, e caldo ' di
amore nelle viscere, non
ohe attendere al parlare
dei difensori, e commoversi alle lagrime
della vergine, adiravasi per
la compassione che di -lèi' Sentivano >i
circostanti (Juasi di
compassitme egli fosse più
degno, e patisse mali
più grandi, ridotto
prigioniero dì quella
bellezza. Da tali
cause infuriato ardi fin
di 'fare' impudenti discorsi
(pe’ quali, coloro che
già ne sospettavano,' foron
-chiari, 'che sua era 1
impostura contro la donzella
) > e compiere infine la
barbara c tirannica azione. Àncora parlavano, quando egli
iuUqoò sUeniiio ; e. feoesi.
jbtanlò la moilitudine
che era nel Foro, ^ntenendo lo
adegno si spinge
innanzi per desiderio d’ intendere
ciocché direbbe ; ed
esso volgeo'. dosi qua c
là per
numerare col guardo
i crocchi degli amici co quali
avea p|:ima occupato
il Foro cosi
favellò: O Verginio j o voi qui
presenti con, esso f fiqn
io sento ora la
prima voltd un
tal fatto, ma lo sentii prima
ancora di giutfgere
a questo magistrato. Or udite
; Come ' lo sentàsL
11 padre di questo
Marco Claudio ornai. spiratido la
fitfl y pregavnmi die io
prendessi la tutela
del figlio lascialo
da lui piccélo
; giqcchò essi fin.
dagli antichi loro
son . clienti della ìiostra famiglifc.
Or mentre io
rn era il
tutore di esso udii
della donzella e .come
Numitoria sala suppone; prendendola dalla
sert>à di Claudio:
ed esaminatala; trovai che
appupto cosi pava
•' dettai c, giudico esser
Claudio padrone della serva. Udito
ciò, quanti ivi erano
fiomlni iniegrì, sostenitori di
que’ che dicevano
il giusto, levarono le mani
al cielo, con “"un
grido misto d’
indignazione, e di pianto : per
1’ opposlto i partigiani
de’ Decemviri, mandavano voci
atte ' a confortarli ed
animarli. Irritatasi però l’adubanza,
e riempiuta di ogni
guisa di afTetti, e discorri ; Appio
intimo silenzio, e disse : O tutbolenti, o inutìii a tutto
nella guerra e nella
pace !• se non
cessale di sonunover
la' patria, e di
controporvici ; farete alfin
senno per forza.
Non pensate, jche abbiamo noi
messo un presidio
nel Campidoglio, e nella fortezza
soltanto contro i nemici
di fuori, e che lascèremb
poi fare quei
iT entro, i quali sconciano ih
Roma, ogni cosa.
'Prendete consiglio migliore
^ thè non avete
o. voi tutti a quali
non spetta C affare ; andatene per
le cose vostre
in buon ora. £
tu Claudio recati ria
pel toro ' la
donzella : non temere ; giacche i dodici
miei Colle scuri
ti saran guardia. A ul
dire gli altri
ululando, battendosi la
froòte, nè potendo raffrenare
le lagrime, partirono
dal Foro; e Claudio succò
via la donzella,
che stringeva, che baciava
il padre suo, e con
voci affettuosissime lo
invocava. Fra tanti mali, Yerginio si
mise in pensiero un’
azione, amara, addolorevole
ad un padre, ma
degna di ud nomo
liberò, -di un
Uomo generoso. Egli intercedette di
salutare ancora una
volta la 6glia, e di parlare a lei
le cose, che volea
da solo a solo
; prima che dal Foro
la involassero. Condiscesone
dal capitano, e ritiratisene alquanto
i satelliti, abbraccia la figlia
che sviene, che abbandonasi ; e cosi
la sostiene, richiamandola, baciandola',
rasciugandola dalle lagnile,
che la inondavano. Poi^
trattala seco un
poco, non si tosto
fu presso la officina
di un niacellajo,
rapiscene di su dal
banco la
coltella, ed immersela
nelle viscere della
figlia gridando: Figlia (i
mando Ubera e casta ai
nostri sotterra: per colpa
del tìrarmo già
ntm potevi tu
viva serbare questi pregi.. SóHevatisi intanto
de' clamóri ; tenendo in
pugno il ferro
insanguinato, egli stesso
grondante del sangue,
sebitaato su lui, nell’
uccidere della figlia, corse furibondo, peó la
città, reclamandovi la
libertà ; de cittadini.
Passate a fona le
porte, àìcese il cavallo, ebe tenessi
per Ini' preparatp, e rivelò nel campo, riaccompagnatovi dà
Icilio, e da' Knmitórlo, i
giovanetti ebe ne
1 cavarono. Teneano
loc' dietro anche altri plebei
non pochi, Jn numero
quasi di ^attro. cento. j ' ;Appio
al caso della
^giovinetta,. levatosi da
sedere, si slanciò
cpme per inseguire
Verginio, dicendo, e facendo
cose non degne
: ma eiroondandolo, e pressandolo
gli, amici a non traviare, si
ritirò, pieno di rabbia su
tutti : quando ornai
-presso della sua
casa udì da taluni
de' suoi fautori, che
Icilio il .suocero, e Nut raitore lo zio,
ridottici con altri
amici, e congiunti intorno
al cadavere, gridavano
conteaIni an colpe
no> te, e non note
concitando tutti a rendersene
liberi una volta. Colui
spedì per la
rabbia che ne'
ebbe, alcuni de’ littori, -con
ordine d’ imprigionare
i maledici, e di levare dal Foro
il cadavere; opera,
insana in v?ro,
sconvenientissima al tempo.
Imperocché mentre doveacarezzar
la moltitudine incollerita
giusUmente, e-jóedere in principio
al tempo, e poi rdifendersi, pregare, beneficare onde’ riconciliarsela ; egli
'corso Alla violenza, ridusse tutti. a disperarsi. Pertanto
non permisero che gl’
inviati levassero la
estinta, o' portassero alcuno
nella carcere : ma gridando, ed
animandosi gli uni
gli altri ; cacciarono
dai Foro coll’impeto,
e oolle percosse i mi'nistri
della violenza. Talché
Appio, ciò udendo,
fu costretto dì recarsi
con molte partigiani
e clienti nel F oro, e comandare 'che
battessero, e sbandissero, chi
v era, ne’ capi delle
vie. Orazio e Valerio,
duci come ho
detto degli altri a riprendere
la libeiné, sentito il
disegno dell’ uscir di colpi,
menarono' con sé molti
bravi giovani, e si' misero
dinanzi k estinta. E qpando
ebbero più \icini {'compagni
di ‘Appio, prima inveirono,
(jnanto poterono, su loro cOn -clamori .ed
ingiurie ; é quindi,
pareggiando ai detti
le opere, ferirono e rovesciaronoquanti osarono
lanciarsi su lOro.
Appio mal .sofferendo
l’ostacolo impreveduto, nè trovando
come trattare tali
nomini \ risolvette di correre
Una viaria più
rOvinOk. Impéròccbè portatosi al
tempio di Vulcano
; invitavi a parlamento la ' plebe,
quasi' benevola ancora verso
di esso: e prendevi ad
accasare la inginslizia,
t la dnsojenza di
tali uomini, lusingandosi per l’
autorità sua .tribunizia, e per le
vane speranze, ebe la moltitudine
gli concedesse di
precipitarli dalTa' rupe.. Afa i
compagni di Valerio
occupata l’altra parte del
Forò, e postovi il
cadavere della vergine visibilissimo a .tutti, ''convocarono un
altra adu.'nahza; facendovi
vivissime aCcusé di
Appio e de’ suoi. Occorse, com’era
vcrisimile’,
che’aUÌt'andovene altri 'la
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XI. . 359 riverenza per ^questi
' nomioi,, altri la
commiserazioae vereo la dctazella
soggiaciuta a vicènde dure,,e
più, che dure per
la sv>a bellezza
infelice, ed, altri H.
desiderio stesso della forma
.precedente df governo, vi
si rioni più gente
che intorno di
Appio : tanto che
non rima-c seto presso
questo 'se non
pochi, appunto i partigianir
ira'qtuli cc ne^avéa
pur alèoni, che per
molte cagìoivi mal
più si acconcravano
eoi Decemvirato,, contèntissimi di rivolgersi agli avversar), sé il
partito loro si
fortiGeasse. Appio vedendosi
derelitto ^ -fo cpstretio
i mutar COtasigHo,'e '
ritnrarsi dèi Fpro^cioecll&' moitissiUo
gii giovò. Imperocché prèso
a cólpi'dalia moltitadioe pagata le
avrebbe le giustissime
pene. Dopò .ciò
Valerio . acquistata
preponderanza, quanta 'ne volle,
si sfogò perorando contro ai 'Decemvirato, e decise in
favor suo perGno i dubbiosi.
Molto. più' poi conjpccia'rono la moU
titudiiie contro ai
Dètèiòviri i parenti della
vergine, recando -al Foro .il
feretro, -e T altro lagubre
apparato, maguiGco quanto potevano, è facendo ..la
traslazione del cadavere per le .vie
più illustri, di
Roma, onde fóssevi più rimiralo;
imperocché còrreabu fuori
di casa matrone e donzelle per
piangere la sciagura
e qual d’esse gettava su
la bava Gori^e
ghirlande', e qual veli
e. nastri . e fiV;gi pel capo
di .una vergine,
e quale, in Gne.te anella
de’ Vecisi capelli
: iiratlantor molti uomini
•nobilita vano 'la liinèbre pómpa
con' doni convenienti, presi
grsìtnitamente’ o con pfeézró
dalie prossime olBcIce.
Tanto che divulgaiissima era
per' la citrii la
lagrimevole cerimònia, éd avea
tulli acceso il
desiderio di -spègnerti la' lirannlde. Ma
qnei chè la
difeudeano f isirntii che 1 ' ; ‘ ".jd ny erano
di arme, davano grande
spavento ; laddove Va^ lerio
W SUOI non volea
finire col sangue
de’ duadim la disputa.
". Tale era in
Roma la turbolenza.
Intanto Verginio che
avea^ come ho
detto ^ itccisa di
sua mano la figlia
spronando.' a briglia
sciolta il .cavallo i giunse agli alloggiamenti presse
l' Algido su l’
imbruttir della sera, tutto
lordo -di sangue, e. colla ooltelitt, in
pugno, appunto. com’ era fuggito
da Roma. Vedi^tolo, i soldati che stavansi
a guardia innanzr del
campo ^ non sapeano indovinare ciocché . avessè patito^
e lo accompagnarono per intenderne
1 alto.' e terribile
caso. E colui tuttavia camminava piàngendo,
e significando a quanti gli erano intorno
di .seguitarlo. Uscivano
fin di mezzo
alJf cena da’ padiglioni, presso i quali
passava, soldati Jn folla
y con faci e làmpade,
pieni di mestizia
e tumulto, e fa cendogli corona^
lo accompagn#ano. Alfine
giunto in un luogo
spaziose del campo.,'
e salita una eminenza ov’ essere da
tutti veduto, nar^ò.
le disavventure sue, dandone
per testimou) quanti
erano con esso, venati
da Roma. E quando infine
videne molti addolorati
e piangenti-; fecesi allora a supplicarli
e scongiurarli di non permettere che
restassero,. egli
invendicato, ^ concaicataria patria.
E lui coti dicendo,
ecco. in tuttigrande la voglia
di. udirlo e viva 1. istigazione perchè
parlasse. Adunque tamtx più
animoso 'inveì su’ Decemviri,
mostrando di quanti, aveano
essi tolte le
sostanze, di quanti flagellato il
corpo, e quanti ne
aveano ridotti senza colpa
niuna a lasciare la
patria ^ e numerando insieme le
ingiurie verso le
matrone, i ratti delle donzelle. nubili, i '.disoBoramenti de’ liberi > garzoncelli, e, le,
tante altre ingiustizie e tirannidi.
E così, disse, ci
calpestano (Questi, senza che
ne aibiano il
poterti non dulia legge, non dal
Senato, non dal popolo.
Imperocché spirato è /’ anno
dflla loro magistratura
; e spirato ; doveano in
altre mani> trasmetterla'.' violentissimi però la
ritengono ; spregiando in noi,
quasi in
femmine, la paura grande
e' la codardia.
Ognun • di voi
qui ricordi quanti^ mali
ha da loro
sofferti, o veduto sofferirsi
dagli e^i. Che se alcuni
qui blanditi da
essi mai con' piaceri o favori, non
temete il Decemvirato, ne apprendete
che eguali mali
siano per., venire
un giorno su voi,
sappiate che non
vi è fede pe
tiranni, sitppicUe che non
donano t' potenti
per benevolenza, e sapendo queste
e simili, cose,
Uorreggetévene : ed unanimi tutti
Iterate da tù'onni
la patria, quella dove sono i
templi de\ vostri Dii,
dove le tombe
dei vo.stri maggiori, ! quali
voi riverite appresso
gV Iddj, dove li
veóchi genitori che
.dimandano il premio
dei travasi e delle tante
cure per voi ^ dove
le mogli, vostre legittime
^ dove le figlie
nubili, alle quali
deesi non tenue Id
Vigilanza: dove infine \i
vostri figli maschi, che
aspettano da voi
cose degne dèlia
natura loro^ e de’ progenitóri.
Taccia le vostre
case, i vostri poderi, i
vostri danari acquistati
con tome fatiche dagli
antenati e >da^ voi :,
delle, quali cose
tutte pià non pofrtle
essere i certi, padroni 'finché
i Dieci qui tiranneggianox ' .Già
non è da savj,. non
da valenùtompii cer care
colla fortezza le
cose altrui ^ nè
curare poi che per
viltà si rovinin.
le proprie far
co gli Equi ^
co’ Fblsci, co’ Sabini, a ' con tutti
intorbo i vicini guerre diuturne
indefesse per la
indipendenza e pel principato,
nè vbter
poi nemmeno prendere
le armi per la vostra
sicurezza e la libertà
cantra uomini illegittimi che fi
comandano. Che nòn
ripigliate lo spirito' delia patria
? Che non tornano
in voi li
sensi degni degli' antenati?
cU quelli che
per V oltra^ìo di una
femmina solà profanata
da un de
•Tarquìnj ed ucàisasi da
sestessa per le^
vergogna, 'tanto rie incollerirono e infierirono, e tanto comune
tipqtaron la ingiuria'; che
sbandirono di Roma
non il solo
Tqrquinio,maJ re-: nè
piti soffersero^ die
magistrato alciùfó vi comandasse
in vita, e senza
doverne far conto : di
quelli che ne
fecero altisiunto giuramento fitto con
imprecazione su paetèri'
se noi' compievano
? Of essi non
avran sopportata la
incuria di un sol
giovinastro su di
una libera donna' soltanto
; e voi vi state Comportando
una tirannide di
tante teste, •ehé’ scorre ad
ogti ingiustizia e libidine
^ è scorrerawi anche pià se
pià tra vói
la tenete ? Non
laebbi io sole una.
figlia vaghissima, che jippìò-accirigevasi palesemente a violentare
e lordare : le avete
anche molti infra voi‘'rhogli
o ; figlie e figli avvenenti:
Or chi difhn'dele mai
che ' ' alcuno de'
Dièci nón fàccia loro
come /dppio ? Vi
raccertano forse gt
Iddf che so lasciate
impunita la insolenza
' a me fatta, no/i
si avanzi questa fin
su molti di
voi; e che ^ nmor
ti~ tannò, giunto alla mia
figlia, ivi si 'rimanga
e si plachi rispetto degli
altri fanciulli e faiKÌiille?
Quanto stolula, quanto atfena cosa è
dire che
mai tali idee si
-effettuerànno ! Illimitate sono
de' tiranni le
passioni, perchè superiori alle
leggi, e al^ timore.
Su dunque fate le
mie vendette, prepardte la
sicurezza vostra, per non
subire egual male, rompete
o miseri una volta la^
cótena: riguardate ‘con
intenti sguardi la libertà
: ~E per qual
altra occasione mai
fremerete pià che per
queéta; quando ne
si tolgon le
figlie prètestandooele per
ischiave, e quando via ne si porlan le
spose" co’ littori?
E se'ora che siete
tutti cinti di arme
la trascurate la
occasione e: quando mài \
quando il geniadi
libertà ripiglierete? -, Ma
iotaato cKe egli
parlava molti gli
promctteanò, gridando, la
vendetta: e chiamati a nomr
i dnci delle schiere gl’
invitaronó a por mano
aff impresa ; molli
ancora, se ne avéano
riéeTuto alcun danno, faceansi coraggiosi innanzi,
e lo rivelavano'. 'Udito
ciò li cinque, capi
come ho detto
delle legioni, temendo
che la moltitudine facesse
qualche soròmossa ' Cóntro di
essi corsero tutti 'al pretorio
e vi consultarono con
gli amici, se poteanO
chetarne il tumulto
cinti dalle arme
de par ' tigiani.
non si tosto
intesero che i soldati
eransi .tri tirati 'nelle
tende, che caduto e cessato
era il tumulto, senza sapere
intanto che il piò de’cènturioni
aveva congiuralo
occultissimamente d’ insórgere e liberare
la patria ; destinarono,
appena fosse giorno, imprigionare Verginió che
istigava la^ moltitudine, e raccolto l’ esercitò condurlo ed
acc^parlo tra’ nemici,. e desolarvi H meglio
elei lor lerritorj
; nè più' lasciare
chè ognuno investigasse Curioso
ciocché facevasi in
Roma, ma tutti perocché, chiamato Vergioio
ai pretorio, i ceatnriooi
non permisero che
v’ andasse pel
sospetto che vi
peri colasse: e scoperto com’era
ne’ratpi 'il proposito
di portare l’armata tra’ nemici.
Io riprovavano, dicendo:
Meramente ci avete prima
comandato benissimo, perchè ora
isperanzili vi seguitiamo
f Duci voi di
'tanta milizia, quanta ninna
ntai ne portò
da Roma f e dagli alleati non
sapeste nè vincere, nè
danneggiare i nemiti. Voi
dimostrandovici odi, imperiti,
colf accamparci male, e col desolare, quasi asversarj, le
terre nostre, ci rendes^ poveri, e bisognosi delle
cose le quali noi
conqOistayamo col prev/dere
in bailaglia, quando i nostri
capitani \ eran migliori
che voi. Ora il
nordico inalza contro
noi li trofei i il
nemico si. porta le cose
nostre; saccheggiandoci tende ^ schiavi y ottm, danari.Verginio per
la rabbia, e perché non
più temea que’ capitani
.inveiva più libero
conti di essi, 'chiamandoli corruttori
e distruttori delia patria,
ed animando i centurioni a tor
le insegne,, e ricondursi
in Roma colle milizie.
Molti non ardivano
ancora movere le insegne, che
sono inviolabili ; né
riputavano cosa onesta e.
sicura abbandonare i loro
capitani ' e ^i comandanti ; perocché il
giuramento militare, die i Romani avvalorano più
che tutti,, (à
che il soldato
siegua i suoi comandanù,
dovunque Io guidino
: e la legge concede a questi
di. uccidere, nemmen giudicandoli . gl’ indocili e li
disertori. Verginio, vedendoli
tenuti ancora da
tal riverenza, mostrò ' loro
che La le^e
stessa avea sciolto quel
giuramento : giacché dea
ehi cómanda gli
eserciti, esser scelto a norma
delle leggi ; e r autorità de’
decemviri era tutt^
contro le leggi, trapassalo t anno
per cui fu
destinata ; far poi
gli ordini di chi
comanda contro le
leggi non è ubbidienza, nè pietà,
ma demenza e furore.
Or ciò adendo, giudicarono udire
il vero : e suscitatisi a vicenda
; e quasi dato lor
cuore’ dagl’ Iddi!; tolser
le insegne, e ne
andarono.' In mezzo
d’ indoli tanto
varie, nè tutte conoscitrici del
meglio, si rimasero,
co’ decemviri, com’è
verisimile, centurioni e soldati',
minori però molto, non
eguali di numero
agli altri. Quelli
clie partirono dal campo, viaggiando tutto
il giorno, giunsero al far
della sera in
città, seuzaqhè alcuno ve
li annunziasse ; nè
poco la costernarono, credula cbe
giugnesse il ne> mica.
Adunque tutto tri
divenne clamore, moto, disordine
; ' ma non sì a
lungo, da nascerne òiale
: perocché quelli passando pe’capi
strada, vi gridavano
che eran gli amici,
e venivano in bene
della pàtrio: e conformarono le Opere
ai detti, non offendendovi
alcuno. Recatisi ali' Aventino,'
colle il
piò acconcio entro
Roma per accamparvisi, allogaronsi
presso il tempio
di Diana. Nel giorno
seguente fortificato il
campo, e destinati dieci tribuni
miljtàri, de' quali era capo' Marco
Oppio, sul comune, si tennero
in calma. Dopo non
molto giunsero in
sussidio loro con molta
milizia dal campo
di Fidene i centuribni
migliori delle tre' legioni, alienatisi da’
comandanti fin di allora
che fecero trucidare, come ho
detto, Siedo il legato
; .e timidi non
pertanto di cominciare
i primi la ribellione in
vista . delle cinque legioni
delK Algido, quasi fossero
amiclie ai Decemviri.
Ora però saputane la
insurrezione; acceuarotjo di
tatto buon grado
il favor della sorte
:> anche di
queste milizie eran
capi dieci tribuni eletti in
mezzo alla marcia, ma
Sesto Manlio ne era
il più ragguardevole. Congiuatisi
tutti, e deposte le arme, incaricarono
i venti tribuni a poter. dire
e fare quanto dovessi pel
comune. .Elessero di
questi venti come capi
consiglieri i due più
rispettabili,. Marco Oppio, e Sesto Manlio.
E questi .formata un
coùsigUo dei centurióni maneggiavano
tutto,cpn,. essi. .Non
essendo ancor c^arl al
popolo i (prò disegni, Appio .consaperóle
a ses tesso di essere
la cagione di
quella turbolenza, e
de’ìUali che ne
verrebbero, tenòvasi in
casa, non 'ehe ardisse far
pubblici atti. Sbigottì
su le prime
anche Spurio Oppio, costituito,
come lui, su la
città, quasi fossero ben tosto
per assalirlo nemici,
e fossato appunto per questo
venutL Quando però
vide che‘'uon fàceano innovazioni] rallentando
le paure ^ convocò
li Senatori nell.^ curia, intimatili ad
uno ad ano
per le case.
E ' standovi questi ancora
adunati: ecco giungere
i cpmandanii dall’ armata di
Fidane, irritati che
la milizia avesse abbandonato T uno
e.T altro' campo, -.ed.
insistere col Senato perché
ne prendesse degna
vendetta. Ora dovendo ciascuno dare
il sno voto
su questo. Ludo
Cornelio disse, porlqre il dovere,che
tornussero i spillali 'ttcl giorno
stesso daW Avenlitto
lot' campi, ed eseguissero gli ordini
des comandanti. Con
ciò non sa'rebhero
tenuti rei di
quanto s' era
fatto, so noti gli autori
sali, della ribellione ; à qvudi
imporrebbe la pena' il duce
^medesimo : ma se
non ubbidwanq ; il Senato
delibererebbe su loro,,
camq su disertori
dei posti, affidati ad essi
da' capitani, e come su
violatori del giuramento
ipiUtare. Lucio .Valerio
gli contrae riava ....
Ma nè conviene
che no facclaosi
af&tto' parole delle leggi
romane ehe troviamo
nello dodici tavole, essendo tanto
venerande e più insigni
delia grecai legislazione ; nè conviene
che sen facciano
oltre il dovere, prolungando la
storia delle leggi
medesime. Tolto il decemvirato
ebbero i primi ne’oomizj cenluriati la
dignità consolare, dal
popolò come ho ‘detto Lucio Valerio
Potilo, -e Marco
Orazio Barbato, uomini popolari per
indole, come per
educazione ereditari'. Fidi alla
promessa che avcan
fatta al popolo quando
lo indussero a,
deporre le armi, di
maneggiare sempre il governò
in suo bene ;
stabilirono ne’ coraizj centuriati, mal
grado i palrizj che
vergognavansi di reclamarvi, oltre le
leggi che non
rileva qdi scrivere, anche quella
coUa quale ordinavasi, che i decreti
faixi dal popolo ne
comizj per tribù
valessero conìé i decreti emanati ne'
comizj ceniuriati per
ogni classe di cittadini
; sotto pena t
in caso 'di convinzione, per chiunque^ abrogasse
o trasgredisse questa legge,
della Qdì miaca 1’ aliimo
SYÌluppo de fatti
co quali fa
tolta la eppreaaione Decemvirale.
-Perdita non ignobile
; traltSadoYiti di uno de
graudi oambiameati di
stato. dalla fondaiiooe di
Aoma,3o6 secondo Catone^ Quest
anuo è tralasciato nella
cronologia di Varroue e però/ le dne
cronologie differiscono dopo
questo per un
anno solo, non per
due com^ per
I addietro. morie
e della confisca de'heni.
Questa risoluzione levò le
controversie tra’ plebei
e tra' patrizj, i quali ricusavano di
ubbidire ai d^eti
latti dai primi, e riguardavano i decreti emanati
ne’comizj per 'tribù come
leggi singolari di 'esse non
'come universali di'
Roma intera: laddove ciocché
fosse stabilito ne’comizj
per centurie lo riputavano
ordinato a sestessi come a
tutti i cittadini. Fu gié
détto innanzi che
ne’ comiz) per tribù
li poveri e li plebei
prevaleano su’ patrizj, come i patrizj/ quantunque assai minori
di numero, prevalevano su’^plebei ne’ comizj
per centurie. Stabilita da’
consoli questa legge
con altre leggi, fautrici ’anch’
esse, 'come ho detto, del
popolo ; ben tosto
i tribuni credendo vénnto
il tempo di
vendicami di Appio e de’ colleghi di' esso,
pensarono d’ intimar loro
il giudizio >e
chiam'arveli non tutti
insieme perchè gli uni
non giovassero gli
altri ; ma l’ uno
dopo l’altro, su la
idea di convioceryeli
più facilmente. Ora considerandu su
chi prima incominciassero più a
proposito, deliberarono mettere in
istato di accusa
Appio, il più esoso
al pqpolo per
le oppressioni, e per le
indegnità recenti contrò la
vergine. Parea (oro
che assicuratisi ''di questo, disporrebbono' facilmente
pur degli altri; laddove
se cominoiassero dai
men furti, parea
loro che l’ira de’ cilladtni, calda oe’ primi
gludizj s’indebolirebbe,
come spesso accadde,
per giudicare in
ultimo i rei più segnalati.
Deliberato ciò,
sopravvegliarono i rei, ordinando
a Verginìo di accusare
Appio', senza, ' t
|i) Cioè gli
aliti DeceniTiri aùìaebè
non soccorceMcto Appio.
LIBRO XI. 369 nemmeno
decidere colle sorti
chi Io accusasse.
Appio dunque accusato da
Yerginio nell’ adunanza fu
citato al giudizio del
popolo, e chiese tempo per
giustificarvisi. £ siccome
non si ammisero
per v lui mélievadorì
; fu tratto in
carcere per custodii^elo
finché di lui
si giudicasse. Ma prima
' chu giùngesse il di prescritto
pel giudizio mori nella
carcere, per opera come
molfi sospettano de’ tribuni
: ma secondo che
divulgarono altri, che li
discolpano, egli, appiccò sé
medesimo. Dopo lui fu tradotio
al popolo Spurio
Oppio da Publio
Numitorio altro tribuno
: ma', dategli, le
difese, vi fu condannata a pienissimi voti :
e portato in carcere
fini nel giorno stesso
la vita. Gli
altri decemviri pfima
di essere necessitati al
giudizio, condannarono sestessi
all’ esilio. 1 questori incorporarono
all’eràrto i beni degli
uccisi e degli esuli.
Fu nommeno citato
Marco Claudio quegli che
si accinse a tor
via come schiava
la donzella da Icilio
lo sposo : ma
preiéstando i comandi di
Appio fu scampato da
morte ^ e 'gettato' in esilio
perpetuo. Gli altri'
ministri ^elle ingrastizie 'dèi decemviri
non .subi-' irono giudizio
pubblico ma diedesi
a tutti la impunità. Suggerì pari
economìa Marco Duilh'o
il tribuno per essere
ornai turbati i cittadini,
e. timorosi di -essere
finalinente anch’ essi
giudicati. XLyiI. Chetate le
turbolenze interne', raccolto
il Senato, decretatio che
esca immantinente T armata
con tro, a’ nemici.
Ratificato dal popolo
il decreto del
Senato, Valerio l’uno de’ cònsoli, marciò eoa
metà delle schiere contro
gli Equi e li
Yolsci i quali miliuvano ' PtOSIGt, itmo III. insieme.
(Consapevole però thè
gli Equi, imbaldanzili pe’
vantaggiprecedenti, elevavansi fino a
sprecar grandemente la milizia
romana, cercò renderli ancora
più temerari e vani con'^are
di sé vista
ingannevole, pra de’
Romani r -ma dimostrando
r cavalieri un ardor sommo
ottenne una segnalata
vittoria, nccisivi molti nemici,
imprigionativene pii^ ancora, e preso' i loro alloggiamenti dereKtti.
IvÙ trovò •molte provvigioni
da guerra, e tutta la
preda già tolta,
dal terchoi^'dé’'Romani : anzi' detenuti molti
de’ suoi che liberò;
non. essendosi alTretlati i Sabini pel
disprezzo che aveano
del nemico a riporre in
sictirb 4anti loro
vantaggi. 'Adunque diede a’
soldati la roba
nemica, preelcggeudone ciocché
era da
offerire agl’ Iddii
1 ' ma ‘ rendette te
prede a chi n^era stato
spogliato. Fatto ciò ricondusse
1’ eserdto in
Roms ove
giunse)contemporaneamente anche . Valerio : ambedue sentivansi grandi
per là vittoria, e'
se ue auguravano luminosi trioufi.
Non però uiccedette
cobi’ essi ne
sperayano .imperocché Raccoltosi
il Senato' per
essi 'dtieefae stavansi
coli’ esercito sul
campo -Marzo, ed esaminatine'le gesta, non
accordò loro il
sagrifizio per 1 vittoria
: essendo oontrarìati da
molti., e da alcuni manifestamente, soprattutto da
Cajo Claudio, zio come
scrissi di Appio,
vuol dire del
fondatore dei decemviri, e tolto non ha guari
di mezzo .da’
tribuni. Cajo ricordava le
leggi colle quali
ajrean essi ‘ diminuita
rautorilà del Senato, e
ricordava le altre
maniere da essi
tenute perpetuamente ' nel gorernare
: ricordava ‘ le morti
o le conCfohe'de’beni
dc’decemviri, traditi da
esu ài tribuni contro i patti
ed i giuramenti essendosi
in mezEO alle vittime
convendta tra’ patrizi
e tra’ plebei la
dimenti canza, e la impunità
su tutto il
passato. Protestava cbe Appia
non era caduto
morto innanzi al
giudizio di sua mano, ma
per malizia de’
tribuni : aflìncbè nell’
essere giudicato non ottenesse
nè difese, nè misericordia
: co me polea ben
ottenerle, se potatalo in
giudizio metteva ÌDuanzi al
guardo la nobiltà
della sua gente,
e le molle beoefìcenze di
essa verso la
repubblica ; se reclamava
i giuramenti e' la buona
^fedesu la quale
gli uomini riposano) e rendonsi a far
pace; se veniva, co’ suoi
figli co’ parenti., jn
àbito di umiliazione
; in somma con
-gli altri modi pe’
quali uo popolo
si disacerba, s’ intenerisce, e
perdona. '{fra tali rimproveri
dati loro da
Cajo Claudio, e da altri presenti, fu
coucluso, che si contentassero i' due,
di non pagarne
le pene: del
resto non essere nemmeno
in picciobssima parte
d^gui del trionfo, o,di
concessioni non dissìmili. L.
Valerio ed il
coUega esclusi ^al
trionfo,' lenendosene ofTcsìssimi,
e sdegnandosene ; convocano il
popolo, e vi accusano vivamente
il Settato. .Peroravano per loro i
tribuni^ e proposero e ne
ottennero dal popolo il
trionfo: ed essi
..primi di tutti
i Romani pro> dussero tal
cot^uetudine. Dopo ciò
rinacquero ‘i dissid), e le
incolpazioni tra’ patrizj
f e tra’ plebei. Li
tribuni raccendeano questi ogni
giorno concionandoti. Irriuyali soprattutto il
sospetto cbe li
tribuui cercavano di
corroborare con romori incerti, e di
amfdìare con divinazioni varie, come
se li patriz)
fossero per' )tnnienUre
le leggi stabilite dai
consoli, Valerio e suo
collega: c quel lupetto ornai
tanto prevaleva che
degenerava la fede. E tati
sona gli eventi
di qnel consolalo. LI. Nell’ anno
appresso foron consoli
Laro Erminio, e Tito
Verginio . Snccederon loro
Marco Geganio..>(a). LH. Nè
rispondondo essi, ma
sdegnandosene; Scatùo fecesi di
nuovo innanzi e disse
: ecco o cittadini che si
concede dai litiganti
medesimi che essi
pretumonb, parte che a lor
non compete f della noslrà
campagna', or voi considerando
ciò decidete ciò
che é giusto e congruo
co' giuramenti. Scattio
cosi diceva : ma i
consoli ardevano dalia vergogna
in riflettere, che il
giudi aio prenderebbe un '
termine. nè giusto, uè onorato, se’ il popolo
il quale qiai
non aveast attribuito
' la campagnar disputata, ora,
elettone giudice, se T
attribuisse, con toglierla ai litigami.
Adunque ad iscansare
èiò si tennero dai
consoli" e dai capi
del Senato molli
e molti discorsi ; ma ihvauo.
Impetocchè quelli' che
aveano pi Ando
di Roma 3o7
fecondo Catone,, 3o3
fecondo Varrone, e 445 v.
Ctifio. .-(a) E C. Giulio
secondo che si
ricava dà Livio.
Net consolato di Erminio
e venissero persuasi in
contrario, annullerebbero
alcuna delle rìsokizioni
proprie. LV.' In vista
di .tali minacce
.adunati gli Ottimati
Ji piu anziani e principali
da' consoli a consiglio
privato, ponderavano ciocché
''fosse da fare.
Cajo Claudio come U men
popdiarc, ed erede degli
antenati in tal
genio di procedere, inculcava
ostinatissimo, che non
si cedessero al popolo
né i consolati, nè altro
magistrate qualunque; e che senza
riguardo di persona. privata o pubblica
si frenasse colle
armi, se. non l'eodeasi
per le parole, chiunque
tentasse il contrario.
(mpero.cché chiunque tentava sommovere
le patrie costumanze
o disciogliere la forma primitiva
del governo era
non cittadino ma nimico.
Per 1’ opposito
Tito Quinzio non
voleva che si reprintessero
gli avversari colla
violenza, .né si venisse alle
armi ed al
sangue civile colla
plebe: tanto più
diceva che. -noi abbiamo
contrarj i tribuni, che i nostri padri dichiararono
sacri ed inviolabili;' facendo igenj
e gl' fddj mallevadori
dell’ accordo con
imprecatone gravissima delia rovina
loro e' de’
figli, se da indi
in poi lo avessero
mai violato anche
in parte. LVI. Accosta vansi. a questo partito . ancor gli
altri chiamati a' congresso, quando. Claudio
pigliando la parola disse
: Non ignoio quaji
Jòndamento pongasi di mali,
per tulli noi,,
se^-concediamo che il
popolo facciasi a volare su
questa legge': ma
non avendo cosa pià
farmi, nè come
resistere a voi; che
tanti siete ; ahbattdonomi ' ai vostri
consigli. Ben è giusto
cJte LIBHOXI.. 377 ognun
dica Ciò che
sente deU util
comune: ma poi siegua
ciò che i più
ne conchiudono. Jar,
eome esortasi in c^fan
che aggravano, nè si
vogliono, vi esorterei che non
cedeste nè ora
nè poscia il
consolato a ninno, se non
ai patrtzj, i quali è giusta
è pia cosa che lo
abbiano : ma qustndo
come cd presente, siete alla
ncessità ridotti di far partecipi
anche gli altri
cittadini del grado e del
potere più grande
; vi dico che
assu^ miate i tribuni militari
in luogo de'
consoli, defineieione un numero
{ otto -o sèi
forse, chè tanti
credo bastarne ) riel quale
i patrizj e i plebei si
pareggino. Così Jrscendo nò
renderete il córuolato
magistratura di uomini indegni
ed abbietti •,
oè parrete per
voi f ohe hricare un
comando ingiusto, coll escluderne
affatto i plebei. Ed approvando
tatti, senza reòlamt> niuno
un lai voto} udite
soggiunse, .ciocché restami a dire
a voi consoli. Prefisso il
giorno in cui^
stabiliate quel previo decreto ^ e ciò
che daf Senato
si giudica, lasciale che parlino
su Ha legge
chi la difende
e chi C accusa. Fi~ mia
la disputa, quando fio t
ora d’
irttendeme i voti, non. vogliate
da me cominciare, non da,
codesto Quirtr zio, nè' da
altro seniore ma dsU popolafissimo
senatore Lucio Valerio; interrogando
appresso Orazio, se punto vuol
dire, Bicercate così
le .loro .sentènze, ordinale che noi
seniori diciamo. Jq
sporrò liberissirrtamente il
parer mio 'contrqrio
ai tribuni,• e fa
questo [ utile della repubblica.
.Questo Tito Genuzio, se
il volete, dia la
proposta su tribuni
militari. Parrà questo il
partilo più congruo
e meno sospetto se
progettisi o Marco Genuzio
dal tuo
fratello. I( consiglio
senal brò giusto, e
parlironsi' dU oiAigresso.
T^merbuo i tri buui la
secretissima aduuanza, come
intenta a gran danno de’
plebei, perché fatta in
casa, _ non in pubblico, e senz' .ammettervi alcuno
de’ capi 'del popolo. Adunque raccogliendo anch’
essi un consiglio
di uomini, amantis simi
della plebe ^ idewono
ript|ri e guardie contro
le iusidìe che aspeitavansi
da’ patrizj.. LVIL Giunto
il tempo preacritlo
per fare 'il previo decreto, i consoli convocato
il Senato, ed esortatolo grandemente al
buon ordine ed
alla concordia; invitarono, prima di
ogn’ altro j a parlare
i tribuni deUik. plebe,
i quali propónevano la
legge. Fe^i avanti
Cajo Canule)o, un di
loro ; ma egli
non che dimostrarla, bon mentovò nemmeno la
giustizia e la utilità
della legge. Diceva
c/te si stupiva de
consoli che avendo
fra loro ponderato
ù deciso ' ciocché jsra
da fare, ora quasi
pi abbisognasi sero consigli
e decisioni, metteansì a
proporlo ai Pa dri, e 'davano facoltà di
cBingaxyi con simulakione non cbnvèniente
nè alt età
loro, r\è alla ' grandezza del comando.
Diceva che irttroducevan
t esempio di tristissime' pratiche, quando umvansi
in casa et
congressi recondite, jtè vi
chiamavano tutti i Senatori, ma i soli favorevolissimi loro.
E qui soggiungeva che
poco faceva^li meraviglia che
fossero esclusi da^quel
coa1 sigho edtri sonatori;,
ma ^grandissima gliene
ftcevache 'avessero tenuti indegni
da invitarveli Marco
Grazia, e Lucio L aierio,
qaell( che avetìno. tolto il
Decemvirotò, ambedue uomini
consplari %nè idonei' -men
di chiunque a deliberare su
la repubblica: lui
non poter, concludere appunto
In cauta .di
tal procedere ; indovinco
iie però quest'
unica: valé^ a direi
cfie essendo essi per
allegare -disegni' ingiusti trovinosi
alla piche, non vollero,
convocarvf persone di
essa amantissime, per ' chè sdegnate
arti popolaresche ; numerando
fin da principio,
tutti i |>ericoli venuti
su Roma per
colpa di quelli
phe volevano conU'ario governo;
rilevando come l’odio
versola plebe crasi renduto
dannoso a quanti lo
ebbero; e lodando
amplìssimamente il popolo
.come, autor principale delia libertà
e del comando delia
repubblica; alfine ragionate queste e simili
cose, concluse non poter
e^ser libera quella città
dalla quale tolgasi
/’ eguaglianza z e quindi
sembrare a lui giusta,
la legge laqual
vuole che concorrano al
consolalo/ tutti i Boinani
purché siano irreprensibili ne
costumi e degni per
le opere di lai
tanto onore : non
essere però, quello
il tempo opportuno da
trattare legge siffatta
in tanta turbolenza
di guerra per la
repubblica. Pertanto consigliava,
ai tribuni di permettere
che si réclutassèro
i soldati, e che reclutati uscissero:
ai consoli poi
di pubblicare, appe-j \ Digitized by
Coogle V', i.iBHó xr.'
' 38 1 na detto
buon alla guerra
il previa decreto
su la legge: e si
scrivessero e si corueruissero
fin et alloratali
cose da ambe
’ie, parti. Ta^è fu
la senteuza di
Vail secoudo da' consoli:
non ^ però ne fu
pari 1 affetto
io tutti gli astanti.
Imperocché quelli, che
voleaoo preclusa la legge,
ne udirono f!Ot>
piacere la dilazione, non'peré con piacere
ne adirono éhe
essa dovesse decretarsi
dopo la guerra: air
opposito quelli che
volevano che sì
accattasse la legge dal
Senato iotesero con
trasporlo che giusta si
dichiarava : ma con
isdegno intesero che
se ne ritardasse il
decreto. j > LX. filato
taraulto ('oom' è verisimile,
perchè questa sentenza non
soddisfaceva in tutto
ad ainhe le
parti, il console fattosi innanzi
interrogò per il
terzo Cajo Claudio il
quale sembrava ostinatissimo
e/ potentinimo fra
tutti i primari della fazione
opposta alla |>lebe.
Costui tenne un dùtcorso
premeditato contro del
popolo-, rilevando di luì
tutte le cose
che gPien parevano
contrarie a begli usi della
patria, fra lo
scopo principale ove
tendeva il dir suo,
che i consoli non
pcoponessero al Senato
l’^esar me di quella
legge nè allora'
uè mai, ooine diretta
a distruggere il comando
degli Ottimati, e confondere
ogni buon ordine. Cresciuto
a tal dire il
tumulto, sorse invitato il quarto, Genuzio, fratello dell
a^tro console.-Costui j discorse
breveménce le circostanze
della città, e come la
cótnplicav^^no all uno o
all’ altro disastro, o di far
prosperare ^i nemici
per la discordia
e 1 ambiziojie de’ citudinij
e, di dare mal
termine alla guerra
interna e domestica .|>er espedirsi
dajl’ altra che
le era portata di
fuori, disse, che
essendo' due i maiì' ed
essendo necessità d’ inwyrreme, loro mal
grado,' l’^udo o Y altro,
credeva coufacevole ai
Padri lasciar che
il popolo urtasse alcune istituzioni
proprie, anzi che
rendere la patria
Io scherno di forestieri'
e nemici^ E cosi dicendo"
propose la sentenza approvata
nel congresso di
^elli che si
erano in casa riuniti, sentenza come
io dichiarai suggerita
da Claudio, che si eleggessero
ift luogo de'
consoli i tribuni militari,
tre de’
patrizj, e tre dd plebei, tutti con' potestà superiore
: chè quando -^nìrebbefo
questi il lor tempo,
e si dovrebbero creare
i nuovi magistrati ; allora unitisi
di bel nuovo
il SerUUo ed
il popolo decidessero quali
più voleano riassumesre
al cornando li tribuni
militari o li consoli
: che per valido
si tenesse quello che
il voto comune
destinerebbe: e che pari decreto
si rinovpsse ogni
anno., ' ' LXI. Eu la
opinion di Genuzto
acclamata da tutti: e gli
altri che sorsero
a sentenziar dopo lui
-la tennero, quasi tutti, per
b migliore. ' Se ne
stese dunque da' consoli
il decreto, ed i tribuni
della plebe, pigliatolo, oe andarono, tripudiando, al' Foro.
E convocatovi il popolò, vi
lodarono amplissimamente il
Senato^ e vi di nunziaronoV cbe
doncorresse pure a’
magistrati .‘insieme co' patrizj
chiunque il volea
de plebei. '.Se
non ohe il desiderio senza
cagione, Speciàlmemc' nel popolo
^ è per sé" dori vano,
e cori pronto ' a dar
luogo arcOnirario ; ohe
quelli i quali facevano
ogni prova per
essere a parte ' del
magistrato, risoluti se non
concedeasi ciò da’ patrlz}, di abbandonare
la patria come
1' avevano abbandonata altra volta, o dì
usurparselo colle armi, ottenutane appena
la pertnissione,
rattemperacono sestessi, e rivolsero
altrove i loro favori.
E quantunque molti de’ plebei
aspirassero al militar tribunato,
e" facessero per giungervi insistenze caldissime
; non riputarbno alcuno
degno del grande onore.Cosi
quando vennesì al
voti nominarono al militar
tribunato tra’ patria)
che yi còneorrevano, Aulo Sèmpronio Atratino^
Lucio Attilio Longo,
e Tito delio Sieelo. Questi
assunsero i piWi qu^
grado in luogo del
consolare nell’ anno
terzo della olimpiade
ottantesima quarta essendo Di61o
arconte in Atene
: ma ritenutolo settantatrè' giorni lo
deposerq secondò gli
usi della patria’
spontan^atOébte ;• perché
alquanti segni celesti vietavano loro
il maneggio de’
pubblici affari. ' Levatisi questi dal
comando; il Senatosi
raccolse, e nominò
gr;ìn(errè. U quali prefìssero
il tempo de’
comizj e proposero; da risolvere
al popolo se
voleat rieleggere li tribuni
o li 008011 1 il popolo
decise attenersi agl)
nsi primitivi; ed essi
contderono che chiunque
il volea de palrizj
concorresse al consolato." Adunque
si elessero di' nuovo
i' consoli’ dell’ ordin patriuo, e fuf'onò' Lucio Papirio
Mugiliano, e Lucio Sempronio Atratino, fratello di uti
de tribuni che s’ eran
dimessi. Dond è che
furono in -fiLoma tu
un anno stesso
due magistrature supreme. Non
però comparisce 1’
una e l’ altra magistratut^
in tutù gli annali
Romani : ma in
alcuni trova'nsi i 'soli
tribuni, Aodo di
Roma 3ii $ècon{lo
Catone, 3ia secondo
Varronc, e 44 ^v. Ccisle.
Tilo Livio dice
cbv i tribuni militari
entrarono maghtraii sul termidare
dall anno 3io, e perciò
toccarono anche l’inno 3 11.
ÌD altri i consoli
soli, osservandosi in non
molti T .una e r altra. Noi
ci atteniamo agli
ultimi nè senza
ragione, affidandoci alla testimonianza
de' libri sacri
'recònditi. Sotto, questi consoli
nou occorse altra
cosa civile o militare degna di
ricordanza; fecesi però
trattato di amicizia e di
alleanza colla cidi
degli Ardeali, peroccliè
spedirono ambasciadori, pe qliali, lasciate le
querimonie intorno la campagna, dimandarono di
essere gli amici e gli
alleati de’ Romani.
I consoli ratificarono questo trattato. LXIII. 11
popolo confermò co'
suoi voti che
si cf'eas s^ i consoli
anche per 1’ anqo
seguente ; e nel. plenilunio di
Dicembre presero il
consolato Marco. Geganio Macerinó per
la secotula volta, e Tito
Quinzio Capitolino per la
quinta . Questi rimostrarono
mentre i più inutili
e più svergognati eran
fuori ài ogni registro, e cangiavano
luogo con luogo
affine di viverci come
loro piaceva., i. Addo
di Roma 3ia
se'coado Catone, 3i3
seeuado, Yatione, 41 ar.
Cristo. U tomai dì AUcartiosso
scrìsse le Antichità
Romane dalie orìgini di
Roma fino alla
prima guerra Punica in
venti libri estesissimamente, e di questi, poi
diede un compendio
in cinque libri
come fu già detto
nella prefazione al
tomo primo. De'
venti libri perirono qualche
parte deW undecimo, e tutti i nove ultimi, salvo alcuni
frammenti pubblicati più
volle e ridotti in fine
secondo P ordine de'
tempi in ciò che
narrano. ’ Avendo io
trasportato nel nostro
idioma gli undici primi
libri, e li frammenti
già noti de'
rimónéitti, fu tutto dato
in luce U anno
ii5ia per Fìncenm
Poggioli, editore in Roma
della Collana Greca
tradotta in Italiano. Quattro
anni appresso però, cioè
nel 1816, apparve in
Milano una stampa
Grecolatina della quale il
titolo latino è:
DiONTsii Halicarnassei
RomaDarum AntiquitaUim pars
hactenus desiderata nunc denique
ope codicum Ambrostanorum
ab Angelo MaJO Ambrosiani Coliegii
doctore, quantam licuit,
restitala. Quella stampa comprende
gli antichi frammenti
dei nove libri smarriti,
e parti riguardevoli derivate
dal compendio, collocate prima
c dopo di essi
frammenti Digitized by Google 388 per ordinare
un tutto il
quale dia compenso
e lume di ciò che
erano i nove libri
perduti di Dionigi. Jn
questo letterario ordinamento
ci si dà
ciò che si è trovato, e non sopra.
Del resto la
versione latina è precisa,
corrispondente, elegante, buona, anzi
molto : te note
opportune, nè vi si
desidera diligenza : e ciò basti
su quell’ opera. Considerando come i
frammenti veri de’
nove libri presentati di
nuovo in quella
stampa erano già
volgarizzati, C editore in Roma
della Collana Greca tradotta, cercò
più volte di
avere anche il
volgare di que’ supplementi
raccolti come si
potè dalla Epitome o Compendio di
Dionigi: ed uUirnumente vi
aggiunse pur le sue
premure il nuovo
editore in Milano
della Collana' Greca, presa
la occasione dal
valersi egli ancora della
mia traduzione. Su
tali istanze ho
consegnato il volgare di
que’ Supplementi ordinato
coi vecchi frammenti appunto
come si ha
nel testo Grecolatino.
E ciò è quanto basta
a dar luce alla
giunta seguente. i • £jglI
avendo radtinato Intorno
a sé uomini di ogni
reo genio, li
nudrìva, quasi fiere,
contro la patria.
Suppiementi. Cos\ li
chiamo per dittiogaerli
dai Frammenti. Qnetti tono
parti vere^ dei
libp perduti f gli
altri tono parti
deriTite dal compendio
de’ Tenti libri delie
anpchilà di Dionigi
troraio in Milano ueil’ Ambr>a°a io
due dodici, l'nno
intitolato: Di Dionigi di
jilicarnatto Archeologo Romano
t l’altro: Dionigi di
Alitarna$$o Archeologo dplle
cote Romane. E chiaro
che questo titolo i dato
da altri. Li
supplementi avran sempre
doe TÌrgole in
principio ed in fine
dei paragrafi per
dùtiognerli dai frammenti., DELLE antichità’
ROMANE Tuttavia se ascoltava
me, se confofmavast alle
leggi, egli faceva un
gran colpo per
la difesa, dando segno non
piccolo di non
aver cospirato. Ma
sbattuto dalla sua cosdenza
si ridusse dove
quelli si riducono,
i quali siegnono scellerati disegni
contro dei loro
più congiunti; deliberò di non presentarsi
al giudizio ; e respinse
a colpi di mannaja
li cavalieri spediti
su lui ....
li suolo -della sua casa i
Romani Io chiamano
equimelio: conciossiacbè equo è detto
da loro, ciò cbc
non ha prominenze. Cosi
il luogo soprannominato Mclio
in principio fu di
poi detto Equimelio
alterandosi i dne nómi in
un solo . II.
Guerreggiando i Tirreni, i
Fidenati, e li Vejenti co’
Romani (3j, Laro
Tolumuio re de’
Tirreni segnalandovisi
spaventosamente ; un tribuno
romano, Aulo Cornelio cognominato
Cosso, spronò il
cavallo su lui. F attisi
a combattere già moveano
ai colpi le
aste ; quando Tolumnio
feri nel petto
il cavallo dell’
emulo, talché il cavallo
ne infuria e lo
atterra. Ma Cornelio internando I’
asta per lo
scudo e 1’ usbergo
nel fianco di Tolumnio
rovesciò pur lui
da cavallo. Ben
sorgea questi ancora, quando fu
colto nell' anguinaja.
Con ciò Cosso Io
ucdsc e lo ' spogliò, non solo
respingendo quanti
accorrevano fanti e cavalieri, ma disanimando
e t. Qosla h parte
òel discorso di
Cineinnato sa Spn^o
Melio Deciso come reo
di ambita lirannido. La
occisione di Spurio
Melio co4) corre con
l’anno 3r5. II libro
XI di Dionigi
non eccede 1
anno Sia. Pertanto
cib ebe manca a dar
conliuna la storia
delle Àniichiià Romane
con quella del
Cocapendio b la serie
dei fatti dell’
anno 3i2 e dell!
due sdenti. impaurando quanti
erano alle mani
neN' uno e nell
altro cornò. Essendo
consoli' ntiovamenie Aulo Gjmelio Cosso,
e Tito Qtrinzio ; penuriò
la terra per
gran siccità; mancando non
che le pio^e,
fin le acque
nelle sorgenti. Donde nniversaie
fa lo scapito 'di
pecore, di giumenti, di bovi :
e moitè -fra gli
uomini le. malattie, quella principalmente che
scabbia à detta, assai
molesta per lo rosore
nella cute, c più Rtolesta
ancora se inniceravasi
: infermità miserabile in
vero, e cagione sollecitissima
di rovina . IV.
.... Mal sembrava
a’ primarj del
Senato addimesticare il popolo
alla pace e prolungargliene la
calma, sul riflesso che
per la pace
si schiudono in
città, vizj, piaceri, e sedizioni, e solean queste
prorompere ad ogni occasione, difficili nè
interrotte, appena si logliean
le guerre di
fuori .... E meglio
superar 1 initnico
beneficando, che punendo : imperocché
di là sie gue
se ' hon altro, almeno
la speranza loro
più dolce sopra de’
Numi V. . . a Appena conobbe che i
nemid Io
assalivano alle spalle,
chioso com’ era
per ogn’ intorno
da, essif disperò di
retrocedere. Egli tenea
grave sul cuore che
nel pericolo comune, essi
pochi contro de'
molti, essi gravati dalie
arme conira milizie
leggere perirebbero
turpissimamente senza dar
segno di opera
generosa. Adunque vista un’ allora
conveniente nè lontana
destinò di occuparla VI.
Agrippa Menenio, e Publio
Lucrezio e Servio Nauzio tra
gli ODorì di
tribuai militari scopersero
and insurrezione di servi
destinata coaUx>'di Roma.
Disegnavano i congiurati dar fuoco
tra la notte
in un tempo a più
case in più
luoghi, e quando vedeano
gli altri intenti a reprima.
1 incendio, allora invaderne
il Campidoglio, ed altre
parti munite, e quindi
provocare ad esser liberi
lutti gii altri
Servi, e. con
essi ucciderne i padrom', onde
averae le mogli
e li, beni. Manifestatasi la prauca, i capi di
essa furono presi, battuti, e crociassi : e que’ due servi che
la manifestarono, ottennero essi la
libertà veramente, e miUe dramme
a testa dal pubblico erario
a. Adoperavasi il tribuno
romano a compiere la guerra
iu pochi giorni,
come lui che
credea facilissimo, e quasi posto
nelle sue mani, sottomettere còn
una batuglia i nemici. Per
contrario.Jl comandante nemico apprendendo la
perizia de’ Romani
tra le armi, e. la costanza ne’
pericoli, non avea cara
una battaglia in campo
aperto con pari
circostanze; ma Uaeva
la guerra tra le
arti e 1 inganno, aspettandone chq
gli si presentasse un vantaggio. .. . ferito e morto
venuto appena .,, Vili. In
quest’anno fu l’ inverno
rigidissimo, in Roma (4), tanto
che dove la
neve caduta era
meno, .tnno di
Roma Il mille mauca
oel lesto. È presso
a pòco il nomerò
pbe dee supplirai consideralo
ciò che se
ne ha presso
di Livio lib.
4, o. aS. (3)
Questo racconto consente
per qualche modo
con ciò che narra
Livio net capo
4^ del libro
quarto, intorno la disfalla
dei Romani contro degli
Equi. ivi era alta
li sette piedi . Vi
perirono alquanti uomini, e molte greggi,
ed altro bestiame
non poco, sopraffatto dal gelo o
dalla fame per
mancanza de’pasccdi. Le arbori
firuuifere inusitate alle
grandi nevi o perirono in
tutto, o seccate ne’ tempo
in tali regioni
alquanto più boreali del
mezzo, seguendo il circolo
parallelo il qual viene
per 1’ Ellesponto
sopra di Atene.
Allora, per la prima
ed unica volta
1’ ambiente di
questa regione si allontanò
dalla sua temperatura
fa). I romani fecero le
feste dette letxistermi
nelr idioma, dei luog.o.
Or furono ammoniti
a tanto pe’ libri Sibillini: giacché
gli astrinse a consultarne
l’ oracolo nn morbo pestilenziale
mandato loro da'
Nomi, nè sanabile'per cura
umana. Adunque acconciarono,
come voiea r oracolo tre
ietti, T uno ad Apollo
e Latona, r altro ad Ercole
e Diana, ed il terzo
a Vulcano e Nettuno. Fot
per,s?'tte giorni fecero
pubblici sagrifizj, come pur
fecero, ciascuno secondo
le forze sue,
private offerté ai Numi, e conviti sontuosi
ed accoglienze di forestieri. ^, I I '
Livio raeconu I.,
c. i3 cb
il Tevere non
pelea navigard. (3) Questo
fraocbiaaiUko tcnvere et desiderare
le cautele dell’aatore
dei veoli . libri delle
Aulichità Aooiaae. Le
muiasioai anche rarieeime dcll'elmosfera ooa
perché non sono
scriue pel tempo
paalaio, può concludersi che
non avvenissero mai
piò. (3j Livio parla
di ul festa
nel lib. t, 0.
i3, la dice occorsa Pìsone il
censore fa negli
annaK suoi quest’ag> giunta : cioè, che
sebbene fossero sciolti
tutti i servi ^ tenuti
io ferri dai
padroni, sebbene Roma si
empisse di forestieri, ' e
sebbene ’si tenessero
dì e notte spalan cate
le case, penetrandovi
chi volea,-senz ostacolo ; pur ninno
si dolse che
avessene furio, nè oltraggio
; quan tnnque i giorni festivi
sogliano per 'le
brìachesze dar largo il
campo a disordini ed
ingiustizie. Stando i Romani all’
assedio di Vejo
sul nascere delia canicola
quando gli stagni diminuisconsi
e tutti li fiumi
all’ infuori ' dell’
Egizio {filo (a), il . lago de’ monti Albani,
distante non meno
di quindici miglia da
Roma, presso al
quale fu già
la città madre
de’Ro ' mani, crebbe senza piogge, senza
nevi, e senz’ altre
apparenti cagioni, per le
sole inteMe sue
fonti' a tal dismisura, che 'inondò
buon tratto delle
adiacenze con molte case
di agricokorì. E finalmente
aprendosi a forza, il passo
tra monti si versò
con terribile sbocco
ne’ campi sottoposti, ' Della
estate contagiosa, la
qual s^cedcltc all' inverao
rigidissimo descritto
diantì. Addo di
Roma 356. (a) Aie
infuori delV Egitto
Nilo Questa cceetione,
&t conoscere, parmi, che
l’autore'del compendio non i
Dionigi. Imperocché egli nato
in Alicamasso città
dell’ Asia, e già spettante
al regno di Persia, come
tatto il corso
dell' Eufrate, non poterà, e certo non
dorerà ignorare in
tanta naturai tua
diligenia che P Eufrate anch esso
nel luglio assai'
cresce e trabbocca, come si
legge in Arriano iibro
ni, par. ao,
greco per esso,
e scrittore delle gesta di
Alessandro. Lo stesso
Arriano scrire nel
lib. r, paragr.7
secondo la nostra tradusione,
che anche i fiumi
Indiani nell’estate ingrossano fuor di
modo e neU’inrerno scemano. Vedalo ciò
li Romaai, da princìpio, (jQast 10 sdegno
del cielo minacciasse
Roma, decretarono pia care
con sagrifizj i Nomi
ed i Genj del
luogo, consaltandovene pur gl’
indovini, se ne eressero
mai co$a da significare:
.Se non che
né il Iago
ripigliava l'ordine SQO, nè
gTinterpetri sapean dirne
a proposito, ma sng~ gerirono
che si mandasse
per intenderne P oracolo
in Delfo. Intanto un di
Vejo perito, per
Ipmc avutone da’ maggiori, dell' arte
divinatoria di' qne luoghi,
sfavasi per avventura in
gnardiè'deNe mura/ Era
cosini noto ad un
centurione romano. E • quél
centurione venato una volta
presso le mura
lo salutò come
usava ; aggiugnendogli di
commiserare Ini come
tutti i suoi pe’mali imminenti nella
espugnazione dellai cittè.'Per
l’opposito 11 Tirreno, il
qual già sapeva
In inóndàziooe del
lago Albano, e sapeva gli
antichi oracoli intorno
di questa, replicò, sorridendo,
guanto é bene conoscere
t ot'tvnt're. Voi per
non conoscerne sostenete
una guerra senza fine, e travagli irriuscibili, disegnandovi la distruzione di
Vejo. Se alcuno
vi rivelasse portare
il destino di questa
città che allora
sia presa, quandó U lago Albano
impoverendo nelle acque
sue, non più si mescoli
al mare, cessereste
di tenere voi
nella fatica, e noi tra
le molestie. Assai
ne impensierì ciò udendo
il romano, e parti. Nel giorno
appresso il romano, comunicatone il disegno
co’ tribuni', rivenne
allo stesso luogo, ma
senza le armi, onde
il Tirreno non
sospettasse affatto d’ insidie. Ripigliò
I’ usato saluto, e poi
disse innanzi tutto
l’ incertezza la quale
agitava il campo
de! Romani, e cose
altrettali da rallegrarne, com’ egli
credeva, il Tirreno. Poi
chiedealo spositore di
alquanti segni e portenti occorsi
di recente ai
tribuni. Gnidiscese colui
' niente sospettando d’ inganni.
E fatto ritirare gli altri
i quali erano con 'lui
si mise egli
solo col .centurione : £ questi U passo
a passo lo allontanò
dalle mura con discorsi
diretti a deluderlo ; Or
come fu presso alle
muniuoni romane. lo abbracciò
con ambe le mani, e sei portò
negli alloggiamenti . Quivi
i tribuni or lusihgando
or minacciando lo ridussero
a dire quanto celava
sul lago Albano, e poi
lo mandarono al
Senato. Non parvene
u tutti i padri in un
modo : e chi tenea
costui per pno
scaltro ^ per un
impostore, per uno
che mente su
gli oracoli de’ Numi,
e chi dicea lui
parlare a punto il
vero . XVI. « Fluttuando
fra tali incertezze
H Senato, ecco i deputati al
Nome in Delfo
riportarne le divine risposte, concordi
a quelle, date già
dal Tirreno: vncd dire
che gli Dei e
li Genj
li quali aveano
in sorte la città
di Vejo promettevano
mantenervi costante la
prosperità trasmessavi dagli antenati
finché le acque
sorgenti del lago Albano
ne Uaboocassero e corressero
al mare : Ma quando
quelle acque, .mutata la
fonte e il corso antico, deviassero altrpve, nè
più si mescolassero al mare,
allora pur Vejo
ne andrebbe sossopra.
Parve che potesse pianto
ottenersi da’. Romàni, se
scavando delle fosse intorno
al lago V
incanalavano l’ acque le quali
sboccavano, dirìgendole in
campi lontani dal
mare. G>DOsc!ato ciò
li Romaai bentosto
misero gli operaj
su r intento ,Rendutine i Vejenti
consapevoli per nn pri
gioniero, deliberarono spedire
a chi li assediava,
a fine di toglier la
guerra innanzi ch^
la città soccombesse:
e scelsero de’ seniori per
deputati. Rigettata dal
Senato la pace, lasciavano questi, taciuirni, la curia
: quando il più Cospicuo
fra loro e più
famoso nel divinare, fermatosene alla porta
e girato lo sguardo
su tutti senatori disse: bel
decreto v avete voi
fatto o Romani! e degno di voi U quali
cercate dominare per
tutto intorbo, quando
ricusate aver suddita
una città nè piccola
nè ignobile la
qual depone le
armi e si rende, e destinata abbatterla
da’ fondamenti senza
tememe^t ira de'^Numiy
nè la vendetta
degli uomini. Or ne
verrà per questo
su voi la
giustizia punitriea de’ Numi
con pari vicenda
; Voi che spogliate
li Vejenti di patria, voi, tra non
molto perderete la
vostra. Prendendosi dopo
breve tempo Yejo, taluni
de’ cittadini ne
andarono, e stettero da
valebtnomini contro a’
nemici, e ne uccisero e furono
uccisù: altri diedero a sé
stessi la morte:
ma quanti per co
dardia, e bassezza di spirito
risguardavano ogni altro successo come
più mite della
morte, abbandonarono le armi e sè
stessi al inncitore
. Anche Cicerone
nel lib. r,
c. 44 èe
Natura Deoram fa
menxione di quella
ambasceria, e dell'annunxio
del castigo, succeduto, ^oni’ egli
scrive, sei auui dopo
la presa di
Vejo, col piombare
dei Galli su Roma.
GatniUo sotto la
dittatitra del quale
Ve)o fu presa, stando co’
Romani pili insigni
su luogo elevato donde
tutta quella città
si scopriva, prknieramente
fèliqitava té stesso^della'
Iiella avventura con
che gli era accaduto
di espugnare e senza
gran costo una
città grande e prosperosa,
la quale
erà parte, uè gii la
più ignobile 'della
Etmria, allora fiorentissima, e
potentissvna tra' popoli
dell’ Italia, e la quale
avea disputato |1 principato
ai Romani con
guerre moltiplicate per dieci
generazioni con cimentarsi
alfine a tutti i mali tra
r assedio non interrotto
di nove, anni. Di
poi ponsiderando per
qual lievissimo billico
trascende la sorte
umana, e come nino bene
tien fermezza, alzò le mani, sopplichevole ' a Giove
e agK altri Nomi, perchè
tanta felicilà non
chiamasse l’invidia su lui
principalmente, nè su la
patria : e se per
Contrario pubblici disastri pendeano
su Roma, o privati
sa lui, almen fossero
questi i più lievi
e più tollerabili. Non minore
di Roma per
gli cdificj, godea Vejo terreni
ampj, d’ assai frutto, dove
piani, e dove montuosi in aere
purissimo e salutevolissimo, senza
paludi vicine, dalle quali sorgono
aliti gravi ed
ingrati, e senza ninn fiume
il qual dia
troppe fredde le.
aure del mattino: nè
scarse vi son
Tacque, nè condotti) Ciok per
circa irecento anni
asjegaaado treni' anni ad
ogni generaaione; Imptroccbè Vejo
cominciò tali tae
gaerre con Romolo: poco
prima della aua
morte, e loocomM Livio ed
aliti dicono durato
quello asi^io dieci
anni : vuol diro nove
furono gli anni'
interi ciocché scrive
I’ autore dell’
Epi tome, ma non intero
fu 1’ ultimo. (3)
Dionigi nel paragr.
i5 del libro
iz scrive che
non lungi da levi
altronde, ma vi scatnrtacono
copiose • nommeoo, ohe bouissime
a beverne a. Dicono,
che quando Enea 'figlio
di Anchise e di Venere
approdò nell' Italia volesse, far
sagrìfizio ad un. tale
de’ Numi ; e che
fatte già le
preghiere, stando ornai per operare
su la vittima
apparecchiata, mirasse venir
da lontano tm
greco, Ulisse forse
quando fu per r oracolo
di Avemo, o Diomede quando
si recò per soccorso
di Danno. E dicono
che disgustato Enea
dell’incontro, tenesse come
inaugurata la vista
dell’ inimico tra le sante
cose, e che volendo
respingerla si bendasse e volgesse altrove
; finché dopo la
sparizione di colui lavatesi di
nuovo le ^ mani fece
il sagrìfizio: e siccome vi
si rendè fàusta
ogni cosa, e^U ne
fu dilettato per .'nodo
da custodihie di
poi nelle sante
cose la cerimonia; conservandola per
ciò li posteri
di Ini quasi
legge dei sacro ministero, In
conformità de’ patrii
riti, fatta la supplica Camillo ancora
si trasse in
sul capo il
manto, e volea rivoltarsi. Ma
travoltoglisi ciò che
avea di sotto
a piedi, nè potendosene rattenere, ne
andò supino a terra.
Or questo rovescio, indizio che
egli di necessità cadrebbe per
una miseranda caduta, questo rovescio fàcilissimo da
intenderlo senza calcoli
e divinazioni, anVejo è il
fiume Cremerà, e che
da questo fiume
fu denomioaio Cremerà il
caetello edificato da
Romani contro di
Vejo. Qui ai •crÌT
che non vi è
niun fiume il
^oalc dia troppo
fredde le aure del
mattino : che anche
senza fiume vi
abbondano le acque.
Questo esservi e non esservi
un fiume et concepire
che lo scritture
del com'.^ pendio non è
Dionigi.] che da’ meoo
periti, questo egli noi pensò
degno da guardarsene e da
espiarsene f ma lo
ridusse tale da. consolarsene come
se li Numi
avessero ‘esaudito le pre glie
pii\ illustri a' quali
esso era maestro
di. lettere, li \ ' • t
Narrano che Dionigi
divise il suo
campcndie in cinque
libri. Ambedue li codici
trovati del compendio
delle aiilicbilà non
hanno 0 non ritenpoiio indiaio
ninno della distinsiooa
in libii. BfOHlGI,
urna III. j,S cavò
fuori delie porte
come per passeggiare
dinanzi le mura, e far loro
visibile il campo
romano. Poi sionla nandoli poco a
poco dalla città, li
ridusse presso le guardie
Romane:^ queste accorsero;
ed egli cedè
sé stesso, e gii altri.
Menato a Camillo disse, che
da gran tempo egli
volea rendere la
città de’ Romani
: ma non avendo in
sua balla nè la fortezza, nè
le porte, nè le
armi, si argomentò di mettere
nelle mani di
lui li 6gli
^e’dtta^ dini primarj,
consideràndo cbe necessiterebbe li
padri, solleciti di salvarli, a dar la
città quanto prima
ai Romani. E cosi diceva,
immaginandosene maravigliòsi pre^ mj
pel tradimento, a II.
Camillo, dati da custodire. il
maestro e (i fanciulli, scrisse al
Senato il successo,
chiedendone cièche fosse da
fare. Lasciatogli dal
Senato di lÀrne
il lueglio che a lui
ne paresse, egli cavò
dagli alloggiamenti' il maestro
e li fanciulli, e fece
alzare il suo tribunale
non lungi dalle porte, presentandosi immensa
la folla su le
mura, e dalle porte. Quindi
primieramente distinse ai Falisci
quanto il maestro
fosse stato ardito
di olTeuderli. Appresso ordinò
che i servi gli
traesscr la veste, e lo canninasser ben
bene colle sferzate
; e quando tal pena gli
parve bastare ^ .allóra
‘diè delle' verghe ai
fanciulli, e fece che sèi
menassero innanzi alla
città, legato colle mani
al t&rgo, battendolo
e malmenandolo per ogni
maniera. I Falisci
ricuperalo i fanciulli, e punito
il maestro in proporzione
del suo malfare, sottomisero la
patria a Camillo. Lo stesso
Camillo nella spedizione
su Vejo lece
volo a Giunone^ 'Dea sovrana
del luogo, di
collocarle se prendea Yejo, la
statua iu Roma',
istitoendoveue insiemé cpito magnidco.
Pertanto dopo espugnalo
Vejo, man^ò de’ cavalieri
più rìguardevoli a prendere
dalla sua sede it
simulacro. Appena gl’
inviati vennero al
tempio, r uno (K loro
sia. p^erilmeitte e per
beflTarsene, sia per fame l’augurio,
addimandò la Dea
se voleva tra^mn grarsi
a Roma, e colèi soggronsè volere
con chiarissima voce della
statua ; e due volte
lo aggiunse. Impérocchè non potendo
que’ giovani peiiuadersi
che la statua
fosse quella che vea
parlato, replicarono la dimanda, e ne adirono un
altra volta la
voce stessa . IV.
'Tra il comando
de’ consoli dopo
Camillo proruppe in Roma
un morbo contagioso, apparecchiato dal non
piovere e dall' anura
estrema. Afflitti con
4:iò git' albereti e li
senànati porsero frutti
pochi, e nocevoli' agli uomini, e pascoli scarsi
e malsani ai bestiami.
Odd’ è che il male
consuase pecore e giumenti
senta numero non sedo
per. • quantunque non ignorassero che U multa
eccedèVa non poco
gli averi di
]ui: ma ciò vollero
perchè messo ' in
fcavcere scapitasse nella riputazione chi
tanta ne avea
per 'hobitissiole guerre, amministrate per^
eecellenia. Li ‘congiunti e li
clienti accozzarono e
diedero la son^ma richiesta afBnchè
egli non soggiacesse a vilipendj
; ma H valentnonio riputando intollerabile la
ingiuria., abbandonò (a
patriq. Nel giungere alle
porte fra gli
astanti • addo lorati e piangenti
per la perdita
che farebboho, bagnò di
largo pianto anch'esso
il senAbiante, -e lamentò
la infamia in che
era mesio dicendo
: > ^ Adunque disperando
i barbari prendere la fortezza
per inganno o di
furto-, si diedero
a trattare del prezzo, cui dato, i Romani riavessero
la cittù. Dopò giurati
gli accordi; i Romani
portarono r oro, e Vckiticinqae
talenti era la
somiina'.la quale' doveano
ricevere i Galli. Disposta
la bilancia ècco il Gàllp imporvi
un peso maggiore
deKgiusto: se ne
querelarono i Romani : ma. il
nemicò tanto fu alieno
dal rettificarlo, che lo
aopmccaricò delia sua
spada, levatosela dal
cinta E chiedendo il questore
che volea mai
significate quel fatto ; rispose, ^ubt pò
vinti. E poi che il peso
ivi posto, ampliato com’
era-, non si
pareggiava, anzi mancava un terzo'
di tanto, i Romani si
ritirarono chiesto tempo da
raccoglier l’ intero. Sosteneano
tanta insolenza ignari delle
cose operate ] come
al>biàm detto, in campo
dpe il 'corpo
ad un tempo
e lo spirito; converseodola oibei Uòndi
nasposto^ma palesemente. Addolorato
Arante per lo distacco
della donzella non
più reggeva alia
ingiuria-, cbe ne avea
da ambedue : né potendo
pigliarne Vendetta si mise' ad -ùn
viaggio sótto .vista
di liegoziare. Udì con
trasporto il giovine
lo andare, dandogli ciò
che era l^sogao ai
goadàgiii,' e T altro poftò,
nelle Gallie molli earri
eoa Q^i di
vinoV di olio ^
e 'tnollr.'ata ceste >di fichi, a ' r ‘. a I Galli di
quel di' non conoseeano
il vino delle, vili,
nè 1’ olio-,
quale fi'a-uoi 1q
danno ie olive: ma.teneano vin
d’orab, festnefatato in
acqqà, ó fogliame. tetro all odore, usando
per olio ^assi
vecebj di porco, ingrati a odorarne
e gustarné/> CoiQe provarono frutti non
prima gustati ne
presero dilatto masaviglioso, iuierrogaodo il
forestiere, dove e come ciascuno
di questi si generasse,
n -'t E. colai replica,
the.'iimpìa e buona è la terra
che li produci, è questa posseduta
da uomini, pochi di
numero: uè punto. migliori delle
Jìemraine in far guen'a.
Suggeriva;,chc'non
ricevessero più 'tali cose dagli
altri ad on
péezzq, ma cacciassero
i possessori antichi, e se le
appropriassero. (Mossi da
quel dire ven mi.
Ma i 'GaRii ne
misero in fuga
la molhtudine, ed occuparono tutta
Róma, salvo il Campidoglio. v Con c'ò
gran eommrrcio praesdente.
Cioachè non ti
accorda con la DoTÌlà
deacriiia .dei prodotti
recati da Aruoti
nelle Gallif. Won a facile
a connidemi ube una
natione ai ecciti
e commo^a a tfatmtgrare pa’ racpooti
dì un aTTeuttrriero. Livio
tcrive Iv 5.
i4> .Eoa ( Gallt ) ^lu
oppufinavtrunt CUuiunì. non fuh$t
qui primi alpet trantUrint^ latù
óonstat. 0uel .aarii
eo/iitat impoHa Alt
lai nidiaione era
comune in Roma
a'iAreno Ira! leueraii
'oi t,empi di
Livio, che sod (joelli
di Augatcn,, .nel
cui regno^^ anche
Dionigi vino, io Roma
luogo tempo. Panai
duiiqae da coocluderbe
che lo scritto
ai risente di alquanto
nosiooi te 'quali
.uoo erano del
diligentissimo aatore della
aiilicbità : ciot questo tjompoodio k di
t>n greco il
quale non essendo £>rao
vivulo nell Italia, S compendiando Dionigi, 'vi lasciava conoscere
la vena dell
ingrfpio ano non
ai para quanto
quella di Dionigi.] \, • rodar(7ao, nel
lesto edeltan, donde
celtico e poi ceillca,,,
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delle Antichità.’ romane dopo
V incendio generò dal
ceppo un tirgnlto, come dì Un
cubito, volendo gli Dei
manifestare ^e ben
presto la' città, ricreando se
stessa, darebbe germi
novi in vece degli
antichi. Anche in ‘Roma il
picciolo tempio di
Marte in cima alPalatino,
'i Romani pensano' chò
debbasi operare ben alirimen)Ì
debbasi a’ vecchj benefìzi sagrificare
la coliéra per
gli oltraggi recenti. Cerltmenle della
Romana grandezza ben.
fu meraviglioso. quel ^axto,
che non malmenarono,
pia lasciarono ille^ tjttti
i Tuscolani ‘^u^ntuòque colpevoli
f tna più meraviglioso ancora
fu quanto eòncedesouo
ad essi dopo il
perdono. Imperocché fattisi
% provvedere che non .saccedesse
più nòlla di
Simile., nella loro
città, né più ci avessero
alcuni comodità di
far cose nuove, non conclusero già
di mettervi guarnigione
nella fortezza, nè Questo e li
tre seguenti paragrafi
sono fratOmeaii dei
venti libri delle autichltà
Romane acUtte da
bioaigt e àul'' dal
Gomptndjo ; aono picciolo
parti dèli’ opera vara'
e noi parti derivata
altronde per supplirla, il
tasto grec e-la
tradaàioqe latina ai
ara atampata più volte.
Li framosenti ai
dislingtsuao dal non
avere l virgole
nè in principio nù
in fin^ dei
paragrafi. lasciarono contro
il sangue loco eccessi
ùi oltraggi che i
barbari più empj
potessero sopraggiungervi. . ^ 'i' . 'XI.tE potrei
allegare’ altri errori' infìnhi 'di
quelle repubbliche ; ma' li
tralascio; giaocbè spiaeemi
; fino l’aver menzionato gli
ànzidetti. Imperocché vorrei
che la nazione Greca. si
distinguesse '‘dà . quelle
de’ barbari non col
nome solo. e col dialetto;
ma per la.inlelligeoza eia scelta
delle utili costumanze;
c sopratthtto che infra loro
noit si desolassero
con ingiurie più
che disumane. E ad
esercitare i lor corpi o faticare
nelle armìv ne
ausavano di continuo, e vi grondavano
dal sudore, costretti
a desisterne innanzi P awiSo de’ capitani. Udito ciò f
' Camillo dittatore de’
RomaOi, adunò le sue
milizie, e condonò • tra loro,. assai
vivifi(ndole ad imprèndere:
0 ‘Romani ^ e^i disse,
nói abbiamo assai più
cùU it nemici
benfatte le arme, le corazze y gli
elmi, gli stivali,
gli teuài saldi,
coi tiuaU guardiamo tutto
il corpo, le spade'
d due tagli, ed in luogo
dell asta, saette
iP irreparaòH colpo.
Le armi colle qutdi
ci copriamo son
tali'da ndn> fdcilitare
su noi le ferite:
laddove quelle con
lè quedi nodiamo
'ci abilitano per ogn
impresa. B poi ruiao
è il càpo dei nemici,
nudo il petto
ed i lati, 'nudo il,fem&re
è la gamba mfino piedi.
Altro noti hanno
die li. munisca se nonf
lò' scudo : nè
adiro tanto picchiar
degli scudi, e guani altro ostentano
di barbara e stolido
a bravar t inimico, guai vantaggio
daranno ad essi i
guali assalgono senza
regola, .a-, guai mai
terrore a chi con
tanta re^la sta
tra i pericoli? Considerando tali
cose: voi tutti
guanti ne foste nella
prima guerra cpì
Galli e guanti non vi
foste, non ‘diserrate.' o voi
ohe vi foste
C arUica virtù, col temere, e;
vai che non
virfbste non siate
da meno che gli
altri net jegntdarvi
co' fatti . Andate La
prima gnarra ocoqrae
l’ aooo I acMiida
ueii’bravi giovani : dimostratevi degni
de' padri valorosi, correte intrepidamente al
nemico ; Sarà con
voi la ' mano
degC Iddìi per
tentarvi à punire • quanto
volete, questiimpìacabili.
Io vi son
duce, al qucde
tanto teslificate buon
senno e Jbrlunà. Da ora in
poi saréte felici, sia
che riporterete alla
patria la iwbilo
corona della vostra virtù, sia
che qui finendo
la vita lascorete
a’ teneri' figli] e ai
vecxhj padri per
un fragile corpo una
splendida fama immortale.^
Ma già non è
più da
tenervi, Ecco t irUaùco
sen viene ; ofidaie, presentatevi in
schiera . Era ‘'il combattere
de’ Barbari ansi brutab: e maniaco senza
le cure e la scienza
delle e vi ascese. Accorsa
la molUtudine 'urbana
allo spettacolo, egli primieramente
fece voti alBncbè
11 ^umi avvèrsaaero
l’ oracolo, e facessero
nascere molti, eguali a lui di
valore bella patria.
Dopo ciò lasciate
le redini e ' dato
di sprone cavallò
precipitò nella voraginet
Sopra lui furono gittate
in quell’ abisso
nioltè. vittime, nìolti
frutti, molte ricchezze,
molte preziose Vesti
^ 'molti oggetti di arti
di ogni maniera,
e senza più la
terra si ricongiunse Il
Gallo area corpo
straordinario, il quale molto
eccedeva la proporzione
comnne .... Licinio Stolone stato
dieci volte tribuno, quegli il
‘‘quale fu capo alla
fstitnzlone delle leggi, per
la 'quale dieci anni
fu sedizione, alfine'
vinto iu giudizio
e condannato ad una multa
in danaro ())
disse: che non
vi è bestia alcuna pià
callivà del popolo,
il qutde non
nsparmia nemmeno chi lo
sostenta . Assediando Marcio
console que’di Piperno, ridotti senz’
altra speranza spedirono
a lui. E Marcio, indicatemi,
disse, come solete voi
trattare li servi
li quali dà voi
si ribellano ? tome
si dee, soggiunse il legato
più anziano, punir chi desidera ricupenve
la r Sie mai ri fu
questa Toragiae, ciò che
può beo essere,
ta ricoopuDtione di lai
mode ò tutta (àvolosa.
Livio assai propiiio
a tali raceopti aon
lafiiTorisce. liberti ncUiva.
DlIetUtosL Marcio del
franco parlare, e se nei, dicea, se noi
ci lasciassimo piegare
a' lispar^ miarvi ogni
cruccio, quali pegni
ne darete voi
di non farla mai
più da nemici
? q V anziano tipigUava. Sta in
te o Marcio e ne'
tuoi Romani' sperimetttm-lo. So con
la patria Uberi
torniamo, vi ci terremo
• pen sèmpre costanti amici
: ma tali mai
vi saremo, 'se ci astringerete a servire.
Marcio ne ammirò
li magnanimi M‘q^i, e
sciolse 1’ assedio
.. L IV^EMTAE i GaQi
guerreggiavano Roma, un
priil' cipe di questi
sfidò qm^lunque de’ Romani
a venire con esso al
paragone dello armi,.
Un Marco Valerio
tribuno proveniente da Valerio
PopUcola’ il quale
insieme con altri ' Uberò
la città dai
tiranni, si fece innansi
pel combattimento. Venuti
'alle mani,' un
ooryo .si. mise
in su. r elmo di Valerio,
sgrid^do e guardando terribilmente il barbaro
f e se mai lo.
vedeva portare de’ colpi sul
romano / gli si
avventava ora colie
unghie alle Addo
di Roma 45. j.
' ; guance lacerando, ed ora
col rostro agli'
Occhi, pungendo. Tanto che il
Gallo ne andava
fuori di se, non potendo trovare
come ribatter 1'
emolo, nè come 'guardarsi dal corvo
! ' ' II. Ma
traendosi la zuffa
in lungo, il'
Gallo fu col ft;rro
sU T altro per
internarglielo coll' impeto
nel seno. Corsogli il
corvo agli occhi
Onde forarglieli, colui
alzò Io scudo a respingerlo
: e tenendolo alzato, il Romano che
ne seguiva 1e
mosse, menò da basso
la spada, e lo uccise,
Camillo il comandante
lo insigni .con aurea
corona soprapnominaudolo Corvino^
dall’ uccello compagno di
lui nel combattimento
; perocchò li Romani chiamano corvi',
gli oicoelll che noi coracas
chiamiamo. E costui da quel
fatto ebbe 1’
elmo ornato di un corvo.
In guisa che
qùanti fecero statue
o pitture di lui, lutti gli
acconciarono sul capo
quell’ uccello. Devastavano le
campagne ricche di
ogni bene... nomini sfìaiti
dalla g^uerra • e simili
ai cadaveri, se non quanto
respiravano . .. Essendo
calda ancora la
penero come dicono dell
ucciso ... Fu
vittin miseranda delr inimicO’Uomo il
quale saziava la
iuvidia sua poi
sangue civile . .. Dispensò
tra’ soldati parte
de’ vantaggi nè questa
la più piccola,'
ma tale da
sommergéK frà le ricchezze
la inopia dt
ciascùtlo . .. diedero il 'guasto
ài seminati’ già colmi
per h ' raccolta tnalmetiando il meglio
dellB^ terre fruttifere : ' i I • f I ' t,
Queste Cemitlo il, quale
apparisce ora aalHaaao'4e& Roma i Uli
tìglio del^ftmoso Furio
Csmiflo morto i6
ano,! adòiciro. .Aucb'esso
viute S fugò con
ifna iniigue battaglia
i Galli, tuttavia molesti ai
Romani. Livio lib.
7. aS. aC.
'Ma percl^è spesso
e molto danneggiavano i Campani
come iorp' amici . Pertanto
-il Senato ro manò
su le istanze
e lamenti replicati dé’ Campani
.con tro de Napoletani
spédi a questi ordinando
che non più nòcessero
ai sudditi della
repubblica ; ma ne
avessero e rendessero ciò ch’
era ^usto -: e
nascendo coih(roversìe fra
loro, le dJscutesserò
co’gindizj non'cqlle armi, '
secQudo le convenzioni
che ne farcbbono
: del resto mantenessero la
pace con lutti
ìnlornó i popoli, non corseggiassero il
mare Tirreno né
tentassero eséi per sé
nè .cooperassero con
altri imprese disdicevoli ai Greci.
Soprattutto istmi, gli
.ambasciadori che ’ cercassero, Se venivano
il destro, di alienare
co’ bei modi verso
de’ potenti la
loro città dai
Sanniti, e renderla amica di Roma.
',. y. Ti-òvavansi di
quel tempo (a)
in Napoli come ambasciadori di
Tatanto uomini rispettabili, e, po’ ligami
del. sangue, ospiti antichi
di que’ cittadini: ma por
altri,vi si trovavano
inviativi da’ Nolani,
cooSuanti dei Napoletani, e tutti
dediti' ai Greci,
i quali vi brigavano in
contrario onde non
copcórdassero co’ Ifomani
nè co' sudditi di
essi) nè lasciassero'
l' amicizia verso dei Sanniti.
'Che .se r Romani
set pigliassero a pretesto di
guerra { rton temessero, nè
invilissero, come in^
su^rabile rie fosse
la forza ; ma,
perseverassero, e combattessero
come i jbraoi Grecf.,
confidando sù le Manca
il principio dj
questo raccolto: puj>
coninliar^i Livio nel lib. 8,
c. aa.
Questo 'pangrafo e tutto il
resto del libto 'sono Frammenti veri
dei libri perduti
delle aatichità di
Dionigi.] schiere proprie ^ e su
le ausiìiane^ che
verrehhono dai Sanniti. Riceverebbero
se ne abbisognavano, pià delle loro,
le forte, navali dà' TaretUim, le quali eran
tanUs e. si, buone. Adunato il.
Sanato, e tenutivi molti
dlsconi dai legati loro
fautori, vi si divisero
i senbmenti : ma li piu
autorevoli parfianO tenerla
' pe’ Romani. Non
fecesi per quel giorno
decréto alcuno, ma riserbato
per, altra sessìonè l’esame
intorno ai legati;
recaronsi a Napoli in folla'
i primarj de’ Sanniti.
Or quésti Conciliandosi con ossequióse manio:e
i capi del comune-,
pregarono il Senato a far
si che decidesse
il popolo dell’,
utile pub blico. Quindi
recandosene all’ adunanza, vi
ricordarono i loro benefizj,
poi vi
fecero le mille
accuse di Roma come
di una ingannevole
e perfida : e finalntente promiserole
meraviglie ai Napoletani
se deliberavann per la
guerra: vale a dire
che mauderèbbero loro. milizie, quante ne
bisognassero ‘ per difender
le ptura, come Tarmata e 4utta
la ciurma per le na#I.
Davano insieme a vedere che
subirebbero tutte’ le
speso guerra non solo
pe’ soldati proprj, m
pe’ loro.; che
respinto T .esercito romano
ricupererebbero,Cuma, occupata
dai Campani, erano già
due generazioni {i),
.cén esdnderM gli abitanti
: che renderebbero la
patria ai Cumani, accolti, quando U perderono, dai Napoletani, e fatti partecipi di
ogni lor bene:
che 'darebbero ai
Napoletani un trat^ assai
grande del territorio
che tenevasi dai Catppihi., -, ' r ', vn. Ih
mezzo a .tal dire,
la parte calcolatrice
dei Ntpoletani, la quale vedea
da' .lontano i mali
xhe ver rri>bero colle
battaglie, su la
città, dimandava che ai conservasse la
^ace: ma' la parte
amante di :cose
nuove ^Ja quale cercava
insieme un. mezsp . arricchire
nelle ttsbolenze lanciavasi verso
le guerra: 'Pertanto,
elevafonsi a vicenda e -voci e mani
; procedendo la contesa
fino al tiro delsàss).
Alfine prevalendo il. partito
men buono, gli. oratori
di Roma dovettero
tornarsene senza Tintento. Dond’^è che
il" Senato romano
.decreti^ 'd’ inviare un eseacito
contro de’ Napoletani. ., ' .Vln.
1 Romani all’ udire
5^10 i Sanniti apprestavano un esercito,
vi spedirono prima
Rmbasciadori.. E di essi quelli
eh’ erano scelti dell’ ordine .. senatorio
venuti ai consiglieri de’ Sanniti
dissero: Voi fatfi
ÌQgiustamonte o Sanniti
violando i p'attati cha
ovate con noi
con^ cordato. Amici vi
eijt^nete di nome, nemici
che ne siete di
fattL Vìnti, voi
da Romani in
tanti condtat timenti, sciolti
per le istanze
vostre caldissime dalla • f. . ' guerra j oiténuta
la pace come
la volevate' ^ e desiderosi poi di
essere gli amici
e gli alleati di
Roma; giuraste, alfine, di
avere amici e nemici
quelli appvinto che per
tali riconosceva la
nostra repubblica. ^ IX. Ed
ora immemori di
tutto questo, e fin posti in
non cale i, giuramenti, avete abbandonato
noi nella jguerra co'
Latini e ci>i Volsci,,cpn
que’ pòpoli io dioOf
che sono divenuti
nemici nostri appunto
per voi, perchè avevamo noi
ricusqtò di unirci
con essi net dare a
wi guerra. JE
nelt anno. J precedente voi avete 'istigato con
tutta la premura
e f ardore, anzi. voi. avete
necessitato i Napoletani che
temevano farlo, a prendere.
contro noi la
guerra^ e voi ne
supplite'le spese : voi
la loro città
ven tenete. Ed ora
tutti intenti ad
apparecchiarvi raccogliete d'
ogn intorno milizie,> coh
pretesto, come pare, innocente,
ma: in
realtà con disegno
di guidarle contro' i nostri cotoni. Ed a
tanta ingiustizia invitate
i .Fdndiani e i Formiqni' ed altri,
i (fuaii abbiamo no,i
pOr^^iato ne' diritti ai
nostri cittadini. X.‘ Or
'voi profanando così
scopertamente 9 turpemente i
trattati 'di amicizia
e di alleanza ; il
Senato ed il popolo
romano^ deliberarono di
spedirvi ambasciadori, e
iperitnentai'vi colle parole, innanzi di procedere
ai' fatti. E queste
sono le cose
che ami tutto vi
dimandiamo, queste quelle,
ottenute le quali, crederemo soddisfatti
i nostri risentimertti : Chiediamo primieramente che
ritiriate, le truppe 'inviate in
soccorso ai Napoletani:,^ e poi
che non mandiate
milizie condro i nostri' coloni, nè
provochiate affatto i sudditi
nostri a voglie ambiziose.
Che se dite
che tali cose non
piacciono a tutti fra
voi, ma che le fitnno alcuni
solamente contro il
‘votò comune; cónsegHàteci dunque voi
questi perchè ne
giudichiamo, 0 cen terremo
contenti: ma se
non gli avremo
noi tjuesti nelle mani
j né prenderemo in )
testimonia i Numi, ed i Genj
invocati da voi
-nel giurare i trattati
; e pSrciò siam qua venuti
co Eeciali. Dòpo H parlar
del romano consaìlatisl
infra loro quei capi
de’ Sanniti diedero
questa risposta : Non
è già colpa del
comune che i nostri
sussidj giungessero a poi
tardi per Ut
guerra 'cóntro i Latini,
Imperocché si era appunto
decretato che questi
a voi s’ inviassero : ma i capitani
assai ' s’ irtdugiOrono
nell àpprestarveli ; come
voi troppo vi
acceleraste a dar la battaglia
] e coti giunsero quelli
tre o Quattro giorni dopo
il bisogno.'' Jiispetto' a Napoli
poi -dove sono alquanti, de 'nostri, tanto siamo
lantàni dcUt oltraggiarvi soccorrendola in
qualche fnodo mentre
perico ' la-; che noi
pensiamo di 'essere' piuttosto
gli oltraggiati e gravemente da
voi. Foi, tutto
che non òjfesi, v'
adoperale a soggiogare questa
città, confederata ed amica nostra
non già da
poco, né d^ allora
che con voi ci
concordammo, ma da due
generaeioni en>antS, e per
grandi e copiosi ben^tij
ricevutine. XII. .Tuttavia non é
la comun
dei Sanniti che
offendavi nepimeno in questo
; imperocché di propria voglia ìóccorpono
Napoli, come udiamo, alcuni nostri, ospiti ed
amici loro, o stipendiati,
per la
indi^nta’fbrse del vivere.
Nè abbiam poi
bisogno di staccare da
voi' li sudditi
yostri ; imperocché senza que’
di Fondi, ^ e. li Formiesi, noi, necessitati alla guerra, bastiamo a noi stessi.
-Apparecchiamo un
esercitonon per levare:
a^ yostri colorii le
còse loro ; ma
per difendere le
nostre propriamente. A vicenda noi
dimandiamo da voi j
se -volete far la
giustizia, che partiate da
Fregelli, città da " noi
conquistata tanto priiHa col
mezzo delle armi,
che è mezzo dirittissimo di possedere
; e voi sera alcun
titolo ve t avete, già sono
due anni, ' appropriata. '
Or tali Digilized by
Google 428 DELLE Antichità^,
romane cose ci si
concedano > nè crederemo
di, essere stati oltraggiati.
Allora subentrando 'al discorso
il Pedale Romano, ripigliò : Niente
impedisce che violando
voi così manifestamente i trattati
di pacOy i Bomani
passino alle armi : nè
già ponete lepnerUarvi
di essi, ma de'
non sani vostri consigli.
Ornai da loro
si è /atto qtuuUo
doveàsi per .le
leggi rsacre e civili
della patria, o di pio verso
i Numi, o di giusto verso
i mortali. Gli Dei
che per sorte
soprawegliano alla guerra, giudicheranno
tfuale de due
popoli osservasse i
tràttati. £/ qpi
recatosi in atto
di partire, e tiratosi al capo
il lembo onde
cingevasi gli omeri, .alzò
come era il costume
j le mani' al
cielo, orando don. imprecazione gl' Iddii
: che se Roma
ingiuriata da Sarmio, non
potendo riaversi dalla,
ingiuria cotle jrsfrole
e co' tribunali ^ procedeva
finabnerite alle operé, U dessero per
la mente ctmsigU
bùqni,. e. condotta,
propizia per la guerra.
Afa se in
opposito Rorna ìràscurando
i legami santi delV
amicizia,' accattava pretesti
non giusti onde
romperla, -.non la dirigessero 0 ne consigli
o ftelle opere. XIV. Levatisi
gli uni e gli
altri dal .colloquio
; e dichiarate alle loro città
le CMe disputatevi
; dascuno dei due popoli
pensò molto diversamente
su Tabro. I Sanniti come £an
essi quando iqtprendon
la guerra, tendano per lent^
assai |e operazioni
de’ Romani; laddove 1 Romani immaginavano
rannata di Sannio. ornai
prossima a. piombare ^u i
Fregèllaui’, loro còloni.
Donde ne avvenne a ciascuno
ciocché erane consentaneo:
Imperocché li primi,
apparecchiandosi e
indugiandosi rovinarono la opportunità
’d^ imprendere : per
T opposito i Romani tenendo tutto
pronto, udita appena la
risponsóli. E prima che i
nemici ne udissero la
marcia; tanto le
milizie reclutate V, ‘non. di:etidere in
teiTa, ma .dalla terra
elevarsi. Imperocché nell’
e^ero stan le sorgenti
del fuoco divino. a Ciò
che si dimo^ra
pel fuora .nostro
sia che lo abbiam 'da.
Prometeo, sia che da
Vulcano. Impe^ rocché quando
è sciolto da’ vincoli
pe’ quali è necessiuto
a rimanere fra
noi, corre subitamente per
1’ aria verso 1’altro
fuoco, suo connaturale, ed Q
quale doge d’interno' tutta la
natura del mondo^
Cosi donque l’al.
l6 e Livio più dislesamente. Il tratto
aegnenic sembra parte
della ri^tosia di
Poaaio airinviato de’ Romani.
neUe guerre han perduto
i jìgti, quanti i fraleìli, e quanti gli
amici? Ne’> quali
tutti come pensi
che dee traboccatne la
bile se alcuno
' gf impedisca placare ^ue'
morti eoa tante
vite di nemici
le quali sole
son credute un ossequio
in verso gU
estinti ì, V. '
Ma supponiamo che
•persuasi, o forzali^ o per qualunque maniera
vinti mi si
arrendano, e contxdano che
questi continuino tìi
vita, or ti
pare, che sian
per cqnce'dere'che ritengano insieme
ogni lor cesa,
q sema pur neo di
vergogna' se ne
vadano quando, a tbr
pia ce, 'quasi eroi. qui apparsi
per felicitàrne ? O non piuttosto sopravvenendomi j quasi
fiere, mi sbranerebbero appena tentassi
dit questo? O non
vedi come i cani
da caccia quando
è presa la fiera
la qual chiusa dà
essi va nella
rete, circondano il ceuciatort, chiedendo parte della
preda ? e se non
ottengono bttntosto il sangue
o le viscere, non yédi
come lo sieguonó, e pressano, e malmenano,
nè. respinti sèn
pdrtono, nè percossi ?
Faticarono tuUo'il di
cotnbaltendd, ma^i che le
ombre tobero di
rafhgurare gii amici
e i nemici, tornarono a
proprj alloggiamenti. Appio Gaudio
non so per qual
mancanza intorno de
sagrifizj perdé la
vista, e ne fu denominato ->^f£'eco ; 'perocché
li' Romani cosi chiamano chi
non vede . le
scritluce' custodite tra 1 murs
, formate con lettere/
accuratissime, odo'rifere
per lo misto
in che sono,
presentano tal iloridez (t)
È diifieite iotarpetrare dove
miri iitesio rottame. Fn
detto che alle nti
Freoettine. .,• i 4^3 u. ^. I
RonUuii ckUmaQO calende'
le ncòmeaie . come none
dtiamano la' mezza
IbQa, ed idi il
pleoiluaio. Era. la falange nel
rnsAZO disgiunta ié.
mal piena : cori quelli
che ivi erano
disposti id òontrario, le
furono sopra, e ne 'respinsero i>coDÒfc|auenli l’'iaosa,
guàra aitàccò tutto
il fiore dc^
cita Uomini sacerdoti,
onorati Co’ sacri -minirieii'. Quest’ uomo
pien di trasporti
senza consiglro, insolen> tissimo, deliberando e ctmcentrando in
sé tutti i poteri per
la guerra E poi
tu ardisci di
accusare ia sorte, turche
la usavi pessimarnente, postola
su barca già rovesciata
? Così eri stolto
? \, .^jilcuni i membri
abbisognano di cura,
e tali altri cicalritzcmdosene . VQt Ma
vo’ ricordare ancora un’ arion' dvile -de gna degli
noom) di tutti
i mortali, dalla iquale sia
chiaro ai .Greci quanto
Roma ' allora abborrisse soellerati, e come fosse
inesorabile contro chi
viola i diritti comuni della
natura. |Ca jo Letorìo
soprannominato Mergo, uomo
illtutre pe’^ natali,, còme
>non ignobile per
le' belliche imprese ; dichiarato
trìbW>' militare nefia 'guetta
-Sannitica^ Ittsiqgò per
un tempo un
giovinetto^ sub camerata, vago più
eh’ altri di
aspetto, perchè rendere si volesse
agli amorosi diletti
di lui. Ma perchè
noi guadagnava cb’'donl, uè còlle
gentili maniere, ornai
più non bastando a sesiesM, cpr§e alla
violen^. Divulgatosene il disordine
tra le miliziè,,
i tribuni • della plebe y
; V ' Qoaoto SigoJa
questo .libro, er^etlaato. it
paragrafo lO'A lutto frammenti.
• ripuUQ^Io oltraggiò comune
della {repubblica, me die dero
.accusa .pubblica al
reo-, cpudannatone quindi
dal .popolò a Qiorte eoo
voti pieqi. Peroécbè
non tollerò questo ebe
uomini di grado,nell',;fsercilo profanassero con ingiurie ‘ùmpìabili e contrarie
ali^ -natura Tirile, ' persone -iagentté, mentre
esse per la
libertà’ co njballe-; vano i .Se non
che non molto
prima -di questo fece^ttn’ opera ‘ aaeor
piò tp^evigliosa per T
ingiuria recata ad un
altra persona, quantunque
servile. Il (àglio
di PubKo,io dico t di
uno di que’
tribuni milUari che
umiliarono ai Sanniti l’ esercito
e n& andarono, sotto
giogo, fa costiletto, come
lasciato iir grave
pénuria, a ter -danari ad usura
pe’ funerali del padre,^qtfasi
ch% sarebbene quanto prima
rilegato da’ parenti.'
Ma deinsò nelle
sue speranze, e scadutone il termine
{vfa présir'egU Stesso pel: debito, giovinetto
èòm’ era. e vaghissimo
nc’ sem(t) Valtrìo
Masshiro pirla di
a( capo' primo Le
deecrjsione qui ecala
b l' una' de’ tram meati de’ libri
perdoti-di Oiop^i.,II'£|ito fi
narra pur aél
compendio in. tal
modo: Ua tal Romano^,
Cajo Leutrio, intUleva cpn
un giovine, suo eumerata,
ond’ avir tUo diletto
da lui y vago
della persona. 'Ma
non essendo il giovane
goodagnalq nb per
doni v né pér
eavetse, alta Jiite
divalgato il disordine
dell’uomo, i tribuni lo
condannaranò. ‘-'IXdnigi, ’Oòm'Vne'^reaiaieoii, leone per
ciseostinta gravissima del fitto
la vipleoia, usala in
noe dg Letorio
: -Se cglf compendiava sè atess >Ta
le carni ^acci&ct^
appena-^ si'riseajtooo e ' commoTOusi ifid
tanto eh. gli piriti. nalnrali di
esse yio lentano i p.ori, e $i
dissipa'no. Questa •>, pur
la cagione de’ terremolwià
Roma. Conciossiaché tutta
vuota di setto per
grandi e contiqùatl canali
pe’ quali conducesi
T afana tien m'ohe sflatatoje^
per le quali
sen.esca.il vento rior.hiusovit
ma. quando il
vento 'rimastovi prigiohiero ' sia troppo
e veemente^ questo^ somioove'
Roriù e rompene il suolo,
a •' Si^ consenta in generata
ani liplo rfi
qi|eSto, giATÌnetto : ma si discorda
autonome, su la
famìglia', e sul ten^)0.
Valerio' Massimo nel lihA ^ lo
chiama fity Vetório
figlto noa di
Pubblio ma di
quel Tito Veturio che
net aifq consolato
fu dato ai
Saooiti (lal. cfattaio obbrobrioso coocluso
con essi. 7(10
Livio chiama it
giovine Cajo Publicio, ed
assegna il fauo
all’ anqo .'4^7
di lioma aolto
i oontoli C. Poeleliu fc
Lucjo Pepino, vispi
4irùclusa la pace
co’ Romani, soprastettero breve'
tempo i Saiteiti, e poi,, stimolati
dà un antiéa
ingiuria, mar ' ciaróno coll'
armata tra i Lucani,'
loro cónfinauti. Questi affidati da
principio 'alle forze
proprie sosienner la
guér ra : mapòi vinti
in tutte le
battaglie, pelòta gran parte
del territorio, e già prossimi
perdere^ anche il resto, si
videro necessitali ad
implorare rajuto di Roma J£
quantunque' consapevoli a sestessi
di aver tradito
i patti cdnclusi Uria
volta con lei
di antiòizia e di
alleanzaf non disperSròne ch^
concorderebbe di nuovo,
se le inviassero in
ostaggio insibme òon
gli oratori 'i giovinetti più rignardèvoti
di tutta la
repubblica loro. Qr
questo appunto ne seguitò.
Perciocché Venutivi gli oratori^
e supplicandovi ca^dissimamente ;
il Senato deliberò diricever
gli ostaggi e render^
ai -Lo cani r amicizia; ed il popolo
né comprovòla sentenza. Firmati gii
accordi con gl' inviati
de'Lh'cani, il Senato elesse i più
provetti per anni è
per onori ^ e li
diresse ambasciadori al consiglio' generale dèi
Sanniti; affinchè dichiarassero
'ad èssi
che ‘i Luoùni
erano git amici, e gli
alleati .di Bontà, e gli
esortassero a render lóro le
terre usurpatene, nè più
tramarli ostilmente : già non
permetterebbe la repubblica' che alleati
suoi che a ' lei ricorret'àna, rinutnessero esclusi, dal
proprio, territorio. ... • tata
levar tutu levando,
i oaneli. Pìi( volentieri
diremo che le
mosee de' venti ttnterranei seno
éfletlo 4ie'unemoti ausi
che la priout eafione. I Sanniti
gli mnbasciadcwi incollerìrono
e replicarono primicramentò ; che
i trattati di pace
non erano Jdtt} 'Con
accordo 'che essi
-non mossero per. amico;
o, nemicò se /ton
^quello che -assegnassero
• loro per tale i Romani
i Appresso, che i Romàni ~s'
avjevano renàuto amici
i Lficani non già
in antico, ma di
recerite quand' erano
questi già inoolli nella
~^guerra co' ^Sanniti ; oh A è che
non avevano titolo nè,
giusto nè decoroso per romperla
co' Sanniti Risposero
i Rotofiixì'.'che. coloro i quaU
avevano promesso di
soggiacere, ottenendo
appuntò con ciò la
pace, dovevano obbedire in
tutto, a chi presedeva.;
'.e minacciavano in caso
contrario di portare
sa essi la
guerra. I 3aimiù ripuianjlo intollerabile
|a ptresunaione di
Roma intimaroflo agli
ambasciadori cht partiasero
su. T istante ; e dentarono che sL
apparecchiasse spianto bisognava
per la guerra di
tutta .1 fazione, e di
ogni citti^^ Pèrtanto' la
; cigìon manifesta, nè
ingloriosa a" raccontarla,. della
guerra Sanuiliea, fu .la
voglia di socQ>rrere
i Lucani caccòmmuidatisi a Roma quasi
fosse già pubblico e^
vecchio costume di
essa ^difendere gli oppressi, che la
invocavano: ma la
oagion recondiu., e che
più \li sospinse
a romper la pace, era
la potenza Saimitica, divenuta
già grande, e la
qnal$' crescerebhene ancora,
se domati i.l,ucani
ed i confinanti di
questi si volgessero ad
essi anche le
barbare genti .che
stayansf appresso. Cosi tornati
appena gli ambasciadori
la pace fu rotta, e sì
àfrolarono due armate. XV.
Postumio già console, venuta 1
oca di esserlo
iivatneiue, teniasi grande per
to splendor de’nataii, come pel
gemino consdato Doleasene
sa ie prime il
collega di Ini
quasi escluso' daU’
essergli Uguale, e più volle
ne fece 'in Senato
rimostranxa. Alfine qUah
plebeo venuto in luce
da poco, riconosoendosegli' mìAore per gli
antenati, per gli
amici, e per àltre
eccellènze, .n'mi liossegli, e
gli concedette di
per si stesso il
comandò della guerra Sanuitica.
Diede grande invidia
aPostumio un tal fatto,
come nato dalla
media arroganza sua';
ma poi glien ' diede
un altN, ancona più
indegno di un duce
-Romano. linperoccbè separali
due mila' difi
esercito suo li ridusse
nelle campagne sue
proprie' senza i fèrri con
ordine l'nsieme ebe
potassero "un qùerceto,
leneudoK gran tempo
in òpere ài
mercenari e dà schiavi. E superbo tanto
^ prima di Uscire
|Kr la s|>èdizione, apparve,
più InioUeraUle ancora
nel compierla; dando al
Senato ed al
popolo catise giustissime
òndè r abborrissero. E ceno, • avendo.
i| Senato definitó'che Fabio il
console dell’ àttnò precedente,
il quale area
vinto i Sanniti cbiamali' ’FeHtri'
si rimanesse nei campo .con
aniorità proconsolare per
guefreg^are con la parte stessa
de' Sanniti, ^gli.oon ieiterrs(ia'
gl' intimò di par
tirne, come spettasse e lui
sólo còmaudarvi.Spedirono i
FUdtì'a ^chiederlo ebe
non impedisse al
proconsole di stTtre, nè
ripugnaste 'ài loro decreti;
ed 'agli non
diede se nOn. òrgegboae
e tiranne rlsposfe,
dicèndó:cAe finAocbe Litio
fa mauaionè di
quelli SaoaÌM : nondimeau
Clatetio li tralatoia
Della ina Italia
antica. .- beticippe IvaocdeaiOBe-ìùteyVÓgÀido l’oracolo, dove portaste
il destino che
egli cc/’^stiei '‘prendessero tede, né
ascoltò chè dovessero
Aavìgare-AllMuiia, divi Caprifico,
fico ilvcstfe. La
voce greca tigoifica
ca'pro e prs$o .glcuui popoli
caprifico. Quindi P ambiguiii
d’iulerprcUrc la voce per
capro o capritico. ahbìtàre dove
approdati rimanessero un 'giorno
ed una notte. Approdata
la flotta intorno
di Gallipoli 'in un tal
campo de^T^renlinì, dilelliito'Leacippo della
aalbra del luogo, operò coi
Tarenlini .afllnchè gli
isonCedessero di stanisi ii
giorno e la notte.
^ Cosi passatine più
giorni ; voleano ' i ^Tarentini che
ne partissero ì -ma
colui noti ditd^ lor
mente, dicendo che
secondò ^li accordi
uvea iU loì^ quel
tUoigo pel giorno
e per la notte",
e però sino a Umto^che fosse
o furio o f altra non
se ne partirebbe.'I
Taréalini vistisi, nell’ inganno,' coQsentirono che rimanessero. > > ' 'V. u I Looresi
popolando Zefirio, Ina punta d’
Itali; ne flirtino
soprannominati' Epizeflrii. Stav
tniropo. che rimanesse
nel hiogo in
che era, sostenendone la ^ecn.
che ne derivava
.. furono dissipati tra
selve e valli e ripidezze,
s Vi. Un TarentiOo,
uomo empio, e deditO/-à
tatti i piaderf p la
incpntinenztr e
prostituzione' della Sua bellezza
fln'da ^ovinetto / ne' iu
nominato Taide . .. . Fatta ià' scelta
dal popolò erano'' partiti . Vilissimi e
petulaaUssìml tra cinadini. Fu
Postumio spedito ambàsciadore
ai Tarentinr : ma'
facendovr rimostranza ; questi
non-T iitte> sero, nò ' pigliaronp
il contegno de’
saVf i quali -òòmuliino su là patria
che pericola: anzi, se nieoiotavitno mai che cóldi non parla accuratissimo il greco
'Idioola, ve! Siraboàs pel libro setto dà questo 'Sdetiaid racconto pell’origine
di Melapoalo. Cosi detto perebà risolte al vento Ztflro ciot di Ponente. Questo
e li tre paragrafi srgoenti tono frammenti. deridevano, ed elevando 1i;m le mani
o la voce, se ne irritavano, e barbaro lo
chiamarono; jtantt> che 1q espulsero infine dal teatro. E già costui
m ne anda co’suoi, quando per istrada s’avvenne con essi,.Filopide, un accattone
di Tasanto il quale sopran-j nominavasi Colila dall’uso che avea, continyo di briacarsi.
Caldo del vino, ancora del di precedente, come ebbe vicini i Romani, si tirò su
la veste: e scompóstosi in atto indegnissimo da vederlo, sbrufTè sul manto sacro de’Legati ciocché non. può nominarsi nemmeno
con decenza. Scoppiatene da tutto '3 teatro le visa, e sbattendoglisi per fino
le mani da'più protervi, EoStumio riguardandolo dice: accettiamo o tvtissimo uomo
/ augurio: giacché ci date fin le cose che nòn chiedi/ama. Poi rivoltosi alla moltitndine,
mostratovi contaminato il suo manto, e sentitevi uuiversaliN aucora e più, grandi le risa, anzi le voci nemmeno, di àlcUni che'sen compiacevano,
e lodavansi, della contutUelid: -ridete f dice, finché V é dato
; ridete, pure o "Tarenùni ; ehè
assai ne sospirerete dii
j>oi. Fremendo alquanti 'alla minaccia iò
; replicava, perchè pià Jremiale
vi aggungo ; che assai
laverete col sangue
:quesUi, mia Cosi spregiati dai
'prijvati e(kl pubblico,
e tosi •pcoaunziatp quasi
come un
vaticinio divino, su loro /
sciolsero,d legati dal porto
dà Taranto. Giunti questi
sotto Emilio fiarbula
magisti^to Aono di
Roma al Altri alla idea-dj
acoattonesoatitaiacono quella di
od aomo brflardo t garrulo, ellione de’ Lucani
e de Bruzj ‘j e
finch’ era' indomita la' nazione' grande le
bellicosa de Sanniti, e 1
altra 'de questi son
fatti a\dar buoni auguri, a chi cerca
mantenne i beni pri>prii.
Ma. chi cerca r altra!,
spii queiU augnrf
da uccelli di
pronto e rapido impeto
per lontauT Via^.
Ginciossiaché questi uccelli sieguooo
e pcocacciansi ciò che
nbn hanno : ma gli
altri guardano e''cnstodiscòno ciò
saltité .Pormi saviezza mandar’ lettere di
minàcce aC sudditi: ma
vi&t pendere come uomini
da pocoro da
nullaUomini dei quali non
siansi considerate le
milizie -nò conosciuto il
valore, questo è indizio di
forsennato, o di chi non sa
ciò che è senno.
3Ia noi sogliamo
punire i nemici co
folti, non,, colle parole.
Nè fàteiamo te giudice
de’ nostri richiami
co’ Tapentùti, oo’ Sanniti, e con altri:
nè prendiam te
garantedà far valere
ciò che tu . giudichi. Decideremo
colle armi nostre
la disputa pigliandone la
pena che ne
vohemo. Su tali 'notizie. apparecchiati come
nimico ^ noa come
giudice nostro. Vagli poi considerare
quali ’ garanti ne darai
per te da
soddisfare le ingiurie
>che tu ci
fai : non ricevere
a carico tuo che nè^
farentim. né sdtri nemici opprimeranno
i diritti. Se luti
deliberato di intprendere per
ogni rqdnierà la. guerra' contro di nói,
tieni certo che^ti
succederà dò Se
di ^ 'necessità succede a chi
vuole combattere innanzi
di, aver ponderalo con’ chi siaper
.combatterò. 'Abbi 'tutto in
pensiero, e poi se cosa
ti bisogna da
noi, aìlo'ntànale minacce,
pon già.
quella tua regia
fierezza V vieni al Senato, informalo,, persuadilo
uè' vedrai -mtuteanS non 'il tjlirilto,
e non £ equità a. V
i'9 • JLìevino console ramano
, preso un
esploratore li Puro (e
prendorfe alle sue.
milizie le armi e
schie>r rarsì : poi mostratone
a lui lo spettacolo
gl’ impose di riferirne
a cbv lo mandava,
tutta la verità
: e che oltre le cose
vedute dicesse che
Levino il console
de’Komani lo ammoniva a -non
inviare occultamente ‘altri per
osservare : venisse egli 'e
vede^ palesissipiameate, e spe rimenlasse ciò
che-gian Tarmi romane
. Addo (li Roma. 474n/ÓJV/C/. lówà
Ua tal Oblaco,
loprannominato.VuUinlo, dace
de'Fereatani, al vedere
che Pirro non
avea posto certo, ma
presentavasi rapido dòvuoqnc.
.tra’ soldati, diresse r attenzione.
a.' lui solo : e dove'
che,ne andasse il re
cavalcando, ivi piegava anch’
esso il proprio
cavallo. ' Osservando 'ciò Leonnato
di Macedonia figlio
di Leofante, .l’nno de
compagni del re, se ne
empi di sospetto, e scoprendolo a Pirro
disse fvMarortaro(^o. Dopo
quell’ incontro il
monarca afEne fidisstihó e valorosissimo fra’
coin|>kgni la da mide
sua di porpora
e di Oro usata
da Ibi. nel
combattere, c l’armatura,
migliore delle altre
per la materia e pei
'tavqro, ed Segii prese
la clamide bruna, e 1’
usbergo e la causia
colla quale, Megacle difendeva
il capo dagli ardori.
E questo fu cagione, sembra, a lui dj salute
a. ‘V. Dopo (Jbe
Pirro signore degli
Epiroti aveva portato r esercito
contro ai Romani, deliberarono spe dirgl’ambasdadoH pel
riscatto de'^rigiouieri, sia che colui
volesse restituirii'cambiandoli, sia che tassando un prezzo per ciascuuo di essi. Pertanto dichiararono
ambasciadori CAJO FABRIZIO (vedasi), il quale gii console, addietro da tre anni,
vinte i Sanniti, i Lucani, i Bruzj
con strepitose battaglie, e disciolse 1’
assedio ‘di Turi, e Quinto Etnilio
il quale éelTega
un tempo di
Fabrizio fece la guerht
co’ Tircehi, è Pdbiio Cornelio
il quale gii console
addiètrct da quattré'
atini atuccò ^utti
i Galli chiamati Scnoni,
nenvcilsfmi'de’^omani, 'e 'mitene
a 61 di
spada tutù gli
adulti.' VI. Venuti quésti
a Pirro, e -discorsogli qninto
concerneva il subjelto, come la
sorte non Imttoposta a calcoli, corno repentini
sOno i eangiamenti
fra le armi, e .come
niun può' di leggieri
antivederne il futbro; proposera alui
che sceglieste dì
rendere i -prigionieri a
p-szzo o permuta. ( ' 001101
rispose : jirduo cimento
è il vostror o Romani,. che ricusate can^iungervi meco
di aiaicieia, e richied/ete i vostri prigionieri da
usarli in altre' battaglie in
mio.dannoi Voi se desiderate
il bene., se
intenti siete tdX
utile comune a noi due ;
pacificatevi con me, e ee’
miei confederati, e ripigliatevi gratuitamente
1 vostri prigionieri, alleati,, 0
cittadini che sieno.
In altra moda non
soffrirò che vi
abbiate un' altra
volta tanti, Je ^ tanto valorosi.
Corì disse presenti
i tre 'legéti, ma poi prendendo
Pabrizio in disparte
soggiunse:, Vili. Odo o Fabrizio
che tu se
prestantissimo nel guidare una
guerra, che se’
giusto, e sobbrio e pieno d’^ogni virtù,
dell’ uomo privato, ma
che intanto sei povero
di sostanze, e depresso
in ciò solò
dalfis sorte ; onde noli
vivi tù eoa
più agio cher. gV
infimi senatóri. Ora io
volendo sollevarti anche
in ciò, ti
afferò tanta quantità di
argento e di oro
da superarne il più
facoltoso tra’ Romìmi.
Imperocché io reputo liberalità bellissima., e degna di
citi presiede, beneficare i
valentuomini i qiysli. per, la povertà
non vivono con dignità
de’ lor^ genj
bennati, equesti io reputo
doni, questi monunten{i
luminosi per /una re-: già
potenza. ', IX. Or tu vedendo
'0 Fabrizio il, voler
mio, lascia ógni verecondia, vieni,a
parte de’ miei
beni ; e concepisci che mi
farai piacer grande, . . e. che
sarai presso me riverito
come un amico, o un,
congiunto, o certo coni uno
degli ospiti più
onorevoli. Nè già per
questo mi dovrai
tu p/eslare l’ opera
tha in cose
' xvnì. 4'^^ non
giuste, o non degne,
md in coj&
onde tu ne sia
piti stimabile e grande
ancora nella tua
patria. E primieramente pròvecherai
spianto puoi perchè
faccia la pace 'cotesto
tu& Senato, fin qui
duro, e privo di niodprati contigli.
Dirai che ia
venni in danno'
di Roma promettendo soccorrere
i Tarentini ed altri d'
Italia : che ora
non sarebbe giusto,, né
decoroso che gli cdibandonassi
io presente qui
coll' esercito', e vincitore
già.,di tuia' battaglia:
che nondimeno affari imperiosi e molti
avvenutimi poscia -mi
richiamano alla reggia. Ed
io qui ne do,
sii tu
solo o am gli
altri compagni, le
assicurazioni più. ferme, c&è io son
intento a tornarmene se ì
Romani mi si
concordano per la pace :
talché puoi dirlo
pur francamente ai tuoi
cittadini se alcuni
mai ve ne
‘fossero d quali mal suona,
il mme di
un,re, come quello
di un fi4o, ne’ trattati,
e-témessero di me
similmente perchè taluni monarchi
si. videro, sorpassare i giuramenti,
e tradire gli accordi..
Fatta la Magro
ò il nfio poderetto:
eppure amando io di
lavorarvi ed appiicàndomene prudenzialmente ->
i frutti t somministramb tutto
il bisognevole; riè
la natura ci viohnUf
a cercare pià che il bisogiievole. "Soave m’ è f
alimento cui la
fame còridiscemi, dolce la • bevanda
Cui la seté
procurasi, e molle il sonno cui
la stanchezza precede.
'&ijfèientissima rrì è la vèste
Che mi difènde
dal fredda, come acconcissimo, il -vose
meri prezioso fra
quanti datino P uso
medesimo. Noti saria ^unquè
giusto accusare la
sorte, la quale mi
pòrge quanto basta
alla natura, e la
quale se 'non dovami
H' abbondanza, non tri'
impresse netntnèno desiderf
superflui. Io non hb
mètri' è vero dasoccorrere ritisi debbe;~'ma nemmeno
diedemi''Dio. su le
ricchezze quella' cognizione. certa
j 'o divinatoria per
la quale gioitasi chi
he' abbisogna, come nemmeno
diedemi tante -altre cose. Partecipo
ciocché ho colla
patria e gliamici; porgo
loro còme comuni
le cose mie, beneficando come
posso chi ne
abbisogtia, nà 'quindi io credo
mancare. K quesfe sono
quelle manierp mie che
tu giudichi, prestantissime, e else sei
pronto di comperale a sì
gran prezzo. Che se
poi la ^ gran
possidenza sia degna che
procqrisi po/t tante
premure, e gare appunto per benefitare chi
ne abbisogna e se
questa rende più Jelici
i pià ricchi come
sembra a voi re j
qaoii vie saran le
migliori, da pi'ocurarsela, quellè
per le quali vuoi
tu 'che io
me l' abbia
ingloriosamente, o quelle per
le quali io V
avrei prima ottenuta
con decoro ? Certamente
gli affari di
stato mi diedero
tante volte per addietro
> mezzi da arricchirne
principalmente quando già da
tre anni fui •
consolo, spedito colf esercito cantra, K potendo di^
tali acquifU applicarmene quanto.iovoleva ; non
veppi toccarne I 0 trascurai per amor
della gloria uua
ricbhezza anche giusta
; come, fece falcfio
Poplicola,' e,come pur fecero,
altri moltissimi pc’ quali
Roma tante 'ne è
grandiosa, Ma da te
quali doni mi
si, apparecchìanà ? Non
canshierei forse il
meglio col peggio
? Sal'ebbe quella prima maiiiera
di possedimento stata_uiùin
colla sod. disj azione del
cuore, con un
apparalo di giustizia,
e decoro; ma da
codesta tua Ujopfia
tatto ciò manca. Imperocché qpAttVO
uquo^accstta dall’ nomò k
cotta ca
knseTiro csb-gu gravita iNTOthro riw cuk
SOL oottrairifA i k NAseoaDASf purb . la
etATORÀ DBL PRESTITO
.co' tfÙMI SPSCIOSf, DI DONLf
Dt favori ; DI BiOfBFfCBmBE.',, o XIX. Or
su poni che
io uscendo da
me prenda C oro che mi offerì,
e ciò divulghisi tra’
Homani. I magistrati irreformabiU, quelli . che noi
chiamiamo censori, a’ quali spetta
esaminare U' vivete de'
ife> mani e castigar ehi
devia -dalle cóasuetadini
della patria, quelli mi citino
e m’ astringano a dar
conto de’ doni ricevuti, al
cospetto del pubblico
e, dicano : ;,xt.
Noi ti abbiamo
inviato o. Fabticio
con due consoUpi al
monarca per trattare
il riscatto dei prigionieri. Tu
rivieni dalla spedizione
‘ feoza li prigio/tieri, e sene’ altro
bene por, la
eittà : Bitorni col mà, e m solo^ e npn.
i tuoi compagni,, delle
regie .( se non da ciò die
tu ne tradisci
al -nemico, sì che
egli coi tùo
mezzo soggioghi per
sè /’/talia, e tu col
mezzo di lid
tòlga alla patria
la libertà ? Così fan
tutti gli nomini
di una v^tà
simulata," e non vera, quando
si sono avanzati
al. grande e forte degli affari
. . > ., w Che^fe
non -tuadorno ddla
dignità senatoria,-e non
da nemici, cnom^per
tradire e far tiranneggiare la patria
avessi accettato que doni,
ma soltanto come privato
da'-un re cotfederato,
e senza ombra di male
pel comune, dì,
non. saresti da punire anche
per questo che
depravi li giovani, insinuando nella loro
vita il genio
per la ricphezza, per le
delizie, • e per Its sontuosità
dd monarchi-^quando
abbisognavi condnenza estrema
a preservar -la repubblica?
Svergogni, li tuoi
maggiori de' qu^i
niuno deviò dagli usi
della patria nè
mutò la povertà
decorosa con turpi ricchezze
: Si tennero tutti'
nel tenue patrimonio, che
fu riceyesti,'ma poi
“riputasti minore di tC n' ., K '
u Anzi tu ' dissipi
la gloria a te
risultata pe’ fatti anteèedenli, la qiiaL
possedevi di uom
temperante, e superiore ai bassi
desìderj. Ti diletterai di' esser
fatto malvagio di
proho, quando dovevi anche cessare
dall' esSer inalvagió, se
eri mai tale? 'O
sarai da ora in
-poi messo a parte
mai più degli onori
dovuti ai buoni
? anzi levati piuttosto
dalia città, o dal Foro
almeno. E se ciò
dicendo mi casi. sasserp
dai Senato, e mi riducessero.
disonnati, qual cosa ftqtrei
replicare, o. quid Jar
giustamente in contrario ? E, dopo
ciò qital vita
vivrei io mai, caduto
in tanta, infamia t‘~e versatola
in tutti i iniei posteri ? n •,, Quanto a te
poi come darò segno
mai più di giovarti, se
tra miei perdo
la influenza e Ut riputazione, per le
qatdi ora cerchi,
di afJezionap~miti ? Quando
non potessi più
nuUa nella patria, non
mi rimarrebbe che
uscirne cottr tutta
la Jìtmiglia, condannandomi da me stesso
ad un obbrobrioso
esilio.' Ma dove mi
starei da indi in poi,
qual ' luogo mi ricetterebbe ridotto^'
^eom’ è conseguenza, senza la libertà
del parlare ?>
Forse il tue
regno? VivaGiovo se mi
apprestassi tutta la
règia tua prosperità,,
non mi daresti tanto
bene quanto' mé
ne togli',. levatami la libertà,
preziosissima innanzi,n. . u Còihe
potrei tener vita
tanto divérta ^ tardi
ammaestrato a servire? Se cJù
è nato ne’ regni e nelle tirannidi
quàhdo abbia cuor
generoso, ama la libertà,
stì/nando ogni -benè
meno difessa ; come chi
è cresciuto ùt città
libbra e consueta dominare^ su
gli altri, passerà volentieri
di bpie in -mole, di libero in
suddito per imbandire
laàte ogni giorno
le mense, pie .aver
gran seguito intórno
di servi, e pigliar
diletto senza rifeèya
eoa'' femmine e donzelli formosi quasi
'la ùmana felicità
sia riposta in questo
0 non già nella
virtù ?-n. u'Ma
sùm pure questo
e cose altrettali degnissime \di esser
cercate, or quando l’
uso ne sarà
/ tnai lieto se
non sono mai
stabili ? Se a voi'
sta concedere tali amabili
còse.; voi le
ritogliete uguale mente,quando vi
piace. Lascio di
ridire le gelosie, le
calunnie, la. vita sempre in
pericolo, sempre in timore, e
tutti gli altri
sconci, non degni del wx
lentuomo, quanti ne porta
lo sfar presso
ai moìiarchi. Già
non colpirà tanta
stoltezza Fabrizio da
abbandonare la famosissima Roma
per vivere nelC
Epiro; o da ridurlo
chk merUre può
far da capo
nella città dominante,
voglia essere dominato
da un solo, pien
di sestesso, e .còhsueto
di 'udire dagli altri
soltanto ciò che diletHa. Già
non potrei levare
il grandioso nei pensieri t nè impiccolirmiti, anche volendo,
sicché tu non debba
sospettare niun danno.
E rimanendomi come la'
natura e-'glt usi
della' patria mi
han fatto, ti parfè
grave, e quasi tirare,
da. ogni pòrte il
comando verso di me.
Generalmente debbo avvertirti ctie non
vagli ricevere nel
tuo regno, nè. Fabràio,
nè altri, sia maggiore sia
.'pòri tuo nella
virtà,. ni affatto chiunque sia'crescitUò
iti, città Ubère
con sensi più grandi
deiiP nomo privato.
Già non è sicura ai. principi nè
cara la dimestichezza
con uomini, di mente
eccelsa. • Mà. su: V utile tuo
vagli tu da
te, discernere ciò eli è
da fare:.-quaoto a prigionieri
nostri scéndi ai miti
consigli, lasciane aitdare. Appena Fabrizio (ìae,
maraviglialo della
magnanimità sua, lo
prese ‘per la (lesira
dibendo: Già non mi
vlen maraviglia che
la vostra città
sia tanto celebrala, • la cresciuta
a tanta signoria, dap. 4^1 poiché
dia nudre tali
valentuomini. Ben avrei caro che
non fosse stata
fra noi briga
ninna fin dalle origini, fifa
poiché vi fu,
poiché taluno de'
numi volle che noi
misurassimo a vicenda le
nostre forze e iL valore, ^ misuratolo ci
riconciliassimo ; son pronto. E cominciando io
la benignità la
quale dimandate, restituisco 'in
dono, e non a prezzo
i suoi prigionieri a Roma « X^ECto,
un. Campano, lasciàtd
da Fabrizio console romano
per capo ddia
gbarnìgione di Regio
(t), invaghito dei beni
di questa, finse venutagli
lettera da un ospite
suo nella .quale
si annunziava che
il re Pirro manderebbe cinque
mila soldati a Reggio
per invaderla,
promettendogli li cittadini, di
aprir loro le
porle. Su tale pretesto
uccise cinque di
Reggio, e poi comparti le
maritate e le nòbili
tnt suoi militari,
vi si fa tiranno.
Alfine caduto nudato
degli Occhi mandò cercando in
Messina Dessicrate medico
prestaatissimo secondo che udiva.
...>,. r Pirro recitò
li versi che
Omero mise, in
bocca di Ettore verso
Achille,'qnast detti da’
Romani versò di Pirro; ., Ma
te tale e Xaot’
nomo io gHi
non voglio, Cól guardo
seguitandoti, di.'forto, ^
Ma palese ferir^
se mi riesca
i ' • Poi' soggitmgendo
che egli seguiva
forse nn tristo
$u> bjetto di guerra
contro Greci, buonissimi e giustissimi, ma rimanevaci
un solo e bel termine
; che li rendesse 4 amici di
nemici, con' principio magnifico
di benevolenza. Quindi fattisi
veaire' li prigionieri
de’ Romani, diede a tutti
vesti convenienti" ad
uomini liberi, e le spese
del viaggio, Con
esortargli infine a ricordarsi
quale egli foése staio inverso
'di essi,' a manifestarlo agh
altri, e cooperare con (utlb
1’ impegno ‘ a .rendergli amiche
le patrie loro, quando vi
giungessero, .'i . Certamenté r
oro de’
principi' ticn forza insuperabile,
hè fu dagli uomini
trovato -fin qui
riparo contro di
arme siffatta. CKnia da
Crotone uomo soperchiatore
privò di libertà le
cittadi, 'cOn dar
fritnehigia ad esuli
e schiavi numerosi' de’ 'luoghi
intorno (a). Fondata
là tirannide Quel di
Reggio '«ve vano cercalo
il presidio Romano,
temendo tanto de Cariagipeai
quanto di Pirrol
Dacib uccise li
cinque qni significali in un
convito. Ma li soldati ne uccisero assai più pelle case, come sì raccoglie
da Dione. Questo paragraie, e l( tegajeuti lino al duodeoimo sono frammenti.
col mezEO di questi uccise o bandi li Grotoniati più rìguardevòli. Anassilao
oocopò la fortezza
di Keggio, e ritennela
per tutta la
vita, lasciandola appresso
al figlio suo Leofrone
(i'. Dopo questi
anche altri facendosi'
a dominar le città vi sconvolsero ogni cosa. Ma il dispotismo, ultimo a
nascere e massimo ad opprimere le città d’Italia, fu quello di Dionigi, tiranno
della Sicilia. Imperocché passato nella Italia in soccorso de’Locresi che vel chiamavano
a danno di que’di Reggio, che sono loro nemici, ha incontro eserciti italiani
numerosissimi; ma postovisi in battaglia uccise moltissimi, e presevi a forza due
città. Poi tornato un’altra volta in Italia svelge dalle loro sedi gl’ipponiesi
traendoli nella Sicilia: invade Crotone e Reggio e vi tiranneggia fiqché queste
città sopraffatte dal timore di lui si danno ai barbariv Ma poi premuti pur da’barbari
come nemici, si rimisero nelle numi del tiranno. E fluttuando, come le acque dqli’Euripo,
si volgevano senza requie qua e là fortuitamente, levandosi da chiunque li malmenasse.
Scese PiiTo di bel nuovo nell’Italia, non riuscendogli nella Sicilia le cose come
le idea, perchè il governo di Ini sembra dispotico anzi che 'regio alle città principali.
E per vero dire, iutrodoftp questo in Siracusa da Sosistrato che allora vi presede,
e^da Toinone capitano della fortezza, e ricevnto d’essi r erario, e presso che dngento
navi rostrate, e sotto Ciurlino uel
lil>. a fa mcniione di più zelante per pubblica confessione e più attivo
nel dar mano a Pirro pèrcbé scende nell’isola e vi regnas, giacché si eca costui
recate colla fidUar^er incontrarlo e
gli av^a renduta l’isoletta, da Idi, presidiata
in Siracusa.. Ma tentando sorprèndere ugualmente Sosistrato fu ddosò; perocché costui
previde le insidie, e fùggì. ' r ' ' i ’, ^irapnsiT'pcr quatuo rileviamo da Lucio l^loro era coma aoa ciùà composta da tre cittàio
delle quali ngoiina /ra ciroonJata di mora. Vedi le uote lib.' a, c. nella faoSlra tlraduxKltoe
^i quello icritìera. Poi coniinciaiKlo a scouyolgeoi le cose di Itti;
Cartagine crede avere il buon tempo da riprender nell’isola i luoghi perdniivt,
e' ti spedi sollecita un’arinata. Evagora figlioolo di Teodoro, ^alacro ' figliuolo di Mieapdro, e Dinarco figliuolo di
Nicia, tristi, infàmi sopra tutti gl’amici di Pirro, emoli com’erano in dar
consigli, alieni da’Dumi e dal culto, vedendo il monarca in disagio, cercar vie
da conseguire danari, glie ne proposero una indegnissitna i^e
era quella d’aprire i tèsoli sacri di Prosèrpina. Imperocché nella città
stessa eravene un tempio aaitvo, il quale serba oro in copia, intatto da tempo antichissimo,
e dove altro ven'era invisibile a tutti, come posto occnltistimamente sotterra.
Sedotto da tali adulatori, e riputando la necessità superiore a'tutto, si valse
de’consiglieri medesimi pello spaglio sacrilego. Quindi tutto riconfortato imbarca
con altre ricckecze Toro venutogli'! dal
tempio, spendendolo a Taranto. Ma la provvidenza giusta degl’Iddj maoifcslò T efficacia sua. Perocché ariose dai porto pròcéderono
in principio le nari' col fi^re A t/n. venm terra; ma poi cambiatosi questo iu altro
coo^rìo ii^pestà per tutta la notte, e quali ne affonda, quali'ne miruse al
golfo di Sicilia; e spinse ai fidi, di liocrs quelle ov’èrano portati i doni',
già votivi ne’tempj, e Poro 'amJtnas&atooe: e qui disfacendosene i legni foce
perire i nocchieri naufoaghi pel
riflusso deUe onde, e sparse )’
oro sacra su la spiaggia appunto più prossima a Ix>cri. Donde costernato
rese il mouaroa alla Dea tulli gli ornamenti e i tesori, quasi per allontanare con
collera. 4G7 ciò' (a Stollo ! che non vede
t/ùali tormenti Tf« ìncorrerì: 'chè facili
non tono,. Thnla a mutarti
le celesti menti, Come' Ai détto
da Omero. Dappoiché
stese la mano lemerliria su
1’ oro sacro,
onde valersene in
guerra, la Dea lo
iniìitQÒ nè* Consigli
per esempio' e 'documento de’ posteri.
t E per questo appunto
' io vlcrto colle
armi da’ Ro
praticati don éagli
uomini, ma dàlie capre
per lo selvoso
e scosceso in che
sorto : cd erano, per
andare senza ordine
alcùno spossandosi dalla
sete e Odissea 111-,, ):^micllUà Romane
di Dionigi. Tulio il
resto t auppliio col
compendio formala su
li medesimi verni libri.
parecchio. Conciossiachè ivi
crescono in copia
abeti altissimi e pioppi, e
la pingue picea, e il
pioppo e il pino > e r ampio fàggio, e il
frassino, fecondati dàlie
acque che vi
trascorrono ^ ed ogni
altra sorta di
alberi, la qual densa
ne’ rami tiene
continua 1’ ombra
su la montagna 1). s
\ VI. a Eh questa
sélva gir alberi
prossimi al mare e
ai fiutni tagliati
interi dal ceppo
e recati ai porti
ricini forniscono a tuttà T Italia
materiali^ per navi e case:
gU alberi^ lontani dal
mare e da’ fiumi, ridotti in
pezzi, e riportati su le
spalle dagli uomini somministrano remi V "
(a) Stra'bufu nel
lilwo V-I di«
che questa selva
eré lunga tcllccento
stadj. e pertiche, e mezzi di
ogni arme, e rasi
domestici: fi* naimcnie la
parte di piante
più grande, e più oleosa vien
preparata a dar le
resine, e scn fornia la
resina chiamata. Bruzia-., la
più odorata, -e la
piu soave infra quante
io ^ne conosca.
Or dagli affitti
di unto Roma
ne ha ciascon anno
cospicue rendite. Io
Reggio, iecesi un’
altra sommossa 'dal presidio lasciatovi di
Romani e di confederati: seguitatidone da' ciò stragi ed esilii noti pochi.
Per tanto Gajo Gemicio r altro de’consoli usci coll’esercito a punir quei
ribelli. Presa la città colle ardii rendette ai citudini pròfughi gli averi loro,
edarresuto il presidio lo
condusse prigioniero in Roma.
Or su questi
tanta fu' Pira, c tanto
il dispeuo.-Dcl Senato
e uel popolo chenon
vi fu I pietà di
partiti : nm da
tutte le tribù
(ù senlenziau su tutti
la pena di
morte come presciivono
le leggi su tali
malfattori. Vili, a
Stabilita la sentenza
di morte furono
pianUti de’ tronchi nel foro e
condottivi e legati trecento
a corpo nudo i quali aveanq
già i cubiti avvinti
dietro le spalle: e poi
battuti, e poi decapitati
con le scuri.
Dopo ì primi vi furono
puniti altri trecento,
e quindi altrettanti ancora 4 findiè
in t'uttO furono
quaMro m'da dn(i)
La Irgiooe Campaoa
con Decio capitano
occupi Ecgg'o l'anno 4/4
Roma poco ifopo
la venuta di
Pirro nM’ ftalia, occorsa appunto in
quell’ ann^. La
legione ribelle fu
punita l’anno 4^^ sotto
il contole Genucioi
Livio dice clic
la pena fu dicci
anni dopo il
delitto, é ebe li póniti
in Roma furono quattro rada. Nel testo ai parla della
ribellione come aeconda. Non k chiaro se
l’indicata io questo luogo eia detta seconda in rispetto a quella di Dcciu, o
di altra antecedente. quecento. Non ebbero questi sepoltura, ma tirati dal foro
in luogo aperto dinanzi la città vi s’abbandonarono, pascolo d’uccelli e di cat^i. La turba mendica non tenea cura dell’onesto
nè del giusto. Però sedotta dal Sannite si
raccolse in un corpo, e su le prime vivea por lo più pei monti nelle campagne. Ma
poi cbe fu cresciuta in numero ornai da tener fronte occupi una città forte,
dalla quale prendea le mosse a depredare le terre ihtomo. ÌÀ consoli, cavarono la
milizia, contro di questi. Ricuperata senza gran briga la città batterono ed uccisero
gl’autori della ribellione, véndendone gli
altri all’incanto. Era già 1’anno avanti stata venduta la terra e g^i
altriacquisti fatti colle armi e
l’argento risultatone dal prezzo èra stato comparilo ai cittadini. 4^Qui
81 attude «Ila
guerra concitata da
LoUio Sannite il
quale fuggito da Roma
dove era ostaggio,
raccolse gente, prese
un luogo munito della
sua regione, e vi
padrone'ggiava, e. predata.
Dionigi nel lib.
1. 9 dice di
tessere la storia
sua fioo al
principio della prima guerra
Punica. Tanto che il eoiApendio ha prossima corrispondensa alla
storia delle aSA*itA «Usa
in venta libri. Marco Mastrofini.
Mastrofini. Keywords: implicature, Delle cose romane di Floro, l’antichita
romane di Dionigio, le cose memorabilia di Ampelio, il sistema verbale della
lingua Latina – del verbo latino, aspetto verbale – la filosofia del verbo –
tempus, azione, la concettualizazione dell’evento e l’azione nel verbo latino
--, categorie sintattiche e morfologiche e semantiche e prammatiche
dell’aspetto verbale nella lingua Latina. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Mastrofini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Masullo: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale e la scissione dell’inter-soggetivo – i lottatori della tribuna
– la scuola d’Avellino -- filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Avellino). Filosofo italiano. Avellino,
Campania. Insegna a Napoli. Ha
trascorso vari periodi di ricerca e di insegnamento in Germania. Direttore
del Dipartimento di Filosofia dell'Napoli. È stato socio dell'Accademia
Pontaniana, della Società Nazionale di Scienze Lettere ed Arti di Napoli e
dell'Accademia Pugliese delle Scienze. È stato insignito della medaglia
d'oro del Ministero per la Pubblica Istruzione. Candidato nelle liste del
Partito Comunista Italiano prima e in quelle dei Democratici di Sinistra poi, ha
ricoperto la carica di Deputato, è stato Senatore della Repubblica. Trascorre i
primi anni della sua vita a Torino. Si trasferisce a a Nola, dove compie gli studi
superiori frequentando il liceo classico Carducci. Fequenta il corso di
laurea in Filosofia a Napoli. Si laurea con Nobile discutendo una tesi su
Benda. Napoli era dominata prevalentemente da Croce; esistevano comunque altri
personaggi capaci di una riflessione autonoma e originale come fu Aliotta che
con il suo sperimentalismo offrì importanti stimoli a M.. Studia
l'esistenzialismo che andava diffondendosi in Italia. Assistente volontario
alle cattedre di filosofia e tiene seminari per Nobile, Aliotta, e
Valle. Compie la sua formazione filosofica a Napoli soprattutto con Carbonara.
Carbonara era impegnato attraverso i suoi studi di estetica a ripensare
l'attualismo gentiliano. La sua posizione prende il nome di materialismo critico.
Attraverso il confronto con Carbonara, M. si addestra al
rigore concettuale e inizia ad elaborare una propria posizione
originale. Nella formazione e nella costruzione della prospettiva
filosofica di Masullo si combinano diverse componenti. Il neoidealismo,
crociano e gentiliano, lo sperimentalismo d’Aliotta, e, tra idealismo e
materialismo, il materialismo critico di Cleto Carbonara. M. però, mosso
dalle proprie inquietudini e dalle impressioni suscitate dai tragici eventi
bellici, studia anche l'esistenzialismo e lo spiritualismo. Infine il bisogno
di comprendere l'uomo concreto e le sue reali tribolazioni lo conducono ad
avvicinarsi alla fenomenologia. Il soggiorno di studio a Friburgo gli
consente di approfondire lo studio della fenomenologia e di conoscere Weizsäcker,
il quale aveva introdotto nel filosofese il concetto di “patico.” (cf.
anti-patico, sim-patico, em-patico). Esistenzialismo, spiritualismo, idealismo
e fenomenologia sono correnti di pensiero variamente intrecciate tra di loro.
Ciò che attraversa trasversalmente questi movimenti di pensiero è la radicale
problematizzazione del rapporto tra pensiero e vita, tra il pensiero e il suo
negativo, ciò che pensiero non è. Il pensiero Intuizione e discorso è un
testo in cui, avvalendosi degli stimoli che provenivano dalla epistemologia, M.
si confronta con l'idealismo attualistico e storicistico per riflettere sul
carattere “difettivo” della coscienza e sul suo rapporto con la
conoscenza. M. in Intuizione e discorso sostiene che i poli del fatto e
dell'idea, del senso e della coscienza, della vita e delle forme dello spirito
sono legati da un vincolo dialettico. Voler ridurre l'uno all'altro conduce ad
un idealismo soggettivistico o ad un empirismo cieco alle dimensioni dello
spirito. Bisogna comprendere le modalità del vincolo che lega spirito e corpo.
Il pensiero che voglia essere critico, cioè che non voglia ingannarsi, deve
riconoscere che esso si fonda su processi biologici e fisiologici che gli sono
irriducibili. M. approfondisce in Germania lo studio della fenomenologia,
ancora poco diffusa in Italia. A Friburgo frequenta i circoli husserliani
capeggiati dall'allievo di Husserl Fink e conosce Weizsacker del quale M. svilupperà
il concetto di "patico". M. stesso, tornato in Italia, traduce e
commenta alcuni testi di Husserl in un piccolo libriccino ormai introvabile -- Logica,
psicologia, filosofia. Un'introduzione alla fenomenologia, Napoli, Il Tripode
-- il cui contenuto in parte è poi confluito nel successivo truttura,
soggetto, prassi. M. considera Husserl un grande esploratore della
coscienza. Husserl cerca di dare un fondamento filosofico alle scienze positive
indagando il modo in cui la coscienza costituisce il mondo che la scienza
prende ad oggetto delle proprie particolari ricerche. Masullo però, elaborando
gli stimoli dell'antropologia medica di Weizsacker, lavora al passaggio dalla
fenomenologia alla patosofia. Struttura, soggetto, prassi è il testo che
documenta il rinnovamento della ricerca di Masullo. Fa riferimento alle scienze
positive per mostrare che la coscienza è qualcosa di vivo e concreto e non è
«intellettualisticamente sofisticata, trasparente a sé stessa, come vorrebbero
le filosofie speculative le quali riducono la vita psichica alla vita cosciente
e non tengono conto o minimizzano il peso della dimensione psichica inconscia,
svalutata come qualcosa di filosoficamente irrilevante. S. Non è
possibile una conoscenza diretta, per introspezione/riflessionecome vorrebbero
le filosofie speculativedi ciò che pensiero non è. Il pensiero come esperienza
intersoggettiva, sociale (lo Spirito, il Soggetto) può conoscere i suoi
prodotti, i pensieri, il pensato, ma non può conoscersi come processo,
esperienza del pensare, atto, tempo, «paticità» (cioè il pensare come
esperienza soggettiva, esistenza). D'altronde il pensiero come processo non può
essere conosciuto neanche per inferenza da parte delle scienze
positivo-sperimentali. Queste possono misurare i processi, ma non possono
misurarne i vissuti. Lo scacco, il limite della conoscenza è l'apertura
alla prassi e all'etica: riconoscere il nesso operativo tra senso e
significato, crisi e ordine, «patico» e cognitivo, corpo e mente. Analizza
i grandi modelli idealistici e fenomenologici della soggettività. In
particolare, seguendo un'indicazione di Fichte, sviluppa la tesi secondo la
quale il fondamento dell'uomo, cioè la condizione per la quale l'uomo assume i
caratteri della soggettività (libertà, storia, ricerca, progetto,
autodeterminazione) è l'intersoggettività. Di questo fondamento Masullo
analizza le modalità di funzionamento. M., con i suoi studi sulla
«intersoggettività» e il «fondamento» degli anni sessanta e settanta (Lezioni
sull'intersoggettività. Fichte e Husserl, Napoli, Libreria Scientifica
Editrice, La storia e la morte, Napoli,
Libreria Scientifica, La comunità come fondamento. Fichte, Husserl, Sartre,
Napoli, Libreria Scientifica; Il senso del fondamento, Napoli, Libreria Scientifica
Editrice, Antimetafisica del fondamento, Napoli, Guida), analizza le
«operazioni nascoste» in base alle quali si costituisce l'io e in base alle
quali si costituisce l'oggettività del mondo e individua nella originaria
struttura intersoggettiva il fondamento del mondo umano. Il fondamento è la
comunità, ma essa funzionalmente rimane nascosta all'io per permettergli di
istituirsi ed operare, come ben spiega nell'importante saggio Il fondamento
perduto, in cui rielabora e sviluppa spunti presenti negli ultimi capitoli di
Il senso del fondamento e raccoglie in
modo compiuto i risultati teoretici di due decenni di ricerche intorno al tema
della comunità-intersoggettività come fondamento. M. pubblica inoltre il testo
Fichte. “L'intersoggettività e l'originario” in cui riprende e aggiorna il
saggio su Fichte contenuto in La comunità come fondamento. Fichte, Husserl,
Sartre. Pubblica Metafisica. Storia di un'idea. Il capitolo finale, Il
sentimento metafisico, è l'indicazione del passaggio a una nuova fase del
pensiero di M., una fase in cui il tema dell'intersoggettività lascia il posto
alla esplorazione delle dimensioni del vissuto del soggetto, quindi lascia il
posto ai temi della paticità, del senso, del tempo. In effetti anche i
suoi corsi universitari di quegli anni rivelano questo momento di transizione. Si
dedicati al tema dell'inter-soggettività ma vengono trattati anche i temi
caratteristici della seconda stagione della sua riflessione. Tratta della
“difettività del soggetto”; nel corso invece si occupa di “comprensione del
tempo e interpretazione morale, definitivamente centrati su “i patemi della
ragione e l'inter-esse etico.” Nei studi
su «tempo», «senso», «paticità» (Filosofie del soggetto e diritto del senso,
Genova, Marietti, “Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva della salvezza,
Roma, Donzelli, “Paticità e indifferenza” (Genova, Melangolo). Sostiene che il
pensiero critico, nella sua incapacità di pensare il passaggio, il processo, la
trasformazione, il cambiamento (sustenuto in La problematica del continuo in
Aristotele e Zenone di Elea, seppure solo sul piano logico) è incapace anche di
pensare la soggettività la quale è una forma particolare di cambiamento, è
tempo, prodursi delle differenze all'interno di un campo strutturato,
fortemente centralizzato, l'organismo umano, portatore della coscienza di
sé. In questi studi degli anni ottanta e novanta Masullo considera le
modalità affettive e psicobiologiche dell'esser soggetto. In “Filosofie del soggetto
e diritto del senso” Masullo si confronta con Kant, Hegel, Dilthey, Heidegger e
Merleau-Ponty, i quali storicamente hanno posto il tema della soggettività non
riconoscendo però la differenza tra «significato» e «senso». M. rivendica il
«diritto del senso» ad essere riconosciuto nella sua radicale e irriducibile
diversità dal significato. Molto più rilevante nella costruzione della sua
prospettiva filosofica è invece il saggio intitolato Il tempo e la grazia. Per
un'etica attiva della salvezza, nel quale M. illustra la sua concezione della
frammentazione della soggettività a partire da alcune considerazioni sui
concetti di esperienza e di tempo. I lessici delle lingue europee antiche e
moderne consentono di distinguere la dimensione orizzontale dell'esperienza
propriamente detta (έμττεŀρία, experientia, Erfahrung) la quale ha un carattere
prevalentemente cognitivo rispetto alla dimensione verticale dell'esperienza
meno propriamente detta (πάθος, affectio, Erlebnis), cioè il vissuto, il quale
ha invece un carattere affettivo anziché cognitivo. Da una parte abbiamo il
giudizio su ciò che abbiamo provato, dall'altra abbiamo il provare come
avvertimento immediato dell'accadermi di qualcosa. Ciò introduce a
un'ulteriore precisazione filologica che riguarda la differenza tra il
cambiamento e il tempo. Il tempo non è il cambiamento. Il cambiamento è il
continuo prodursi delle differenze nell'organizzazione delle forme della vita.
Il tempo è l'avvertimento interiore di questo cambiamento, cioè l'avvertimento
di sé attraverso il cambiamento. L'uomo, a differenza degli altri
viventi, è intrinsecamente tempo. Egli istituisce il tempo nel senso che mette
in relazione i cambiamenti a dei sistemi oggettivi di riferimento, ma ancor più
radicalmente l'uomo è tempo in quanto avverte i cambiamenti del mondo esterno
solo in relazione al proprio modificarsi. Questo avvertimento, il «senso»,
è l'indice della soggettività. L'avvertimento della perdita, il senso del
cambiamento, in una parola il tempo, accende l'allucinazione del sé, scatena il
desiderio di permanenza. Parallelamente alla esplorazione della
soggettività, in Il tempo e la grazia M. segue gli sviluppi di un'emergente
epistemologia caratterizzata anch'essa dalla contingenza e irreversibilità del
tempo fisico così come la cosmogenetica ce lo illustra. Il versante umanistico
e quello scientifico convergono nel disegnare un'antropologia la cui etica non
è più la moderna e rassicurante etica reattiva che salva la società con le sue
formulazioni sull'ordine del mondo. L'etica che M. vede in prospettiva
scaturire da questo nuovo contesto è un'etica attiva che salva il tempo, cioè
il soggetto, dal vivere la perdita prodotta dal cambiamento come «disgrazia»,
mutilazione. La perdita è un momento necessario nella vita di un essere,
l'umano, che non semplicemente cambia, ma si rinnova e costruisce
intenzionalmente il proprio futuro. Una volta riconosciuto il diritto del
senso ad essere inteso nella sua irriducibilità al cognitive; una volta esplorato il campo del
senso-tempo-patico alla luce della psicanalisi, della letteratura e della
filologia; una volta riconosciute le epocali trasformazioni degli scenari
epistemologici, antropologici ed etici, M. in Paticità e indifferenza, si
chiede quale può essere ancora, in questo nuovo contesto, il ruolo della
filosofia. La filosofia è «saper assaporare i sapori della vita, gustare a
fondo i sensi vissuti, … elevare i sensi sensibili a sensi ideali e cogliere
nei sensi ideali la possibilità dei sensibili, è la “sapienza del patico”
ovvero, se si ricalca interamente l'etimo greco, è la “patosofia”». Da un
pensiero così articolato derivano alcune indicazioni e cautele
etico-pedagogiche. Essendo l'uomo intrinsecamente temporale, essendo la
temporalità umana irreversibile, l'uomo non può essere fatto oggetto di
conoscenza come un qualsiasi ente. M. distingue la conoscenza dalla cura. Egli
inoltre distingue le esperienze (che sono comunicabili e sono i materiali sui
quali si costruisce la conoscenza) dai vissuti (che sono invece
costitutivamente «incomunicativi» in quanto riguardano l'immediatezza del
sentire individuale che non è mai trasparente neanche all'individuo stesso che
li vive). La conoscenza è la dimensione orizzontale dell'esistenza. Essa guarda
alla universalità. Mentre la cura ne è la dimensione verticale. Essa invece
guarda alla unicità-identità, ai vissuti da assaporare e da sublimare in valori
da condividere. Mentre la ricerca di Masullo prosegue in questi anni
curvando verso nuove direzioni, pubblica alcuni nuovi libri. Sscrive Filosofia
morale per una collana di libri che illustrano ciascuno il nucleo delle varie
discipline filosofiche. In effetti Filosofia morale non è un elenco di temi,
personaggi, concetti ma un percorso molto personale all'interno delle questioni
e dei nodi fondanti della disciplina: la specificità della filosofia morale e
la distinzione tra morale ed etica; il bene quale orientamento dell'azione
umana; il soggetto della vita morale, la persona; il dovere, la responsabilità
e il vincolo che ci lega agli altri. Scrive, intervistato dal giornalista
de Il Mattino, Scamardella, Napoli siccome immobile. Scamardella, in uno degli
ennesimi momenti difficili per la città di Napoli, cerca la figura di un
saggio, di un'autorità morale capace di interpretare il presente e prefigurare
il futuro di questa città malata. Trova questa figura in M., filosofo ma anche
protagonista della vita civile e politica della città con concrete iniziative
quali, nel 2006, gli incontri con i giovani e la popolazione nell'ambito del
“Manifesto per salvare Napoli”. Il libro è un lungo dialogo sulle tante debolezze
della città presente che si conclude con un'analisi delle risorse che danno
speranza nel futuro. M. pubblica La libertà e le occasioni, che sviluppa il
tema del suo ultimo seminario all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di
Napoli. L'impegno politico Negli anni sessanta e settanta la
contestazione studentesca segnalava il bisogno di rinnovamento dell'università
italiana. M., per i caratteri originali del proprio insegnamento, è considerato
dagli studenti uno dei professori progressisti. Egli in quegli anni fu eletto
deputato come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, ed in
seguito come senatore, si occupò sempre
dei problemi del sistema scolastico. Inoltre come parlamentare europeo lavorò
al fianco di Nilde Iotti nella Commissione legale. All'inizio degli anni
ottanta alcuni importanti provvedimenti modificano l'organizzazione didattica e
gestionale dell'università (vengono istituiti i dottorati di ricerca,
riordinate le scuole di specializzazione, creati i Dipartimenti). Terminato
l'impegno parlamentare Masullo dirige per due mandati il nuovo Dipartimento di
Studi Filosofici dell'Napoli intitolato ad Aliotta. Anche attraverso questo
incarico egli incide sulle direzioni della ricerca filosofica a Napoli. M.
si mette di nuovo al servizio della
politica quando dopo la crisi politica e sociale degli anni ottanta, agli inizi
degli anni novanta si verifica un generale risveglio della coscienza
collettiva. A livello locale egli dapprima anima per oltre un anno, ale “Assise
di Palazzo Marigliano”, un movimento che si opponeva al progetto NeoNapoli
previsto dal preliminare di Piano Regolatore.l, del quale ottenne il rigetto,
suggerendo la demolizione e il rifacimento integrale dei Quartieri Spagnoli.
Forte della popolarità acquistata con questa esperienza è capolista del PDS
nelle elezioni amministrative e poi, protagonista a Napoli della innovativa
esperienza della "giunta del sindaco". A livello di politica nazionale
M. è di nuovo impegnato per due legislature al Senato. Egli è membro della
Commissione di vigilanza dei servizi radiotelevisivi e, come negli anni
settanta, della Commissione per l'istruzione pubblica e i beni culturali in
anni nei quali i provvedimenti relativi a istruzione, università e ricerca sono
numerosi e importanti. Amante dei libri e della cultura dei bambini, lo
spessore del Maestro filosofo emerge inoltre quando in aula si discutono
disegni di legge relativi a temi quali l'ergastolo o la procreazione
assistita. Saggi: “Intuizione e discorso,” – Grice: “Good connection.” (Napoli,
Scientifica); “La problematica del infinito del continuo – l’infinitesmale – la
categoria della quantita – flat and variable,” – Grice: “Excellent
philosophical problem.” Napoli, scientifica, “Struttura soggetto prassi,”Napoli, scientifica
“La comunità come fondamento,” Grice:
“Masullo’s first attempt at a conceptual analysis of the inter-subjective; but
it takes a philosopher to understand that that is what stands behind
‘community,’ or ‘population,’ as I prefer, or the conversational dyad.” Napoli,
scientifica, “Anti-metafisica del
fondamento” Napoli, Guida, “L'inter-soggettivo” Napoli, Guida, “Filosofie del
soggetto e diritto del senso,” Genova, Marietti, “Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva della salvezza,” Roma, Donzelli, “Meta-fisica: storia di un'idea,” – Grice:
“Perhaps Aristotle never had an idea; after all ‘ta meta ta physica’ is later
and means: “the stuff the master wrote after the ‘physika’!” Roma,
Donzelli, “La potenza della scissione” o diaresis, Napoli, Scientifiche, “Gografia
e storia dell'idea di libertà,” Reggio Calabria, Falzea. – cfr. Grice: “The
history of ‘free’ is hardly a ‘natural history’!” “Paticità e in-differenza,” Genova, Melangolo, --
Grice: “Masullo’s concept of ‘pathos’ is essential – while you may have
self-pathos, the implicaure is that there is ‘empathy.’” “Inter-soggettivo” G.
Cantillo, Napoli, Scientifica, “Filosofia
morale,” Roma, Riuniti, “Scienza e co-scienza” – Grice: “This pun is only
possible in Italian: conscious and science are less of a parallel word
formation!” “tra parola e silenzio” Grice: “This is my
reading between the lines – i. e. the implicature” atti del convegno (Monte
Compatri), P. Ciaravolo, Roma, Aracne, “Il senso del fondamento,” Napoli, scientifica,
G. Cantillo, Napoli, scientifica, Napoli, siccome immobile. Intervistato, Napoli,
Guida, La libertà e le occasioni,
Milano, Jaca, I linguaggi della follia e
i passi della salvezza. Il lavoro psichiatrico, in S. Piro. Maestri e allievi,
Napoli, Scientifica,. Il filosofo della coscienza, Corriere della Sera, La
grazia della filosofia e della politica, su rainews, Napoli, chi era il più
grande filosofo, su interris, A. Fioccola, Magazine dell'Università degli Studi
di Napoli l'Orientale. Aldo Masullo. Masullo. Keywords: l’intersoggetivo, la
scissione di Hegel, il continuo dei velini – velia, infinitesimal –
l’innamorato di Parmenide -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Masullo” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Matassi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale e la filosofia della seduzione dei giocatori di calcio – la
scuola di San Benedetto del Tronto -- filosofia marchese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (San Benedetto del Tronto). Filosofo italiano. San Benedetto del Tronto, Ascoli
Piceno, Marche. Grice: “I like Matassi; but then I like football – I was the
football team captain at Corpus – and aesthesis, the seductor seduced – “la
condizione desiderante” indeed!” Allievo di Garroni, è
stato Professore di Filosofia morale, coordinatore scientifico della sezione
Filosofia, Comunicazione, Storia e Scienze del Linguaggio del Dipartimento di
Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell'Università Roma Tre; in precedenza
era stato direttore del Dipartimento di Filosofia. Si è occupato anche di
Estetica musicale. È stato Presidente
della Società Filosofica Romana e ha fatto parte del comitato direttivo
nazionale della Società Filosofica Italiana. È stato nel comitato d'onore della Fondazione
Amadeus. Presidente dell’Accademia Estetica di Rapallo, responsabile della
sezione filosofica di Villa Sciarra, Roma, membro della giunta del CAFIS
dell'Università Roma Tre. È stato anche membro del Comitato scientifico della
Fondazione Résonnance dell'Losanna. Ha
diretto la collana Musica e Filosofia per la Mimesis Edizioni di Milano e
quella su I Dilemmi dell'Etica per la casa editrice Epos di Palermo. Ha tenuto
un blog sul "Fatto quotidiano" sui temi che legano la filosofia alle
dimensioni del contemporaneo. Ha collaborato con la rubrica Ricercare, dedicata
alla filosofia della musica, al mensile Amadeus e al mensile Stilos. È stato
direttore della collana Italiana per Orthotes Editrice (Napoli). È stato anche
membro del comitato scientifico-direttivo delle seguenti riviste: Colloquium
philosophicum, Paradigmi, Quaderni di estetica e di critica, Bollettino di
studi sartriani, Filosofia e questioni pubbliche, Links, Lettera
Internazionale, Phasis, Itinerari, Prospettiva Persona, Metabolè, Babel online,
Civitas et Humanitas. Annali di cultura etico-politica. Per quanto concerne il
settore estetico-musicale è presente nel comitato direttivo della rivista internazionale
Ad Parnassum. Hortus Musicus, Civiltà musicale, Orpheus, Itamar. a ricoperto la
presidenza di giuria per il Premio Frascati Filosofia. Menzione speciale della giuria al premio di
saggistica “Salvatore Valitutti”, per Bloch e la musica. È stato uno dei principali collezionisti al
mondo di incisioni relative alle esecuzioni delle sinfonie e della liederistica
di Mahler (circa mille tra vinili e compact disc). Si è occupato di filosofia
tedesca, in particolare di Hegel, delle scuole hegeliane, del criticismo
tedesco, del marxismo occidentale e della scuola di Francoforte. Un suo saggio è
stato dedicato alle Vorlesungen hegeliane di filosofia del diritto e
all'interpretazione fornitane da Gans. Si è occupato di Lukács, iutilizzando
per la prima volta il celebre manoscritto "Dostoevskij" si è poi occupato
di Hemsterhuis, l'autore della celebre Lettera sui Desider e del dialogo
Alessio o dell'età dell'oro. Le sue ricerche
hanno riguardato la filosofia della musica moderna e contemporanea e in
particolare su quella di Bloch, di Benjamin e Adorno, fino ad elaborare un'originale
filosofia dell'ascolto, le cui suggestioni si possono rintracciare nella teoria
musicale moderna di Ernst Kurth, elaborata nei Fondamenti del contrappunto
lineare. In tale prospettiva di ricerca, filosofia della musica e filosofia
dell'ascolto sono strettamente compenetrate, fino a diventare il paradigma di
una rivoluzione formativa che mette al centro del sistema educativo
contemporaneo la musica nella sua declinazione storico-teorica come in quella
pratica. All'interno di tale prospettiva
svolge un ruolo centrale Mozart, il "più ascoltante tra gli
ascoltanti" come lo definì Martin Heidegger. Saggi: Le Vorlesungen-Nachschriften hegeliane
di filosofia del diritto” (Roma, Sansoni, Lukàcs. Saggio e sistema” Napoli,
Guida); “Hemsterhuis. Istanza critica e filosofia della storia, Napoli, Guida);
“Eredità hegeliane, Napoli, Morano, “Terra, Natura, Storia,” Soveria Mannelli,
Rubettino, “Bloch e la musica,” Salerno, Fondazione Menna, Marte editore, Musica
(Napoli, Guida) “Bellezza,” Soveria Mannelli, Rubettino); L'estetica. L'etica, Donzelli,
Roma, L'idea di musica assoluta, Nietzsche e Benjamin, Rapallo, Il ramo, “La
condizione desiderante. Le seduzioni dell'estetico”- Il nuovo melangolo,
Genova; Filosofia dell'ascolto” (Rapallo, Ramo); “Lukàcs. Saggio e Sistema”
(Milano, Mimesis); “La Pausa del Calcio, Rapallo, Il ramo. “Il calcio,” Rapallo..
In: Du Nihilism à l'hermenéutique, Hemsterhuis Franciscus “Sulla scultura; a c.
di M. Palermo. Convegno sulla bellezza", presso il Centro di Studi
Rosminiani di Stresa, Musica e Creatività Intervista a Rai Notte "La
musica assoluta" Inconscio e Magia, Teatro dell'Opera di Roma, Seminario
di formazione del PD Le parole e le cose dei democratici Pisa, Palazzo dei
Congressi, Intervento alla Summer School della Fondazione Italiani-Europei, sui
rapporti tra democrazia e capitalismo, Commento al concerto jazz di Donà, "Tutti
in gioco", Porto Civitanova, Bloch e la musica. Utopia a misura d'uomo.
Intervista, Ornamenti, Arte, filosofia, letteratura, M. Latini, Armando, Roma, RAI
Filosofia, su filosofia.rai. Il Potere e la Gloria. Juventus e Inter Il Fatto Quotidiano,
s MLatini, in. tervista su Amare, ieri, di Anders, rivista on-line «SWIF-Recensioni
filosofiche», M. Latini, Doppia risonanza sul mondo (a
proposito di "Musica" Napoli), “Il Manifesto”, C. Serra, Recensione a
"Musica". Grice:
“Unfortunately, Matassi, being Italian, or an Italian, is more interested in
Nordic Kierkegaard, to pour sorn on their coldness, than in Ovid’s ‘ars
amatoria’ which would interest an Oxonian!” -- Cf. “La
palestra di Platone”. Elio Matassi. Matassi. Keywords: la filosofia del calcio,
in-duzione, se-duzione – Ovidio, ars amatoria, desiderio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Matassi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Matera: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
– i segni del zodiaco e la semiotica di Peirce – filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo italiano. Matera, Basilicata. Grice: “Only in Southern Italy is a
philosopher also responsible for the astrological edification of the city’s
cathedral!” Uno dei più grandi studiosi e divulgatori
di astrologia occidentale e filosofia dell'epoca. Insegna dapprima a Matera, e
successivamente a Napoli. Vive nel
periodo in cui la Contea materana era dominio degli Angioini e su richiesta di Filippo
IV detto "il bello", il re di Napoli Carlo II d'Angiò, detto "lo
zoppo", invia Alano a Parigi. Lì insegna e divenne noto come dottore
universale, profondamente versato in filosofia. In quegli anni infatti
astronomia e astrologia vieneno collegate poiché si crede che gli astri
potessero esercitare un influsso sulle azioni umane. Nei periodi di soggiorno a
Matera, abita, secondo Verricelli nella contrada di Lo Lapillo tra il castello
e il puzzo dove sorge l’acqua della fontana hera la sua vigna con una casuccia
di pietre, piccola, mal fatta casa propria di filosofo quale oggidì si chiama
la vigna e casa di Alano. Si tratta della collina dove poi fu edificato il
Castello Tramontano. In quella casetta il grande filosofo passava intere notti
ad osservare il cielo e gli astri con strumenti rudimentali. Di Alano è il motto
presente nel “Glora mundis”: La goccia perfora la pietra non colpendola due
volte con forza, bensì colpendola continuamente, così tu trai profitto
studiando non due volte ma continuamente. È l'esortazione con cui invita a
raddoppiare impegno e curiosità sulla strada della conoscenza. Secondo alcuni,
il perfetto orientamento delle facciate della Cattedrale di Matera e del suo
campanile lungo i punti cardinali si deve alle osservazioni astronomiche di
Alano.A Matera una strada, trasversale di via Nazionale, tra le vie Salvemini e
Di Vittorio, è dedicata ad Alano. G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della
Valle di Vitalba, ed.Lacaita, Personaggi della storia materana, Altrimedia, per
i Quaderni della Biblioteca provinciale di Matera Morelli, Storia di Matera, Montemurro,Volpe,
Memorie storiche di Matera, ed. Atesa, Dizionario corografico del Reame di Napoli,
ed. Civelli, Biografie dei personaggi illustri di Matera, sassiweb. ntonio Giampietro, Personaggi della storia
materana, Alano di Matera. Matera. Matera. Keywords: implicature, la collina
del castello tramontanto, la catedrale di Matera, astrologia, astronomia,
dottore universale, Napoli, Bologna, Parigi, the semiotics of astrology, Grice
on zodiac signs, semiotic, semiology, astrology, astronomical chart. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Matera” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Mathieu: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo animale ermeneutico –
filosofia ligure – la scuola di Varazze -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Varazze). Filosofo
ligure. Filosofo italiano. Varazze, Savona, Liguria. Grice: “There are various
things I love about Mathieu: his idea of the ‘uomo, animale ermeneutico’ is
genial – and true!” Grice: “Mathieu rightly focuses on Kant’s problems with
emergentism, i.e. the fact that life (or ‘vivente’) cannot be reduced. I love
that.” Grice: “Mathieu has emphasised the irreductionism alla Bergson. I like
that.” Grice: “Mathieu makes an apt analogy between Goedel’s work for alethic
systems – that they cannot self-reflect, and deontic systems --.” Dopo il liceo, si iscrisse a orino. Si laureò con Guzzo,
filosofo rappresentante dello spiritualismo ced autore di importanti studi
su Kant (un filosofo che sarebbe stato
centrale nella vita intellettuale di Mathieu). Libero docente nella
filosofia, è stato professore incaricato, e Professore di filosofia teoretica a Trieste.
Primo vincitore del concorso di Storia della filosofia, è stato ordinario di
filosofia fino al ruolo di professore emerito di filosofia morale a Torino -- è
stato membro del Comitato del CNR; è
stato membro e poi vicepresidente del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (Parigi).
È stato membro del Comitato Nazionale di Bioetic; è socio dell'Accademia dei
Lincei e membro del Comitato Premi della Fondazione Balzan. Ha fondato
con Berlusconi, Colletti ed altri il
movimento politico Forza Italia. Si è candidato al Senato della Repubblica nel
collegio di Settimo Torinese: sostenuto dal centro-destra (ma non dalla Lega
Nord), ottenne il 33,2% e venne sconfitto dal rappresentante dell'Ulivo, Tapparo.
Con il sindaco di Brindisi Mennitti ha dato vita alla Fondazione Ideazione, per
il cui quotidiano ha curato una rubrica fino alla chiusura della testata. Nel
luglio (in connessione con la sua carica
di presidente del collegio dei probiviri del PdL che è chiamato a giudicare
l'operato dei finiani di Generazione Italia) diversi organi di stampa
riprendono la voce, già circolante da tempo, di una sua adesione all'”Opus
Dei.” A tale proposito sono giunte alla redazione del Corriere della Sera che
aveva pubblicato la notizia le smentite sia dell'Opus Dei che dell'interessato. Ha
offerto contributi significativi in almeno quattro ambiti della ricerca filosofica:
la filosofia della scienza; la storia della filosofia; l'estetica; la filosofia
civile. Ha indagato i limiti interni ed i limiti esterni della scienza. Tale
indagine ha avuto due filosofi del passato come suoi principali punti di
riferimento: Kant e Bergson. Ha infatti ripreso e sviluppato le ricerche di
Kant sui limiti interni della scienza e sulla sua fondazione. A tale riguardo pubblicò
il saggio "Limitazione qualitativa della conoscenza umana" a cui fece
seguito, "L'oggettività nella scienza e nella filosofia".
Seguendo Bergson, ha valorizzato anche altre forme della conoscenza e della
espressività umane non riducibili alla cienza, ma non per questo ad esse
opposte. Ha infatti sempre ritenuto che la realtà, e segnatamente la realtà
umana, non possa essere esaurita dalla scienza, e richieda invece una costante
attività interpretativa.. L'uomo, dunque, è chiamato ad essere scienziato della
natura ed ermeneuta della cultura. Sarebbe però riduttivo non ricordare
che i suoi contributi alla filosofia della scienza riguardano una pluralità
estremamente diversificata di temi. Ad esempio, sono ddue studi pionieristici
sull'applicabilità del teorema di Gödel al diritto. Gödel aveva scoperto che
non si può dimostrare la coerenza di un sistema all'interno del sistema stesso;
M. ritiene che, almeno analogicamente, la scoperta di Gödel possa applicarsi al
problema della fondazione di un sistema deontico. Uun'autorità non può
legittimarsi da sola in modo formale e, dunque, anche il diritto richiede fondamenti
esterni (etici, non emici): l'efficacia e la giustizia. Ha realizzato
alcune traduzioni fondamentali. E forse il suo contributo maggiore alla storia
della filosofia è consistito proprio in un'opera che combina traduzione e
ricostruzione critica, ovvero l'opus postumum di Kant. Tale opera affronta
questioni teoriche tutt'oggi aperte (soprattutto nella fisica e nella biologia
teoriche), come il problema della forma degli oggetti solidi o il problema del “vivente,”
cioè il problema della vita in quanto tale e non ridotta a semplice. Ha
curato poi le edizioni di opere di Leibniz: si è trattato di un ampio lavoro
che si è raccolto in "Scritti politici e di diritto naturale"
"Leibniz e des Bosses" "Saggi filosofici e lettere" e "Saggi
di teodicea: sulla bontà di Dio, sulla libertà dell'uomo, sull'origine del
male.” La sua estetica, pur nella varietà dei temi trattati, rimanda ad una
problematica essenzialmente ontologica: lo svelarsi dell'ente. Cioè, l'opera
d'arte è heideggerianamente concepita come il modo attraverso cui gli uomini
possono cogliere il passaggio dal nulla all'essere. Di estetica è "Goethe
e il suo diavolo custode", edito per i tipi di Adelphi. Al centro di
questa ricerca vi è la figura di Mefistofele, analizzata in tutta la sua
profondità e capacità genealogica. Nei suoi volumi
sull'estetica della musica sviluppa la tesi affascinante che ascoltare la
musica è un ascoltare il silenzio. Grande è la potenza significante di ciò che
non significa nulla, perché è il nulla a far emergere l'essere delle cose. E la
musica e la luce si situano proprio in questo iato insuperabile fra l'essere e
il nulla. Entro i suoi molteplici contributi alla filosofia civile, si staglia
netta, per importanza e originalità, una triade di saggi edicati a quello che
potremmo chiamare "stato spirituale dell'Occidente". Si tratta di
opere scritte in un periodo dunque estremamente critico per l'Italia, ma che
mantengono ancora una grande attualità. Fa percepire al lettore il pericolo
valoriale in cui è venuto a trovarsi l'Occidente e pone in essere una critica
serrata alle ideologie totalitarie o nichiliste. In questo senso, vi è un'aria
di famiglia con i lavori di quei filosofii come Horkheimerche ha prospettato i
rischi di un'eclisse dell'individuo nella società tecnologica di massa. Un
articolo sul Corriere della Sera
rettifica sul Corriere della Sera
smentita sul Corriere della Sera. Saggi: “Bergson, Torino); “La
filosofia trascendentale” (Bibliopolis, Torino); Leibniz e Des Bosses, Torino);
“L'oggettività nella scienza e nella filosofia contemporanea, Torino; L’esperienza”
(Trieste); Dio nel "Libro d'ore" di Rilke, Olschki); “Dialettica
della libertà, Napoli); “La speranza nella rivoluzione, Milano, Vincenzo Filippone-Thaulero,
Salerno Temi e problemi della filosofia, Roma, Perché punire, Milano, Cancro in
Occidente, Milano, La voce, la musica, il demoniaco. Con un saggio
sull'interpretazione musicale, Spirali, Filosofia del denaro, Roma, Elzeviri
swiftiani, Spirali, La mia prospettiv, Barone; Melchiorre, Gregoriana Libreria,
Gioco e lavoro, Spirali, La speranza nella rivoluzione, Spirali); “Nazionalismo”;
S. Cotta, Japadre, Perché leggere Plotino, Rusconi); Tipologia dei sistemi e
origine della loro unità, Lincei, Orfeo e il suo canto. Scritti, Zamorani, Il nulla, la musica, la luce, Spirali, La
fedeltà ermeneutica, Paoletti Laura, Armando, Per una cultura dell'essere,
Armando L'uomo animale ermeneutico, Giappichelli, Le radici classiche
dell'Europa, Spirali, Goethe e il suo diavolo custode, Adelphi, Privacy e
dignità dell'uomo. Una teoria della persona, Giappichelli, Plotino, Bompiani, Perché
punire. Il collasso della giustizia penale, Liberi libri, Introduzione a
Leibniz, Laterza, In tre giorni, Mursia,;
La filosofia, Marcovalerio, Kant Bergson. quotidiano Ideazione, il fatto quotidiano. 3del
portavoce dell'Opus Dei sulla non appartenenza alla Prelatura dell'Opus Dei, su
archive ostorico.corriere. Vittorio Mathieu. Mathieu. Keywords: al di la del
bene e del male, la fedelta ermeneutica, l’uomo animale ermeneutico, il
demoniaco, l’angelo custode, il demonio custode, il diavolo custode. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mathieu” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Matraja – grammatica razionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Una lingua
numerica viene progettata da M. nella sua “Genigrafia italiana: nuovo metodo di
scrivere quest'idioma affinché riesca identicamente leggibile in tutti gl’altri
idiomi del mondo” (Lucca, Tipografia genigrafica), lingua di cui discusse più
tardi anche La Société de Linguistique. M. è l'unico ideatore ITALIANO di una
lingua razionale a essere preso in considerazione da questa ‘société’ galla nel
corso del dibattito sulle lingue ausiliarie. La Genico-grafia, lett. 'scrittura
generale' e di cui ‘genigrafia’ è la forma sincopata -- è un modo di scrivere
che non ha relazione con le parole e che permette di comunicar tutti i concetti
senza dipendenza dall'idioma ne dell’emittente o del recettore, ma di un modo,
che il messaggio risulta interpretabile in tutti quelli del mondo. Nasce quindi
come progetto di lingua universale che si prefigge di comunicare chiaramente, ma
che non è concepita per sostituire gl’idiomi presenti nelle varie nazioni. Si
nota che l'ordine e il modo in cui M. nomina i grandi filosofi, Cartesio,
Leibnitz, Wolfio, Wilkio, Kircher, Dalhgarne, Beclero, Solbrig, e Lambert, è lo
stesso con cui SOAVE (vedasi) li cita nelle sue Riflessioni: “da Cartesio,
Leibnizio, Wolfio, Wilkins, Kirchero, Dahlgarne, Beclero, Solbrig, e Lambert”.
Interessante è anche il fatto che di seguito aggiunga: “e Demaimieux e RICHERI
(vedasi), oggi Richieri, anche Richer), di TORINO. Maimieux pubblica i suoi
studi sulla lingua universale dopo Soave e RICHERI (vedasi) prima. M. quindi
dove certamente conoscere (oltre agl’ultimi due filosofi) anche il lavoro di SOAVE
(vedasi), vista l'evidente citazione. Decide di non farne nome. Anzi, dopo aver
sostenuto che al momento della stesura dei lavori dei filosofi sopracitati non è
ancora giunto il giusto momento per comporre una tale lingua, asserisce che
finalmente quel momento è arrivato e che lui, ha adempiuto positivamente tale
onere – “while lying in the bath, I would presume” – Grice. Dopo aver proceduto
all'analisi strutturale di “alcuni idiomi,” – cf. Grice, ‘some establised
idioms, like ‘pushing up daisies’ – M. asserisce che e possibile riconoscere
nei vari sistemi linguistici delle caratteristiche ricorrenti denominate
concorrenze generali - quelli che oggigiorno chiameremmo universali linguistici
- da questi comunemente condivise. Molte
di queste caratteristiche sono ad oggi discutibili. Ogni idioma umano concorre
nelle cose seguenti. Nell’idea essenziale delle cose. Ogni dizionario nazionale
da di queste cose una MEDESIMA DEFINIZIONE (Grice: “bachelor”, ‘unmarried male’
– cf. Strawson, “Anglo-linguistic” – “into any language into which it may be
translated” – cf. Jones on Welsh not having the concept of ‘I’, but of ‘the
self’ (criticised by Grice’s pupil Flew) -- e solo diversa nel suono delle
parole (“shaggy,” hairy-coated – revolution, revoluzione. Nell'origine, poiché
tutti gl’arii occidentali sono figli più, o meno immediati del latino, di cui
ne confessano la discendenza, tanto per la sua grammatica – morfo-sintattica --,
quanto con la edizione del suo dizionario etimologico comparato coll’idioma
volgare. Nel mezzo istrumentale, con cui
comunicano in distanza (‘tele-mentazionale,’ nelle parole di McGinn, of Oxford)
i suoi concetti, poiché tutti usano dell'alfabeto originale. Nel modo di rap-presentare
nella carta i sopra-detti concetti poiché tutte le nazioni lo eseguiscono per
mezzo del discorso o meglio, la conversazione, espresso conforme al genio di
ciascuno idioma. Nella TESSITURA (o
implicatura) del discorso e la conversazionae; poiché è indiscusso, che non
solo le nazioni del mondo antico, ma ancora ITALIA, senz'altra istruzione, che
la infusale dalla NATURA, lo dividono egualmente nelle medesime parti. Nella generale ammissione, ed
egual valore delle cifre aritmetiche, per esprimere le quantità numeriche della
scuola di Crotone. Nell'uso universale delle medesime note ortografiche per VIVIFICARE
(o accentuare) il discorso o la propria mozione conversazionale, rappresentato
dai caratteri nazionali; come ancora quello delle cifre scientifiche usate
dalle nazioni culte. Nella comune accettazione finalmente della carta rigata
per comunicare inerrabilmente le note musicali: Home, home, sweet, sweet home. Queste
caratteristiche, proprio perché considerate universali, non possono che essere
presenti anche nel sistema immaginato da M. Si nota poi che con la sua lingua
non è possibile comunicare attraverso l'uso della parola, giacché, a detta di
M., questa mal si presta alla
comunicazione precisa – cf. Grice’s irritation on dialect speakers saying
‘soot,’ when they mean ‘suit’. M.
distingue nove parti del discorso -- articolo, nome (“shaggy”), pronome,
avverbio, verbo, participio, preposizione e interiezione -- a cui associa un
numero da I a VII, che, in esponente alla “caratteristica” - con accezione
leibniziana, cioè al “segno” - determina la parte del discorso di cui questa fa
parte. Ogni idea deve essere
assolutamente riconoscibile ed espressa da una “caratteristica” specificata
fino alla sua ultima differenza da cifre numeriche, che sempre la precederanno
a guisa di coefficienti algebrici. Cf. Grice’s subscript notation for ‘She wanted him –
She-1 wanted-2 him-3” (Vacuous Names). Questi
co-efficienti vanno letti separatamente gl’uni dagl’altri, mai assieme. Ad
esempio il coefficiente 123 si legge 'uno due tre', e non 'centroventitré.’ Al
contrario, vanno letti assieme nel caso in cui seguano la caratteristica e ne
siano quindi esponenti. Poiché nella genigrafia italiana di M. le
caratteristiche esauriscono tutto l'esprimibile in loro potere, non è necessario l'uso dell’articoli – cf. Grice on
the definability of ‘the’ in terms of ‘some (at least one) – apres Peano. Il
genere del nome deve essere sempre specificato (A = maschile, e. g. aquila A; B
= femminile, e. g. cane F; C = neutro – e g. ‘rain N’. I nomi possono essere
singolari o plurali (1 = singolare – ‘some (at least one), ‘re’, il re di
Francia; 2 = plurale, i re di Francia) e avere sei casi (1 = nominativo; 2 = genitivo; 3 = dativo; 4 = accusativo o
causativo; 5 = vocativo; e 6 = ablativo). Ne consegue che il nome deve sempre essere preceduto da due cifre, dette
co-efficienti, la prima delle quali indica il numero e la seconda il caso.Si distinguono nelle due
classi. Sostantivi (comuni – shaggy thing’ -- e propri – The Shaggy One. Se il sostantivo
comune non subisce alterazione va indicato con la caratteristica che il
dizionario di M. vi assegna, dopo i co-efficienti stabiliti. Se, ad esempio, al
concetto di 'gatto' e associato il carattere (accezione leibniziana) «G», esso si rappresenta “A11G.” (cf. Grice on
K as ‘king’). Un sostantivo comune poi puo essere alterati. Il sostantivo diminutivo
si indica *triplicando* la caratteristica del sostantivo -- es. «A11GGG» 'gattino'. Nel sostantivo aumentativo
si la duplica: gattone: A11GG. Il sostantivo apprezzativo si segnan una riga
sotto la caratteristica -- es. «A11g» 'gattuccio.’ Il sostantivo disprezzativo
si indica ponendo *due* righe sotto la
caratteristica: gattuzzo – A11gg. Se il sostantivo
comune deriva d’un verbo (‘shag’, ‘shaggy’) e detto ‘sostantivo verbale’ – es. amare
> amore, e non amazione). Il sostantivo comune si dice “nominale” se deriva
d’un aggettivo (buono › bontà, bonitas – but cf. Grice on Plato, horseness. Per
non ampliare ulteriormente il vocabolario, basta sovrapporre una linea sopra la
caratteristica del verbo qualora questo indica un sostantivo verbale (se per
esempio 'amare' = «A» allora l'amore è «-A»);
*due* linee (--B) qualora indichi sostantivo nominale (bonta). Il sostantivo
proprio si indica per esteso corsivo nella lingua dello scrivente e, nei
manoscritti, devono essere rigati al di sotto (es. “marco”, o “pietro” o
“paulo”) di modo che il recettore capisce che si tratta di un nome proprio. Gl’aggettivi
(‘shaggy’) possono essere originali, se non derivano da alcuna parte del
discorso, o al contrario derivati. S’il nome aggetivo deriva da un nome
sostantivo (es. virtù > virtuoso) si indica con la caratteristica del
sostantivo ma in corsivo e, se in manoscritto, rigandola al di sotto una volta.
S’il nome aggetivo derivata da un verbo (es. amato > amatorio) si indica con
la caratteristica del verbo ma in *semi-gotico* e, se in manoscritto, rigandola
al di sotto due volte. L’aggettivp deve concordare con il sostantivo in genere,
in numero, e in caso (“ho visto i promessi sposi M M”). Esistono due differenti specie di nomi aggettivi:
graduali -- cioè di grado positivo, comparativo - ottenuto dalla mera *duplicazione*
del carattere - e superlativo - ottenuto dalla *tri-*plicazione del carattere
-- e numerali (cardinali, ordinali, distributivi - cioè quelli che noi
chiameremmo frazioni o numeri razionali, che si indicano con numeri arabi
rigati nella loro parte superiore - e molteplici (‘a double burgher’)- che
veicolano i significati di doppio, triplo, quadruplo, ecc. – ‘a triple paradox’
--, e che sono scritti come gl’ordinali, ma rigati nella parte inferiore. Il
pro-nome deve possedere tutte le caratteristiche del nome sostantivo che
sostituisce e concordare con esso in genere, caso e numero. Ve ne sono di due
tipi. I pronomi primitivi sono *personali* - a sostituire le persone - che a
loro volta si distinguono in relativi, dimostrativi e indeterminati – o pronomi
*reali* - a sostituire le cose. Un pro-nome *derivato* puo essere o possessivo
o relativi. Ogni pronome ha una
caratteristica propria inconfondibile. Non è necessario indicare caso, numero e
genere sulla caratteristica del pronome qualora questi concordino con quelli
del nome. Se invece il caso *non* concorda, si scrive solo quello. Ogni
avverbio, parte dell'orazione indeclinabile, ha una caratteristica associata
peculiare e inconfondibile. Gl’avverbi si dividono in originali -- che non
hanno bisogno di specificazioni -- e derivati, indicati con la caratteristica
della parte del discorso da cui derivano, ma in corsivo. Quanto ai gradi di comparazione, questi
vengono indicati come si fa pel nome aggettivo. Ogni verbo e di voce attiva ed
e rappresentato d’una sola specie di caratteristica. Il verbo – che ha la
funzione di predicato – accezione leibniziana -- dove concordare nel numero
(singolare o plurale) coll nome sostantivo suggeto, da cui derivano la
coniugazione. La coniuazione si compone del modo -- Esistono quattro modi -- infinito
, indicativo , imperativo (3) e congiuntivo
(4) -- e questi sono indicati da una cifra co-efficiente. Il tempo puo
essere presente (1), preterito IM-perfetto (2), preterito PERFETTO semplice (3)
solo
all'indicativo -, preterito perfetto COMPOSTO (4), preterito PIU CHE perfetto
(5), e futuro (6). I numeri nella coniuazione puo essere singolare (1) o
plurale (2). La persona nella coniugazione e prima (1), seconda (2) o terza (3)
– la porta sta aperta (e persona?). Ognuno di questi co-efficienti deve essere
scritto prima della caratteristica specifica del verbo che si intende usare. Il
participio dove essere ben distinguibili, così come le altre parti del
discorso. Ne esistono di cinque tipi: presente – IMPLICANTE (1), preterito IMPLICATO
(2), futuro attivo IMPLICATURUM (3), futuro passivo IMPLICANDUM (4), gerundio IMPLICANDO
(5), e indeclinabile. Alla
caratteristica del verbo somo premessi il co-efficiente che indica il TEMPO del
participio e il co-efficiente zero, per distinguerlo dal resto dei verbi. È
necessario inoltre, poiché essi si declinano anche come i nomi e gli aggettivi,
indicare le caratteristiche di GENERE (IMPLICATO, IMPLICATA) e numero (IMPLICATO,
IMPLICATI) che posseggono. La pre-posizione (e. g. ‘to’, ‘betweeen’ – both discussed by Grice:
‘does it make sense to speak of the SENSE of ‘to’? When I say, Jones is between
Richards and Williams, do I mean in a mere spatial sense or in some moral
ordering – does this change the sense? I
don’t think so!) e una parole indeclinabili che determinano le relazioni che
hanno tra loro le referenti delle parti del discorso. Ogni preposizione ha carattere proprio e
inequivocabile. Ogni interiezione ha un
carattere particolare. La congiunzione,
composta da una parola indeclinabile e breve, unisce parti diverse del
discorso. Essa può essere
avversativa (“She was poor BUT she was honest” – Grice), disgiuntiva (“My wife
is in the kitchen or the bedroom” – Grice), alternativa, ecc. Anch'essa possede
un carattere specifico. Note ortografiche
e scientifiche Anche la punteggiatura
(segno grafico delle pause e delle enfasi del discorso) deve far parte di un
sistema universale di comunicazione e Matraja sceglie di mantenere il sistema
di punteggiatura in uso per la lingua italiana. Allo stesso modo, anche i segni
matematici d'uso comune devono essere mantenuti come tali. Esempio.
Una volta stilate le regole precedenti si dove essere in grado di
trascrivere in lingua genigrafica la frase. La natura insegna comunicare i
concetti mentali per le parti dell'orazione del proprio idioma. L'azione che
bisogna fare è una sorta di analisi grammaticale della frase, per cui, prendendo
il soggetto «la natura» si converrà che esso è un nome sostantivo comune,
femminile, singolare, nominativo (perciò «B°.1.1») e nella tabella essa è
descritta come «A'. 236». Il risultato allora e «Bº. 1.1 A'.236». Lavorando
allo stesso modo per tutte le parti del discorso presenti, alla fine si
avrebbe: B°.1.1 A':236 - 2.1.13Y5.37 -I.
H5.37 - A°. 2.4. X' 83. N?. 32 - E7.3 - Bº
9. 2.4 P'. 257 - B°. 1.2 L'. 245 - A°. 1.2 A'. 174. D'. 42.88. Giovanni
Giuseppe Matraja. Matraja. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Matraja”.
Luigi Speranza -- Grice e Maturi: la ragione
conversazionale e l’ implicatura conversazionale -- l’io e l’altro – io e l’altro – i duellisti – la
scuola d’Amorosi -- filosofia campanese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza
(Amorosi). Filosofo. Amorosi, Benevento, Campania. Grice: “There
are two main things I love about Maturi, and I hate it when philosophers just
dismiss him as an ‘Italian,’ or worse, ‘Neapolitan’ Hegelian – as when they
refer to me as a member of the Oxford school of ordinary language philosophy!
The first is his typically Neapolitan-hegelian school account of what he calls
‘autocoscienza recognoscitiva,’ which is something I do take for granted in my
conversational theory of inter-ratiationality; the second is his elaboration of
what he calls the passage from the non-human animal to the ‘human-animal’ in a
sort of pirotological passage.” Grice: “What I like about him is that he
considers each ‘stage’ as just as fundamental as the other; which implicates
that actually the ‘higher’ stage has a ‘foundation’ on the previous one. Here
‘foundational’ makes perfect sense; and it gives Maturi an excuse to rather
pompously label the concept: ‘forma fondamentali’ of the ‘vita.’ It’s exactly
like my soul progression, -- which I explore in ‘Philosophy of Life.’” It is not
surprising that Gentile loved Maturi and forwarded his “Introduction to
philosophy.” sDocente prima nei licei e poi nell'Napoli. Dopo i primi studi nella cittadina natale, si
trasferì a Napoli ove conseguì la licenza liceale. La frequentazione di
Bertrando Spaventa e di Augusto Vera, lo introdusse alla filosofia
hegeliana destinata ad esercitare nel
suo pensiero un'influenza duratura.
Laureatosi in giurisprudenza, tre anni dopo vinse un concorso per
uditore giudiziario. Ottenuta
l'abilitazione, insegnò filosofia nei licei di varie città. Conseguita la
libera docenza, tenne corsi di filosofia hegeliana nell'Napoli quando ritornò
all'insegnamento liceale presso l'istituto Umberto I della città partenopea.
Inizia una corrispondenza con Croce e Gentile, i maggiori esponenti
dell'idealismo italiano, ai quali fu legato da un rapporto di amicizia. Saggi: “Soluzione
del problema fondamentale della filosofia” – Grice: “He implicates there is
one. Cf. Strawson,
Solution to the problem of the king of France’s hair loss.” “Bruno.” Grice:
“Italians seem to have a predilection for philosophers who were burned.” “L'ideale del pensiero umano; ossia, la esistenza
assoluta di Dio.” Grice: “For Kant,
and my friend D. F. Pears, existence is not a predicate, for another of my
friends, J. F. Thomson, it is!” “Uno
sguardo generale sulle forme fondamentali della vita” Grice: “The key concept
is ‘forma fondamentale’ as applied to ‘vita.’ -- Grice: “My favourite is his description of
the ‘forma fondamentale’ of the ‘vita’ of the non-human animal to the ‘forma
fondamentale’ of the ‘vita’ of the human animal.” L'idea di Hegel. Grice: “When
I told Hardie that I was reading “The idea of Hegel,” he said, ‘what do you
mean, ‘of’?” “For Maturi, it’s the same, and it is delightful to see that he
can quote Hegel in ‘Deutsche’ without caring to translate! Them was the days
when European languages counted!” La filosofia e la metafisica” Grice: “The
‘and’ is aequivocal: cf. Durrell, “My family and the animals.”“Principî di
filosofia” (apparently by Spaventa – Maturi has an introduction to philosophy).
Grice: “I must confess that I love the word principle, but again, Hardie would
say, what do you mean ‘of’ – my principle of conversational helpfulness – or
when I speak of the principle of conversational self-love and the complementary
principle of conversational benevolence,” I’m not sure who I apply it to! The
conversationalist like me, I s’ppose.” “Una
relazione scolastica.” Grice: “He doesn’t mean Russell.” “But what he means is
a syllabus which is illustrative of Neapolitan Hegelianism!” Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.
Mario Dal Pra, Milano, Bocca, Guzzo, Brescia, Morcelliana, A. Gisondi, Forme
dell'Assoluto. Idealismo e filosofia tra Maturi, Croce e Gentile, Soveria
Mannelli, Rubbettino, G. Giovanni, "Filosofia hegeliana e religione.
Osservazioni", Benevento, ed. Natan,.
Hegelismo Idealismo Neoidealismo italiano. G. Calogero, Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. LA FILOSOFIA DI BRUNO, Festa letteraria nel T{_. Liceo di
Trapani AVELLINO TIPOGRAFIA TULIMIERO. Bruno appartiene alla
illustre falange degli eroi del Risorgimento . I quali, scuotendo il
pesante giogo, che gravava da lunghi secoli sullo spirito umano,
inalberarono la bandiera di quella indipendenza e sovranità del pensiero,
donde si origina tutta quanta la civiltà moderna. La più parte di questa
illustre falange di eroi furono figli dell’ Italia nostra, ma,la figura più
spiccata, il genio più alto e più originale, la tempra più ferma e più
ga- i gliarda, che allora onorasse l’Italia e in cui si annunziasse più
chiara la bella aurora del nuovo spirito del mondo, fu senza fallo il
Bruno. Ma Bruno, o Signori, non fu soltanto un grande eroe;
egli fu eziandio un gran filosofo. Anzi, esprimendo liberamente il mio
pensiero, aggiungerò che, sotto un ceno riguardo, Bruno è il piu g rande
filosofo italiano. Imperocché, fra tutti i nostri pensatori, quello che è
penetrato più addentro nei segreti della scienza, quello che più profondamente
ne ha compresa la vera natura, quello che più d’ogni altro ha sostenuto a
spada tratta e a visiera levata gli etem.i dirilt i Jclla Ugjfipe si è appunto
il filosofo di Nola. Egli è vero che, se si considera il Bruno per
ciò che riguarda la trattazione speciale e determinata delle singole
dottrine filosofiche, si deve confessare che, per questa parte, egli si
trova inferiore a molti altri; ma, sejij)on mente alla sostanza del
pensiero speculativo, bisogna allora convenire che questa sostanza, come c ò
nel Bruno, non c’ è in nessun altro filosofo italiano. In questo
discorso io non posso trattenermi su tutti gli aspetti del Bruno, perchè,
quando si tratta di un personaggio gigantesco e moltilatero come questo, è già
ben troppo, se si piglia ad abbozzarne un lato solo nella brevità del
tempo, di cui io posso disporre. Costretto adunque a limitarmi, io mi farò a
guardare nel Bruno soltanto la stia dottrina filosofica. E fo questa
scelta tra perchè è la filosofia quella, che costituisce il titolo
maggiore della grandezza del Nolano, e perchè questa è la scelta, cui mi
astringe con debito speciale il posto, che ho l’onore di occupare in questo liceo. Signori,
se noi ci facciamo a considerare in un modo generale il carattere proprio
della speculazione nel periodo del Risorgimento, scorgiamo soprattutto
due cose. In primo luogo, tutti questi filosofi, quantunque con forze disuguali,
pure, chi più chi meno, combattono la Scolastica. In secondo luogo,
questi stessi filosofi, se da una parte combattono la Scolastica, dall’
altra ciascuno di essi esplica in certa guisa, o almeno avvia la
esplicazione delle profonde esigenze, che in quella si acchiudono. Ma, fra
tutti questi filosofi, ò Bruno quello, che più fieramente guerreggia la
Scolastica, e nel medesimo tempo è lo stesso Bruno quello, che più di tutti gli
altri traduce in atto, per quanto è possibile ai suoi tempi, le esigenze
poste dalla Scolastica nella storia della filosofia. Per
occuparmi adunque, con quella brevità che sappia maggiore, della filosofia
Bruniana, io devo innanzi tutto accennare quale sia la posizione del
pensiero filosofico nella Scolastica, e quali siano quelle esigenze
dell’attività speculativa, che in siffatta posizione si rivelano.
Ebbene la posizione del pensiero filosofico nella et |^^ca^ è la seguente. In questa filosofia
l’intelletto concepisce la verità come es istente della natura e f dell’
uomo; c quindi considera tanto F una che P altro come affatto destituiti di
ogni elemento divino. La natura, Wi Mimi*
/sJaVu'M W” te 1 dinanzi allo intendimento scolastico,
non ha valore di sorta; essa è pura ombra, puro giuoco, e onninamente
sfornita di qualsiasi significazione ideale ed assoluta. Per la stessa ragione,
l’uomo è considerato come una semplice creatura e come essenzialmente
contaminato dalla colpa: tutto quello che riguarda 1’ uomo, tutto che gli si
attiene in proprio comecchessia non è altro che miseria, abiettezza,
vanità. Per tal modo, dinanzi allo intendimento scolastico, Dio resta
spogliato di tutti quei principii ideali, che si svolgono nella natura e
nello spirito umano; appunto perchè tanto il mondo naturale che il mondo
umano sono considerati come una sfera ed una evoluzione del tutto estrinseca
al1 assoluto, e non già come la estrinsecazione propria del1 assoluto medesimo
e la effettuazione sempre più verace della sua unità (i). »
Intanto, mentre da una parte il pensiero scolastico (l) « In
der tibersinnlichen Welt war keine Wirklichkcit dcs denkenden,
allgeuaeincn, vernùnftigcn Selbstbewusstseyns anzutreffen: in der
umnittelbaren Welt der sinnlichen Natur dagegen keine Gòttlichkeit, weil sie
nur das Grab des Gottes, wie der Gott ausser ihr, war. Gott war wohl im
Selbstbewusstesyn, dodi von Aussen und zugleich ein ihm Anderes, eint
andere Wirklichkeit: die Natur von Gott gemacht, sein Geschòpf, kein Bild
seiner » (Hegel, Geschichte der Philosopliie, Zweiter Theil, S. 178, 204,
Zweite Auflage). rimuove in tal guisa e discaccia la verità da tutti gli
esseri, e quindi anche da £è stesso, dall’altra parte poi ha la pretesa
di voler comprendere la verità medesima colle semplici forme vuote ed
astratte della propria attività. Questa pretesa è quella che spiega perchè gli
Scolastici dettero tanta^ im portane d lo^iudio^ldwPgllsi^rg, fletto,
cioè, al^) studio ^ di_g^m^^|^ch£poi a ragione fu appellata logica
scolastica. Ed in effetti dovea esser cosi, perchè quante v volte, ad
onta che si sostiene essere la verità estrinseca al pensiero, si fa
tuttavia ogni sforzo per arrivare a determinarla mediante le forme proprie del
pensiero, egli è giuocoforza che tutto il lavorio preliminare e
fondamentale della speculazione si faccia consistere nello studio di
queste forme. Considerando però attesamente questa posizione
del 9 l’intelletto scolastico t non si può non iscorgere in
essa una profonda e radicale contraddizione. Imperocché, affermando che
la verità è affatto l«ori del mondo, quella ragione, che è nel mondo, dovrebbe
abbandonare qualsiasi aspirazione alla conoscenza di essa, e quindi
rassegnarsi a non cercare altrove il proprio obbietto che nella
bassa sfera della esistenza puran^nte fenomenica e peritura. Ma la
Scolastica, ardente come è dell’ amore della verità, e profondamente
agitata dal bisogno dell’ eterno c dell’ as ro soluto, non potrebbe, per certo,
acconciarsi a questa d 9 miliante condizione. Ed è per questo
die, quantunque ella abbia collocata la verità fuori della natura e fuori
dello s pirito, tuttavia si fa a, cercarla con un ardore
indescrivibile, e il cielo, in cui intende a trasportarla, si è appunto
il cielo del pensiero. Ma, siccome un simile tentativo quando si è
stabilito un ra pporto di asso luta estrinseche zza tra la verità ed il
pensiero deve tornare necessariamenie infruttuoso ed inane, cosi è che,
mentre la Scolastica si argomenta con tutte le sue forze di raggiungere
la verità, non riesce che a notomizzare le forme del proprio intelletto,
e, in vece della verità, non ottiene altro che tritumi, sottigliezze
ed astrattaggini. Sotto questo rapporto adunque si può ben dire
clic la j _^|^srica è una barbara filosofia dell’ intelletto astratto,
una filosofia senza contenuto suo proprio, una filosofia, che non offre nessun
verace interesse ed alla quale non ò più possibile ritornare (i).
Mi limito a queste poche riflessioni per ciò che ri [So hoch auch die
Gegenstàndc waren, die sie (die ScholaStikcr) untersuchten, so cdele,
tiefsinnige, gelelirte Individucn es auch unter ihnen gab: so ist doch
diess Ganze eine barbarischc Philosophie dcs Vcrstandes, oline realen
Inhalt, effe uns kein wahrhaftes Interesse erregt, und zu dcr wir nicht
zuruckkehren kOnnen » Hegel, Geschichte der Philosophie] riguarda il lato
debole della Scolastica. Ma oltre questo lato f? - -L.W -- 4'Ji i k
- uli-^ .r-t - ‘ la Scolastica ne Ita anche un altro, ed è quello
appunto in cui, se io non m’ingannò, cpnsiste il suo vero significato,
e-per cui essa si connette colle filosofie posteriori, e trova nelle
medesime il suo proprio esplicamento. Qui intanto mi si permetta una
breve digressione. Ordinariamente, quando si fa la critica di una dottrina
filosofica, si crede esser bastevole mostrare gli errori, che in essa si
acchiudono. Eppure egli è un fatto che, in quella guisa stessa che nel
mondo della realtà etica il male ha la sua ragione e il suo principio nel
bene, cosi simigliantemente, nella realtà storica del pensiero
filosofico, l’errore ha la sua segreta radice nella verità. Per la qual
cosa la semplice confutazione dell’ errore non può costituire che il lato
meramente astratto e negativo della critica filosofica, il cui arduo
e gravissimo compito' consiste, in vece, nello investigare quella
verità, che si nasconde sotto lo involucro apparente dell’ errore, e
senza di cui terrore stesso non sarebbe possibile. La storia della filosofia,
che è appunto 1’obbietto della critica filosofica, e che ò critica
filosofica essa stessa, non è un’arena di dispute infeconde, non è una vicenda
di avventure di cavalieri erranti, clic si vadan battendo soltanto per
proprio conto, che si agitino e si affannino senza scopo, e le cui gesta
si dileguino, senza che resti di loro la menoma traccia. Egli è, nella
stessa guisa, assolutamente falso che la storia della filosofia ci presenti
lo spettacolo di tale, che arzigogoli di qua, e di tale altro, che
almanacchi di là a suo proprio talento: egli havvi, all’ incontrario, nel
movimento storico del pensiero speculativo, una continuità ideale e
necessaria, ed un procedere determinato dalle leggi stesse della ragione. Chi
non è convinto di questo vero, chi non ammette questo governo della Provvidenza
nella storia della filosofia, come nella storia dell’ umanità in generale, non.
può intendere affatto il valore intrinseco di nessun sistema filosofico,
e non può investigare, mediante la critica, quelle ragioni ideali,
che fecero apparire i diversi sistemi, e che, ad onta di tutte le
contraddizioni, fecero passare gli anteriori nei posteriori, come nella
loro propria espressione e nella loro verità. È con questa convinzione
adunque che io mi fo a determina [Die Thaten der Geschichte der
Philosophie.sind nicht nur eine Saramlung von zufàlligen
Begebenheiten, Fahrten irrender llìtter, die sich fur sich heruraschlagen,
absichtlos abmOhen, und deren W’irksamkeit spurlos verschwunden ist. Eben
so wenig hat sich hier Einer etwas ausgeklfigelt, dort ein Anderer nach
Villkùr; sondern in der Bewegung des denkenden Geistes ist
wesentlich Zusamraenhang, und es geht darin vernùnftig zu (Id. ib.
Einleitung] re brevissimamente iMato vero della Scolastica, quel lato,
cioè, in cui consiste il significato storico e razionale della
medesima. Come ho già innanzi accennato, la scolastica fa due
cose: da ^yjyyxt^e^one la verità fujp della natura e fuori dello spirito,
e dall’ altra si argomenta, benché indarno, di trasformare la medesima in
contenuto razionale. Ora io domando in primo luogo: perchè la Scolastica
pone la verità fuori della natura e fuori dello spirito? Ebbene la
risposta vera per me è questa. L^^jcok^stica ha un profondo sentimento
dell’infimtacmKretezza dell’ Idea cristiana; essa sa che questa Idea è
superiore alla natura ed allo spirito finito, e che la sua realtà non è
quella isolata, astratta e fugace, che ha luogo nella sfera delle cose
sensibili £d illusorie. Egli è vero che, mentre la Scolastica ha
questo profondo sentimento dell’ infinita concretezza dell’Idea cristiana,
dall’altra parte poi non si avvede che questa concretezza si trasforma in una
mera astrazione, qualora le si sottraggano tutti quei principii, che si
manifestano nella natura e nella spirito; imperocché, in tal caso, in
vece di avere 1’ ente realissimo, la realtà delle realtà, la idea delle idee,
non si ottiene altro che un assoluto indeterminato, solitario e trascendente,
un assoluto, a cui fu tolto tutto quanto il regno della realtà e
della vita. Ma la Scolastica non poteva accorgersi di questo errore;
imperocché, non essendo ancora sceverata nella naura e nello spirito la
esistenza ideale ed eterna dalla esistenza empirica e passeggera, essa non
potea fare altro, che quello che fece: dov ea porre P assoluto fuori
della natura e fuori dello spirito. Però, se i grandi pensatori
della Scolastica ritornassero in questi tempi, nei quali la scienza ha messo in
rilievo la forma eterna ed immutabile delle cose, certamente essi non
esiterebbero un istante a riconoscere la vita stessa di Dio in tutto
questo contenuto infinito ed imperituro della realtà naturale e della
realtà umana (i). Se adunque la Scolastica vilipende e degrada in tal
guisa la realtà della natura e dello spirito, questo sbaglio non
appartiene a quel pensiero interiore, da cui essa è animata e a quelle
ragioni ideali, che l’hanno fatta sorgere nella storia, ma
appartiene, in vece, alla semplice posizione immediata e, dirò
cosi, provvisoria, in cui si muove. Quello che appartiene al suo
pensiero Interiore c profondamente speculativo si è il concetto, benché vago,
di una più alta realtà, si ò il bisogno di un mondo migliore, si è la
esigenza di una natura spi (i) È inutile dire che questa scienza, di cui
qui parlo, non è certamente il trasformismo, i rituale, redenta, deificata, di
una natura, in cui ci sia dato ravvisare la realtà stessa di Dio e quindi
scernere in ogni cosa un’ idea assoluta ed immutabile. E difatti, se la
Scolastica rifugge dal mondo, se lo dichiara una vanità, ciò è perchè
nella sua coscienza si agita 1* idea del vero mondo, di quel mondo, in cui ha
luogo la vera presenza dell’infinito, e in cui perciò si trova realmente
conciliato l’elemento mondano col divino. Egli è vero che fu questa
stessa idea quella, che produsse nel medio evo la più mostruosa confusione del
divino e dell’ umano, e la più spaventevole barbarie, che immaginar si possa;
ma egli è vero altresì che, in fondo a quella confusione e a quella
barbarie, vi è un significato della più alta" importanza, vi è la
sorgente di quella verace conciliazione, in cui consiste il fondamento
incrollabile della vita moderna (i). La seconda cosa, che troviamo
nella Scolastica, si è lo ^ (i) Es hilft nichts, das Mittelalter
eine barbariche Zeit zu nennen. Es ist eben eine eigenthùmliche Art der
Barbarei, nicht eine unbefangene, rohe, sondern die absolute Idee und die
hòchste Bildung ist, und zwar durchs Denken, zur Barbarei geworden; was
einerseits die gràsslichste Gestalt der Barbarei und Verkehsung ist,
andererseits aber auch der unendliche Quellpunkt einer hòhern Versóhnung (Id.
ib. Zweiter Thell, S. 179). sforzo di riprodurre il
contenuto della fede in una forma razionale. Ora io domando di nuovo: che
cosa vuol dire questo sforzo? Vuol dire, naturalmente, che la Scolastica,
ad onta di tutte le apparenze contrarie, non si accontenta affatto
di una verità inaccessibile, di una verità, che non sia fatta per r
intelletto umano. Quello, in vece, che essa cerca, quello, a cui aspira
ardentamente, si è appunto la forma razionale della verità della fede, e
tutta l’attività, tutta l’energia infaticabile delle sue profonde meditazioni
non tende ad altro che a tradurre queste verità nel linguaggio proprio
della ragione. Ed in effetti tutti i grandi pensatori della Scolastica
non si accontentano della pura e semplice fede: essi vogliono credere e
credono davvero, ma vogliono credere pensando ed intendendo; essi, come
dice S. Anseimo, non cercano d’intendere per credere, ma credono per intendere;
e tutto ciò perchè sanno che la religione è fatta per 1’ uomo, non per
l’animale e che le verità, che in essa si contengono sono state rivelate
da Dio, che è la ragione assoluta, e che perciò devono essere
necessariamente razionali (i). Egli è vero che gli Scola (i) L’ Hegel,
parlando di S. Anseimo, dice cosi: Sehr merkwùrdig sagt er, was das Ganze
seines Sinnes enthàlt, in seiner Abhandlung Cur Deus homo, die reich an
speculationen ist: Es scheint stici fanno distinzione di verità
intelligibile e di verità sovrintelligibile, ma questa distinzione ha tutt’altro
significato da quello che si crede ordinariamente. In effetti la
Scolastica non fa questa distinzione, perchè forse ritenga essere davvero
sovrintelligibili in sè stesse quelle verità, che essa chiama con
siffatto appellativo, ma la fa in vece perchè, fino ad un certo punto, essa
supera sè stessa, ed ha una certa coscienza della posizione storica in
cui si muove. In altri termini la Scolastica si accorge che quell’
intelletto, di cui fa uso e i criteri logici, di cui dispone, non
sono sufficienti a far comprendere la natura e le determinazioni
della verità cristiana. Ma con tutto ciò ess? non si arrende e non si
scoraggia, ma si fa in vece a lottare gagliardamente colla sua stessa
posizione storica e dichiara, per cosi dire, col fatto stesso delle sue
profonde lucubrazioni, che 1’impotenza del pensiero non può essere assoluta ed
insupera mir eine Nachlàssigkeit zu seyn, wenn wir ini Glauben fest
sind, und nicht suchen, das, was wir glauben, auch zu begreifen ». Utzt erklàrt man diess fur Hochmuth;
unmittelbares Wissen, Glauben hall man fur bòiler als Erkennen. Anselmus
aber und die Scholastiker haben das Gegentheil sich zum Zweck
gemaclit.Dénn der Gedanke, durch ein einfackes Raisonnement zu
beweisen, was geglaubt wurde das Gott ist —, liess ihm Tag und Naclit
keine Ruhe, und quàlte ihn lange.] bile. Ed è per
questo che il perpetuo tormento, che travaglia quei {orti intelletti di
Anseimo, di Abelardo, di Pietro Lombardo, di Duns Scoto, e via dicendo, è
riposto addirittura in quelle verità, che chiamano
sovrintelligibili. Dal che si può scorgere che, in quehe mjjjafoU^ri^
ed asmuu^jgmdella Scolastica, vi è un arditissimo ed immenso
tentatm^w ò il tentativo dell’ assoluta autonomia, del1’ attualità
infinita della ragione. In altri termini, vi è quel colossale tentativo,
che poi produsse, sotto lo aspetto religioso, la Riforma, sotto lo aspetto
sociale, la rivoluzione francese, e che alla fine divenne filosofia
tedesca e particolarmente filosofia Hegeliana. E fu appunto in questa filosofia
che venne soddisfatta l’aspirazione divina del pensiero scolastico, e trovò il
suo adempimento il vaticinio di Cristo: Ego rogabo Patron et alitivi
Paracletum dabit vobis, S piritimi Veritatis : ille vos docebit
omnia. Come è chiaro adunque da questi pochi cenni, quel1’ attività
filosofica, che si agitava nella Scolastica, studiata nelle sue intime
ragioni, ha il significato di una duplice esigenz a, che essa pone nella
storia della filosofia. La prima è quella che ho già detta, cioè la esigenza di
una naura ideale, di una natura spiritualizzata e in cui si possa
daddovero ravvisare il regno e la realtà di Dio (i). La seconda
esigenza, la quale deriva dalla prima, si è quella di un intelletto
superiore, di un pensiero tale che, contenendo in sè la verità, sia, per
ciò stesso, in grado di attingerla dal suo fondo medesimo e di provarla
in un modo assolutamente razionale. Ebbene tutta la storia della
filosofìa moderna altro \ non è che 1’ attuazione successiva
e sempre progrediente di questa duplice esigenza; e la prima, benché
parziale, attuazione df essa si è appunto la filosofìa del Risorgimento. A me
qui spetta di mettere in rilievo brevemente la gran parte, che ebbe il
Bruno nell’ attuazione di questa duplice esigenza, £ di chiarire come
egli, per servirmi delle sue stesse parole, sia davvero nella mattina per
dar fine alla notte, e notì nellà sera per dar fine al giorno. È
stato detto che ogni scoperta della scienza È una detronizzazione di Dio.
Questo pronunziato è vero soltanto per rispetto al falso concetto di Dio.
Quanto al Dio vero, al Dio cristiano la sentenza giusta è, in vece, che
ogni scoperta della scienza non può^ essere che una nuova affermazione,
una nuova prova della esistenza di Dio. cacaXcip ^tf
cVi\> Signori, il principio fondamentale della filosofia
Bruniana è il seguente. Bruno concepisce Dio come essenzialmente creatore. Il
che vuol dire che nella creazione il Bruno non vede già un fatto
accidentale ed arbitrario, nè una verità di second’ordine, ma ci vede la
essenza stessa di Dio. Dinanzi alla mente di Bruno, Dio in tanto è
quello che^ è, in quanto crea; se non creasse, non sarebbe Dio,
perchè non farebbe atto di divinità. Il Dio del Bruno, in somma, è il Dio
cristiano, è il Dio creatore, o per dir meglio, è il Creatore. Anchejhniobe'p^nj
pjqmi nostri. lia conshi^gw^uestaveritj^igji^J^jjigjj^jj^jjj^jjh^^^la
ma nel Gioberti però questa verità non è accompagnata da una chiara
coscienza. Gioberti dice sempre che 1 ’ atto creativo è la verità sup rema. e
che nella contemplazione di quest’ atto, tanto in sè stesso che
nelle forme particolari della natura e dello spirito umano, consiste
appunto la vera riflessione filosofica. Il fatto è però che, quando si*
va a vedere, questa grande verità (e che è realmente il principio e la
radice di ogni verità), nella filosofia di Gioberti, si riduce ad una
semplice parola: Sulla imperl'ezioue di questo concetto come è nel
Brnno vedi in fine.] è un detto, di cui egli stesso non si rende conto, e
che perciò non gli giova nè alla sistemazione generale della sua
dottrina, nè, molto meno, alla trattazione speculativa di una parte
qualsiasi della scienza. In Bruno in vece almeno fino ad un certo punto,
la cosa non va così. E U v,» per verità il Bruno dice nettamente: «
In Dio il potere e il f are è tutt’ uno . Egli non può essere altro che
quello che è; non può essere tale, quale non è; non può. .potere
altro che que llo che può: non può. volere altro che quello che
vuole, e necessariamente non può fare altro che quello che fa. L’ ajone^
sua è_ necessaria, perchè procede data- -t~ le volontà che è la stes sa n
ecessità. In lui libertà, volontà, necessità sono affatto medesima cosa, e il
fare col potere volere ed essere. Ed è per questo appunto che egli
arriva a concepire il principio universale del tutto come unità di
materia e forma. È vero che anche il De l’infinito Universo e Mondi, Opere
itti. Wagner. Hegel, dopo di aver citato il bellissimo luogo di Bruno (De
la Causa, Principio et Uno, Dial. dove dice: « Se sempre è stata l a
potenza di far e, di produrre, di creare, sempre è s tata la p o tenza di
esser fatto, prodotto e creato; perchè l’una potenza implica l’altra ecc,
soggiunge: Diese Simultancitàt der wir l ujtl* 4/C
[rifa Gioberti ha detto che il principio universale non è nè l’
idea, nè il fatto, ma il fatto ideale. Però questo fatto ideale del Gioberti
non è che una espressione diversa del lo stesso atto creativo, e perciò
non aggiunge nessun valore veramente filosofico al principio medesimo.
Questo principio, nella filosofia del Bruno, è la chiave di tutto
il sistema, è il centro vero c produttivo di tutta la sua dottrina, ed è
come la fonte, da cui scaturisce liberamente e consapevolmente tutta la
ricchezza delle sue meditazioni. Nella filosofia del Gioberti, in vece,
quantunque la parola non manchi mai, tuttavia il principio stesso dell’
atto creativo ci si trova, come dire a pigione, rincantucciato ora in nn
angolo, ora in un altro, senza aver mai la forza di girare la mazza a
tondo, di cacciare via tutte le rappresentazioni della coscienza ordinaria, e
di dichiarare solennemente che la casa della filosofia è casa sua.
Egli è d’uopo però confessare che, anche nella filosofia del Bruno,
questo principio non arriva a spiegare tutto kenden Hraft und des
BeWìrktwerdens ist eine sebi 1 wichtige Bestimmung; die Materie ist nichts ohne
die Wirksatrilfeit, die Form also das Verm&gen und innere Leben der
Materie. Vare die Materie bloss die unbestimmte Móglichkeit, wie k-ame
man zum Be'stimniten? il suo valore. Ciò si può vedere, chiaramente quando
si osservi che, se da una parte il Bruno pone la rivelazione di Dio
come essenza stessa di lui, dall’ altra poi non fa consistere tutta
quanta la essenza di Dio in questa rivelazione medesima. Secondo Bruno, Dio
rivela^ solo una gran parte di sò stess o; un’ altra parte, quantunque
minima e quasi ridotta ad un punto microscopico ed insignificante, resta però
assolutamente irrivelabile. Dal che si scorge che Bruno non sa disfarsi
in tutto del vecchio sovrannaturale della Scolastica, e mettersi cosi
pienamente d’ accordo con sé medesimo. Imperocché, quantunque egli,
tr asfon d endo la vita di_ Dio nella realtà della natura, riduca quel
sovrannaturale a minime proporzioni, lo assottigli, lo scarnifichi e
scheletrizzi in guisa da poterlo anche mettere in canzonatura ed abbandonarlo
quasi balocco alla meditazione dei teologi, ciò non ostante lo lascia li
come qualcosa che non si estrinseca, che non cade nella creazione, che
non diviene materia di quell’ atto assolutissimo, nel quale, secondo lui
stesso, consiste la vera essenza di Dio. Quantuque però quest’ultima
.ombra del vecchio Dio tenebroso induca un grave difetto nella filosofia
Bruniana, tuttavia egli è da osservare che la correzione di questo
difetto è data già, implicitamente, nello stesso concetto, che il Bruno
si forma del principio universale delle cose. Ed è per questo che Spinoza,
continuatore di Bruno, potò sbarazzarsi totalmente di quel caput mortuum
del medio evo, e recare così a grado di esplicamento più compiuto
il concetto di Dio, o della verità che dicasi, come atto creativo. La necessità
di questo esplicamento storico e razionale del principio del Bruno si può
vedere agevolmente, quando si rifletta che la idea di Dio come il
Creatore importa che, non potendo egli avere una doppia natura, non può,
per ciò stesso, nulla contenere, che rimanga al disopra dell’ atto creativo, e
non giunga a grado di esplicazione reale e vivente nella realtà infinita
dell’universo. Dire da una parte che al disopra dell’ atto creativo
resta nell’ assoluto qualche cosa, che non si rivela e non piglia
il suo posto nè nella natura, nè nello spirito, e dire poi dall’altra che
la essenza di Dio consiste nella rivelazione ^di sè medesimo, sarebbero
pronunziati contradditori. Spinoza adunque, rompendola assolutamente con quella
falsa idea dell’ estramondano, non fece che esplicare logicamente il
principio fondamentale della filosofia del Bruno. Da questo
principio, di cui ho brevemente discorso e che costituisce quello, che vi
ha di più intimo nella filosofia Bruniana, come in ogni vera filosofia, perchè
non esprime questa o quella forma dell’ Idea, ma l’Idea stessa
nella sua intrinsechezza ed universalità, da questo principio, dico, ne
scaturiscono due altri, c sono: la esistenza j / eterna ed ideale di
tutte le cose, e quindi la vera immanenza di Dio nell’universo. Questi due
principii, veramente, non sono che due modi diversi di considerare, e
direi quasi di esprimere, lo stesso concetto; ma questi due modi hanno
una cosi grande importanza nella filosofia di Bruno e nella filosofia in
generale, che io credo mio debito fare una parola e dell’ uno e dell’ altro.
Cito un breve tratto relativamente al primo modo di considerare il detto
principio. Bruno adunque dice cosi: « Le sole forme esteriori delle cose
si cangiano e si annullano, perchè non sono cosi) ma delle cose, non sono
sostanze, ma delle sostanze sono accidenti e circostanze. Che se
delle sostanze si annullasse qualche cosa, verrebbe ad evacuarsi ^
il mondo. Nulla cosa si annichila e perde 1’ esserg^eflffi- Jj to che la
forma accideittidL£atSàQtS-0^£S2Ì£? P c ™ tiUV to la materia quanto la
forma sostanziale di che si voglia cosa sono indissolubili e non
annichilabili » (i). Da queste poche parole, che ho citato, si può
vedere, senza una difficoltà al mondo, comedi Bruno sia davvero un
idealista di prima forza. Per Bruno ogni cosa, considerata nella sua forma
interiore, è una natura determinaV. Dialogo 5-° e 4.° De la Causa, Principio et
Uno.] ta, eterna ed immutabile; ogni cosa ha la sua idea. Tutto 1’ universo non
è che una trama di principii o forme assolute, le quali si sviluppano e si
rinnovano eterna mente nella loro esistenza esteriore e sensibile, ma
conservano eternamente la loro natura ideale ed incorruttibile. Per tal modo la
essenza di tutte le cose dell’ universo non è niente di indefinito o di
arbitrario. Tutto ciò che è ha la sua legge, in fondo a tutte le cose vi
è un eterno statuto che le modera e governa; ed è questo statuto appunto
quello, in cui deve travagliarsi la meditazione del filosofo. Egli ò vero che
in tutti gli esseri vi ha numero, differenze e moltiformiti, ma il
numero, le differenze e la moltiformità di un essere qualsiasi altro non
è che lo sviluppo di un principio unico e fecondo; e quin di anziché importare
mutazione o cangiamento nella na- . tura di esso, ò in questo sviluppo,
in vece, che si effettua e s’invera sempre più compiutamente la natura del1’
essere medesimo. Signori, se Bruno avesse spinta più oltre la
investigazione di questo principio, e si fosse fatto ad applicarlo alla storia,
egli avrebbe potuto porre un secolo prima, almeno in un certo qual modo
generale, quel gran concetto, che forma la gloria di Giambattista Vico.
E s^pWtt^rió^che^èhah^uaidea. se tutto quello che si svolge nell’
universo ha la sua legge, e come dire, il suo codice eterno ed immutabile,
anc he la storia dev e a vere la sua legge e il suo statuto ; e quindi
deve esser possibile la ricerca di questo eterno statuto della storia,
deve esser possibile, io voglio dire, l a^ filosofia della sto ria. Il Bruno
però, bisogna confessarlo, non ha piena coscienza di tutti quei tesori, che si
acchiudono nella sua dottrina. Ciò derivi, in parte, dal soverchio entusiasmo,
ond’ egli si abbandona e si dimentica nella contemplazione della infinita
natura; e, in parte e principalmente, dalla profondità stessa e dalla
fecondità inesauribile dei suoi principi, dei quali, certamente, non si poteva
avere ai suoi tempi una chiara e perfetta coscienza.
Confessando però che il Bruno non giunse a questo gran concetto del
Vico, io debbo aggiungere che, con tutto ciò, Bruno non è affatto
inferiore a Vico; anzi, esprimendo liberamente quel che penso, dirò che Bqjqq,
come metafisico, gli $ di gran lunga superiore. Nel Vico que. sto
gran concetto della storia ideale ed eterna non si appoggia su di una
metafisica seria e profonda, anzi questo concetto è in assoluta
opposizione colla metafisica del Vico. E per vero, quanto a metafisica,
il Vici) non esce dalla posizione dello intendimento scolastico; e credo
anche non sia ingiustizia lo aggiungere che, se si paragona il
filosofo 1AV la tettar napoletano coi più grandi pensatori
della Scolastica, questo riscontro non può riuscirgli molto favorevole. Dal
che si può inferire, che il gran concetto della storia ideale ed
eterna, se da un lato e per ragion di scoperta è tutto proprio del Vico, dall’
altro poi e per ragion di natura, esso fa parte della dottrina del Bruno.
Imperocché, quantunque il Bruno non si sia innalzato alla contemplazione
del disegno ideale della storia, tuttavolta è nella metafisica del Bruno
e non in quella del Vico il fondamento e la possibilità di siffatta
contemplazione. Egli è vero che il merito del Vico non consiste soltanto nell’
avere ammessa una storia ideale ed eterna, e perciò nell’ avere
ricono- differisce essenzialmente da quella, che governa la natura. Nella
natura, dice Vico, è Dio che ope ra, mentre nella storia opera 1’ uomo, e
pure, operati lo lui, compie il disegno eterno della storia, effettua gli
eterni decreti della Provvidenza. Cosi l’uomo, in questa nuova posizione,
non è soltanto /’ infinito effetto della infinita causa, non è
semplicemente /’ eterna genitura dell’ eterno generante, ma è eziandio
qualche cosa di più. E in questa posizione soltanto è possibile la vera
filosofia compiuta, la vera contemplazione di Dio come Causa sui. Questo concetto
della Causa sui, cioè della Causa della Causa non c’ è_^_davvero nell'
assoluto Bruniano (come non c’ è neppure in quello di Spinoza),
quantunque sia appunto questo concetto quello, che travaglia incessantemente la
sua coscienza e quello stesso di cui fa uso, come mostrerò in appresso, nella
sua dbttrina della conoscenza e della libertà. Tutto ciò adunque
non si nega. Ma non si può negare però, d’ altra parte, che questa nuova e più
alta posizione, in cui ci colloca la dottrina del Vico, è resa possibile
soltanto dalla posizione Bruniana. Solo ammettendo l’Idea, come essenzialmente
manifestazione di sè medesima, si può e si deve arrivare, quandochessia, al
concetto di quella tale manifestazione, la quale esprimendo davvero V Idea, ed
essendo essa proprio quello stesso che è I Idea, e perciò rappresentando
non più una manifestazione esteriore, ma il ritorno dell’ Idea in sè medesima,
deve necessariamente essere governata da una legge affatto differente da
quella, che governa le manifestazioni esteriori, non effettuatrici esse stesse
del principio assoluto. Stando in vece alla posizione della
metafisica'del Vico, non solo non è possibile ammettere questa legge
fondamentale della storia, ma non si può neppure ammettere il concetto
generale di una storia ideale ed eterna. Passando ora al secondo aspetto
del principio che sto esponendo, cito in prima un breve tratto del
Bruno. Nel primo dialogo della Cena delle ceneri il Bruno si esprime
cosi: Noi « conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti numi, che son
quelle tante centinaia di migliaia eh’ assistono al ministerio e contemplazione
del primo, universale, infinito cd eterno efficiente. Non è più
imprigionata la nostra ragione con ceppi di fantastici mobili e
motori. Conoscemo che non è eh’ un cielo, una eterea regione
immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità
de la partecipazione de la perpetua vita. Questi fiammeggianti corpi sono
que’ ambasciatori che annunziano 1’ eccellenza de la gloria e maestà di
Dio. Cosi siamo promossi a scoprire V infinito effetto de
l’infinita causa, il vero e vivo vestigio dell’ infinito vigore, et
abbiamo dottrina di non cercare la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo
a presso, anfi di dentro, più che noi medesimi siamo dentro a noi
». Signori, questo principio della imma nenza di.Dio ne^Ja
natura e nello j>£Ìrito sorge la prima volta col Bruno nella storia
della filosofia. Fu Bruno il primo che si fece a cercare davvero la Divinità
nell’ infinito mondo e nelle infinite cose, e fece di questa ricerca la
esigenza fondamentale e lo scopo unico di tutto quanto il sapere
filosofico. « Di questa infinita presenza di Dio nell’ universo, dirò
colle belle parole del nostro più profondo pensatore vivente,
nessun filosofo ha discorso con tanto entusiasmo e convinzione, quanto Bruno.
La sua voce era come il primo grido di gioia della natura che ora
cominciava a scoprire sè stessa e a conoscersi n#l suo reale valore »
(i). Premesse queste poche cose, io posso ora determinare il
significato che ha nella filosofia Bruniana la dottrina dell unita dell
universo. Ciò facendo, resterà meglio dualità la importanza di quel poco
che ho esposto finora. Ma prima cito un breve tratto del nostro filosofo.
« Quando l’intelletto, dice Bruno, vuol comprendere la essenza di una
cosa, va semplificando quanto può; voglio dire, da la moltitudine si
ritira, rigettando gli accidenti corruttibili... Cosi la lunga scrittura e la
prolissa orazione non intendemo, se non per contrazione ad una semplice
intenzione. I.’ intelletto in questo dimostra apertamente come ne P unità
consiste la sostanza de le cose, la quale va cercando o in verità, o in
similitudine. Quindi è il grado de le intelligenze, perchè le inferiori non
possono intendere molte cose, se non con molte specie, similitudini e
forme; le superiori intendeno migliormente con poche; le altissime con SPAVENTA
(vedasi), Saggi di Critica] pochissime perfettamente; la prima intelligenza in
una idea perfettissimamente comprende il tutto... Cosi adunque, montando
noi a la perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine, come,
discendendosi a la produzione de le cose, si va esplicando l’unità.
Quindi è che « ogni cosa che prendemo nell’ universo, perchè ha in sè
tutto quello che è tulio per tutto, comprende in suo modo tutta l’anima
del mondo. E cosi non è stato vanamente detto, che Giove empie
tutte le cose, inabita tutte le parti dell’ universo ». È per questa
ragione che « quelli filosofi hanno ritrovato la sua amica Sofia, li quali
hanno ritrovato questa unità. Medesima cosa a fatto è la Sofia, la
verità, la unità » (i). La ragione di questo principio nella
filosofia del Bruno risulta già chiaramente da quel poco che ho detto fin
qui. Imperocché se Dio è immanente nella natura e nello spirito, egli è
manifesto che quel principio, che si attua nell’ uomo e che dà luogo a
tutte le forme del suo sviluppo, non può, considerato in sè, essere altra cosa
dal principio che pone la natura. Ammessa la dottrina della
immanenza, /’ arte interna del pensiero, per servirmi delle stesse parole
del Bruno, deve necessariamente appartenere (i) De la Causa,
Principio et Uno] allo stesso artefice- interno della natura; e quindi quel
principio, che forma i minerali, le piante, gli animali, deve essere
quello stesso principio, che pensa nell’uomo. Il che vuol dire che, se da
una parte tutte le forme della natura e dello spirito hanno una sostanzialità
loro propria, una loro natura specifica e diferenziale, dall’ altra cosi
le prime come le seconde non possono essere che gradi diversi della
stessa unità fondamentale del tutto, di quell unità della materia e della
forma, del reale e dell’ ideale, in cui consiste la radice di ogni
esistenza. Ed ò per tal modo soltanto che si può cessare l’assoluta
separazione di spirito e materia, di realtà consciente e di realtà
naturale, separazione che degrada tanto 1’ una che l’altra, e che
fa dello spirito qualcosa di astratto e d’inconcepibile, e della
natura un mondo senza vita, senza ragione e senza finalità.
Signori, per questa dottrina il Bruno è stato generalmente accusato di
panteismo; ed anche in questi ultimi anni la maggior parte di coloro, che
in Italia hanno trattato del Nolano, si son fatti a rinnovare questa vecchia
accusa, senza però investigare seriamente, e spogli di preconcetti, il vero
senso della dottrina Bruniana e il significato preciso della teoria
panteistica. Io qui, naturalmente, non posso far la critica di questa accusa.
Dirò soltanto alcune cose principali. E in primo luogo osservo che, anche
quando il Bruno non fosse altro che un semplice panteista, bisognerebbe
sapergli grado almeno per questo: voglio dire che bisognerebbe sapergli
grado perchè, dop o le astrattezze della Scolastica, egli avrebbe posto
almeno il principio della unità del mondo, e quindi ricollocata la
filosofia sul suo terreno naturale. Imperocché, si dica pure tutto quel
che si voglia, il principio su cui si fonda il panteismo, c che è l’unità
dell’infinito e del finito, dell’ideale e del reale, è quel principio, da
cui appunto comincia la filosofia, e senza di cui nessuna filosofia è
possibile. E per vero dal momento medesimo che comincia la speculazione
filosofica, e quindi la ricerca della essenza universale di tutti gli
esseri, comincia per ciò stesso una certa unificazione, o
identificazione, se così piace dire, di tutte le cose in un principio
unico ed assoluto. Questo principio adunque è come la prima lettera dell’
alfabeto del pensiero; e chi non ha pronunziato ancora questa lettera, chi,
cioè, non si è ancora innalzato a questo nesso universale in cui si
unifica e cielo e terra, e che è come il pernio, a cui si appunta tutto quanto
1’ universo, chi, dirò colla bella immagine dell’ Hegel, non si è ancora
bagnato in questo etere purissimo della unità del mondo, deve essere
ancora certamente assai lontano dall’ augusto santuario della coscienza
filosofica (i). Fino a questo punto adunque la dottrina panteistica,
anziché essere un sistema particolare di filosofia, é la filosofia stessa
nella sua più intima essenza. Onde è che, se una filosofia si differenzia
da un’ altra, questa differenza non può nascere dilli’ ammettere o non
ammet tere l’unità, ma soltanto dal modo diverso di concepirla e di
determinarla; imperocché, come ha già detto bellamente il Bruno, medesima cosa
affatto è la Sofia, la verità, P unità. La qual cosa è stata vista lucidamente
anche dal nostro acutissimo filosofo Roveretano, Rosmini. Il quale, pur
respingendo da sé ogni possibile accusa di panteismo, ha tuttavia
sostenuto anch’egli un principio unico universale, ed ha considerato
tutte le forme della realtà natur ale, della realtà upiana, e della
realtà di Dio come diversi modi di essere, come diverse
determinazioni del principio medesimo. Che se poi noi ci
facciamo a considerare la dottrina panteistica non più rispetto a quell’
idea fondamentale che Ile r- <K Wenn man
anfangt ni philosophiren, muss die Seele zuerst sich in diesem Aether der
Einen Substanz baden, in der Alles, was man fur wahr gehalten hat,
untergegangen ist; diese Negation alles Besondern, zu der jeder Philosoph
gekommen seyn muss, ist die Befreiung des Geistes und scine absolute
Grundlage.] in essa si contiene, e per cui il panteismo e la speculazione
filosofica in generale fanno tutt’uno, ma rispetto a quella
determinazione particolare della stessa idea, dalla quale solamente la
dottrina panteistica attinge il suo significato e 1’ essere proprio di sistema
speciale di filosofia, in tal caso non possiamo avere che due soli ed
opposti concetti di siffatto sistema. Imperocché, o il panteismo si concepisce
come identificazione dell’ infinito col finito nella sua immediatezza e
quindi come deificazione di tutte le cose, ovvero come risoluzione ed
annullamento di unte le differenze ideali dell’ universo nella vuota
identità della pura sostanza. Il primo concetto del panteismo, che è
appunto quello che hanno avuto in mente i nostri critici del Bruno, non
trova affatto qualsiasi riscontro nella filosofia del Nolano. Bruno non
ha mai confuso l’infinito col finito, non ha fatto mai 1’ apoteosi della
esistenza caduca e corruttibile delle cose, non ha mai deificato le
forme accidentali, esteriori e materiali, le quali per lui, come
per ogni vero filosofo, non sono cose, ma delle cose, non sono sostanze,
ma delle sostanze sono accidenti e circostanze. Bruno ha deificato soltanto /’
infinito mondo, la infinita natura, le infinite cose, ha deificato la
eterna genitura dello eterno generante; la qual dottrina non ha nulla
che fare col panteismo. Questa dottrina è in vece eminentemente
cristiana, anzi è la essenza stessa del cristianesimo; e la negazione di
questa dottrina non è solamente la negazione della vera filosofia, ma è la
negazione altresì di tutti i principii del sapere moderno, e della
possibilità stessa della scienza in generale. Ma c’è di più;
imperocché questa pretesa confusione dell’ infinito col finito non pure
non si trova affatto nella filosofia Bruniana, ma non ha nemmeno il suo
riscontro in qualsiasi sistema di filosofia. Tutta la storia della
filosofia, per quanto è lunga e larga, non ci presenta alcun sistema, in cui si
possa ravvisare questa strana confusione ; in quella guisa medesima che la
storia della religione non ci mostra nessun popolo, che abbia proprio
adorato il finito come finito. Lo stesso Bruno, parlando degli Egizi, dice a
questo riguardo, le seguenti memorabili parole: Non furono mai adorati
coccodrilli, galli, Diejenigen, welche irgend eine Philosophie fiiir
Pantheis mus ausgeben.. batteri. es vor Alleni aus nur als Faktum zu
konstatiren, dass irgend ein Philosoph oder irgend ein Mensch in
der That den Alien Dingen an und fur sich seiende Realitat, Substantialitat
zugeschrieben und sie fur Gott angesehen, dass irgend einem Menschen
solche Vorstellung in den Kopf gekommen sei ausser ihnen selbst allein.
Id. Encyklopàdie. Vedi anche: Aesthetik, Zweiter Theil.]cipolle e rape, ma la
Divinità in coccodrilli, galli, cipolle e rape ». E parlando dei Greci,
si esprime cosi: « I Greci non adoravano Giove come fosse la Divinità, ma
adoravano la Divinità come fosse in Giove; il che, come ognun vede, è
cosa assolutamente diversa. Quanto poi all’ altro concetto del panteismo, cioè
a quel concetto secondo il quale Dio non è altro che la semplice
unità astratta dell’ infinito e del finito, dell’ ideale c del reale,
egli è d’uopo riconoscere che una tal dottrina c’ è davvero nella storia della
filosofia. Forse non sarebbe difficile provare che questa dottrina,
considerata nella sua assoluta purezza non ha luogo, in una forma
veramente speculativa, che soltanto nella filosofia Parmenidea. Anche la
filosofia di Spinoza, quando la si intenda bene, non è poi addirittura
quel rigido panteismo che ordinariamente si crede. Ma, lasciando stare queste
riflessioni, il fatto è che nella filosofia Bruniana il princip io dell’
unità dell’ ideale e del reale, il concetto della identità non ha affatto
quello stesso significato, che ha nella dottrina panteistica pnra. Imperocché
nel puro panteismo questa unità esclude assolutamente ogni qualsiasi
determinazione, ogni differenza, e perciò è la negazione di tutto
(1) V. Spaccio della Bestia Trionfante, Dial.]quanto 1’universo
intelligibile, mentre, nella filosofia Bru% niana, questa unità si muove, si
distingue, si va specificando e, come dire, spezzando in tutte le forme della
natura e dello spirito. Ammettere questo dirompimento dell’unità
universale, guardare in tutte le cose un principio eterno ed immutabile
come forma vera e totale dell’ unità medesima, riconoscere in somma un
mondo infinito, tutto questo non è affatto panteismo; anzi è la critica
vera e positiva della dottrina panteistica. E tale è in fondo, considerata nel
suo spirito, la filosofia Bruniana. Il che è tanto vero che BRUNO è arrivato
fino a vedere cosa degna veramente della più alta ammirazione — che la
vera esigenza della filosofia, che il vero segreto dell’ arte, come egli dice,
consiste appunto, non già nel semplice innalzarsi all’ unità del mondo,
ma nel procedere dall’ unità stessa a tutte le forme differenziali ed
opposte, in cui essa si va esplicando, e in cui si manifesta la vita
tutta dell’ universo. Profonda magia, ha detto il Bruno, è trarre il
contrario, dopo aver trovato il punto dell’unione » (i). Se adunque, io
dico, L’ Hegel dopo di aver citato questo passo di Bruno: « Aber
den Punkt der Vereinigung zu finden, ist nicht das Gròsste; sondern aus
Demselben auch sein Entgegengesetztes zu entwickeln, dieses ist das
eigentliche und tiefste Geheiranis der Kunst » soggiunge enfaticamente: « Dicss
ist ein grosses Wort, die Entwickelung der Idee Bruno ha visto financo che
il segreto della filosofia sta nel tirare le differenze ideali dell’
universo dalla sua unità, o, in altri termini, nel contemplare 1’ atto proprio
del differenziarsi dell’ unità, quell’ atto, che, come egli dice, non
pure è potenza di tutto, ma è atto di tutto, come si può sostenere che la
sua filosofia sia panteismo ? Ha forse il Bruno inabissate, ha forse
estinte nell’ unità assoluta tutte le forme ideali dell’universo? E non è
vero in vece che la esigenza della sua dottrina si è appunto quella di
distinguere nell’ unità assoluta un mondo intelligibile, un universo infinito?
Ovvero si vuol sostenere che il Bruno è panteista sol perchè non ci ha
presentato, ai suoi tempi, in una forma veramente speculativa, tutto
questo suo u è niverso infinito? perchè, in altri termini, non
ci ha dato una filosofia della natura e una filosofia dello spirito
? Una simile pretesa non sarebbe certamente degna di una mente
sana. Ma altro è dir questo, anzi altro è anche aggiungere che la dottrina di
Bruno non è nemmeno un sistema nel senso vero della parola, altro è
affermare che so zu erkennen, dass sie eine Nothwendigkeit von
Bestimmungen ist ». Geschichte der Philosophie, Zweiter Tchil.] 1’
assoluto Bramano sia addirittura come la notte, in cui tutte le vacche
son nere. Ma io mi avveggo, o Signori, di essermi soverchiamente dilungato
su questo punto. Dirò dunque ora proprio di volo, prima di conchiudere,
pochissime parole sull’applicazione di questi primi principi più generali
della filosofia del Bruno alla teoria della conoscenza e della libertà.
Senza fare ciò non si può vedere la vera importanza di questa grande
filosofia. Bruno si può dire pant eista in un senso solo, cioè nel
senso che nella sua filosofia manca il concetto della vera ed assoluta
esistenza di Dio, manc^lconcettodiDio^conHSjjersonalità assoluta.
Il Dio di Bruno vive nell’ infinito universo, ma non ha una vita
sua propria come principio assoluto, non ha una sua realtà
distinta, nella quale si raccolga tutto il mondo intelligibile; inso mma
il Dio del m Bruno non è l’Idea come autocoscienza assoluta, e perciò non
è ancora realmente Dio=Dio. Tutto questo è vero. Ma siffatta
critica della dottrina Bruniana si può fare soltanto dal punto di vista
dell’Hegel, non già dal punto di vista de’nostri critici del Bruno. È
l’Hegel soltanto, che ha dritto di chiamare il Bruno panteista. La
spiegazione e la critica del Bruno, a me pare la seguente. Bruno^contempla Dio
come cosmogonia, come attivitàcosmogonica (ciclo di origine), ma non contempla
il cosmo come teogonia, come attività teogonica (ciclo di ritorno). Egli è vero
che non c’ è cosmogonia senza teogonia, come non c’ è intuito senza
riflessione; ma c’ è teogonia e [In ordine alla conoscenza il Bruno
insegna che la verità di essa non si ha e non si può avere
immediatamente, cioè nella sua forma originaria c primitiva, e finché
dura il carattere proprio della medesima. Il carattere di questo primo
grado della conoscenza si è quello di essere legata alla natura
esteriore, sensibile, accidentale, e quindi è la estrinsechczza del pensiero a
sè medesimo. Per potersi sciogliere da questi legami col mondo esteriore e
fenomenico, e giungere davvero a possedere sò stesso, lo spirito ha d
uopo o della fede o della scienza. Ma, nella fede, l’uomo non s’innalza
alla verità colle sole forze della ragione e in un modo assolutamente
libero: nella fede 1 uomo, fino ad un certo punto, accoglie in sè la
verità come vaso o recipiente, e perciò in guisa non corrispondente del
tutto teogonia, come c’è riflessione e riflessione. Ora il Bruno
non arriva al concetto di quella forma del cosmo che non è solamente una
certa teogonia, ma che è la vera ed effettiva teogonia; non arriva al concetto
del cosmo veramente teogonico; e perciò non arriva alla vera esistenza di Dio.
Dunque la personalità assoluta di Dio, in questa filosofia, è
impossibile. Ma d’ altra parte neppure è possibile arrivare a questa idea,
uscendo da Bruno assolutamente. È sulla via aperta dal Bruno che bisogna
camminare per raggiungerla. Chi vuole adunque questa idea, accetti il
Bruno, vada avanti, e la troverà. ] alla vera eccellenza della
propria natura. Nella scienza, al contrario, lo spirito si eleva alla
contemplazione della verità colla sola libera energia della sua mente, e
produce la coscienza di essa come vero artefice ed efficiente. Il
processo della contemplazione della verità consiste nel profondarsi nel
profondo della mente e nel circuire per i gradi della perfezione, cioè nel
percorrere col pensiero le diverse manifestazioni dell’ infinito vigore, e
perciò nell andare non già dal finito all’infinito, o viceversa, ma nell’andare
dall’infinito all’infinito. Lo scopo ultimo di siffatta contemplazione si è di
capire quell ' atto assolutissimo che t medesimo coll’ assolutissima
potenza, e di effettuare così la vera immanenza di Dio in noi colla virtù
stessa della nostra mente. In conformità di questo concetto
della conoscenza, Bruno determina il concetto della libertà nel modo che
segue. La verità e, la legge sono tutt’uno. Perciò, come VC/àU la verità
è intima allo spirito umano, cosi anche la legge è intima all’umana
volontà. Questa adunque non si può considerare come una facoltà vuota ed
indeterminata. D altra parte, nella guisa medesima che la verità non è
posseduta dallo spirito originariamente c senza la sua stessa attività,
così anche la volontà non è oggettivamente libera, e quindi non è vera ed
assoluta volontà, finché non si ò elevata alla legge ed alla verità. La
verità adunqne è il fondamento ed il contenuto della libertà. Fuori della
verità, fuori della legge la vera libertà non è possibile. Per tal modo
la libertà non è arbitrio, ma è necessità. Questa necessità però non è esterna,
non è fatalità, ma appunto perchè s’immedesima colla stessa verità, è necessità
interna e razionale. M. non ha bisogno di fermarsi sulla importanza
pratica di questo concetto bruniano della libertà. Senza che il dica,
ognun vede come in questo concetto si acchiuda ad un tempo la critica
della falsa libertà, e della falsa autorità, e come sia appunto in questo
concetto che sta il fondamento della nuova vita sociale e il principio
animatore di tutta la civiltà moderna. A me qui spetta soltanto di
chiarire brevemente il valore speculativo di queste applicazioni dei
principi metafisici del Bruno, e di mostrare come in queste applicazioni
si possa scorgere il germe di una più alta filosofia. Ebbene egli è
facile vedere che queste idee di Bruno, relativamente alla conoscenza ed alla
libertà, più che semplici applicazioni del suo principio metafisico, sono
in vece delle conseguenze, che hanno una portata di gran lunga
superiore allo stesso principio. Bruno in queste applicazioni supera
davvero sè stesso, egli va al di là dello jtesso suo punto di partenza. E
per vero il punto di partenza del Brudo è Dio come semplice atto creativo,
Dio come semplice creare, e perciò come generare ; e quindi l’universo Bruniano
è si la infinita, la eterna creatura o genitura di Dio, ma non è
altro che la eterna, la infinita creatura o genitura di Lui. Intanto il
concetto Bruniano della libertà e della conoscenza ci presenta una vera
reazione sullo stesso principio assoluto: esso importa un’ attività
superiore al semplice creare, importa un’ attività, che non è mera
estrinsecazione del principio eterno delle cose, ma ò una effettuazione
vera del principio medesimo, come atto dello stessa creatura fi'). GIOBERTI
(vedasi) ha detto ai giorni nostri, in un momento di profondo intuito
filosofico, che l’uomo rende a Dio la pariglia; anzi egli ha detto anche in
generale che l’atto creativo è essenzialmente atto teogonico. Ora questo
rendere a Dio la pariglia, questa forma di atto creativo, che è nel medesimo
tempo atto teogonico, è appunto O meglio: come atto di Dio stesso, ma in
quanto creatura. Col linguaggio della religione si direbbe: come atto
dello stesso Padre, ma m quanto Figlio. Si sa poi che questo atto del
Padre, che è atto di lui in quanto Figlio, è quello che là la verità del
Figlio e la verità del Padre ; e che questo atto è appunto lo Spirito: la
vera Ferità. quella idea, che noi non possiamo ravvisare nel
principio metafisico del Bruno, ma che però troviamo adoperata nella
sua dottrina della conoscenza e della libertà. Si può adunque affermare
che, nella filosofia del Bruno, le conseguenze contengono più delle premesse;
ma siffatta contraddizione anziché menomare il merito del nostro filosofo, è
appunto quella, se io non mi sbaglio, in cui si rivela la più alta potenza
della sua speculazione. Nè varrebbe il dire che il Bruno non finisce come
comincia; imperocché il Bruno, ha cominciato bene, come era possibile ai
suoi tempi, ed ha finito molto meglio. E se tra il Principio ed il Fine, tra 1’origine
ed il Intorno la sua filosofia non pone quell’ accordo, in cui consiste
la vera Idea, di ciò non si può fare un’accusa al nostro grande
pensatore, stante che un tale accordo è il risultato di tutta quanta
la speculazione moderna; e perciò non si può pretendere dalla filosofia
del Bruno. Nè si può pretendere dal Bruno la coscienza della
contraddizione, che corre tra il suo principio metafisico e la sua dottrina
della conoscenza e della libertà, perchè una tal coscienza non poteva
sorgere nella storia, se prima i due estremi, cioè il Principio ed il
Fine, 1’ Origine ed il PJtorno, non avessero spiegato separata-
mente tutto il loro valore e non si fossero presentati dinanzi al pensiero
speculativo come le due somme ed opposte potenze (Teli* universo, 1’ una
predominante nel mondo della natura, 1’altra in quello dello spirito. La
filosofia cartesiana rivelò il potere del Trincipio, la filosofia
Kantiana (precorsa solo da Vico) mise in evidemza l’attività indi-
pendente ed assoluta del Fine, e fu perciò solamente la posteriore
filosofia tedesca quella, che potè innalzarsi alla contemplazione del
Principio-Fine, dell’ Origine-Ritorno, e porre cosi un nuovo e più alto
concetto di Dio, il concetto di Dio come sviluppo, come Spirito, e quindi
una nuova filosofia: la filosofia dello Spirito. Raccogliendo adesso le
fila del mio ragionamento, io posso conchiudere così. La
filosofia del Bruno ha riabilitata e {ligni ficat a la e l ia restituito il suo
vero valore, 1’ ha innalzata a manifestazione reale e vivente di Dio; dunque
il primo ardente desiderato del pensiero scolastico, in questa filosofia,
è soddisfatto. Ma c’ è di più; imperocché il Bruno, avendo concepito Dio come
immaii ^q^ nella coscienza umana in lorza dell’ attività stess^ai^ essa,
ha posto in questo concetto la possibilità di quella intelligenza
superiore, che formava la seconda e più alta aspirazione dei grandi
pensatori della Scolastica, e la cui attuazione non poteva essere che il
risultato finale di tutta quanta la filosofia moderna. Sebastiano Maturi.
Maturi. Keywords: implicature, Bruno, Vico, Aquino, Spaventa, I duellisti, l'io
e l’altro – riconoscimento, la dialettica del signore e del servo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Maturi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Maturi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia campanese -- filosofia
napoletana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “People
sometimes asks me how my intentionalist approach can be applied to history. I
always respond: Read Maturi!” Grice: “Maturi’s ‘Interpretazioni,’ thus in
plural, ‘del risorgimento’ is a classic --.” Grice:: “Even in London, the
risorgimento had at least two interpretations! One in Woolwich, and another one
elsewhere! And there is possibly a gender distinction too with “Speranza,”
Wilde’s mother, being somewhat fanatic about it!” – Compe la sua formazione
culturale a Napoli dove si laurea con SCHIPA, uno dei firmatari del manifesto
degli intellettuali antifascisti redatto da CROCE. Del suo maestro, per la lezione di rigore che gli
aveva impartito, Maturi conservò un commosso ricordo ed ebbe modo di esprimere
pubblicamente la sua gratitudine in occasione della morte di Schipa,
pronunciandone il necrologio. Seguì con attenzione ed interesse, ma anche con
spirito critico, le lezioni di Croce conseguendo una laurea in filosofia con Gentile
con una tesi su Maistre. Impostato sulla lezione crociana è il saggio “La
crisi della storiografia politica italiana” a cui seguì quello dedicato a Gli
studi di storia moderna e contemporanea, inserito nel primo dei due volumi dell'opera
del “La vita intellettuale italiana.” Il suo primo lavoro Il concordato tra la
Santa Sede e le Due Sicilie pubblicato fu giudicato positivamente dalla critica
s di Omodeo che lo recensì ne La Critica. Frequenta la Scuola storica per l'età
moderna e contemporanea diretta da Volpe e fu segretario e bibliotecario
dell'Istituto storico per l'età moderna e contemporanea. Collaboratore
dell'Enciclopedia italiana per la quale scrisse numerose voci tra le quali
quella dedicata al "Risorgimento" ispirata alle sue idee
liberali. A causa di questo episodio, nonostante il suo disinteresse per la
vita politica attiva, fu allontanato dall'Istituto storico per l'età moderna e
contemporanea. Nei suoi saggi di storia politica i suoi punti di
riferimento sono Croce, Meinecke, Salvemini, e Volpe. Dapprima come incaricato
di storia del ri-sorgimento e poi come ordinario tenne le sue lezioni a Pisa
dove ha modo di scrivere numerosi saggi come alcune importanti voci nel
Dizionario di politica a cura del Partito nazionale fascista, il saggio Partiti
politici e correnti di pensiero nel Risorgimento, e l'accurata biografia Il
principe di Canosa. I corsi di storia della storiografia tenuti a Pisa furono
continuati a Torino quando ha la cattedra di Storia del Risorgimento e quella
di Storia delle dottrine politiche che occupa sino alla sua inaspettata
scomparsa. Le sue lezioni di quest'ultimo periodo furono raccolte
nell'opera postuma Interpretazioni del Risorgimento considerata di primaria
importanza dagli storici. Saggi: “Interpretazioni del Risorgimento, coll.
Biblioteca di cultura storica Einaudi,'Enciclopedia italiana, Accademia delle
scienze di Torino, In memoria, Istituto per la storia del Risorgimento
italiano, Roma 1Interpretazioni storiografiche del Risorgimento. Dizionario di
storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Walter Maturi. Maturi. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Maturi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Maurizi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della vendetta di Bacco –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like Maurizi; of course his
‘vendetta di Bacco’ makes sense only in the context of Nietzsche’s rather
recherché dichotomy!” – Grice: “His idea of the ‘suspected ‘I’’ is good, but he
is not, as I was, having in mind Reid, but Freud!” Si è laureato in filosofia della storia presso
l'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" e ha conseguito il
dottorato di ricerca nella medesima università discutendo una tesi su Cusano e
il concetto di non altro da cui è nato il volume La nostalgia del totalmente
non altro. Cusano e la genesi della modernità (Rubbettino). Dopo un periodo di
formazione in Germania attualmente svolge la sua attività di ricerca presso
l'Università degli Studi di Bergamo. Pubblica le sue ricerche su alcune
prestigiose riviste come la Rivista di filosofia neo-scolastica, il Journal of
Critical Animal Studies, Dialegesthai, Alfabeta, Lettera Internazionale, e
collaborando, inoltre, con i quotidiani Liberazione e L'Osservatore Romano. Partecipa
alla stesura del secondo volume di L'Altronovecento. Comunismo eretico e
pensiero critico (Jaca) ed è il traduttore e curatore dell'edizione italiana di
Lukács, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, Alegre, Roma di
Acampora, Fenomenologia della Compassione, Sonda, Casale Monferrato,, e ha
tradotto, con Dalmasso, Derrida, Teoria
e prassi. Corso dell'École Normale Supérieure Jaca, Milano,. Ha contribuito
alla fondazione delle riviste scientifiche "Liberazioni" e Animal
Studies. Rivista italiana di antispecismo. Pensiero Maurizi ha suddiviso
i suoi interessi di ricerca tra la filosofia dialettica (Cusano, Hegel, Marx,
Adorno), la teoria critica della società e le implicazioni politiche di una
visione "sociale" dell'antispecismo a partire da una rielaborazione
del pensiero della scuola di Francoforte. Tanto le sue ricerche su Adorno,
quanto quelle su Cusano si incentrano sul tentativo di porre in evidenza il
tema della storicità dell'umano non in termini di un astratto e formale
"essere-nel-tempo", quanto più propriamente nel vedere nell'essere
storico, in tutta la sua determinatezza, l'irriducibile istanza di verità
dell'umano stesso: l'essere storico è in tal senso irriducibile ad ogni
ontologia dell'essere temporale seppure ciò non porti necessariamente ad un
relativismo storicista. Prendendo spunto dalla lettura critico-negativa di
Hegel portata avanti da Adorno, infatti, M. sostiene la leggibilità e
razionalità della storia come segno del dominio, l'universale storico non come
traccia di un positivo che si farebbe strada attraverso il negativo delle
vicende umane, bensì come questo stesso negativo che informa di sé la civiltà,
imprimendo ad essa la direttrice di un progresso della razionalità strumentale
che è l'antitesi della redenzione. La sua rilettura del pensiero della
filosofia di Francoforte ha così costituito un punto di partenza per una
ridefinizione dell'opposizione natura/cultura e lo ha portato ad estendere la
critica ai meccanismi di dominio anche al controllo e allo sfruttamento del non
umano, e più in generale della Natura. Il suo pensiero riguardo alla filosofia
antispecista è in continuità con quello espresso dal sociologo David Nibert ed
in netta opposizione all'utilitarismo di Peter Singer criticato da M. come un
antispecista metafisico. Un punto centrale nell'argomentazione filosofica di M.,
che rende originale il suo lavoro rispetto a quello degli altri teorici dei
diritti animali, riguarda l'interpretazione in termini storico-sociali dello
specismo. Ogni attività intellettuale «antispecista», secondo Maurizi, consiste
quindi essenzialmente nel fare propria questa scelta di campo: sottolineare
come la questione animale sia un aspetto irrinunciabile di ogni ipotesi di
trasformazione dell'esistente. Secondo Maurizi l'antispecismo è dunque
essenzialmente politico e non possiamo
affrontare, come fanno Peter Singer o Tom Regan, la questione animale da una
prospettiva astrattamente morale. All'attività di filosofo, Maurizi ha così
affiancato quella di attivista per i diritti animali, intrecciando l'attività
speculativa con quella politica; risultato di questa attività è il libro Al di
là della Natura: gli animali, il capitale e la libertà (Novalogos, ). M. è
stato inoltre fondatore delle riviste di critica antispecista Liberazioni e
Animal Studies, della rivista online Asinus Novus che prende il nome dal suo
breve testo Asinus Novus: lettere dal carcere dell'umanità (Ortica, ). Nel l'associazione Per Animalia Veritas raccoglie
alcuni suoi scritti che rappresentano un sunto aggiornato del suo pensiero
sulla filosofia antispecista: Cos'è l'antispecismo politico (Per Animalia
Veritas, ). Sulla scia delle riflessioni adorniane, Maurizi ha anche lavorato
sulla filosofia della musica e la teoria critica musicale. Le sue teorie
sull'antispecismo politico sono abbondantemente discusse nel libro di Lorenzo
Guadagnucci Restiamo Animali: vivere vegan è una questione di giustizia (Terre
di Mezzo, ), da Matthias Rude Antispeziesismus. Die Befreiung von Mensch und
Tier in der Tierrechtsbewegung und der Linken (Schmetterling, Stuttgart ) e
altri autori della scena antispecista di lingua tedesca. Saggi: “Il tempo del
non-identico,” Jaca); “La nostalgia del totalmente non altro” – La genesi della
modernità, Rubettino, “Al di là della natura: gli animali, il capitale e la
libertà,” Novalogos, “Asinus Novus: lettere dal carcere dell'umanità,” Ortica,
“Cos'è l'anti-specismo?” Per animalia veritas, “L'io sospeso: l'immaginario tra
psicanalisi e sociologia, Jaca, Grice: “This reminds me of my fantasies on ‘I’
– “The suspected I’ is a genial phrase!” -- “Chimere e passaggi” Mimesis, “Altra
specie di politica, Mimesis, “Musica per il pensiero. Filosofia del
progressive” -- Mincione, “La vendetta di Dioniso” -- la musica contemporanea da Schönberg ai
Nirvana, Jaca, “Quanto lucente la tua in-esistenza” --- L'Ottobre, il
Sessantotto e il socialismo che viene, Jaca. Intervento di M. su questi temi
per la Casa della Cultura di Milano: youtube.com/watch?v= ZNfJrRx-7fo Intervista su questo tema a cura del
collettivo Tierrechtsgruppe Zürich (Zurigo) M. La genesi dell'ideologia specista
in Liberazioni:/ M. Per una cultura antispecista in Asinus Novus: rivista di
antispecismo e filosofia: Copia archiviata, su asinusnovus.wordpress. com. Intervento
M. per il primo convegno nazionale antispecista: youtube.com/watch?v= JwZiW4ngrag Intervista a M. e Caffo sulle nuove
prospettive dell'animalismo: youtube Testo recensito da L. Pigliucci per la
rivista "Lo Straniero" di Aprile: Copia archiviata, su asinusnovus. wordpress
Intervista di F. Pullia sul quotidiano "Notizie Radicali" Una
recensione del testo: Copia archiviata, su asinusnovus.wordpress B. Le GocM. M.,
Musica per il pensiero. Filosofia del progressive italiano, Mincione, Roma. Antispecismo Diritti degli animali Scuola di
Francoforte. Asinus Novus. Antispecismo e Filosofia, su asinusnovus.net. Animal
Studies. Rivista Italiana di Antispecismo, su rivistaanimal studies. wordpress.
Marco Maurizi. Maurizi. Keywords: la vendetta di Bacco -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Maurizi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Mazio: la ragione conversazionale all’orto romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Friend of GIULIO (si veda) Cesare and Cicerone. He writes on food and trees
and takes an interest in the philosophy of the Garden. Gaio Mazio.
Luigi Speranza -- Grice e Mazzarella: l’implicatura
conversazionale – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Mazzarella’s
‘necessary word’ – not precisely what I was thinking when philosophising about
conversation, but for Mazzarella, the conversational motivation is to HELP in
the most authentic fashion – Compared to his ‘parola necessaria,’ my principle
of conversational helpfulness, while based in part in the desideratum of
conversational benevolence, looks pretty lame!” -- Grice: “I like Mazzarella.
The fuss he makes in translating Heidegger, whom I have elsewhere called ‘the
greatest living philosopher’ – he was living then –.” Grice: “Mazzarella, who
is relying on somebody else’s translation, is especially focused on Heidegger’s
Latinate ‘fakt.’ From ‘Fakt,’ Heidegger gets an abstract noun. But he also uses
the Germanic for ‘deed.’ Relying on the cognateness of ‘fakt’ with ‘fatto’ –
cognate itself with ‘effetto,’ Mazarella agrees that the translation goes from
‘factivity’ to ‘effectivity.’ And it should inspire all philosophers into
seeing how similar these two concepts are – if indeed two concepts they are, seeing
that they come from the same Roman root! But
M. would know that – you wouldn’t!” – Professore
a Napoli, è tra i principali interpreti
di Heidegger. Deputato al Parlamento nella XVI Legislatura per il Partito
Democratico. Dopo essersi laureato
presso l'Università degli Studi di Napoli “Federico II” con Masullo, inizia la
sua attività di ricerca come borsista DAAD in Germania, e successivamente
presso l'Salerno. In seguito è professore incaricato di Estetica presso
l'Università dell'Aquila. Dopo essere stato professore associato di Filosofia
Teoretica presso l'Catania e di Filosofia della storia presso l'Napoli
“Federico II”, diventa professore straordinario di Storia della filosofia
presso la Facoltà di Magistero dell'Salerno e dal 1993 Professore di Filosofia
Teoretica presso l'Napoli “Federico II”. Dirige il Dottorato di Ricerca in
“Scienze Filosofiche” dell'Napoli “Federico II” e cura la programmazione e le
relazioni internazionali per la Facoltà di Lettere e Filosofia, di cui è
Preside. Deputato del Parlamento italiano, divenendo componente della VII
Commissione Cultura della Camera. Opere
In una delle sue opere principali, Tecnica e Metafisica. Saggio su Heidegger,
Mazzarella indaga i processi decostruttivo-ermeneutici sottintesi
all'heideggeriana storia della metafisica occidentale, fino a formulare
un'ipotesi "ecologica"(in senso originario, come pensiero relativo
all'abitare dell'uomo) relativa alle interpretazioni del "logos"
eracliteo e della categoria aristotelica della "physis" riscontrate nei
saggi successivi alla cosiddetta "svolta" del pensiero di
Heidegger. In Vie d'uscita. L'identità
umana come programma stazionario metafisico, le aporie di una metafisica del
fondamento sono affiancate alla dimensione tecnica della contemporaneità,
intesa storicisticamente come epoca del compimento del nichilismo. Centrale
diventa l'idea di un "essere-alla-vita", categoria che richiama in
modo lampante l'"essere-nel-mondo" di heideggeriana memoria; le
questioni teoretiche vengono così ridotte a questioni etiche riguardanti
un'ontologia minima, ove la filosofia prima si trasformi in filosofia seconda,
lasciando il posto ad un programma metafisico-antropologico di custodia e
mantenimento della e nella propria epoca. L'essere-alla-vita necessita di
intendere la cultura come “endiadi di natura e storia, ma in questa endiadi
natura prima ancora che storia”. Pensare
e credere. Tre scritti cristiani rappresenta un altro orizzonte del pensiero di
M.; il rapporto tra religione rivelata e filosofia si gioca sullo sfondo di una
prospettiva storicista di matrice diltheyana, sebbene non siano esenti dalla
riflessione Hegel, Schelling e la teologia dialettica contemporanea.
Interessante è la prospettiva di una religione come "integrazione" e
apertura all'amore fraterno, configurato nel concetto di
"agape". I suoi scritti sono
in ogni caso contrassegnati, com'è tipico della recente scuola di pensiero
napoletana, sorta sulla scia delle dottrine di Croce, da una ripresa di temi
propri dello storicismo (Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della
vita). In un dialogo costante con i
teologi più liberali e moderni, quale ad es. Forte, M. si è occupato
specificamente dei temi della bioetica, coniugando il tema della tutela della
vita alla ripresa del concetto di sacralità (Sacralità e vita). In Opera media ha inoltre messo in luce un
talento poetico non indifferente, che gli è valso l'apprezzamento della critica
e diversi riconoscimenti. Ha composto quattro raccolte di poesie, e pubblicato
singoli componimenti in diverse antologie.Finalista al Premio di poesia “Città
di Vita”, Firenze, e nel 1999 ha vinto il Premio Speciale “La finestra” al
Premio Nazionale di poesia “Alessandro Tanzi” perUn mondo ordinato. Saggi: “Tecnica e metafisica” -- saggio su Heidegger
(Guida, Napoli); “Nietzsche e la storia: ontologia della vita” (Guida, Napoli);
“Storia metafisica ontologia” -- Per una storia della metafisica” (Morano,
Napoli, -- Grice: “What Mazzarella is proposing is what I did for the BBC: a
history of metaphysics; philosophical tutees are too accustomed to ‘history of
philosophy,’ but surely each branch requires a separate history! “storia della
metafisica” does just that!” – “storia della semantica” hardly sounds as sexy,
and “storia della pragmatica” sounds repugnantly academese!” -- “Ermeneutica dell'effettività” -- Prospettive
ontiche dell'ontologia” (Guida, Napoli, -- Grice: “Note that Mazzarella is
exploring the ‘effectivity,’ not the ‘affectivity’ – ex-fecto, not ad-fecto – “Filosofia
e teo-logia” -- di fronte a Cristo (Cronopio,
Napoli); “Sacralità” -- e vita, Quale etica per la bio-etica? (Guida, Napoli); Heidegger
oggi, M., Mulino, Bologna, “Pensare e credere” Morcelliana, Brescia, “Vie
d'uscita. L'identità umana come programma stazionario metafisico” (Melangolo,
Genova); Opera media. Poesie, Melangolo, Genova, Lirica e filosofia,
Morcelliana, Brescia, Vita Politica Valori. Sensibilità individuali e sentire
comunitario, Guida, Napoli, “Anima madre,” Art studio Paparo, Napoli, “L'uomo
che deve rimanere,” Quodlibet, Macerata,. S. Venezia, Nota bio-bibliografica,
in Amato, Catena, Russo, L'ethos teoretico. Scritti in onore di M., Napoli,
Guida, Archivio degli articoli di
Eugenio Mazzarella nel sito "ilsussidario.net". Curriculum vitae,
pubblicazioni e attività di ricerca nel sito dell'Università degli Studi di
Napoli Federico II, su docenti.unina. Grice: “The fact that he calls himself a
Christian has me calling him a NON-PHILOSOPHER!” – Eugenio Mazzarella. Mazzarella.
Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mazzarellla” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Mazzei: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia toscana – filosofia
fiorentina -- -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Poggio a Caiano). Filosofo
italiano. Poggio, Toscana. Grice: “Not every philosopher has a city, ‘Colle,’
named after him!” -- Grice: “I like Mazzei; he is hardly a philosopher, but the
Italians consider among the ‘filosofi italiani,’ – there is a good wine,
“Mazzei,” since Mazzei, when travelling to the Americas, transplanted a grape
from his paese – the descendants still grow it! In oltre, he was influential in the
‘risorgimento’!” -- essential Italian philosopher.Massone e cadetto di una nobile famiglia toscana di
viticoltori, probabilmente risalente all'XI secolo e ancora esistente nel XXI
secolo, fu personaggio energico ed eclettico, illuminista, promulgatore delle
libertà individuali, dei diritti civili e della tolleranza religiosa. Visse una
vita avventurosa e movimentata, con alterne fortune economiche. Sebbene
sia sconosciuto al grande pubblico, partecipò attivamente alla guerra
d'indipendenza americana come agente mediatore all'acquisto di armi per la
Virginia, ed è ritenuto dagli storici uno dei padri della Dichiarazione
d'Indipendenza americana, in quanto intimo amico dei primi cinque presidenti
statunitensi: George Washington, John Adams, James Madison, James Monroe e
soprattutto Thomas Jefferson, di cui fu ispiratore, vicino di casa, socio in
affari e con cui rimase in contatto epistolare fino alla morte. Iniziato
alla Massoneria, fu poi spettatore privilegiato della rivoluzione
francese. La sua figura storica è riemersa alla fine Professoregrazie
all'infittirsi degli studi accademici in occasione del bicentenario della
rivoluzione americana, fino ad essere onorato in occasione del 250º
anniversario della sua nascita nel 1980 con un'emissione filatelica congiunta
speciale delle poste italiane e statunitensi. Dopo gli studi
compiuti tra Prato e Firenze, nel 1752, in seguito a dissapori con il fratello
maggiore Jacopo sulla gestione del patrimonio familiare, si stabilì a Pisa e
poi a Livorno, intraprendendo con successo l'attività di medico. Dopo solo due
anni lasciò la città e si trasferì a Smirne (Turchia) come chirurgo a seguito di
un medico locale. Gunse a Londra dove, dopo un iniziale periodo irto di
difficoltà economiche che lo vide arrangiarsi con l'insegnamento dell'italiano,
riuscì nel corso dei tre lustri successivi ad arricchirsi con il commercio dei
prodotti mediterranei, principalmente del vino, inserendosi lentamente nei
salotti dell'alta borghesia londinese. Una breve parentesi italiana si
concluse con un precipitoso ritorno in Inghilterra, a seguito di una denuncia
al tribunale dell’Inquisizione per “importazione di libri proibiti”. L'illuminismo
e le idee di libertà religiosa che animavano il Mazzei, ben tollerate nella
Londra di fine XVIII secolo, erano ancora tabù nella realtà italiana. La
Rivoluzione americana In questi circoli londinesi Filippo M. conobbe Franklin e
Adams, che da lì a pochi anni sarebbero stati tra i protagonisti della
rivoluzione americana. Le colonie americane si autogovernavano, perlomeno
sulle questioni locali, tramite assemblee di delegati liberamente eletti dai
capifamiglia, e l'ordinamento giuridico era ispirato al meglio della
legislazione inglese, che pure in quegli anni era probabilmente la più
avanzata, garantista e liberale che esistesse. Invitato dagli amici
d'oltreoceano, spinto sia dalla curiosità dell'inedita forma di governo, ma soprattutto
dalla disponibilità di terre e quindi dalla prospettiva di impiantare nel nuovo
mondo coltivazioni mediterranee, Mazzei si trasferì in Virginia, con al seguito
un gruppo di agricoltori toscani. A lui si unirono anche una vedova Maria
Martin, che egli sposò, e l'amico Bellini che sarebbe divenuto il primo
insegnante di italiano in un'università americana, il College of William and
Mary in Virginia. Inizialmente diretto in altro sito, Mazzei si fermò
presso la tenuta di Monticello per incontrare Jefferson, con il quale già
intratteneva rapporti epistolari e vantava amicizie comuni, e fu da lui
convinto a trattenersi in loco, arrivando a cedere circa 0,75 km² della sua
tenuta in favore dell'italiano. Da questa cessione nacque la tenuta di Colle
(il nome deriva da Colle di Val d'Elsa, perché il Mazzei aveva preso ad esempio
la campagna attorno alla città toscana), successivamente ampliata. Lo univa a
Jefferson un sodalizio commerciale, con il primo impianto di una vigna nella
colonia della Virginia, ma soprattutto un sodalizio intellettuale, frutto di
una comune visione politica e di ideali condivisi, che si sarebbe protratto per
oltre 40 anni. Il livello delle frequentazioni americane trascinò
velocemente Mazzei, arrivato con mere intenzioni imprenditoriali, nella vita
politica della ribollente colonia della Virginia. Fu autore di veementi libelli
contro l'opprimente dominazione inglese, inneggianti alla libertà ed
all'uguaglianza. Alcuni di questi scritti furono tradotti in inglese dallo
stesso Jefferson, che rimase influenzato da tali ideali, tanto da ritrovare
successivamente alcune frasi di Mazzei trasposte nella Dichiarazione
d'indipendenza degli Stati Uniti d'America. Eletto speaker dell'assemblea
parrocchiale dopo solo sei mesi dal suo arrivo in Virginia, ebbe modo di
esporre le sue idee sulla libertà religiosa e politica a un vasto oratorio,
composto anche di persone umili e ignoranti, che lo ascoltavano assorte. Un suo
scritto, Instructions of the Freeholders of Albemarle County to their Delegates
in Convention, redatto come istruzioni per i delegati della contea di Albemarle
alla convenzione autoconvocatasi dopo lo scioglimento forzato dell'assemblea
della Virginia imposto dal governatore inglese, fu utilizzato da Jefferson come
bozza per il primo tentativo di scrittura della costituzione dello Stato della
Virginia. La sua affermazione politica seguiva di pari passo i rovesci
economici, perché il clima e il terreno della Virginia non si erano dimostrati
particolarmente graditi a vite e olivo, e nel 1774 un'eccezionale gelata aveva
distrutto buona parte delle stentate coltivazioni impiantate con tanta
fatica. Naturalizzato cittadino della Virginia, volontario delle prime
ore nella guerra d'indipendenza americana, e inviato in Europa da Jefferson e
Madison per cercare prestiti, acquistareo meglio, contrabbandarearmi e ottenere
informazioni politiche e militari utili alla nascente nazione. In questo
periodo scrisse articoli, fece interventi pubblici e cercò di avviare rapporti
commerciali e politici tra gli Stati europei e la Virginia. Per tali servizi fu
ufficialmente retribuito dallo Stato dell Virginia. Rientrato in Virginia,
con suo grande disappunto non fu nominato console. Ricevette I'incarico di
amministratore della contea di Albemarle, ma solo due anni dopo nel 1785 lasciò
per l'ultima volta il suolo americano, mantenendo comunque contatti epistolari
con molti di quelli che sono definiti “padri della patria” statunitensi e in
particolare con Jefferson, che ebbe modo di reincontrare successivamente a Parigi.
Sua moglie rimase fino alla sua morte alla tenuta del Colle, che Mazzei aveva
donato alla figliastra, Margherita Maria Martini e al di lei marito, il
francese Plumard, Comte De Rieux. La Rivoluzione francese e le vicende
europee Targa a Pisa, sulla casa in cui morì/ A Parigi pubblicò una
voluminosa opera in quattro volumi Recherches historiques et politiques sur les
États-Unis de l'Amérique Septentrionale. Si trattava della prima storia della
rivoluzione americana pubblicata in francese. L'opera è tuttora una preziosa
fonte di informazioni sul movimento che innescò la rivoluzione americana.
Il successo del libro e la notorietà delle sue idee, uniti alla costante
attività di propaganda a favore dei neonati Stati Uniti d'America, lo fece
venire in contatto con re Stanislao Augusto di Polonia, illuminato sovrano
liberale, di cui divenne prima consigliere e poi rappresentante a Parigi.
Da questa posizione privilegiata poté seguire la rivoluzione francese, di cui
condannò la deriva giacobina. Preso atto della rovina economica, nel 1791 si
trasferì a Varsavia, assumendo la cittadinanza polacca e contribuendo alla
stesura della costituzione. Dopo un anno passato a Varsavia, a seguito
della spartizione della Polonia nel 1792 rientrò definitivamente in Toscana,
stabilendosi a Pisa. Lì sposa Antonina Tonini, da cui ebbe una figlia,
Elisabetta. E testimone dell'arrivo delle truppe repubblicane francesi a Pisa e
poi della loro cacciata, e fu coinvolto pur senza danni nei successivi processi
intentati dal bargello ai liberali pisani che si riunivano durante la breve
occupazione al Caffè dell'Ussero sul lungarno. Ultimi anni M. visse
quietamente altri 17 anni, dedicandosi ai propri studi di orticoltura e
limitandosi a frequentare una ristretta cerchia di salotti praticati da giovani
liberali, di cui era ispiratore. In conseguenza del dissolvimento della Polonia
operata da Russia e Prussia nel 1795, lo zar Alessandro I si accollò i debiti
della corte polacca e Mazzei poté fruire di un vitalizio. M. rimase sempre nostalgico
della Virginia e dei suoi amici americani, che ne auspicavano il ritorno e con
i quali mai interruppe il contatto epistolare. Nonostante i ripetuti progetti
di un viaggio in America, Mazzei non fu mai capace di affrontare questa nuova
avventura. Ebbe modo di assistere all'ascesa e alla caduta di Napoleone
Bonaparte e scrisse le proprie memorie, pubblicate nel 1848, oltre trent'anni
dopo la sua morte a Pisa. Saggi: “Stanislao
Re di Polonia” (Roma: Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea);
“Ricerche storiche sull’America” (Firenze,
Ponte alle Grazie); “Memorie” Gino Capponi, Lugano, Tip. della Svizzera
Italiana); “Del commercio della seta fatto in Inghilterra dalla Compagnia delle
Indie Orientali” S. Gelli, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano); “Le
istruzioni per i delegati alla convenzione” (Firenze, Morgana); “Opere di suor
Margherita Marchione “Scelta di scritti e lettere,”“Agente di Virginia durante
la rivoluzione americana” “Agente del Re di Polonia durante la Rivoluzione
Francese”“La vita avventurosa di M,” Cassa di Risparmi e Depositi, Prato. Marchione
Margherita: La vita avventurosa Marchione Margherita, Curiosità.A inizio degli
anni 2000, fra alcuni intellettuali toscani appassionati della sua figura è
circolata la speculazione che Mazzei potrebbe aver ispirato persino la bandiera
statunitense, adottata dal Congresso un
anno dopo la Dichiarazione d'Indipendenza. La suggestione nasce dall'importanza
che l'alternanza dei colori rosso e bianco ha nell'araldica toscana e non solo
e di cui un esempio famoso è l'insegna di Ugo di Toscana. Potrebbe forse aver
discusso anche di araldica con gl’americani. Le radici storiche della bandiera
americana sono, in realtà, nella Grand Union Flag. In suo ricordo è stato
istituito il premio The Bridge. La cerimonia è stata istituita a Roma per
celebrare un toscano che insieme ai padri costituenti degli Stati Uniti
d'America da vita alla stesura della dichiarazione d'indipendenza. Sua era la
frase. Tutti gli uomini sono per natura liberi ed indipendenti. Russo, Nasce a
Firenze un museo che racconta la massoneria, in La Repubblica, Firenze,
Riferito al museo dedicato alla storia della Massoneria in Italia. Premio. Dalla Toscana all'America: il suo contributo,
Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, Becattini Massimo, Mercante
italiano a Londra, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, Bolognesi
Andrea, L. Corsetti, L. Stadio, Mostra di cimeli e scritti, catalogo della
mostra a cura di, Poggio a Caiano, palazzo Comunale, Comune di Poggio a Caiano.
Camajani Guelfo Guelfi, un illustre Toscano: medico, agricoltore, scrittore,
giornalista, diplomatico, Firenze, Associazione Toscani, Ciampini Raffaele,
Lettere alla corte di Polonia Bologna: N. Zanichelli, Corsetti Luigi, Gradi
Renzo, Avventuriero della Libertà, con scritti di Marchione e Tortarolo, Poggio
a Caiano, C.I.C. Associazione Culturale "Ardengo Soffici", Di Stadio
Luigi, Tra pubblico e privato. Raccolta di documenti inediti, Poggio a Caiano,
Biblioteca Comunale di Poggio a Caiano, Fazzini Gianni, "Il gentiluomo dei
tre mondi", Roma: Gaffi, Gerosa Guido, Il fiorentino che fece l'America.
Vita e avventure Milano, Sugar, Gradi Renzo, Un bastimento carico di Roba
bestie e uomini in un manoscritto, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano,
Gradi Renzo, Parigi: Scritti e memorie, Comune di Poggio a Caiano, Giovanni,
Figure dimenticate dell'indipendenza, Francesco Vigo, Roma: Il Veltro, Giancarlo,
Iacopo, L'America fu concepita a Firenze, Firenze: Bonechi,Tognetti Burigana
Sara, Tra riformismo illuminato e dispotismo napoleonico; esperienze del
cittadino americano, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, Tortarolo Edoardo,
Illuminismo e Rivoluzioni. Biografia politica di M., Milano, Angeli, Łukaszewicz,
M., Mazzini; saggi sui rapporti italo-polacchi Abolizionismo Rivoluzione
americana Rivoluzione francese Franklin Henry Jefferson Mason Monroe William
Paca Stanisław August Poniatowski Padri fondatori degli Stati Uniti d'America
Italo-Americani Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti. Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Jefferson, e Vigo (video), su youtube. com.
Jefferson Encyclopedia, su monticello. org. Il circolo Filippo Mazzei Pisa, su
circolo filippomazzei. net. M., chi era
costui?, su mltoscana. blogspot.com. Clan Libertario Toscano M., su mltoscana. blogspot.com.
Il circolo Filippo Mazzei, su geocities. com. Carteggio Thomas Jefferson M. I
processi contro ed i liberali pisani, su
idr.unipi. Monticello the home of Thomas Jefferson, su monticello.org. famous americans. net. Another Site about P.Mazzei and
other famous Italian American, su Cleveland memory.org. M.,
Thomas Jefferson e gli scultori carraresi per la costruzione del Campidoglio
degli Stati Uniti di Nicola Guerra su farefuturofondazione. premio Filippo mazzei.
com. Memorie della
vita e delle peregrinazioni del fiorentino. Grice:
“The more Italian historians of philosophy, in their pretentiously and fake
patriotic prose, keep referring to this or that as ‘un illustre toscano’, the
less I am leaned to see Mazzei as ITALIAN at all!” – Paeseism with a
vengeance!” – Grice: “As a Brit, I find Mazzei a traitor – to his country, and
to mine!” -- Filippo Mazzei. Mazzei. Keywords: implicature, mazzei wine, vino mazzei, la
rivoluzione del nuovo mondo. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Mazzei,"
per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Mazzini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la giovine italia – la scuola
di Genova -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice:
“Of course it is difficult for an Italian philosopher to approach the
philosophy of Mazzini cooly; it would be like me approaching the philosophy of
Horatio Nelson!” – Grice: “I’ve found ‘Il pensiero filosofico di Giuseppe
Mazzini’ quite helpful – the equivalent would be the pretentious sounding, “The
philosophical thought of Sir Winston Churchill,’ say!” -- Grice: “Luigi Speranza loves to cherish the
fact that an old street in Woolwich, of all places, is named after him, in a
way ‘Speranza,’ just because Garibaldi visited!” Grice: “Luigi Speranza also
cherishes the fact that Lady Wilde preferred ‘Speranza’ just to defend
Mazzini!” Esponente di punta del patriottismo
risorgimentale, le sue idee e la sua azione politica contribusceno in maniera
decisiva alla nascita dello STATO UNITARIO ITALIANO. Le condanne subite in
diversi tribunali d'Italia lo costringeno però alla latitanza fino alla morte.
Le teorie mazziniane sono di grande importanza nella definizione dei moderni
movimenti europei per l'affermazione della democrazia attraverso la forma
repubblicana dello stato. Nacque a Genova, allora capoluogo dell'omonimo
dipartimento francese costituito da parte del regime di Bonaparte. Il padre,
Giacomo, e medico e docente universitario d'anatomia originario di Chiavari,
una cittadina del Tigullio all'epoca capoluogo del dipartimento francese degli
Appennini, successivamente parte della provincia di Genova, figura
politicamente attiva nella scena pubblica locale, sia durante l'epoca della
precedente repubblica ligure, sia, in tempi successivi, dell'Impero
napoleonico. Alla madre, Maria Drago, una fervente giansenista originaria di Pegli,
un comune autonomo, accorpato nel comune di Genova, fu molto legato per tutta
la vita. Affettuosamente chiamato "Pippo" dalla famiglia, una volta
terminati gli studi superiori presso il cittadino Liceo classico Cristoforo
Colombo, si iscrisse a Genova. Si segnala per la sua ribellione ai regolamenti
di stampo religioso che imponeno di andare a messa e di confessarsi. E arrestato
perché, proprio in chiesa, si rifiuta di lasciare il posto a un generale
austriaco. Lo appassiona la letteratura: si innamorò delle letture di Goethe,
Shakespeare e Foscolo (pur senza condividerne la filosofia materialista),
restando così colpito dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis da volersi vestire
sempre di nero, in segno di lutto per la patria oppressa. La passione per
la letteratura, insieme a quella per la musica (e un abile suonatore di
chitarra), la ha per tutta la vita:
oltre agli autori citati, lesse Dante, Schiller, Alfieri, i grandi poeti
romantici come Byron, Shelley, Keats, Wordsworth, Coleridge e i narratori come Dumas
padre e le sorelle Brontë. Ha il suo trauma rivelatore. Al passaggio a Genova
dei federati piemontesi reduci dal loro tentativo di rivolta, si affacciò in
lui il pensiero che si puo, e quindi si deve, lottare per la libertà della
patria. Cominciò ad esercitare la professione nello studio di un avvocato, ma
l'attività che lo impegnava era quella di giornalista presso l'Indicatore
genovese, sul quale inizia a pubblicare recensioni di saggi patriottici. La
censura lascia fare per un po', ma poi soppresse il giornale. Compone il
saggio, “Dell'amor patrio d’Aligheri”. Ottenne la laurea “in utroque iure”.
Entra nella carboneria, della quale divenne segretario in Valtellina. Ho
a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d'accordo
tra loro imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un
brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta,
ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante,
infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe M.. (Klemens von
Metternich, Memorie ed. Bonacci). Per la sua attività cospirativa e arrestato
su ordine di Felice di Savoia e detenuto a Savona nella Fortezza del Priamar.
Durante la detenzione idea e formula il programma di un nuovo movimento
politico chiamato “Giovine Italia” che, dopo essere stato liberato per mancanza
di prove, presenta e organizzò a Marsiglia dove e costretto a rifugiarsi in
esilio. I motti dell'associazione erano Dio e popolo e unione, forza e libertà
e il suo scopo era l'unione degli stati italiani in un'unica repubblica con un
governo centrale quale sola condizione possibile per la liberazione del popolo
italiano dagli invasori stranieri. Il progetto federalista infatti, poiché senza
unità non c'è forza, ha fatto dell'Italia una nazione debole, naturalmente
destinata a essere soggetta ai potenti stati unitari a lei vicini. Il
federalismo inoltre avrebbe reso inefficace il progetto risorgimentale, facendo
rinascere quelle rivalità municipali, ancora vive, che avevano caratterizzato
la peggiore storia dell'Italia medioevale. L'obiettivo repubblicano e
unitario avrebbe dovuto essere raggiunto con un'insurrezione popolare condotta
attraverso una guerra per bande. Durante l'esilio in Francia, ha una relazione
con la nobildonna repubblicana Giuditta Bellerio Sidoli, vedova di Giovanni
Sidoli, ricco patriota di Montecchio Emilia. Giuditta aveva condiviso con il
marito la fede politica che, portandolo a cospirare contro la corte estense,
aveva costretto la coppia a esiliare in Svizzera. Colpito da una grave malattia
polmonare, muore a Montpellier. Poiché la vedova non aveva ricevuto alcuna
condanna, ritorna a Reggio Emilia presso la famiglia del marito con i suoi
quattro figli: Maria, Elvira, Corinna e Achille. Dopo il fallimento dei moti
dove fuggire in Francia dove conobbe Mazzini a cui si legò sentimentalmente. Dopo
il vano tentativo del 1831 di portare dalla parte liberale il nuovo re Carlo
Alberto di Savoia con la celebre lettera firmata "un italiano",
insieme a Berghini e Barberis, M. fu condannato in contumacia a "morte
ignominiosa" dal Consiglio Divisionario di Guerra, presieduto dal maggior
generale Saluzzo Lamanta. La condanna venne poi revocata nel 1848, quando Carlo
Alberto decise di concedere un'amnistia generale. Rifugiatosi nella cittadina svizzera di Grenchen, nel
canton Soletta, vi rimase sino a quando fu arrestato dalla polizia cantonale
che gli ingiunse di lasciare la Confederazione entro 24 ore. Per impedirne
l'allontanamento l'assemblea dei cittadini di Grenchen conferì al giovane
profugo la cittadinanza con 122 voti a favore e 22 contrari, invalidata però
dal governo cantonale. Mazzini, nascostosi nel frattempo, fu scoperto e dovette
lasciare la Svizzera assieme ad altri esuli, tra i quali Agostino e Giovanni
Ruffini. Comincia il lungo soggiorno a Londra, dove M. raccolse attorno a
sé esuli italiani e persone favorevoli al repubblicanesimo in Italia,
dedicandosi, per vivere, all'attività di insegnante dei figli degli italiani;
qui conobbe e frequentò anche diverse personalità inglesi, tra cui Mary Shelley
(vedova del poeta P.B. Shelley), Anne Isabella Milbanke (vedova di Lord Byron,
idolo di gioventù di M.), il filosofo ed economista John Stuart Mill, Thomas
Carlyle e sua moglie Jane Welsh, lo scrittore Charles Dickens, che finanziò la
sua scuola. Il poeta decadente Algernon Swinburne gli dedicò Ode a Mazzini.
Nello stesso quartiere di M. visse anche Marx. Durante il soggiorno
londinese M. ebbe una lunga relazione di amicizia con la famiglia Craufurd,
documentata da copiosa corrispondenza epistolare. Sempre a Londra ebbe rapporti
con la famiglia di Ashurst e con il genero di questi, il politico Stansfeld, la
cui consorte Caroline Ashurst Stansfeld e sostenitrice della società
"Society of the Friends of Italy". Per la causa dell'unificazione
italiana M. collaborò anche con il secolarista George Holyoake. Fondò poi
altri movimenti politici per la liberazione e l'unificazione di vari stati
europei: la Giovine Germania, la Giovine Polonia e infine la Giovine Europa.
Quest'ultima, fondata a Berna in accordo con altri rivoluzionari stranieri,
aveva tra i suoi principi ispiratori la costituzione degli Stati Uniti
d'Europa. In questa occasione Mazzini estese dunque il desiderio di libertà del
popolo italiano (che si sarebbe attuato con la repubblica) a tutte le nazioni
europee. L'associazione rivoluzionaria europea aveva come scopo specifico
l'agire dal basso in modo comune e, usando strumenti insurrezionali e
democratici, realizzare nei singoli stati una coscienza nazionale e
rivoluzionaria. Sulla scia della Giovine Europa M. fonda anche l'Alleanza
Repubblicana Universale. Il movimento della Giovine Europa ebbe anche un
forte ruolo di promozione dei diritti della donna, come testimonia l'opera di
numerose mazziniane, tra cui la citata Bellerio Sidoli, ma anche Cristina
Trivulzio di Belgiojoso e Saffi, la moglie di Saffi, uno dei più stretti
collaboratori di M. e suo erede per quanto riguarda il mazzinianesimo politico.
M. continuò a perseguire il suo obiettivo dall'esilio e tra le avversità con
inflessibile costanza, convinto che questo fosse il destino dell'Italia e che
nessuno avrebbe potuto cambiarlo. Tuttavia, nonostante la sua perseveranza,
l'importanza delle sue azioni fu più ideologica che pratica. Dopo il
fallimento dei moti del 1848, durante i quali M. era stato a capo della breve
Repubblica Romana insieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini, i nazionalisti
italiani cominciarono a vedere nel re del Regno di Sardegna e nel suo Primo
Ministro Camillo Benso conte di Cavour le guide del movimento di riunificazione.
Ciò volle dire separare l'unificazione dell'Italia dalla riforma sociale e
politica invocata da M.. Cavour fu abile nello stringere un'alleanza con la
Francia e nel condurre una serie di guerre che portarono alla nascita dello
STATO ITALIANO ma la natura politica della nuova compagine statale era ben
lontana dalla repubblica mazziniana. A Londra per reagire alla caduta
della Repubblica Romana e in continuità con essa, M. fonda il Comitato Centrale Democratico Europeo
e il Comitato Nazionale Italiano, lanciando il Prestito Nazionale Italiano, le
cui cartelle portavano appunto lo stemma della Repubblica romana e
l'intitolazione del prestito «diretto unicamente ad affrettare l'indipendenza e
l'unità d'Italia». A garanzia del prestito le cartelle recavano la firma degli
ex triumviri Mazzini, Saffi e, in assenza dell'irreperibile Armellini, Mattia
Montecchi. La diffusione delle cartelle nel Lombardo-Veneto ebbe come immediata
conseguenza la ripresa dell'attività cospirativa e rivoluzionaria, soprattutto
a Mantova.. Messina fu chiamata al voto per eleggere i suoi deputati al
nuovo parlamento di Firenze. M. era candidato, nel secondo collegio, ma non
poté fare campagna elettorale perché esule a Londra. Pendevano sul suo capo due
condanne a morte: una inflitta dal tribunale di Genova per i moti (in primo
grado e in appello); un'analoga condanna a morte era stata inflitta dal
tribunale di Parigi per complicità in un attentato contro Napoleone III.
Inaspettatamente, M. vinse con larga messe di voti (446). Dopo due giorni di discussione,
la Camera annullava l'elezione in virtù delle condanne precedenti.
Il letto di morte di M., distrutto dagli aerei degli Stati Uniti durante
il bombardamento di Pisa. Maschera mortuaria di M., gesso, Domus Mazziniana,
Pisa Due mesi dopo gli elettori del secondo collegio di Messina tornarono alle
urne: vinse di nuovo M. La Camera, dopo una nuova discussione, il 18 giugno
riannullò l'elezione. IM. viene rieletto una terza volta; dalla Camera, questa
volta, arrivò la convalida. Mazzini, tuttavia, anche nel caso fosse giunta
un'amnistia o una grazia, decise di rifiutare la carica per non dover giurare
fedeltà allo Statuto Albertino, la costituzione dei monarchi sabaudi. Egli
infatti non accettò mai la monarchia e continuò a lottare per gli ideali repubblicani.
Lascia Londra e si stabilì in Svizzera, a Lugano. Due anni dopo furono
amnistiate le due condanne a morte inflitte al tempo del Regno di Sardegna:
Mazzini quindi poté rientrare in Italia e, una volta tornato, si dedicò subito
all'organizzazione di moti popolari in appoggio alla conquista dello Stato
Pontificio. L'11 agosto partì in nave per la Sicilia, ma il 14, all'arrivo nel
porto di Palermo, fu tratto in arresto (la quarta volta nella sua vita) e
recluso nel carcere militare di Gaeta. Partito da Basilea e in viaggio nel
passo del San Gottardo, conobbe in una carrozza Nietzsche, allora poco
conosciuto filologo e docente. Questo incontro sarà testimoniato dallo stesso
Nietzsche anni dopo. Costretto di nuovo all'esilio, riuscì a rientrare in
Italia sotto il falso nome di Giorgio Brown (forse un riferimento a John Brown)
a Pisa. Qui, malato già da tempo, visse nascosto nell'abitazione di Pellegrino
Rosselli, antenato dei fratelli Rosselli e zio della moglie di Nathan, fino al
giorno della sua morte, avvenuta quando la polizia stava ormai per arrestarlo
nuovamente. Traversie della salma M. morente, Silvestro Lega La
notizia della sua morte si diffuse rapidamente, commuovendo l'Italia; il suo
corpo fu imbalsamato dallo scienziato Paolo Gorini, appositamente fatto
accorrere da Lodi su incarico di Bertani: Gorini disinfettò la salma per permettere
l'esposizione. Una folla immensa partecipò ai funerali, svoltisi nella città
toscana il pomeriggio del 14 marzo, accompagnando il feretro al treno in
partenza per Genova, dove venne sepolto al Cimitero monumentale di
Staglieno. Le esequie furono accompagnate dalla musica della storica
Filarmonica Sestrese C. Corradi G. Secondo. Successivamente Gorini ricominciò a
lavorare sul corpo di M., onde pietrificarlo secondo la sua tecnica di
mummificazione; terminò il lavoro qualche anno dopo. Avvenne la ricognizione
della mummia, che fu sistemata ed esposta al pubblico in occasione della
nascita della Repubblica Italiana: da allora riposa nuovamente nel sarcofago
del mausoleo. Mausoleo Benché sia incerta l'affiliazione di M. alla
Massoneria fu l'associazione stessa a commissionare il mausoleo all'architetto
mazziniano Grasso che lo realizzò in stile neoclassico adornandolo con alcuni
simboli massonici. Il sepolcro reca all'esterno la scritta “M” e
all'interno sono presenti numerose bandiere tricolori repubblicane e iscrizioni
lasciate da gruppi mazziniani o da personalità come Carducci. Sulla lapide è
scolpita la scritta "M.. Un Italiano" che era la firma da lui apposta
nella lettera a Carlo Alberto, e l'epitaffio: «Il corpo a Genova, il nome ai
secoli, l'anima all'umanità. Testimonianze di alcuni personaggi storici e una
corrispondenza dello stesso M., citati nell'opera dello studioso Luigi Polo
Friz fanno ritenere che verosimilmente M., a differenza di altri celebri
personaggi dell'epoca, come Garibaldi, non sia mai stato affiliato alla
massoneria, anche se questa ha ripreso molti degli ideali mazziniani, simili ai
suoi. La principale obbedienza italiana, l'unica attiva all'epoca di
Mazzini in Italia, il Grande Oriente d'Italia, afferma l'impossibilità di provare
l'appartenenza di Mazzini, che pure ebbe influenza nella società, anche se non
partecipò mai alla vita dell'associazione, occupato com'era nella causa della
"sua" società segreta, la Giovine Italia. In effetti M. fu carbonaro,
ma la Carboneria fu presto distinta dalla massoneria. Montanelli afferma invece
che probabilmente Mazzini fu massone. Dello stesso parere è Massimo Della
Campa, che in una "Nota su Mazzini" fa riferimento al libro
dell'ex-Gran Maestro del grande Oriente d'Italia Giordano Gamberini, Mille
volti di massoni (Erasmo, Roma), che a119 scrive a proposito di M.: «Iniziato a
Genova, secondo G. Fazzari e F. Borsari (Luce e concordia). Ricevette dal Fr.
Passano il 32° grado del R.S.A.A., necessario per corrispondere in Carboneria
al livello di Vendita Suprema, nelle carceri di Savona. Con decreto del S. C.
di Palermo ricevette l'aumento di luce al 33° grado e la qualifica di membro
onorario del medesimo Supremo Consiglio. Fu membro onorario delle LL. Lincoln
di Lodi e Stella d'Italia di Genova. Scrivendo a Logge, Corpi rituali e
Fratelli usò sempre i segni massonici. Nessun contemporaneo mise mai in dubbio
l'appartenenza di M. alla Massoneria.» M. stesso sembrerebbe però
smentire la sua partecipazione all'associazione in una lettera al massone
Campanella, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rito scozzese
antico ed accettato di Palermo, in cui, restituendogli le carte che questi gli
aveva fatto recapitare scriveva. La Massoneria accettando da anni e anni ogni
uomo, senza dichiarazioni d'opinioni politiche, s'è fatta assolutamente inutile
a ogni scopo nazionale. Per farne qualche cosa bisognerebbe prima una misura
d'eliminazione ed una di revisione delle file, poi una formula nazionale o
politica per l'iniziazione... Chi vuol intendere intenda. La patria è la casa
dell'uomo, non dello schiavo – M. Ai giovani d'Italia) Per comprendere a pieno
la dottrina politica di Mazzini bisogna rifarsi al pensiero religioso che
ispira il periodo della Restaurazione seguito alla caduta dell'impero
napoleonico. Nasce allora una nuova concezione della storia che smentiva quella
degli illuministi basata sulla capacità degli uomini di costruire e guidare la
storia con la ragione. Le vicende della Rivoluzione francese e il periodo
napoleonico avevano dimostrato che gli uomini si propongono di perseguire alti
e nobili fini che s'infrangono dinanzi alla realtà storica. Il secolo dei lumi
era infatti tramontato nelle stragi del Terrore e il sogno di libertà nella
tirannide napoleonica che, mirando alla realizzazione di un'Europa al di sopra
delle singole nazioni, aveva determinato invece la ribellione dei singoli
popoli proprio in nome del loro sentimento di nazionalità. Secondo questa
visione romantica dunque la storia non è guidata dagli uomini ma è Dio che
agisce nella storia; esisterebbe dunque una Provvidenza divina che s'incarica
di perseguire fini al di là di quelli che gli uomini si propongono di
conseguire con la loro meschina ragione. Da questa concezione romantica della
storia, intesa come opera della volontà divina si promanano due visioni
contrapposte: una è la prospettiva reazionaria che vede nell'intervento di Dio
nella storia una sorta di avvento di un'apocalisse che metta fine alla storia
degli uomini. Napoleone I è stato, con le sue continue guerre,
l'Anticristo di questa apocalisse: Dio segnerà la fine della storia malvagia e
falsamente progressiva e allora agli uomini non rimarrà che volgersi al passato
per preservare e conservare quanto di buono era stato realizzato. Si cercherà
dunque in ogni modo di cancellare tutto ciò che è accaduto dalla Rivoluzione a
Napoleone restaurando il passato. La concezione reazionaria contro cui M.
combatté strenuamente assume un aspetto politico-religioso che troviamo nel
pensiero di Chateaubriand che nel Génie du christianisme (Genio del
Cristianesimo) attaccava le dottrine illuministiche prendendo le difese del
cristianesimo e soprattutto nell'ideologia mistica teocratica di Joseph de
Maistre, che arriva nell'opera Du pape (Il papa) al punto di auspicare un ritorno dell'alleanza
tra il trono e l'altare riproponendo il modello delle comunità medioevali
protette dalla religione tradizionale contro le insidie del liberalismo e del
razionalismo. Un'altra prospettiva, che nasce paradossalmente dalla stessa
concezione della storia guidata dalla divinità, è quella che potremo definire
liberale che vede nell'azione divina una volontà diretta, nonostante tutto, al
bene degli uomini escludendo che nei tempi nuovi ci sia una sorta di vendetta
di Dio che voglia far espiare agli uomini la loro presunzione di creatori di
storia. È questa una visione provvidenziale, dinamica della storia che troviamo
in Saint Simon con la concezione di un nuovo cristianesimo per una nuova
società o in Lamennais che vede nel cattolicesimo una forza rigeneratrice della
vita sociale. Una concezione progressiva quindi che è presente in Italia
nell'opera letteraria di Manzoni e nel pensiero politico di Gioberti con il
progetto neoguelfo e nell'ideologia mazziniana. Concezione mazziniana
«Costituire l'Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana – M., Istruzione generale per gli affratellati nella
Giovine Italia) Magnifying glass icon mgx2.svg Mazzinianesimo. Dio e popolo
«Noi cademmo come partito politico. Dobbiamo risorgere come partito religioso.
L'elemento religioso è universale, immortale: universalizza e collega. Ogni
grande rivoluzione ne serba impronta, e lo rivela nella propria origine o nel
fine che si propone. Per esso si fonda l'associazione. Iniziatori d'un nuovo
mondo, noi dobbiamo fondare l'unità morale, il cattolicismo Umanitario. Il
pensiero politico mazziniano deve dunque essere collocato in questa temperie di
romanticismo politico-religioso che dominò in Europa dopo la rivoluzione ma che
era già presente nei contrasti al Congresso di Vienna tra gli ideologi che
proponevano un puro e semplice ritorno al passato prerivoluzionario e i
cosiddetti politici che pensavano che bisognasse operare un compromesso con
l'età trascorsa. Alcuni storici hanno fatto risalire la concezione
religiosa di M. all'educazione ricevuta dalla madre fervente giansenista
(almeno fino agli anni '40 fa spesso riferimenti biblici ed evangelici) o ad
una vicinanza ideale col protestantesimo e le chiese riformate ma, secondo
altri, la visione religiosa di Mazzini non coinciderebbe con quella di nessuna
religione rivelata. Il personale concetto mazziniano di Dio, che per alcuni
tratti è avvicinabile al deismo settecentesco, con evidenti influssi della
religiosità civica e preromantica di Rousseau, per altri versi al Dio
panteistico degli stoici, è alla base di una religiosità che tuttavia esige la
laicità dello Stato (questo nonostante la dichiarata contraddizione poiché se,
come egli crede, politica e religione coincidono, non avrebbe senso separare la
sua concezione teologica da quella politica e l'assenza di intermediari tra Dio
e il popolo. Per ciò e per il ruolo avuto nella storia umana e italiana, define
il papato la base d'ogni autorità tirannica. Un altro influsso sulla sua
concezione religiosa è stato visto nella considerazione che ha per la religione
CIVILE di ispirazione ROMANA e per l'ammirazione verso la prima Roma, antica e
pagana, che passando per la seconda Roma, cristiana e medievale, prepara il
campo alla terza Roma future. Un mito questo, romantico-neoclassico, che e
fatto proprio da Carducci e poi dal fascismo, con il filosofo Ricci -- e dalla
massoneria con l'esoterista Reghini e avvicina il mazzinianesimo anche al culto
massonico del Grande Architetto dell'Universo. In realtà rifiuta non solo
l'ateismo (è questa una delle divisioni ideologico-teoriche che egli ebbe con
altri repubblicani come Pisacane) e il materialismo L'ateismo, il materialismo
non hanno, sopprimendo Dio, una legge morale superiore per tutti e sorgente del
Dovere per tutti...»), ma anche il trascendente, in favore dell'immanente: egli
crede nella reincarnazione, per poter migliorare di continuo il mondo e
migliorare sé stessi. Una concezione questa tratta probabilmente da Platone o
dalle religioni orientali come l'induismo e il buddismo, religioni alle quali
Mazzini si era interessato. Come altri patrioti, letterati, rivoluzionari delle
società segrete francesi, inglesi e italiane Mazzini vide nell'abate calabrese
Gioacchino da Fiore, l'autore di una profezia riguardante l'avvento della Terza
Età o Età dello Spirito Santo quando sarebbe sorta la Terza Italia che sarebbe
rinata, libera dalle dominazioni straniere, come la nazione che avrebbe
esercitato un primato sulle altre per la presenza della Chiesa cattolica: tema
questo poi ripreso da Gioberti nel suo Primato morale e civile degli
Italiani. M. ebbe grande interesse per Gioacchino tanto da volergli
dedicare un trattato rimasto inedito Joachino, appunti per uno studio storico
sull'abate Gioacchino], che considerava un suo precursore per gli ideali
sociali e politici da realizzare tramite un'unità spirituale e storica.
Religione civile La sua è stata anche definita una religione civile dove la
politica svolgeva il ruolo della fede e dove la divinità si incarna in modo
panteista nell'Universo e nell'Umanità stessa, che attua la Legge che nel
Progresso si rivela. Egli afferma di credere che Dio è Dio, e l'Umanità è il
suo Profeta, che il popolo romano è immagine di Dio sulla terra e vi è«un Dio
solo, autore di quanto esiste, Pensiero vivente, assoluto, del quale il nostro
mondo è raggio e l'Universo una incarnazione. Per lui non conta che la sua
intima credenza sia razionale o no, come il Dio di Voltaire e Newton che è
invocato come la causa prima dell'ordine naturale, poiché «Dio esiste. Noi non
dobbiamo né vogliamo provarvelo: tentarlo, ci sembrerebbe bestemmia, come
negarlo, follia. Dio esiste, perché noi esistiamo» anche se, specifica,
«l'universo lo manifesta con l'ordine, con l'armonia, con l'intelligenza dei
suoi moti e delle sue leggi. E altresì convinto che fosse ormai presente nella
storia un nuovo ordinamento divino nel quale la lotta per raggiungere l'unità
nazionale assumeva un significato provvidenziale. «Operare nel mondo
significava per il M. collaborare all'azione che Dio svolgeva, riconoscere ed
accettare la missione che uomini e popoli ricevono da Dio. Per questo bisogna
«mettere al centro della propria vita il dovere, senza speranza di premio,
senza calcoli di utilità. Quello di M. era un progetto politico, ma mosso da un
imperativo religioso che nessuna sconfitta, nessuna avversità avrebbe potuto
indebolire. «Raggiunta questa tensione di fede, l'ordine logico e comune degli
avvenimenti veniva capovolto; la disfatta non provocava l'abbattimento, il
successo degli avversari non si consolidava in ordine stabile.». La storia
dell'umanità dunque sarebbe una progressiva rivelazione della Provvidenza
divina che, di tappa in tappa, si dirige verso la meta predisposta da
Dio. Esaurito il compito del Cristianesimo, chiusasi l'era della
Rivoluzione francese ora occorreva che i popoli prendessero l'iniziativa per
«procedere concordi verso la meta fissata al progresso umano». Ogni singolo
individuo, come la collettività, tutti devono attuare la missione che Dio ha
loro affidato e che attraverso la formazione ed educazione del popolo stesso,
reso consapevole della sua missione, si realizzerà attraverso due fasi: Patria
e Umanità. Patria e umanità Targa in onore di M. sulla casa
londinese Senza una patria libera nessun popolo può realizzarsi né compiere la
missione che Dio gli ha affidato; il secondo obiettivo sarà l'Umanità che si
realizzerà nell'associazione dei liberi popoli sulla base della comune civiltà
europea attraverso quello che Mazzini chiama il banchetto delle Nazioni
sorelle. Un obiettivo dunque ben diverso da quella confederazione europea
immaginata da Napoleone dove la Francia avrebbe esercitato il suo primato
egemonico di Grande Nation. La futura unità europea non si realizzerà
attraverso una gara di nazionalismi ma attraverso una nobile emulazione dei
liberi popoli per costruire una nuova libertà. Il processo di costruzione
europea, secondo M., doveva svolgersi prima di tutto attraverso l'affermazione
delle nazionalità oppresse, come quelle facenti parte dell'Impero asburgico, e
poi anche di quelle che non avevano ancora raggiunto la loro unità
nazionale. Iniziativa italiana In questo processo unitario europeo spetta
all'Italia un'alta missione: quella di riaprire, conquistando la sua libertà,
la via al processo evolutivo dell'Umanità: la redenzione nazionale italiana
apparirà improvvisa come una creazione divina al di fuori di ogni inutile e
inefficace metodo graduale politico diplomatico di tipo cavouriano.
L'iniziativa italiana che avverrà sulla base della fraternità tra i popoli e
non rivendicando alcuna egemonia, come aveva fatto la Francia, consisterà
quindi nel dare l'esempio per una lotta che porterà alla sconfitta delle due
colonne portanti della reazione, di quella politica dell'Impero Asburgico e di
quella spirituale della Chiesa cattolica. Raggiunti gli obiettivi primari
dell'unità e della Repubblica attraverso l'educazione e l'insurrezione del
popolo, espressi dalla formula di Pensiero ed azione, l'Italia darà quindi il
via a questo processo di unificazione sempre più vasta per la creazione di una
terza civiltà formata dall'associazione di liberi popoli. Funzione della
politica Il mausoleo di M. nel cimitero monumentale di Staglieno,
realizzato dall'architetto mazziniano Grasso. La politica è scontro tra libertà
e dispotismo e tra queste due forze non è possibile trovare un
compromesso: si sta svolgendo una guerra di principi che non ammette
transazioni; M. esorta la popolazione a non accontentarsi delle riforme che
erano degli accomodamenti gestiti dall'alto: non radicavano, cioè, nello
spirito del tempo quella libertà e quell'uguaglianza di cui il popolo aveva
bisogno. La logica della politica è logica di democrazia e libertà, non accettabili
dalle forze reazionarie; contro di esse è necessaria una brusca rottura
rivoluzionaria: alla testa del popolo vi dovrà essere la classe colta (che non
può più sopportare il giogo dell'oppressione) e i giovani (che non possono più
accettare le anticaglie dell'antico regime). Questa rivoluzione deve portare
alla Repubblica, la quale garantirà l'istruzione popolare. La
rivoluzione, che è anche pedagogico strumento di formazione di virtù personali
e collettive, deve iniziare per ondate, accendendo focolai di rivolta che
incitino il popolo inconsapevole a prendere le armi. Una volta scoppiata la
rivoluzione si dovrà costituire un potere dittatoriale (inteso come potere
straordinario alla maniera dell'Antica Roma, non come tirannide) che gestisca
temporaneamente la fase post-rivoluzionaria. Il governo verrà restituito al
popolo non appena il fine della rivoluzione verrà raggiunto, il prima
possibile. La Giovane Italia deve educare alla gestione della cosa
pubblica, ad essere buoni cittadini, non è, perciò, esclusivamente uno
strumento di organizzazione rivoluzionaria. Il popolo deve avere diritti e
doveri, mentre la rivoluzione francese si è concentrata esclusivamente sui
diritti individuali: fermandosi ai diritti dell'individuo aveva dato vita ad
una società egoista; l'utile per una società non va mai considerato secondo il
bene di un singolo soggetto ma secondo il bene collettivo. Non crede
nell'eguaglianza predicata dal marxismo e al sogno della proprietà comune
sostituisce il principio dell'associazionismo, che è comunque un superamento
dell'egoismo individuale.Questione sociale M. affrontò la questione sociale
negli scritti più tardi, ad esempio nei Doveri dell'uomo Rifiuta il marxismo,
convinto com'è che per spingere il popolo alla rivoluzione sia prioritario
indicargli l'obiettivo dell'unità, della repubblica e della democrazia. M. fu
tra i primi a considerare la grave questione sociale presente che era
soprattutto in Italia la questione contadina, come gli indica Pisacane, ma egli
pensava che questa dovesse essere affrontata e risolta solo dopo il
raggiungimento dell'unità nazionale e non attraverso lo scontro delle classi,
ma con una loro collaborazione (interclassismo), da raggiungersi però
organizzando l'associazionismo e il mutualismo fra gli operai, il soggetto più
debole. Un programma il suo di solidarietà nazionale che se non contemplava
l'autonomia culturale e politica del proletariato non si rivolse solo al ceto
medio cittadino, agli intellettuali, agli studenti, fra i quali raccolse i consensi
più ampi, ma anche agli artigiani e ai settori più consapevoli dei propri
diritti fra gli operai. M. criticò il marxismo e fu da Marx biasimato per
gli aspetti dottrinali idealistici e per gli atteggiamenti profetici che egli
assumeva nel suo ruolo di educatore religioso e politico del popolo. Marx,
risentito per gli attacchi di M. al comunismo, da lui definito col termine
inglese «dictatorship» (cioè «dittatura»), lo definì in alcuni articoli
teopompo, cioè «inviato di Dio e papa della chiesa democratica, dandogli anche
sprezzantemente del «vecchio somaro» e paragonandolo a Pietro l'Eremita. Forte
sarà il contrasto tra Marx e l'inviato personale di M. (oltre che con Garibaldi
che ne prese le difese) alla Prima Internazionale. Critica i socialisti per il
proclamato internazionalismo dei loro tempi, venato di anarchismo e di forte
negazionismo, per l'attenzione da essi rivolta verso gli interessi di una sola
classe: il proletariato. Inoltre egli definiva arbitrario e impossibile a pretendere
l'abolizione della proprietà privata: così si sarebbe dato un colpo mortale
all'economia che non avrebbe premiato più i migliori. La critica maggiore era
rivolta contro il rischio che le ideologie socialiste estremistiche portassero
a un totalitarismo: egli previde con lungimiranza quello che avverrà con la
Rivoluzione in Russia, cioè la formazione di una nuova classe di padroni
politici e lo schiacciamento dell'individuo nella macchina industriale del
socialismo reale. Da queste critiche ne venne la valutazione negativa di
Mazzini sulla rivolta che portò alla Comune di Parigi. Mentre per Marx e
Michail Bakunin quello della Comune era stato un primo tentativo di distruggere
lo stato accentratore borghese realizzando dal basso un nuovo tipo di stato,
Mazzini, legato al concetto di Stato-nazione romantico, invece criticò la
Comune vedendo in essa la fine della nazione, la minaccia di uno smembramento
della Francia. Per salvaguardare l'economia e allo stesso tempo per tutelare i
più poveri, M. punta su una forma di lavoro cooperativo: l'operaio dovrà
guardare oltre una lotta basata solo sul salario ma promuovere spazi via via
crescenti di economia sociale con elementi di «piena responsabilità e proprietà
sull'impresa». M. punta sul superamento in senso sociale e democratico
del capitalismo imprenditoriale classico, anticipando in questo sia le teorie
distribuzioniste sia le teorie che esaltano il valore dell'associazione fra i
produttori. In Doveri dell'uomo scrisse: «Non bisogna abolire la proprietà
perché oggi è di pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano
acquistarla. Bisogna richiamarla al principio che la renda legittima, facendo
sì che solo il lavoro possa produrla. La
sua influenza sulla prima fase del movimento operaio fu per questo molto
importante e anche il fascismo, in particolare la sua corrente repubblicana e
socializzatrice, si ispirerà al pensiero economico mazziniano come terza via
corporativa tra il modello capitalista e quello marxista. Cospirazioni e
fallimento dei moti mazziniani M. in una fotografia con autografo
scattata da Domenico Lama I moti mazziniani, ispirati ad un'ideologia
repubblicana e antimonarchica furono considerati sovversivi e quindi perseguiti
da tutte le monarchie italiane dell'epoca. Per i governi costituiti i mazziniani
altro non erano che terroristi e come tali furono sempre condannati.
«Trovai tutti persuasi che la Giovine Italia era pazzia; pazzia le sette,
pazzie il cospirare, pazzie le rivoluzioncine fatte sino a quel giorno, senza
capo né coda» (Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna) Giovine Italia «Su queste classi così fortemente interessate
al mantenimento dell'ordine sociale le dottrine sovversive della Giovine Italia
non hanno presa. Perciò ad eccezione dei giovani presso i quali l'esperienza
non ha ancora modificate le dottrine assorbite nell'atmosfera eccitante della
scuola, si può affermare che non esiste in Italia se non un piccolissimo numero
di persone seriamente disposte a mettere in pratica i principi esaltati di una
setta inasprita dalla sventura.» (Camillo Benso conte di Cavour). M. si
trova a Marsiglia in esilio dopo l'arresto e il processo subito l'anno prima in
Piemonte a causa della sua affiliazione alla Carboneria. Non potendosi provare
la sua colpevolezza infatti la polizia sabauda lo costrinse a scegliere tra il
confino in un paesino del Piemonte e l'esilio. Mazzini preferì affrontare l'esilio
e passa in Svizzera, da qui a Lione e infine a Marsiglia. Qui entrò in contatto
con i gruppi di Filippo Buonarroti e col movimento sainsimoniano allora diffuso
in Francia. Con questi si avviò un'analisi del fallimento dei moti nei
ducati e nelle Legazioni pontificie. Si concordò sul fatto che le sette
carbonare avevano fallito innanzitutto per la contraddittorietà dei loro
programmi e per l'eterogeneità delle classi che ne facevano parte. Non si era
riusciti poi a mettere in atto un collegamento più ampio delle insurrezioni per
le ristrettezze provinciali dei progetti politici, com'era accaduto nei moti di
Torino quand'era fallito ogni tentativo di collegamento con i fratelli
lombardi. Infine bisognava desistere dal ricercare l'appoggio dei principi e,
come nei moti dei francesi. Con la fondazione della Giovine Italia il
movimento insurrezionale andava organizzato su precisi obiettivi politici:
indipendenza, unità, libertà. Occorreva poi una grande mobilitazione popolare
poiché la liberazione italiana non si poteva conseguire attraverso l'azione di
pochi settari ma con la partecipazione delle masse. Rinunciare infine ad ogni
concorso esterno per la rivoluzione: «La Giovine Italia è decisa a giovarsi
degli eventi stranieri, ma non a farne dipendere l'ora e il carattere
dell'insurrezione. Gli strumenti per raggiungere queste mete erano l'educazione
e l'insurrezione. Quindi bisognava che la Giovane Italia perdesse il più
possibile il carattere di segretezza, conservando quanto necessario a
difendersi dalle polizie, ma acquistasse quello di società di propaganda,
un'«associazione tendente anzitutto a uno scopo di insurrezione, ma
essenzialmente educatrice fino a quel giorno e dopo quel giorno anche
attraverso il giornale La Giovine Italia, fondato del messaggio politico della
indipendenza, dell'unità e della repubblica. Durante il periodo dei
processi in Piemonte e il fallimento della spedizione di Savoia, l'associazione
scomparve per quattro anni, ricomparendo solo in Inghilterra. Dieci anni dopo,
il 5 maggio 1848, l'associazione fu definitivamente sciolta da M., che fondò al
suo posto l'Associazione Nazionale Italiana. Entusiastiche adesioni al
programma della Giovane Italia si ebbero soprattutto tra i giovani in Liguria,
in Piemonte, in Emilia e in Toscana che si misero subito alla prova organizzando
una serie di insurrezioni che si conclusero tutte con arresti, carcere e
condanne a morte. Oganizza il suo primo tentativo insurrezionale che aveva come
focolai rivoluzionari Chambéry, Torino, Alessandria e Genova dove contava vaste
adesioni nell'ambiente militare. Prima ancora che l'insurrezione
iniziasse la polizia sabauda a causa di una rissa avvenuta fra i soldati in
Savoia, scoprì e arrestò molti dei congiurati, che furono duramente perseguiti
poiché appartenenti a quell'esercito sulla cui fedeltà Carlo Alberto aveva
fondato la sicurezza del suo potere. Fra i condannati figuravano i fratelli
Ruffini, amico personale di M. e capo della Giovine Italia di Genova,
l'avvocato Andrea Vochieri e l'abate torinese Gioberti. Tutti subirono un
processo dal tribunale militare, e dodici furono condan morte, fra questi anche
il Vochieri, mentre Jacopo Ruffini pur di non tradire si uccise in carcere
mentre altri riuscirono a salvarsi con la fuga. Tentativo d'invasione
della Savoia e moto di Genova. L'incontro di M. con Garibaldi nella sede della
Giovine Italia Il fallimento del primo moto non fermò M., convinto che era il
momento opportuno e che il popolo lo avrebbe seguito. Si trovava a Ginevra,
quando assieme ad altri italiani e alcuni polacchi, organizzava un'azione
militare contro lo stato dei Savoia. A capo della rivolta aveva messo il
generale Ramorino, che aveva già preso parte ai moti, questa scelta però si
rivelò un fallimento, perché il Ramorino si era giocato i soldi raccolti per
l'insurrezione e di conseguenza rimandava continuamente la spedizione, tanto
che quando si decise a passare con le sue truppe il confine con la Savoia, la
polizia, ormai allertata da tempo, disperse i volontari con molta
facilità. Nello stesso tempo doveva scoppiare una rivolta a Genova, sotto
la guida di Garibaldi, che si era arruolato nella marina da guerra sarda per
svolgere propaganda rivoluzionaria tra gli equipaggi. Quando giunse sul luogo
dove avrebbe dovuto iniziare l'insurrezione però, non trovò nessuno, e così
rimasto solo, dovette fuggire. Fece appena in tempo a salvarsi dalla condanna a
morte emanata contro di lui, salendo su una nave in partenza per l'America del
Sud dove continuerà a combattere per la libertà dei popoli. M., invece,
poiché aveva personalmente preso parte alla spedizione con Ramorino, fu espulso
dalla Svizzera e dovette cercare rifugio in Inghilterra. Lì continuò la propria
azione politica attraverso discorsi pubblici, lettere e scritti su giornali e
riviste, aiutando a distanza gli italiani a mantenere il desiderio di unità e
indipendenza. Anche se l'insuccesso dei moti fu assoluto, dopo questi eventi la
linea politica di Carlo Alberto mutò, temendo che reazioni eccessive potessero
diventare pericolose per la monarchia. La vita mi pesa, ma credo sia
debito di ciascun uomo di non gettarla, se non virilmente o in modo che rechi
testimonianza della propria credenza.» (M., lettera di risposta ad Angelo
Usiglio, Londra. Altri tentativi pure falliti si ebbero a Palermo, in Abruzzo,
nella Lombardia austriaca, in Toscana. Il fallimento di tanti generosi sforzi e
l'altissimo prezzo di sangue pagato fecero attraversare a Mazzini quella che
egli chiamò la tempesta del dubbio, una fase di depressione, in cui, come in
gioventù, come ricorda nelle Note autobiografiche, pensò anche al suicidio, da
cui uscì religiosamente convinto ancora una volta della validità dei propri
ideali politici e morali. Dall'esilio di Londra, dopo essere stato espulso dalla Svizzera,
riprese quindi il suo apostolato insurrezionale. Nello stesso periodo esce il
saggio La filosofia della musica sulla rivista L'italiano pubblicata a Parigi. Fratelli
Bandiera. Esecuzione dei fratelli Bandiera a Cosenza Nobili, figli
dell'ammiraglio Bandiera e, a loro volta, ufficiali della Marina da guerra
austriaca, aderirono alle idee mazziniane e fondarono una loro società segreta,
l'Esperia e con essa tentarono di effettuare una sollevazione popolare nel Sud
Italia. I fratelli Emilio e Attilio Bandiera parteno da Corfù (dove
avevano una base allestita con l'ausilio del barese Vito Infante) alla volta
della Calabria seguiti da 17 compagni, dal brigante calabrese Giuseppe Meluso e
dal corso Pietro Boccheciampe. Era loro giunta infatti la notizia dello scoppio
di una rivolta a Cosenza che essi credevano condotta nel nome di M.. In realtà
non solo la ribellione non aveva alcuna motivazione patriottica ma era già
stata domata dall'esercito borbonico. Quando sbarcarono alla foce del
fiume Neto, vicino a Crotone, appresero che la rivolta era già stata repressa
nel sangue e al momento non era in corso alcuna ribellione all'autorità del re.
Il Boccheciampe, appresa la notizia che non c'era alcuna sommossa a cui
partecipare, sparì e andò al posto di polizia di Crotone per denunciare i
compagni. I due fratelli vollero lo stesso continuare l'impresa e partirono per
la Sila. Subito iniziarono le ricerche dei rivoltosi ad opera delle
guardie civiche borboniche, aiutate da comuni cittadini che credevano i
mazziniani dei briganti; dopo alcuni scontri a fuoco, vennero catturati (meno
il brigante Meluso, buon conoscitore dei luoghi, che riuscì a sfuggire alla cattura)
e portati a Cosenza, dove i fratelli Bandiera con altri 7 compagni vennero
fucilati nel Vallone di Rovito. Il re
Ferdinando II ringraziò la popolazione locale per il grande attaccamento
dimostrato alla Corona e la premiò concedendo medaglie d'oro e d'argento e
pensioni generose. «Mazzini, colpito da tanta fermezza e da tanta sventura,
restò commosso da quell'efferata barbarie e celebrò la memoria di quei martiri
in un opuscolo uscito a Parigi. Vdendo nel loro sacrificio la realizzazione dei
propri ideali così scriveva in un opuscolo a loro dedicato: «Il martirio non è
sterile mai. Il martirio per un'Idea è la più alta formula che l'Io umano possa
raggiungere per esprimere la propria missione; e quando un giusto sorge di
mezzo a' suoi fratelli giacenti ed esclamaecco: questo è il vero, e io,
morendo, l'adorouno spirito di nuova vita si trasfonde per tutta l'umanità. I
sagrificati di Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l'uomo deve vivere e
morire per le proprie credenze: hanno provato al mondo che gl'Italiani sanno
morire: hanno convalidato per tutta l'Europa l'opinione che una Italia sarà. Voi
potete uccidere pochi uomini, ma non l'Idea. l'Idea è immortale. Dopo i moti e capo,
con Aurelio Saffi e Carlo Armellini della Repubblica Romana, soppressa dalla
reazione francese. Fu l'ultima rivolta a cui M. prese parte direttamente.
Moto di Milano e sollevazione in
Valtellina. Ispirato al mazzinianesimo e alle ideologie socialiste fu il moto
di Milano, a cui tuttavia M. non prese parte, e che fallì; analoga sorte ebbe
la rivolta in Valtellina dell'anno seguente. Nel moto milanese si mise in luce
Felice Orsini, che di lì a poco avrebbe rotto con Mazzini e organizzato
l'attentato a Napoleone III, fermamente condannato dal genovese poiché
risoltosi in una strage di cittadini innocenti. Spedizione di Sapri.
Pisacane Il piano originale, secondo il metodo insurrezionale mazziniano,
prevedeva di accendere un focolaio di rivolta in Sicilia dove era molto diffuso
il malcontento contro i Borboni, e da lì estenderla a tutto il Mezzogiorno
d'Italia. Successivamente invece si pensò più opportuno partendo dal porto di
Genova di sbarcare a Ponza per liberare alcuni prigionieri politici lì
rinchiusi, per rinforzare le file della spedizione e infine dirigersi a Sapri,
che posta al confine tra Campania e Basilicata, era ritenuta un punto
strategico ideale per attendere dei rinforzi e marciare su Napoli.
Pisacane s'imbarca con altri ventiquattro sovversivi, tra cui Nicotera e
Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, della Società Rubattino, diretto a
Tunisi. Sbarca a Ponza dove, sventolando il tricolore, riuscì agevolmente a
liberare 323 detenuti, poche decine dei quali per reati politici per il resto
delinquenti comuni, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Il 28, il Cagliari
ripartì carico di detenuti comuni e delle armi sottratte al presidio borbonico.
La sera i congiurati sbarcarono a Sapri, ma non trovarono ad accoglierli quelle
masse rivoltose che si attendevano. Anzi furono affrontati dalle falci dei
contadini ai quali le autorità borboniche avevano per tempo annunziato lo
sbarco di una banda di ergastolani evasi dall'isola di Ponza. Il 1º
luglio, a Padula vennero circondati e 25 di loro furono massacrati dai
contadini. Gli altri, per un totale di 150, vennero catturati e consegi
gendarmi. Pisacane, con Nicotera, Falcone e gli ultimi superstiti, riuscirono a
fuggire a Sanza dove furono ancora aggrediti dalla popolazione: perirono in 83;
Pisacane e Falcone si suicidarono con le loro pistole, mentre quelli scampati
all'ira popolare furono poi processati. Condan morte, furono graziati dal Re,
che tramuts la pena in ergastolo. Senso dell'impresa Pur essendo quella
di Sapri un'impresa tipicamente mazziniana, condotta «senza speranza di
premio», in effetti essa rispondeva alle idee politiche di Pisacane che si era
allontanato dalla dottrina del Maestro per accostarsi a un socialismo
libertario espresso dalla formula "Libertà e associazione".
Contrariamente a Mazzini che riguardo alla questione sociale proponeva una
soluzione interclassista solo dopo aver risolto il problema unitario, Pisacane
pensava infatti che per arrivare ad una rivoluzione patriottica unitaria e
nazionale occorresse prima risolvere la questione contadina che era quella
della riforma agraria. Come lasciò scritto nel suo testamento politico in
appendice al Saggio sulla rivoluzione, «profonda mia convinzione di essere la
propaganda dell'idea una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee
nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché
sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero». Vicino
agli ideali mazziniani era Pisacane invece quando aggiungeva nello stesso
scritto che quand'anche la rivolta fallisse «ogni mia ricompensa io la troverò
nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi cari e generosi amici...
che se il nostro sacrificio non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una
gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire. La
spedizione fallita ebbe in effetti il merito di riproporre all'opinione
pubblica italiana la questione napoletana, la liberazione cioè del Mezzogiorno
italiano dal malgoverno borbonico che Gladstone definiva negazione di Dio
eretta a sistema di governo.. Infine il tentativo di Pisacane sembrava
riproporre la possibilità di un'alternativa democratico-popolare come soluzione
al problema italiano: era un segnale d'allarme che costituì per il governo di
Vittorio Emanuele II uno stimolo ad affrettare i tempi dell'azione per
realizzare la soluzione diplomatico militare dell'unità italiana.
Appoggio a Garibaldi e ultimi tentativi M. appoggiò moralmente la spedizione
dei Mille di Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour.
Dopo l'Unità riprese la lotta repubblicana, ma le persecuzioni della polizia
sabauda e le condizioni di salute limitarono i suoi ultimi tentativi.
Controversie Stampa raffigurante Mazzini con l'epitaffio della tomba a
Staglieno Conflitto con Cavour M., che dopo la sua attività cospirativa fu
esiliato dal governo piemontese a Ginevra, fu uno strenuo oppositore della
guerra di Crimea, che costò un'ingente perdita di soldati al regno sardo. Egli
rivolse un appello ai militari in partenza per il conflitto: «Quindicimila tra
voi stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la
propria famiglia. Voi non avrete onore di battaglie. Morrete, senza gloria,
senza aureola, di splendidi fatti da tramandarsi per voi, conforto ultimo ai
vostri cari. Morrete per colpa di governi e capi stranieri. Per servire un
falso disegno straniero, l'ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del
cosacco, su terre lontane, né alcuno dei vostri potrà raccoglierle e piangervi
sopra. Per questo io vi chiamo, col dolore dell'anima, deportati. Quando Napoleone
III scampò all'attentato teso da Orsini e Pieri, il governo di Torino incolpò M.
(Cavour lo avrebbe definito "il capo di un'orda di fanatici
assassini" oltreché "un nemico pericoloso quanto l'Austria"), poiché
i due attentatori avevano militato nel suo Partito d'Azione. Secondo Denis Mack
Smith, Cavour aveva in passato finanziato i due rivoluzionari a causa della
loro rottura con M. e, dopo l'attentato a Napoleone III e la conseguente
condanna dei due, alla vedova di Orsini fu assicurata una pensione. Cavour al
riguardo fece anche pressioni politiche sulla magistratura per far giudicare e
condannare la stampa radicale. Egli, inoltre, favorì l'agenzia Stefani con
fondi segreti sebbene lo Statuto vietasse privilegi e monopoli ai privati. Così
l'agenzia Stefani, forte delle solide relazioni con Cavour divenne, secondo
Fiore, un fondamentale strumento governativo per il controllo mediatico nel
Regno di Sardegna. M., intanto, oltre ad aver condannato il gesto di Orsini e
Pieri, espose un attacco nei confronti del primo ministro, pubblicato sul
giornale Italia del popolo: «Voi avete inaugurato in Piemonte un fatale
dualismo, avete corrotto la nostra gioventù, sostituendo una politica di
menzogne e di artifici alla serena politica di colui che desidera risorgere.
Tra voi e noi, signore, un abisso ci separa. Noi rappresentiamo l'Italia, voi
la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo soprattutto l'unità
nazionale, voi l'ingrandimento territoriale» (M.]) Timori di M. per la
cessione della Sardegna Estratto di articolo di giornale inglese
Mazzini temeva che Cavour, dopo la cessione della Savoia e di Nizza, potesse
cedere anche la Sardegna, una delle cosiddette “tre Irlande”, sulla base di
altri supposti accordi segreti di Cavour con la Francia, in cambio di una
definitiva unificazione italiana, accordi che preoccupavano anche
l’Inghilterra, la quale era intervenuta presso Cavour per avere rassicurazioni
sul fatto che non sarebbe stato ceduto altro territorio italiano alla Francia.
Russell commenta a Hudson, in Torino, di dire al Conte di Cavour, che il
Governo inglese, informato di un disegno per la cessione della Sardegna alla
Francia, protestava e chiedeva promessa formale di non cedere territorio
italiano. Il dispaccio era comunicato il 26 a Cavour.» (da Scritti editi
e inediti di M., per cura della Commissione editrice degli scritti di Giuseppe
Mazzini, Roma]) Riguardo alla cessione della Sardegna alla Francia, M.
affermava anche. L’opposizione minacciosa dell’Inghilterra e la nostra, possono
renderlo praticamente impossibile.» (da Scritti editi ed inediti di
Giuseppe Mazzini, per cura della Commissione editrice degli scritti di M., Roma)
Alcune affermazioni di Giovanni Battista Tuveri, esponente del cattolicesimo
federalista, deputato per due volte al Parlamento Subalpino e amico di M.,
confermano la possibilità di accordi segreti relativi alla cessione della
Sardegna alla Francia per una definitiva unificazione del resto della penisola:
«Vicino a M. ed a Cattaneo, ma con una propria originalità di pensiero, il
Tuveri fu sempre fedele alle sue convinzioni federaliste o, in mancanza di
meglio, autonomiste, né esitò ad impegnarsi nell'azione pratica quando circolò
insistente la voce che Cavour, dopo Nizza e la Savoia, intendesse cedere alla
Francia anche la Sardegna» Anche il giornale britannico "The
Illustrated London News" citava l'inopportunità
di cedere la Sardegna alla Francia, commento che aveva suscitato reazioni nella
stampa francese e fatto suggerire altre ipotesi. Mazzini suscita continuamente
energie, affascinò per quarant'anni ogni ondata di gioventù e intanto gli
anziani gli sfuggivano. Quasi tutti i grandi personaggi del Risorgimento
aderirono al mazzinianesimo ma pochi vi restarono. Il contenuto religioso
profetico del pensiero del Maestro, in un certo modo rivelatore di una nuova
fede, imbrigliava l'azione politica. M. infatti non aveva «la duttilità e la
mutevolezza necessaria per dominare e imprigionare razionalmente le forze». Per
questo occorreva una capacità di compromesso politico propria dell'uomo di
governo come fu Cavour. Il compito di Mazzini fu invece quello di creare l’animus.
Quando sembrava che il problema italiano non avesse via d'uscita «ecco per
opera sua la gioventù italiana sacrificarsi in una suprema protesta. I
sacrifici parevano sterili», ma invece risvegliavano l'opinione pubblica
italiana e europea. La tragedia della Giovine Italia «impose il problema
italiano a una sempre più vasta sfera d'Italiani: che reagì sì con un programma
più moderato ma infine entrò in azione e quegli stessi ex mazziniani che
avevano rinnegato il Maestro aderendo al moderatismo riformista alla fine
dovettero abbandonare ogni progetto federalista e acconsentire all'entusiasmo
popolare suscitato dalle idee mazziniane di un riordinamento unitario italiano.
Le idee politiche di Mazzini furono alla base della nascita del Partito
Repubblicano Italiano. Tramite la Costituzione della Repubblica Romana,
ispirata al mazzinianesimo e considerata un modello per molto tempo, fu uno dei
pensatori le cui idee furono alla base della Costituzione Italiana. Inoltre
ebbe una grande influenza anche fuori dall'Italia: politici occidentali come
Wilson (con i suoi Quattordici Punti) e Lloyd George e molti leader
post-coloniali tra i quali Gandhi, Meir, David Ben-Gurion, Nehru e Sun Yat-sen
consideravano Mazzini il proprio maestro e il testo mazziniano Dei doveri
dell'uomo come la propria "Bibbia" morale, etica e politica. Mazzini
conteso tra fascismo e antifascismo M. sul letto di morte L'eredità
ideale e politica del pensiero di M. è stata a lungo oggetto di dibattito tra
opposte interpretazioni, in particolare durante il Fascismo e la Resistenza.
Già prima dell'avvento del FASCISMO, il cinquantenario della sua morte e
celebrato con una serie di francobolli. In seguito, nel Ventennio fascista M. e
oggetto di citazioni in libri, articoli, discorsi, fino al punto d'essere
considerato una sorta di precursore del regime di MUSSOLINI. Secondo un appunto
diaristico (intitolato "Ripresa mazziniana") diBottai, però,
l'utilizzo che ne fa MUSSOLINI e strumentale. La popolarità di M. durante
il periodo fascista è dovuta anche ai numerosi repubblicani che confluirono nei
Fasci di combattimento, iniziando il loro percorso di avvicinamento a MUSSOLINI
durante la battaglia interventista, soprattutto nelle aree dove maggiore era la
presenza del PRI, cioè in Romagna e nelle Marche. Sulle pagine de L'Iniziativa,
l'organo di stampa del PRI, si guardava a Mussolini come al «magnifico bardo
del nostro interventismo». Particolare e il caso di Bologna, città in cui i
repubblicani Nenni, e i fratelli Bergamo presero parte attivamente alla
fondazione del primo Fascio di combattimento emiliano per poi abbandonarlo poco
dopo diventando avversari del fascismo. Tra i più famosi repubblicani che
aderirono al fascismo vi furono Balbo (che si era laureato con una tesi su
"Il pensiero economico e sociale di M. e del quale Segrè ha scritto:
«Balbo, prima di aderire al Fascismo nel '21, esitò a lasciare i repubblicani
fino all'ultimo momento e considerò la possibilità di mantenere la doppia
iscrizione»), Malaparte e Ricci, che nel FASCISMO vede la perfetta sintesi fra
«la Monarchia d’ALIGHIERI e il Concilio di M. L'intellettuale mazziniano.
Cantimori, nella prima fase del suo percorso politico che lo portò prima ad
aderire al fascismo poi al comunismo, considerava il fascismo «compimento della
rivoluzione nazionale iniziatasi con il Risorgimento, che doveva riuscire dove
il processo risorgimentale e il cinquantennio successivo avevano fallito:
nell'inserimento e nell'integrazione delle masse nello stato nazionale, nella
creazione di una più vera democrazia, ben diversa dal
"parlamentarismo" e lontana dall'"affarismo", dal
"particolarismo", dall'"inerzia" che avevano caratterizzato
l'Italia liberale». Inizialmente la tesi delle origini risorgimentali del
fascismo fu fatta propria anche dai comunisti. Togliatti, polemizzando con il
movimento Giustizia e Libertà e il suo fondatore Rosselli, in un articolo su Lo Stato operaio
critica il Risorgimento e indicò in M. un precursore del FASCISMO. La
tradizione del Risorgimento vive quindi nel fascismo, ed è stata da esso
sviluppata fino all'estremo. M., se fosse vivo, plaudirebbe alle dottrine
corporative, né ripudierebbe i discorsi di MUSSOLINI sulla funzione dell'Italia
nel mondo. La rivoluzione anti-fascista non potrà essere che una rivoluzione
"contro il Risorgimento", contro la sua ideologia, contro la sua
politica, contro la soluzione che esso ha dato al problema della unità dello
Stato e a tutti i problemi della vita nazionale. La stessa posizione fu assunta
d’Amendola, durante il confino a Ponza, nel primo di due corsi sul Risorgimento
tenuti per i confinati, per poi rivedere tale impostazione nel secondo corso,
dopo la svolta unitaria (che segnò l'inizio della politica del fronte popolare
con la conclusione di un "patto d'unità d'azione" con i socialisti),
allorché insistette sulle origini risorgimentali del movimento operaio. I
fascisti, inoltre, rivendicavano una continuità con il pensiero mazziniano
anche riguardo l'idea di “patria”, la concezione spirituale della vita,
l'importanza dell'educazione di come strumento per creare un uomo nuovo e una
dottrina economica ispirata alla collaborazione tra le classi sociali. Baioni
scrive a proposito della contemporanea celebrazione nell’anniversario della
morte di Garibaldi e del decennale della Marcia su Roma che le principali
manifestazioni sembrano confermare il nesso tra il bisogno di presentare il
fascismo come erede delle migliori tradizioni nazionali e la volontà non meno
forte ad enfatizzarne le componenti moderne, che avrebbero dovuto distinguerlo
come originale esperimento politico e sociale. Negli anni della Resistenza la
situazione si complica maggiormente: il fascismo della repubblica sociale
italiana intensifica naturalmente i richiami a Mazzini. Ad esempio la data del
giuramento della guardia nazionale repubblicana venne fissata nel giorno della
proclamazione, quasi un secolo prima, della repubblica romana che aveva avuto
alla sua testa il triumviro Mazzini. Ma anche gli anti-fascisti, in particolare
i partigiani di Giustizia e Libertà di Rosselli, iniziano a richiamarsi sempre
più apertamente al rivoluzionario genovese. Proprio Rosselli scrisse che agiamo
nello spirito di Mazzini, e sentiamo profondamente la continuità ideale fra la
lotta dei nostri ante-nati per la libertà e quella di oggi. A seguito della
caduta del fascismo e dell'armistizio di Cassibile, la lotta contro il nazi-fascismo
vide la partecipazione dei repubblicani (il cui partito era stato sciolto dal
Regime) anche attraverso la formazione di proprie unità partigiane denominate
Brigate M.. Anche un comandante partigiano, proposto per la medaglia d'oro al
valor militare, Manrico Ducceschi, ispirò la sua azione all'ideologia
mazziniana adottando in onore di Mazzini il nome di battaglia di
"Pippo", lo stesso pseudonimo usato dal patriota genovese. Altri
saggi: Atto di fratellanza della Giovane Europa in Giuseppe Mazzini, Edizione
nazionale degli scritti., Imola, s.e., 1Dei doveri dell'uomo Fede ed avvenire
Editore Mursia Doveri dell'Uomo Editori Riuniti university press Roma Pensieri sulla democrazia in Europa, trad.
Mastellone, Feltrinelli, Milano, Andrea Tugnoli, La pittura moderna in Italia,
Bologna, CLUEB, Antologia di scritti Dal Risorgimento all'Europa Mursia Periodici diretti da M. L'apostolato popolare
Il nuovo conciliatore L'educatore Le Proscrit. Journal de la République
Universelle Il tribunoNote La Civiltà cattolica,
La Civiltà Cattolica, «La politica acquista pathos religioso, e sempre
più col procedere del secolo... la nazione diventa patria: e la patria la nuova
divinità del mondo moderno. Nuova divinità e come tale sacra.» in F. Chabod,
L'idea di nazione, Laterza, Bari); Da Dei doveri dell'uomoFede e avvenire,
Paolo Rossi, Mursia, Milano; L'uomo nuovo in Montanelli, L'Italia giacobina e carbonara,
Rizzoli, Milano, Schmid, Michael Rossington, The Reception of Shelley in Europe Citato nell'Edizione nazionale degli Scritti
di Giuseppe Mazzini a cura della Commissione per l'edizione nazionale degli
Scritti di M., Cooperativa tipografico-editriceGaleati; per la citazione vedi
anche: Memoriale M.-Domus Mazziniana; Introduzione a Jessie White Mario, Vita
di M. su Castelvecchi Editore; Giuseppe Santonastaso, Edgar Quinet e la
religione della libertà, edizioni Dedalo; Felis, Italia unità o disunità?
Interrogativi sul federalismo, Armando editore,, pag. 7. Comune di Savona Liguria magazine in. Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento: la
nascita dell'Italia contemporanea Pearson Italia S.p.a., 01 Patria, nazione e stato tra unità e
federalismo. M., Cattaneo e Tuveri, CUEC, University Press-Ricerche storiche, La
tesi del figlio sicuramente di Mazzini è sostenuta in Bruno Gatta, Mazzini una
vita per un sogno, Guida, Il dubbio invece che si trattasse veramente di un
figlio di Mazzini è espresso in Luigi Ambrosoli (M.: una vita per l'unità
d'Italia, ed.Lacaita): «Ma proprio il ritardo con cui venne comunicata a
Mazzini la notizia della morte di Adolphe fa sorgere qualche dubbio sulla
supposizione, per le altre ragioni accennate ben fondata, che si trattasse di
suo figlio». Dubbi simili vengono riportati in Mastellone, M. e la
"Giovine Italia", Domus
Mazziniana, («D'altra parte, è da aggiungere che nelle lettere inedite a
Ollivier, che pubblichiamo, M., pur parlando di Giuditta come della propria
amica, se accenna ad Adolphe come figlio di Giuditta, non allude al bambino
come proprio figlio:...») Barberis, in Dizionario biografico degli italiani,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
M. a Londra È l'autrice del
romanzo gotico Frankenstein (Frankenstein: or, The Modern Prometheus). Curò le
edizioni delle poesie del marito Shelley, poeta romantico e filosofo. Era
figlia della filosofa Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo, e del
filosofo e politico William Godwin.
Susanne Schmid, Michael Rossington, The Reception of P.B. Shelley in
Europe Seymour, Mary Shelley, M., il
cospiratore senza segreti Lettere di
Mazzini ad Aurelio Saffi e alla famiglia Crauford Giuseppe Mazzatinti Soc.
Alighieri Politica e storia Buonarroti e
altri studidi Pia Onnis Rosa Edizioni di storia e letteratura Roma M. «pavese»
e l'Unità d'Europa Quando M. scatenò il
patatrac sognando la Repubblica pbmstoria. Legnago a Giuseppe Mazzini, Grafiche
Stella, S. Pietro di Legnago (Verona) Scarpelli, La scimmia, l'uomo e il
superuomo. Nietzsche: evoluzioni e involuzioni
Pensiero di M., brigantaggio: la Repubblica nasce nel nome di M., su
pri.Carducci scrisse una famosa lirica intitolata Mazzini i cui versi finali
sono rimasti nella storia: «E un popol morto dietro a lui si mise. Esule
antico, al ciel mite e severo Leva ora il volto che giammai non rise, /Tu
solpensandoo ideal, sei vero». La stessa
semplice scritta volle Spadolini, politico e storico repubblicano, sulla
propria tomba a Firenze Luigi Polo Friz,
La massoneria italiana nel decennio post unitario: Lodovico Frapolli, Franco
Angeli, Storia della Massoneria in Italia. L'influenza di M. nella Massoneria
Italiana in. La stanza di Montanelli L' unità d' Italia e
la Massoneria M. massone? A.Desideri, Storia e storiografia, IEd.
D'Anna, Messina. Gli sconvolgimenti operati dalla Rivoluzione francese avevano
fatto dubitare a molti uomini della razionalità della storia, così altamente
proclamata nel secolo precedente. L'unica alternativa allo scetticismo parve
allora la fede in una forza arcana operante provvidenzialmente nella storia» in
A. Desideri, Ibidem «S'identificò la
storia della civiltà con la storia della religione, e si scorse una forza
provvidenziale non solo nelle monarchie, ma sin nel carnefice, che non potrebbe
sorgere e operare nella sua sinistra funzione se non lo suscitasse, a tutela
della giustizia, Iddio: tanto è lungi dall'essere operatore e costruttore di
storia l'arbitrio individuale e il raziocino logico». Adolfo Omodeo, L'età del
Risorgimento italiano, Napoli. Così il genere umano è in gran parte
naturalmente servo e non può essere tolto da questo stato altro che
soprannaturalmente... senza il cristianesimo, niente libertà generale. e senza
il papa non si dà vero cristianesimo operoso, potente, convertitore, rigeneratore,
conquistatore, perfezionante.» (cfr. Maistre, Il Papa, trad. di T. Casini,
Firenze) M., Fede e avvenire, M., Fede e
avvenire. Ha una visione utopica, romantica e anche sincretistica della
religione, che egli considerava come il contributo, in termini di princìpi
universali, delle varie confessioni e fedi alla storia collettiva.» SenatoDoveri
dell'uomo, M., Dei doveri dell'uomo
Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo, M.
il patriota scomodo Reghini a metà
strada tra fascismo e massoneria «Noi
dissentivamo su diversi punti: sulle idee religiose, ch'ei non guardava, errore
comune al più, se non attraverso le credenze consunte e perciò tiranniche
dell'oggi; sul cosiddetto socialismo, che riducevasi a una mera questione di
parole dacché i sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle sétte francesi erano
ad uno ad uno da lui respinti e sulla vasta idea sociale fatta oggimai
inseparabile in tutte le menti d'Europa dal moto politico io andava forse più
in là di lui: sopra una o due cose delle minori spettanti all'ordinamento della
futura milizia; e talora sul modo d'intendere l'obbligo che abbiamo tutti di
serbar fede al Vero. Ma il differire di tempo in tempo sui modi d'antivedere
l'avvenire non ci toglieva d'essere intesi sulle condizioni presenti e sulla
scelta dei rimedi» (M. su Pisacane)
Lettera a Forte Londra. Noi crediamo in una serie infinita di
reincarnazioni dell'anima, di vita in vita, di mondo in mondo, ciascuna delle
quali rappresenta un miglioramento ulteriore…» (M., in Bratina). La vita
d'un'anima è sacra, in ogni suo periodo: nel periodo terreno come negli altri
che seguiranno; bensì, ogni periodo dev'esser preparazione all'altro, ogni
sviluppo temporale deve giovare allo sviluppo continuo ascendente della vita
immortale che Dio trasfuse in ciascuno di noi e nella umanità complessiva che
cresce con l'opera di ciascuno di noi» (Dei doveri dell'uomo). Leggeva Dumas e i testi buddisti Il volto
inaspettato di Mazzini Il Foscolo, che
scriveva di aver visto da giovinetto a Venezia un "libercolo"
attribuito a Gioacchino, in cui erano indicati i papi futuri, affermava che la
fama dell'abate era "santissima" tanto che Montaigne, desiderava di
poter vedere questa meraviglia: «le livre de Calabrois, qui prédisait tous les
papes futurs, leurs noms et formes» G.
da Fiore, Concordia Veteris et Novi testamenti, B. Rosa, Gli appunti
manoscritti di Mazzini, Impronta, Torino, Sarti, M. La politica come religione
civile, con postfazione di Mattarelli, Roma-Bari, Laterza, A.Omodeo, Introduzione a M., Scritti scelti,
Mondadori, Milano, «L'Italia trionferà
quando il contadino cambierà spontaneamente la marra con il fucile». in C.
Pisacane, Saggio sulla rivoluzione, ed. Universale Economica, Milano; M.:
comunismo vuol dire dittatura Il
"Manifesto" di Marx? Scritto contro Mazzini Doveri dell'uomo, capitolo XI, punto 3° M., Doveri dell'uomo, cap.XI (in Baravelli,
L'Italia liberale, ArchetipoLibri, A.
Gacino-Canina, Economisti del Risorgimento, Torino, POMBA, 1G. Mazzini, Istruzione
generale per gli affiliati nella Giovine Italia in Scritti editi e inediti, II,
Imola, M., op. cit. Nome col quale i
greci indicavano l'Italia antica L. Stefanoni,
G. M.: notizie storiche, Presso Barbini, Ricordi dei fratelli Bandiera e dei
loro compagni di martirio in Cosenza Documentati colla loro corrispondenza, Dai
torchi della Signora Lacombe, Pisacane. Volantino pubblicato su "Italia
del popolo", G. Cataldo, Chi ha paura di M.?, in la stampa. D. Smith, M.,
Rizzoli, Milano, D. Smith, Contro-storia dell'unità d'Italia: fatti e misfatti
del Risorgimento, Milano, Gigi Di Fiore, Cappa, Cavour, Laterza, definizione di
Cavour riportata da The Morning Post. We have three Irelands, in Sardinia,
Genoa and Savoy La terza Irlanda, Gli
scritti sulla Sardegna di C. Cattaneo e M., Cattaneo, M., Francesco Cheratzu,
8pagg. M. La Sardegna Tip. A. Debatte Livorno, Risorgimento Rassegna The Illustrated
London News In A. Saitta, Antologia di critica storica, Laterza, Le citazioni
sono tratte da A. Omodeo, Introduzione a M., Scritti scelti, Mondatori, Milano,
(Fusaro); Benedetti “M. in Camicia nera” edito della Fondazione 'Ugo La Malfa';
Dal diario di Bottai. Spesso, all'uscita dei cento e più volumi dell'edizione
nazionale di M. trovo il Duce, a palazzo Venezia, immerso nelle folte pagine. O
meglio, v'immergeva, a ferire di pugnale, il suo metallico tagliacarte: e ne
tirava fuori brandelli di M. A quando a quando il brandello anti-francese,
anti-illuminista, anti-nglese, anti-socialista, etc. etc. Brandelli, mai
tutt'intero, nella sua viva, molteplice e pur varia personalità; S. Luzzatto,
Riprese mazziniane, Mestiere di storico: rivista della Società italiana per lo
studio della storia contemporanea (Roma: Viella); P. Benedetti "Mazzini
nell'ideologia del fascismo" G. Belardelli,
“Camerata M., presente!” Gentile, Balbo, Rocco, Bottai: tutti i fascisti
tentarono di arruolarlo, Corriere della Sera; “Manifesto realista” pubblicato
sulla rivista L'Universale Cromohs Pertici Mazzinianesimo, fascismo, comunismo:
l'itinerario politico di D. Cantimori, R. Pertici, Mazzinianesimo, Fascismo, Comunismo:
L'itinerario politico di Cantimori Cromohs, La memoria e le interpretazioni del
Risorgimento, Guerra e fascismo da 150anni. Togliatti, Sul movimento di
«Giustizia e Libertà», in Lo Stato operaio, antologia F. Ferri, Roma, Riuniti);
Fatica, Amendola, Giorgio, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Mieli,
"L'Italia impossibile di Mazzini un fallito di genio", Corriere della
Sera, M. Baioni, Il Risorgimento in camicia nera, Carocci, Roma; Corriere della
Sera in Arianna editrice Mario
Ragionieri Salò e l'Italia nella guerra civile, Ibiskos, P. Mieli, art.
cit. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.
“Saggi”, A. Saffi e di E. Nathan, Roma, “Lettere a Saffi e alla
famiglia Craufurd, Società Dante Alighieri di Albrighi, Segati, Roma); “La
democrazia in Europa, trad. a cura di S. Mastellone, Feltrinelli, Milano, V. Marchi,
Ricostruzione della filosofia religiosa, in Dio e Popolo, Marchi, Camerino Joseph
de Maistre, Il Papa, Firenze, A. Omodeo (Milano, Mondadori); A. Codignola (Torino,
POMBA); Omodeo, “Il ri-sorgimento italiano, Napoli, ESI, Chabod, L'idea di
nazione, Bari, Laterza, Monsagrati (Milano, Adelphi); Batini, Album di Pisa,
Firenze, La Nazione, F. Peruta, I rivoluzionari italiani: il partito d'azione, Milano,
Feltrinelli, Il processo a Vochieri, Alessandria, Lions; Albertini, Il
Risorgimento e l'unità europea, Napoli, Guida, Smith (Milano, Rizzoli); S.
Mastellone, Il progetto politico di Mazzini: Italia-Europa, Firenze, Olschki); Desideri,
Storia e storiografia, Messina, Anna); R. Sarti, La politica come religione
civile (Roma, Laterza, Mattarelli, Dialogo sui doveri (Venezia, Marsilio); Galletto,
Nella vita e nella storia” (Battagin); N.
Erba, Unità nazionale e Critica storica, Grasso, Padova. N. Erba, Il Contributo
italiano alla storia del pensiero Ottava Appendice. Storia e politica, Istituto
della Enciclopedia Italiana, Roma, Dear Kate. Lettere inedite di M. a Katherine
Hill, A. Bezzi e altri italiani a Londra, Rubbettino; Saggio sulla rivoluzione,
Universale Economica, Milano); I sistemi e la democrazia. Pensieri Con una
Appendice su La religione di M. scelta di pagine dall'Opuscolo Dal Concilio a
Dio, V. Gueglio (note al testo, repertorio dei nomi e saggio introduttivo)
Milano, Greco); Giuseppe Mazzini verifiche e incontri Atti del Convegno
Nazionale di Studi, Genova, Gammarò, Tufarulo, G,M.- L'Iniziatore, l'iniziato,
Dio e popolo. La tempesta mazziniana nella rivoluzione del pensiero Cultura e
Prospettive, Filmografia Viva l'Italia di R. Rossellini. Film incentrato sulla
spedizione dei Mille. M., sceneggiato RAI, regia di P. Passalacqua, Il generale,
sceneggiato RAI, regia di Magni. M. è
interpretato da Bucci. Noi credevamo di M. Martone. Mazzini è interpretato da T.
Servillo. Garibaldi, miniserie di Rai 1 ; interpretato da Lombardo. L'alba
della libertà, cortometraggio, regia di Emanuela Morozzi, Associazione
Mazziniana Italiana Domus Mazziniana Doveri dell'uomo Mazzinianesimo Monumento
a M. (Firenze) Museo del Risorgimento e istituto mazziniano Pensieri sulla
democrazia in Europa Risorgimento. su
Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia. Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. su sapere,
De Agostini. hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, storia.camera,
Camera dei deputati. Istituto Mazziniano
a Genova; Rai Tv: "La Storia siamo noi": una certa idea dell'Italia,
su la storia siamo noi.rai. 3Mazzini e le frontiere d'Italia su viacialdini.
Pagine mazziniane: "il pensiero e l'azione", dal sito della
Biblioteca Nazionale di Napoli, su vecchiosito bnn Domus Mazziniana di Pisa, su
domusmazziniana. Associazione Mazziniana Italiana, Scritti Prose politiche, Cenni
e documenti intorno all'insurrezione lombarda e alla guerra regia, Scritti
editi e inedit, Celebrazioni mazziniane Mazzini, Triumviro della Repubblica
Romana, A. Saliceti Aurelio Saliceti. Giuseppe Mazzini. Mazzini. Keywords: la
giovine italia, la tesi di laurea di Benedetti su Mazzini nella ideologia
fascista, ideologia fascista, gentile, bobbio, garibaldi, nazione italiana,
stato nazionale, stato unitario. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mazzini” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Mazzoni: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la vita attiva dei romani – la
scuola di Cesena -- filosofia emiliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Cesena). Filosofo italiano. Cesena, Emilia Romagna. Grice:
“Mazzoni is important on various fronts: he loves Dante, or Alighieri as
Strawson calls him – his library in organised alphabetically; the other front I
forget!” Compì i suoi studi di lettere a Bologna e
quelli di filosofia a Padova. Membro dell'Accademia della Crusca, fu tra i
preferiti del papa Gregorio XIII che lo avrebbe voluto prelato; Mazzoni preferì
proseguire nella carriera universitaria. Dapprima fu all'Macerata, ed in
seguito a Pisa, dove ebbe la cattedra di filosofia. Nella città della torre
pendente, conobbe un giovane insegnante di matematica, Galilei, con il quale
instaurò ottimi rapporti. Invitato ad insegnare all'Università La Sapienza di Roma.
Benché avesse da poco preso questa cattedra, seguì il cardinale Pietro
Aldobrandini nei suoi incarichi a Ferrara ed in seguito a Venezia. Ammalatosi
sulla strada del ritorno, si recò nella sua Cesena, dove si spense. Opere: “Difesa
della Commedia di ALIGHIERI Grazie alla sua preparazione letteraria, giunse
alla notorietà per il suo tomo Difesa della Commedia di Dante, pubblicato a
Bologna inizialmente, sotto pseudonym e poi l'anno successivo sotto il suo vero
nome, in cui criticò aspramente Leonardo Salviati. Nel testo egli risponde ad
alcune contestazioni fatte alle sue elucubrazioni sul sommo poeta Dante
Alighieri. Parimenti nel libro si occupa anche di argomentazioni pertinenti alla
filosofia ed alla poetica”; “In universam Platonis et Aristotelis philosophiam
praeludia Interessato anche all'astronomia, Mazzoni espone le sue teorie in
quello che risulta il suo testo più importante ovvero In universam Platonis et
Aristotelis philosophiam preludia. In questo saggio egli sostiene il sistema
geocentrico aristotelico contro la sempre più diffusa e apprezzata teoria
copernicana eliocentrica. Questo volume è divenuto molto noto poiché Galilei,
dopo averlo letto, gli inviò una lettera, nella quale difendeva Copernico e le
sue teorie. Questa missiva rappresenta la più antica testimonianza
dell'adesione alla teoria eliocentrica di
Galilei. M., Prefazione, in Mario Rossi, Discorso di Mazzoni in difesa
della "Commedia" del divino poeta ALIGHIERI, S. Lapi.Saggi: “Discorso
de' dittongi” (Cesena, Rauerio); “Discorso in difesa della Comedia del divino
Alighieri contro Castravilla” (Cesena, Raveri); “De triplici hominum vita
ACTIVA nempè, contemplativa, et religiosa methodi tres, quaestionibus quinque
millibus, centum et nonagintaseptem distinctae in quibus omnes Platonis et
Aristotelis, multae vero aliorum Latinorum in universo scientiarum orbe
discordiae componuntur” (Cesena, Raverio), “Della difesa della Comedia di
Alighieri -- distinta in sette libri” (Cesena, Rauerio), “Intorno alla risposta
e alle opposizioni fattegli da Patricio, pertenente alla storia del poema
Dafni, o Litiersa di Sositeo poeta della Pleiade” (Cesena, Raverio); “Ragioni
delle cose dette e d'alcune autorità nel discorso della storia del poema Dafni,
o Litiersa di Sositeo” (Cesena, Raverio), “In universam Platonis et Aristotelis
philosophiam praeludia” (Venezia, Guerilius); TreccaniEnciclopedie Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Toffanin, M. nciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. M., su
sapere, De Agostini. Davide Dalmas, M. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M., su
accademicidellacrusca Accademia della Crusca. Opere di M., su ope nMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di M., Benedetto, M. in Enciclopedia dantesca,
Istituto dell'Enciclopedia, Dizionario Enciclopedico Brockhaus Efron, Маццони,
Джакомо. Ostracismum laudabit huius ce Reipub. formam ciae et A J de Repub.
ses, illud affequebantur, quod improbi meliores essent co- Achen. oss ditione, quàm
probi, quod quid ememanavit ex eo, quod REI PUBLICAE ROMANORVM FELICITAS cibiadis. VITAE
ACTIVAE. Ficienda erant, ad Confu pertinebat examinare diligenter, coaciones quoties
opus est et evocare, So Cspopulore ferre, quicquidque maior parsius filler exequio1
quin etiam in his quae ad belli apparatum et castrensem disciplinam pertinet, hi
summon i imperium habebant. Hiseniius erat sociis quic quid visunt eller
imperare, Trib. militum creare, de l e ett uniq. Habere, ad haec de his qui sub
corum imperio erantin castris arbitratu suo supplicium fumiere, his praeterea
licebat comitante quaestore, lacse dulo imperata faciente, publiciaeris, quantum
resipsa posset, Rei-pub. forniani Regiam esse.
Senatus autem primo quidem acrarii totius dominus erat atg; administrator:
nam et redditus omnes in eius erant potestate, et eiusdem arbitratu im pensae
fiebant, malefi ciaque et crimina PER ITALIAM commissa, de quibus iudicium
publicae fieri debebat, ut puta proditionis, coniurationis, beneficii, caedis,
at q ; insidiarum ad Senatum refeerebantur, eiuss; de his erat cognitio quod si
vlla APUD ITALOS controversia dirimenda, si publica, vel privatim qui spiam, vel
civitas ob iurganda, si cui auxilium, aut praesidium ferendum esset, de his
omnibus curam Senatus ad hib ebat. codemo popularis Rei-pub. fornia
videtur. Consules enim ante quam ex urbe
legions educerentur quinimo et quaede Res Publica per populum transigenda. Et
có.,{{1 Pin !! porro tulerit impendere quod fi quis ad hanc partem respexerit, probaliter
dicere videre licet tuni Regiam, optimorum, populiģ; gabernationem: quoties enim
Consulum imperiuint ueamur, Re gia, quoties verò Senatus authoritatem optimarum
admianistratio, quoties autem populi potestatem respicimus, banaruni omnium
rerum ins, atq; imperi una habebant: his et enim caeterionines magistratus
praeter Tr.Ple.fa? bijci ebantur, hi legationes in curiam traducebant, hic ea
leriter quae errant decidenda ita tuebant, negociaģ; magna ad Senatum: referebant,
et penès ipsos vtquae patres de: creuissent sedulo perficerentur cura omnis et
administratio erat METHODVS. codemq; modo fi extra ITALIANI ad aliquos legat somittenda
esset, vel ad aliquid decidendum, vel ad foedus faciendum, vel ad cohortandum, vel
ad imperandum, aut poftre mo ad resrepetendas, aut ad bellum in dicendum, haec
in yrben venerint agendum, quid eis respondendum in populo commune, ad eo ut quoties
quis ad urbem consulibus ab sentibus profectus esset, prorsusei Respublica optima
tum confilioregi et gubernari videretur, quod fanem multi graecorum et regum
per sua sum habuerunt, quod negocia, quae in urbe haberent ferem, omnia per Senatum
tra is incos, qui maiores magistratus gessissent, admittebatur solus autem
capite damnandi potestatem habuit, qua in re illuds anèapudeos commemoratione
dignissinum fuit, quod eorum instituto iis qui capitis damnati fuerant, ut on
ex urbe palan egrederentur, permittebatur, acfi Tribuum una ex his, quae iudicium
exercebant reliqua fuerit, quae in non dum suffragium tulerit, exiliun: reo sibi
arbitratu suo deligendi facultas dabatur, exulesautem Neapoli [NAPOLI], Praene
siæe,Tybure, atg; in alia quauis foederatorum urbe tuto elle deferebat, lege etiam
comprobandi, ac sanciendi ius habebat et quod caput eitis de pace de bello, defoedere,
decom trouersiis decidendis, aur componendis deliberavit, atque unum quod quem
horum ratuni, aut irritum faciebat, quibus, ex rebus probaliter pofleta liquis dicere,
populuni si bi maxima min Res Publica partem vindicasse, ac Rei publicae formam
Senatus ipse curabat, et providebat. Praetere a quid delegationibus ex terarum gentium,
quae ex populi administratione confatam
fuisse. Quò igitur pacto Res Publicae, in partes diftributa fueritiam sigerentur
suae tianı populo, et eaquidem amplissima pars reli&a est: poterant praeterea
populus ipse magistratus dignissimis quibusque Senatus voluntate, arý; arbitrio
pofitumerat. atq; horum quidem, quae superius
dicta sunt nihil est cum folusenini in Republica et poenae, et praemiis potestatem
habebat, et plerunq; in aliis etiam qua estionibus quoties gra priuior alicui maleficijmulata
irrogannda esset et praesertim ditum VITAE ACTIVAE rendas, ac perficiendas
idoneus hauderat conttar enim legionibus eorum aliquid missum, quae illis
publice suppeditari solebant, namq; fineS.C.neớ; frumentum, neq; vestimenta, nec
obsonia legionibus administrari poterant, ad eo ut eorum, qui exercitus
duxissent expeditiones et consilia omnia, quoties eis obstare, cum eila;
maligne agere Senatus inanimum induxisset, irritaredde rentur, et minimem ad exitum
perducerentur: quin ut quae ili animo et cogitatione complexi fuerant, ac sibi proposuerant
perficere possent, ili Senatus voluntate positum erat: nam is post quam niannuum
tempus praeterierat, aut successors mittendi, aut imperium prorogandi potestatem
habuit, ac etiam penem se undem fuit ducum res gestas et dignitatem velex tollere,
atý; ornare, velele vare, ac deprimere :nani triumphos, neộ; ut I decet
apparere, neġ; ducere cuiquam licebat, ni aliensus fusset S e longissime abfuiflet,
populi certe aflen su opus erat, quodq; est omnium ferem maximum, omnes imperio
deposito, populo eorum quae gesserint rationem reddere oportuit, qua propter Consulibus,
caeteris; Imperatoribus minime expediebat, Se. po. quem voluntatem erga se conteninere
rursu siani Senatus quam uistant umin Res Puplica potuerit po illius
authoritatem approbasset populus, praetereasi quisex Trib. pleb, intercesserit,
nedum Sena erat 1 natus, et ineius fumptum erogasser necessaria. Et siquis
ex prouincia decedere voluisset, quamuis domo pulum tamen intueri, ac illius
rationem habere coactus fuit: in maximis enim,atg; atrocissimis quaestionibus
eorum maleficiorum, quae contra Rempub.conmislaca-. piteple&untur,nihilSenatus
ex equipotuiffet, nisi prius tus nihil eorum quae decreuerat perficere: sed ne
sedere quidem, automnino incuriamvenire poterat: Trib.autí 11 di et um est:
nunc autem quaratione potuerint partes illae quoties voluerint, sibimutuo
repugnare, fibiq; inuicem opitulari, dicendum eft: enimuerò Consul poft quameani,
quam superius dixi facultatem adeptus, copias eduxerat, funini o quid e mille
cum imperio videbatur esse: verum populi, ac Senatus auxilio indigebat, ac sine
his adresge 1 erat officium id femper exequi: quod populo visunr fuerat
ciasý voluntatem quani maximè respicere, his omnibus cepissent, eos relevandi; siquae
difficultas, aut publicuni seei sintortunium; quo minus ellent foluendi obstitisser,
loca . tionemg prorfusin ducendi, ius et potestatem habuit. 7 eodenie modo Consul
ut hac tionibusti midem, ac minime libenter aduers ab an turtum populus, tum
Senatus caniforis, militiaeque; universus exercitus, et singuli, quia fub c o
ad se inuice miuuandun, et impediendum adomnes rerum 217;.occasiones; ex opinione
Polybije aminterse aprem, conue Bodi nichteré connexae; dispofitaeq; fuerunt,vt
hac nullam e Izifior, praestantiorg Rei pub formare periti potuerit.' name, cum
habeant omnes Res pub. In orbe quandam có 11.4, versionem et mutationem. Nullam
ipse hac firmior emar Essen bitratus eft, fiquidem poft uniuersalia dilaniaa missis,
ac sublatis artibus et studiis, aliquo post tenporis intervallo rursus humanum
genus auctum et propagatum fuit, quo tempore in homini bas naturale arbitrary debemus,
quod etia in in ratione carentium animalium generibus comtin gerevidenius, inquorum
gregibus fortiffimus quisý; manifestò principatum fibi vendicat: omnes enim
fortissimum et potentissimum fectabantur, aró; ita vnius dominiuni oliniigitur quisemel
honore illo digni habiti sunt in regnis consenescebant iusta studia fe&
antes nullaq; propter eos invidia, fi qui de m non magna in eis aut v i et tis,
aut verò omnibus Senatus praeerat. idem diem proferendi, fiquam publicani calaniitate
mac rum imperio, ac potestate eflent.i Haecporrò cum elfét vnius cuiusý partium
vis et facultas METHODVS decáüllis multitudinem Senatus metuebat, ad populique
: voluntatem, studi uni et cogitations suas dirigebat. At contra Senatu i populus
ipse obnoxius, et subie&userat, eumque universim, et singulatim colere, arg;
obseruare sua per magni interesse putauit, cum enim effent in ITALIAM ul bidid
tave et igaliuni genera, quae Censores in fumptus appara 33°53.stusd; publicos
locare solebant:in his omnibus conducen discurandis populus implicitus esse
confutu i c :his ve constitutum eft. 287 H Iitus kitus gracatio cernebatur:
verum funiperin emculisciuium wi t a n i lag cotes, eaem qua populus victus
ratione vte ban 7 sed post quàm horum filij cum iam comparata haberent imperio,
essent differre et ad haec licexe etiam spemine
: prae metu contradicente: in concesus concubitus appetore, ató;ita coorta
eft ex RegnoTyrannis. Noći atg hoc manifestem liquet, ex Cyri, Cam.bylif que imperio,
fortissimis viris coniurationes, adinuante etiam ducum En suorum consilia multitudine,
atg; ilius imperii quodpe nesvnum erat forma facile vedelereture ueniebat, atque
indeiam optimatum principalu sortunt, atque initium accepifient, educati abinitio
in poteltate, ang honoribus apparatus, alijsad vim mulieribus per Itapra, et raptus
inferendam, alijdenių; adaliaturpiale conuertebant, atậ; ita optimatum
principatus ad paucorun dominationem hinc illorum imperioper idem quod tyrannos
oppresserat in fortunium finiş imponebatur, ncq; praeterea Regen creare libuit sobiniuftitiac,
qua superiores vsi fuerant metum, neg; pluribus committere Rem publicam audebanttam
re centi rei malae gestacniemoria ad suanı igitur fidem publica recipiebant, atq,
ita popularis fornia effe et aeft horum postremo filii plus caeteris in Res Publica
posse contendebant; atg; sinhanc cupiditatem, maxime locupletiores incidents maximis
pecuniae largitionibas plebem cor runipebant VITAE ACTIVAE paternis, propter
eaae quabilis, communisų libertatis ru ;,-des& ignari, alijvinolentiam
;& luxuriofosconuiuionum translatuseft. praesidia,& rebusadvi&um
pertinentibus,magis quàm pro neceffitate abundarent, ob nimiam bonorum copiam,
atq; aff.uentiam cupiditatibus obsequentės, arbitratifunt oportere principes, ornatus
et epulisabijs, quifubeoruni f :: quod& Herodotus affirmat contra huiusce modi
principes fiebantàgen crofiffimis,& 1 1 tur . duxit . hiprinò administratione
gaudentes commun ivtilitate del nihil antiquius habuere, 31.disinijinsi. Sed emi
a n i eorum liberi e andem å patribus potestatem METHODUS I rumpebant, quae
affirefacaaliena bonaconselle, vitách; suae spem omnem in alienis fortunis ponere
facileducem elaro animo, ace; audacise et abatut,atý;tum Rei publicae for
mailla, cuius conservatio in flavum fiducia posita est, nascebatur, fiqui deintum
plebs in vnum coactacaldem facere, ciues eijcere, proscriptorum; agrosdiuiderein
Scipiebat, donec facuum tuufus, &erforatum, vniusiruperit *0 um
reperiretur, qua propter his motus rationibus eamprae caeteris lau Res publicae
benainaliam bonam non mutetur quam bona innalam, siquidem ut Aristoteles dicit in
habentibus infi dese symbolum facilior eft tramlitus, an quia fimilitudo ila, ali
neracione. Quam qaog contrarieta temr equirit? quodquidéin Ele's atme mentorum trasmutatione
liquid paret: inhisverò Reip.
niutaionibus, quis fimilitudineni, et contrarietateinnes gabit) FACVLTAS
ROMANORVM . quo ad leges veròattinet, quibusviifunt ROMANI, occur
rimtnobismulca, quae vt figillatim esplicentur,rom ab otoexordientur; et inprimisant
equam ROMULUS [ROMOLO] leges 1.2. demai. vixit .pokea loges quasdam ipse tulit,
cum alijs sequentibus Ro. gibus, quas curiatas appellarunt, fequidem conuacat oper
triginta curias populo Imgalifý; curiis inseparatas epra constitutis et sententiam
rogatistege solim ferebankor,;? quae populi congregario comitia curiata
dicebantur, à cocundo; quòd populuscoiret,et viri timlogesterret, et
dicerScruiusTulliusRex hunc mioremimuutle: camépo pulo eaporekasrelictaest, vt
plebiscita, et leges comitijs. Dät Polybius, quaeonines Rerum pub. forniasin
seconti not atg congregat, ne quacar uim vlera quàm facis fit au et a 1ist. et prouceta
in sibi adherenteni,& coguatam pernicien in: -b.cideret: fódvniuf cuiufớiroboreac
potential interfeinui liseem obnitentesulla ciuitatispars vfquam declinaret, ne
1.Dvivein altum propenderer. ex supradi& isautem dubucabit forfan
aliquis,curfaciliusa Pomp.in suriaras ferret populus incerto iurs, incertis que
legibusparis. H 2 curiaris LECALI vinil 1.& ler VITAE ACTIVAE.
COROLLARIVM Augusto [OTTAVIANO] hinc et Suetonius ait Tiberium à [GIULIO CESARE] in foro legecu riaelle adeptatum,
hoc eft suffragiis populi percurias collectis. quidam retulerunt. pe: TAPE PTA
LEGALIA ! Ilarunt, ad haec verò addita su t plebiscita, Senatus consulta, practorumedicta,
et principum placita,exquibus EJSER Servorum verò (cuius origo deiu regentium fluxit)
iuxta curiatis ferrentur,iii IB":NOI 3quaedam .de iur. 8oz idem parierro relabitur
ybi putabat,cum quiinciuitate sua Facinus patrasset, si in alium lo cum peruenisse
t accusam o m . iud. ai tik di t e r e a sunt prudentum declarationes, quas
responsa appeluorum fi Ергл. 800exa& isdeinceps Regibus lege Tribunicia Regum
leges antiquataesunt, poftquècaepit POPULUS ROMANUS incer tomagisiure&
consuetudine aliquavti; quamlegelata, done e decem viri leges à Graecis
petierunt, quas in tabu liseburneis praescriptas pro roftrisappo fuerunt,vt faci
lius percipipoffent, atý;cum animaduerfumeffet aliquid 1
primisistislegibusdeelle; aliasduaseisdem tabulis,adie cerunt,&
itaexaccidenti appellate esuntleges duodecim 14 'ride illo crimine non potuisse
exemplo Hermiodori. Qui demomn eius ROMANORUM coaluit. 804 quod quidem universum
refertur, vel ad personas,velad res, vel ad a et iones. Iureconsulti verba vnatantunt
fuit conditio, istig;domi defta.ho. nioalieno contra naturam subijciebantur.
:.ning Liberi in li. cum TABULARUM, quarum ferendarum authorem fuiffe X Cicerone
.I.v.in. viris Hermodorum quendá Ephesum exulantem in ITALIA Tus, argumentum ad
exules. net ibni I PERSONAE lib.3.f. dedos hominesautem autliberisunt,autferui.
fta.ho. li ? رز inli.2.de80r rationeveròhuius
Hermodorinon rectè colligitBaldus
{,oz inillisautêquiafummaeratobscuritas desiderataeprop habent,quodlibet
faciendi legenon prohibitum, atý;isto rum, alij sunt liberti, alij libertini, alij
ingenui. Quià mortein vita millosre uocarunt, appellabantur. -horun, autem alij
ciueserant ROMANI, qui vindicta, censu,Vlp.cap.s. : aut testamento nullo iure
impediente n i anumis li sunt, alij instic. latiniIuniani,quiexlegelunia
interamicos manumisli funt, alijdeditiorum numero, qui propter noxam torti
nocételáinuenti sunt, deinde quoquomodo nianumisli. LIBERTINI. INGENVI. $ 11.
Ingenuorum veròalijluisunt iuris, alijverò alieno iuri fubie&i. et savie quialieno iuris ubie et isuntfilij familias appellan-1.1.f.&his
tur, qui inditione, et potestate patris sunt vel natura, velquisútlui
adop. natura sunt qui ex nuptiis uxoris
et maritioriuntur. NVPILAE. Nuptia cverò apud ROMANOS tribus per ficiebantur modis
Bəê in2: tiaeper coemptionem. Mulieres autem quae in manu per coenuptionem
conue nerant matres familias vocabantur, quaeveròvsu, velfar reationeminime.
caeterae aliaevxoresvsu erant. Anim aduertendum est autem maximam fuisse differentia
adoptione. Farreatione nempè, coemptione, &ylu, et fanèfar reatio Top. Cicerone
folis pontificibus conueniebat. coeniprioverò cereis solemnitatibus per agebatur,
fese.n. 1. 2. ff.de METHODVS Liberi sunt qui nullius
imperio subie &I facultatem liberā LIBERT1. Liberti funt quos domini ex iustaserui.
Il convito di Platone. Discorso de' Dittonghi di M. all'Illustrissimo Signor il
Signor Francesco Maria de Marchesi del Monte. In Cesena Appresso Raverio. Questo
Discorso sitrova altresì inserito nella celebre Raccolta degli Autori del bel Parlare,
impressa nella Basilicata. II.Discorso di M. indifesa della Comme dia del
divino Poeta Dante. In Cesena per Bartolomeo R a verii in4.Ladedicaè AlMoltoMag.mioSig.
Osservandissimo il Sig. Tranquillo Venturelli . Da Cesena. De’ motivi, che
indussero l’autore a scrivere questo dotto ed ingegnoso Discorso, se ne ragiona
qui addietro a cart.19. e segg. III. M. Oratio in funere. Guidiubaldi Fel trii
de Ruvere Urbinatium Ducis .Pisauri apud Hierony mum Concordiam. in4. IV.M.
Cæsenatis deTriplici HominumVita, Activa nempe, Contemplativa, ei Religiosa
Methodi tres, Qyestionibus quinque millibus centum etnonaginta septem
distincta. In quibus omnes Platonis et Aristotelis, multæveroaliorum Græcorum, Arabuin,
et LATINORUM in universo Scientiarum Orbe discordiæ componuntur. Quaomnia
publice disputanda Roma proposuitAnno salutis Ad Philippum Boncompagnum S.R.E.
Cardinalem amplissi mum. Cæsena Bartholomæus Raveriusexcudebat in Questo volume contiene le celebri conclusioni
di quasitutte le scienze, che M. difese pubblicamente con meraviglia di
tutta S2 . 1 1 Ita 1T Della Difesa della Commedia di Dante
ec. Parte Pri ma, che contiene li primi tre libri, pubblicata a beneficio del mondo
letterato. Studioe Spesa di D. Mauro Verdoni, D. Domenico Buccioli Sacerdoti di
Cesena, e da essi dedi cata all'Illustriss. eReverendiss.Monsignore Sante
Pilastri Patrizio Cesenate dell'una e dell'altra Segnatura Referendario,
Abbreviatore de Curia, e della Santità di N. S. In nocenzioXI.eSua Cam. Apost. CommissarioGenerale.In
Cesena Per Verdoni. in e V. Della Difesa della Commedia di Dante distinta
in seta te libri; nella quale si risponde alle opposizioni fatte al D i s corso
di M. e sitratta pienamente dello arte Poetica, e di molt altre cose pertenenti
alla Filosofia, e alle belle Lettere Parte prima ; che contiene i primi tre
libri.Con due Tavolecopiosissime.AllIllustrissimo eRe verendissimo Sig.il Sig.
D. Ferdinando de'Medici Cardinale di Santa Chiesa . In Cesena Appresso
Bartolomeo Raverii in4. . Italia . N o n seguì però questa famosa Disputa in
Roma, com' egli avea disegnato di fare, ma bensìinBologna nelFebbrajo dell'anno
seguente; on degliconvennemutare il frontispizio al suo libro, e porvi: Quæ
omnia publice disputanda Bononia proposuic Anno Salutis Veggasi qui addietro
ove sitrattaampiamente disìfatta disputa,e delmeritodi questo libro.Della Difesa
della Commedia di Dante distinta in sette libri, nella quale si risponde alte
opposizioni fatte al Disa corsodiM. M. esitratta pienamente dell' Arte Poetica,
e di molte altre cose pertinenti alla Filosofia, ed alle belle lettere. che
contiene gliultimi quattro libri nonpiù stampati; edora pubblicata incuisitrova,
cosìpergloriadel M., come per le insigni qualità del Prelato, che vi si
rilevano, cred o ben fatto di riportarla in questo luogo, e dèla seguente.
a beneficio del Mondo letterato. Studio eSpesa diD. Mait ro Verdoni,eD.
Domenico Buccioli Sacerdoti diCesena,. da essi dedicata Ad Albizzidell'una e
dell'altra Segnatura Re ferendario, Giudice della Sacra Congregazione di
Propagan da, ePrelato domestico di N. S. Papa Innoc. XI. in Cese na per Severo
Verdoni in 4. Nell'occasione, che D. Mauro Verdoni, illustre letterato di
Cesena, ebbe ri soluto di pubblicare questa seconda parte della Difesa di Dante,
vedendo che la prima era di già divenuta assai rara, si determinò d i dover
ristampare anche questa, siccome fece, dedicandola a Monsig. Sante P i laseri
Prelato Cesenate per dottrina e per esemplarità di costumi riguardevolissimo,
il quale aveva prestato a tal effetto al Verdoni ed ajuto e favore . M a
essendo Monsig. Pilastri passato a miglior vita in tempo che appena
n'eraterminata la stampa, convenne aglieditori procacciarsi un nuovo Mecenate,
cui subito ritrova rono senza uscire dellalorpatria nelladegnissima per sona di
Monsig. Dandini Vescovo diSinigaglia, Prelato anch'esso digran nome ; onde è
avvenuto che quasi tutti gliesemplari siveggono con nuova dedica indirizzati a
questo secondo, ede'primi non m'è riu. scito discontrarne cheuno,ilquale
siconserva pres so dime unitamente all'altro dedicatoaMonsig. Dandini. La
dedica a Monsig. Pilastri è in data, e quella a Mopsig. Dandino è de'17. dello
stessomese edanno. Epoichè questa prima dedica merita assolutamente d'essere
tratta dall'oblivio ne Illuge 'animo fatociperultimare que sta grande
impresá frastornataci da tanti ostacoli) abbia mo stimato convenientissimo
debito presentarla a V. S. Illu striss. per una particella di dovuta
restituzione, eriman dar (comesidice) questo FiumealsuoMare. Nepunto erriamo, sesottonone
di Mare ricopriamolavastità delsa pere, la profondità della prudenza, i tesori
delle Cristiane virtù,cheadornano l'anima di V. S. Illustris.Avvenga che, se
sirifletta con quanta carità dispensa ella a'Poveri isussidjdellavita,
a'suviConcittadinilegrazie, con quan ta magnanimità, emulando la pietà de'suoi
Avi, eregga agli Eroi del Paradiso gli Altari;sovvengaleCongregazioni del
Taumaturgo Fiorentino, ed in specie questa della Pa che con tanta esemplarità
dal Porporato, che ci regge, ècomunemente protetta,e progredisce ne dettami
delpiosuo Illustriss. eReverendi ss.Monsig. Comparisce sulla scena
del Mondo alla seconda lucelaPri. ma Parte di cotestaDifesa fregiata del
pregiatissimo nome di V.S. Illustriss.per contestare, che volume si prezioso
meritò sempre ne'suoi natali uscire ornato in fronte del no me d'uno d'e primi
Personaggi, che venerasse il Secolo. Ed
invero,sesiconsiderinoledignità,merito,virtù,e l'altre venerabili doti, che
adornano l'animo di V. S. III., puossi senza veruna nota concludere, che sia
sempre stato secondato da segnalatissimi favori nelli suoi ingegnosi parti il nostro
M.; mentre questi sono stati sempre genero samente accolti, edalle prime
Cattedre, eda'primiSavj del mondo, leggendosi sino da’Chinesi iportenti di
questo grandeingegno. Ondenoiin considerazione delle grazie tan tevolte compartiteci,e
dell tria, ' Fondatore, non potiamo, nè dobbiamo concludere altro della
religiosa prodigalità della sua mano, se non quello, che della mano dispensiera
di Probo cantò Claudiano: Præ 1 Præceps illamanus Auvios superaba tIberos,
zioni,eprove dell'amore che V. S. Illustriss. le porta ed in udire tutto giorno
i religiosiattestati della sua pietà a risplendere o ne' Tempii, o negli
Altari, non le consacri tuttose stesso in olocausto? Se nontemessimo tormentar
quivi la sua modestia, proseguiressimo a mostrar con mille prove la sua gran
dilezione verso la Patria, e noi tutti ; giac chivisonopochi,chenonrammentino
legrazie,ifavori, eisovvegni conseguiti dalla bontà diV. S.Illustriss., ch'e
Aurea dona voinens . A questo Mare adunque, la di cui gentilissima aura hacci
sovvenuto a condurre alporto un Opera contrastataci da im. petuosi aquiloni di
mille infortunj, abbiamo noi presentato nella tavola de nostri voti questo
eruditissimo libro, col solofinedi rimostrare all'universale Repubblica
diDotti, che se la nostra Patria ha saputoprodurre i M., i > Chiaramonti, i
Dandini, e gli Uberti, preseduti alle pri me Cattedre di Roma, di Parigi, di Bologna,
e di Pisa, ha ancora nelmedemo tempo avuto nobilissimi Figli, chegli hanno generosamente
accolti, favoritiegraziati. Egiacche
questa Difesa per se stessa rende immune da qualsisia di fesa l'Autore, che ha
saputo mettersi in tal quadraturii coll' altissimo suo sapere, che non paventa
veruna offesa; resta perciò liberaa V.S. Illustrissima lasola difesa epro
tezione di noi, che abbiamo volentieri registratoin questo Libro
lossequiosissiino e riverentissimo tributo della nostra divozione al di leigran
Nome; che non potrà mai ricor darsi e da noi, e dalla Patria tutta senza
rassegnargliene con un eccessivo ossequio un tenerissimo affetto. Perciocchè
chi è, che nella Patria in vedere le affettuose dimostra f > mula di
quelGrande, neque negavit quidquam peten tibus; et ut quæ vellent, peterent,
ultrò adhortatus est. Cesena. Sacerdoti Cesenati, VJ. Discorso di M.
intorno alla Risposta ed alle opposizioni fatregli da Patricio, per est .
M a vaglia per tutti, e sia ne' fasti dell eternità a caratterid'oro registrata
la grande restituzione, che ha fat to alla Patria del suo gloriosissimo, e
primo seguace del Redentore, Martiree Pastore d'EvoraS. Mancio ladi cuimemoria
quasi quiestintaèstata dalla dilei Pietà ravvivata ; le di cui Sante Reliquie,
fatte portare dalle ultime regioni del Tago, siccome hanno impietositi gli
Altari, così ancora hanno indotta tal venerazione del di leiNome, che
ingegnosamente si dice, meritar ella corona più preziosa di quella, che da' Romani
donavasi a chi rendeva i suoi Cittadini a Roina; ovvero che solamente lapietà
di Monsig. Sante ha saputo accrescereifigliSanti allaPatria;eche sopra questo
fortissimo Pilastrosivede ogni giorno più sta bilita la divozione verso gli
Eroi del Paradiso in Cesena. Viva dunque il nome di V. S. Illustriss., e fino
che i nostri celebratissimi Rubicone e Savio tributeranno i loro liquidi
argenti all'Adriatico, resti impressa negl’animi di tutti la memoria di si gran
Benefattore. Vivaquesto Cesenate Ti moteo, a cui non Atene, ma Cesena, che è
pur l'Atene della Romagna, ergapertrofeouna corona di cuori. Mentrenoi.
restringendocia supplicarladigradire quest'attestato delno stro umilissimo
ossequio, riverentemente inchinati, la sup plichiamo anon isdegnarsidi permetterci,
che ci pubblichid mo per sempre Di V.S. Illustriss.e Reverendiss. Vmiliss.e Reverentiss.
Servi Obblig. D.Verdoni, e D. Buccioli > te 145 tenente alla Storia
del Poema Dafni, oLitiersa di Sositeo Foeta della Plejade. InCesena appresso Bartolomeo
Raverii .in4. VII. Ragioni delle cose dette, ed'alcune autorità citate da
Jacopo Mazzoni nel Discorso della Storia del Poema Dafni oLitiersa di Sositeo .
In Cesena per Bartolomeo R a verii in4.
Del merito diquesti dueOpuscoli, e della cagione, che indusse l'autore a
scriverli, si vegga acart.78.e segg.,eacart.84. e85. Jacobi M. Cæsenatis, in
almo Gymnasio Pisano Aristotelem ordinarie, Platonem vero extraordinem
profitentis, in universam Platonis et Aristotelis Philosophiam Preludia, sive
de comparatione. Platonis et Aristotelis. Liber Primus. Ad Illustrissimumet Reverendissimum
CarolumAn sonium Pureum Archiepiscopum Pisanum .Venetiis Apud Joannem Guerilium
in fol. Questo volume, che dal Mazzoni era,forse non senza ragione, riputato il
suo capo d'opera, si vede al presente giacere quasi in una totale dimenticanza,
colpa de' nuovi sistemi di Filosofia, che di poi si sono introdotti . Ad ogni
modo è opera dottissima, e quanto mai si possa di -. re ingegnosa, e nel suo
genere affatto singolare; con tenendo quasituttiisistemi degli antichi Filosofi
esa In Exequiis Catherina Medices Francorum Regine. Florentia apud
Philippum Jun ctamin 4. L'Autore dedica questa sua Jacobi Mazonii Oratio habita
Florentia Idus Orazione al Duca di Bracciano per 1 ! i molti favori, che avea
ricevuti da questo m a gnanimo eliberalissimo Signore;dallacuigentilepro
pensione verso di sè dice, che sisentiva tratto a scri vere, epresentargli un
giorno cose molto maggiori .mi . T minati ed illustrati in una
maniera sorprendente. Lettere . Una lettera del Mazzoni scritta a Belisa rio
Bulgarini si trova impressa a cart. 121. delle Consi derazioni del medesimo.
Bulgarini sopra il Discorso di esso M. in difesa della Commedia di Dante . In
Siena appresso Bonetti. in 4. Tre altre scrit teparimente alBulgarini sileggono
a carte e delle Annotazioni, ovvero Chiose Marginali dello stesso Bulgarini
sopra la prima parte della Difesa di Dante di M.. In Siena appresso Luca
Bonetti. Ed una indiritta a Speron Speroni staa cart.355. del volume quinto di
tutte l’Opere di esso Speroni dell'ultima edizione di Venezia. Dialoghi in
difesa della nuova Poesia dell'Ariosto. Di questi dialoghi fa menzione M,
medesimo alla pag. 20. delsuo Discorso de’ Dittonghi; e dice ch'era presto, a Dio
piacendo, periscamparli, il chepoinon fece, forse per essersi ricreduto sovra
tale materia; giacchè allora, che era molto gio Considerazioni sopra la Poetica
del Castelvetro. Que ste furono mandate dal Mazzoni al Barone Sfondrato, che ne
dà ilsuo giudizio inuna lettera scritta all'autore t r a quelle del Vannozzi.
vane XIII.Commentarj sopratutti I Dialoghi di Platone.P rea se M. a scrivere
questi Commentarj per soddisfazione di Francesco MariaII, della Rovere Duca
d'Urbino, ed egli medesimo ne fa menzione in una lettera scritta a Veterani
Ministro del Duca, come pu . re a reinaltraa Belisario Bulgarini,
cheleggesi acart.213. delle Annotazioni ovvero Chiose marginali ec. di esso Bul
garini. M. medesimo poiacart. della DifesadiDante nomina isuoi Commentarj sopra
il Fedone, XIV . Libri de Rebus Philosophicis, fatti ad imitazion di Varrone. Compose
M. quest'opera inunasua villetta sulla riva del Savio, e. disse a Roberto Titi
che pensava di pubblicarla prima della seconda parte della Difesa di Dante.
Veggasi quan toda mesenediceacart. 44.e98. delpresentevo lume. Censura del
primo Tomo degli Annali del Cardinal Baronio . Il celebre Simon in una lettera
a Dandini, che si legge a cart. della sua Biblioteca Critica, afferma d'aver
inteso da questo Prelato, che M. avea scritto contro il primo tomo del Baronio,
tosto che questo uscì in luce, e che il
manoscritto di quest'opera sic onservava nella libreria delGran Duca. Discorso
d'una breve Navigazione, chesi puòfare da Portugallo nell'Etiopia, e nel Paese
del Prete Janni . A Buoncompagni General di S. Chiesa, e Marchese diVignola. Questo
si trova in una Miscellanea della Biblioteca Vaticana. Discorso sopra le Comete.
Anche questo Discorso, lodatissimo dalSig. Guidubaldo de' Marchesidel Monte
celebre Astronomo, dovrebbe ritrovarsi nella Libreria Vaticana tra'Codici
Urbinati; ma per diligen zefattenon siè potuto rinvenire al num.513., allegato
dal Conte Vincenzo Masini nelle Annotazioni al primo libro del suo Poema del
Zolfo, e dietro a lui da Muccioli a cart.116. del suo bel Catalogo della Bi
. Biblioteca Malatestiana . Veggasi ciò, che del pregio di quest'operetta
si è da noi detto alla pag. 101. La Fisica, e i Dieci Libri dell'Etica
d'Aristotile. Tadini scrive che il manoscritto originale di quest'opera,
mancante però e imperfetto, si conser vava alquanti anni sono presso ilSig.
Gio: Antonio Al merici Nobile Cesenate. Il medesimo si afferma da Ceccaroni in
alcune memorie mano scritte, comunicateci dal Ch.Sig. Arcidiacono Chia ramonti,
dalle quali si apprende, che lo stesso Cecca roni avea fatta copia
dell'originale inedito dell' Etica; ma sento che questa copia ancora sia andata
insinistro,epiù non siritrovi. In universam Platonis Rempublicam Commentaria.
Della Rupubblica di Platone da sé commentata fa ri cordo M. medesimo nella
lettera di ZQ / 148 ν gata al Sig. GiulioVeterani; dicendo,che quantopri
ma pensava di mandarla, o di recarla esso medesimo al Sig.Duca d'Urbino. alle
La X X . Orazioni . Di varie Orazioni dal nostro autore composte in diverse
occasioni, e non mai pubblicate, si è fatto memoria nel decorso di quest'opera,
prima viene accennata a cart.89., detta in Pisa nell' aprimento degli Studi in
lode della Filosofia . La se conda scrittada lui eloquentissimamente per movere
il Pontefice Clemente VIII. a ribenedire il Re Arrigo IV. di Francia a cart.
99. La terza detta ne' funerali del celebrePierAngelio da Bargaacart. 100.
El'ultima final mente recitata nell'Archiginnasio Romano, facendo una
comparazione tra l'antica Roma e la moderna ; . della quale sifavella
acart.112. Lezioni. Quattro Lezioni altre sì scrive M. sopra che mai non
videro la luce . Elle furono reci. tate in Firenze, due nell'Accademia
Fiorentina per ri schiaramento di due luoghi di Dante; e l'altre in quella
della Crusca sopra i Brindisi,e le feste Vinali degli Anti chi.Veggasi a cart.77.94.95.e97.
Lettere. Di alquante lettere del M. si conservano gli originaliin Pesaro nella
libreria Giordani, delle quali lach.me.del dottissimo Sig. Annibale degli Abati
Olivieri si compiacque giàmandarmi copia; e sono tre scritte al Cardinale Giulio
della Rovere, una al Duca d'Urbino, due a Giulio Veterani, ed una a Piermatteo
Giordani. Altre parimente originali scrittea Belisario Bulgarini si trovano in
alcuni Codici esistenti nella Libreria dell'Università di Siena. Oltre
aquest'opere ilTadini afferma, essercime moria, che dal Mazzoni sieno state
scritte anche le seguenti, cioè I. In Homerum Paraphrasis. II. Numi smatum Græcorum
Interpretatio. In Lullum Commentaria.IV. Naturalis Philosophie Arcana.V.
Secretoperco noscere da'Bigari e Quadrigati, denari Romani, qual fazione restasse
vittoriosa ne' Giuochi Circensi, se la Veneta o Prasing Rossa o Bianca.
Tractatus de Somniis. L'originale di questo trattato de'Sogni dice, che fu
venduto molti anni sono da certuno al Sig.Pier Girolamo Fattiboni Gentiluomo
Cesenate. Ma che avea incontrata la stessa disgrazia degli altri, non si
essendo più trovato. Forse tutti questi mss. dovettero essere in quelle dieci
casse di libri di M., che rimasero dopo la di lui morte presso Girolamo
Mercuriali in Pisa, come il Dottor Ceccaroni nell'accennate Memorie afferma
apparire da un pubblico Documento rogato. Per Per ultimo il
sopralodato Sig. Arcidiacono Chiara monti mi assicura, esservi anche al
presente chi sostiene doversi attribuire al M., così la Canzone composta in lode
del Torneamento fatto in Cesena nel Carnovale, la quale incomincia Mostra
l'alterafronte,come la difesa della medesima, che fu pubblicata sotto nome del
Bidello dell'Accademia con questo titolo; Risposta di Matteo Bidello
delloStudio di Cesena al Parere d'incognito Oppositore fatto sopra la Canzone Mostra
l'altera fronte. In Cesena conlicenza de Su periori Per Bartolomeo Raverii. in8.;
machenon avea avuto modo di verificare veruna di queste voci. lo per altro non
averei difficoltà di credeCre, che così la Canzone,come ladifesa potesser essere
fattura del nostro autore, essendo la Canzone assai bella ; e la difesa molto
dotta e giudiziosa, e degna assolutamente del nostro grande e celebratissimo M..
Mazzoni. De triplice vita. Mazzni. Keywords: implicature, repubblica romana,
the Latins on ‘vita activa’, I romani e la vita attiva. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Mazzoni” – The Swimming-Pool Library.
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