Monday, November 4, 2024
Grice e Zuccante 9° DOTTOR GIUSEPPE ZUOCANTE | os PROFESSORE NEL R. LICEO M. D'AZEGLIO DI TORINO . SAGGI FILOSOFICI i TORINO ; ERMANNO LOESCHER FIRENZE ME R'ONCA Via Tornabuoni-20 ‘Via del Corso = 307 3 1892 ran ali Aia n) 2A PREFAZIONE Ho raccolto sotto il nome di Saggi filosofici certi studi a cui attendevo da qualche anno fra l'una e l’altra occupazione del mio magistero, e che mi parvero non affatto privi d’ interesse per chi s° oc- | cupi di filosofia. | Sono i più d’indole storica: credo anch'io con molti altri che la filosofia non possa prescindere dalla storia e dalla critica dei sistemi, e il metodo suo debba essere essenzialmente storico critico. Alcuni di essi furono pubblicati nella Rivista -& diretta prima dal Mamiani, ed ora con nome ed indirizzo più largo dal Ferri; e ricompaiono qui con modificazioni ed aggiunte, a mio credere, im- portanti. I più sono inediti. Di essi uno, quello che ha per titolo « determinismo di Iobn Stuart Mill »,ebbe già nel NR: : | tin po’ più di modestia, una fiducia meno PREFAZIONE Sono dolente a questo proposito che non mi sia possibile comprendere in questo volume un altro mio studio sullo Stuart Mill, che pure dal- l'Accademia dei Lincei fu quest'anno onorato d’un premio. i Del resto il mio libro non riempie alcuna la- cuna, non soddisfa ad alcun bisogno; nè io, scri- vendolo e pubblicandolo, ho avuto questo pensiero e questa pretesa. L’ unica cosa buona e nuova che ‘a me pare d’aver fatto, si è d’avere scritto con una certa chiarezza c una certa semplicità di cose filosofiche. È così raro che ciò si faccia, scrivendo di filosofia, ch'io mi terrò fortunato se mi si giu- dicherà almeno non tanto oscuro quanto si suole essere, in tale materia. Non faccio una professione di fede filosofica; le mie idee risultano abbastanza chiaramente dai Saggi. Dirò solo che sono nemico di tutte le esa- gerazioni, di tutte le esclusioni sistematiche, da qualunque parte vengano: dirò anche -che sono amico della critica cortese, della critica da persone per bene; e che deploro, odio anzi, quel fare bur- banzoso, altezzoso, con cui taluni dal tripode della loro scienza « giudicano e mandano », bandendo dal mondo scientifico i poveretti che hanno la sventura di non pensarla come loro. Il mondo è tanto grande che ci dovrebbe essere posto per tutti... per tutti 1 lavoratori serii ed onesti. Un po’ più di riserbo, cieca nelle Bir —— __ = inno - "e cai ni ES PREFAZIONE i AL aiar cigeee catena sete AR i NANI PEETLI proprie forze sarebbe tanto di guadagnato per la scienza. Ci si avvezzerebbe così a essere un po” più tolleranti, un po’ meno sgarbati, a non dare come certo irrevocabilmente ‘e assolutamente quello che invece è molto, ma molto problematico; ci sì av- vezzerebbe sovratutto a dubitare .un po’ più e alal affermare un po’ mena. i Dicendo questo, non mi riferisco -a nessuna in particolare delle varie scuole filosofiche; mi ri- ferisco piuttosto a tutte, chè tutte hanno più © meno la pretesa di aver risoluto definitivamente i problemi filosofici, tutte hanno lo stesso spirito d’ intolleranza, lo stesso dogmatismo ad oltranza. | - A me piace la libertà e la tolleranza, come in tutto il resto, anche in filosofia: la libertà è con- dizione di progresso mon soltanto nella vita civile e politica, ma in quella più intima del pensiero e delle idee. de | ì Grancona (Vicenza), 18 settembre 1891 Fino a Socrate la filosofia s'era tenuta a un livello superiore alle intelligenze comuni, e in generale avea ben poco giovato al migliore avviamento della società. S'era proposto come oggetto d'esame la natura ed il cosmo; ma ne avea considerato il rispetto fisico e metafisico unicamente, vale a dire avea studiato la matura in se stessa e nelle sue relazioni affatto l’uomo, che è pure la della natura. O se pure l’uomo fu preso a considerare, poichè i grandi problemi che poteano certo sfuggire agli acuti pensatori che prece- dettero Socrate, non lo si fece speciale ed a parte: chè anzi, siccome la morale e la fisica, l’uomo e la natura erano confusi insieme, collo stesso sistema, onde spiegavano la n spiegare il fatto umano in generale. Così a tutti è noto che i Pitagorici, come dicean dei numeri!, anzi faceano dei numeri le cose stesse*, 1 Aristot. Metaph. 1. ©. 3. 2 Aristot. Metaph. 1. 6. 6. coll’assoluto, trascurando parte migliore e più nobile interessano l'umanità, non mai l’oggetto d’ uno studio atura, pretendeano i filosofi o le cose fatte ad imitazione teca Be” ml è dle dé FORRAIIET PIO AA =L METODO 4 DEL M spiegavano la morale e i rapporti morali pure per mezzo dei numeri!. Ma questi erano tentativi PIÙ o meno ingegnosi, più o meno fortunati; in realtà non faceano procedere d'un passo lo studio dell’uomo € della sua natura morale. Per istudiare l’uomo conveniva partire dall'uomo stesso, conveniva sovratutto distaccarsi da quel vago aggregato di parti disparate e contraddicentisi, concepito allora sotto il nome di fisica, e dare al nuovo studio un indirizzo suo proprio e indipendente. Come Ippocrate nel suo trattato Dell’antica medicina ® co- mincia dal respingere il tentativo fatto per congiungere lo studio della medicina a un?’ ipotesi fisica od astrono- mica; e mentre si scaglia contro gli scrittori medici, che perdevano il loro tempo a stabilire ciò ch'era l’uomo nel suo principio, in qual modo cominciò ad esistere e come fu generato, tenta di fissare i limiti entro i quali la me- dicina deve aggirarsi; nella stessa maniera Socrate, svin- colandosi all'atto “dalla tradizione filosofica, reputando pazzo chi sì occupasse di cose divine? (e tali erano per lui le cose della natura e del cielo), perchè gli dei aveano di queste riserv a se i i È ichi q rvato a se stessi il segreto, richiamando 1 Aristot. Metaph. 1, 5? p. 985-986. 'Tò uèv cowivda Fay dol) U ’ n 1) a PZA ia diuziocnivi, 76 7° Torovdz duyà VAL volle Èxspoy NA ; S o vi > } TIVOMEVZ, AI È, Lode E Sr AGI DIAZ nuo, FL os TZ ZA èrindebpaza DIANA : , Sn idea e44oTO Ciponezta. 5 Xenoph. Mem. Socr. IV 7. 6 2 AI) «DO ERLTTO) I | ‘ | -- e DI FILOSOFARE DI SOCRATE 5 perciò i suoi famigliari alla conoscenza pura € semplice di se stessi !, l’unica all'uomo accessibile; pose il fonda- mento a quella scienza morale, che dovea poi trovare in Aristotele il perfezionatore e il maestro. È per questo motivo che Cicerone potea dire di Socrate, che richiamò la filosofia dal cielo in terra e la collocò nelle città e la introdusse nelle case, e la sforzò a ricerche intorno alla vita, ai costumi, ai beni ed ai mali. Ed è notevole questa popolarità che Cicerone attribuisce alla filosofia socratica, poichè se Socrate fu il primo a studiare il fatto umano indipendentemente dal fatto naturale, non si propose già questo studio per soddisfare a un bisogno della sua na- tura speculativa unicamente, e limitarne quindi a se stesso i risultati, press’ a poco come farebbe uno qualunque dei nostri filosofi moderni; ma studiò l’uomo anche collo scopo di migliorarlo, anzi esclusivamente collo scopo di migliorarlo; e di qui la necessità che la sua filosofia prendesse Ja forma esteriore dell’insegnamento popolare. Nell’ Apologia platonica ® è detto chiaramente; che Socrate era persuaso che Dio gli avesse imposto di vi- vere per la filosofia e nello studio diligente di sè e degli altri; e questa sua persuasione avea Messo così profonde radici nella sua anima, che Socrate affermava di voler piuttosto morire che disobbedire al comando di Dio, € smettere un. istante solo dal filosofare e dal fare esorta- zioni e dimostrazioni a chiunque incontrasse. Altrove, pur nella stessa Apologia ‘, Socrate dice esser posto dal Dio a’ fianchi della città, quasi ella fosse un grande e generoso cavallo dalla sua stessa grandezza fatto tardo 1 Cfr. Mem. Socr. passim; Dialog. plat. pass, 2 Cicer. Disput. Tuscul. L.'V e. I $ + 5 Apol. ci XVII p. Stef. 28E-29. + Apol. c. XVIII. p. Stef. 30E-31. 4, | ‘ 6 DEL METODO Rn oseeGog eni guup sgn1essoassasopora sog atene e bisognoso di qualche spronata per essere eccitato; cittadini aver bisogno dell'opera sua, come di chi li desti dal dormigliare, persuadendoli e rimprocciandoli. Ad un uomo, come Socrate, in cui era profondo il sentimento della giustizia e della morale, non potea certo sfuggire la miseranda confusione che regnava al tempo suo nei concetti regolatori della società e della vita, e la totale depravazione dei costumi: e siccome le grandi convinzioni della sua anima scambiava il più delle volte colla voce d'un Dio; imposto: a se stesso l’apostolato santissimo di richiamare sulla retta via la società pericolante, e postosi all'opera coll'ardore del- l’apostolo e la fede del martire, dovea naturalmente reputare quella forza potente che lo trascinava, un non so che di sovranaturale che Dio stesso in lui avesse trasfuso. Comunque sia, e noi non pretendiamo per nulla entrare nella questione intricatissima dalla religiosità di Socrate, questa convinzione religiosa speciale combinata colla sua natura essenzialmente speculativa e dialettica, fece di Socrate un Dio elenchiico, per adoperare la pa- rola Si Platone 1, che esamina e convince i deboli in È cea I N O, È i azione. Trascurava le cose proprie, andava continuamente attorno per la città or: al passeggi pubblici, ai ginnasi destinati na ittà, pai corporali dei giovani, ora ai banchi dei RE adunanze dei Sofisti, nelle botteghe degli a OE alle perfino nelle case delle cortigiane? e dal rara ) Ppertutto e con ! Plat. Soph. c. l. p. Stef. 216.È 1° espressione che pera rispetto all'ospite che ha la parte principale nel es E È) Alea t GUAI ” OPpo. Cfr. il singolare dialogo che ha Socrate (Mem a ) coll ” 1.) colla etera Teodota intorno all’arte di allettare gli uomini I. iii rratriiii_zznnnnttni tt ili iti ii A PRESE e PI ii A LI Se O | DÎ FILOSOFARE DI SOCRATE 7 chiunque il volesse, faceva ricerca di ciò che è giusto, di ciò che è ingiusto, di ciò che è pio, di ciò che è empio, di ciò che è bello, di ciò che è turpe, € in generale di quante altre cose potessero interessare l’uomo ela so- cietà 1. Ed è noto come nelle sue conversazioni ei non facesse distinzione di persona, poichè s' intratteneva egual mente coi politici e coi Sofisti, cogli uomini d’ arme e cogli artigiani, coi giovani ambiziosi e cogli studiosi, e con quanti altri ricercassero la sua conversazione, 0 stimasse dover ricercare egli stesso. E questa ricerca della conversazione e dell'esame, questo commercio incessante cogli altri, per un uomo come Socrate in cui la conoscenza e la volontà, l'in- telletto e l'affetto si confondevano, non era solamente un bisogno intellettuale; ma nel tempo stesso un bisogno personale e morale: l'abitudine del filosofare s' identifi- cava in lui con la comunità della vita, il desiderio della scienza era pure il desiderio dell'amicizia; e sta, come osserva acutamente lo Zeller ?, nella fusione di questi due ordini di bisogni il carattere originale dell’ Eros socratico. L'amore socratico non aveva soltanto un alto valore pratico e morale, ma anche, e più specialmente, un valore intellettivo e didattico. Abbiamo detto più sopra che Socrate era dotato di natura speculativa e dialettica; Platone ci conserva in proposito un molto singolare racconto. Narra nel Par- menide che Socrate ancora giovinetto ebbe con Parmenide e Zenone una disputa intorno alla dottrina dell’ 20, che i due filosofi Eleati sostencano. A un certo punto am- mirando il fervore che Socrate mettea nella disputa, si 1 Mem. Socr. I 1. 16. ; 2 Geschichte der Philosophie der Griechen t. 3 p. 118 della ‘ traduzione francese, c . è x DEL METODO guardarono l’ in l’altro sorridendo 1 e più Innanzi Par- menide, vedendo l'imbarazzo di Socrate a procedere oltre disputando, sì provò a dargli alcuni consigli intorno al- l’arte del disputare: « Troppo per tempo, o Socrate, « innanzichè tu ti eserciti a parlare, ti sforzi a definire « ciò che sia il bello, il giusto, il buono, e qualunque « delle altre specie. .... Per certo, mi credi, è bello e « divino il fervore col quale muovi alle ragioni: metti « fuori adunque te stesso ed esercitati, finchè sei giovane, « in questa facoltà che sembra inutile e si chiama dal « volgo garrulità; altrimenti ti sfuggirà la verità ». E poichè Socrate domandava a Parmenide qual fosse la maniera di questo esercizio « questa, rispose il filosofo, «.che hai udito da Zenone.... Conviene non solo, se è « qualche cosa, supponendo che la sia, considerare quello « che dalla supposizione deriva —- ma anche se non è ‘ questa stessa cosa, supporre che la sia —se pur vuoi “ esercitarti 505 I più ignorano che senza questo vagare « e discorrere per tutte le cose è impossibile aver « mente che s'imbatta nella verità ». Dal quale racconto apparisce che Socrate natural- mente portato fin da' suoi più giovani anni a correr come un cane Lacone, di qua e di là dietro ai dis È) e a seguirne le orme è, ebbe a correttori e a pa ra natori di questa sua facoltà d’ investigazione da È PRI Eleati, e specialmente Zenone, che fu il prim > Paoli care alle questioni filosofiche |a di prMO ad appli- a quel tempo in Atene, vi godeva | e una a massima rinoma nza!. ! Parmen. p. Stef. 130. 2 Parmen. p. Stef. p. 135-130. 5 Parmen. p. Stef. 128 C 247 cò perabeis 2ì iyvedere tà VeyBivra, 4 Cfr, Alcibiad. magg. c. 14 pi DI GITZO va vi \4 meo ve vl Adani FIN LAI alettica, e che, venuto: 119 A e Plutarc. Vita di Pericle c,.3, » ‘ DI FILOSOFARE DI SOCRATE 9 Per tal modo la dialettica che avea incominciato a fare le sue prove con Zenone, e avea messo în giuoco con lui quella sua forza aggressiva 0 negativa, colla quale rilevava gli assurdi e le contraddizioni che derivavano dall’ipotesi contraria alla dottrina dell’ uno, senza curarsi più che tanto delle ragioni positive che militassero in favore di essa dottrina!, pur a questa mirando positiva- mente, passava nelle’ mani di Socrate, che dovea farla mirabilmente servire allo studio dell’uomo e della so- cietà. Se non che fa d’uopo avvertire collo Zeller® che se Zenone, per difendere la filosofia Eleatica, ha potuto adoperare un metodo dialettico, e fu per questo chiamato da Aristotele l’inventore della dialettica, non per questo la filosofia Eleatica nel suo complesso può chiamarsi un sistema dialettico. Perchè si potesse chiamare così con- verrebbe che fosse dominata da un’ idea precisa intorno all'oggetto e al metodo della conoscenza scientifica, con- verrebbe che facesse precedere le sue ricerche fisiche e metafisiche da una teorica della conoscenza, € nella con- cezione medesima del mondo cercasse il suo principio regolatore nella definizione e nella distinzione dei con- cetti. Questo doppio carattere che fa difetto alla filosofia Eleatica è invece la nota distintiva della filosofia di So- crate e del suo grande discepolo; e solo questa perciò si può chiamare un sistema essenzialmente dialettico. x 1 Gfr. il passo del Parmenide p. Stef. 128 B, ©, D, dove Zenone = parla de’ suoi scritti. 2 Zeller-Geschichte der philosophie der Griechen tom. 2. della trad. franc. p. 96. DEL METODO Il. Una delle dottrine che nell’ antichità ha avuto mag- giore fortuna e che in generale ha esercitato un’ azione molto benefica sugli spiriti, è la dottrina della preesi- stenza dell'anima al corpo e poi della trasmigrazione dell'anima da corpo a corpo. Venuta a quanto pare dall’ Egitto! sul suolo greco, fu primieramente accettata dagli Orfici; da questi, secondo ogni probabilità, passò fra i Pitagorici®, i quali alla loro volta doveano tra- smetterla a-Platone. Se non che mentre gli Orfici e i Pitagorici fecero servire questa dottrina ad uno scopo essenzialmente morale, poichè dallo stato felice del- l’anima prima della sua unione col corpo, e dalla unione dell'anima col corpo avvenuta in seguito ad alcune sue colpe, coglievano occasione a predicare la virtù e l'e- spiazione; Platone, oltre che a questo medesimo Scopo, la fece servire eziandio alla spiegazione d'uno de’ più VER che lo spirito umano si proponga, il ma della conoscenza. L’ani imi Aa ‘unione col corpo a RISI dela sue e, dopo la sua unione col cor È Sete GIO, po, trasmigrando da questo a quello, ebbe a vedere tutte cose e tutte c ] prendere ®; sicchè i tipi di , areale queste cose essendo in lei ! Cîr. Bertini, Filosofia presocratica p. 202. 2 Giacchè non è per nulla accettabile ii o dai Pitagorici si sia trasmessa agli Orfici. 3 Cfr. Pinione opposta che Menon. plat. p. Stef. 81 in fine c. XIV-XV Cfr, anche il Fedro plat. p. Stef. 246-249 e il Fedon. p. Stef. 84 e seg. Nel Fed . ro però e sel pedone le ragioni che si adducono a spiegazione del fat della reminiscenza sono alquanto diverse che nel Menone e DI FILOSOFARE DI SOCRATE II cescrsurseresevenzeazionesansenaon nre ne Fonntenseenisenovosagsaregsonevasga erbopronstessacaaeneostae contenuti e l’universa natura essendo stretta in con- giunzione, all'anima non è difficile, richiamata una sola notizia, ciò che gli uomini dicono apprendere, richiamare eziandio tutte le altre, purchè abbia coraggio e non si ritragga dalla ricerca!. Per modo che quello che si dice dagli uomini conoscenza, non sia in realtà che la ricor- danza di quello che già si sapeva, cd ignoranza non esista veramente, ma soltanto dimenticanza. Questa dottrina, detta della reminiscenza (2v4uvnsto), che Platone metteva innanzi a ribattere |’ obbiezione sofistica ed eristica, che sia impossibile l’apprendere e il ricercare qualunque cosa che non ci fosse già nota antecedentemente?, serviva mirabilmente a spiegare anche il metodo dell’insegnamento e della disputa di Socrate. Poichè ogni uomo possiede virtualmente tutte le nozioni, sicchè per possederle coscientemente non ha che a ri- chiamarsele alla memoria, l’ ufficio del maestro è per ciò stesso limitato a ridestare queste nozioni, a trarle fuori da quello stato d’ oscurità e di latenza, in cui erano in- volute nell'anima. Perciò nulla di suo insegna il maestro, anzi non insegna veramente, solamente per mezzo d’in-0 terrogazioni adatte aiuta il discepolo a ricordare quello che ha dimenticato. Quindi è che Socrate non appella se stesso maestro nè in Senofonte, nè in Platone; anzi ‘in Platone? dichiara esplicitamente che mai non si fece maestro ad alcuno; e quindi è ancora che nel Teeteto paragona l’arte sua all'arte della levatrice, e dice d'aver attinta quest'arte dalla sua stessa madre Fenarete. Come le levatrici aiutano a partorire le donne, così egli gli 1 Cfr. Menon. ibid. 2 Gir, Menon. platon, p. Stef. $o in fine ed Eutidem. platon. p. Stef. 276-277. 3 5 Apol. platon. p. Stef. 33. bo, 17. CONE DEL METODO i iffer ‘è ch'egli non ostetrica i loro $ uomini, colla differenza pero ch'egli i | | f corpi, sibbene le loro anime; e di più he IERI i simo vantaggio la sua arte sopra di que (3; RO Tra | ogni modo esaminare se sia falsità o verita E Gero | l’anima partorisce; mentre non accade alle leva È so ! distinguere se sia uomo od ombra d uomo que o) 1 | la donna partorisce; non essendosi mai dato il paso Ì | un parto di donna che non sia parto reale. Del resto | come le levatrici sono per età infeconde,, alla maniera ! stessa che è infeconda Diana che presiede ai parti, So- ; crate pure è infecondo, e il rimprovero che molti mi | fecero, egli osserva, d’interrogare sempre gli altri e di ! non risponder nulla io stesso, ha in questo la sua ragione che Dio m’impose di osfelricare, ma mi tolse di poter | generare !. | La quale ultima osservazione, fatta per burla cer- tamente, contiene però il secreto del metodo negativo di Socrate. Socrate muoveva una facile interrogazione, i | alla quale veniva data una risposta altrettanto facile; ‘ questa offriva il destro a una seconda interrogazione e bs quindi a una seconda risposta; dalla quale poi deriva- *. vano altre interrogazioni ed altre risposte, finchè si Pri giungeva al punto che l'interlocutore veniva a porsi da se stesso fuor di questione, o contraddicendosi, o ve- nendo a riconoscere che non era verità quella che pur aveva preteso fosse tale. E allora Socrate non veniva a risolvere la questione, come s'aspettava l'interlocutore, mettendo egli stesso innanzi una sua propria opinione, che potesse surrogare quella di cui era stata riconosciuta la falsità: invece abbandonava nel dubbio e nella con- + fusione il suo avversario; il qu S ale, se presuntuoso dap-, prima, venia ora fatto og getto di scherno alla moltitudine. 1 Cfr. Teetet. plat, p. Stef. 149-151. DI FILOSOFARE DI SOCRATE 19 Senofonte non comprende a mio credere questo lato scettico della disputa di Socrate. E bensì vero che in un luogo dei Memorabili !, ad ‘Ippia che lo rimprovera di deridere gli altri, interrogando e convincendo tutti, senza voler egli stesso dichiarare la propria sentenza, Socrate risponde che non gli è bisogno dichiarare quali cose ei reputi giuste, perchè lo dimostra:col fatto ogni giorno; sicchè verrebbe quasi a dire — la mia sentenza è la mia vita stessa, traete dalla mia vita le conseguenze positive del mio insegnamento. — Ma questo non basta, e se potè esser vero in certi casi e in certi rispetti par- ticolari, a torto lo applicheremmo generalmente a spiegare la forma scettica delle conversazioni socratiche. Però fa d’uopo notare che Senofonte non dà questo esempio come regola generale; quantunque è anche a notare che non si trova in tutti i Memorabili alcun'altra spiegazione in proposito. La vera spiegazione ci è data da Platone. Abbiamo già accennato più addietro. come Socrate appellasse se stesso infecondo di sapienza; ebbene non è soltanto per ironia che s'appella così. Socrate interroga gli altri per comando del Dio, com’egli dice ?, ma non già per re- darguirli in questo o quel discorso, o perch’egli abbia pronta una soluzione della proposta questione: è l’anima degli altri che vuole chiarire a loro medesimi, nel tempo stesso che vuole chiarire la sua a se stesso; è la qualità dei concetti altrui che è risoluto pel bene comune di mettere a prova, nel tempo stesso che i suoi pure, 0 indefiniti, o incompleti, sente il bisogno di concretare e di rettificare. Quindi è che giunto col ragionamento a fare una disamina attenta, acutissima dell’ opinione I L.IV 4 g-10. 2 Apolog. plat. p. Stef. 23 c. IX. DEL METODO ii | PETITITLILILICALMIAR:I altrui e della sua, riuscito a togliere certi pregiudizi, 3 certi errori che poteano essere comuni e @ lui e agli . altri, non sa poi all’ abbattuto edificio sostituirne uno nuovo, e tronca, quando meno si crede, la disputa. « E « sopratutto l'opinione in se stessa quello ch'io esploro; « ma accade forse che ci si esplori amendue, me che « interrogo e chi risponde » osserva Socrate nel Prota- gora!; e nel Menone®:« non è già ch’ io essendo pie- « namente certo, faccia dubitare gli altri, ma anzi, «essendo io stesso sopra modo dubbioso, i’ fo dubitare « anche gli altri ». Socrate in verità non possedeva teorie completa- mente svolte intorno a checchessia, non possedeva alcuna dottrina dogmatica positiva. Egli aveva bensì il sentimento { pieno e profondo della necessità della scienza fondata sui ‘ concetti; ma essendo stato il primo a mettere in luce questa necessità e spendendo per così dire il suo tempo a convincerne altrui, non avea acquistato conoscenze determinate che costituissero la materia di questa scienza. Insomma « l’idea della scienza non si presentava ancora a lui che come un problema indeterminato, in faccia al quale egli non poteva che riconoscere la sua igno- ranza? ». Socrate adunque partendo dal dubbio ch'era in lui intorno alla verità delle opinioni altrui, o delle sue, ar- rivava a comunicar questo dubbio anche agli altri. Nel Pa “7a \L illomne «na PS i 7 E È 1 Prot. plat. p. Stef. 333 c. XX trad. Bonghi. 2 Menon, plat. p. Stef. 80 c. XIII trad. Ferrai. Cfr. anche quello che Aristotele dice negli Elenchi Sofistici 34,183, bi 7: Sne nai dd edito Nozpdrns pura, dI ob Omespivaro. Ouoroyer do obz sidiva. 9 H. Zeller-Geschichte der Philosophie der Griechen tom. 3. della trad. francese p. 115. i - ‘’‘0.6 —‘*cmosetttittitenittntietteienticannea DI FILOSOFARE DI SOCRATE I5 che consiste veramente la grande efficacia del suo me- todo; poichè giunti un momento a. dubitare di quello che già si credeva sapere, naturalmente abbiamo fatto un gran passo nella via della scienza: se non fosse altro abbiamo imparato ad esser meno presuntuosi e a non far troppo a fidanza colle forze del nostro intelletto. Ma c'è di più. Il dubbio è uno stato assai molesto dell’ anima e « suscita le doglie e fa passare giorni e notti nelle « ansie » come osserva Socrate nel Teeteto!; sicchè ten- tiamo naturalmente di liberarcene, ricercando la solu- zione vera del problema, e non arrestandoci un momento fino a che non l'abbiamo ritrovata, « Credi tu », dice Socrate a Menone a proposito dello schiavo che vavea preso a catechizzare, « ch’ e’ si sarebbe messo a cercare « ed imparare ciò che si credeva di sapere pur nol sa- « pendo, se prima non fosse caduto nel dubbio, accor- « gendosi di non sapere e sentendo desiderio di saper « veramente ?.... Pon mente adesso com’ egli movendo « da questo dubbio, e con me la ricerca facendo e' ri- « troverà il vero, non altro ch'io l’interroghi non già « che gl’insegni® ». i E questo dubbio, ch’ era l’ ultima conseguenza della conversazione socratica, si accompagnava naturalmente a quel senso di stupore e di meraviglia, che dovea suscitare nell'anima degl interlocutori di Socrate l' arte finissima, ond’egli riusciva a imbarazzarli e a convincerli sovratutto dei loro errori. Già Senofonte nei Memorabili ® ci parla di certe malie e di certe cantilene, che Socrate consigliava a’ suoi famigliari per persuadere e farsi amici gli altri; e Platone nel Teeteto mette in bocca a Socrate le singolari A Teet. p, Stef. 151. 9 Menon. c. XVIII p. Stef. 84 trad. Ferrai, 5 L.HIc. VI $ 10. > fingono ren deg} = 16 - DEI. METODO riti o sara rear agesieoteorrenizentarivenzietto parole che come « le levatrici apprestando farmachi « e canterellando certe lor cantilene, sanno eccitare 1 « dolori del parto, ed a chi vogliono mitigarli, ed aiutare « i parti malagevoli » così è proprio dell’arte sua eccitare “ ecalmare ad un tempo i travagli del dubbio nelle anime!. Nel Carmide® Socrate si dice in possesso d'una certa incantagione che ha appreso da Abari l’iperborco, C che ha egualmente efficacia sul corpo e sull’anima, e Invita il giovinetto Carmide a farne esperienza; e finalmente nel Menone?, Menone stesso dichiara d’ esser affascinato dalle incantagioni di Socrate e in tuon di burla gli dice, che gli sembra rassomigli affatto e per la figura e pel resto alla torpedine di mare; chè com’ essa chiunque le si ac- costi e la tocchi fa cader nel torpore, così egli gli ha intorpidito l'anima e la bocca per modo da non sapere che cosa rispondergli. Suscitando adunque nell'anima de’ suoi interlocutori il dubbio e la meraviglia, due sentimenti essenzialmente filosofici, poichè furono sempre cagione che gli uomini cominciassero a filosofare4, Socrate esercitava in realtà maggiore efficacia che non con un vero € proprio inse- gnamento positivo. ; | Una siffatta maniera di disputare tutta negativa este- riormente, ma pur così feconda di conseguenze positive, dovea necessariamente assumere la forma dell’ ironia. In generale è l'ironia uno dei tratti caratteristici del popolo ateniese: il vano diletto di far pompa di sottigliezza e agilità d’ingegno e di volubilità di lingua, di far sentire 1 Teet. p. Stef. 149-151 trad. Buroni. 2 Carmid. p. Stef. 155-156. 3 Menon. p. Stef. 8o. * Cfr. Aristotele Metaphysica 1. 2. s e Platone Teeteto p Stef. 155. puliti ici inizino ini e = nuit ie DI FILOSOFARE DI SOCRATE 17 altrui la propria superiorità di spirito possedeva in grado eminente gli Ateniesi. Di qui quella inimitabile sfronta- tezza di guardatura e di sorriso, che Aristofane chiama Grvuoy Biéroc, quell’accento dileggiatore-tosto che si fos- sero accorti che altri non fosse del loro parere, quella tendenza allo scherno, alla beffa, alla derisione, e le mille altre finezze e amabilità che si sentono, ma non sì pos- sono esprimere. Pel qual loro carattere fine ed arguto gli Ateniesi diceano volentieri il contrario di quello che pure avrebbero voluto dire, pareano lodare biasimando e biasimare lodando, faceano le viste di non intendere il pensiero altrui, e intanto gli davano un significato par- ticolare per contraddirgli, e più spesso anche per metterlo in beffa. Questa specie di motteggevole doppiezza era pro- priamente quella che gli Ateniesi chiamavano ironia, e se la lanciavano l'un contro l’altro nei simposii fra le brigate festose, nei pubblici passeggi, e dappertutto dove il vino e la luce accendessero le loro. mobili fantasie ed eccitassero il loro buon umore. Socrate che tutta la an- tichità ci descrive come un misto di saviezza e di schiet- tezza, di gravità e di petulanza, di equabilità di animo e di bizzarria di spirito, d’ orgoglio e di modestia, d’ ingenuità e di causticità, dovea naturalmente e più d’ogni altro adoperare questa specie d’ironia ch'era nell’indole del popolo suo; ma quest ironia egli sapeva condire di tanta leggerezza c finezza, sovratutto di tanta benevolenza e bonarietà, che nell'atto stesso di pungere non offendeva, e quegli stesso che n’era l'oggetto o sorrideva con lui del n Ndr suo bel motto, o lo scambiava con un vero € proprio com- > plimento. In generale questa specie d' ironia avea lo scopo o di raddolcire la punta alle correzioni, che di quando in quando rivolgeva a’ suoi. famigliari, o di attirare ì suoi famigliari nella sua conversazione, e ne’ suoi lacci. G. ZUCCANTE 2 5° IC peg T — Ges gr e a Beni SEA s> - 7 ci 18 DEL METODO Senofonte! ci conserva una disputa di Socrate con Eutide- mo, dove appunto questa specie d' ironia benevola è adope- rata da Socrate e a pungere la vanità d’ un giovane che si professava durodidzzror, e ad invogliarlo a disputare con lui. Ma questa specie d’ironia Socrate avea comune con tutti gli Ateniesi; quella che gli si può esclusivamente attribuire, come una sua particolare maniera di disputare, differiva da questa e nei modi e nell'oggetto. Essa con- sisteva in questo, che quando s'incontrava con uomini che godessero fama di sapienza, come i Sofisti, o tenes- sero un alto posto nella Repubblica, o fossero comec- chessia superiori ad altri in dignità od in ricchezze; sprovvisto com'era di conoscenze positive e spinto dal bisogno di sapere, credendo di poter apprendere qualche cosa da loro, e volendo in ogni caso accertarsi se il loro era un vero sapere o un sapere soltanto imaginario, li sottoponeva ad un esame in tutta regola; e in quest e- same fingendosi anche più ignorante di quello che fosse in realtà, secondato mirabilmente nel sostenere questo carattere dagli stessi tratti del viso, coll'apparente inge- nuità delle sue domande, e con l’ingegnosissima maniera con cui si facca nascere dalle loro risposte interrogazioni sempre nuove e incalzanti, li riduceva in fine‘al punto o di trovarsi avviluppati in manifesti assurdi, o di dover ritrattare quanto prima aveano asserito. GOSÙ suoi i terlocutori vedeano svanire la loro pretesa scienza ni nientata dall'analisi dialettica, a cui erano sotto Ro loro opinioni. L ironia era pertanto, dice lo Zeller 3 momento dialettico o critico del metodo di Socrate, SE seguenza inevitabile dell’ignoranza personale di chi citava così la dialettica ®. Sosta 1 Memor. IV 2. 1-6. 1 2 Cfr. Zeller op. cit. p. 118-119 della trad. francese nn tei iene DI FILOSOFARE DI SOCRATE 19 ADOSOSELINISOTTTeGIGTLIReRANP Pont enaseosonedanzesSnTani cose eeI Teo peer VIVA eIeceg vo pesci svopase stare anne esse be Veavesisdisene teen Con ciò è spiegata la grande potenza della parola di Socrate, e il timore che aveano di lui i suoi nemici, così da avvertire i giudici, nel tempo memorabile della sua condanna, di guardarsi bene di non esser tratti in inganno da’ suoi discorsi ?. S' impadroniva di tutto l’uomo, frugava le più riposte pieghe della sua anima, e non lo lasciava, se prima non gli avesse aperto tutto se stesso. Chiunque si trovi a discorrere con’ Socrate, dice Nicia nel Lachete platonico, gli è inevitabile necessità, ancorchè d'altro abbia cominciato a trattare, di non farla prima finita se non condotto da’ ragionamenti suoi ei venga « a dare pieno conto di sè e del modo in che vive « ed ha vissuto la vita per lo passato; e una volta ch'e’ « sia caduto in questo discorso, Socrate non lo lascia più « andare fino a che di tutto non abbia fatto esame ri- « goroso cd intero »°. Di ciò è anche discorso nel Teeteto, dove Teodoro afferma-che non è possibile chi segga al- lato a Socrate possa liberarsi dal rendergli la parola, e che non lascia chi gli si accosti se prima non l'abbia sforzato « ad entrar nudo in lotta di discorsi » con lui. ILL Noi abbiamo finora esaminato, come a dire, le forme esteriori del metodo di Socrate; ora dobbiamo esaminarlo nella sua intimità e porne in luce le conseguenze in ri spetto alla formazione della scienza. I Plat. Apolog. p. Stef. 17. 2 Lachet. platon, p. Stef. 187-188 trad. Ferrai. 3 Teetet. plat. p. Stef. 169. i 20 DEI. METODO E prima di tutto è d’ uopo togliere una prevenzione: Socrate, pur adoperando un metodo negativo, credeva in realtà nella scienza, o non piuttosto era uno scettico, che tendeva a comunicare altrui il suo scetticismo € nulla più? Cicerone negli Academici posteriori * e nel- l’opera De finibus® sembra credere che Arcesilao e la nuova Academia seguissero la maniera di filosofare di Socrate, perchè negavano vi fosse cosa che si potesse sapere, e perchè si aveano proposto come sistema, di avere in ogni caso contro argomenti positivi una forza uguale di argomenti negativi da opporre: sicchè il filosofo romano scambia il dubbio metodico di Socrate con un vero e proprio scetticismo, e la sua maniera di filosofare con una disputa cristica, in cui ciascuna parte disputasse coll’ unico scopo di disputare, non essendo possibile raggiungere un risultato positivo a chi per V oscurità delle cose® neghi si possa qualche cosa co- noscere. E però notevole come in altri luoghi lo stesso Ci- cerone disdica questa sua prima sentenza ed affermi anzi che il metodo di Socrate, lungi dal condurre a uno scet- ticismo universale, conduceva a veri e propri risultati positivi; poichè la sua conversazione, egli dice, consiste P. Dutta nel lodare la virtù e nell’esortare in sd) "a l’amore di essa‘, ed aiutava mirabilmente a trovare ciò 1 Accad. post. 1, 12, 44. Cfr. anche Ac SR t Ù ad. Ino Nat. Deor. 1, 5; 11. prior. II, 23,74 e De 2 De finibus II, 1. Cfr. anche un altro luogo degli Academici e =“) ( U/ ”, Do post. (1, 4, 17) dove Varrone è introdotto a parlare di Il « Socraticam dubitationem de omnibus rebus cone è) adhibita, consuetudinem disserendi ». > 5 Cfr. Academ. post. 1, 12, 44. et nulla affirmatione + Academ. post. 1, 4, 15. _ vo -——.--_rca leslie DI FILOSOFARE DI SOCRATE ZI che fosse conforme a verità! Ma se la conversazione socratica conduceva a trovare la verità, e se Socrate stesso credeva di potervi arrivare per questa via, come afferma Cicerone ?, è naturale ch’ ei dovesse aver fede nella verità stessa e nella scienza; poichè non si può nemmeno concepire vi sia chi ricerchi una cosa, senza credere che la cosa stessa esista. Di questa fede di So- crate nella verità e nella scienza abbiamo prova in quasi tutti i dialoghi, che Senofonte e Platone mettono in bocca al loro maestro; giacchè attraverso il dubbio metodico e le domande incessanti che Socrate rivolge a’ suoi interlocutori per iscrutarne gl’ intimi pensamenti, s'intravvede, per così dire, una luce misteriosa, alla quale tendono tutti gli sforzi di Socrate, e la quale illumina quel caos apparente di domande e di risposte, che i più credono fatte a capriccio e per passatempo. Ma v'ha di più. Nel Menone platonico Socrate dichiara esplicita- mente la sua fede nella scienza. « Tra l’apporsi al vero i (000 d6cz, egli dice, c il sapere che sia divario, questo ì è parmi non affatto conghietturarlo, ma, s'io dicessi mai « di sapere una cosa, e sarebbe invero rarissimo il caso « che lo dicessi, questa pur sarebbe nel numero delle cose « ch'io ammetterei di sapere »î. Il qual luogo è anche notevole, perchè contiene l importantissima distinzione JA tra il sapere volgare € il sapere reale od assoluto, del quale Socrate presentiva tutto il valore pur senza averlo raggiunto, e il quale stimava solamente proprio di Dio: I Tuscul. Disput. 1, 4,9 «vetus et Socratica ratio contra alterius opinionem disserendi; nam ita facillime, quid verisimillimum esset inveniri posse Socrates arbitrabatur.». 2 Tuscul. Disput. Ibid. ) 3 Menon. platon. p. Stef. 98 trad. Ferrai.- siad: + Apol. platon.-p. Stef. 23. È via È 22 DEL METODO sicchè quando affermava di sapere ‘questa sola cosa di non saper niente, egli traduceva in parole la sua coscienza dell’ immensa distanza che separa il sapere umano dal sapere divino. Ancora, siccome il suo metodo era massimamente rivolto alla ricerca delle verità morali, Socrate dovea ammettere un principio assoluto di moralità, dal quale dipendesse tutto quel complesso di nozioni morali, sulle quali poggia l’edificio dell'umana società. Che questo principio supremo di moralità Socrate ammettesse risulta dal Gorgia platonico, dove dichiara contro l’ opinione popolare che è « cosa peggiore fare ingiustizia che non « patirla, e della ingiustizia fatta non pagare il fio che « pagarlo »!; e più innanzi? che chi non paghi il fio delle ingiustizie commesse è più misero di chi lo paghi, giacchè il non scontare il male' non è soltanto perseve- vare nel male, ma è anche il male primo e più grande. Di più, quando si tratti di fissare recisamente la distin- zione radicale del bene dal male, mentre per solito So- crate è condiscendente nel dialogo, e finge di accettare quello che dice l'avversario, per poi ribatterlo di fianco col suo terribile elencho, qui invece adopera forme ri solute che non ammettono replica. « L’ adulazi 500 « penso la sia la gran brutta cosa, o Polo RA « così parlo), ch’ella vada sempre dietro al dilet a « curarsi affatto del buono »; così Soc SA: Le quali affermazioni Todi Sr De alle verità morali troviamo S9R CRISI rabili di Senofonte, dove FARI TO ) , come mi pare d'aver n rispetto ci Memo- accennato 1 Gorg. platon. p. Stef. 476. 2 Gorg. platon. p. Stef. 479. 3 Gorg. platon, p. Stef. 465 c. XIX i o 5 trad. Ferrai, Cfr, anche Gorg. Gorgia 9. fi —_——> n MALE Le _—-—-—— ’_r_oe+us esiti cò ici DI FILOSOFARE DI SOCRATE 3 23 arreroe più sopra, il Socrate dialettico e speculatore ci sfugge quasi, e ci si presenta invece nella sua piena luce il Socrate pratico, essenzialmente positivo. Sicchè io non arrivo a comprendere come il Tennemann! abbia cer- cato di stabilire una considerevole analogia fra Socrate e lo scettico Pirrone. Analogia fra i due non esiste, se non in quanto s' accordavano nel ripudiare ogni studio che non si riferisse alla morale; ma, quanto alla morale stessa, differivano essenzialmente; Socrate sosteneva che la morale fosse oggetto di speculazione e di scienza, e l’unica degna di studio; Pirrone sembra aver.pensato che la scienza fosse impossibile ad attingere nella morale del pari che nella fisica, e che non si dovesse fare attenzione che ai sentimenti e alle buone disposizioni dell'animo ?. In questo Socrate era scettico che, avendo i filosofi fisici anteriori dato al problema della natura risposte di- verse non solo, ma contradditorie, ne aveva concluso che questi aveano nelle loro ricerche oltrepassati i limiti im- posti alla scienza umana, € che la verità non si potea conoscere in riguardo alla natura. In questo era scettico, e in due altri punti ancora, intorno ai quali massima- mente s’ aggirava la sua disputa. Egli negava prima di tutto che gli uomini potessero sapere ciò, a cui non avessero mai applicato il pensiero riflesso, € in secondo luogo che potessero praticare quello che non sapeano, vale.a dire che fossero temperanti, giusti, forti ecc. Senza sapere che fosse la temperanza, la giustizia, la fortezza ecc. Mettere nell'animo de’ suoi interlocutori questa sua convinzione negativa, persuaderli una volta che senza | can I Tennemann Gesch. der Philosophie vol. Il p. 169-175. i k 2 Cfr. Grote op. cit. p. 338 in nota, Anche lo Zeller op. cit. tom. 3. p. 114-115 della trad. franc. sostiene che Socrate non può ritenersi uno e . scettico. MIT ri ET Pata relazioni tra uomo e uomo, tra uomo e DEL METODO i uverenneresaraenioosesev ato aressorsesaeses ana suenosionieveeee ereese esaminare attentamente sè stessi era impossibile e sapere ed essere virtuosi, era questo effettivamente lo scopo dell’insegnamento di Socrate. Ma questo ben luagi dal- l'essere lo scetticismo nemico della scienza, è Invece lo scetticismo che la favorisce, senza del quale anzi non si potrebbe una vera scienza fondare. Non v'ha cosa che l’uomo si creda più facilmente conoscere di sè stesso e del fatto umano in generale; ed è naturale, poichè nel primo caso non ha che a ri- volgere lo spirito su sè medesimo, e nel secondo su quello che lo attornia, sicuro di vedervi riflessa l’imagine sua. Ma a rivolgere lo spirito su sè medesimi è raro che si pensi, e a studiare il fatto umano ancor meno; son cose nostre l'una e l’altra e non serve occuparcene; 0, dirò meglio, si crede occuparcene abbastanza, dal mo- mento che ogni giorno se ne parla e se ne disputa. E intanto si crede effettivamente sapere ciò che non si sa; Vaia À o) sì risc : SR. RO nel ERROR cervello certe persuasioni pro- radicatissin i ri i o ERRO si me, le si riscontrano in altri egualmente È proprie SA SR PS a IR ndicon vere ioni, e no s ì n o0 Dl n cl passa neppure pel capo di spiegare a noi stessi come si siano intr i A vi risiedano, e non dubiti i RI OTO ein noige u nata i no, e Ittamo un Istante del loro effettivo valore. Di qui una quantità di errori, di pregiudizii ga . SE k è) nozioni accettate più per azione del i 3 9 sentimento che per consenso della ragione; errori, pregiudizi; P 5 3 » Pregiudizii e nozioni che penetrate a poco a poco nella fibra e nel!san , . . : (eg generazioni, consacrate, per così dire, dal BNS dele a da tempo, acqui- rn O 5 legge e come tali governano il mond e e notevole c . e ome prevalgano mass Imamente nelle ReÈ SSR. Città e ittà e città, e tanto più facilmente, quanto più tra città in gioco gl’interessi individuali 9 PIÙ sono messi De To g ressi Individuali e generali; s'; si sino del v i, sì «SER > S mpo n ocaboli, si aggruppino intorno all’ A . E) 6 s di ’ Let CÒ - Dì FILOSOFARE DI SOCRATE 25 riesce poi difficilissimo a discernere il vero significato dei vocaboli e spogliare l’idec di rutto il fattizio e l’appic- caticcio. Questa condizione di cose, questa cieca fidanza di sapere ciò che realmente non si sa, questa prevalenza delle nozioni rozze e affastellate del senso comune sulle vere e proprie cognizioni, come è propria di ogni società e di ogni tempo, così era massimamente il carattere di- stintivo della società e del tempo di Socrate. « In morale, «in politica, in economia politica, su tutti i soggetti rela- « tivi all'uomo e alla società, prevaleva allora, come oggi, « la medesima confidente persuasione di possedere il « sapere, senza che l’effetto corrispondesse; la medesima « generazione € propagazione, per via dell'autorità € « dell’ esempio, di convinzioni non messe a sindacato, « appoggiate sopra un sentimento vigoroso, senza alcuna « conoscenza dei gradi o delle condizioni del loro svi- « luppo; il medesimo atteggiarsi della ragione alla difesa « esclusiva d'un sentimento prestabilito: la medesima « illusione che, perchè ognuno è famigliare colla lingua, « sia anche in possesso dei fatti, dei giudizii c degli « indirizzi complessi, implicati nel senso dei vocaboli; «e atto del pari ad usare parole d’ un significato « comprensivo ec a sostenere la verità o la menzogna « di vaste proposizioni, senza analisi nè studio spe-- « ciale »!. La quale condizione dî cose cra tanto più grave quanto più l'antico costume era depravato; sicchè il pregiudizio e l’ errore trovava il suo naturale alimento, oltre che nell'ignoranza, nella corruzione, la quale era giunta a tal segno al tempo di Socrate, da disfare affatto anche quell’ultimo vincolo che annodava fra loro gli uomini, voglio dire quel complesso di verità morali e I Grote op. cit. vol. cit. p. 278. DEL METODO sociali universalmente consentite e aventi forza di legge, perchè scritte nei cuori !: 0 Ora una scienza qualunque non ha maggiore nemico delle nozioni rozze e affastellate del senso comune; pe modo che chi si proponga di fondarla su principii saldi e incrollabili, abbia anzitutto bisogno di combattere e di disperdere affatto quest eterno nemico. Per quello che. attiene alle nozioni prime. dell’ intelletto, osserva Bacone nel Nuovo Organo ?, niente v' ha di quanto l’ intelletto abbandonato a sè stesso raccolse, che non ci sia sospetto, e che possa accettarsi, se non abbia retto alla prova d'un nuovo giudizio e secondo questo non sia stato pronunziato; e più innanzi 3, che assai difficilmente si riesce a purgare la mente, quando dalla quotidiana consuetudine della vita, dalle cose udite e da plebee dottrine sia stata occupata, e assediata da vanissime ap- parenze; e che in questo caso resta‘ unica salvezza rifare l’opera universa della mente, e la mente non abban- donare in alcun modo a sè stessa, ma perpetuamente frenare. { ve Mi . = Nap: #yg4901 chiama Socrate queste verità in un suo dialogo con Ippia (Memor. lib. IV c. 4). SM 7 i x Distributio operis, messa in capo al N. O. p. 168 dell'edizione ontagu, « Quod vero attinet ad notiones primas intellectus, nihil est È ; ma . È SUA quae intellectus sibi permissus congessit, quin nobis pro suspecto Si sr AREA Tar: , nec ullo modo ratum nisi novo judicio restiterit, et secundum illud pronuntiatum fuerit ». 5 Ibid, i d. Praefatio p. 186. « Serum sane rebus perditis adhibetur remedium 5 idi ; pene i Pesaro mens et quotidiana vitae consuetudine, et audi- Uonibus, et doctrinis inquinatis occupata fuerit.... - integro et vanissimis idolis obsessa . Fes i ì Ere unica salus ac sanitas, ut opus mentis universum de Matur; ac mens, iam ab ipso principio, i nullo ibi permittatur, sed perpetuo regatur ». modo sibi DI FILOSOFARE DI SOCRATE 27 Rifare l’opera universa della mente, abolire le teorie e le nozioni comuni, apparecchiarsi ad accettare la ve- rità, anche quando si contrapponga ai nostri più cari pregiudizii, ecco quanto si richiede a chi imprenda uno studio veramente scientifico. E questo che Bacone consigliava doversi fare per la ricerca delle verità fisi- che, Socrate imponeva a sè stesso per la ricerca delle verità morali e sociali; sicchè fra i due grandi filosofi si stabilisce una considerevole analogia che deriva da comunanza di sentimenti e di propositi. E come Bacone considerava essenzialissimo alla purgazione dell’ intel- letto, per metterlo in istato di arrivare alla verità, il redarguire la ragione umana nativa !, egualmente Socrate mirava per via d’instanziae negativae e d'esempii negativi e a far capire c abbandonare l’ errore e a far intravvedere il cammino ‘che menasse alla verità. Di qui l’'elencho socratico, o esame contraddittorio dei concetti, insinuatisi a casaccio nelle menti, senza che colui stesso che gli aveva se ne potesse rendere ragione; di qui quella specie di fermento, onde la parola socratica penetrava quel grumo d’associazioni vaghe e indefinite, che s'erano aggruppate intorno a un vocabolo, sforzandole a divi- dersi, a chiarirsi, a porsi a luogo ed a tempo; di qui infine tutti gli sforzi generosi, per convincere altrui che non si sa se non quello soltanto a cui s'abbia applicato il pensiero riflesso; smascherare l'ignoranza presuntuosa ed inconscia e presentarla in tutta la sua nudità. Questa maniera di disputare se procurava a Socrate molti nemici, com’'egli accenna con accento doloroso 1 Itaque doctrina ista de expurgatione intellectus, ut ipse ad ve- ritatem abilis sit, tribus redarguitionibus absolvitur; redarguitione phi- losophiarum, redarguitione demonstrationum et redarguitione rationis humanae nativae (Nov. Org. Distributio operis p. 170 ed. Montagu). Ra SI va e e PPT 28 DEL METODO nella sua Apologia !, non per questo non esercitava una azione assai benefica sui giovani, a cui erano massima- mente dirette le sue cure, e che in generale lo seguivano con affetto di figli. Le loro anime veniano dall’ elencho socratico, come a dire, purificate, giacchè spogliati affatto di quell’ammasso informe di nozioni, su cui poggiava tutto il loro sapere imaginario, si avviavano in realtà al vero sapere, riacquistando l'abitudine e ‘il potere di esaminare, abitudine e potere che aveano perduto nella illusione in cui erano vissuti fino allora. E per Socrate questa purificazione dell'intelletto teneva nella scala del sapere un altissimo luogo, a segno da chiamare filosofo l’uomo appunto che arrivi a conoscere di non sapere quello che non sa, poichè chi non sa e si crede sapere, per ciò stesso non ama il sapere, mentre invece chi non sa e sa questo di non sapere, ama per ciò stesso la sa- pienza e brama addivenire sapiente. Per la qual cosa avea ragione Platone di far nel Sofista le altissime lodi dell'efencho « come della grande e sovrana purificazione, , « senza la quale ogni uomo, sia pure il gran re stesso, «è tutto pieno d'impurità; e ignorante e turpe in ri- « spetto a quelle cose, nelle quali e purissimo e bellissimo « conviene sia chi voglia esser veramente felice »3, La conoscenza di sè stesso, ecco il punto a cui So- crate volea condurre il suo interlocutore, e a cui erano consacrate tutte le forze del suo ingegno speculatore. °4 Apol. platon. p. Stef. 21. A ReoREe ceh È Cfr.il Liside platon. p. Stef. 218 eil Convito platon. p. Stef. 204. *. Plat. Sofista p. 230 E 421 76v Sheyyovhez LI , de 2A VILLA ff i) «, Valiani - v ” pere rav zallizozon tari, vai . di astenersene. « Bisogna ch i * e tu È « da’ calzolai, da’ f; bbri IRE ARICOga, 0 Socrate, î .01a1, da fabbri e da’ fonditori » così Critia nei 23% . ae C Memorabili, « poichè io credo costoro oramai essere sec « cati da te, menati attorno în tanti discorsi tuoi »3 Alla quale imposizione superba è notevole | diede Socrate, che adunque dovea aste quelle cose, che da quegli esempii a risposta che nersi anche da conseguono, la ! Cfr. massimamente Memorab, III 3 e dialoghi platonici passim. È 2:Memorab. IV 4, 6. 5 Memorab. I 2, 37. 9 e poi Memorabili passim iena perocchè ti sei già « tracciata poc'anzi la via egregiamente; € imitando la I Menon. p. Stef. 77. È 2 Teetet. p. Stef. 146 trad. Buroni. 5 Top. 1. 5 p. 1024 2 "Osa Î. Gronody dvonari TAV dodo mowovizi, DR Nov Ds DÙA irodidi zar odo mdv TOD To%p:A4795 pprop.bv, mein ie Sprayds X0Y05 giz ot. 4 Tectet, p. Stef. 140. 8 Teetet. p. Stef. 147. A4 o DEL METODO « risposta che desti intorno alle potenze, siccome queste « essendo molte comprendesti in una sola specie, così « adoprati di ridurre anche le molte scienze sotto una « sola ragione »!. 3 ; Ma la generalizzazione non basta ancora a chi voglia definire scientificamente le cose. « Conviene, chi si studii « di abbracciare scientificamente un intero, dividere il .« genere nelle sue forme individue » dice Asistotele negli Analitici posteriori?, e la divisione appunto è come il processo che completa e sorregge la generalizzazione. I due processi della generalizzazione e della divisione sono chiaramente enunciati in quel luogo del Fedro platonico, che abbiamo anche citato più sopra: Conviene « ricon- « durre ad una sola idea ciò che è sparso e diverso, « affinchè data la definizione di cadauna cosa, sì metta «in aperto di che si tratti.... e poi poterlo dividere ‘ secondo le idee quasi nelle membra di cui consta na- « turalmente »3, Nel Filebo il doppio processo si trova ‘esposto con tutta la profondità che appartiene alla ma- turità dell'età e del talento di chi scriveva: nel So- fista_ poi ‘e nel Politico è così frequente l’uso della divisione massimamente, che pare vi si debba scorgere il desiderio di Platone di avvezzare gli uditori a quello ch'era allora una novità; tante sono le occasioni in- dirette ch'egli sceglie per porlo in piena luce, special- mente mettendo in bocca a’ suoi interlocutori risposte, che implicano una completa indifferenza su questo punto. = ! Teetet, p. Stef. 1,48. 2 Aristot. Analit. post. II 965 1 +’ TEUNTZI F13, desdetv Td XY ) A Ei N Cvos Sis Ta vronz o tider T% TIOTZ, giov { . prov cis mpuida at Svdda. ; 5 Plat. Fed, p. 265 trad. Ferrai, = DI FIL.OSOFARE DI SOCRATE 45 . Socrate adoperò il processo della divisione; come ado- però quello della generalizzazione? Il Brandiss e l’Heyder credono che la divisione incominci propriamente con Platone, in prova di che fanno osservare che nel Sofista e nel Politico, dove questo processo è più abbondan- temente adoperato, Socrate non dirige punto la conver- sazione. Se non che io osservo col Grote « che non « bisogna di troppo insistere su questa circostanza: i « termini coi quali Senofonte descrive il metodo di So- « crate (dezdepovizo 227% yiva 74 roduzez Mem. IV 5, 12) « sembrano implicare tanto un processo che l'altro; « in. effetti, non era possibile tenerli separati con un « disputatore così abbondante come Socrate. Platone « senza dubbio ingrandì e insieme ridusse a sistema il « metodo, ce sopratutto fece un grande uso del processo « di divisione, perchè spinse il dialogo in una ricerca « scientifica positiva più lungi di Socrate »!. Più della divisione però che in fondo resta sempre dubbio se Socrate abbia veramente adoperato, egli ha adoperato il processo della dimostrazione, il cui punto capitale è sempre la formazione dei concetti. Quando Socrate voleva rendersi conto dell’esattezza d' una de- finizione, o della necessità di operare in una certa maniera, risaliva al concetto della cosa in discorso, e ne traeva per via di deduzione ciò che faceva al caso dato. Senonfonte ci avverte che quando alcuno in qualche cosa contraddiceva a’ Socrate senza dire nulla di chiaro e senz'alcuna dimostrazione, questi cercava di fissare il concetto, per esempio del buon cittadino, se tale era la questione, e poi applicando questo concetto alle due persone su cui cadeva la questione stessa, ne deduceva quale. delle due poteva essere posta nel numero dei 1 Grote op. cit. vol. cit. p. 267 in nota. ‘ CO a sb tata LA 46 DEL METODO buoni cittadini: in questa maniera, conclude Senofonte, agli stessi contradditori si faceva chiara la verità”. Per convincere Lamprocle suo figliuolo ch'egli era ingrato verso la madre mostrandosi con lei adirato, Socrate gli domandava che cosa fosse l’ ingratitudine, e avutane la definizione gli mostrava in appresso che, operando in quel modo, egli era veramente nel numero degl’ingrati*. E così egualmente per far discernere a un generale di cavalleria tutti i suoi doveri, cominciava dal definirne l’ufficio*; e per mostrare l’esistenza della divinità, poneva come principio che tutto ciò che serve ad uno scopo deve avere una causa intelligente 4. Non è da credere però che Socrate abbia dato la teoria del :metodo dimostrativo, o distinto le diverse ma- niere di dimostrazione. Ciò che v'ha d’essenziale qui, come osserva lo Zeller5, è pur sempre questo, che il concetto è il termine di paragone,.a cui bisogna ricon- durre ogni questione e il criterio con cui si deve risol- vere: mentre i procedimenti per giungervi sono più che _altro il risultato delle abitudini dialettiche individuali del filosofo. Per tutto quello che abbiamo detto adunque So- crate, senza avere predecessori a copiare, praticò quello che Aristotele descrive come il doppio processo della dia- lettica, fare della pluralità l’unità e dell’unità la pluralità. Se non che come fu il primo che si mise per questa 1 Mem, IV 6. 13€ seg.. 2 Mem. Il 2. 3 Mem. III 3. 4 Mem. I 4 6 Op, cit., tom. 3. p. 123. © Aristot._To e pic. VIII 14 p. 164, 6, 2... &y rrotetv 4 d EY TONE... 4, 0, 2... v rorelv a Tmietw... 7Ò - DI FILOSOFARE DI SOCRATE 47 via, ed anche senza averne una chiara coscienza, dovette naturalmente cadere in alcuni errori, derivanti massima- mente dal difetto della sua induzione. L' induzione so- cratica avea senza dubbio un valore scientifico, poichè moveva dalla revisione del senso volgare: ma nel suo processo non era sempre rigorosa. Come egli non voleva mettere innanzi nulla di suo a persuadere, ma da quello che gli avea concesso il suo interlocutore trarre conse- guenze che, per ciò che gli avea concesso, era impossibile al suo interlocutore non approvare, naturalmente poneva a fondamento dell’esame d’un’opinione un’altra opinione, quanto la prima malsicura ed incerta: sicchè una indu- zione di tal fatta doveva avere molto d’accidentale e di non dimostrato, e tutte le conclusioni e le definizioni che ne derivavano, poggiavano sur una base assai sdruc- ciolevole!. Inoltre per il fatto stesso che non svolgeva il suo pensiero che in una conversazione famigliare, Socrate era costretto a non perdere mai di vista i casi particolari in questione e le esigenze e i bisogni de’ suoi interlocutori : I La deficienza del metodo socratico risulta molto chiaramente dalla descrizione che danno Cicerone e Quintiliano dell’induzione di Socrate, la base del suo metodo: « Inductio est oratio quae rebus non dubiis captat assensionem eius, quicum instituta est; quibus assensio- nibus facit, ut illi dubia quaedam res, propter similitudinem ‘earum rerum, quibus assentit, probetur.... Hoc modo sermonis plurimum So- crates usus est, propterea quod nihil ipse afferre ad persuadendum volebat, sed ex eo, quod sibi ille dederat, quicum disputabat, aliquid conficere malebat quod ille ex co quod iam concessisset, necessario approbare deberet ». Cic. De invent. 1, 31, 32.° « Illa (sc. inductio) qua plurimum Socrates est usus, hanc habuit ‘ viam, cum plura interrogasset, quae fateri adversario necesse esset, novissime id de quo quaerebatur, inferebat cui simile concessisset ». Quint. Orat. V 11. } 46 DEI. METODO non erano dunque osservazioni complete e passate al cribro d’una critica severa quelle da cui Socrate traeva i concetti, ma esperienze personali ristrette, opinioni isolate, e in ogni caso non mai tali che i suoi interlo- cutori non lo potessero seguire. Non neghiamo ch’ egli cercasse di correggere tutto ciò che. c'era di contin- gente nei principii ottenuti in questa maniera, confron- tando casi opposti e completando e rettificando esperienze differenti l'una per mezzo dell'altra, come risulta dalla definizione del concetto dell’ingiustizia e del concetto del sovrano nei Memorabili"; a cui potrebbe aggiun- gersi la determinazione delle qualità d’una buona ar- matura che pure troviamo nei Memorabili*?: ma non si può pure negare che il più delle volte la sua induzione consistesse in una semplice enumerazione di casi e di fatti, udi non reperitur, come direbbe Bacone, instantia contradictoria. Ora i casi conosciuti in cui apparisce vera una certa legge, non danno spesso il diritto di concludere universalmente; bisogna in/errogare la natura, bisogna non contentarsi d’un’osservazione passiva, e vedere Se nessun caso opposto a quelli conosciuti si presenti. Per essere in diritto, osserva lo Stuart Mill 3, di concludere che una cosa è vera universalmente perchè non abbiamo visto mai esempi contrari, bisognerebbe che fossimo anche in diritto di credere che se questi esempi contrari esi- stessero, li conosceremmo; e questa sicurezza, nella maggior parte dei casi, non la possiamo avere che a un debolissimo grado, o non la possiamo avere affatto. A tutto questo aggiungasi il concetto unilaterale ed esclusivo che Socrate s'era fatto della filosofia, per 1 Mem. IV 2, 11 e Seg.; 2 Mem. IV 10,9e seg, 3 Logique déductive ed inductive v III 9, 10 e seg. ol. I p. 353. BRIO porei; . i) w IC DI FILOSOFARE” DI SOCRATE © 49 cui questa non deve in alcun modo occuparsi del fatto naturale; e si rammenti che l’induzione trova la sua più completa applicazione nello studio del fatto naturale appunto. Per ultimo si osservi collo Zeller! che se So- crate comprendeva e formulava nettamente la necessità di ricondurre ogni cosa al suo concetto, e il principio della conoscenza per concetti era per lui come un po- stulato, quanto al modo però e alla forma di questa riduzione, e ai procedimenti logici che esige, non li, elaborò mai in modo: da farne una dottrina, e « non li « troviamo ancora presso di lui che allo stato d'applica- « zione immediata. d’ un'attitudine personale». Comunque sia, noi dobbiamo riconoscere in Socrate il primo autore di quella tendenza all’ analisi e alla generalizzazione, che rendeva, gli uomini atti a rendersi conto di quanto faceano o dicevano; e il precursore di Platone e di Aristotele, il quale ultimo massimamente col suo sistema comprensivo di logica formale, non solo ebbe ùn valore straordinario pei procedimenti e le controversie del tempo suo, ma ancora, penetrando a poco a poco negli spiriti di tutti gli uomini colti ) e perfezionandone le facoltà ragionatrici, contribuì a ‘formare quello che ha di esatto e di eminentemente scientifico il pensiero moderno, sicchè; secondo la sen- tenza del Grote, « la distanza tra la miglior logica « moderna e quella d’Aristotele è appena tanto grande, « quanto quella che esiste fra Aristotele e quelli che lo « precedettero d’un secolo, Empedocle, Anassagora € Ì « Pitagorici »?. 1 Op. cit. tom, 3. p. 112. 2 Grote op. cit. vol.icit. p. 268. G. ZUCCANTE 4 È i : 3 sa x Li LaTet CORE RIOT ua 1) 4 i sed Lr da FRI 50 DEL METODO IV. Risulta da quanto s'è detto nel capitolo precedente che Socrate dev’ essere considerato non soltanto come un moralista, ma anche come uno scienziato, o, se pare troppo superba la parola applicata a Socrate; come un . ricercatore entusiasta del sapere. Chi se lo rappresenta anzi tutto e sovra tutto come un' moralista, non vede che una parte soltanto di questa grande figura, la più attraente, se vogliamo, la più simpatica sicuramente, ma anche la meno profonda e la meno originale. Osserva acutamente lo Zeller che quando Socrate fosse stato, quale in gran parte ce lo presenta Senofonte, un sem- plice predicatore di morale, non si capirebbe l'immensa efficacia ch'egli ha esercitato non soltanto sugli spiriti senza originalità e intelligenza filosofica, ma sugli uomini più illustri e più versati nelle scienze del tempo suo: ‘ non si capirebbe sovra tutto come Pl dotto nei dialoghi ad attribuir filosofiche, e da Platone stesso e da Aristotele e da tutta la filosofia posteriore fino agli Stoici e ai Neoplatonici sia stato considerato come il fondatore d’una filosofia nuova, e l’iniziatore di quel moto fecondo d’ idee, a cui clascuno confessa di metter capo!. C'è anzi in Socrate stess rebbe potersi concludere che lui al di sopra dell’ interesse p essere il fine del sapere, non in quanto deriva dal s damentale dell atone si fosse in- e a lui le più ardue ricerche o qualche cosa da cui par- l'interesse teoretico sta in ratico, che l’azione anzichè ha essa stessa valore che apere, e che perciò il motivo fon- a sua attività è l'interesse della scienza. 1 Zeller Op. cit. tom. 3: P. 99. ceci " ., enni nnt RA DI FILOSOFARE DI SOCRATE DI vs Le conversazioni ch'egli tiene col pittore Parrasio, collo scultore Clitone, coll’armaiuolo Pistia!, e in cui cerca di far scoprire a ciascuno dei tre il concetto dell’arte sua, non hanno evidentemente uno scopo morale, ma uno scopo teoretico, fare che ognuno acquisti un giusto con- cetto della propria attività e se ne renda conto; quando non si voglia ammettere con Senofonte che lo scopo mo- rale c'era pur sempre, poichè Socrate si rendeva wuzile con queste conversazioni agli artisti medesimi. Nessuno scopo morale però si vorrà vedere sicuramente nello strano dialogo ch'egli ha colla cortigiana Teodota *, nel 3 quale cerca di condurla a formulare nettamente |’ idea e i il metodo del suo mestiere. Quivi è indubitatamente il i sapere per il sapere che si cerca, quando non si vo- glia sostenere il paradosso che, insegnandole l’arte di meglio sedurre gli uomini, la metteva in grado di fare maggiori guadagni e. perciò le procurava pur sempre del bene. Il ricercatore del sapere si deve adunque in Socrate collocare accanto al moralista, non già subordinare al moralista. Chi considerasse la scienza dal punto di vista: della morale e a questa la subordinasse, chi non vedesse in essa che un mezzo per raggiungere uu fine ulteriore, chi non si sentisse ad essa attratto da un’inclinazione naturale irresistibile, non potrebbe avere per essa l’ en- tusiasmo che avea Socrate, non potrebbe sovra tutto coll’ energia costante ch'egli mostrò ricercarne il metodo e farsene il riformatore. Nella stessa morale Socrate non avrebbe lasciato traccie così profonde, nè avrebbe eser- citato un'azione così decisiva e durevole, qualora si fosse preoccupato d’interessìi puramente pratici, Il suo merito, i Memor. II 10. 2 Memor. II 11. = r v) 52 , DEL METODO come moralista, osserva lo Zeller !, non consiste nell’ aver voluto una riforma della vita morale; anche Aristofane e altri ancora la volevano egualmente; consiste piuttosto nell'aver riconosciuto che per ottenerla è necessario fon- dare le convinzioni morali sulla scienza, che perciò il sapere solo deve determinare e soddisfare i doveri pratici, vale a dire deve non solo essere utile all’azione, ma di- rigerla e dominarla. Ora nessuno, continua il grande storico della filosofia greca, « ha accettata mai questa « maniera di vedere senza riconoscere alla scienza un « valore proprio, che sta immediatamente in lei stessa»: L'idea della scienza è perciò il punto di partenza della filosofia di Socrate*; la stessa morale è scienza; la trasformazione e la restaurazione della morale non può ottenersi che dandole per base la scienza. Socrate non può in nessun modo separare la moralità dalla scienza e concepire una. virtù senza sapere. D’ altra parte però non sa neanche concepire un sa- E senza virtù; e ciò Te che il risveglio scientifico, ch'era incominciato € i noli : non già ai fini e e ne ralità, come per la Sofistica appunto era avve 2 pa È avvenuto, ma a porre su basi nuove e incrollabili stabilite dal Xi la moralità stessa. LIE E in questa maniera che Socrate si può considerare ad un tempo come il riformatore della scienza e della morale. « Il suo grande pensiero fu di trasformare e di « restaurare la vita morale dandole la scienza per base «e questi due elementi erano così indissolubilmente 4 Op. cit. tom. 3. p. 101-102. 2 Cfr. Zeller op. cit. tom. 3. p. 103. Lo Schleiermacher Werke III 2,300 e il Ritter Geschichte der philo i x i = E philosophie II 50 sostengono questo DI FILOSOFARE DI SOCRATE 53 « legati nel suo spirito che non seppe dave alla scienza « altro oggetto che la vita umana, c inversamente, nella « vita, non vide salute al di fuori della scienza »!. Ciò posto facciamo ancora alcune considerazioni specialmente intorno alle relazioni di Socrate coi Sofisti e alla differenza del suo insegnamento dal loro. Prima di tutto è d’ uopo togliere una prevenzione. Spesso l’operosità di Socrate viene limitata alle sue dispute coi Sofisti, e queste dispute ci si rappresentano non Scette affatto d'una certa animosità da parte di Socrate. Nel primo caso c'è deficienza nella concezione del Socrate storico, nel secondo ingiustizia; in tutti e due rimpic- ciolimento della grande personalità socratica. Imperocchè, se le dispute coi Sofisti e in generale cogli uomini più eminenti d’Atene sono la parte più importante della vita filosofica di Socrate, e per la impopolarità che gli gua- dagnarono ®, c per l'altezza delle dottrine che vi si svol- sero, Nor per questo ne costituiscono tutta la vita. Socrate, come abbiamo notato più sopra, avea la convinzione di esercitare una vera e propria missione religiosa col suo sistema di conversazione € d’interrogazione; non dovea quindi limitarsi a una classe particolare di persone. D'altra parte il difetto intellettuale che si proponeva di combattere, non era soltanto comune ai Sofisti, ai politici, ai poeti, agli artefici e in generale ai personaggi più emi- nenti d'Atene, ma era proprio di tutti glì uomini indi- stintamente; poichè tutti si credeano sapere quello che si riferisce ai doveri, ai fini e alle condizioni della vita umana, e non dubitavano un istante della propria capacità a discorrerne ‘sempre e dovunque. Sicchè la disputa di Socrate doveva essere universale, come era universale 1 Zeller op. cit. tom. 3. P. 107-108. 2 Apol. platon. p. Stef. 21-22. PT 0 MALA) Der ni RR RT PT n D* | & 54 DEL METODO l'illusione di sapere, senza che l'effetto corrispondesse; e se era più specialmente rivolta a combattere 1 Sofisti, i politici, i poeti ecc., ciò dipendeva da questo che il sentimento generale della estimazione di sè, e la credenza di sapere era tarito maggiore in loro, in quanto realmente s'innalzavano considerevolmente sulla massa del popolo e per finezza d’ingegno e per abilità a disputare. La universalità della disputa socratica ci è confermata da quel luogo dell’Apologia, in cui Socrate afferma che risvegliando, persuadendo e rimprocciando cadauno degli Ateniesi, non cessava dall’ assisterli dappertutto l’ intero giorno!; e da quell'altro, pure dell’Apologia, che, se i suoi giudici gli proponessero di rimandarlo libero dall'accusa di Anito, a condizione che non passasse la vita nelle sue ricerche e nel filosofare, non accetterebbe a questi patti, e, finchè gli rimanesse il respiro, non si starebbe dal fare esortazioni e dimostrazioni a chiuugue incontrasse in quel suo solito modo ?. Il qual ultimo luogo è anche importante, în quanto che mi pare serva mirabilmente a dissipare ogni sospetto che la disputa socratic animata da un sentimento di avversione e di malevolenza. Un uomo che si offre pronto a morire piuttosto che non adempiere quello ch'egli reputa suo dovere e esaminare gli altri, per renderli capaci di virtà e ri- oe le facoltà intellettive, senz’ altra ricompensa Sa eee zione di aver compiuto un’ opera uona; com È possibile che nell'adempimento di questo suo dovere sia animato da altri sentimenti che n siano di benevolenza e di affetto? Ben è vero di 1 same contradditorio e l’ ironia di Socratè si È È molto facilmente ad essere scambiat Ae ata con vera e propria a fosse ; il correggere | Apol. plat. p. Stef. 30-31. - DI FILOSOFARE DI SOCRATE OI Nell’unac nell'altra è adoperato il dialogo come mezzo d'insegnamento, ma nell’una l'indole del dialogo è affatto diversa che nell'altra. Gli Eristi formulano le loro do- mande per modo che sieno ben poco determinate in sè stesse, anzi, secondo l'intenzione di chi interroga, am- mettano due risposte in contraddizione fra loro; Socrate invece non vuole che una sola risposta, e questa ben . chiara e determinata; per la qual cosa formula ben chiara e determinata anche la domanda. Che se. gli sembri la domanda sia troppo generale, e non corra subito alla mente il concetto che vuole far intendere, la sminuzza in domande particolari tutte implicanti lo stesso concetto, per modo che finalmente gli venga data quella risposta che vuole e non altre. Per tal maniera, mentre per le domande a doppia risposta il discepolo degli Eristi si avvezza a non dare. alcuna importanza alla verità, giacchè, qualunque risposta egli dia, viene redarguito !; e più spesso, vedendo man mano risolversi in nulla tutte le nozioni che possiede, e per opera di quello stesso che prima gliele avea ap- prese, si smarrisce d'animo e si sconforta è; il discepolo di Socrate invece, acquistando nozioni chiare e deter- minate di ciò ch2 deve apprendere, ed è incoraggiato nella ricerca ed è messo in grado di proseguirla da sè. Di che ci offre uno splendido esempio il giovinetto Clinia dell’ Eutidemo, il quale, avviato da Socrate alla ricerca di quella scienza che forma la felicità dell’uomo, mentre i Eutidem. platon. c. V p. Stef. 275, dove Dionisodoro dice a Socrate che, qualunque risposta dia Clinia alla dimanda « se appren- dano i sapienti o gl'ignoranti » verrà redarguito. 2 Cfr. Eutidem.-platon. c. VII p. Stef. 277, dove il giovinetto Cinia assalito ad un tempo dai due Ervisti Eutidemo e Dionisidoro sta per smarrirsi d'animo, se Socrate non lo sovviene, 62 DEL METODO DI FILOSOFARE DI SOCRATE MRTTTETZE TETI T TRA A tania nen ina pan ene ani a nana tra rari on aniane dapprima non aveva nozione di ciò che si ricercasse, a poco a poco, seguendo le interrogazioni di Socrate, è giunto a intendere per modo le condizioni della scienza richiesta, che da sè medesimo, togliendo la parola a Socrate, spiega come non possa l’arte militare formare la felicità dell’uomo, e perchè non lo possa; mostrando per tal modo col fatto come Socrate col suo metodo gli abbia mirabilmente fecondato la mente!. Ma v'ha ancora di più. L’arte degli Eristi, come quella che consiste in alcuni giochi di parole, in sofismi puerili il più delle volte, in artificii tutt affatto esteriori e che balzano im- mediatamente agli occhi, molto facilmente: viene rubata dagli ascoltatori; sicchè venga poi rivolta contro i suoi medesimi autori, e non produca altro effetto che di di- struggere sè stessa, Il Ctesippo dell’ Eutidemo ne offre una prova. Il giovane audace, abile disputatore, ma senza serietà di proposito, s° APpropria l’arte d’ Eutidemo e Dionisodoro, e se ne serve a confutarli e a canzonarli ad un tempo ?; sicchè Socrate, in sul finire del dialogo osserva agli Eristi con felicissima ironia, che non solo cuciscono la bocca alla sente, ma colle loro mani stesse anche la loro, e che, gran cosa invero! La loro abilità è di tal fatta e l'hanno ritrovata con tanta arte, che in molto poco tempo chi si sia la potrebbe imparare 3, 1 Eutidem, platon. c. XVII P. Stef. 290. 2 Eutidem. platon. c. XXV-XXVI p. Stef, TIRI 299-300. 9 Eutidem, platon. c. XXIX p. Stef, 303. RI î a . listini ini ili iii Sire ee REP RLIIAVO, _ = drei g x Ù DEL DETERMIN c MI i JOHN STUART DI - Fu notato molto giustamente! che nella lotta che in riguardo alla morale si combatte da tempo fra le due scuole intuitiva e induttiva o, ciò che è lo stesso, aprioristica e sperimentale, lo Stuart Mill ha portato uno spirito di conciliazione così spiccato che per lui s'è andato restringendo il campo della lotta e il contrasto s'è fatto meno stridente. Utilitarista appassionato e se- guace convinto della scuola del Bentham, ha però evitato tutte le asprezze del maestro, che urtavano di più le suscettività della scuola contraria: si direbbe che lo spaventino le conseguenze che logicamente derivano dalla sua dottrina e dinanzi alle quali non s'era punto arre- trato il Bentham, e perciò tenti o di attenuarle e pre- sentarle sotto un aspetto vorrei dire più conciliante e più mite, o di rifiutirle addirittura, poco curandosi che si possa dire di lui che non è conseguente a sè stesso. Spesso assume il linguaggio e i criterii della scuola contraria, e se non si sapésse che è lui, che è Stuart Mill, 1 Guyau, La morale anglaise contemporaine, specialmente a pagine 82-84, 88-80, 98-99, 102-103, 112. PETI (3. ZUCCANTE % È, î È 3 | £ 66 DEL DETERMINISMO che è un seguace del Bentham, si direbbe quasi un Kantiano!: sebbene quel linguaggio e quel criteri egli si creda, quanto altri, in diritto di adoperare, perocchè, secondo lui, non ripugnano alla sua dottrina. Talora rimprovera la sua stessa scuola d'intendere le dottrine che professa in una maniera erronea che giustifica le accuse che le vengono dagli avversarii®, e non teme di dichiarare apertamente che questi hanno non di rado un sentimento pratico molto più prossimo alla verità, e perfino un sentimento più vivo dell'educazione e della cultura personale®. Il Bentham stesso non può sottrarsi qua e là alle critiche del suo poco fedele discepolo, come per esempio quando è rimproverato d’aver riposto il criterio della morale unicamente nella quantità dei pia- ceri, e d'aver trascurato affatto il criterio della qualità. « In generale, dice il Mill, gli scrittori utilitarii, hanno fatto consistere la superiorità dei piaceri dello spirito su quelli del corpo sovratutto in ciò che sono più durevoli, più sicuri ecc. dei primi; vale a dire piuttosto nei loro vantaggi particolari che nella loro natura intrinseca... Gli utilitarii però avrebbero potuto collocarsi sovra un ter- reno più elevato, e con altrettanta sicurezza... Sarebbe 1 Vedi per esempio quanto dice il nostro autore nella sua opera l’ Utilitarismo (p. 60 della trad. francese del Le Monnier) in riguardo al sentimento del dovere « Se deve esservi qualche sentimento innato, non vedo la ragione per cui questo non sarebbe il nostro sentimento simpatico. Se v' ha un principio di morale che sia istintivamente ob- bligatorio, dev'essere quello che detta questo sentimento. Se è così, questa obbligazione intuitiva coincide col principio utilitario e noù deve esservi questione fra loro ». 2 Logique déductive et inductive, traduite p ar Louis Peisse; tome second, p. 418-419. 5 Logique ecc. tome second, p. 425-426, ea C bi header ie, see n) ti NI $ = RDZ Nim ERRE AE POPS STANZE d %,, DI JOHN STUART MILL 67 assurdo che mentre nel valutare le altre cose si tien conto della qualità così come della quantità, non si consideri che la quantità allorquando si tratta di valutare i piaceri a: In poche parole e per venire a qualche cosa di con- creto, lo Stuart Mill ha rotto per così dire il cerchio di ferro in cui la morale induttiva s' era volontariamente rinchiusa, e che le impediva di farsi abbastanza popolare, e l'ha allargata accostandola più e più alla morale in- tuitiva per modo che la distanza pur sempre grande che ancora le separa, non sia però così grande come potrebbe sembrare a chi s' arresti a considerarne i principii, Mentre il Bentham, preso per guida il principio d’ utilità, si propone di seguirlo dovunque esso lo conduca e di non badare ad alcun pregiudizio che tenti distoglierlo dalla sua via?, per modo che viene a sopprimere a poco a poco la virtù, l'obbligazione, il dovere, e riduce tutta la moralità a un calcolo d’ interessi, essendo nient’ altro che un calcolo d’ interessi lo stesso disinteresse da lui tanto strombazzato; lo Stuart Mill invece vuole rinsanguare l’utilitarismo con un gran numero d’elementi stoici e cri- stiani, comedice egli stesso?. Quindi non soltanto fa uscire dall’egoismo l’ altruismo o dall’ interesse il disinteresse, ‘come aveva fatto il Bentham, ma vuole che questo di- sinteresse non sia una finzione priva di valore reale, come pel Bentham, una cosa tutta esteriore; ma una cosa interiore e subbiettiva e d’un effettivo valore4; e 1 Utilitaris. cap. II, p. 15-16, trad. francese del Le Monnier. 2 Deontologie II, pref. p. 3 (trad. francese). « J'ai adopté pour guide le principe de l'utilità; je le suivrai partout où il me conduira. " Point de préjugés qui m'obligent a quitter ma voie ». 5 Utilitaris. cap. II, p. 15 della trad. citata. + « Presso Bentham, l'unione degli interessi che produceva l'ap- parenza del disinteresse era tutta esteriore ed estranea all'essere: io 6S DEL DETERMINISMO parla di virtù, di coscienza morale, di merito morale, di dignità morale, di dovere, precisamente come fosse un moralista della scuola contraria. Fino allora gli utilitaristi aveano inteso unicamente dalla bocca dei loro avversarii queste parole; si direbbe che lo Stuart Mill invidii loro questo privilegio, e voglia pronunciarle a sua volta. E bensì vero che queste parole assumono per lui un significato e un valore ben diffe- rente dall’ ordinario; ad esempio la coscienza morale è spiegata come il risultato dell’ associazione nell’ umano pensiero della felicità individuale e della felicità generale, sicchè è in fondo una facoltà acquisita che trae sua ori- gine dall’egoismo: tuttavia l’averle introdotte nel suo sistema, pur alterate, prova l’intima convinzione dello Stuart Mill che dei concetti, o meglio delle cose corri- spondenti a quelle parole, non si può assolutamente fare a meno. E perciò insiste a far capire che, sebbene utilitarista, non per questo egli vuole distruggere in morale ciò che forma come il caposaldo della vita so- ciale, e sì sdegna e protesta energicamente quando non viene inteso a dovere o non lo si vuole intendere a do- vere. « Gli avversarii dell’ utilitarismo, egli dice, hanno raramente la giustizia di riconoscere che la felicità che è il principio di morale conduttore della vita umana, voleva il mio piacere, c si trovava, per un concorso di circostanze quasi indipendenti dalla mia volontà, che questo piacere era nel me desimo tempo il piacer i altri ill, i î Sub pi: si degli altri... Stuart Mill, in morale come in psicologia, va dal di fuori al di dentro; egli associa i piaceri nel seno stesso dell'anima; egli non ammette solamente delle azioni aventi per risultato la felicità sociale, ma delle intenzioni aventi per fine questa felicità e terminanti anche col tenerle dietro indipendentemente dalla felicità personale « come per istinto » (Guyau, La Morale anglaise contemp. p. 82-83). Sa è i.’ 1— to o00ttrcottormtetitt@òtoesttiòeotonttet-"’ uti aerei Lean een i Tar. DI JOHN STUART MILL 69 non è solamente la felicità d'un solo agente, ma quella di tutti. Fra la sua propria felicità e quella degli altri, l’ utilitarismo consiglia all'individuo d'essere tanto stret- tamente imparziale quanto uno spettatore disinteressato. Nella regola d’oro di Gesù di Nazareth noi troviamo lo spirito completo della morale dell'utilità. Fare agli altri ciò che si vorrebbe che gli altri facessero per voi, amare il suo prossimo come se>stesso, ecco le due re- gole di perfezione ideale ‘della morale utilitaria »!. Non cercheremo con qual diritto lo Stuart Mill, utilitarista, abbia parlato di perfezione ideale, di co- scienza: morale, di virtù, di merito morale, di dovere ecc., e neppure se le spiegazioni che ne ha date siano sempre conformi al principio utilitario da cui è partito: noi vogliamo soltanto insistere sul fatto, già accennato qua e là, che lo Stuart Mill nella sua morale s'è andato mano mano accostando alla scuola stessa che intendeva combattere, sia per spirito nobilissimo di conciliazione, o sia anche perchè in fondo era forse meno utilitarista di quanto si credeva egli stesso ?. L’ utilitarismo per lui ha subìto un cambiamento non soltanto nella forma, ma anche nella sostanza, e s'è spinto tanto innanzi quanto si poteva desiderare che si spingesse senza vederlo con- fondersi colla dottrina avversa. Ma ogni'sistema di morale ha per suo fondamento e presupposto inevitabile una questione di psicologia, la questione della libertà o della determinazione neces- saria delle nostre azioni. I Utilitaris. Cap. II, p. 33.: 2 Non è questa un'affermazione priva di fondamento e azzardata; nelle Memorie dello Stuart Mill si legge una pagina donde risulta che in pratica alineno egli non era utilitarista (Stuart Mill, Memoires ch. V. trad. Cazelles). Lî LP Vera e ie + o ar rac La morale intuitiva ha fondato il suo sistema sul- l'ipotesi della libertà delle nostre azioni; | induttiva invece sulla negazione-della libertà; € in questo l'una e l’altra scuola si mostrarono conseguenti a loro stesse. Lo Stuart Mill come ha fondamentalmente mutato il concetto e l'indirizzo della morale induttiva, e l’ha più e più accostata alla intuitiva’ per modo che in fondo ha lasciato all’ uomo, se non una moralità com- pleta, una semi-moralità senza dubbio; così anche per quanto riguarda la questione della libertà o necessità delle nostre azioni, ha introdotto tante e così essenziali modificazioni nella dottrina della sua scuola, e s' è andato accostando per modo alle vedute de'suoi avversari, che non sapresti dire a rigore s’egli sia un sostenitore del determinismo o non piuttosto della libertà. Per verità si professa esplicitamente determinista, ma il suo è un determinismo che non è determinismo, è un determi- nismo che non impedisce all'uomo di modificare e per- fino di formare il suo carattere quando lo voglia, di sottrarsi all’ azione di certe circostanze e di mettersi sotto E azione di certe altre, di sentirsi non già lo schiavo, ma il padrone delle sue abitudini e delle sue tentazioni, di sentire che, se Da SE a queste abitudini e a ueste tentazioni, egli sa ch IA GISTEn a s'egli desiderasse nn SR ee 3 RIE atto, non gli sarebbe per questo Re desiderio più energico ch'egli: non si senta capace di provare; è i soa che non LE la ben SA pa csicmiano 3 | non toglie che se ne abbia coscienza!. ù. Lo Stuart Mill impertanto anche in questa occupa come una posizione intermedia; ce lo di BREE l'anello di congiunzione tra la sua sc stona a scuola e la scuola 1 Vedi per tutto questo Logique ecc, vol. 2, Pi 423-425 ue n ba * IZ ZOO RR CO, TT _ gut 4 DI JOHN STUART MILL 71 PORRE S OR SOS RARA OO RIZZI OI RIA I MII LO contraria. Giammai uno spirito più nobile e più caval- leresco e con più onesti intendimenti è sceso in lotta coi suoi avversarii; giammai furono riconosciuti con altret- tanta lealtà i proprii torti e le benemerenze degli avver- sarii e giammai il desiderio della conciliazione condusse a modificazioni così importanti e radicali della propria dottrina. Ma quando si parte da certi principii si ha il diritto di arrivare a certe conseguenze? voglio dire, nel caso nostro, quando si parte dal determinismo si ha il dritto di arrivare a stabilire, se non una libertà completa, una semi-libertà? Spingere fino a questo punto lo spirito di conciliazione non mi pare conveniente, sovratutto ad un filosofo: quando si ha il coraggio delle premesse si “deve avere anche il coraggio delle conseguenze; e per parte nostra, pur apprezzando gli altissimi intendimenti del Mill, non possiamo non riconoscerlo in contraddi- zione con sè stesso. Noi ci siamo proposti di studiare il determinismo del Mill: comincieremo dal farne un'esposizione per quanto ci è possibile esatta ed imparziale, riservandoci qua e là quelle considerazioni e osservazioni critiche che ci parranno più opportune. II. La volontà è un potere autonomo € indipendente che trova in se stesso il principio delle proprie volizioni, e che può in ogni caso determinarsi da se stesso, senza la coazione di motivi che non sono lui e che non sono posti da lui? oppure anche la volontà rientra nel do- minio della causalità universale, c ben lungi dall’ esser 1 causa diretta ed efficiente delle proprie volizioni, non ne è che causa indiretta, dipendente dai motivi e determi nata dai motivi: Lo Stuart Mill non dubita di rispondere che anche il fatto della volizione appartiene ‘alla categoria di tutti gli altri fatti del mondo fisico che sono determinati da una causa: non può esistere in natura l'anomalia d'un cominciamento assoluto, d’un principio d'azione che non abbia altra causa che se stesso; non si può am- mettere questo strappo alla legge di causalità che. ab- braccia tutti quanti i fenomeni dell'universo. La volontà è causa delle nostre azioni in quella maniera stessa che il freddo è causa del ghiaccio e la scintilla dell’ esplosione della polvere !; vale a dire è causa fisica, fenomenica, è un semplice antecedente che determina un conseguente, e che è esso stesso determinato da un altro antecedente. La teoria del libero arbitrio adunque, o del libero e spontanco determinarsi della nostra volontà, non si può aflatto sostenere. î " ì ci SEL è a dire, IR il Mill, come fa l’ Hamilton, me è inconcepi ninci nell'ipotesi del bero oro SR ROOT SRI regressione infinita, una catena di Re ca capo nell’eternità, o in altre song ca la o mento assoluto sul quale in ultimo ri RONAO del determinismo; e che per conse oa 3 SSA 1 i s guenza se non è con- cepibile la teoria del libero arbitrio, non è concepibil neppure quella del determinismo. Perocchè, anch ina mettendo che le due teorie sieno del pari lion er egli è certo però che quando si tratta di fatti To 9a siano volizioni, noi non scegliamo l'ipotesi che l SE 3 i ( avve- nimento ha avuto luogo senza causa, ma accettiamo. ! Logique vol. I, p. 393. ca Ù È ” x tu "a A x ha! è È» sd DI JOHN STUART MILL 73 invece l'altra, quella d'una regressione continua, se risalente all’ infinito o no, non importa. Ora perchè scegliamo noi sempre questo lato dell’ alternativa per ispiegare le cose che sono del dominio della nostra espe- rienza, e solo facciamo eccezione quando si tratta delle nostre volizioni? Perchè non dubitiamo di ammettere in tutti i casi, eccettuato quello solo della volontà, che le cose dipendono da cause che le determinano, sebbene questa credenza sia, nell'opinione dell’ Hamilton, altret- tanto inconcepibile quanto quell'altra secondo la quale esse avrebbero luogo senza causa? Qual è la ragione di questo fatto? La ragione è che l'ipotesi della causazione, sebbene secondo | Hamilton inconcepibile, ha il van- taggio d'avere in suo favore l'esperienza, che quotidiana- mente dimostra il fatto d' una successione invariabile fra ogni avvenimento e una certa combinazione partico- lare d’antecedenti, per modo che sempre € dovunque, quando questa combinazione d’antecedenti esiste; l’ av- venimento non manca d'aver luogo. L’ esperienza adunque decide la nostra scelta fra i due inconcepibili, e ci fa vedere che in tutti i casi, ec- cettuato quello solo della volizione, le cose sono connesse fra loro nel rapporto di effetto a causa. Perchè anche alla volizione non si potrà applicare la medesima regola di giudizio, perchè anche della volizione nou diremo che- è determinata da una causa? Ecco ciò che sostengono i deterministi. Essi affermano come una verità d’espe- rienza che le volizioni seguono certi antecedenti morali determinati, quali sono : desiderii, le avversioni, le abitudini, le disposizioni combinate colle circostanze esterne atte a mettere in gioco questi moventi internì, colla medesima uniformità € colla medesima certezza con cui gli effetti fisici seguono le lor cause fisiche. Essi rigettano egualmente dappertutto l’ ipotesi della 74 DEL DETERMINISMO spontaneità e non vedono dappertutto che dei casi di causalità !. % Si suol dire, continua il Mill, che il sistema della necessità o del determinismo è la stessa cosa che il materialismo; ma in realtà non si danno due sistemi più distinti fra loro per confessione stessa di chi li com- batte tutti e due, per esempio del Reid, il quale afferma esplicitamente che « la necessità ben lungi d'essere una conclusione diretta del materialismo, non ne riceve il minimo soccorso ». E vero bensì che sempre, o almeno in generale, i materialisti sono sostenitori della necessità, e parecchi dei sostenitori della necessità sono materia- listi; ma è vero anche che tutti i teologi della Riforma, a incominciare da Lutero, e tutta la serie dei teologi calvinisti provano che i più sinceri spiritualisti possono logicamente difendere il sistema della pretesa necessità. D’ altra parte Leibnitz, filosofo spiritualista se altri mai, era d'opinione che le volizioni non avessero la loro causa in se stesse, ma in certi antecedenti spirituali, come a dire desiderii, associazioni d'idee ecc., di maniera che quando gli antecedenti sono i medesimi, le volizioni sono le medesime. Di qui risulta che la confusione del sistema della necessità col materialismo è un errore sia nel rispetto storico che nel rispetto psicologico ?. Del resto, continua sempre il Mill, l’avversione che trova in generale il sistema del determinismo deriva in gran parte dal non essere inteso a dovere, e dal servirci per indicarlo d'una parola, la parola mecessità, a cui nel linguaggio ordinario si. suole attribuire un Sato diverso da quello che scientificamente le si dovrebbe | La Philosophie de Hamilton par John Stuart Mill. tr P. 543-549: 2 Philosophie de Hamilton p. 539-540. ad. Cazelles, DI JOHN STUART MILI. 75 attribuire. Il non intendere a dovere questo sistema è causa d’una quantità: d'accuse immeritate che gli si sca- gliano contro, ed è causa anche che i-suoi avversarii abbiano buon gioco a combatterlo, poichè sembra che questi abbiano in confronto de’ suoi sostenitori un sen- timento pratico molto più prossimo alla verità, e un sentimento ben più profondo dell’ educazione e della cultura personale!. Il rapporto di causa ad effetto è semplicemente un rapporto di antecedenza e di sequenza: certi fatti suc- cedono e succederanno sempre, è da credere, a certi altri fatti; l’antecedente invariabile è chiamato Causa; il con- seguente invariabile Effetto, e consiste in questo la uni- versalità della legge di causazione che ciascun conseguente è legato in questa maniera a un antecedente 0 a un gruppo d'antecedenti?. Ma l’invariabilità di sequenza non basta ancora a costituire la Causa; se bastasse, la notte sarebbe causa del giorno e il giorno della notte, essendo invariabilmente connessi l'uno all’altro. Perchè si abbia la causa, la sequenza dev'essere nello stesso tempo che invariabile, incondizionale; vale a dire, non basta, perchè si abbia la causa, che un conseguente tenga dietro invariabilmente a un antecedente, ma si richiede che non ci sia nessun'altra condizione che l’ antece- dente, che determini il conseguente. Invariabilità e incon- dizionalità di sequenza costituiscono adunque la causa, che può essere per ciò definita: «l’antecedente o la riu- nione d’antecedenti di cui il fenomeno è invariabilmente e incondizionalmente il conseguente »3, Ma questa invariabilità e incondizionalità di sequenza 2 Logique ecc. vol. 1. p. 379 3 Logique ecc. vol. 1 P. 370-381. i ; baia ip Lai 76 - DEL DETERMINISMO non implica per nulla la necessità: nel senso metafisico in cui è intesa questa parola dalla scuola intuitiva, vale a dire nel senso d'un legame misterioso fra antecedente e conseguente, d’un costringimento misterioso che l’an- tecedente eserciti sul conseguente per modo che fra i due, anzichè una semplice uniformità di successione, vi sia una irresistibilità di successione !: questo genere di necessità non è dato dall'esperienza e trascende l’espe- rienza. Niente prova che se in passato vi fu tra due fatti una successione invariabile, certa, incondizionale, la cosa deva essere così anche in avvenire: perchè lo fosse, do- vrebbe il fatto antecedente avere il potere di produrre, di efficere, per dirlo alla latina, il fatto conseguente; intorno al che noi non sappiamo niente: questo potere efficiente non ci si rivela nelle cose: l'esperienza non ci rivela che cause fenomeniche. o fisiche, non cause prime od efficienti od ontologiche di checchessia 2. Nel rapporto di causa ad effetto adunque non v'ha. necessità nel senso in cui comunemente s' intende questa parola; solo nel caso che alla parola necessità si attribuisca il significato d'incondizionalità, ed è quello che veramente le spetterebbe, acconsentiremo ad ammettere che tra causa ed effetto intercede un rapporto necessario ®. 3° Ciò posto ognuno capisce subito in che senso si deva intendere il determinismo, in che senso si deva dire che la volontà è determinata dai motivi. Le nostre volizioni sono causate In quella maniera stessa in cui sono causate tutte le cose dell’ universo; vale a dire, fra la volizione ine) È eno arse non esiste quel ) ostringimento misterioso che ! Logique ece. vol. 2, D. 420. S Logique ecc. vol 1. p. 369. 5 Logique ecc. vol. 1. PD. 380. DI JOHN STUART MILL SI NI è generalmente compreso nella parola necessità, e per cui l'antecedente sforza ad essere il conseguente in una maniera irresistibile; fra la volizione e il motivo non esiste che un legame di successione uniforme, non altro. Noi sappiamo che, pure determinati dai motivi, non siamo però sforzati, come per un incanto, ad obbedire a un motivo particolare, e sentiamo che se lo desideras- simo, abbiamo il potere di resistere al motivo: « pensare altrimenti, aggiunge lo Stuart Mill, sarebbe umiliante pel nostro orgoglio e contrario al nostro desiderio della perfezione »!. Ben compresa adunque la dottrina della Necessità filosofica si riduce a questo: « che essendo dati i motivi presenti allo spirito, essendo dati parimente il carattere e la disposizione attuale d'un individuo, si può dedurne ‘nfallibilmente la maniera in cui egli agirà; e che se noi conoscessimo a fondo la persona e nel medesimo tempo «a tutte le influenze alle quali essa è sottoposta, potremmo prevedere la sua condotta con tanta certezza con quanta prevediamo un avvenimento fisico.... Che se alle volte si è incerti intorno al modo in cui uno agirà in avvenire, ciò deriva dal non essere affatto sicuri di conoscere tanto completamente quanto converrebbe le circostanze e il carattere di quella persona, non già dall’ idea che, anche sapendo ciò, si potrebbe essere ancora incerti della sua maniera d’agire. E questa piena sicurezza non è per pi niente incompatibile con ciò che noi appelliamo il sen- timento della nostra. libertà. Quand’ anche le persone da cui noi siamo particolarmente conosciuti siano per- fettamente sicure della maniera in cui agiremo in un ui caso determinato, noi non ci sentiamo meno liberi per n questo. Al contrario, spesso un dubbio sollevato sulla i ari | Logique ecc. vol. 2. p. 420. Î DEL DETERMINISMO nostra condotta futura è per noi la prova che non si conosce il nostro carattere, e qualche volta anche lo prendiamo per un’ ingiuria. I metafisici religiosi che hanno affermato la libertà della volontà, Danno sempre sostenuto ch’essa non era per niente inconciliabile con la prescienza divina; essa non lo è dunque con nes- sun’altra prescienza. Noi vogliamo essere liberi, benchè altre persone possano essere perfettamente certe dell'uso che noi faremo della nostra libertà. Per conseguenza non è questa dottrina (che le nostre volizioni e le nostre azioni sono le conseguenze invariabili di stati antece- denti del nostro spirito) che si può accusare d’ essere smentita e respinta, come degradante, dalla coscienza »!. La parola necessità applicata alla volontà « significa solamente che la causa data sarà seguita dall'effetto senza pregiudizio di tutte le possibilità di neutralizzazione da parte di altre cause »?. Il motivo da cui dipende l’azione non è d'un impero tanto assoluto da non lasciar luogo al potere di qualche altro motivo; le cause delle azioni non sono irresistibili. Quando noi diciamo che uno a cui sia sottratta l’aria o l'alimento morirà di necessità, intendiamo dire che morirà indubbiamente checchè si possa fare per impedirlo: quando diciamo che uno che sia stato avvelenato morirà, non intendiamo dire che è necessario che muoia, perocchè un antidoto sommini- strato a tempo o l’azione d'una pompa stomacale può qualche volta prevenire la morte. Le azioni umane rien- trano nei casi di quest ultima specie. Di qui l’improprietà di chiamare necessario il rapporto che esiste fra il motivo e l’azione: questa parola necessità essendo adoperata nei casi ordinarii in senso tutt'affatto diverso da quello che 1 Logique ecc, vol, 2. P. 419-420. 2 Logique ecc. vol. 2. Pi 422. he ——— | essre e Ai Res x e. Cai A AI ba Mes, ig o DI JOHN STUART MILL SI carattere che si aveva precedentemente, o da qualche sentimento d’ammirazione o da qualche aspirazione im- provvisa!. Ciò posto ognuno capisce la differenza che n c'è fra pensare che noi non abbiamo alcun potere di E modificare il nostro carattere e pensare che noi non use- remo di questo potere, se non ne abbiamo il desiderio. In generale « importa molto che questo desiderio non 2 sia soffocato dal pensiero che il successo è impossibile, L. e che si sappia che se noi abbiamo questo desiderio, bi l’opera non è così irrevocabilmente compiuta che non possa più essere modificata »°. Riassumendo adunque lo Stuart Mill ammette nel- l’uomo il potere di modificare € anche di formare il proprio carattere, quando lo voglia. È bensì vero ‘che questa volontà è determinata dal desiderio, e il desiderio in ultimo è fatale: ma in ogni modo, questo sapere che si può modificare o anche formare il proprio carattere, quando se ne abbia il desiderio, è già qualche cosa, € ‘Duomo che si crede avere questo potere sarà in ben migliori condizioni e meno scoraggiato e meno scon- fortato dell'uomo che si crede non avere affatto questo potere, sebbene lo desideri. Costui sarà in uno stato di noncuranza e di apatia da cui non si potrà mai togliere; l’altro invece saprà di non essere irrimediabilmente condannato ad agire in una certa maniera, e attingerà da questo sapere coraggio € conforto a migliorare sè medesimo. Ma quanta dubitazione e quanta titubanza nel linguaggio del Mill! Prima l’uomo può modificare il suo carattere soltanto, poi può anche formarlo quando lo voglia; prima si accorda all'Ovven che il carattere 1 Logique ecc. vol. 2. p. 424. 2 Logiquesece. vol. 2. p. 425. G. ZUCCANTE i Ù (0/4) w DEI. DETERMINISMO dell’uomo è in ultima analisi formato per lui, che vale a dire dipende da cause a lui estranee, e poi si afferma che ciò non impedisce che non sia anche in parte for- mato da lui, come agente intermediario; prima si dice che noi non possiamo voler direttamente essere differenti da ciò che siamo, e subito dopo che possiamo però porre noi stessi sotto l’azione di certe circostanze per diventare appunto differenti da ciò che siamo; e per ultimo prima si concede che possiamo formare il nostro carattere, quando lo vogliamo, e poi si afferma che del nostro volere non siamo però i padroni. Ma lo Stuart Mill si era proposto di conciliare in qualche modo il determinismo colla libertà, e sta in questo la ragione di questa specie di altalena, di queste affermazioni e negazioni che appena sfuggite si vorreb- bero ritrarre e si ritraggono infatti o se ne attenua il valore, di questa vorrei chiamarla timidezza filosofica che finisce non di rado in aperte contraddizioni, di questo volere e non volere che ci impedisce di cogliere il vero pensiero dell’ autore e che lo rende oscillante fra la sua scuola e la scuola contraria. Nel luogo seguente per esempio lo Stuart Mill è entrato nel pieno dominio della scuola intuitiva. « Il sentimento, egli dice, della facoltà che noi abbiamo di modificare, se /o Vog proprio carattere è quello stesso della libertà morale di cui abbiamo coscienza. Un uomo si sente moral libero quando sente che non è lo schi il padrone delle sue abitudini e delle sue te anche cedendo loro, sa che potrebbe loro se desidérasse respingerle affatto, non avr perciò di desiderio più energico che non si di provare »). mente ntazioni; che, resistere; che ebbe bisogno senta capace 1 Logique ecc. vol. 2. p. 425. liamo, il nostro avo, ma al contrario DI JOHN STUART MILL 83 D Ma a questo punto si potrebbe dimandare: con qual diritto ammettete voi che l’uomo sente di non essere lo schiavo, ma il padrone delle sue abitudini e delle sue tentazioni, che, anche cedendo loro, sa che potrebbe loro resistere € respingerle interamente? Per ammettere questo, bisognerebbe concedeste all'uomo la facoltà di formare i suoi desiderii che son quelli che de-. terminano la volontà; invece secondo la vostra dottrina : desiderii sono fatali. L'uomo non può essere padrone delle sue abitudini e delle sue tentazioni che a patto di essere anche padrone di formare il desiderio di cangiar quelle e resistere a queste, ciò che voi negate. « Del resto, continua il Mill, per avere la piena co- scienza della libertà «bisogna che noi siamo riusciti a fare il nostro carattere come l'avevamo voluto; perchè se noi abbiamo desiderato e non siamo riusciti, non abbiamo alcun potere sul nostro carattere; nom siamo punto liberi. Almeno bisogna che noi sentiamo che il nostro desiderio, se non è abbastanza forte per cangiare il nostro carattere, lo è abbastanza per dominarlo tutte le volte ch’essi si troveranno in conflitto in una occa- sione d’ agire particolare »!. E da questo passo pare ri- sultare che noi, contrariamente a quanto è stato detto antecedentemente, non possiamo sempre modificare il nostro carattere, se lo vogliamo; che i nostri desiderii talora rimangono infruttuosi, che insomma non posse- diamo sempre la libertà. Singolare incertezza di lin- guaggio! Ma continuiamo l'esposizione della dottrina del Mill. Tre dottrine, dice il Mill, si possono distinguere in rela- zione al determinismo: in primo luogo il fatalismo puro, l asiatico, quello di ‘Edipo, secondo il quale tutte le I Logique ecc. vol. 2. p. 425. At TR 7 TAI 84 o DEL DETERMINISMO nostre azioni sono predeterminate dal di fuori, da una potenza cieca, dal destino, indipendentemente dal nostro carattere e dalla nostra volontà; di maniera che il nostro amore del bene e la nostra avversione pel male sono senza efficacia, e non giova alimentarli nel nostro cuore, oichè non hanno alcun potere sulla condotta; in secondo P ’ luogo il fatalismo che si può chiamare modificato, il fa- talismo dell’Ovven, il quale sostiene bensì che le nostre azioni dipendono dalla nostra volontà e la volontà dai nostri desiderii, e questi dall'azione combinata dei motivi che ci si offrono e del nostro carattere personale; ma ag- giunge che ‘il nostro carattere è stato fatto per noi e non da noi, e che quindi non ne siamo responsabili, come non siamo; responsabili delle azioni. ch’ esso ci conduce a fare; e che indarno ci sforzeremmo di can- giarlo 1, . «La vera dottrina della caus IR POTRO a questi due sistemi, che non so- amente la 1 ; A Se Roana condotta, ma il nostro carattere dipende an A - : a SEE volontà; che possiamo, adoperando i n ‘are | DES Sa migliorare il nostro carattere, e che t ri 6 “Ai x in) necessiti al male, s c è tale che, restando quello che è, ci : o. x 35 eo .° > Sala giusto mellere in opera dei motivi te ci necessiteranno a fare î nostri sfr;-; Jr i] li 3 / Str sforzi per miglio- arto e a liberarci così dall’ altr AR . Fa UESi alri ra necessità: in altri crmini noi siamo moralmente obblivati erferi. “oligatt a lavorare pel Perfertonamento del nostro carattere? È dottrina deterministica £ so» > E questa la terza vale ad utta propria del Mill; secondo il P. 571. Psychologie anglaise contemporaine, p. 14 Co ———@w r-tmteoe-cnstr@te eta RT DI JOHN STUART NILL 87 Lo Stuart Mill sente la difficoltà e l’obbiezione e risponde: « Quando noi ci esercitiamo volontariamente, come il nostro dovere l’ esige, a perfezionare il nostro ca- rattere, o quando operiamo (scientemente o senza saperlo) in maniera da pervertirlo, le nostre azioni, come tutti gli altri atti volontarii, fanno supporre che ci fosse già qualche cosa nel nostro carattere, 0 nel nostro carattere combinato colle circostanze esterne, che ci ha condotti ad agire così, e che spiega perchè abbiamo agito così. Per conseguenza colui che potesse predire le nostre azioni co- noscendo il nostro carattere qual è al presente, potrebbe pure, con la medesima conoscenza esatta del nostro ca- rattere, predire ciò che noi faremmo per cangiarlo »!. La risposta è ingegnosa, bisogna convenirne. Ma se la modificazione del carattere dipende in fondo dal carattere stesso, o dal carattere combinato colle circostanze esterne, non sarebbe illusoria questa modificazione? E possibile per esempio che in un carattere moralmente cattivo, in quanto tale, siano elementi che spieghino e giustifichino il suo cambiamento in buono; o viceversa in:un carattere moralmente buono elementi che preparino la sua tra- sformazione in cattivo? È possibile che nel'male s'annidi il bene, e nel bene il male? Voi avete agito sempre bene; che importa? State in guardia tuttavia; il bene qualche volta dà origine al male! Voi avete agito sempre male; state di buon animo egualmente; il male qualche volta dà origine al bene! Invece il vero si è che la modificazione del carat- I tere non dipende dal carattere stesso; dipende da una forza intima nostra che anzi è in opposizione al carattere, dipende da noi che abbiamo sperimentato le conseguenze tristi del carattere che avevamo precedentemente, 0 siamo 1 Philosophie de Hamilton, p. 572-573. Ls è Cal eri SÒ DEL DETERMINISMO eccitati da qualche vivo sentimento d’ammirazione, o da qualche aspirazione improvvisa, lo dice lo stesso Mill in un altro luogo !. — D'altra parte se è vero che la modi- ficazione del carattere dipende in ultimo dal carattere stesso o dal carattere combinato colle circostanze esterne, perchè abbiamo noi il dovere, come dice il Mill, di eser- citarci volontariamente a perfezionare il nostro carattere ? Una forza che non è me mi obbliga a fare una cosa, e tuttavia io ho il dovere di farla! Non c'è qui una con- traddizione manifesta? Per concludere, ecco come ci sembra poter riassumere in breve la dottrina dello Stuart Mill liberata da tutto quel viluppo di dubbii e di titubanze che la rendono alquanto oscura e indeterminata. 1° La volontà non è libera, ma determinata, determinata però non necessa- riamente, ma in quel modo in cui sono determinate le altre cause dell'universo, il cui rapporto causale è un rapporto di sequenza invariabile e incondizionale e niente più. 2° Di qui segue che, se in ultima analisi il nostro carattere è formato per noi-e non da noi, dire che questo carattere non poss anche formato da noi, se lo vogli questo volere non dipende da noi. 4° Dipende invece dal desiderio. 5° Il quale alla sua volta non è formato da noi; possiamo noi con un atto di volontà darci o toglierci un desiderio o una avversione? 6° Se il nostro Atto non è formato da noi, noi possiamo però metterci in tali circostanze che siano adatte a far Nascere il desiderio di modificare il nostro carattere ?, 7° In altre parole noi non possiamo cangiare direttamente il nostro carattere ciò non vuol a essere modificato e amo. 3° Ma da capo 1 Philosophie de Hamilton, p. 572, 2 Philosophie de Hamilton, p. vol. 2. pag. 424. nota, 371-572, nota; e Logique ecc. DI JOHN STUART MILL $9 con un atto di volontà; ma possiamo servirci dei mezzi adatti a far nascere il desiderio di cangiarlo, e quindi volere indirettamente questo cambiamento. O c' ingan- niamo, o questa è la vera e definitiva espressione del pensiero dell’ autore. Ma da capo, quando ci serviamo dei mezzi adatti a cangiare il nostro carattere, siamo di nuovo determinati, oppure troviamo in noi stessi la forza di far ciò? Se sì ammette questo secondo lato dell’ alternativa, come pare venga ammesso dal Mill, ricadiamo in fondo nel sistema della libertà. III. Esposta la dottrina deterministica del Mill, e rilevati er via i dubbii, le titubanze; le contraddizioni che fan dubitare della serietà delle convinzioni dell*autore come filosofo determinista, ma che in compenso fanno altissima testimonianza del suo retto senso morale, ci resta ora a vedere in qual modo abbia cercato di combattere le prove che si adducono in favore della libertà. E questa la parte in cui il Mill ha fatto gli sforzi maggiori, ed è giustizia confessare che ha dato prova di finezza ed acu- tezza straordinaria; soltanto questa finezza e questa acu- tezza sono talvolta a scapito della verità e rasentano qua e là il paradosso. La testimonianza decisiva in favore della libertà e per cui quegli stessi che la combattono si sentono loro malgrado costretti ad ammetterla, e quegli altri che non la credono concepibile da mente umana, si sentono però biagi sei i it identita Po PATO Ma zano (AT TA Per ade, è; & ì 90 DEL DETERMINISMO uecensroneneo sevacanzissizarisninieseaneiorazioioe rassicurati a sostenerne l’esistenza!, è la testimonianza della coscienza. Contro questa testimonianza lo Stuart Mill aguzza le sue armi e scaglia i suoi dardi, e prima di tutto fa questa osservazione. Che autorità può avere la testi- monianza della coscienza, se in generale ciò che ci testifica suole essere interpretato in maniere differenti e non possiamo mai essere sicuri sul suo significato? Per esempio il Cousin e quasi tutti i filosofi tedeschi trovano nella coscienza l’Infinito e l’ Assoluto, che 1’ Hamilton giudica affatto incompatibili con essa: v'ebbero più ge- nerazioni di filosofi che hanno creduto aver delle idee astratte, concepire un triangolo che non fosse nè equi- latero, nè isoscele, nè scaleno, ciò che |’ Hamilton e tutti oggidì riguardano come assurdo. Vi sono dunque opi- nioni contraddittorie sul senso della testimonianza della coscienza; che deve pensare dinanzi a questo fatto il filo- sofo perplesso ®?. Lo Stuart Mill non a torto incomincia per questa via ad infirmare il valore della testimonianza della co- scienza. Della testimonianza della coscienza si dai filosofi specialmente in passato; non vi zione quasi di cui; in mancanza d’altre pro volesse trovare una conferma nella testimonianza della coscienza; e molte di queste concezioni poi non ressero a un esame accurato e ad una critica sagace, o almeno si vide che non erano per niente attestate dalla coscienza. Ma che prova questo? Forse perchè s'è abusato del abusò fu conce- ve, non si 1 Alludo all’ Hamilton, pel quale la libertà morale, non può essere concepita « perchè noi non possiamo concepire che il determin lativo », e tuttavia esiste essendo irrefra scienza (Vedi Stuart Mill Philoso 2 Philosophie de Hamilto ato e il re- Gabilmente attestata dalla co- phie de Hamilton, cap. XXVI, p. 544). N, p. 549-550. i RO RI, e _ | i } DI JOHN STUART MILL 9I testimonio della coscienza, e talora si sostenne attestato dalla coscienza quello che in realtà mon cra attestato, si deve negare fede sempre alla coscienza? Neppure lo Stuart Mill è di questo avviso, e, filosofo positivista con- vinto, non crede però col Comte che unicamente del- l’esperienza esterna e niente dell’interna si deva tener conto in psicologia; l’esperienza interna è anzi la prima, la vera fonte a cui si deve attingere. Per quanto riguarda la libertà poi, questo è uno di quei fatti, di cui non si può dire che una coscienza l’attesti e l’altra no, o intorno al quale la testimonianza della coscienza si possa 'inter- pretare in più maniere differenti. Chi non sente che al momento di agire in una certa maniera in un caso particolare, potrebbe agire in una maniera diversa, se lo volesse, e non si sente in conseguenza responsabile di quello che fa? Ecco la testimonianza della coscienza degli uomini, sul cui significato non può cader dubbio perchè manifesto e chiarissimo. Ma a quella osservazione preliminare non s' arresta il Mill; e per verità non aveva valore che come un primo attacco in battaglia, che serve più che ad altro a scan- dagliare il. terreno e a misurare a un dipresso la forza del nemico, ma non decide della vittoria. Esamina per- ciò più addentro il fatto dell’ aver coscienza del libero arbitrio. « Aver coscienza del libero arbitrio, egli dice, si- gnifica aver coscienza, prima d’ aver scelto, d’ aver po- tuto scegliere altrimenti. Si può in limine biasimare l’uso della parola coscienza con una tale accezione. La coscienza mi dice ciò che io faccio o ciò che io sento. Ma ciò che-io sono capace di fare non cade sotto la coscienza. La coscienza non è profetica; noi abbiamo coscienza di ciò che è, non di ciò che sarà o di ciò che può essere. Noi non,sappiamo mai che siamo capaci di PR ni 92 DEL DETERMINISMO fare una cosa che dopo averla fatta, 0) dopo aver fatto qualche cosa d’eguale o di simile. Noi non SPESO affatto che siamo capaci d'azione se non avessimo giam- mai agito. Quando abbiamo agito, sappiamo, nei limiti di questa esperienza, come siamo capaci di agire : e quando questa conoscenza è divenuta famigliare, è spesso confusa colla coscienza e ne riceve il nome. Ma da ciò ch’essa è mal nominata non segue che abbia più auto- rità; la verità ch'essa possiede non è superiore all’ espe- rienza, ma riposa sull’ esperienza. Se la pretesa coscienza di ciò che noi possiamo fare non è nata dall'esperienza, non è che un'illusione. Il solo titolo ch’ essa abbia ad esser creduta è di essere un’interpretazione della espe- rienza, e se l’interpretazione è falsa bisogna rigettarla »!. Nel qual luogo due cose sono poste in rilievo e distinte: prima di tutto si dice che la coscienza non riguarda già ciò che sarà o ciò che può essere, ma ciò che è, e che per conseguenza ci attesta solo quello che facciamo, non già quello che possiamo fare e siamo atti a fare; in secondo luogo che la pretesa coscienza di ciò che sarà o di ciò che può essere o di ciò che siamo atti a fare, non è un'intuizione, ma una cognizione offertaci dall’ esperienza, che ha valore solo in quanto ha valore questa. 1 Non facciamo al Mill l’obbiezione che gli faceva a ragione l’ Alexander? che « se abbiamo coscienza d'una forza libera di volizione continuamente inerente in noi, abbiamo coscienza di ciò che è ». Noi ci mettiamo anzi allo stesso punto di vista del Mill e ammettiamo che non si possa aver coscienza d’ un'attitudine, d'una forza inerente in noi, indipendentemente da ogni esercizio 1 Philosophie de Hamilton, p. 551-382. ? Citato in nota dallo Stuart Mill, Philosophie de Hamilton, p. 552. DI JOHN STUART MILL 93 presente o passato di quest attitudine o di questa forza; ammettiamo in altre parole che la pretesa coscienza della libertà non sia un'intuizione, ma una conoscenza spe- rimentale. E che perciò? La credenza nella libertà è meno universale per questo ? E meno radicata nell'anima degli uomini? E vero, non la chiameremo coscienza; sarà non una percezione, non un sentimento, ma un giudizio derivato, una conclusione tratta da fatti che ci cadono tuttogiorno sott' occhio; ma questo non importa. ‘ V ha una quantità di fatti la cui esistenza è sicurissima, e che pure non cadono sotto il dominio della coscienza. Ma v'ha di più. L'esperienza esterna, l'esperienza a posteriori non può, come osservava giustamente l'Alexan- der!, verificare la credenza ch'io era libero d'agire, poichè | l’esperienza mi dice in qual senso io ho agito in un caso | particolare, e niente mi insegna sulla mia attitudine ad agire altrimenti; questa mia attitudine ad agire altri- menti m'è offerta da una percezione interna, da un sentimento, dall'esperienza interna insomma, che non ha niente a che fare coll’ esterna. - Il Mill risponde: « Supponete che |’ esperienza ch'io ho di me stesso mi offra due casi incontestabilmente simili per tutti i loro antecedenti fisici e mentali, e che in uno di questi casi io abbia agito in un senso, e nell'altro in un senso contrario : si avrebbe bene qui una prova speri- mentale ch'io sono stato capace d’agire in un senso o nell'altro. È per una tale esperienza ch'io apprendo che posso agire, vale a dire trovando che un avvenimento ha luogo o non'ha luogo secondo che (le altre circostanze restando le medesime), una volizione da parte mia ha luogo o non ha luogo »°. RI daddi Aia sie Pe” i su 1 Philosophie de Hamilton, p. 552-553; in nota. 2 Philosophie de Hamilton, nota a p. 553. E Di MINISMO 94 DEL DETER | Accettiamo di buon cuore l’ osservazione; ma se in due casi identici per i loro antecedenti fisici e men- tali io ho agito, come suppone il Mill, non già in una maniera identica, ma in una maniera contraria, ciò vuol dire che gli antecedenti (motivi) non hanno la forza di determinarmi, e che io sono libero d'agire in quel modo che mi piace; altrimenti tutte due le volte avrei agito in modo identico. A questo punto dov’ è an- dato il potere determinante dei motivi che s'è ammesso prima? A questo punto non si riconosce nell'uomo una forza intima e spontanea capace di agire anche in oppo- sizione ai motivi? Lasciamo da parte adesso se la libertà ci venga o no attestata dalla coscienza e se questa co- scienza sia intuizione o conoscenza sperimentale; no- tiamo il fatto che questa libertà, da qualunque parte ci venga attestata, voi pure l’ ammettete. Ma neppure a questo punto s’ arresta il Mill; egli è troppo acuto e profondo per non capire che anche am- mettendo essere la coscienza della libertà non già una intuizione, ma questo Ra Ri SRERNS a E enza della libertà ste e che per conseguenza anche A RR SRO 5 i lè questo secondo attacco, i aa È 1a la un'esito decisivo. Delibera perciò Oros ° ; O PIL SoS AASCO; e, bisogna convenirne, menti temi ile e pericoloso. Eccolo. « Questa convinzi chiamino: mente Sao done Ani azione ose ( » che la nostra volontà è libera, che è essa? Di che siamo noi convinti? Mi si di 3 ; ; x c i : sI dice che, sia ch'io mi decida ad agire, sia che m'aste : ; SS sstenga, sento che potrei aver deciso altrimenti. Io domando alla mi * » . ‘o alla mia coscienza ciò ch'io sento, e trovo che sento, o che ho la convinzi x licre l° ; nvinzione, che avrei potuto scegliere l’altra via, e anche che l'avrei P ; La È avrei scelta, se avessi preferita, vale a dire se |° avessi ; : a essi amata meglio; ma io non trovo che avrei potuto sceoli ; egliere una cosa pur e no rei lite a i ll DI JOHN STUART MILL 95 preferendo l'altra ». Ad onta di questo si continua a dire che noi facciamo una cosa, pure preferendo, pure amando meglio di farne un'altra. Ciò deriva dal non in- tendersi bene intorno al significato della parola preferire. Quando sì preferisce una cosa, non si prende questa cosa da sola, in sè, ma unitamente alle conseguenze che deri- verebbero dal farla e che le servono come di corteggio. Così un'azione presa in sè, indipendentemente dalle con- seguenze che possono da essa derivare, o da una legge morale chio violi facendola, posso preferirla ad un'altra, e cionullameno fare quest'altra: ciò avviene perchè csa- minata quella prima azione anche nelle sue conseguenze, è tale che merita di essere posposta alla seconda. Noi facciamo adunque tutte le volte quello che preferiamo. « Prendiamo un esempio: ucciderò io o mon ucciderò? Mi si dice che se io scelgo d' uccidere, ho. coscienza che io avrei potuto scegliere di astenermi; ma ho io coscienza che avrei potuto astenermi, se la mia avversione pel de- litto e i miei timori delle sue conseguenze fossero stati più deboli della tentazione che mi spingeva a commet- terlo? Se io scelgo d’astenermi, in qual senso ho io coscienza che avrei potuto commettere il delitto ? uni- camente nel senso che avessi desiderato di commetterlo con un desiderio più forte del mio orrore per l'assassinio e non con uno menò forte ». Sicchè in ogni caso, quando noi supponiamo che avremmo potuto fare altrimenti da quello che abbiamo fatto, supponiamo sempre una dif- ferenza negli antecedenti (desiderio e avversione) che soli hanno la potenza di determinare l'atto. E perciò il te- stimonio della coscienza rettamente interpretato e inteso è anzi una prova in favore del determinismo !. Si obbietterà, continua il Mill, che resistendo a un x I Vedi per tutto questo, Philosophie de Hamilton, p. 552-554. ERE PIA Rage i era pt "Tae se : i verte net teatri I da - Pa 90 DEL DETERMINISMO desiderio io ho coscienza di fare uno sforzo, e se il de- siderio dura lungo tempo, io sono per questo sforzo così sensibilmente esaurito come dopo un esercizio fisico. A che la coscienza di questo sforzo se la mia volontà fosse completamente determinata dal desiderio presente più energico? Perchè il peso più forte s'abbassi e il più leggero s’ innalzi, la bilancia non ha sforzi da fare. Questo argomento, dice il Mill, si fonda tutto sulla falsa credenza, che la lotta fra impulsi contrarii deva sempre decidersi in un istante; e che l'impulso real- mente più forte ottenga vittoria in un istante. Ma questo non avviene neppure nella natura inanimata; l’uragano non abbatte una casa e non rovescia un albero senza resistenza; la bilancia stessa trema e i piatti oscillano alcuni istanti quando la differenza dei pesi non sia grande. Egualmente nella vita dell'anima, dove l’inten- sità delle forze morali che si combattono non è fissa A ma mutabile, dove non c’è un istante solo in cui varie serie d’ idee non attraversino lo spirito, aggiungendo vigore da una parte e togliendolo dall’altra, la lotta fra i motivi contrarii non è decisa in un istante e può durare anche lunghissimo tempo, e quando ha luogo fra sen- timenti violenti, esaurisce in una maniera straordinaria la forza nervosa. Ora la coscienza dello sforzo di cui si parla è appunto la coscienza di questo stato di con- RR TASTE OR ha eee tra me ed una forza. es a di cui Io trionfi, 0° i i wr NA: ha luogo tra me e me, i; DE È È a Fonzie un piacere e 272 che temo i rimorsi «Giò S = Sosidero o, se voi amate meglio, la mia O e È Sie: A un lato piuttosto che n l’altro, è 2a SanIchi Seo i 3 » è che l’un rappresenta uno stato dei miei sentime nente che non fa l’altro. Dopochè la vinta, il z7e che desidera finisce, ma i o dei me tentazione l’ha l me di cui la Nt più perma- DI, PE O 0 e e DI JOHN STUART MILL 97 LAV cLoalesessacteapeastizecasaponeguestaa ssa tovepogg esseeeposabponadsas aida r e sensei veg esa evo coca cover evi aerea ivicateei spira coscienza è ferita può durare fino alla fine della vita ». Non è vero adunque che la coscienza ci attesti che noi possiamo agire contrariamente al desiderio più forte o all’ avversione più forte che proviamo al momento del- l’azione. La differenza tra un uomo cattivo e un uomo buono non consiste in ciò che quest’ ultimo agisca in opposizione a’ suoi desiderii più forti, ma in ciò che il suo desiderio di fare il bene e la sua avversione per il male siano forti abbastanza per vincere, e, se la sua virtù è perfetta, per ridurre al silenzio ogni altro desiderio e ogni altra avversione contraria. Di qui l'importanza gran- ) dissima dell'educazione che agisce sulle avversioni € sui desiderii, indebolendo e sradicando quelli che paiono più È adatti a condurre al male, incoraggiando ed esaltando quegli altri che per converso sembrano più adatti a con- durre al bene!. ; L'ho detto prima, queste osservazioni del Mill sono d’ una importanza capitale, e così acute e profonde che aspirano a dare, si può dire, il colpo di grazia al sistema della libertà. i A noi sia lecito fare sparsamente qualche conside- razione, non tanto collo scopo di infirmare quanto ha ‘ detto l’ autore, quanto per mettere nella loro vera luce certi fatti che ci paiono non esattamente apprezzati, € da cui si trassero conseguenze non abbastanza giustifi- è cate. E prima di tutto ammettiamo anche noi che, dopo aver deciso d’ agire in una certa maniera, la coscienza ‘ci attesti che avremmo potuto decidere di agire altri- menti, se l’avessimo preferito; ammettiamo per esempio, che dopo avere deliberato. di uccidere una persona, ab- biamo coscienza che avremmo potuto deliberare di aste- nercene, se l’avessimo preferito, e in ogni caso che non "x BE rit e ta po LI? ALTE di sa ge ‘1 Vedi per tutto questo, Philosophie de Hamilton, p. 354-550. G. ZUcCANTE ) 7 I avremmo potuto scegliere una cosa; pure preferendone ur. un’altra: ammettiamo in altre parole che si.abbia sempre “a coscienza d'aver potuto’ agire in una maniera diversa da quella in cui s'è agito, solo a patto che ci fosse in e noi una serie d’antecedenti interni diversa da quella che SÉ in realtà vi fu. - CORE _ Ma questo che prova? Perchè provasse qualche cosa sun | in favore del determinismo, dovrebbe questa serie di _D O antecedenti interni da cui dipende la nostra preferenza i per una cosa piuttosto che per un'altra, stare da sè, gi indipendentemente da noi, essersi introdotta in noi a nostra insaputa e come di nascosto, press’ a poco come ‘E suol fare il ladro di notte. Invece la cosa non è così; questi antecedenti interni non si sono formati in noia H nostra insaputa, ma col nostro intervento e col nostro Di consenso; al ladro si poteva dare ricetto o rigettarlo a % 1 nostra volontà. O se si sono formati in noi a nostra insaputa, perchè disposizioni organiche trasmesseci per eredità, o elementi acquisiti per via di educazione, lo spirito nostro però non si comporta solo passivamente di fronte a loro. Lo spirito non è una tavola rasa de- stinata a ricevere unicamente le impressioni del mondo di fuori, non è un semplice recipiente in cui si faccia una quantità di giochi meccanici e nulla più; lo Spirito è anche attivo nello stesso tempo che passivo; ci sono in lui elementi spontanei e primordiali che non devono essere trascurati !. __ Lo Stuart Mill vorrebbe ridurre lo spirito a un serie di stati interni attuali o possibili e a nulla più, senza preoccuparsi se vi sia qualche cosa che li unisca © e a cui ineriscano; ma in seguito alla considerazione VP A, Ti Ribot, Psychologie anglaise contemporaine, all'articolo Al. Bain pag. 253. Cfr. Bain, Les.emotions et la volonté, part. 2 2. Cap. 1,° RR REATTORI III EAT che è una serie di stati interni che conosce se stessa come passata e come futura, e che non si potrebbe con- cepire ad esempio una collana di perle, a cui fosse ; tolto il. filo che le unisce, è costretto ad ammettere i qualche cosa di reale che leghi questi stati interni fra i loro, qualche cosa di originale che non ha comunità di | natura con nessun’ altra rispondente ai nostri nomi, € alla quale non possiamo dare altro nome che il suo, il ì i ‘* Me! Ma questo qualche cosa, questo Me che pure rico- VO PAM. Pi ei = n (©) sE z La “ ci x Wei vi 3 Le Gi noscete, e a cui date un'esistenza distinta e,sua propria, altrettanto reale quanto gli stati interni medesimi, che ‘rimane in fondo se gli negate ogni elemento proprio € spontaneo, se gli negate la capacità di dare una prefe- renza, o di formare o di regolare almeno certi moventi ® interni da cui dipende la preferenza? Questo quid de- stinato ad unire i nostri stati interni fra loro in maniera . da riconoscerli come passati e futuri, è forse come il filo meccanico che unisce le perle in una collana? ma il filo non riconosce le perle, e questo quid invece riconosce gli stati interni; in grazia di che li riconosce? Conve- niamo anche noi col Mill che qui siamo dinanzi a quel- l’inesplicabile e a quel misterioso, oltre il quale occhio umano non penetra; accettiamo anche noi il fatto ine- ER splicabile senza perdersi a considerarne hi 1 Philosophie de Hamilton, p. 562-563. DI JOHN STUART MILL LII così dire, la posizione; alla questione, se sia giustizia punire chi è determinato a operare in un dato modo, ha sostituito quest'altra, se sia giustizia punire chi non è determinato; ma queste non sono due tesi opposte in maniera che provata l’una si deva rifiutare l’ altra. Il Mill crede che non sia giustizia punire chi non è determinato, e sia pure; ma con questo è detto che sia giustizia punire chi è determinato? La questione è ancora in- soluta. Ma riportiamo per intero il luogo del Mill, per vedere quale concetto egli ha della giustizia. « Vi sono due fini che nella teoria dei necessitarii bastano a giustificare il castigo: il profitto che ne ritrae il colpevole stesso e la protezione degli altri uomini. Il primo giustifica il ca- stigo, perchè fare del bene a uno non può essere fargli torto. Punirlo pel suo proprio bene, purchè colui che inflisge la pena abbia un titolo a farsi giudice, non è più ingiusto di fargli prendere un rimedio. Per ciò che riguarda il delinquente, la teoria vuole che, controbilan- ciando l'influenza delle tentazioni presenti o delle mal- vagie abitudini acquisite, la pena ristabilisca nello spirito la preponderanza normale dell’ amore del bene... Nel secondo rispetto, il castigo è una precauzione che la so- cietà prende per sua propria difesa. Perchiè il castigo sia giusto bisogna solamente che lo scopo che la società si propone sia giusto. Se la società se ne serve per calpe- stare i giusti diritti dei privati, il castigo è ingiusto. Se se ne serve per proteggere i giusti diritti dei cittadini contro un'aggressione ingiusta e criminosa, è giusto. Se abbiamo dei diritti giusti (ciò che ritorna a dire che ab- biamo dei diritti) non può essere ingiusto difenderli. Con o senza libero arbitrio, la punizione è giusta nella misura in cui è necessaria per raggiungere lo scopo sociale, nella stessa maniera che è giusto; mettere una bestia |a se è Apa di a deal; à LI DEL DETERMINISMO feroce a morte (senza infliggerle delle sofferenze inutili) per proteggerci contro di essa»). Ecco, è comodo per uno scopo particolare c in s0- stegno d’una certa tesi attribuire ad una cosa quel si- gnificato che meglio talenta; soltanto sta a vedere se per giustizia gli uomini tutti quanti non întendano una cosa ben diversa da quella che qui intende lo Stuart Mill. Chi ardisce chiamare giusta la punizione che si infligge a una bestia feroce, soltanto perchè serve a pro- teggerci contro di essa? Anzi si può veramente chiamarla punizione? Lo- Stuart Mill io credo non prenda sul serio questa sua affermazione. Supponiamo, per un’ ipotesi im- possibile a verificarsi, che un pazzo riconosciuto, in se- guito all'uccisione di due o tre persone, venga condannato a morte; lo Stuart Mill per il primo protesterà contro questa sentenza e la chiamerà ingiusta; e tuttavia, nella sua teoria, sarebbe il non plus ultra della giustizia, poichè avrebbe appunto per iscopo di salvare la società dai fu- rori del pazzo. Il vero si è che a giustificare il castigo, a fare che un castigo sia giusto non basta la protezione della società che si ottiene per mezzo di esso, e neanche il profitto che ne ritrae il colpevole; certamente e la pro- tezione della società e il profitto che ne ritrae il colpevole costituiscono come l’accompagnamento necessario del ca- stigo; certamente questi due scopi chi punisce si propone sempre € deve proporsi di raggiungere; ma altra cosa me Si dir questo, e altra il sostenere che questi due scopi giustifichino essi medesimi il castigo. La giustizia del Di castigo sta in qualche cosa di superiore e di più alto; sta i nel fatto che colui che lo subisce lo merita, perchè, se avesse voluto, avrebbe potuto operare altrimenti; sta son | | | | | | 4 Philosophie de Hamilton, p. 563-564. i H RAR ST Î da ber” DI JOHN STUART MILL 113 Seossassecesesioncontosesensanseanavassesssesegiagesesdasicninsscenierienvisnionneveenisiericeoziativecensorcoscnespenesisooretteialezzonie necessità di vendicare la moralità offesa, di ristabilire la calma e l'armonia nelle coscienze. Im caso. con- trario dov’ è la giustificazione del castigo quando co- mecchessia venga a mancare e il profitto che ne ritrae il colpevole e la protezione della società? Non sì sa che talvolta il castigo, anzichè esercitare un'azione benefica sull’animo del colpevole, anzichè inspirargli il desiderio di migliorarsi e di correggersi, lo infiamma d'un odio atroce contro la società che lo ha punito, e gli suscita pensieri di vendetta, sicchè alla prima occasione armerà la mano omicida e farà strage di quelli ch’ ei reputa suoi nemici? In tal caso il castigo è riuscito a ottenere un effetto precisamente opposto a quello che nella dottrina del Mill costituisce la sua giustificazione; in, tal caso è quindi ingiusto, e hanno fatto male gli uomini a inflig- gerlo. Perciò vadano a rilento gli ùomini e ci pensino prima di infliggere un castigo: se non è probabile che ne derivi il miglioramento del colpevole e la protezione della società, non ne facciano niente, lascino impunito il colpevole; sarebbe ingiustizia punirlo. Ancora si potrebbe fare quest'altra osservazione al Mill. Voi parlate qua e là * di premii e di castighi che si avranno da Dio in un’altra vita. Forsechè anche i castighi di quest'altra vita avranno lo scopo di proteggere la so- cietà e di recar vantaggi al colpevole migliorandolo? E assurda questa supposizione : per ciò Dio non sarà giusto quando punisce, mancandogli appunto ciò che giustifica la punizione. d Ma il Mill non si dà per vinto. « A tutti coloro, egli dice, che pensano che la protezione dei giusti diritti non basta a legittimare il castigo, io dimanderei com’ essi conciliino laloro idea di giustizia col castigo dei delitti 1 Philosophie de Hamilton, p. 565. G. ZUCCANTE DI 10 “lle a ieri 1 int vos, pnt +e pre pron A «hi e , tesi ont mie pati e pe TT i pero ciare e ea va eee IId4 DEI DETERMINISMO prescritti da una coscienza pervertita. Ravaillac e Balthazar Gerard non sono riguardati come delinquenti, ma come martiri eroici. Se il loro supplizio è stato giusto, il ca- stigo non è giusto a causa dello stato di spirito del delinquente, ma solamente perchè è un mezzo efficace per raggiungere il fine che gli è proprio. E impossibile affermare la giustizia del castigo dei delitti dettati dal fanatismo, se non si dice ch’'esso è necessario per rag- giungere uno scopo giusto. Se questo non è una giu- stificazione, non ce n'è affatto. Tutte le altre giustificazioni imaginarie cadono quando si applichino ai delitti del fa- natismo-»!. Con questo il Mill si crede aver posto al muro i suoi avversarii: ma noi gli obbiettiamo coll’ Alexander ® che se i fanatici non sono colpevoli nell'atto, sono però colpevoli nel pervertimento della coscienza che li ha con- dotti al delitto; il che in fondo torna al medesimo. Sicchè la loro punizione è giustificata non tanto dalla necessità di difendere la società, quanto e più di tutto dalla loro colpabilità. Il vecchio Aristotele distingueva molto giusta- mente. le azioni dagli abiti: delle azioni siamo padroni dal principio fino alla fine; degli abiti soltanto in prin- cipio: ciò non vuol dire però ch’essi non siano egual- mente volontarii e non ne siamo quindi responsabili perocchè appunto in sul principio ci era lecito compor- tarci così o altrimenti 3. Del resto se il fanatico è divenuto tale non per colpa sua, vale a dire se è vissuto in tal ambiente di perverse influenze morali da non pote : assolutamente sottrarsene, € da scambiare come COL scindibile dovere di coscienza il compimento di un’opera 1 Philosophie de Hamilton, p. 366. ; 2 Vedi Philosophie de Hamilton, nota a p. È ; 566-367 5 Eth. Nic. III. 5, $ 22, ediz. Susemihl, /* DI JOHN STUART MILL 115 abbominevole; se non ha potuto far uso della sua libertà, perchè fu una sola la via che gli si indicò di seguire, € lo si tenne perfettamente all’ oscuro sull’ esistenza di un’altra via diversa da quella ed opposta, il castigo che gli s infligge è ingiusto, per quanti vantaggi sì possano in questa maniera ottenere. Soltanto è molto difficile determinare se il fanatico è divenuto tale per ragioni ; indipendenti da lui, e quindi se il suo castigo è conforme o non conforme a giustizia. Il Mill sostina a non voler considerare nel castigo una retribuzione, e continua a sostenere che inflitto per un’altra ragione che per agire sulla volontà del colpevole e per proteggere i giusti diritti degli uomini, non è giu- stificabile. « Se si crede, dice egli, che v'ha giustizia a infliggere delle sofferenze senza scopo, che v' ha fra le due idee di ‘delitto e di castigo un’ affinità naturale che fa 1 che dappertutto ove c' è delitto, è necessario che una pena sia inflitta a modo di retribuzione, io confesso che non posso in nessuna maniera giustificare il castigo in- flitto in virtù di questo principio »!. Eppure se v' ha giustificazione del castigo sta pre- cisamente in questo che il colpevole lo merita, e ch'è una retribuzione dovutagli. E non è vero che conside- rato come retribuzione il castigo sia senza scopo; gli è scopo la retribuzione medesima. Non si nega che. i il castigo agisca ad un tempo sulla volontà del col- pevole, e serva di protezione alla società; ma solo a condizione che sia considerato una retribuzione, questi due scopi potrà ottenerli: solo chi sappia d'aver me- ritato il castigo potrà proporsi di emendarsi e correg= gersi. Che se invece il castigo fosse dato al colpevole “non già perchè l’ha meritato, ma perchè eserciti su di #E Pi, \ È Vai 4 Philosophie de Hamilton, p. 567. III I SRI VEIL ile, Ps Pon. | la £- Leg - jo afar eaeeneprearE PET 116 DEL DETERMINISMO lui un'azione benefica e lo induca a correggersi, egli potrebbe molto giustamente domandare se c'era proprio bisogno d’una punizione per questo, o se non si avrebbe meglio ottenuto questo scopo, assegnandogli un premio, una ricompensa. Sicuro, nella teoria del Mill, se il punire, che val quanto fare del male a qualcheduno, non ha altra giustificazione che il profitto che ne ritrae il col- pevole stesso e ia protezione della società, esso diventa un'enorme ingiustizia, in quanto che questi due scopi si sarebbero potuti ottenere egualmente e meglio col premiare, col ricompensare il colpevole. Il premio e la ricompensa concessi al colpevole a patto che non operi più male, avrebbero assai meglio del castigo agito sulla sua volontà nel senso del bene, e quindi protetta la società da ogni ulteriore attacco di lui. Nè vale il dire che in tal modo si offenderebbe quel sentimento naturale di rappresaglia che ci porta a fare del male a chi ce ne ha fatto, e che sebbene nulla abbia in se di morale, con- giuntosi però coll’idea del bene generale che lo limita, diventa il sentimento morale delle giustizia. Il Mill che fa questa osservazione !, è in contraddizione con se me- desimo, e mostra di credere che la giustizia della pu- nizione si fonda su ben altre basi che su quelle che prima ha tentato di stabilire. Nè vale il dire, come an- cora fa il Mill*, che la pena è più forte del piacere e che la punizione è infinitamente più efficace della ricom- pensa: e quanto POE il seed dalla colpa, oichè la punizione: sola può produr iazioni i cui Lon è di (E ARA pi a Ro condotta che ci espone ad essa, e di fare un RO pa ripulsione sincera tutto ciò che torna di danno alla i I Gfr. la nota a p. 563-565 della Philosophie de Hamilton, 3 2 Ibid. ” A = aied'uet bia ode è è ddl cale = Ti PA i ii cin al Pie en ce a] DI JOHN STUART MILL 117 società. Anche la ricompensa data all’ astensione dalla colpa può produrre associazioni tanto forti da rendere in ultimo amabile per se stessa appunto l’ astensione dalla colpa, e da assicurare per tal modo a sufficienza la società dai possibili attacchi dei malfattori, senza far male a chicchessia col castigo. Il castigo adunque, giova ripeterlo, ha ben altra giustificazione che quella che gli vorrebbe assegnare il Mill. Ma il Mill è troppo acuto e profondo, c sovratutto troppo leale, per non vedere che tutti gli uomini riguar- dano il castigo come una retribuzione, come una cosa dovuta a colui che ha fallito. Egli cerca spiegare questo sentimento generale e naturale, com'egli stesso lo chiama, in questa maniera. « Fin dalla prima,infanzia l’idea della malvagia azione (vale a dire dell’azione proibita, o dell’azione dannosa per gli altri) e l’idea di punizione si presentano insieme al nostro spirito; e |’ intensità delle impressioni fa che l'associazione che le lega ci offra il più alto grado d’ intimità. E egli estraneo e contrario alle abitudini dello spirito umano, che noi possiamo in queste circostanze conservare il sentimento e dimenticare la ragione che gli serve di base? Ma perchè parlare di dimenticanza? Il più delle volte, durante’la nostra prima educazione, questa ragione non è stata presentata al nostro spirito. Le sole idee che si sono presentate sono state quella del male e quella della punizione, e una associazione inseparabile s'è creata fra di esse diretta- mente senza il soccorso nè l’ intervento d’ un'altra idea. Ciò basta pienamente perchè i sentimenti spontanei del- l’ umanità considerino il castigo e il malvagio come fatti l'uno per l’altro, come legati naturalmente, indipenden- temente da ogni conseguenza »!. 1 Philosophie de Hamilton, p. 568. È ue tei dica VAI NT LI se Te ne 0 a LL. Teme serzinta Sirtenpalizrenio nea Lot — 118 DEI. DETERMINISMO Riconosciamo la giustezza dell’ osservazione e l’acu- tezza dell'analisi: domandiamo però se l'intima asso- ciazione fra il malvagio e il castigo dipenda soltanto dall'esperienza, o se piuttosto l’esperienza non abbia fatto che confermare e svolgere un sentimento già in noi esistente allo stato di latenza, allo stato virtuale; di maniera che l'intimità dell’associazione fra malvagio c castigo dipenda, più che da altro, dal sentimento che an- teriormente ad ogni esperienza ci porta ad avversare il male. Se quello che si fa al di fuori non è, per così dire, un'eco fedele di ciò che è dentro di noi, se la nostra natura non consente a quello che si fa al di fuori, è impossibile che si stabiliscano intime e forti associa- zioni, come è impossibile ad esempio che l'educazione - artistica crei il senso del bello, o l'educazione del palato quello del gusto in chi ne sia per natura sprovvisto. Insomma noi non siamo una tavola rasa, com' era opinione del buon Condillac, ma c'è in noi una spon- taneità naturale, come del resto riconosce anche il Bain!. i Ma lo spirito di sistema la cede in ultimo al senti- mento della verità, che finisce col prevalere in tutti quanti e coll'imporsi anche agli uomini più attaccati ai sistemi. Perciò leggiamo nel Mill le seguenti pa- role: « Si dice che colui che ammette la teoria della necessità deve sentir l'ingiustizia delle punizioni che gli s'infliggono per le sue cattive azioni. Ciò mi pare una chimera 3 ciò sarebbe vero, s'egli 20n potesse realmente impedirsi d’agire come ha fatto, vale a dire se l’azione ch'egli ha fatto non dipendesse dalla sua volontà, s' egli fosse sottoposto a un costringimento fisico, o s° egli 1 Vedi Ribot, Psychologie anglaise contemporaine, artic. Bain: e ° . Ù Baîn, Les emotions et la volonté part. 2, cap. 1. + : x Ue Ri ui na Da ; DI JOHN STUART MILI. 119 sisneraanzesaiezazeza»eozeraneezi masnzananasenanazazee asia ranisaezenazeonaeesaazionivssia sie iveeisiizcatezeo subisse l’impero d'un motivo così violento che nessun timore di castigo potesse avere effetto »!. Come si vede, lo Stuart Mill ritorna alla sua pre- diletta teoria della causazione, per cui la causa non co- stringe ad essere l’effetto, e che, applicata allo spirito umano, gli lascia una parte di libertà: ma non è egli in contraddizione con tutto quanto ha detto precedente- mente ? Non è\giustizia punire uno s'egli non può real- mente impedirsi d’agire come ha agito, se in altre parole non è libero nelle sue azioni: che mi venivate dunque a dire poco fa che la giustizia è affatto indipen- dente dall’esser l’uomo libero o° non libero, che è anzi concepibile colle forme più esagerate del fatalismo ? D'altra parte questa libertà esiste o non esiste? in questo luogo pare che voi l’ ammettiate. È Ma il Mill continua: « Se però il delinquente fosse in uno stato in cui il timore del castigo potesse agire su di lui, non v’' ha obbiezione metafisica che possa, a mio avviso, fargli trovare il suo castigo ingiusto »?. Ecco qui un nuovo elemento per determinare quando un ca- stigo è giusto od ingiusto, il timore del castigo mede- simo; sc il delinquente non era per modo dominato da motivi contrari che in lui poteva agire il timor del ca- stigo, c tuttavia non ha agito, è giusto punirlo. Si domanda prima perchè il timor del castigo non ha agito sul delinquente, benchè i motivi contrarii non fossero tanto forti da impedirgli-di agire, anzi essendo addirittura più deboli. Se in ogni caso la vittoria rimane. sempre al motivo più forte, dovea ciò verificarsi anche questa volta: perchè non s' è verificato? Allo Stuart Mill la risposta, che non può essere certamente favorevole 1 Philosophie de Hamilton, p. 509: 2 Ibid. “la “de 120 DEL DETERMINISMO = alla sua tesi deterministica. Ma lasciando da parte questo, perchè dovrebbe il timor del castigo costituire come il criterio con cui giudicare del merito o del demerito di una persona, e quindi della giustizia o non giustizia della sua punizione ? Se per un’ ipotesi, ch'io non credo impossibile a verificarsi, ci fosse uno affatto insensibile al timor del castigo, come dovrebbe la società regolarsi a suo riguardo? Il punirlo sarebbe in ogni caso ingiu- stizia. Evidentemente però qui il Mill ritorna alla sua tesi favorita che non sarebbe giustizia punire chi non è determinato da motivi, dovendo appunto il castigo con- siderarsi come un motivo, che agisce nel senso di far astenere dalla colpa. Riassumendo, mi pare di poter sostenere a buon diritto che il castigo non si può infliggere con giustizia, se non a patto che chi delinque avesse potuto anche non delinquere, e qualunque giustificazione si cerchi di esso al di fuori della libertà è affatto illusoria. IV. « Ogni dottrina, opera sincera del pensiero umano deve contenere una parte di verità. Criticare è sempli- cemente mostrare che questa parte della verità non è il tutto; la critica non è che il limite imposto della ra- gione ai sistemi, che sono essi stessi limitati dalle cose Fissando così il punto dove s'è arrestato lo sforzo del- l’ intelligenza, la critica fissa precisamente il punto che l'intelligenza deve oltrepassare; essa le apre un novello spazio al di là di quello che avea di già percorso: in ‘una parola, essa ingrandisce l'orizzonte intellettuale che .S _ 1‘ ‘ro tm (A eil È E La i È È DI JOHN STUART MILL 12I un sistema avea voluto ricondurre alle sue proporzioni sempre troppo strette »!. Queste belle e assennate parole che il Guyau premette alla sua acuta critica della Morale inglese contempo- ranea, abbiamo fatto nostre perchè ci parve si potessero a rigore applicare alla critica nostra del sistema deter- ministico del Mill. La conclusione a cui vogliamo arrivare, nell'esame di questo sistema, non è già che in esso non ci sia nulla di vero; una parte di vero c'è: soltanto questa parte vera ha bisogno di essere sceverata e distinta da tutte le altre che non lo sono, ha bisogno di essere presentata spoglia di tutto il fattizio e l’appiccaticcio che le ha fatto perdere la sua vera fisionomia. E prima di tutto è grande merito del Mill l'aver lasciato in disparte il fatalismo puro, il fatalismo fisico, per cui l’uomo non è niente e dipende interamente dal mondo di fuori, e il fatalismo modificato dell'Ovven per cui l’uomo è forzato dalla sua costituzione origi- naria o modificata dalle circostanze esterne, a ricevere i suoi sentimenti e le sue convinzioni indipendente- mente dalla sua volontà, sentimenti e convinzioni che creano poi il motivo d'azione e spingono all’azione %; e l'avere invece introdotto un determinismo che direi psicologico ed intimo, per cui la volontà dell’uomo non è lettera morta, ma contribuisce indirettamente alla mo- dificazione e anche alla formazione del carattere, potendo mettere in opera i motivi che sono necessarii a tal uopo?, e collocarci in circostanze adatte e convenienti 4. In questa maniera lo Stuart Mill è riuscito a dare all'uomo una 1 Guyau, La Morale anglaise contemporaine, p. 185. 2 Guyau, op. cit. p. 65-66. 5 Philosophie de Hamilton, p. 571. 4 Logique ecc. vol. 2. p. 424. P ? 1% a È : 3 ne me - o-- ao du re rn ua rientro 122 DEL DETERMINISMO PRPPPPEFETITITILITIITTLILILZA] specie di personalità; perocchè quando l’uomo può co- mecchessia modificare e anche formare il suo carattere, non è già un automa cosciente, uno: spettatore inerte d’azioni in cui egli non abbia alcun potere, e che per conseguenza a torto s*attribuisce, come avviene nel fata- lismo puro e nel fatalismo modificato; ma un me, una persona che può dire con qualche diritto sue le azioni che si compiono dentro di lui. E ben vero che questa specie di potere autonomo, che lo Stuart Mill concede alla volontà, diventa poi illusorio, quando facendo la genesi della volontà stessa dice che dipende in ultimo dal de- siderio, il quale è formato per noi e non da noi, il quale insomma è fatale; ma è vero anche che qua e là fa capire che se il desiderio non è formato da noi, noi possiamo però metterci in tali circostanze che sieno adatte a far nascere questo desiderio!; con che riconosce ancora in- direttamente una specie di potere autonomo esistente in roi. Insomma la parte vera del sistema deterministico del Mill è ta seguente. Noi operiamo sempre sotto l’in- fluenza di certi motivi; non sarebbe altrimenti cieco e irragionevole il nostro operare? Devesi dire che il me, risolvendosi dopo un esame, lo fa senza tener conto dei motivi, e che è come un giudice il quale, dopo aver sentito le ragioni dell’una e dell’altra parte contendente, pronuncia una sentenza arbitraria dimenticando le ra- gioni invocate dalle due parti? Una sentenza di tal fatta è cieca ed iniqua nella stessa maniera che l’operare senza motivi non è d'uomo ragionevole, ma folle e pazzo. Il motivo però, come causa d'azione, non è differente da tutte le altre cause del mondo fisico, vale a dire non è un tale antecedente che costringa ad essere il conseguente I Vedi il fine della parte 2. di questo lavoro. DI JOHN STUART MILL I tw 2 09 in una maniera irresistibile; non esercita insomma sul conseguente una coazione di tal fatta che, posto l’uno, si debba porre di necessità l° altro. Il motivo agisce sulla volizione, ma non la determina di necessità; noi non siamo sforzati ad obbedire a un motivo particolare, anzi sentiamo che se lo desiderassimo abbiamo il potere di resistere al motivo !; il costringimeuto necessario € irresistibile che, secondo alcuni, il motivo esercita sulla volizione, è respinto dalla coscienza e rivolta i rfostri sentimenti?. Due cose adunque sono notevoli nelle azioni degli uomini, i motivi c la volontà; la volontà non si induce mai ad operare senza motivo; ma non per questo il motivo ha tal forza da soggiogarla affatto e da ridurla :n condizione di non potere resistergli, se occorra: due forze si agitano nell'anima degli uomini, l’una cieca € ‘incosciente il motivo, l’altra intelligente e cosciente, la volontà; la quale ultima lascia agire su lei la prima e talora la mette in opera essa stessa per uno scopo de- terminato ?. Questa dottrina che fa, per così dire, capolino dalle frequenti professioni di fede deterministica che fa il Mill, e .che forse gli è sfuggita contro il suo stesso volere, è la parte sana e vera del suo sistema. Soltanto questa dottrina è conforme al punto di vista a cui egli s' è messo, o non è piuttosto in perfetta contraddizione con esso, e non -si deve quindi considerare come una specie d’intruso che, entrato a forza nella casa del Mill, vi ri- mane, pure ad onta della gran voglia del padrone di liberarsene? E in realtà quella specie di potere autonomo 1 Logique ecc, vol. 2. p. 420. Vedi la parte 2. di questo lavoro. 2 Logique ecc. vol. 2. p. 420. 5 Philosophie de Hamilton, p. 571. € Sarà giusto mettere in opera dei motivi che ci necessiteranno a fare i nostri sforzi eco. » rea BI, de A i OO Ln N ENI A cati pere 124 DEI DETERMINISMO che, secondo quanto abbiamo esposto precedentemente, pur attraverso a una quantità di dubbii e di contrad- dizioni, pare "le Stuart Mill voglia concedere alla vo- lontà, svanisce là dove parlando della volontà come causa, la considera nè più nè meno che una causa feno- menica, un antecedente a cui tien dietro invariabilmente un conseguente, non già un antecedente che produca, che efficiat, per dirlo alla latina, il conseguente, una causa nel senso in cui si dice che i fenomeni fisici sono causa gli uni degli altri, nel senso in cui il freddo è causa del ghiaccio e la scintilla dell’ esplosione della polvere, una causa cieca e meccanica insomma !. Si po- trebbe domandare a questo punto come avvenga che una causa cieca e meccanica possa mettere in opera dei motivi e resistere ai motivi, se occorra, come pure il Mill afferma in altro luogo; ma è una delle solite con- traddizioni del Mill, di cui non terremo conto. Evidentemente la dottrina per cui la volontà è con- siderata come causa fenomenica, come uno stato di spirito a cui tien dietro un certo movimento delle nostre membra conforme ad esso *, e null'altro, è intimamente connessa coll’altra dottrina, per cui il Mill considera lo spirito come una serie di stati di coscienza, come una possibilità permanente di sentimenti e nulla più, senza preoccuparsi se ci sia qualche cosa d’uno e di identico a cui questi stati di coscienza e questi senti- menti si riferiscano, se ci sia un substratum che serv loro di sostegno?. Nell’una e nell’altra teoria è l’em- pirismo, il fenomenismo puro che prevale: in noi c'è una serie di fenomeni che si succedono e si connettono a ! Logique ecc. vol. 1. p. 393. 2 Logique ecc. vol. 1. p. 393. Philosophie de Hamilton, p. 227 e seg. (2) DI JOHN STUART MILI. 125 insieme con cert ordine e regolarità; uno di questi fe- nomeni è la volizione; un altro l’azione che le tien dietro: si dice volgarmente che l'uno è causa dell'altro; ma in realtà sono due fenomeni campati in aria, la cui pro- duzione è dovuta a nessuno, che non hanno altro legame fra loro che quello d’ una successione uniforme, e che insieme cogli altri contribuiscono a formare quella serie di stati interni che dicesi spirito. Come si vede, con una simile dottrina la personalità umana sparisce e non si capisce come l' uomo possa dir suoi i varii fatti che succedono dentro di lui. Insomma e per concludere, ci pare di poter dire che nel sistema deterministico del Mill ci sono come due correnti opposte, che vorrebbero confondersi, sparire l'una nell'altra, ma che mai non ci riescono; luna per cui l’autore è indotto a concedere all'uomo una per- sonalità purchessia, e lo fa in qualche maniera padrone de’ suoi atti fornendolo «d'una certa libertà; l’altra per cui questa personalità gli è negata aflatto, e il suo spirito si riduce a una serie di stati di coscienza e di sentimenti e a nulla più, e le sue azioni si fanno dipendere da mo- tivi che non sono lui e che non sono posti da lui. Poteva il Mill far procedere insieme e confuse l'una nell'altra queste due correnti di natura così opposta, anche ado- perando la forza e la violenza? Non lo poteva sicuramente ; e di qui la ragione per cui il suo sistema s' avvolge in tante e così aperte contraddizioni. L' abbiamo detto fin dapprincipio; noi amiamo le posizioni chiare e nette, e avremmo preferito nel Mill un determinismo veramente determinismo, un determinismo conseguente a se stesso fino alla fine, a un sistema che.non è determinismo, nè libertà, ma che tiene dell'uno e dell'altra. Il Mill per tal modo non è riuscito ad accontentare nè i veri deter- ministi, nè i veri sostenitori della libertà; la migliore 126 DEL DETERMINISMO posizione non era in questo caso quella di mezzo. ln ogni modo è notevole, e merita che se ne tenga il massimo conto, il tentativo fatto da uno dei più grandi filosofi po- sitivisti contemporanei, di accostarsi più e più alle vedute della scuola contraria, e di prendere da essa quello che ha di buono e di vero, e d’innestarlo sul grand’ albero del positivismo. E di buon augurio che le due scuole s'accostino e si studiino a vicenda; lo spirito d' esclusione e di sistema non può che nuocere agli interessi della scienza. e n Pat eran SRP e . FA Succede delle dottrine e degli studii quello stesso che d’ogni altra istituzione e costumanza; in voga e in fiore in un certo periodo di tempo, vengono poi, in un periodo successivo, trascurati e quasi dimenticati; anzi talora è tanto maggiore la trascuranza e la dimenticanza, quanto era prima più grande la stima e il favore in cui erano tenuti dall’ universale. Oggidì è invalso il vezzo di pigliarsela con qualsiasi speculazione, anzi con qualsiasi idea addirittura, Il fatto, ecco quello di cui devesi occupare lo scienziato che sia degno di questo nome; l’esperienza, ecco il metodo che egli deve adoperare; tutto il resto è fantasia di cervelli ammalati, è metafisica. L° idea dev’ essere bandita da qua- | lunque parte; dalla scienza, dall'arte, dalla vita pratica. Giovani egregi, comprendo perfettamente la reazione a quell’ idealismo assoluto che pretende foggiare l’ uni- verso a suo modo, e serrarne € disserrarne le porte colla sola chiave dell'idea; comprendo la guerra a quelle im- mani costruzioni a priori, che se fanno testimonianza dell'ingegno e del genio di chi le ha fatte, non hanno però colla realtà alcun rapporto, e sono, come i castelli G. ZUCCANTE 9 FATTI E IDEE incantati dell’ Ariosto, campate nell'aria; ma non com- prendo questo bando totale dell'idea, questo dominio ssclusivo ed assoluto del fatto, quasi che tra fatto e idea vi fosse dualismo inconciliabile, e dove è l'uno non po- tesse star l’altra, e lo spirito umano fosse perpetuamente dannato o a rinchiudersi nelle angustie e nelle strettoie dei fatti, o a spaziare nei campi dell'ideale, senza mai, nel primo caso, aspirare a qualche cosa di più alto, e, nel secondo, scendere terra terra e trovarsi a contatto della realtà vera. Seguace di quel metodo critico che, iniziato dal Kant, ha oggi in Germania, in Francia e anche in Italia illustri rappresentanti, io non sono nè positivista, nè idealista; non voglio il dominio esclusivo dei fatti, nè quello esclu- sivo delle idee; credo che e nella scienza e nell'arte e nella vita i fatti come le idee non siano che un aspetto della realtà: la realtà nella sua interezza sta nella fusione dei due elementi. E in verità, per incominciare dalla scienza, i fatti ba- stano da soli a costituire la scienza? Ecco l’ esagerazione in cui cadono i sostenitori dei fatti e dell'esperienza ad ogni costo. L'esperienza pura e semplice, i puri e nudi fatti non bastano. Anche il più rigido positivista è co- stretto a cercarne una spiegazione, e per ciò stesso li vaglia, li interpreta e a suo modo li trasforma, E questo lavoro di trasformazione, checchè se ne dica, non è pos- sibile senza una luce che illumini i fatti, senza uno spirito che li vivifichi, senza un elemento subbiettivo e specu- lativo che domini e diriga l'indagine empirica. Il Kant aveva ragione quando diceva che l'indagine speculativa deve portare innanzi all'indagine empirica la fiaccola che illumina (die leuchtende fackel vortragen); e il Bruno” egualmente quando diceva che «a chi cerca il vero, bi- sogna montar sopra la regione di cose corporee ». N FATTI E IDEE 131 PASSI RR REIT III III O Provatevi, ad esempio, a costruire la storia della umanità coi semplici e nudi fatti, colla semplice e nuda esperienza. Che cosa-ne uscirà? Nient'altro che un ca- talogo e una cronaca, senza nesso € legame interiore, senza ordinamento e organamento di sorta, scheletro nudo a cui mancano le polpe ed i nervi ed i muscoli. Date anima invece a questa materia morta, penetrate lo spirito che v'è dentro, e di sotto alle varie accidentalità strane e bizzarre sotto cui vi si presentano i fatti, affer- rate quello che hanno di sostanziale, di sotto al mutabile e al transeunte l’immutabile e il durevole, di sotto a quello che è vero soltanto in un punto del tempo e dello spazio, quello che è vero sempre senza limiti di tempo e di spazio; e avrete la storia vera e propria, coi suoi nessi di causa ed effetto, colle sue leggi, colle sue idealità ; la storia scientifica, risultante insieme di fatti e di idee, di realtà e di pensiero. Il semplice pramma- tismo non vale a farci comprendere la vita storica della umanità. I fatti sono come la tela che non si può con- cepire senza una trama precedente di idee e di principii; sono come un processo, uno svolgimento, che non si può concepire senza qualche cosa che sì svolga. E non soltanto questo avviene nella storia, ma nelle scienze stesse naturali, dove pure l'osservazione e l’espe- rienza sono come al loro posto. Anche la natura ha una vita sua propria, uno spirito che la vivifica, leggi e principii, un contenuto interiore ideale, che va svolgen- dosi nei fatti e coi fatti, e che bisogna ricercare néi fatti. Quei naturalisti che ostentano un superbo fastidio della speculazione filosofica, e vanno gridando fatti, fatti, esperienza, esperienza, dimenticano troppo facilmente che il fondatore del metodo sperimentale, Galilei, racco-, mandava non si dovesse mai disgiungere l’idea razionale dalla ricerca del fatto; dimenticano che oggidì i più ode Ydonkt ii, FATTI E IDEE grandi scienziati forestieri sono anche insigni filosofi; bastino per tutti i nomi dell’ Helmholtz, “del Dubois- Reymond, del Wundt e di quello Spencer, che io chia- merei il Metafisico del naturalismo, per mostrare non essere inconciliabili i concetti espressi dai due nomi; dimenticano finalmente che nella stessa vostra Torino una schiera animosa di scienziati, con a capo l’ illustre Morselli, propugna con ardore l'unione della scienza colla filosofia, dell'indagine empirica colla speculazione filosofica !. Attendete un po’, egregi giovani; tutte le ipotesi con cui si cerca di penetrare « Sue enorme mister t] { Vedi specialmente La filosofia monistica in Italia, nella Ri- vista di filosofia scientifica, vol. 6, anno 1887, dove il Morselli com- batte strenuamente per la vittoria del metodo sper imentale e la definitiva congiunzione della fi ilosofia e della scienza anche in Italia, p. « La scienza, scrive il Morselli nell'articolo accennato, non i essere una nuda e povera raccolta di fatti senza nesso logico e senza valore concettuale; sono le idee.... e non i fatti che costituiscono l'edi- ficio armonico del sapere.... Due soli ‘scopi ha il sapere: da conoscenza ben diretta ed ordinata dei fenomeni, ossia la coltura; e l'applicazione di questa conoscenza al soddisfacimento dei bisogni umani, ossia l'utile sociale. Restringere il sapere a questo solo secondo scopo sarebbe av- vilire la ragione umana e trasformare la ricerca scientifica in mestiere professionale», p.3.5- E ancora: « Scienza e filosofia, secondo noi, conti- nuano e passano insensibilmente l' una nell'altra: esse sono due aspetti, non opposti, neppur paralleli, ma successivi dell'umano pensiero, che. incomincia dall'osservazione e dall’ esperimento e assorge te; sa loro mezzo, al concetto generale, alla teoria ed all'ipotesi », p. Un valoroso propugnatore dell’unione della scienza I filosofia ca anche Camillo De Meis. Vedasi specialmente il suo discorso i inaugura per l' ‘apertura degli studi nell’ Università di Bologna nell’anno 1886, che ha per titolo: Darwin e la scienza moderna. FATTI E IDEL 133 dell’ universo », a cominciare da quella sovrana dell’ evo- luzione, si può sostenere sul serio che siano un semplice risultato dell’osservazione; o non l’oltrepassano invece di gran lunga? Le stesse leggi fondate esclusivamente sull'esperienza e sui fatti e risultato genuino di essi, s non comprendono in sc, a rigore, un elemento che li Wfnassedaulo mette tai trascende? L'essere del fatto non si esaurisce tutto | Ta . . DUI quanto nel suo eterno Hluire; la varietà, la molteplicità meccanica dei fatti accenna alla persistenza e all'unità vivente della legge, dell'idea in cui si muovono; e questa legge, e quest idea è la nostra mente che la scopre. Adunque che si parli di esperienza e di fatti sta bene: noi pure vogliamo l’esperienza ed i fatti, e siamo persuasi che al di fuori di questi non vi sia salute. Ma non si creda che quando si è detto esperienza e fatti, si abbia detto tutto: l’esperienza e il fatto è il ma- teriale greggio, che la nostra mente divino artefice, vivifica e trasforma nella statua sublime di Fidia. Espe- Esputeura tienza e speculazione si diano quindi la mano © si Veeete fe conciliimo; non esperienza sola, nè speculazione sola: la prima, scompagnata dalla seconda, fa degli uomini Ter pi (Cos) che non vedono un palmo più in là del loro nasoj Segnaferi la seconda, scompagnata dalla prima, dei sognatori € È nient'altro che sognatori. i Intanto però gran parte degli scienziati italiani, © anche i più dotti, anche quelli che largamente contri- buiscono col loro ingegno e colle loro scoperte all’a- vanzamento del sapere, rifuggono d’ordinario da ogni questione generale, da ogni questione che accenni ap- n pena-a sollevarsi dalla cerchia dei fatti; e s' attengono î di proposito al più rigido ed esclusivo sperimentalismo a meccanico. Le discipline “scientifiche che non si propon= i gano ad oggetto fatti palpabili e materiali, sono per lo meno loro sospette: la psicologia, l' etica, la logica, la 134: FATTI E IDEE sociologia, la biologia generale sono metafisica larvata, roba da lasciare che se ne occupi chi ha del tempo da perdere. È una condizione di cose, che se può essere spic- gata coll’avversione che inspira naturalmente una filosofia fantastica, subbiettiva, nemica dell’ esperienza, quale regnò gran tempo in Italia, non cessa di essere deplo- revole; perocchè, per questa via, si rendono impossibili le sintesi alte e geniali, onde sono così altamente cele- brati gli scienziati forestieri, e viene di moda un posi- tivismo empirico e grossolano « che finisce coll’ essere « L’ Idealismo può essere vuoto, osserva con acutezza il Fiorentino, di cui mi piace riportar qui la splendida pagina ?, il Positivismo può essere cieco, se scompagnati l’uno dall'altro, secondo il giudizio che Kant portava del puro concetto e della nuda intuizione. Un'idea la quale non si verifichi, e non trovi riscontro nei fatti, non è un'idea, ma una fantasticheria: un fatto, il quale non s'in- cardini in un'idea, non esprima una ragione, non dia indizio di una legge, non serve assolutamente a nulla, e stando anche ai dettami più rigidi del Positivismo, è condannevole perchè inutile. Ciò che irradia il fatto è l’idea che vi splende dentro, che lo solleva dalla sfera 1 Morsetti, La filosofia monistica in Italia, p. 34. L'Italia, scrive il Morselli, non ha nessuna di quelle individualità eminenti, « che passano dall'esame sperimentale dei fatti alle più alte e generali con- siderazioni sintetiche; noi non possediamo nessuno scienziato pensatore da porre accanto ad Helmholtz, Virchow, Meyer, Dubois - Reymond, Lyell, CI. Bernard, Wundt, Ch. Darwin, Mandsley, Haeckel, W. Ton son, Crookes, Wallace, Draper, Berthelot, Hirn e altrettali illustrazioni della filosofia scientifica nel resto del mondo civile », P:035: 2 FioRENTINO, Positivismo e Idealismo nel Giornale napole- tano di filosofia e lettere ccc., fascicolo del febbraio 1876, p. 102-103. FATUVI E IDEE 135 del mero accidente a quella della realtà durevole. Quante lampade non erano oscillate al mondo, prima di quella che nel Duomo di Pisa colpì l’attenzione del giovane Galilei! Chi se n'era accorto? Chi se n'era ricordato? Chi se n'era giovato? Ed a che era servita quella oscil- lazione prima che il grande pisano non ne cavasse le leggi del pendolo? L’affettato disdegno per le idee, la più affettata curiosità di fatti slegati, affastellati in im- mani congerie, senza lume ideale, senza quel riposto riscontro, ch'è la parte divinatrice e geniale del metodo: induttivo, potrà far maravigliare gli sciocchi, ma non soddisferà certo la mente degli uomini assennati, Oggidi intanto ai costruttori instancabili di sistemi son sotten- trati i compilatori instancabili di cataloghi: prima ci sof- focavano le deduzioni da un presupposto qualunque, ora ci annoiano a morte i registratori di varietà e di aneddoti. Qui è l’ugna d'una scimia, 0 la coda d'un pesce, o la forma d’un utensile preistorico, che tiene il posto delle risibili argomentazioni, con cui il Cremonini combatteva il Galilei, e dava ragione ad Aristotele. In me risvegliano lo stesso senso di fastidio e quelli che credono di spiegar tutto con la portentosa fecondità dell'idea, e gli altri, che stimano di aver in pugno la chiave che disserra ogni na- scondiglio della natura e dello spirito, solo perchè hanno fatto incetta e registro di curiosità e di aneddoti ». Giovani egregi, non vorrei essere franteso e si cre- desse per avventura ch'io non avessi nella debita con-. siderazione quei raccoglitori pazienti e diligenti di fatti, di cui abbonda: quasi ogni ramo: del sapere. To so bene che l'errore nella sintesi dipende in gran parte da analisi affrettate c insufficienti, e quindi non è mai raccomandata abbastanza la pazienza e la diligenza nella raccolta dei ‘ materiali su cui la sintesi possa essere costruita. Ma si? modus in rebusi la pazienza e' la diligenza non deve = eye cir i Spi ant ardita cata 136 FATTI E IDEE mai degenerare in pedanteria: le analisi minuziose, pe- dantesche, le analisi che si estendono a fatti di nessuna importanza, talvolta puerili, praticate più spesso per sod- disfare una vana curiosità che l’amore vero del sapere. le analisi grette senza lume superiore che le guidi, an- zichè utili, sono perniciose alla scienza. C° è in Germania una strana tendenza ad andare in cerca di tutte le minuzie più insignificanti, e le riviste vi consacrano le loro Mischellen, e talora perfino, le due Philologische Wochenschriften di Berlino per esempio, danno loro il posto precipuo. Il sapere in pillole, in frammenti, a bocconcini, perchè non riesca indigesto a chi l’ ingoia, non è solo la tendenza di pochi spiriti an- gusti di Germania: nel nostro paese si fa altrettanto; e non c'è niente di più esiziale: la scienza è sistema di verità fortemente e indissolubilmente unite, e chi mira comecchessia a rompere questa unità, mira con ciò stesso a distruggere la scienza. II Ed ora dalla scienza permettetemi, o giovani, ch'io scenda, o salga, a vostro piacimento, in un mondo meno severo, più ameno, più accessibile ai più, il mondo del-- l’arte, dove l’idea pare come a suo posto, e più frequenti e meno lamentati gli strappi alla realtà. Si discute e s'è discusso a lungo intorno al fine È) . î j = DEC dell’arte: chi le diede per fine il buono, chi il vero, chi un fine patriottico, chi un fine religioso: pochi pensarono. al nome, ricco di significazione profonda, che diedero gli antichi alle arti belle. Gli antichi le chiamavano artes ERA N AR & SIM rey deiia de RE OT RR VIZI NO RA TT A Sg TIT PE I CR POT: Erri è Le for det VU de è - e Kantiana, l’azzività unitiva dello spirito e 2£ È condo cui si svolge; sebbene quest attività e queste me leggi non entrino in gioco qualora la sensazione non | ur. fornisca il molteplice che si deve raccogliere e unifi- È. Bi; care. In questo sta la vera interpretazione del preteso 3 *& innatismo Kantiano, e i più autorevoli interpreti del ue e. Kant, l' Erdmann, il Cohen, il Riehl, lo Spaventa, sono Di o di quest'avviso!. S Inteso così l'a priori del Kant, si può vedere facil- da mente come tutta la psicologia tedesca moderna, la d nativistica non meno che la genetica, anzi la genetica con più diritto della nativistica, si riconnetta alla dottrina n° del filosofo di Kunisberg. E è 2, Ho detto la genelica con più diritto della nazivistica; SY “SR perocchè, se non si può negare che la dottrina Kantiana pi esercitasse storicamente una larga influenza sul nazivismo = fisiologico di Giovanni Muller, dell’ Hering e dello È Stumpf, gli è certo però che quest influenza era dovuta 2 a un’inesatta interpretazione dell’ a priori Kantiano. Infatti, per quanto riguarda la questione dello spazio, i nativisti, al dire dell’ Hemholtz, « attribuiscono la loca- lizzazione delle impressioni nel campo della visione ad una disposizione innata, sia che l’anima abbia una co- noscenza diretta delle dimensioni della retina, sia che l’ eccitazione delle fibre nervose dia luogo a certe rap- presentazioni di spazio mercè un meccanismo prestabi- lito ». Quindi non tengono conto dello sviluppo degli atti psichici necessario alla formazione della nozione di L n 1 Vedi il bell’ articolo del Chiappelli, di cui abbiamo fatto Sh nostro pro, « Aant e la Psicologia contemporanea » nel Giornale napoletano di Filosofia e Lettere ecc. anno Il. vol. IV., specialmente Ss ; ‘pag: 208-209; fascicolo del novembre 18$0. "el e NELL EMPIRISMO CONTEMPORANEO 161 spazio; la nozione di spazio non è per loro un prodotto dell’ esperienza, è anteriore all'esperienza; tutte le sen- sazioni sono necessariamente sottoposte alla nozione di spazio per modo che non è possibile concepirne una sola ‘che ne sia fuori; lo spazio deve preesistere alla singola sensazione, e la localizzazione di questa dev’ essere l'effetto d'un’ intuizione immediata!. Qui abbiamo l’innatismo nel più largo senso della parola; che però è da credere non Soffre al vero spirito della filosofia Kantiana, la quale presuppone e richiede lo sviluppo fisio-psicologico della rappresentazione di spazio *. La scuola genetica per contrario sostiene che la no- zione di spazio si acquista appunto per uno svolgimento fisio-psicologico, per un lento processo, di associazione di singole sensazioni; sebbene questo processo non sia un semplice risultato dell’esperienza, non sia un’ pro- cesso puramente meccanico, bensì abbia luogo in forza di un principio dinamico, d’ un' attività sintetica che segue nel suo svolgimento certe leggi. La scuola genetica riconosce che « non è possibile porre in serie diverse sensazioni, e più ancora associare le serie delle sensa- zioni tattili e visive coi sentimenti muscolari e d’inner- vazione, senza una funzione dello spirito che elabori i dati. sperimentali »3. Qui c’ è evidentemente l° influenza della dottrina Kantiana dell'a priori; poichè questo non è in fondo, come s'è detto, altra cosa che l’attività sin- tetica dello spirito che s'applica al materiale offerto dalla esperienza. 1 Cfr. Tarantino « Kant e la Filosofia contemporanea » nel Giornale napoletano di Filosofia e Lettere ecc. anno II, vol. III, fa- scicolo del luglio 1880, p. 434 È 2 Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, p. 91. è 5 Chiappelli artic. cit. p. 210, G. ZUCCANTE n Ri 4 Mai i ‘€ val atoitcalii Per fermarmi soltanto ai principali rappresentanti della scuola genetica, il Lotze!, di cui è celebre la teoria dei segni locali, riconoscendo la necessità che lo spirito trasformi i dati intensivi dell'esperienza in dati estensivi per avere la serie spaziale, riconosce con ciò stesso una attività trasformatrice nello spirito; e s'incontra perciò colla priori del Kant. Lo stesso Helmholtz, il più reciso rappresentante della teoria genetica, subisce l'influenza Kantiana; perocchè nella questione, che abbiamo tra mano, dello spazio, avendo messo in rilievo la grande importanza che hanno per la formazione della nozione di spazio i movimenti muscolari, riconosce di a priori in noi appunto la capacità originaria di produrre e di sentire il movimento; nel che, secondo lui, sta l’ accordo delle scienze naturali col Kant ®. Ma nella sua teorica della ‘percezione egli s’ accosta anche di più al filosofo di Kunisberg; poichè essendo le sensazioni, nel suo con- cetto, nient’ altro che segni che bisogna interpretare 3, si richiede per ciò stesso un’ attività primigenia che inter- preti; e siccome questi segni non sono vuote apparenze (leerer Schein), ma effetti d'una causa esteriore ignota a cui si riferiscono, ne segue che il lavoro d’interpreta- zione e di obbiettivazione è un ragionamento incosciente i Veramente nel Lotze, più che un rappresentante della scuola genetica, si dovrebbe vedere l'anello di congiunzione tra la scuola na- tivistica e la genetica. Infatti è bensì vero che per lui la nozione di spazio non è innata, ed è necessario un lavorio mentale per averla, ma contemporaneamente i segni locali sono un vero e proprio mec- canismo preformato. Cfr. Ribot, Psychologie allemande. 2 Helmholtz, Die Thatsachen in der Wahrnehmung. Berlin, 1879, ta) f TOO IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA dunanenazenaa neenianaze sanare sa rinenianesaenin isa sanasisaodioianieneninizanasenete resa sizaeizazzaneo uunnizieazerazenizzenianisnananoniceaze dananieaniza n manina za sanana sa neriaranieazenia tea vanenressdeeta che i Nuovi Critici ritraggono dai progressi notevoli delle scienze sperimentali, e specialmente della fisiologia, vantaggi che il Kant non poteva avere, e che dissentono da lui nel determinare la natura e la quantità dell’ ele- mento a priori, presente in ogni conoscenza; si allon- tanano da lui sovratutto nel modo da proporsi e di risolvere il problema gnoseologico. Il Kant più che l’ori- gine della conoscenza tendeva a determinarne il valore, più che il fatto e il possesso, la legittimità; quindi am- mettendo che l'elemento a priori dirige l’esperienza e ne è la legge, non prese a esaminare in che senso si possa dir tale, e come avvenga che non apparisce sempre e in tutto il processo della umana conoscenza, ma solo nel pensiero già adulto; e se l’esperienza contribuisca a svolgerlo e a determinarlo. In altre parole il Kant trascuro di ricercare l'origine dell'a priori, non accor- gendosi che pure questa ricerca psicologica era condi- zione indispensabile a porre ne’ suoi veri termini ea risolvere il problema della conoscenza. Quello che il Kant non ha fatto fecero i Nuovi Critici; e sta qui, nella risoluzione del problema psicologico come sussidiario del problema della conoscenza, la novità del Neo-Criticismo e il suo merito più grande. IV. Contrariamente all’empirismo tedesco, l’ empirismo inglese nella spiegazione della conoscenza trascura ogni elemento formale, a priori, e tutto fa derivare dalla nuda esperienza. Osserva con molta acutezza il Chiappelli! 1 Kant e la Psicologia contemp. nel Giornale nap. cit. p. 218. ET CI TRA Tome ui è = NELL'EMPIRISMO CONTEMPORANEO 251.07 che la vecchia metafisica e il moderno empirismo in- glese riescono per opposte vie a spogliare lo spirito della sua originale energia; poichè quella lo riduce a î una semplice capacità di accogliere in qualche modo le - idee assolute che gli si presentano, ma che esso non produce; e questo lo considera come un rispecchiamento delle relazioni esteriori, come un risultato dell’ o rienza. Se empirismo pglese ia Der_così uniti ll meccanismo, uni- a che dalle forme più basse della sensazione fa uscire per via di semplice’ associazione quantitativa le ivi i Per lo Spencer, per esempio, lo spirito ben lungi dall'essere un’ attività originale, un principio dinamico, si risolve in un gruppo di attività operanti meccanicamente in una continua 4 associazione e dissociazione di stati ora più deboli ora più forti, in un continuo adattamento di relazioni interne a relazioni esterne! Donde una gravissima difficoltà a spiegare l'associazione delle singole sensazioni, e delle serie diverse in cui si dispongono. L'ordine delle sensa- zioni, l'associazione delle sensazioni, il loro disporsi in serie, non è una sensazione, ma un rapporto di sensa- zioni: ora donde viene questo rapporto ? « Perchè ci sia ordinamento, nota giustamente il Chiappelli®, conviene che ciascuna sensazione sia tenuta distinta dalle altre, e nello stesso tempo unita, altrimenti si fonderebbero in un’ unica sensazione, come avviene delle sensazioni udi- tive, olfattive e saporose. E come poi potrebbe avvenire l'associazione delle serie tattili e visive coi sentimenti muscolari per formare la serie spaziale, senza un’ attività sintetica a priori »? 4 Cfr. Spencer, Principes de Psychologie, passim. 2 Kant e la Psicologia contemp. nel Giornale nap. cit, p. 219-220. : Ai) i Dall E 168 IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA L’ ipotesi dell’ evoluzione e la teoria dell’ eredità, in- trodotta dallo Spencer nella Psicologia inglese, le hanno aperto un nuovo orizzonte e corretto in gran parte la sua aridità. Ma per quanto corretta e allargata, l’ ele- mento dinamico le manca pur sempre, le manca l’attività, la spontaneità originaria. Osserva il Tarantino! che « se v'ha una scuola che non possa non riconoscere nella psiche umana una attività propria ed originaria, questa è l'evoluzionista. Dappoichè per essa la conoscenza non è puro asso- ciagronismo, non è mera composizione e ricomposizione di clementi semplici, ma è un processo evolutivo per cui nei gradi superiori della conoscenza non s'ha sola- mente la somma degli elementi semplici forniti dai gradi inferiori, ma qualche cosa di nuovo, un nuovo prodotto, una nuova funzione ». Ma questa, come nota anche il Chiappelli, non è un’ esposizione ed interpretazione ob- biettiva ed esatta della dottrina dello Spencer; è un ap- prezzamento subbiettivo, una critica di essa; critica giusta e finissima, ma esposizione sbagliata. Ognuno infatti ricorda la dottrina dello Spencer che riguarda l'intelligenza e la volontà. Gli stati superiori dell’ intel- ligenza differiscono dagli inferior complessità, non già per un'attività più alta che vi si' riveli; e la volontà dove, più che in qualunque altro fatto dello spirito, dovrebbe apparire un’ attività primi- genia, è quello stato di coscienza per cui « dopo aver ricevuto un’ impressione complessa, i fenomeni di movi- mento APPTOPrIAtO nascono, ma non Possono passare all’azione immediata, a causa dell’antagonismo di certi altri fenomeni di movimento, egualmente nascenti, e appropriati a qualche impressione intimamente unita i solo per una maggiore 1 Saggi filosofici, p. 109-1 10, Napoli, Morano, 1885: Asi DI o dii rn Vsrresvanorizsanereseeriecenzer ee idbLEzsco ca cdene erapas pa Leno ana OSTSCIN TORCE PUITELATA TETI ta ars ter aonesionarasasacseeoree alla precedente »; sicchè, solo dopo un certo intervallo apprezzabile, un movimento, il prevalente, finisce col tradursi in azione!. Evidentemente qui la volontà non differisce dall'azione riflessa che per maggiore comples- sità. Nell’ azione riflessa c'è un'impressione a cui tien dietro una contrazione muscolare; nella volontà c' è an- cora una impressione, a cui però corrispondono più gruppi di contrazioni, che, non potendosi tutti quanti tradurre in movimenti reali, si contrastano a vicenda, finchè uno non riesca a trionfare degli altri. Il mecca- nismo e l'assenza d’ogni concetto dinamico della psiche non potevano avere una più completa espressione. Molto opportunamente perciò il Bonatelli in un capitolo del suo libro dottissimo e profondo Discussioni gnuoseolo- giche e Note critiche, intitolato argutamente una pe- i Tazio cis 0 yévos mostra avere lo Spencer cancellato ogni differenza essenziale tra i fatti inorganici e j psi- chici, e aver ridotto Ja vita psichica a un semplice ri- flesso di relazioni esteriori. Certo le relazioni interne della coscienza e dell'organismo, anche nello Spencer, non ripetono le relazioni esteriori semplicemente, senza modificazioni e trasformazioni. Ma queste trasformazioni si producono meccanicamente, da se, senza una vera € propria attività, da cui derivino: e perciò lo spirito del criticismo Kantiano è ben lontano .dal filosofo inglese. Si potrebbe osservare però che l’ a priori biologico della scuola inglese ha tutti i caratteri dell'a prior: formale e trascendente del Kant, che anzi non è altro x © che la traduzione di esso in linguaggio fisiologico e bio- A logico. Il Tarantino nell'articolo già citato c pol in un altro Kant e Spencer, che fu, insieme col primo, raccolto nei suoi Saggi filosofici, sostiene apertamente questa 1 H. Spencer, Principes de Psychologie, part. 4 cap. IX. 1% 170 IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA tesi: sicchè per lui l'influenza del Kant sulla scuola in- - 4a glese è un fatto incontestabile; e la differenza fra l’uno e l’altra sta solo in questo, che il primo ammette senza sa più l’a priori, e la seconda ce ne dà la genesi e la ps spiegazione empirica, precisamente come fa la scuola È : tedesca!, d Se non che il lavoro secolare accumulato e trasmesso i; per via della eredità naturale, e per cui lo spazio ed il tempo, per esempio, per non parlare delle altre leggi ? del pensiero, non sono che relazioni mentali istintive Gi rese organiche nella vita della specie, è un processo Mico inesplicato e inesplicabile quando non si presupponga Mi Un'attività originaria che ne sia il fondamento. Pon- gasi pure che quello che è a priori rispetto all’in- dividuo, sia a posteriori rispetto alla specie; pongasi pure che l’a priori non sia trascendente, ma biologico e storico, secondo l’espressione del Levves; ma resta f:: sempre la domanda, a cui si dovrebbe rispondere, in È qual modo si sia potuto formare, anche nell'evoluzione E È. biologica, quell’associazione delle sensazioni che costi- È ù Me tuisce la serie spaziale e la serie temporale. Bisogna in È Ai ogni caso presupporre l’attività sintetica, l’attività asso- ; hi | ciatrice dello spirito, che è quella appunto che non si |, | Ss 3 vuole presupporre. Ma alla teoria dell'a priori biologico e storico si' potrebbero fare ‘ben altrè osservazioni. E prima di tutto se le condizioni e le leggi dell’ esperienza sono un risultato dell’ esperienza stessa, a cui si arrivò successivamente per via di evoluzione e di trasmissione ereditaria, come fu possibile l’esperienza in origine quando le sue con- dizioni e le sue leggi non.s'erano ancora fissate nel- l'organismo? E poi, se queste leggi e queste condizioni ! Saggi filosofici, p. 107. side bibite bio I OTTIENI ARTT RTRT sono acquisti successivi della razza, sono una specie di capitale trasmesso e accresciuto di generazione in generazione, donde venne il primo deposito di fondi che fu, per così dire, il nocciolo dei risparmi mano mano ingrossantisi dell’ umanità? Si dirà che |’ intelligenza umana è impotente a scoprirlo, per quanto lontano ri- salga nella catena degli ascendenti? Ma in questa ma- niera si ammette implicitamente l’esistenza di esseri che contengono, almeno allo stato di embrione, le nozioni che pur si vogliono derivate per evoluzione dalla sola esperienza. Oppure si dirà che esse appariscono a un certo grado dell’ evoluzione? Ma in questo caso ancora esse non sono più un prodotto dell’ evoluzione ed hanno un cominciamento assoluto. Da qualunque parte si guardi, l'evoluzione sùppone sempre una qualche cosa che si svolge; ec senza di questa non si può neanche concepire. Così le leggi e le condizioni dell’ esperienza sono bensì svolte e determinate dall'esperienza stessa e dall’ evoluzione, ma preesistevano iù germe e all espe- rienza e all’ evoluzione. E posto pure che siano un semplice risultato del- l'una e dell’ altra, donde viene la necessità e l’ univer- salità che loro s' accompagna? Nessuna esperienza sia individuale, sia specifica, può dare la necessità e l’uni-- versalità: la necessità e l’ universalità vengono dall’ atti- vità sintetica dello spirito. Per quanto numerosi siano i casi in cui da noi e dagli avi nostri s'è sperimentata la verità d'un certo fatto, niente può garantirci che un caso quandocchessia non si presenti a smentire quei primi. L'esperienza si compone sempre di un numero limitato di osservazioni; quindi, per quanto ripetuta e . moltiplicata, non è mai sufficiente a farci concludere uni- versalmente. Ancor meno può fornire il fondamento alla necessità di una proposizione. « Essa può, scrive il arsssaizianeianionaazzaniscase ovegcinzensenaeneio ne eosessonienanesiasarensaseaseseeozene suesusovezeassazioaneosganaevatogasaesevetevizevesoste. Whevvel!, osservare e notare ciò che è avvenuto, ma non può nè in un caso qualunque, nè in un cumulo di casi trovare una ragione per ciò che deve avvenire. È, Essa può vedere degli oggetti l'uno accanto all’altro, > ma non vedere perchè essi devono essere sempre così giustaposti. Essa trova che certi avvenimenti si succe- dono, ma la successione attuale non dà la ragione del suo ripetersi; essa vede gli oggetti ‘esterni, ma non può scoprire il legame interno che incatena indissolubilmente il futuro al passato, il possibile al reale. Apprendere una proposizione per via di esperienza e vedere ch’ essa è necessariamente vera, sono due operazioni intellettuali completamente differenti ». VV. Anche allo Stuart Mill si possono fare in gran parte «Je osservazioni che abbiamo fatto allo Spencer. Anche per lo Stuart Mill infatti il problema gnoseologico è risolto per via di esperienza e di associazione; la cono- scenza non ha altre fonti che queste; il principio dina- mico, il principio associatore, l’attività sintetica manca’ anche qui; e l'associazionismo meccanico, il più puro fenomenismo spiega tutta quanta la vita dello spirito. i Si dirà che la dottrina che riguarda lo spirito non è e veramente così meccanica e fenomenistica nel Mill come mostriamo di credere noi; e che în realtà il Mill, dopo aver ammesso che lo spirito è una serie di stati 4 . ù IRA È; A x Histoire des idées scientifiques, citato dallo Stuart Mill, Log:gue ecc. vol, I, P. 270. di coscienza e nulla più!, aggiunge, indottovi dal fatto 2 della memoria e dell’ aspettazione così caratteristico della vita interiore, che questa serie conosce’ se stessa come passata e avvenire; sicchè si deve ammettere essere lo spirito altra cosa dalla serie stessa, quando non si voglia accettare il paradosso che una serie conosce se stessa in quanto serie ®. Si dirà anche ch'egli riconosce esplicita- mente « qualche cosa di reale nel legame che unisce la coscienza presente alla passata, reale come le sensazioni stesse, c che non è-un puro prodotto delle leggi del i pensiero senza nessun fatto che gli corrisponda »8; in, altre parole ch'egli attribuisce una vera e propria realtà al Me, allo Spirito. Tutto questo sappiamo: ma sappiamo anche che ten- denza manifesta e desiderio vivissimo del Mill è di spiegare e poichè questa è da lui concepita come la. possibilità per- manente di sensazioni senza nulla che accenni a qualche cosa di sostanziale e di attivo, così egualmente dev’ essere concepito lo spirito?. E se il fatto della memoria si oppone ad una simile, concezione, se l'ipotesi della possibilità permanente, come lo stesso Mill confessa, non. dà una teoria sufficiente dello spirito 9; se il legame che unisce la coscienza presente alla passata è parte indispensabile della concezione positiva di esso 7; se insomma c'è di "evane si ia pa fe 1 Philosophie de Hamilton, c. XII, p. 229. 2 Ib. p. 234-235. à 5 Ib. Appendice ai cap. XI e XII, p. 250. ‘F + Ib. Appendice cit. p. 250. Cfr. anche Zogigue écc. volume I, G p. 66-68. , 3 3 Philosophie de Hamilton, c. XII, p. 227-229, si 0 Ib. p. 248-249. \ "E ? Ib. p. 250. IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA uarnaanerioaiezenieneoneonesiz sasa na ainaonionene sica nazezianeonear esi pireriaezizeo _o__————ccascsscaecasentioneneezazeasazanianeceseo reale nello spirito la continuità e l'identità della co- scienza, ed esso stesso è qualche cosa di reale, è un elemento originario che non partecipa della natura delle cose che rispondono ai nostri nomi!; non per questo, .e se c'è contraddizione la colpa non è nostra, lo spirito è qualche cosa di sostanziale e di attivo. Jo non adotto, dice il Mill esplicitamente, /a /eoria comune che ri- guarda lo spirito come sostanza?. E in una nota alla Analysis di suo padre scrive :« Noi-facciamo molta fatica a credere che un essere senziente possa esistere senza la coscienza di se medesimo. Ma questa difficoltà nasce dall’ associazione irresistibile che, fin dalla nostra prima 3 e PEPE fre. infanzia, si stabilisce, grazie alla memoria, tra ciascuno è dei nostri sentimenti e la serie intera di cui fa parte, e A conseguentemente tra ciascuno di essi e il nostro me n.3 À SB _ Che cosa vogliono dire queste parole? Vogliono dire che ‘A A e; il are reale e vivente che si credeva di cogliere fondan- i dosi sulla continuità della coscienza, non è che un? il lusione, illusione generata dall’ associazione: noi non cogliamo in fondo che una continuità fenomenica, una «serie di stati psichici in cui. il me si risolve. 13 D'altra parte se il me è riducibile alla memoria e alla continuità della coscienza, dove trovare quell’ele- © mento permanente che è necessario a costituirlo, se pure ‘ à è qualche cosa di sostanziale? Con molta profondità nota S il Ferri nel suo libro mirabile La Psycholog gie de l’As- sociation che « altra cosa è quest’ elemento permanente, e altra cosa ciò che v' ha di non interrotto nella succes- sione. L’uno è così poco assimilabile all’altro che il «primo solamente possiede un'identità vera, mentre il I Ib. p. 250. 2 Ib. p. 249. 3 Analysis, vol. II, p. 175. NELL' EMPIRISMO CONTEMPORANEO 175 auisreininaaene sv ionanasianeesezaniniaeeanionisesezaneeesieea azien ananeo sv agentaniarerasazesieneenasze ns caniangareraneazeeeazaazaieneoneee secondo non ha che un’ identità nominale... E se si dice che le funzioni della riproduzione e del riconoscimento gli danno nella memoria una specie d°’ identità indivi- duale, questa risposta non toglierà la difficoltà, perchè avremo sempre la moltiplicità in luogo dell’unità, e si domanderà sempre, collo stesso Mill, su che riposi la credenza o il giudizio pel quale affermiamo l’ esistenza di qualche cosa d’identico, che oltrepassa la serie dei modi successivi e cangianti»!. Ma lasciando questo, e ammettendo anche che il Mill abbia assegnato una vera e propria sostanzialità allo spirito, certo è però che questo punto di vista on- tologico e metafisico è in lui come non fosse; e il solo punto di vista fenomenistico ricorre in tutta la sua filo- sofia. « Qualunque sia, scrive .il Mill ?, la natura della esistenza reale che noi siamo costretti a riconoscere nello spirito, esso non ci è noto che in una maniera fenome- nica, come la serie dei suoi sentimenti o dei suoi fatti lore} [0] di coscienza... I sentimenti o i fatti di coscienza, che 3 gli appartengono o che gli hanno appartenuto, e il suo potere d’ averne ancora, ecco tutto ciò che si può afler- mare del Se, i soli attributi possibili, salvo la permanenza, che noi potremo riconoscergli. In conseguenza io adopero , _ , f € all’occasione le parole spirilo e calena di coscienza come Spivile 2 afena equivalenti ». NIrfawija i Di qui segue evidentemente che di null'altro si deve tener conto in Psicologia che dei fatti e del loro nesso meccanico, esteriore; ogni elemento dinamico è escluso. E perciò se la teoria materialistico-meccanica non è X professata e.non può essere professata dal Mill, perchè % da buon positivista deve lasciar da parte ogni questione di & 1 Pag. 102-103. 2 Philosophie de Hamilton, p. 250-251. , L _ kr 176 IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA essenze; se anzi il Mill respinge decisamente il materia- lismo d'Erasmo Darvvin!; se non ammette la dipendenza di ciascuno stato dello spirito da uno stato corrispondente del corpo, e riconosce nei fatti psichici delle leggi loro proprie; in realtà però del materialismo senza volerlo segue l'indirizzo e adotta i principii. ‘Il Ferri nell'opera giò citata nota che lo Stuart Mill ha modificato profondamente la teoria dell’associazione di Giacomo Mill suo padre, aggiungendovi e reintegran- dovi un elemento sconosciuto, l’attività dello spirito? Pel Ferri adunque le due scuole rivali in psicologia, la intuitiva e l’empirica, si sarebbero in fondo accordate in un punto capitale. Noi non siamo di quest'avviso, e ci perdoni l'illustre filosofo se dissentiamo da lui. Lo Stuart Mill per verità ha tutte le apparenze di aver tenuto conto dell'attività dello spirito; egli adopera le parole /avoro mentale, attenzione, concentrazione del- l’ intelligenza ecc.; ma per queste egli intende sempre una sensazione, o un'idea che, per l'interesse che suscita in grazia del piacere che le va unito, diventa come centro di aggruppamento della nostra vita psichica. E perciò la sua teoria non è diversa nel fondo dalla teoria del Condillac modificata, sviluppata e adattata alla filosofia dell’associazione 4. Si può dire che avvenga qui allo Stuart Mill quello che gli avviene in morale; anche in morale adopera le parole stesse che adoperano gli avversarii; ma la spiegazione che ne dà mostra ad 1 Logique, Vedi l'Introduzione e il cap. III, del libro V. 2 Logique, vol. II, pag. 435-437. Cfr. anche Stuart Mill, Aug. Comte et le Positivisme, p. 63-67. 5 Psychologie de l Association, p. 95. + Lauret, Philosophie de Stuart Mill, p. 65, NEIL’ EMPIRISMO CONTEMPORANEO 177 evidenza che non ne accetta però il contenuto e lo spirito. Vedasi a conferma di ciò la teoria dell’ attenzione quale è esposta dallo Stuart Mill in una nota importante all’ Analysis di suo padre!. « Avviene spesso, egli dice, che una sensazione pid- cevole o dolorosa escluda dalla coscienza le altre sensa- zioni meno piacevoli e meno dolorose, e impedisca il comparire delle idee estranee allo stato mentale attuale. In questa maniera la sensazione predominante tende a prolungare la sua esistenza, e noi diciamo ch' essa tende ad attirare la nostra attenzione, vale a dire che non è facile avere, contemporaneamente alla sensazione che riempie lo spirito e se ne impadronisce, qualsivoglia altra sensazione od idea, ad eccezione delle idee associate che favoriscono lo stato attuale e lo fanno continuare. Essa è un oggetto esclusivo di coscienza, a exclusive object of consciousness; essa diviene più intensa che non fosse, ed esercita un'azione più decisiva sulla serie ulteriore dei nostri pensieri. D’ altra parte ciò. che è vero delle sensazioni è vero delle idee. L'idea oltremodo piacevole e dolorosa s' impadronisce dell'anima nella stessa ma- niera ed attira nella stessa maniera l’attenzione ». Fin qui adunque non' c'è nell’attenzione indizio al- cuno di attività; tutto è spiegato per via del piacere e del dolore e dell’associazione. Ma, aggiunge lo Stuart Mill, la volontà ha un potere reale sull’attenzione, ze vvill has povver over the attention; quando l’idea non è abbastanza piacevole per se stessa, noi possiamo con un atto volontario arrestarci sopra un’ idea prossima che accresca l’ interesse della prima. E qui parrebbe far ca- polino l’ elemento attivo. Però com’ è provocato questo 4 Vol. JI, p. 372 © seg. G. ZuccAanTE : à =» : - e ATL L IT. PL ni toto oo Pan a n IRA nni Sg Pt ezio iste 178 IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA MNSRIEE SEDIA eo imecsessosseseseossssenseseeeneo vyosseteona ea atto volontario e in che consiste, but hovv is this act of vvill excited, and in yvhat does it consist? L’atto è provocato da un motivo, dal desiderio d’un fine, cioè d’ un piacere, o, ciò che vale lo stesso, d'una cessazione di dolore. Sicchè se l’idea alla quale attendiamo non è abbastanza piacevole per se stessa, la associamo ad una idea piacevole, e il risultato è la fissazione dell'attenzione, the result îs that the attention is fixed. Perciò sia l’idea piacevole per se, o sia piacevole per la sua connessione con un'altra idea, il fissarsi dell’ attenzione dipende sempre dalla medesima legge mentale, la legge dell’ as- sociazione, e non è il caso neppur qui di parlare di elementi attivi. Si può obbiettare che la spiegazione precedente è valevole solo per i casi in cui l’ attenzione volontaria non incontra ostacoli e non richiede alcuno sforzo. Se invece avvenga che lo spirito si distolga da un’idca, e sia necessario per trattenervelo un certo sforzo che costi fatica ed esaurisca, in tal caso l’attenzione dovendo non più soltanto essere facilitata, ma comandata, l'associazione »;. - non può più bastare a quest'effetto, ma è necessario l’ in- u tervento attivo della volontà. Esaminiamo la difficoltà. 5 Q La volontà anche qui è messa in azione da un mo- n . tivo o da un desiderio. Ora il desiderio motore della volontà è 0 il desiderio iniziale, divenuto più energico, o un desiderio addizionale: e questo desiderio, o più forte, 0 OTO Dasce in questa maniera. Noi non amiamo abbastanza il fine a cui tendiamo; l’idea di questo ANCAnOnES REGIA piacevole, o la privazione di esso e required. Allora alfano sì oa desiderio, bramiamo un am 5 + ae So nostro fine, pensiamo ch SS DIL ardente de , P o che varrebbe meglio per noi che * NELL’ EMPIRISMO CONTEMPORANEO 179 nerrerisancanineseeseanaazesaenieaza sa smaenazenasaazazionenena:sontiscenacnanisna nnsononasanizesenzeteateceseeneesavanpnavnneorieceoseeeesz: questo fine in particolare e i nostri fini in generale aves- sero più influenza ch’ essi non hanno, sui nostri pensieri e sulle nostre azioni. Questo sentimento dell’insufficienza della nostra attenzione accresce il vigore delle nostre operazioni mentali; il desiderio s'avviva e s'esalta da se stesso; o piuttosto l’idea della debolezza del desiderio rinforza il desiderio, e il desiderio rinforzato riesce in fine a fissare l’ attenzione »!. 7 L'attenzione adunque, anche in questo caso, si può in fondo ridurre all'associazione: è sempre una sensa- zione o un'idea che, spontaneamente o per una reazione spontanea, direttamente o indirettamente, riesce a impa- dronirsi della coscienza, escludendone le altre e non ri- chiamandovi che quelle che sono associate ad essa e possono favorire il suo dominio. Anche dall'esame del concetto di causa, come è inteso dallo Stuart Mill, si potrebbe arrivare alla mede- sima conclusione, ch’ egli non ha affatto reintegrato nella teorica dell’ associazione un elemento sconosciuto ai suoi antecessori, l’attività. La causa per lui non è efficienza, non è energia, non è forza; essa si risolve in un legame di prima e di poi, in una successione uniforme, incon- dizionale e nulla più. Il potere efficiente non ci si rivela nelle cose; l’esperienza non ci rivela che cause fenome- niche o fisiche, non cause prime ed efficienti od onto- logiche di checchessia ?. i E la volontà ? La volontà è causa delle nostre azioni nella stessa maniera, e non altrimenti, che il freddo è + Non avendo a nostra disposizione l' Analysis siamo stati co- stretti a riassumere la nota del Mill in gran parte colle parole stesse del Lauret, Philosophie de Stuart Mill} p. 62-65. 2 Logique, ecc. vol. 1, p. 360. Cfr. il nostro Determinismo di John Stuart Mill, p. 76. i . i SAS re] Sane %» nt. « La O La Pen) nd PATATA i at une causa del ghiaccio, e la ‘scintilla dell’ esplosione della polvere; vale a dire, è causa fenomenica, empirica, e non si può dire che disponga d'una forza e d'un potere speciale; è un antecedente a cui tien dietro un conse- guente e nulla più. « Con la metà del mondo psicologico, dice il Mill, io non mi riconosco il potere di agire sulle mie volizioni »%. E se la nozione di sforzo si trova nella volizione, donde’ poi si riflette nella nozione volgare di forza e di causa, questo sforzo non suppone l’esistenza di un potere, d’ un'energia speciale che lo compia. Lo sforzo non è che la sensazione muscolare di resistenza, che noi proviamo compiendo un movimento, sia che questa resistenza ci venga da un oggetto esterno, sia dal semplice sfregamento e dal peso dei nostri organi di movimento. E pura illusione subbiettiva, derivata dalla generalizzazione e dall’astrazione che s’esercitano salla sensazione reale di sforzo muscolare o nervoso, quella per cui ci creiamo l'entità astratta forza, che conside- riamo come l'intermediario necessario perchè l’antece- dente possa agire sul conseguente, e in assenza del quale niente potrebbe essere effettuato 3. i E pare che tutto questo basti a mostrare che di attività e di energia non è il caso di parlare nella filo- sofia dello Stuart Mill; da buon positivista non dovea egli occuparsi che di fatti, non di sostanze e di cause operanti. i . Dei moderni psicologi inglesi della scuola dell’espe- rienza chi non ha trascurato ]° l’uomo, chi non ha visto nell meccanismo, ma anche l’inte attività primordiale nel- a vita interiore un puro vento di qualche cosa di 1 Logique ecc., vol. 1,.p. 393. 2 Philosophie de Hamilton 1 Pi 354-355. 5 Ib. p. 355-357. i NELL'EMPIRISMO CONTEMPORANEO ISI spontaneo, di attivo, è il Bain}, E, quello che è curioso, lo Stuart Mill che questo elemento attivo avea trascurato, loda in un articolo consacrato a un libro del Bain”, questa importante aggiunta, considerandola come un vero pro- gresso della psicologia dell’ associazione. « Coloro che hanno studiato gli scritti dei psicologi associazionisti, dice lo Stuart Mill, hanno visto con dispiacere che, nelle loro esposizioni analitiche, ci fosse un’ assenza quasi totale d’elementi attivi o di spontaneità apparte- nente allo spirito stesso...... In Francia si è spesso citato il progresso che si fece dal Condillac al La- romiguière; dei quali il primo faceva d' un fenomeno passivo, la sensazione, la base del suo sistema, il sc- condo vi sostituiva un elemento attivo, l’attenzione. La teoria del Bain è nel medesimo rapporto colla teoria dell’ Hartley che la teoria del Laromiguière con quella del Condillac »3. Queste parole dello Stuart Mill provano ch'egli stesso avea visto e compreso l' importanza del- l’attività sintetica dello spirito nella spiegazione dei fatti psichici; ma, deferente alle tradizioni del vecchio empi- rismo inglese, per cui tutto è dovuto al meccanismo del- l’esperienza, non seppe tenerne conto abbastanza nelle sue opere, In generale adunque possiamo dire delle due scuole empiriche di Germania e d'Inghilterra, che l'una è la vera erede dello spirito Kantiano e si assimila la parte vitale della Crilica, che sta non tanto nel riconoscere come elementi a priori le forme dell’intuizione e ‘le 1 Gfr. specialmente Les emotions et la volonte, part. II, cap. I. 2 Les Sens et l’ Intelligence. i 3 Dissertations and Discussions, t. III, p. 197 e seg. Cfr. Ribot, Psychologie anglaise, p. 253-254, e Fouillée, Histoire de la Philo- sophie, p. 472-473. = ad e telai i st he ni i LA i e CRM Lidl a Mel - mersenaazeneaseeenane nesusvsarevesevesesnesaeevesesst1panonese0sezzz19dstosoveo Pueose sea eese, categorie dell'intelletto, quanto, € principalmente, nello ammettere l’attività sintetica dello spirito come condi- zione dell'esperienza !; e che l’altra, ben lungi dal con- formarsi allo spirito Kantiano, lo avversa anzi, se è vero che il meccanismo è in assoluto contrasto col dinamismo. Quanto all’empirismo francese del Comte e della sua scuola, basti rammentare che per esso non v'ha psicologia che non abbia a fondamento l’osservazione esteriore e non si confonda colla fisiologia; che crede una chimera l'osservazione interna o psicologica; che abolisce ogni altra logica che non si accompagni alle applicazioni e alle ricerche scientifiche in cui è implicata, e tiene un fuor d’opera studiare i procedimenti del pensiero in se e per se; per capire com'esso aborrisca da ogni ricerca gnoseologica, e il problema della conoscenza per esso non esista neppure?. 1 Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, p. 87 e seg.; Richl, Der philosophische Kriticismus, II. p. 86. 2 Aug, Comte, Cours de philosophie positive, t. r. premire legon; e Stuart Mill, Aug. Comte er le Positivisme, pag. 63-67 © pag. 55-59. ì VE: cali dA LL amarsi rete ile IA rt Le diverse parti delle ricerche morali di Aristotele non sono state da lui disposte per modo da riuscire ordinate c connesse come sarebbe desiderabile: certo un concatenamento interno non manca nella sua dottrina, ma non risulta abbastanza chiaro dalla sua esposizione. Questa sconnessione, questa scucitura, per dirla così, della morale di Aristotele, deriva in gran parte dalla na- tura stessa della materia ch’ egli aveva fra mano e dal concetto ch'egli se ne faceva. Le cose di cui si occupa la morale, l’onesto e il giusto, non hanno niente di stabile e di fisso, anzi variano e, per così dire, vanno errando da luogo a luogo per modo che sembra siano solamente per legge e non per natura !. Di qui segue che, trattando di esse, non si può essere così accurati e precisi, come si potrebbe essere trattando di cose che fossero per natura stabili e fisse; anzi ci dobbiamo contentare di esprimere il vero all’ingrosso' (7270265) e mei suoi lineamenti generali (+6r); la precisione e l’accuratezza (ràzoifés) non 4 Arist. Eth. Nic. ediz. Susemihl, I. 3, 2-3: T4 dì x02à al qà dizaua TOCAUTAV Îyer diapopav nai TARINY Gate doze) vopo elva, queer dì pai. ida | Li PEPE LE 3 186 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ è possibile egualmente in tutte le ricerche, e deve in ogni caso essere tale quale comporta la natura della materia di cui si tratta!. S'aggiuriga che la morale prendendo le mosse da ciò che suole accadere d’ordinario (#ò © èrl 7ò mo), non mai dal necessario e dall’assolutamente certo, arriva di necessità a conclusioni della stessa natura, a conclu- sioni cioè nè necessarie, nè assolutamente certe, ma sol- tanto precarie; essa è scienza induttiva 5, e, come tutte le scienze induttive, non può avere il rigore che si può esigere ad esempio nelle matematiche. D'altra parte, sic- come non si deve trascurare in morale quello che ab- biano potuto dire gli altri filosofi in proposito, c perfino quello che ne possa dire il volgo ‘, e siccome le opinioni del volgo, e anche quelle dei filosofi, si fanno notare per la loro varietà e qualche volta per le loro contraddizioni, ne segue che tenendo dietro ad esse, sia pure collo scopo di esaminarle e discuterle, di farne insomma la critica, è raro che non ci lasciamo sviare; è raro che, accettandole in parte e in parte non accettandole, non rendiamo oscuro anzichè chiaro il nostro pensiero, e perfino non facciamo forza ad esso stesso per mostrarlo d’accordo con quello degli altri5. 4 Eth. Nic. I. 3, 3-4. Gfr. Eth, Nic. I. 7, 18-19, I. 13, 8, IL 2, 3-4 UK: 8) 3. 2 Eth. Nic. I. 3, 4. 5 Eth. Nic. I. 4, 5-6. 4 Questo non è detto esplicitamente in nessun luogo della Nico- machea; ma lo si può dedurre dalla cura continua di Aristotele di confrontare le sue opinioni con quelle degli altri filosofi e perfino con quelle del popolo. D'altra parte ciò era richiesto dall'indirizzo sperimentale a cui Aristotele s'attiene nella morale. 5 A prova di quanto è detto quassù si può citare il cap. VIII. fre ety® . PA. €" ì, A zi at, Per tutti questi motivi a cui è da aggiungere, per quello che riguarda Aristotele, una certa trascuratezza non solo di ogni ordinamento sistematico, ma perfino del nesso tra periodo e periodo, per cui c'incontriamo non di rado in osservazioni e pensieri che paiono come compati in aria; il fare soverchio assegnamento sull’intelligenza del lettore e con poco dir molto, e le cose anche di massima im- portanza accennare appena anzichè trattarle largamente; il lasciarsi sviare dall’accessorio mettendo da parte il principale; il proporre in un certo luogo una questione e non risolverla, per riprenderla poi e risolverla dove e quando meno s' aspetterebbe, e spesso anche il mettere innanzi dubbii e mostrarsi tentennante dove si desidere- rebbero affermazioni recise ed assolute; riesce impresa non certamente di facile attuazione l’ esporre una parte qualunque della dottrina morale di Aristotele. Una tale esposizione è lavoro eminentemente critico. Congiungere quello che è disgiunto e disperso, ordinare quello che è disordinato, sceverare quello che appartiene in proprio ad Aristotele e che si può considerare come sua dottrina, da quello che è soltanto accidentale ed avventizio; i luoghi controversi ed oscuri interpretare nella maniera che meno si discosti dallo spirito dell’ autore, e in ogni caso non affermare recisamente quello che 1° autore enuncia in forma dubitativa; tener conto dei tentenna- menti, delle contraddizioni, se ce ne sono, € fare che anche le minime sfumature non vadano perdute, in modo che tutto Aristotele ci si presenti dinanzi, e non una parte soltanto, un aspetto particolare di esso; so- vratutto non lasciarsi vincere dalla smania di correggere e di completare da un certo punto di vista Aristotele, del libro I. dell’ Etica Nicomachea, dove Aristotele cerca in ogni modo di far andar d'accordo la propria opinione con quella di altri molti. i gia je da È 188 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ svisandolo invece e corrompendolo; parlare il suo lin- guaggio poco curandosi che non possa piacere à chi legge; ecco un complesso di cose che fanno anche d’una semplice esposizione un lavoro critico. Ma non è nostra intenzione limitarci ad una sem- plice esposizione: all’ esposizione cercheremo d’ innestare ed aggiungere osservazioni e considerazioni di vario ge- nere, quali ci verranno suggerite dalla dottrina esposta, considerata in se stessa, o in confronto colle dottrine di altri autori antichi o moderni. Dichiariamo poi qui che e per questo lavoro sulla fe- licità, e pei due successivi sulla vir e sulla volontà in Aristotele, attingiamo quasi esclusivamente all’Etica N? comachea. È noto oramai, e non staremo a ripetere quanto c nelle storie della filosofia più recenti e in lavori speciali è stato ampiamente dimostrato }, che solo l’ Etica Nico- machea si può ritenere lavoro d’ Aristotele, mentre l' Etica Eudemia e la Grande Etica sarebbero lavori di discepoli, di Eudemo la prima c la seconda di un ! Vedi specialmente Zeller, Geschichte der Philosophie der Grie- chen, nella parte in cui tratta degli scritti d’ Aristotele, ultima edizione; Ucbervveg, Grundriss der Geschichte der Philosophie nell'edizione del 1876, t. I, p. 176 e seg.; Spengel, Veber dar Verhiltniss der drei Aristoteles' ethischen Schriften, e Aristotelische Studien; Bonitz, Ob- servationes criticae in Aristotelis quae feruntur Magna Moralia et Ethica Eudemia; Fischer, De Ethicis Nicomacheis et Eudemiis quae Aristotelis nomine tradita sunt dissertatio; Rose, De Aristotelis lì- brorum ordine et auctoritate; Barthélemy Saint-Hilaire, Morale d'Ari- stote, Dissertation preliminaire; Grant, The Ethics of Aristotle, illustrated vvith Essays and notes, Londra, 3. ediz., 1974, primo saggio t. I, p. 18-71; Ollé-Laprune, Essai sur la Morale d’ Aristote, Introduction; Sante Ferrari, L'Etica di Aristotele riassunta, discussa ed illustrata; ed altri. NELL' ETICA D'ARISTOTELE 189 Pupa a eraent con vocoa senvatia bian aenianananenasascnsonesfousontonsstenizbosaeenvnee rsa sesiere ignoto, probabilmente un peripatetico con tendenze stoiche; i quali non sempre fedelmente riproducono il pensiero del maestro. Che se qualcuno ci facesse rimprovero d’aver da Aristotele, da un autore così lontano: da noi, tratto ar- gomento a studii di morale, ripeteremo le belle parole con cui Leon Ollé-Laprune finisce l'introduzione al suo bello studio sulla morale d’ Aristotele: « Aristotele merita bene che si faccia qualche sforzo per seguirlo. Non si perde nè tempo nè fatica in tale compagnia. Oltre che si ha il piacere vivo e nobile di apprendere ogni momento delle belle cose, si medita sulle più alte questioni, su quelle che più hanno il diritto di interessare ed appas- sionare il filosofo, ed è una meditazione che fortifica! ». II La prima ricerca che Aristotele si propone nella sua Etica è che cosa sia il bene sommo, che cosa sia il fine supremo della vita. Gea Spetta a Socrate il merito d'aver dichiarato netta- mente la necessità d'un fine, a cui la mente si rivolga, perchè l’azione acquisti un valore morale; a Socrate è dovuta la prima telcologia, per quanto imperfetta c uni- laterale essa ci sembri. Le cause finali spiegano per lui il mondo tutto quanto, non il fisico solo, ma anche umano, poichè gli atti umani dipendono in fondo dal pensiero che li regola, dal fine che li attira. L’ interiorità 4 Ollé-Laprune, Essai sur la Morale d' Aristote, Paris, 1881, pag. 19. i ASA Me a n at sd èsi- vi ed va drive i UNA 100 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ socratica di cui tanto si parla, il yv&0 ozvrév, il demone socratico stesso, hanno nelle cause finali la loro vera e completa spiegazione. Dopo Socrate il fine umano di- venne la ricerca capitale dell’ Etica, e dalle diverse solu- zioni date al problema dipesero i diversi indirizzi morali delle scuole socratiche. Aristotele ripiglia il problema, e lo risolve da par suo. I varii e molteplici fini o beni, che gli uomini si propongono mentre operano o si danno a qualche arte e scienza, sono tutti fra loro così congiunti che tendono a un certo bene o fine sommo il quale vogliamo per se stesso ($ È aicd povidue0d), e al di là del quale non resta più nulla a desiderare. Che cosa è quest’ ultimo fine o bene? Bisogna determinarlo, perchè il saper ciò è della massima utilità per condur bene la vita; come arcieri, a cui sia proposto il segno da colpire, otterremo più facilmente quello che bisogna, quando l’avremo saputo!. «Nel nome tutti quanti s’accordano e chiamano il sommo bene la felicità (e0dapoviz), essendochè è la feli- cità quella in cui s' appunta e si queta ogni desiderio; ma non s'accordano quando si tratti di definire in che questa felicità essenzialmente consista. Poichè v’ ha chi. la ripone nel piacere, nelle ricchezze, nell’ onore; e v’hanno perfino di quelli pei quali la felicità nonè sempre la stessa cosa, ma ora questa, ora quella, secondo le condizioni diverse in cui si’trovano *. L’opinione‘di chi ripone la felicità nel piacere (pia- cere materiale), sebbene sia quella dei più, non merita neppure di essere discussa; è schiavo di se medesimo e delle proprie passioni e conduce una vita da bestia chi si abbandona al piacere. Chi sostiene che la felicità È i Eth. Nic. I. 1-2. 2 Eth. Nic. I. 4, 2-3. "NELL’ETICA D' ARISTOTELE I9I NERTTETANZZIANIAZI ZI NE TERE A ENI A RATE RA TERA TANI AR Ren Ara SI TISTI ani ze sn temi nienaraanecazeanerananaaneane vaso ezi vena nseztenizeserasionenzeosi stia nell’ onore, sebbene abbia un’ opinione più ragione- vole, non però è nel vero; poichè come si può reputare sommo bene quello che è posto nell’arbitrio degli altri? Il bene deve appartenere in proprio (oizzìoy), realmente e ‘ non accidentalmente, alla persona a cui appartiene, e deve esser tale che difficilmente si possa togliere ( durupatperoy). D'altra parte è l'onore ricercabile per se stesso, o non piuttosto si vuole come il premio e la testimonianza della virtù? Neanche l'opinione di chi ripone la felicità nelle ricchezze è accettabile, poichè primieramente la ricchezza si vuole come mezzo e non come fine; e poi la vita di chi è dedito.alla ricchezza è vita piena d’affanno e di lotta (6 dz ypapatiomne Plos Piads Tic eoriv)!. V'ha anche un’altra opinione, più famosa di tutte queste per l'autorità e il nome di chi l’ha sostenuta, l'opinione di Platone, secondo il quale il vero bene è il bene ideale universale, il bene separato, in se e per se esistente (ympiotiv ti aùtò 20) asré), causa a tutti gli altri di esser beni®. Quantunque, dice Aristotele, quest’ opi- nione sia sostenuta da persona a noi cara, dovremo tuttavia combatterla, perocchè noi siamo sovratutto amici + della verità . E primieramente il bene si predica di tutte le calegorie, anche di quelle che sono accidentali alla sostanza e quindi a lei posteriori, e si dice ad'esempio di Dio che è buono, della virtù che è buona, e così egualmente dell'utile, del tempo ccc.: ma le categorie nulla hanno di comune e sono irriducibili l'una all’altra, sicchè anche quando loro si attribuisce il predicato dere, 4 Eth. Nic. I. 5.- 2 Eth. Nic. I. 6, 13 e 1,,4. 3. 5 Eth. Nic. I. 6, 1. &uQoly pg divo oidow Gaioy poT‘AY shy dA 0ev2y, donde venne il noto: Amicus Plato, sed magis amica veritas. ST ve 102 LA DOTTRINA DEILA FELICITA questo non esprime alcun che di comune, di universale e di uno (zowsv 1 220620) val #), nè potrebbe quindi esservi per tutte un idea comune del bene (oz dv stn zown mi arl cobray 1942)! Che se quest'idea comune del bene ci fosse, sì avrebbe pure una scienza comune dei beni, come v' ha una scienza comune per tutte le cose che si subordinano ad una sola idea ?. Ma poi che cosa è il bene in se? e in che differisce dal -bene iù particolare? In quanto beni, il bene particolare e il bene in se in nulla differiscono ; c'è nell’uno e nell'altro una sola e identica nozione. Si dirà che l’uno è transitorio, l’altro eterno? Ma in niente sarà più bene il secondo del primo per essere eterno, come non è più bianco un bianco che duri molto tempo, di un altro che dura un giorno solo, per questo solamente che dura molto tempo ?. Che se si obbiettasse che si parla dell'idea solo in rispetto ai beni per se, e non ai beni che servono di mezzo ad altro, si potrebbe domandare da capo che cosa c'è di comune, ad esempio, fra la saggezza e il piacere considerati in quanto beni, quando si prendano come beni per se: e pur tuttavia l’idea del bene in essi tutti dovrebbe essere la medesima, ai come nella neve e nella biacca l’idea della bianchezza 4. — Non esiste adunque quel bene ideale comune e uni- versale che Platone ammette. Ma dato pure che esista, dato pure che il vero bene sia qualche cosa di separato in se e per se esistente, esso riesce affatto inutile all’uemo che non può nè metterlo in pratica, nè acquistarlo; È mentre in morale si ricerca invece un bene che si possa 4 e mettere in pratica ed acquistare, che sia dunque A Eth. Nic. I, 6, 2-3. 2 Eth. Nic. I, 6, 4. 5 Eth. Nic. I, 6, 6. 4 Eth. Nic. I, 6, S-11. NELL'ETICA D' ARISTOTELE 193 proprio dell’uomo e relativo all’ uomo. Si dirà forse che benchè un tal bene non si possa acquistare, è dato però conoscerlo nelle sue relazioni coi beni che si possono acquistare, sicchè serve come di esemplare, di modello per più facilmente conoscere questi e, conosciutili, con- seguirli? Ma a questo si può opporre che tutti fin qui hanno trascurato un tale aiuto; le arti, le scienze, pure tendendo a un qualche bene e cercando di ottenerlo, trascurano di conoscere il bene ideale; e si può opporre ancora che dalla conoscenza del bene ideale, quand'anche fosse possibile, nessun vantaggio trarrebbe chicchessia nella pratica; poichè la pratica riguarda azioni singolari, e per queste si richiede non giù una cognizione generale, qual è quella del bene ideale, ma cognizioni singolari. Ad esempio come sarà più atto alla medicina, o a con- durre gli eserciti chi contempli quest idea del bene? Il medico non ricerca la sanità in astratto, ma quella del l’uomo, anzi di quest uomo particolare, poichè esercita l’arte sua sopra i singoli individui !. III. Discusse e respinte queste varie opinioni intorno al sommo bene e l’ultima di Platone massimamente, nella cui idea del bene è degno di nota che Aristotele non veda che un oggetto astratto € indeterminato, privo di un valore effettivo e reale, mentre nel sistema platonico tutti quanti gli esseri non potendo esser buoni che per 4 Eth. Nic. I, 6, 13-16. G. ZUCCANTE £' Roe ET RAT 1 PVI partecipazione dell’ idea suprema del bene, questa vi appare perciò come forza e come legge !; il filosofo viene ad esporre la sua propria dottrina in proposito. e: Premette che il sommo bene dev’ essere perfetto sa (+é Ra, Sn MOL, I, tu) 5 Erzt d' o0y serv + eUdazoviz TEMELOY x dpalloy zai 7805, OdÒI oro da 204 Qi dr val èv Tsdelm , » O Ù Neo Sor mate cda ziuoy 20 ECTAL COLE NATE {la EGTAL 09 40 SITU ÈV TAI (0 Alone Y sapo "rr . -_ NELL ETICA D ARISTOTELE x 197 felice che la fortuna non gli sia avversa; poichè è bensì vero che le piccole sventure non fanno traboccare la bilancia della vita (où mot forhv iis Lo?) e non hanno im- portanza per la felicità, ma le grandi e frequenti l'hanno invece e grandissima, chè apportano dolori e impediscono molte azioni virtuose, e fanno in ogni caso che non si possa ancora chiamare felice chi ne è colpito. Certo non avverrà mai che chi è veramente felice, vale a dire chi possiede la virtù, divenga infelice per quante sventure gli capitino; chè l’infelicità sta solo nel male operare; però non si potrà ancora continuare a dirlo felice, quando. gli capitino sventure quali, ad esempio, capitarono a Priamo !. La fortuna adunque occupa un posto non cer- tamente trascurabile quanto al formare la vita felice. Ma la fortuna è di sua natura instabile e incerta, c a chi è favorevole, a chi avversa, e spesso ad uno sorride a cui poi prepara le più ingrate sorprese; sicchè si vada adagio a dir uno felice perchè lo vediamo oggi ricolmo d’ogni bene; dimani non si sa che possa preparargli la sorte. Si aspetti che abbia vissuto un certo tempo prima di chiamarlo felice, si aspetti che abbia vissuto un tempo perfetto, una vita perfetta, anzi meglio si aspetti che sia morto, perchè non è priva di senso la sentenza di Solone che prima di dir uno felice bisogna vederne il fine. Per due motivi ‘adunque si richiede una vita per- fetta a costituire la felicità perfetta; prima di tutto perchè si svolga l’attività razionale per modo che sia possibile operare secondo virtù, e in secondo luogo perchè, es- sendo la fortuna instabile, ci sia campo di vedere se non abbia per caso a voltar faccia improvvisamente e ad al- terare la felicità preesistente. I Eth. Nic, I, 10, 12-14. 2 Eth. Nic. I, 9, 10-11 e.T, 10, 1 © 15. ù N = pira. ter EIA II a A LIO Non ci fermeremo ora a notare che il dire che si richiede per la felicità una vita perfetta, un tempo per- fetto, è dir cosa abbastanza vaga e indefinita, di che si dovrebbe fare rimprovero ad Aristotele; e. neppure che l’ammettere che i beni del corpo e di fortuna sono in- dispensabili alla felicità, se non propriamente come parti integranti, come condizioni, o almeno come elementi in- feriori, come una specie di materia nelle mani dell'uomo virtuoso che vi imprime la forma del bello, prova il senso pieno di misura del.filosofo, di che gli si dovrebbe dar lode: piuttosto diremo, continuando l’ esposizione, che la presente dottrina per la quale la felicità sta .es- senzialmente nell’operare secondo virtù (z3%rtew, ivepyet va deci), non è disforme da quella che la ripone nella virtù, e neppure, in un certo senso, da quella che la ri- pone nel piacere. Intanto, in primo luogo, è proprio cella virtù l’uscire in atti conformi a se stessa (cestis [speri] ydo dov di va 97h èvepyeiz); € perciò il far consistere la felicità nell’ attività secondo virtù e il farla consistere nella virtù sono in realtà la medesima cosa. Però ha questo vantaggio la prima dottrina sulla seconda, che per essa il sommo bene non consiste in un abito, che talora nulla di buono effettua, pur perdurarido, come in chi dorma o in chi comecchessia resti inerte, ma in un'attività: e ciò non è certamente di secondaria importanza, perocchè come in Olimpia non ai più belli e ai più forti che ri- mangano inerti, è riservata la palma, ma a coloro che scendono nell’agone e combattono, così egualmente sol- tanto coloro che operano, e operano rettamente, possono conseguire ciò che è dello e buono nella vita. Il che vale ina - i > Ma attiva e per così dire mi- litante; non dev’ essere soltanto un possesso e un abito, NELL'ETICA D'ARISTOTELE 199 ma un uso e un'attività! Per quello poi che riguarda il piacere, neppur esso è escluso dalla presente dottrina. Imperocchè chiunque è dedito a qualche cosa, in questa stessa cosa trova il suo piacere; sicchè chi è dedito alla virtù trova in essa appunto il suo piacere. Di più ha questo di particolare chi è dedito alla virtù, che gli sono piacevoli quelle cose che sono piacevoli veramente per natura e non secondo questo e quello, tali essendo le azioni virtuose. La vita del virtuoso non ha perciò bi- sogno del piacere, come di una aggiunta, di una frangia, ma ha il piacere in se stessa. Che se si opponga che talora si opera virtuosamente senza sentirne piacere, si può rispondere che chi non si compiace e non gode delle belle azioni che fa, non si può dire che operi secondo virtù e sia virtuoso. Come si può, ad esempio, a chiamar giusto chi non si compiaccia del giusto operare, e liberale chi non si compiaccia delle azioni libe- rali 5? L' cpigramma di Delo che disgiunge virtù da piacere non è nel vero4 La brutta rinomanza del piacere dipende dal fatto che i più credono piaceri so- lamente i corporei, e solo i corporei sono dai più . Dì x x ' . "4 41 Eth. Nic. I, $, 8-9. 7olc uev avv Acyovoi Tv dpeThv A 1 Li 9; LA . ’ 4 a _ DA O peri 4 3 È ; peTav TUVX aUvwdd: iam ò Mons Fabtns Y4p ECT dh LT LITAV i N ° » LI DI vw - SvEpyerz DIZIOECEN dì Too: od uuzgby èv z7oeI Ti pra Tò Kpiotoy ; i, Se, GA , x x VS RIV a brr ZICZAFINA vai èv ECer di Svepyeiz. Tav pev {2p ccw èvdeyetzt >» x LI * ». . 7 ne / -_- » O undiv dyallov dro) rdo/ our, Oloy TÒ 2a idovir È ze W 5 4, sE 5 ; ivfovary 007 oi0v Ts SCSI INI TI ECMOYAZOTI, TIY Ò èvipyezy 0dy oioy Te...... WITEP LE Lar È ” e 0 IR) , o Sy. ” ) | Ò OQuurizan oUy ot ZIIMTTOL AI IGYUPOTATOL TTEOZIOVNTAL TI x i - e ‘ ra A055 ni " oi PACONEATALI (Tobtov 40 ToIES vzion), oto 421 TOY ÈV TO u 3 pò, “ n AIRIS RITI RASO a93 Mio e6v 2 cado oi mpzrtovise delos trota yivovmat. ì 2 Eth. Nic. I, $, 10-12. $ 3 Eth. Nic. I, 8, 12, c II, 3,1. + Eth. Nic. I, 8, 14. I o Tag , » - p "" 200 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ 14 conosciuti !. In realtà però ogni attività ha il suo proprio piacere, e l’ attività più perfetta è anche la più piacevole; il piacere perfeziona gli atti e a loro si aggiunge quale compimento, nella stessa maniera che la bellezza s’ aggiunge alla gioventù e ne forma l' or- namento. (e smiyivipeviy Ti TE, giov Fog dano pz). L’atto e il piacere sono così strettamente uniti che quasi formano la stessa cosa. Come ogni specie vivente ha una attività sua caratteristica, così avrà anche un proprio piacere; e nella specie umana il piacere caratteristico c più.eccellente sarà quello che s’ accompagna all’ attività razionale perfetta. Perciò nella diversità dei criterii con cui si giudica dei piaceri, è da seguire il criterio che è seguito dall'uomo perfetto; i piaceri che allettino lui, saranno i soli veri; quelli che egli biasima come turpi, non potranno soddisfare che gli uomini corrotti. L'uomo buono e perfetto sarà la misura dell’ operare ?. IV. Ed ora la felicità, questo bene sovrano, si acquista coll’ esercizio e coll’abito, o ci viene per divino favore o dal caso? E basta l’insegnamento ad averla, o è ne- cessaria la pratica? E l'educazione fino a che punto vi contribuisce? Se v'ha dono degli dei agli uomini, è questo certamente, poichè divinissima cosa (0ewrzzoy) è la felicità, ove anche si acquistasse per opera nostra: ma intorno 1 Eth. Nic. VII, 13, 6. È E ROPALE . Eth. Nic, X, 4, 5-8, e X, 5, 6-11. Nota specialmente queste parole: 4 ona Ma Aria ra Pa \ : DTA ono Darco noe ha dpal)o:, i Tomdiras, nat dovzi È ‘ ud AE, e ci cley %y gi TOVT@ Quivopevi nei dix dic obr0s ; yadper. NELL'ETICA D'ARISTOTELE 201 a questa questione nulla si può: dire di preciso. Per quello poi che riguarda il caso (707), troppo brutto e sconveniente sarebbe (Mizy Ia utaedès dv in) attribuire ad esso la massima e la più bella delle cose umane!. La felicità ha per sua causa l’uomo e per soggetto l’uomo egualmente; nè un bue, nè un cavallo, nè un altro qua- lunque degli animali bruti ne sarebbe suscettibile ?; c s'acquista operando. Esercizio ed abito son necessarii ad esser felici. In tutto ciò che si riferisce all'azione (èv 70% mosto) NOn è fine il conoscere, ma l' operare: la: virtù non è sufficiente sapere che cosa sia e come s'acquisti, conviene invece sforzarci di averla e servircene; l'intento della filosofia pratica non s'arresta alla conoscenza 3, Che cosa giovano gl’insegnamenti e le teorie a chi abbia contratto abitudini perverse, a chi non abbia indole ben nata e amante del bello, a chi regoli la vita alla stregua delle proprie passionire tenga dietro al piacere? L'animo dell’uomo conviene sia stato preparato €, per così dire, coltivato dall’abitudine, come un terreno che ha da ali mentare il seme; conviene che fin dai più teneri anni venga educato rettamente: altrimenti non intenderà e non udrà neppure chi col discorso tenti distoglierlo dalla via del male. All’ insegnamento morale deve precedere il costume, perchè quello diventi fruttuoso. Ma come si formano i buoni costumi, com’ è possibile ‘una retta educazione? Spetta alle leggi questo compito; solo le leggi, espressione impersonale della ragione e della prudenza, hanno la forza di farsi obbedire; solo le, leggi non sono fatte in odio ad alcuno; solo per l’azione delle leggi si potrebbe rendere abituale, c però non I Eth. Nic. I, 9, 150. 2 Eth. Nic. I, 9; 9 3 Eth. Nic. X, 0, 152. TO TENIERE a) teli et PE SARTO E, ade IEBUTIAATIZANIB TARE A Ice Ana ran eneniani neri purenenanener \anusnaereazeanenersisoneneniseites;avocesizione:asosenssasise0esasieneseoeneseoneete molesto, il vivere secondo virtù. Nè solo ai giovani do- vrebbero provvedere le leggi, ma anche agli adulti: le leggi dovrebbero accompagnar l’uomo in tutta la vita ed eccitarlo alla virtù; chi è ben disposto, coll’amore del bello; chi serve al piacere, colle riprensioni e colle pene; chi è malvagio affatto e incorreggibile, col metter fuori dalla società. Disgraziatamente pochi stati, la sola Sparta ferse, hanno provveduto così alla pubblica educazione!. Intanto, mancando i provvedimenti pubblici, ciascuno in privato dovrebbe indirizzare alla virtù e alla felicità i figlivoli e gli amici. Nella famiglia le parole e i costui del padre hanno la stessa forza che le leggi e le istitu- zioni nello stato; forse anche maggiore, per la parentela e i beneficii onde i figli sono uniti al padre, per la pre- disposizione naturale che è nei figli all'amore e all’obbe- dienza. L'educazione privata offre inoltre il vantaggio che può meglio adattarsi e proporzionarsi all’ indole propria di chi si vuole educare. A chi ha la febbre giova in generale il riposo e l'astinenza, ma a qualche febbricitante forse non giova, e se fosse medicato nella stessa maniera degli altri, ne avrebbe danno sicuro. Così egualmente nell'educazione non a tutti è confacente lo stesso trattamento; a chi uno è confacente e a chi un altro; e questo fatto d'importanza grandissima l’ educa- zione pubblica è costretta a trascurare, mentre invece la privata, per la sua stessa natura, cura moltissimo. In ogni caso però non è atto all'ufficio di educare questo e quello in particolare, chi non possieda la scienza dell’ educazione in generale, come non è buon medico, nè buon maestro di ginnastica a questo e a quello, chi all’ occorrenza non sappia essere tale per tutti, chi non conosca l'universale (è 7ò 2206201 cid62). In altre parole sarà I Eth. Nic. X, 9, 3-13.) PTT di. + - , & di E° x NELL'ETICA D’ARISTOTELE 203 anvonenizzzienazenioiarazizaneeza)a0eroeanianieneze innanneananativaneniisaranezaenivaoreraseconesenenezeizeiezassania ria ne stene ani teneane se educatore privato soltanto chi sarà atto ad essere anche educatore pubblico, che vale quanto dire reggitore dello stato e legislatore; perocchè nella piccola vita di famiglia avviene quello stesso che nella vita più grande dello stato; le pubbliche istituzioni si formano manifestamente per mezzo di leggi, e sono buone quelle che sono formate da leggi buone; e così avviene delle istituzioni private. Se è vero che noi diventiamo buoni per mezzo di leggi, conviene che in genere, chi vuole rendere migliori gli altri, si faccia atto egli stesso a stabilir leggi (vopoMerizio), cioè sappia provvedere all'educazione di tutti; avendo le leggi appunto per iscopo la pubblica educazione, e per mezzo di essa la felicità universale !. Notiamo a questo punto come Aristotele parlando dell'educazione pubblica e privata, e del compito dello stato e dei privati cittadini in rispetto alla virtù e alla felicità, congiunga strettamente la morale e la politica, anzi faccia rientrare la prima nella seconda. La morale, la scienza dei costumi, vuole formare buoni i costumi; ma solo le buone leggi possono arrivare a questo risul- tato, le buone leggi che reggono la famiglia, e le buone leggi che reggono lo stato. Alla scienza delle leggi adun- que, o alla politica, mira in ultimo la morale. Secondo il concetto fondamentale di tutta quanta la filosofia ari- stotelica, che un termine superiore rende ragione delle cose che gli sono subordinate, e ne costituisce l'essenza, il principio e la causa, la politica domina la morale e la fa essere; al di fuori della politica la morale non può essere, come non può essere l’ individuo che non viva nello stato e per lo stato; la politica sola è scienza & ramente padrona e sovrana (2uprotzza 421 dog irentovini ). i Eth. Nic. X, 9) 14-17. 2 Eth. Nic. I, 13; 9-19. n ri ME, a Det DEre © ‘\":- è. rmodi d 204 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ Va S'è detto che la felicità consiste essenzialmente nel- l’attività dello spirito secondo virtù. Ora la virtù non è una sola, ma duc, differenti di genere. L'anima umana è distinta in due parti, la parte ragionevole e la parte irragionevole (ad M6yov Eyov zzi 76 Zoyoy), sia che queste siano in realtà distinte fra loro come le parti del corpo e di ogni cosa divisibile, sia che siano facoltà d'uno stesso principio, per natura indivisibili (x/©gora repuzòrz) e distinte solo mentalmente (7 %6y@). La parte irragio- nevole è distinta alla sua volta in due; il principio della nutrizione e dell’accrescimento (7ò zizuv 708 Fpigsola a adtesla.), che è affatto estraneo alla ragione, e il principio affettivo o appetitivo (tò sruupnrzby zi Gims dpeztuziv), che: partecipa.in qualche modo della ragione, in quanto può ascoltarla ed obbedirle, sebbene qualche volta, anzi il più delle volte, la combatta e 1’ avversi !. A questa duplice distinzione dell'anima umana cor- risponde una duplice distinzione della virtà; vale a dir: alla parte ragionevole, o alla facoltà della ragione, del x6yo; e, ERE) al "SI eg 5 POTTER Lu PO pi RE gr NELL’ ETICA D’ ARISTOTELE 209 sunsuzavesaneanianezezaizicazereazaneeanaraniorenasosasaseneaneaszesiareereaevsiereavepeonzeniscavevitaezzentencosnesasse nevanveseesuonessee nell’ agire secondo virtù morale. A dir vero però è questa ultima sola la felicità veramente umana: le virtù che ci procurano questo genere di felicità non richiedono, per attuarsi, l’opera d'una parte sola dell’uomo, come il contemplare, ma di tutto l’uomo qual è, composto di anima e di corpo, di ragione e di passioni; cuvaprapevat Vabtar (Qi dperat) nai ot meleci mepi cò cbvdeToY dv slev: al dî Toù cuvétov doetat. avbpwrizai 1, D'altra parte l’uomo è di sua natura essenzialmente sociale (best rolrizdy d bp mog)?, e, come tale, non è la vita contemplativa che gli appartiene in proprio, ma la vita in comune, la vita delle mutue relazioni. - VI. Abbiamo cercato di riassumere in un’ esposizione chiara ed esatta la dottrina di Aristotele che riguarda il bene sovrano, e nulla abbiamo trascurato che possa metterla in piena evidenza. Perfino i dubbii, le oscilla- zioni, le difficoltà d'ogni maniera non saranno sfuggite svdtyerai alavariler val mivaa moreÙv mods 7ò Civ zaràmò pdrteTov Toy ev ast ci ip nai 76 Ga parpòy Sett, duvduet UIÙ TULOTATE TIRÒ PINIOY TATO UrEpSY et Sotzie d' dv zal siva Eaaetos ToÙTO, l'etmep ed zUpioy al Auetvoy XTOTOY oùv. qivora) do, ci pin Toy adtod Blov aipotto KARA Tivos HIM 0U. cò Neybéy ce TipOTEpOY dppuboer xal vv. TÒ Yip olzziov Sudato Ti pioer vpdriotoy mai BÒetoy tou indoro. nai tò Ibpoto dh d nerd dv voùy Bitos, strep TobTo padota avblporos. sobros dox 2 ebdaruoventaTOs. 1 Eth. Nic. X, $, 1-3. 2 Eth. Nic I, 7, 0. G. ZUCCANTE BPPPRPTITTTTLITIOLLALI ME Lon a chi ci abbia seguito attentamente. Diciamo oscillazioni e difficoltà, e non a torto, perocchè, mentre nel primo libro dell’ Etica, e nei successivi, Aristotele ci dice espli- citamente che la felicità sta nell’ attività pratica, e non parla quasi affatto di attività teoretica, nel libro X in- vece, nel quale ritorna sulla trattazione della felicità, quasi volesse completarla e darle per così dire l’ ultima mano, la fa massimamente consistere appunto nell'at- tività teoretica; perciò l’ intimo pensiero suo non ci si amente, e indarno ci sforzeremmo svela abbastanza chiar a volerlo penetrare. La vera felicità sta nel contemplare o nell’ agire? A questa domanda la risposta d’ Aristo- tele non è categorica in nessun luogo. C'è anche qui, in morale, quel contrasto fra l'immanenza e la tra- scendenza, che è la nota caratteristica di tutta quanta la filosofia aristotelica, e per cui abbiamo in psicologia il dualismo fra n00 altivo € passivo, il dualismo fra materia e forma in metafisica, e nella fisica quello più stridente ancora fra finalità intrinseca ed estrinseca, fra cielo e terra. 3 Ecco infatti quale potrebb' essere pressa poco la risposta d’ Aristotele. Se luomo fosse una forma sepa- rata dalla materia e risultasse solamente di ragione e di pensiero, non v' ha dubbio che il bene suo, la sua felicità starebbe appunto nell’ esercizio di questa ragione e di questo pensiero, nel contemplare. Siccome invece risulta di anima e di corpo, è cioè naturalmente un composto (cbderov), dell'uno o dell’ altro dei due principii presi separata- mente, sta nell'azione combinata di tutti e due, nella subordinazione dell'elemento inferiore al superiore, della — | passione che è propria del corpo, alla ragione che è — | propria dell’ anima, in una giusta misura della passione, pic che è poi la virtù morale. Ciò però non impedisce n dona ) i è MR e se a sua felicità, più che stare nell’ esercizio | Liz emerson e pata NELL’ETICA D' ARISTOTELE l’uomo possa, anzi debba aspirare a una felicità supe- riore, alla felicità che dà l’ esercizio della ragione, il con- templare la verità. Tutto ciò ch’ egli è dipende in ultimo dalla ragione, :da questo principio divino, ma umano anche, poichè si trova nell'uomo e ne costituisce l’es- senza; perchè adunque gli dovrà questa vita puramente razionale, questa felicità della contemplazione essere contesa? Certo solo Dio |’ attuerà completamente, e l’uomo in parte soltanto; ma non si neghi per questo all'uomo di rendersi quanto più può simile alla divinità, d’innalzarsi, per così dire, sovra la sua stessa natura. Ma se questo è veramente il pensiero d’ Aristotele, perchè la critica sua contro la dottrina di Platone? Anche Platone aveva ammesso che la felicità sta nella contem- plazione, nella contemplazione dell’ idea del bene. L’at- tività teoretica d’Aristotele è forse diversa sostanzial- mente da questa contemplazione platonica? Anche a lui adunque si potrebbe rimproverare quello ch’ egli rim- proverava al suo maestro, che di nessun giovamento è questa contemplazione nella pratica. Si dirà che Ari- stotele è giunto alla contemplazione solo dopo aver concesso un largo posto alla pratica? Ma neppure Platone ha trascurato la pratica; basta a provarlo la teorica, per tanti rispetti ammirabile, delle virtù morali, che troviamo nelle sue opere. Del resto l’attività pratica e l’ attività teoretica pro- ‘poste egualmente all’uomo da Aristotele, segnano. bensì un dualismo, ma non tale che non possa in qualche modo ricondursi all'unità. Il bello morale, l'ordine e la misura in cui consiste, la ragione che è causa di que- st ordine e di questa misura, la virtù morale, sono cose tutte quante umane; mentre invece la sapienza specula- tiva, il pensiero puro, l'intelligenza sono cose trascendenti e divine. E tuttavia come s’' avvicinano l’ una all’ altra ce, 212 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ queste due specie d’ azioni che paiono così distinte! La vita pratica che sembra dapprima propriamente umana, trae dall'ideale divino la sua ragion d'essere e il suo principio; la vita speculativa che sembra puramente divina, conviene in una maniera propria ed essenziale all'uomo. Ci sono dei casi nella vita in cui l'uomo ol- trepassa, per così dire, se stesso € giunge a un così alto grado di virtù, che solo parrebbe vi potesse giungere Dio; ci sono dei casi di virtù eroica, sovrumana, in cui si potrebbe dire dell’uomo quello che Priamo diceva di Ettore « non sembra figlio di un mortale, ma di un dio »!. In questi casi la giusta misura che è il carattere del bello morale, e che è voluta dalla ragione, parrebbe dimenticata; e tuttavia è ancora la ragione quella a cui si obbedisce, sono ancora i precetti suoi che vengono eseguiti; perocchè è proprio della natura dell’ uomo ele- ‘varsi al di sopra di se, e con una beltà morale superiore accostarsi a Dio, e diventare divino: uomo divino dice- vano gli Spartani l'eroe ?. Così egualmente la con- templazione è una perfezione superiore, una perfezione. divina; e tuttavia all'uomo è dato questo privilegio; la sua stessa natura lo vuole. Potrebbe l’uomo vivere della vita pratica e morale, se non fosse atto ad innalzarsi x fino al puro pensiero? Il pensiero è come l’ ideale della vita pratica e morale; si potrebbe anzi dire che questa si assolve tutta nella ricerca di un tale ideale. Non si ottiene mai perfettamente, non giunge mai il pensiero a riposare completamente in se stesso? Ma non meno per questo l’uomo ha bisogno di attingervi un principio che vivifichi tutte le parti del suo essere, a cui possa ricondurre le sue azioni, e in cui, se non sempre € 1 Eth, Nic. VII, 1) (23. 2 Eth. Nic. VII, 1, 3. NELL' ETICA D'ARISTOTELE |, 213 completamente, qualche volta almeno riposi. Il pensiero è per l’uomo il punto da cui tutto parte e in cui tutto ritorna!. C'è poi un luogo della Politica, in cui si direbbe che Aristotele si sia proposto di togliere addirittura ogni contrasto tra la prazica e la /eoria, tra l’azione e il pensiero, e di mostrare anzi che la vera vita pratica, se la intenda bene, è la contemplazione medesima. « Se si deve, dice Aristotele, riporre la felicità nel bene operare (civ sbdauorizi ebrpatizv Darty), vita migliore e per la comunità civile e pel privato cittadino sarà la vita pratica (z%ì zowf aéons rido: dv sin al a!) Enastoy dortos Bios 6 mpzzrizis). Ma, soggiunge egli tosto, non è neces- sario, come credono alcuni, che la vita pratica si svolga in ona ad altri (2% 76v ATO obr Guorynaloy sivz Trobs Ertpove, naldrzo otovizi ces), e che fra i peusieri quelli soli sieno considerati come pratici che riguardano i ri- sultati dell’azione (obdì 7% 3 deavotag si civar uova TRÙTAS TOUK- uude 7% TOY UTOGLNONTOY bg yiponevzz è% Toi rpdrten). Pensieri pratici sono molto più quelle contemplazioni e quei pensieri, che sono fini a loro medesimi e si vogliono in grazia di se medesimi, (2% 7oid uamdov 7% 2broTeAÌ; uu ads abito Evedz Ismpix DI) n ». Spiega poi Ari- stotele come, nelle azioni esteriori, quelli agiscano massi- mamente che coll’intelligenza e col pensiero le dirigono e ne sono gl'inspiratori, quasi architetti che presiedano alla costruzione degli edificii. Così non converrebbe chia- mare inattiva una città, che vivesse per così dire, assisa in se stessa, in un pacifico riposo: avrebbe sempre una vita interiore feconda e bella. Dio stesso e l’ universo non hanno una vita meravigliosamente bella ed attiva, 1 Cfr. le belle osservazioni di Ollé - Laprune op. cit. p. 171-174 2 Polit. VII, 3, 5 e 6 1325-b- af Nidi, bisi cui 6 Ariani INI st eis PR Lie SIN La ILA Se RE eee n LT, a " 214 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ ancorchè alla loro azione intima non si congiunga alcuna attività esteriore! ? Evidentemente, come si notava dapprima, l’ attività pratica per eccellenza è qui la contemplazione. Il pen- siero ora ha per oggetto un diverso da se, ora se medesimo; ora s'applica a ciò che risulta dall’ azione che esso inspira e dirige, ora non ha alcuno scopo estraneo: e tuttavia è sempre il medesimo pensiero (0empiz), ed è sempre azione (7pà44). Pratica e teoria sono adunque la medesima cosa; anzi in quella maniera che Aristotele in questo luogo chiama xp l’azione trascen- dente del puro pensiero, noi potremmo chiamare 0empix l’azione pratica ordinaria quando fosse disinteressata. Il disinteresse pratico è analogo al disinteresse specu- lativo. Nell’uno e nell'altro caso è l’azione in se stessa che è presa per fine; nell’uno e nell'altro caso il pensiero è indifferente ad ogni fine estraneo, e non vede che il bello o il bene morale da una parte, il vero dall'altra. Si opera il bene per il bene, si pensa per pensare, ecco due azioni intimamente connesse fra loro! Il piacere che s'accompagna a queste due azioni nasce dalle azioni medesime prese per fine, td #dsws Svepyeiv... dp Goov 7oÙ Sa aélovs Spammetai ®. a Intesa e spiegata così la dottrina di Aristotele che i riguarda la felicità, si vede sparire affatto ogni dissidio ; ! Loc. cit. ‘Il yàg sbroakia aEdoc, ate val TPU; tie pedi o dè nai TpueTe Vene vupiws ai T6v twrepizsiy modici mods Tate diavotare doyirentava. VAINA pihv oddî drpazteiv DANA nalov Tac nell’ nità TONELS Idpupsvas zai Giv oto TPONPAVEVAG... ‘Opotos è ToùTto Urdpyer nai val Evds brovodv civ IeoTOV TYLONI Yo %y 6 0edc or vado vai mis è nbcuas sis oùz cio ibotepmai pater TINÙ TU OMnelas TU AUTO. 2 Eth. Nic, III, 9, 5. Cfr. Ollé-Laprune p. 176-178. r,;sper. eeats.7 pe 5 ? v , n 9 NELL’'ETICA D' ARISTOTELE 215 e contraddizione fra il libro I e il libro X. della, Nico- machea; anzi il libro X apparisce, com'era nel pensiero d’ Aristotele, un complemento necessario del libro I. D'altra parte chi non sa come Aristotele, definendo nel I libro la felicità azività dell'anima secondo virtù e, se sono parecchie le virtù, secondo l'ottima e la più perfetta (cò dbpozivov dyabov duyzio Sviofera yen var dostuy, ei dì ristoro zi apetat, 427% Thy dplornv nol tede- worden) *, facesse fin d’ allora prevedere che l' attività teoretica, la contemplazione, sta sopra a tutto, e che: di essa pure conveniva parlare dopo aver parlato dell’at- tività pratica? — L'attività teoretica poi è uno dei tratti caratteristici del popolo greco, specialmente dell’ ate- niese. Non esaurirsi per modo nelle necessità della vita giornaliera che non rimanga un po’ di tempo da con- sacrare agli esercizi geniali dello spirito; conservare la padronanza di se anche nelle occupazioni più serie e gravi della città e dello stato, e in ogni caso assicurarsi un ozio tranquillo (7704) per raccogliersi e meditare; sprez- zare le arti serviti e meccaniche perchè tolgono allo spirito la sua libertà e l'umiliano; discutere dei grandi affari dello stato, ma spesso. anche per semplice amore della discussione e per mostrare parola ornata e ingegno pronto e vivace; fare dell’arte un'istituzione che vive nel popolo e per il popolo, e alle rappresentazioni dram- matiche tutto il popolo accorrere, e la lirica cantare fra il suono e la danza, c pendere estasiato dalle labbra dei rapsodi e degli oratori, e i filosofi suoi, rapsodi alla loro maniera, seguire con amore, e ascolne e incoraggiarne le dispute e sentirsene attratto, come da una segreta magìa, a cui l’anima non può resistere, ia 1 Eth. Nic. I, 7; 15. 2 Platon. Phedr. 261 A. ’ DNTI GAETA enne II . ecco ciò che distingue il greco, specialmente il greco d’Atene. E in tutto ciò non è in fondo altra cosa che il pensiero che ama godere di sè stesso, che considera questo godimento come la cosa più liberale e più nobile, che in questa libertà e nobiltà si sente divino. «rXosopodp.ey èvev padaziz, amiamo la sapienza senza mollezza, dice Pericle in Tucidide !; e queste parole sono come la sintesi di quella splendida vita greca che mette in cima a tutto i virili esercizi del pensiero, le gioie profonde dell’arte, e nelle agitazioni della vita pratica e nelle tempeste stesse della guerra aspira al riposo, alla calma serena ec feconda dello spirito, modeuov uèv sionvas y%pW, acy ori dì Tyorte, % d dvavziia 1 YenTi TV AAIOY Evezev È. VII. Ed orà ognuno avrà potuto notare come un progres- sivo avanzamento nella nozione aristotetica del sommo bene, o della felicità. In basso i beni inferiori, i beni del corpo e di fortuna; in alto il pensiero puro, la virtù dianocetica; a mezzo la vita pratica, la virtù mo-. rale. L'uomo è fra due, fra Dio e il bruto; al di sotto di lui c’ è la regione del bruto, al di sopra la regione di Dio; egli tiene dell’ uno e -dell’ altro. Le esigenze mol- teplici di questa multiforme natura devono TA tutte soddisfatte,. perchè s'abbia il bene umano; ma devono A Csa E . Ro ‘a "o: DR fia ; i ” riferito per intero: ’ Iugaviterv dè Dozer zat 5 gidos, ETspos dv TO5 , . 3 O 0 3) A N 11 e eta x 0N4405, OÙA OÙUGAY ay alòv chv Adovhv © drzpooovs stòsr' 0 pev » . DS va - Na PLS 3, - \ ap mods Tapabov bpidetv dozet, 6 dì 7pùs A00vAY, usi TO psv . . ne e s n ta » , bverdletar, dv d' trauvolon © pds E7sp4 OuiowvTa. oùdete Rada ; 73 2 dv Morro Civ maidlor divorzi î/0y de Blov, “i dopevos to È ; È OS E ole Td madia 65 olov Te puaiota, ovdî yalorw ov ci TY , alc ytotoy, undérore pino Intniiva. mepl TONa Fe cT0vdhv movnozipe) dv val eÌ undenay èruosoo. "Adovny, viov 6p%y, pywnuo- D ’ Lita ER A [ui f yevsty, sidsvai, Tdg dostde tyew. si Ò' 36 dvdeftns EmovTaL FOTOS dova, obdiv dizotper SMolueha yo dv cade nat cl ud yivovra »n_Y n % , e mo aUrtiv Adovn. 244 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ chi non si compiaccia dell’ operare virtuosamente e provi in ciò fatica e dolore!. Ma, più che in altro, l'analogia fra il Kant e Ari- stotele è notevole nella teorica del bene sommo. Il bene sommo per Aristotele sta nel completo svolgimento della natura umana; la felicità è identificata con la eccellenza e la perfezione, che suppone la virtù, la virtù morale propriamente detta e la sapienza. Pel Kant il bene sommo sta pure nell’unione della virtù colla felicità, nell’ accordo della moralità coll'ordine dell’ universo; cioè ancora nel perfetto svolgimento della natura umana, fatta per essere buona e per essere felice. Il regno dei fini, di cui parla il Kant, in cui virtù e felicità s’ accor- dano, in cui le esigenze della legge morale sono per que- st' accordo completamente soddisfatte, è la vita eccellente e felice, di cui parla Aristotele; vita secondo il migliore e il più elevato dei principii che sono nell'uomo; vita che è ad un tempo virtù perfetta e perfetta felicità, il bene sommo in una parola. I due filosofi s'accordano poi anche nell’ammettere che il bene sommo, nella con- dizione in cui l’uomo è, è piuttosto un ideale che una realtà, a cui aspira incessantemente la volontà, ma che i nostri sforzi non riescono mai ad ottenere completamente. i Del resto non si tema che, per la smania dei raf- fronti ad ogni costo, noi vogliamo disconoscere le serie differenze che pur ci sono fra la morale del Kant e la morale d’ Aristotele. Prima di tutto il concetto del dovere pel dovere, anzi lo stesso concetto del dovere; l’esclu- sione totale di ogni elemento egoistico dalla determina zione delle nostre azioni; il più assoluto disinteresse, fondamento unico dell’ operare virtuoso; la purezza {i Eth. Nic. II, 3, 1. \ \ NELL'ETICA D'ARISTOTELE 245 insomma della morale Kantiana, siamo ben lungi dal trovare in Aristotele. | In Aristotele, come già s'è osservato, la felicità s'identifica bensì con la virtù nell’ unico concetto del- l'eccellenza e della perfezione dell'umana natura, anzi la virtù si considera qua e là come desiderabile in se, anche senza la felicità che le va unita; e tuttavia è pur sempre la felicità che tiene il primo posto, tanto che si può riguardare la virtù come un mezzo a conseguire il bene sommo appunto nella felicità. Nel Kant invece virtù c felicità s' uniscono bensì, ma non s' identificano; la virtù è l'elemento primo e fondamentale del bene sommo; la felicità è dipendente da essa e ad essa pro- porzionata; virtù e felicità, secondo il Kant, stanno fra loro nel rapporto di causa ad affetto. E la legge morale che vuole che alla virtù tenga dietro come com- penso la felicità; ma ciò che ha vero valore è la virtù, il bene morale, la volontà buona; è questa il bene supremo !. Ma una differenza anche più sostanziale fra i due filosofi è la seguente. Mentre in Aristotele il nesso tra virtù e felicità è un fatto, poichè queste costituiscono in fondo una medesima cosa, non dandosi alcun genere d'attività, a cui non s'accompagni un piacere corrispon= dente; e perciò, quando la fortuna non sia avversa, l'ideale del sommo bene, se non sempre e totalmente, in parte almeno e di tempo in tempo, agli uomini amici della virtù è possibile attuare quaggiù; nel Kant invece quel nesso, 1 Non bisogna confondere, nella teoria del Kant, il bene sommo col bene supremo. Bene supremo, come risulta dal primo capitolo della:Fondazione è la virtù, il bene morale; bene sommo è invece il . bene che in se li comprende tutti, il bene perfettissimo, che è la somma della virtù e della felicità, Cfr. Cantoni, Emanuele Kant vol. II, p. 172. ber "d . cage foi e. ONT sein Rei ME a SA 246 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ anzichè un fatto, è un diritto; il diritto del bene a un compenso, il diritto della virtù a non essere sacrificio e dolore sempre. Ma un tale diritto, cioè un tal nesso necessario tra la virtù e la felicità, è vano sperare che si attui nella vita presente, sebbene in questa si com- piano le azioni rivolte a tale scopo: le leggi del mondo sensibile e fenomenico vi si oppongono; solo in un mondo noumenico, avrà luogo. Il bene sommo perciò è pel Kant intimamente connesso colla vita futura e con Dio; per Aristotele invece è affatto indipendente e dal- l’una e dall'altro. IX. La legge morale secondo il Kant prescrive | at- tuazione del sommo bene; ma occorre a tale scopo che il primo ed essenziale elemento di esso, che è la moralità, consegua il grado massimo, la santità, che è il pieno e perfetto conformarsi del volere alla legge. Questa perfezione morale assoluta, però, l’uomo non può conseguire in un tempo finito, come la durata di questa vita: essa suppone un progresso continuo e inde- finito; e quindi, nella esistenza della persona morale, una durata egualmente continua e indefinita. Solo a questo patto, al tipo di perfezione, all’ ideale morale, che è la santità, l’uomo potrà indefinitamente accostarsi. La credenza nell’immortalità dell'anima è perciò secondo il Kant, una conseguenza necessaria della legge stessa morale, che ci ordina di aspirare alla perfezione, come allo scopo necessario della ragion pratica. Ma il bene sommo ha due elementi, la virtù mas- sima e la massima felicità. L’immortalità dell'anima rende possibile il primo: come si otterrà il secondo? 0, meglio, come si otterrà che al primo si connetta il se- condo? Questa connessione, quest armonia dei due ele- menti non è possibile che per mezzo di un Essere, che. abbia la potenza di stabilirla, abbia un intendimento morale e sia fornito d'intelligenza e di volontà. Solo questo Essere potrà connettere la natura colla moralità, anzi sottomettere la natura alla moralità. Così la cre- denza in Dio, secondo il Kant, è necessaria; e quando si tolga questa credenza, converrà anche rinunciare alla speranza del sommo bene, che pure la ragione pratica ci presenta come lo scopo necessario della nostra attività e della nostra esistenza. In Aristotele l’esplicamento dell'attività razionale perfetta, la contemplazione pura, in cui sta il bene supremo e la suprema felicità, richiede egualmente i due postulati dell'immortalità e di Dio? } Che Aristotele, nel libro decimo specialmente, parli di Dio e d'immortalità, che inviti l’uomo ad aspirare all'alto, al divino, all’ immortale, oltrepassando per quanto è possibile la condizione umana; che una certa aria di misticismo spiri, per così dire, dal libro decimo, è un fatto che non si può negare. Ma di Dio nel libro decimo si parla come d’ un ideale, a cui si deve mirare di continuo, come dell'Essere che attuando in se la felicità perfetta, che è la pienezza della vita contem- plativa, e avendo in se in grado eminente e perfetto l e- lemento più nobile che si trovi nell'uomo, la ragione, merita perciò che l'uomo si studii d’imitarlo e d’innal- zarsì fino a Lui: non mai però se ne parla come della causa da cui dipenda la felicità, come dell’ Essere che voglia premiare la virtù !. Il Dio d’Aristotele è un Dio metafisico, press'a poco come il vods d’ Anassagora: esso 1 Gfr, Eth, Nic. X, 7; 8-9 e X, 8, 6-8. ATC per Sti ha 248 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ è mero pensiero teoretico mancante di volontà, e privo quindi di una vera e viva personalità; è piuttosto un concetto che una persona. - Dare a Dio gli attributi della persona pare ad Ari- stotele abbassarne la maestà e accostarlo all’ uomo, farne anzi qualche cosa di sostanzialmente identico all’ uomo. E Aristotele respinge risolutamente l' antropomorfismo, che dimentica l'eccellenza della natura divina, e attri- buisce agli dei una vita che non differisce molto dalla nostra !, quasi fosse l’uomo la parte più eccellente dell’ universo. Per paura dell’ antropomorfismo egli non vuole ripetere con Platone che Dio sia l'organizzatore dell’ universo, respingendo come indegne della divinità tutte le imagini che, a rappresentarla, si prendono a prestito dall’operare umano ?; e nella cura gelosa che ha della purezza dell’ intelligenza divina, per poco non le toglie la conoscenza dello stesso universo 8. Certamente la divinità agisce nell'universo e nel- l’uomo; certe disposizioni felici che preparano alla virtù e alla saggezza trovansi in noi per divine cagioni, 0elas aîtias 4: l’ universo tutto quanto si spiega per una intima azione divina”. Ma quest'azione è differente dalle azioni ordinarie; non c'è qui ne opera, nè ope- 1 Metaph. XII, $; Polit. I, 2, 1252b. Eth. Nic. X, $, 7. 5 Metaph. XII, 9. Kzt *j&p ph og%v îvix noelttoy © 0o%v. + Eth. Nic. X, 9, 6. 70 sèv oùv ci giri LI LA n .. » ‘ QUrems Fiv de dz E) vipiv Srrzoyer, DIAZ dix Tivas Veius nitiu mots dis dinboe sdrv- yéow Urdpyer. " b IT. POI O ti $ Metaph. XII, 7, 1072b 14. °Ez towòrne “ae Hora Ò . 0 , odpavbs vel + gia. De Coclo I, 4, 2712 32. ‘O eds 2! nei i IG oUdèv pataiv roroiar. Oecon, I, 3, 13436 26. giro vi mpoWzOv4- pnmar bTd 79d Metoy Snztepov di pbos. Uorsoraeaseronisenazioniivsanasanii nvansuninaaionniseenaeeresione sunsrnarezioneerez a tesneszena near nsanesaraeannasanesanezazeereneeccvarieniesnanivetete ratore, non c'è governo simile a quello che si riscontra fra gli uomini, nulla è qui fatto, nulla conservato !. La cura dell’ universo e delle cose umane, nel senso in cui s'intende comunemente, non può convenire a Dio che non è l’autore delle cose, e che non può occupare di questi oggetti inferiori il suo purissimo pensiero: questa cura importerebbe, se non un turbamento, un cangia- mento e un movimento sicuramente, un passaggio da ciò che non è a ciò che è, un progresso dalla potenza all'atto; il che sarebbe indegno di Dio, che è atto puro e che è immobile. Il rapporto fra Dio e l'universo è . semplicemente un rapporto di finalità; Dio agisce sul- l’universo, perchè è il fine che attira tutto a se, è il primo motore immobile (eros vuvody artyizos). Perciò nessun legame propriamente morale e religioso fra Dio e l’uomo: Dio non è il padre degli uomini come in Platone; non è buono, non è giusto, non assicura alla virtà le ricom- pense future, non infligge al vizio e al delitto i castighi meritati 2; il Dio d’ Aristotele è nelle altezze serene, ma fredde del pensiero. Per verità Aristotele parla della riconoscenza che gli uomini devono ai beneficii divini 3; ma, oltrechè ne parla per incidenza, e come per far meglio comprendere la riconoscenza che i figli devono ai genitori, gli è certo che, nella sua dottrina, la divinità è bensì causa d'ogni bene, e tuttavia non è essa stessa benefica. Parla anche Aristotele d'un onore, d'un omaggio, d'un rispetto ch'egli chiama 7, dovuto alla divinità4; ma anche di | Eth. Nic. X, 8,7. 76 dè Cove (020) 705 Ter TEL dPa0Y= | LA ù uévov, Emi dè uadiav Tod note ni \cimerat TAN Neoplz. 2 Vedi specialmente il Gorgia € la Repubblica di Platone. 3 Eth.-Nic. VIII, 12, 5 4 Eth. Nic. IV, 3; 10; VIIL 9; 55 VII 14, 4i IX, 2, 8. 0/4» arl ente TILNR CTZ LATER RI IR LL i'Rie SOSSIRORE SE RESESTRE TI CS VADO ser COCO PETOSII OLI SISIFI PePSPS Ire tcE te TITSII EVI to reno rai e eva questo parla per incidenza e. alla sfuggita, senza punto curarsi di determinare in che cosa consista. La pietà, sdattaz, di cui troviamo così spesso fatta menzione in Socrate e Platone, non ha alcun posto assegnato in Ari- stotele; e s'egli parla di feste e di sacrificii religiosi che parrebbero come le esteriori manifestazioni di essa, ne parla o a proposito della magnificenza, uey6rpere:z!, 0 a proposito della necessità che il cittadino per tal modo si diverta e riposi; e quindi più propriamente sotto un aspetto dirci estetico od igienico, che sotto un aspetto religioso e morale. Ogni commercio affettuoso fra Dio e l’uomo è perciò interdetto nella dottrina d° Aristotele. In un certo luogo la Nicomachea dichiara esplicitamente che, stante la manifesta e schiacciante superiorità degli dei sugli uomini, non: è possibile amicizia fra i primi e i secondi; la troppa distanza nella virtù, 70) didetapz dpertig, impedisce l’ amicizia *; e la Grande Etica, ripe- tendo e allargando il concetto della Nicomachea, afferma anche più esplicitamente che sarebbe strano che l’uomo dicesse di amare Dio, e che, in ogni caso, Dio non può amare l’uomo 4. E ben vero che | Etica Eudemia di- chiara che l'amicizia che unisce il padre al figlio è quella stessa che unisce Dio agli uomini, wxtpds z2ì vid 20th N, i Eth. Nic. IV, 2, 11. “ 2 Eth. Nic. VIII, 9, 5. Cfr. specialmente le parole: ()votzg Te moroivtes nai mepi adr GUVOdOLE, quà Amovenavtes Tote Veote, nai uicote avarabazio mopilovies vel dove. 3 Eth. Nic. VIII, 7, 4 4 Magn. Mor. II, 11,6. fori Y%9, ds oloviat, giix val pds Nedy val T& %buyz, ob oplòs, ahv 2 siva o) tot Td dvrioietola, dì rebs Vedy ouiz ole dvi onetoa: déyerzt, od’ dios Td grieiv: Zroroy yÀp dv sta St cu quin ev toy Ala, o onix svrzbl4 masev arersezionicnaze:censazezena reno zecepana au lusen sshasesed tas tone onsarasenerprooresasaseraonea tenace cpeseecesessovezievzenivaceosze nt rep 0z0d mods &vporov!, e che la più alta perfezione mo- rale consiste nel servire Dio®; ma è noto quanto Eudemo, questo discepolo d’Aristotele, si sia allontanato dallo spi- rito del maestro, accostandosi per contro a Platone. % In conclusione adunque' «il Dio d’ Aristotele non : è nè l’ autore, nè il signore dell’uomo, nel senso che Lia ‘renda possibili i sentimenti affettuosi; non è legislatore, 3 non giudice, non rinumeratore, non vendicatore. L'uomo sa che lo considera, lo vede al di sopra di tutto in un'alta e serena regione, come il fine che attira tutto, come il modello della vita perfetta e della suprema felicità. Poi ù lo vede presente dappertutto; l’azione e |’ irradiamento D; dell’ intelligenza suprema gli appare come il principio ;9 di tutto; la sua propria intelligenza è ai suoi occhi cosa divina, divinissima, e perciò è in se stesso e come nel suo proprio fondo e nella sua propria essenza ch' egli Rei 3 trova Dio. Ma nè nell’uno, nè nell'altro dei due casi, «“& l’uomo si unisce a Dio con un legame propriamente 0 he: religioso. Egli non trova in Dio la legge della vita; egli i non ha giudice, se non la propria ragione, € il suo fine 33 ed È sembra essere egli medesimo, quantunque in un certo he | —’senso sia quello al di sopra di lui n°. . n 2006 Lasciamo poi che non di rado in Aristotele troviamo È x: i la tendenza a non distinguere Dio ‘dal mondo, a farne | DE ‘anzi una cosa sola; l’immanenza del fine nell'universo è e concetto altrettanto aristotelico quanto è concetto aristo- ‘A telico la trascendenza; sicchè, come osserva |’ Ueberweg, « resta un certo spazio così per un’ interpretazione I Eth. Eudem. VII, 10, $. marpos di zi viod vadth “nmeo Neod pds Hviporov ui TOÙ SÙ TOAGANTOG mods cdv mebovia vat dwg To) gloer dpyovtos Tpds ov Quasi dpyopevovi 2 Eth. Eudem. VII, 15 in fine. 1 106 A RR 3 Ollé- Laprune op. cit. p. 202-203. i ora vi "i ve reti ione 252 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ di preferenza naturalistica e panteistica del sistema aristotelico, come per un’interpretazione favorevole allo spiritualismo e al teismo !.v Il divino dentro il mondo e la natura, pronunciato filosofico, che dovea avere un così ampio svolgimento negli Stoici da informarne tutta la dottrina, non è senza fondamento che si faccia risa- lire fino ad Aristotele. Molto giustamente lo Zeller afferma che la natura nella filosofia aristotelica sì può definire la sfera dell’interna attività finale 2. Quanto all’immortalità dell’anima, alcuno potrebbe credere a prima vista che Aristotele. volesse alludere a questa, quando parlava della via perfetta (Bios Tide), necessaria a formare la felicita perfetta. Ma è evidente che qualora il filosofo avesse voluto veramente intendere per vita perfetta l'immortalità, si sarebbe espresso in modo meno enigmatico, e quel suo concetto avrebbe chiarito ben più che non ha fatto. Noi già abbiamo detto come è da intendere il Rios 7élevos, © ci pare che non sia bisogno di aggiungere altro in proposito. Il problema dell'immortalità non è neanche toccato nella Nicomachea. Vi si accenna per verità una volta là dove è detto che i morti pare debbano interessarsi della sorte dei loro cari, e si fa questione se essi par- tecipino, o no, dei beni o dei mali; ma vi si accenna alla sfuggita, senza dimostrazione o discussione alcuna, e come per fare una concessione alle credenze popolari 4, anzichè per una vera e propria convinzione filosofica 1 Grundriss der Geschichte der Philosophie- Erster Theil- Die aristotelische Naturphilosophie, Sechste Auflage, I, 204. 2 Geschichte der Philosophie der Griechen, Zvveiter Thei I, Zvveite Abtheilung p. 325. Tubinga, 1862. 5 Eth. Nic. I, 11, 1 e 5-6. TIR 1 SARE 4 Cfr. infatti le parole: 7% Sì -6y ITOYOIOY by as vai cv “ x dell'autore; tanto è incerto € irresoluto il linguaggio che questi vi adopera. Del resto l'immortalità non può trovar posto Nel sistema d’ Aristotele. E noto che Aristotele ha fatto distinzione tra intelletto agente, voi: rovnrmds, € intelletto passivo, vovs malnriés, cioè tra un principio che nell'anima umana vivifica e informa, e un altro principio che viene vivificato e informato; è noto anche che il primo dei due egli considera come separato, immisto, immortale, e l’altro fa perire colla vita presente. In quale dei due prin- cipii consiste la personalità umana? Tutte le controversie del Rinascimento a questo proposito, provano che una . risposta decisiva a una tale domanda non si può dare. Ma qualunque potesse essere questa risposta, non sa- rebbe certo favorevole all’immortalità della persona; pe- rocchè, anche dato che la persona umana consistesse nell’intelletto agente, non si potrebbe però da questo arguire la sua immortalità. Colla vita presente si spegne e; NITTO CRE E LETTA lee TI la ricordanza, lo dice esplicitamente Aristotele Lee Ù spenta la ricordanza, a che cosa si riduce l’immorta- A lità dell’ intelletto agente? All’immortalità dir un prin- DI cipio astratto, indeterminato, del principio dell’ intendere 3 in generale, all'immortalità d'un principio che manca hi d’ ogni carattere personale, se è vero che la persona è Si costituita essenzialmente dalla memoria e dalla coscienza. i Manca adunque nella morale, e in genere nella 5 filosofia d’ Aristotele, il concetto dell'immortalità | della “ì persona: sebbene non si possa concludere per questo | che il filosofo abbia voluto negare quest immortalità ; È ? 7A da t è ?aI , v INI ETINTOY dò pèv pindorioby coptaieola May dordoy qui vera nat mots dota Evavtiov. Eth. Nic. I, tr, 1. 4 De Anima III, 5, 4. Vedi per tutta questa questione dell’in- telletto agente e dell'intelletto passivo De Anima III, 4, 5, 0. TR et = pai detti pare dà gno vinte, vr rd pa din 254 LA DOTTRINA DELLA FELICITÀ SERIO TRENI I ciò non si può dire; convien dire piuttosto col Teich- miller ! che intorno al problema egli s'è mostrato dubbioso ed incerto. Tolto alla morale il concetto di un Dio giudice e dell'immortalità, e rinchiuso l’uomo nei limiti della vita presente, si dirà che non si capisce come possa essere effettuabile l'ideale di felicità di cui parla Aristo- tele, in cui nulla dev'essere imperfetto, ovdîv ap drchég ori Tv ic sbdazovizz: si dirà che non-si capisce come possano accordarsi: virtù e godimento, se così spesso vediamo la virtù sofferente; come possa richiedersi quale condizione di felicità una vita perfetta, {sos 7éAe10g, Se questa è abbandonata ai capricci della fortuna: si dirà anche che la felicità aristotelica, abbracciando molti piaceri”. è che non si possono ottenere senza ricchezze, o ottime disposizioni di corpo e d’ ingegno, o nascita illustre Ecc. diventa per ciò stesso un privilegio solo a pochi con- cesso. Tutte queste difficoltà ed altre molte della morale aristotelica comprendiamo perfettamente; ma compren- diamo anche lo Spirito eminentemente positivo e scien- tifico, da cui Aristotele dovea essere indotto a trattare la morale da un punto di vista: puramente umano, lasciando da parte i rapporti che la possono connettere con Dio e l’oltretomba; comprendiamo ch'egli abbia voluto nettamente distinguere le verità della scienza da ciò che è soltanto congetturabile. « Poichè il suo metodo Positivo, osserva il Ferrari ®, non Poteva svelare il segreto della tomba, meglio era tacere sulla sanzione oltre- mondana, anzichè pretendere di dimostrarla con miti e con fantastiche analogie. Per Questa tacita risoluzione ci pare ch'egli abbia meritato una volta di più della 1 Studien zur Geschichte des Begrife, p. 342. 2 L’ Etica di Aristotele riassu nta, discussa ed illustrata, p. 334- “IC VI diri NELL'ETICA D'ARISTOTELE 255 ra scienza, e che in questa via ben fece abbandonando Platone. Certo ei mantenne fede, diremo così, al suo programma, nè dimenticò qui, come non dimenticò altrove, il rigore che un trattato scientifico esige. » Del resto, colla sua dottrina profonda che il piacere è connesso in ogni caso coll’ atto, Aristotele intendeva a dare all’operare virtuoso un premio, che non fosse bisogno ricercare. al di fuori. Certo egli non ha mai detto che la virtù sia premio sufficiente a se stessa; ma la dottrina stoica che ciò proclamava, non è così distante da Aristotele come può sembrare a prima vista. Gli Stoici, per arrivarvi, non hanno fatto che svolgere il concetto Aristotelico della connessione del piacere coll’ atto. Col senso pratico che lo distingueva, Aristotele notava che non si potrebbe chiamare felice, ancora, un virtuoso a cui capitassero sventure quali, ad esempio, capitarono a Priamo 1; ma notava anche che un virtuoso assolutamente infelice non può essere ?. La virtù insomma per lui era un premio, non certo sufficiente, ma premio pur sempre a se stessa. E per ciò il bene umano, td dvbp@rivoy 206, non era necessario ricercare al di non della vita, e aspettare come premio dalla divinità: la vita presente poteva darlo, sebbene non perfettamente. Per tal modo la morale avea in Aristotele un domi- nio proprio, indipendente e dalla mortalità e da Dio medesimo. i Il Kant, quando stabiliva che la legge morale è ob- ‘ bligatoria assolutamente e per se medesima, e non ab- bisogna quindi di nessun principio, neppur di Dio, per valere; quando affermava che la legge e il dovere è il più alto concetto della filosofia pratica, e che il concetto E mibiierm Liste. Cral rt ‘ rio A it gli a pet LAS NE IRE II 4, | ICI sia ‘bo 1 Eth. Nic. I, 9, 11; e I, 10, 12-14. 2 Eth. Nic. I, 10, 9-11, € 13. ENolioiiaoi pescesaieeressiepesenesareeeeseece, A DI iii mt sino 202 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ lo fa oramai senza fatica e quasi senz’ accorgersene. Non basta fare le cose dell’arte, per essere artista, ma bisogna anche farle artisticamente; e così egualmente non basta fare azioni virtuose per essere virtuoso, ma bisogna anche farle virtuosamente!. Ma questo paragone della virtù all’ arte, se qui fa al caso nostro, non si può accettare sotto altri rispetti. Poichè per l’arte non si richiede che l'artista sia disposto in una certa maniera: un’opera d'arte è un’ opera d' arte indipendentemente dalle intenzioni buone o cattive, dalle disposizioni d’ animo di colui che l’ ha fatta; essa ha il pregio in'se medesima, non fuori di sc. Invece non è così della virtù: la virtù è cosa tutta soggettiva; perchè un’ azione sia ad essa conforme, non basta che sia fatta in una certa maniera, non basta che abbia un pregio in se stessa, indipendentemente da colui che l’ha fatta; si richiede per contro che appunto colui che l’ha fatta sia disposto in una certa maniera. Senza questa dispo- sione intrinseca di chi opera, l’azione avrà tutte le apparenze della virtù, arrecherà anche i vantaggi che suole arrecare la virtù, ma non sarà però virtuosa. E la disposione intrinseca di chi opera sta in ciò, che questi conosca l'atto da farsi e'le sue circostanze, che operi preeleggendo o per volontà libera, a fine d’onestà, o preeleggendo l’azione buona per se stessa, e finalmente con fermezza d'animo e costanza ®. Di queste condizioni la prima sola, la conoscenza, ha importanza per l'arte; 1.Eth. Nic. II, 4,12. È . da O) 4‘ . , . CL) 2 Eth. Nic. II, 4, 3. 7% dî «27% %5 dostàe qIOLEYA 00% TI \ . î) N N- ‘x E dizzioz 1 PASIESZA & DINE) dn. , TOS Èyn, dvazios Ti copgiv: moxrienat, dd val è%I di 9 Ù ì 5; 3: NITTO negre ERA Sy SS sÒa » 16 een TIZTTOY TOS E/OV TILTTI, TIOTDI PEY E2I Slòw:, Sam EI , ‘ pZAGE IRE] Dl Ù DINA] , Quae spo nsaoduev0I, AI rossonero: dr abrz, 6 dî colroy uz è Ù ” . DI ‘ bd LA . . Melzio: vl Quesito: Spor rotta. Quello che dice qui - NELL'ETICA D'ARISTOTELE 203 per la virtù invece la prima ha importanza minima, massima per contro le altre!. Come si vede, Aristotele qui, conformemente alla tendenza già notata in principio, cerca nell’ intimità dell’uomo, nel mondo riposto delle intenzioni e degli affetti, la sorgente vera della virtù, Non è all’esteriorità dell’ atto che si deve badare, ma al suo valore interiore, che gli deriva dalle condizioni interiori di chi opera. Nel- l’analisi di queste condizioni interiori Aristotele rimase insuperato. Non diciamo già che prima di lui non si ‘ fosse visto che il valore dell’azione sta principalmente în queste condizioni interiori. Fino in Democrito troviamo via che è il sentimento e non l’azione chie fa buono e cattivo l’uomo, e si richiede che il male non soltanto non si faccia, ma anche non si voglia, e. che il bene si faccia per libera elezione, non per la speranza della ricom- Aristotele, con molta verità, intorno alle condizioni che deve avere l’azione per essere virtuosa, si.risolve in una critica a quanto egli dice in altro luogo. Egli afferma infatti (Eth. Nic. II, 2, $ - 9) che le azioni virtuose che si fanno, dopo acquistato l'abito della virtù, sono eguali a quelle per le quali quest' abito venne formandosi. Ciò non può essere, poichè, se si guardi all’azione per se, indipen- dentemente da chi la fa, certo essa è la stessa, sia prima, sia dopo l'abito; ma non è già la stessa, se la si consideri în riguardo a chi la fa: quella che è fatta prima dell'abito non è fatta con elezione, nè con quelle altre condizioni che deve avere la virtù: quella che è fatta dopo, invece, ha l'elezione e tutte le altre condizioni che le si con- “i | vengono. Cir. il bel commento di Bernardo Segni a questo luogo. i (L° Ethica d' Aristotele, tradotta in lingua vulgare fiorentina et comentata per Bernardo Segni, Firenze, MDL). 1 Eth. Nic. IT, 4, 3. eds dI #d mà doors Eye =d psv SNSLI " pazgoy di ubdiv layer, rà d' KNz 0d putglv DIA TI ni divari. "i ». - C? Ci Urso è4 où TONIAMI TILETEN nd dirzia vai aOpPIVI Fepuviverzi, è in noi, il dolore che a questo stesso atto s' accom 264 2 LA DOTTRINA DELLA VIRTU pensa !: € dai Cinici la virtù non è fatta consistere nel sapere solo, come da Socrate, .ma eziandio nella forza e nell'onestà del volere; e Socrate stesso , e massima- mente Platone, non trascurano le condizioni interiori della virtù, sebbene, riducendo la virtù al sapere, fini- scano in fondo col negare ogni valore alla volontà. Ma prima dello Stagirita indarno si cercherebbe un esame rigoroso € completo di queste condizioni: a lui nulla è sfuggito; principalmente si può considerare un Vero capolavoro lo studio suo intorno all’ appetito e alla volontà, quali condizioni dell’ operare, come vedremo in un altro Saggio. I Poichè, come s'è detto, non è virtuoso se non colui che, essendosi a lungo esercitato ad operare Virtuo= samente, lo fa oramai senza fatica e senza stento, € quasi senz’ accorgersene ; è segno che s'è fatto già l'a- bito alla virtù, il piacere che s' accompagna all'atto virtuoso compiuto, come d'altra parte è segno che il vizio pagna. Così chi s' astiene dai piaceri corporei € di ciò sente piacere, è temperante, intemperante invece chi A prova dolore; ed egualmente chi sopporta cose gravi cd acerbe e ne gode, è forte, chi se ne addolora vile ?. Ecco qui una sentenza d' Aristotele troppo assoluta e che non può essere accettata da Aristotele medesim0: Aristotele infatti ha affermato che è necessario eserci* tarsì ad operare virtuosamente per diventare virtuosi: © È qui afferma che chi prova dolore nel fare le azioni virtuose, è addirittura vizioso! Queste due affermazioni + sono contradditorie. Chi tende e si esercita & diventati 1 2A bi 5 $ \ DS CIRCA ONESTI RIOO TOR - nie T Hoy ne) 10) Nag VOVAZEW, DI 2h uadi BI PPICINA = N69 sr i erov rode =) & 2 ; L STOY Fpos TAV MUOLEAY, DI è 3 dp ooo 2 Eh Nic II, 3; 1. - si NELL'ETICA D'ARISTOTELE 265 PETRI EAAZA NZ A RANE A A FARA ETTI ALATI LETIZIA ANI PAT AT TEN PAT IZ ITA TE PITT ATTENTA rene ravaneniasea serene ssannarizioninuese.Fuvaseriaeeesazsiesecaece virtuoso, non può non provare stenti, fatiche e dolori a seguire la sua via, se pure è vero che la virtù sta essenzialmente nel sacrificio; e dovrebbe essere per questo collocato nel numero dei viziosi ? Aristotele stesso parlando in un certo luogo dell’ èez74g, ossia di colui che fa forza a se stesso per esser buono, e che. per conseguenza opera con fatica e dolore ciò che è proprio della virtù, l’esclude bensì dai virtuosi, ma non lo mette però fra i viziosi; anzi l’approva e gli dà lode, come a quello che naturalmente si dispone a diventare vir- tuoso !. D'altra parte Aristotele considera il vizio come la malvagità scelta e voluta per se stessa, non per altro che possa venirne, come la malvagità passata in abitudine, da cui non sì può più ritrarsi, di cui è im- possibile pentirsi, e che quindi è incurabile ?. Ora come può dirsi aver contratto quest abito proprio colui che opera virtuosamente, è bensì vero con fatica e dolore, ma collo scopo ultimo di diventare virtuoso? La vera dottrina d’ Aristotele è adunque la seguente: è virtuoso colui che gode dell’ azione virtuosa che fa, non è ancora virtuoso chi sente comecchessia dolore a fare un’ azione virtuosa. Contro questa dottrina però, per cui la virtù è la moralità passata in abitudine © connessa col piacere del ! Eth. Nic. VII, 1 specialmente il $ 6. Quello che dicesi dell’è»- uoITEA, SÌ ‘può anche ripetere della z237eptz € di tutte quelle altre disposizioni che non sono virtù, ma che si accostano alla virtù. 2 Eth. Nic. VII, 7, 2. 0 péy iù Urrsphodds diozoy Adtov È . DS NI . IAS DI x 0 3a, va0) brepBoXny vai dik rrooziosawy, dr adrze nai undev dL' Erspoy , ò ci i a a arobrivov, dnbNaetos, [avdyza “Ro TOsTov uh siva persuedt suziv, Gar! dIvlaros' 6 yd0 WieT4uENI 95 intazog i, Cfr. Eth. Nic. VII, 8, 1- 4, luogo importantissimo, perchè parlandoci del divario tra l'intemperant® (&40).407 ) e l’incontinente { gaoxtic), ci parla suo atto costitutivo, si potrebbe osservare che è troppo unilaterale ed esclusiva. Come? non è dunque virtuoso chi, pur avendo a lottare contro l’infinità di ostacoli che oppongono le passioni e gli uomini, riesce a compiere un'azione buona? x E non è virtuoso, perchè appunto ha dovuto lottare, d ha faticato, sofferto anche, nel compiere quell’ azione ? 2 O m' inganno, o appunto la lotta, la fatica, il dolore © affrontato e vinto per amote del bene, costituisce il merito dell’azione e la virtù; che sono tanto maggiori ì quanto è maggiore la lotta, la fatica, il dolore. i Ma Aristotele non vuole ancora chiamare virtuoso F chi, costretto a lottare per fare il bene, è in pericolo Ù di rimaner vinto nella lotta; è virtuoso solo chi, dopo n un'infinità di battaglie sostenute e vinte, è divenuto È tale che, per quante opposizioni gli possano venire, non c'è pericolo che soccomba, le vince con facilità e disin- voltura, esi rimane fermo ed incrollabile nel bene. Bisogna convenirne; è una concezione altissima € nobilissima della virtù; soltanto è lecito domandare, se a questo grado supremo di perfezione possa giungere — l’uomo. E possibile, per quanto ci siamo abituati @ dominare le nostre passioni, ridurle a un tale stato d’impotenza, che non abbiano ad opporsi più al nostro. det desiderio del bene, o ad opporsi così debolmente da a esser vinte colla massima facilità? Ma dato anche fosse I possibile, certo è che, giunti a tanta altezza, non ci È sarebbe più meritò; il merito starebbe tutto nella vita: anteriore di lotta e di battaglia. L'autore della Grande Etica pare abbia vista la anche indirettamente del divario tra il vizio e la disposizione che non = è vizio, e che pure lo prepara e gli s' avvicina; o, in altre parole, Cl | parla del divario tra il vizio morale e il vizio naturale.” Ri VE TT le «dra “ > lo Lara RFGAOI SODA ICI CANI EE PITTI TIRI IT LOD AI LL difficoltà in cui cadeva la dottrina d’ Aristotele, quando introdusse una distinzione tra la virtù che si forma e diventa, c la virtù perfetta; tra la virtù che si può con- siderare come una laboriosa conquista del bene, e la virtù che ne è invece il pacifico possesso; e disse la prima degna di lode (3rxwv:74), perchè, diremmo noi ora, è uno sforzo, e sforzo meritorio; e la seconda degna di rispetto e di venerazione (7u6v 7). L'uomo virtuoso di virtù perfetta s'è come rivestito e penetrato della virtù, ne ha preso la forma, sis #ò ts deerds cyiuz Tae; ma è in possesso d'un bene sovraeminente, divino, 0zìoy, piut- tosto che umano!. di i La dottrina d' Aristotele è adunque, come si diceva, troppo unilaterale ed esclusiva. Virtù non è soltanto questo stato di perfezione suprema, accessibile a ben pochi, in cui l’amore del bene e l’ abitudine al bene è riuscita a soffocare ogni tendenza contraria: virtù è anche lo stato di chi combatte le prave inclinazioni dell'animo per conseguire il bene, e lo consegue, malgrado i mille ostacoli che queste gli oppongono. E appunto il Kant? ripone la virtù nella volontà e nello sforzo di conformarsi al dovere, quindi nella mo- ralità, per così dire, militante; e la distingue dalla santità divina, sola immune da passioni, € impossibile all'uomo. Il quale concetto della virtù non è però incon- A Magn. Mor. I, 2, 1-2. gr: yàg 7ov Zy206y TÙ USI GUIA, ) { . Di Poi q Di =} Ò'imavetd... sù dì ciusoy def PR UU ELI PASTI LI RANA 9 e die AA La LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ to i JI Notisi però che la virtù è bensì medretà, conside- rata in se stessa é ne’ suoi elementi costitutivi, .ma considerata in rispetto al bene, non è wmedretà, ma un estremo, %ag67n Fth. Nic. II, 2, 3-4 èasîvo dI To muoaziolo, 97: TR I [Sg + i % vprazol negras 278 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ lito ario icrierrercreniinntiuirinrinenein certo SEN Mesanuzasiaeoninzenaszanin ata nennr era viso La diritta ragione, applicata alla vita pratica, pro- cede in modo diverso dalla ragione speculativa, applicata alla definizione e alla dimostrazione delle cose mate- matiche. Queste sono oggetti ideali formati per astrazione dalla ragione medesima, e, come tali, semplici, immu- tabili, necessarie. Con, queste, per conseguenza, la ragione tratta, come si tratterebbe, per così dire, con persone di propria conoscenza, senza titubanza, con perfetta sicurezza, con disinvoltura, applicando loro vegole e criterii assoluti, generali, necessari. Le cose reali sono invece di tutt'altra natura, indipendenti dalla ragione, complesse, Mutevoli, contingenti. La sicurezza con cui la ragione tratta gli oggetti ideali, non è adunque più possibile con queste; con queste bisogna procedere con cautela, con riserva, con riguardi d’ogni genere: i criterii assoluti, e le formole precise e determinate, e le regole generali, sarebbero Per queste un non senso. Si potrebbe con una definizione breve e Precisa, o con una serie di ragionamenti, concatenati gli uni agli altri, determinare la natura € le proprietà di un corpo orga- nico? Nessun artificio di ragionamento può divinare la realtà; solo l'esperienza ce la rivela; e siccome non ce la rivela che in PAITE, siccome in fondo c'è sempre qualche SSPettoro qualche lato nascosto dell'immenso poliedro, la lagione, aggiungendosi all'esperienza, per Interpretarla, non può assurgere a concezioni univer- sali certe e decise, rigide e inflessibili. Ciò avviene anche Maggiormente nelle cose plesse e variabili e Mobili delle c LI ei 4 |, TEpL Tor Toxzrov idro. ni PE II ARS e 0051) 5 È Rare PZATOY ) (Nazi FIT 42I ng CADTOtA costei Mevecli det è sirode del To): ' Li - TaoYege =) . TÀ s Dede npaTrOvIZ: 2% mons Tby UO GROTEW, MoTEI 42! îri TRE luomo Ba Li S n SEO, 3 VATOLUATIC Sy nai pula nofepvatiziz. Cfr. Eth, Nic. I, 3. L=. i Ot VE bol. lip” gi i po via CAI Potramaoo ot Pte 1. è «dp Dati ll” Pi gue è di AI als RIIEZII a = - erecsater nd Pa: c* dim : de, ia Sai te ara + rasta Corale È PO a sE % NELL’ETICA D'ARISTOTELE ‘ 279 conseguenza tanto meno atte ad éssere conosciute e giudicate con esatezza.!, Si potrebbe anche aggiungere che, essendo |’ Etica in Aristotele dipendente dalla Politica, e non avendo. l'individuo valore per se, ma in quanto vive nello Stato e per lo Stato, non spetta all'individuo stesso provvedere alla propria moralità, e stabilire dei pre- cetti generali intorno al modo in cui dovrà agire: è lo Stato che pensa a lui colle sue leggi, con l’ istruzione e l'educazione che sono in sua mano, colla sua prudenza impersonale. La prudenza e la politica sono un medesimo abito, io dì uzi 4 olerizà 220 dA Copovnore i abrh FATA osserva in un certo luogo Aristotele *: il che vuol dire in fondo che non c'è una prudenza individuale separata dalla prudenza pubblica, e che sebbene d’ ordinario non si estenda l’ idea di prudenza che all’ operare per rapporto agli individui, non può l'individuo conoscere il suo maggior bene senza prendere in considerazione la sua famiglia e la sua città #. A che dunque ‘dovrà la Morale determinare con precisione i precetti morali, se questo mon è compito suo ? ‘ Non bisogna poi dimenticare che il tipo dell’ operare c' è in fondo in ogni uomo, se è vero che ogni uomo ha la ragione: la ragione è l'ideale, a cui si tratta di con- formare le nostre azioni; nella ragione è il primo germe della virtù. Secondo l’ uso che faremo di questo germe e lo svolgimento che gli daremo, saremo uomini più I Eth. Nic. V, 10, 7. 70d Y%g doglato» dbp1otos 243 6 RAINON iam, @onep na Tic Acoptas ginodovtis è porbdrvos IVO! Teos và ò cyhpa coÙ Nilo pertanto: 4ab 00 eva 9 ION, uri cò Vioraua mpds 7% TpX{ATA. 2 Eth. Nic. VI, 8, 1. a Eh. Nic. VI, $, 3. 250 LA DOTTRINA DELLA VIRIÙ o meno, chiaroveggenti o ciechi, sani o ammalati, buoni o cattivi. L'uomo buono è colui che attua perfettamente in se stesso l’ideale della ragione; perciò è il miglior giudice in fatto di morale, e per se e per gli altri: egli 5a sa discernere l’ apparenza dalla realtà, il vero dal falso sp egli è la misura dell’operare, chè in ciascuna cosa è misura la virtù e chi è buono °. L'uomo buono ha un sentimento giusto, fine, delicato di ciò che è buono e di ciò che non è tale, come il musico ha un fine senti- «G . Mento dci canti, e si compiace dei buoni, è disgustato n: dei cattivi 8. Può darsi che altri si compiaccia di ciò che è male, o si astenga, per paura del dolore, dal bello 5, ma nell’ uomo buono sentimento e ragione _ S'accordano; egli si compiace del bene come s’ addolore del male; il piacere dell’uomo buono è piacere vero ‘. | Eth. Nic. III, 4 4-35. c: N " E , . ns n GTROVdIA: 2% 44977. voive: dolo. . » . LI ci . ‘ % e r fi : i su ev enzoroe Anbis adrù puiverzi.... zi de » o Ni “-}| x x i CAL, ‘ 1705 9 STINO 36 AO èv ERIGTORS Dodv, ansi 4AVOY ei Fay i È 08081 Tistoroy . n . Ù au i SA + Eth. Nic. X, 5, 10. Tz d2 TUÙTO | GRUUÀZIA) ) dura, co cio ì ? RENI x da n f 1) oÀ LE B. pulveTai “idéz, oùdèv Iauzariv: TO)}%} Yo pliocai val ina: x i "| di I CANPIOAIONI ovini. i CA . ‘ Nic. Igt Aa av VUTAV TY 22% dneyouebz. G FK î lare po SIN “ Ta) Eth. Nic. I, S, 10-13. 7oî Me. messo innanzi da lui come un esempio atto a spiegare î. in qual modo deva la retta ragione regolare le azioni. fi Poichè in morale non c'è niente di stabile e di fisso, | EA e la trattazione di essa è per ciò stesso vaga ed incerta, x Aristotele si propone di venirle in aiuto, cercando d' in- È dicare in maniera facile e popolare come deva |’ uomo - comportarsi per operare rettamente®. © — > Ma in seguito il giusto mezzo non è più un esempio Lic che serva a spiegare il precetto dell’operare secondo | retta ragione: diventa anzi una vera © propra dottrina, che Aristotele cerca di stabilire e di provare scientifi- camente nel capitolo VI del libro II; a cui conforma la classificazione delle virtù nel capitolo VII dello stesso libro; su cui insiste e a cui torna ripetutamente nei due ultimi capitoli VIN e IX. pote i Del resto la medietà non è che la misura, la misura che la ragione impone alle passioni e alle: azioni, La RATTO IA i rà BEATIOTA TAOARANEÌ. I Eth. Nic. I, 13, 15 bplos vd 4Iù ET i i parole det Yeg 2 Cfr. Eth. Nic. II, 2, 1-7. Nota specialmente le . ORO e ENCIO KLLAR Srdo TOY dany Fois garzone anto 40% DI . 1 ì : de " "© re n i re daga? a i act e x 282 Ò LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ medietà d’ Aristotele è perciò in fondo la stessa cosa che la metriopatia di Platone. La retta ragione compie per Aristotele lo stesso ufficio che il #52, 0 il limite per Platone nel Filedo : V infinito, 4rexov, di Platone è da trovare, per Aristotele, nelle diverse funzioni della vita; nel piacere e nel dolore che sono gli stimoli che servono a conservarla c a propagarla come vita naturale; nelle relazioni della vita comune, negli onori, nelle azioni, negli uffici pubblici, nelle passioni in generale, ira, timore, coraggio ccc.!. Così i due grandi filosofi hanno fatto tesoro in mo- rale di quel precetto che costituisce come il fondo della vita comune del loro popolo, «ne quid nimis». Il senso della misura e dell'armonia è la caratteristica del popolo greco in tutte le molteplici manifestazioni del suo spirito, ed è il segreto per cui ha potuto arrivare a tanta altezza nella storia del miondo. Platone e Aristotele si son fatti in morale gl’interpreti del loro popolo. Già anche altri prima di loro aveano accennato a una simile dottrina. Focilide avea cantato che «la mode- razione è ciò che v ha di meglio; che la condizione media è la più felice» ?: Democrito avea detto che «il meglio è di serbar sempre la giusta misura; che troppo e troppo poco sono male » 3; ei Pitagorici, con non diverso intendimento, aveano fatto consistere nel dezer- minato il bene, nell’indeterminato il male; il che Ari- stotele approva altamente, aggiungendo, a guisa di commento, che in realtà l'errore è multiforme e il è 1 Cfr. Eth. Nic. 11, 7, dove si tratta delle varie virtù e se ne indica la materia. 2 Bergk, framm. 12. 3 Euscb. Praep. Evang. XIV. 27,3. Si ricordi anche il consiglio ? . . ” , ‘ . DA n) di Democrito 1eroroaTi FEsyuoe 4% bio Cappereta. cammino diritto uno solo, sicchè quanto virtù, altrettanto è facile il vizio !. Ma nessuno al pari di Platone, di Aristole, clevò a sistema questi massime sparse: qua e là, ed erompenti, per così dire, dal cuore stesso del popolo. Ogni moralista accoglie di necessità una materia in gran parte data; ma è lavoro creativo ed originale il dare a quella materia un fonda- mento più stabile e sicuro. Già abbiamo accennato al carattere eminentemente estetico della Morale d' Aristotele?: la medietà, in cui consiste la virtù, ne è ‘un’ altra prova. La medietà è in fondo nient altro che ordine, misura, determinazione #; e queste sono qualità proprie del bello. Aristotele, benchè ‘non Ateniese, ha veramente quel- L'amore del bello con sobrietà e con misura, colla chiaroveggenza, che viene da un intelletto nemico d'ogni eccesso, che Tucidide, per bocca di Pericle, dice essere il carattere dei Greci d’ Atene, gu)ézz142 UST sdredetag 1 Ma forsechè la virtù aristotelica ha solamente un valore estetico, € le manca quel non so che di più pro- fondo e più intimo, di più veramente morale, che è proprio della virtù? Ecco una questione grave che dev'essere risoluta. fa Se si passassero in rassegna tutte le espressioni che Aristotele adopera per indicare l'atto moralmente buono, si vedrebbe quanto siano in gran numero le seguenti: è difficile la e più specialmente precetti e queste 14. Cfr. anche Eth. Nic. 11, 9. 2 € 7. | Eth. Nic. II; 6; Dig «La dottrina della felicita nell’ Etica Nico- 2 Vedi il Saggio machea di Aristotele » P: 218-219: een i ) O NI rs vat ig gie AZ Te 4 5 Eth. Nic. II, 6, 11. T9 Òì bre uu co 945 pds 11590) Discorso di Pericle. XL Soy "on emette voetht s- 32 N} = LX FALGTON, naso EGR The dott. ni vena naù © de, TE vat ole a 41 Thucyd. II, 44; airrrpentini eee een eee ei n; gn arr © 294 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ 2} 20h, di nIIà TUE, 11100 ivenz, Òid Td 22.0V, Teo: cò sai, AIN Tidog This aperte, poca 22.65, e simili, tutte indicanti che buono ‘e bello sono la medesima cosa € che il valore della moralità sta in fondo nella sua bel- lezza. Ma accanto a queste espressioni, ce ne sono delle altre, che, sebbene non in così gran numero, sono però non meno degne di considerazione e di studio. Aristotele infatti dice, ad esempio, che il temperante ariiypeò ©v dei el ds der, z2ì 672; che non è liberale chi dona vîc uh Sex ®, o prende per donare G0ey pù det 3; ma invece chi dona vis det ei dre 4, e prende per donare i0ev der 5; che per la virtù morale è cosa di altissimo momento ò yzio3ty ois dei zzi unsziv % St 9; che quando alcuno per una violenza a cui non si possa resistere, compia cose % wi di, è degno di compatimento; ma però bisogna resistere più che si può, non lasciarsi costringere a certe cose, îviz d tas olz tatuw ivzyazalava:, piuttosto morire, %}}% pX}%ov drolvatiov, € morire dopo aver sofferto gli estremi tormenti, aalliviz 7% damorzzz, *. Altrove poi, volendo determinare quasi il carattere principale dell’azione malvagia, dice che consiste nello scegliere per malvagità 00, % dz, pur conoscendo ciò che è meglio, %uewov 8. 1 Eh. Nic. IIS, 12, 4. 2 Eth. Nic. IV, 1, 12. 5 Eth. Nic, IV, 1, 15. + Eth. Nic. IV, 1, 17. 3 Eh. Nic. IV, 1, 17. 6 Eth. Nic. X, 1 I 7 Eth. Nic. III, 1, 7-8. 8 Eth. Nic. II, 2, 14. Dozodat, Fe 0dy, di abrot roomipriolai e dorata. nai doldew, dI nor doti yer Femor did vasta NELL'ETICA D' ARISTOTELE 285 Qual è il valore che si deve attribuire qui alla parola der, e alle altre equivalenti, où îo7w, gravato? Accen- nano esse al dovere, all’ obbligazione nel senso Kantiano, o anche semplicemente stoico della parola? Siamo qui dinanzi a quella necessità interiore, @ quella coazione d’indole specialissima,. che è penetrata nella coscienza per opera, in particolar modo, del Cristianesimo? Certo, dar significa st deve; MA qui mi pare sia- piut- tosto un si deve di convenienza, di opportunità, di ordine; di armonia, un si deve estetico, per chiamarlo così, che un vero € proprio si deve morale. Ciò che si deve fare, per Aristotele, è ciò che è dello fare: ci sono certe cose che si deve temere € che è dello remere, vin ydig vai dei gopztata va v).61%; per esser liberali davvero bisogna donare a chi.si deve, quando si deve’, e dove è bello, dedivar dis Sa al ire, nad 0Ò 4210) 2; sî deve esser valorosi non per necessità, ma perchè è cosa bella, dzt ÒÙ où di dvegziav deri siva. Dai e Seni da ha un significato diverso, e più profondo e più intimo, certo è che Aristotele non s'è curato mai di determinarlo; anzi quando nei Topici * ‘ha messo New fra le parole che si adoperano in diversi significati, 79)12/05 IEYOUEYZ. ne ha accennato due solamente, quello di utile e quello di bello, civ sì 76 Òiov tori 70 Guugspo dd IZZO D'altra parte ciò che si deve fare è prescritto dalla ragione; e le parole che Aristotele adopera per indicare queste prescrizioni della ragione sono: 9ì095 FR ù 2oryoac plles, è 2byas mpua Tiara: Ora che valore hanno DEE parole? Indicano forse un comando espresso, che ObDUB ui ' Eth. Nic. III, 6. 3: 2 Eth. Nic. IV, 1. 17. 5 Eth. Nic. II, 8, 5: > +11;3,4- agtonnal, > pr E UT IE e ti al pei 286 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ la volontà, un qualche cosa di simile all’ imperativo categorico del Kant? C'è in queste parole quel che di profondo e di intimo, quel che di propriamente morale, che indarno s'è cercato nel det? Per vedervi tutto ciò bisognerebbe snaturare e falsare Aristotele. La diritta ragione, osserva con molta acutezza Ollè Laprune, ordina bensì, 7477, ma si potrebbe dire che « ha meno per ufficio di dare degli ordini che di mettere ordine. Essa ordina meno all’ uomo questo o quello, che non ordini l’uomo; non jubet, si potrebbe dire in latino, sed ordinat. Anche quando. prescrive un’ azione, x606- 242721, CSsa prescrive piuttosto un bell’ ordine, una bella disposizione dell'anima e della vita, che non enunci un articolo di legge. La forma che dà ‘è estelica piuttosto che legale. Essa ordina lo spirito, il sentimento, asse- gnando a ciascuna cosa il suo posto, determinando così fa condotta, molto meno analoga in questo a una legge che comanda, che a un principio intimo d’armonia. E regolatrice, senz’ essere propriamente imperativa » ?. Si potrebbe aggiungere che non una volta sola troviamo nella Nicomachea l’ espressione 5 Ioya: nededar, la ragione comanda, che certamente non mancherebbe, qualora alla ragione Aristotele assegnasse un Vial diverso da quello di semplicemente dar ordine ed armo- nia all'uomo e alle azioni sue * 1 Op. cit. p. 86. 2 Nell’ Eudemia però (II, 3 2) noi troviamo l° espressione Ò ros ne)evet, la ragione comanda [av 2XGL dì Td IÉGay o) mode uz Remorav 70570 vyda Sor e rota ve)aber vat 6 Idyos È ma, osserva Ollé-Laprune (op. cit. p. 86), non certamente con signi- ficazione kantiana, bensì con valore analogo a quello della frase della Nicomachea (VI. 1. 2.) Sca 4 tarerzì ve)eber. - In ogni caso non bisogna dimenticare che l’ Eudemia non è opera d' Aristotele. NELL ETICA D' ARISTOTELE 287 Il dovere adunque, chiamiamolo pure con questo nome, e la regola dell’operare hanno in Aristotele sopra- tutto un valore estetico; e tion poteva essere diversa- mente, quando si pensi che manca in lui anche la coscienza morale. La coscienza morale ? potrà qui ‘osservare qualche- duno; ma come può mancare la coscienza morale in otte se troviamo in lui un'analisi così profonda del voloziario e dell’ involontario, se la ragion pratica vi è considerata come la misura e il giudice del bene, se il sentimento di piacere che si aggiunge all’ azione compita, è preso come criterio e indizio dell’ abito virtuoso formato, se è richiesto che il bene si operi per se stesso, e con fermezza d'animo e costanza, se insomma si tiene un così gran conto di tutti gli elementi interni, e, chiamiamoli così, intenzionali dell'atto? E la parola coscienza, cuvzidas, che manca in lui, non la cosa; e noi dobbiamo tener conto delle cose, non delle parole. La coscienza morale non è in fondo altro che la legge morale considerata subbiettivamente, cioè la legge in quanto è giudicata, conosciuta, interpretata, applicata dall’agente morale: ora non altra cosa è quella che Aristotele chiama retta ragione, 3500: %6yo; La retta ragione è come l'ideale dell’ operare; ciascuno porta con sè questo ideale, e chi vi si conforma perfettamente è, per così dire, la personificazione della coscienza morale. Certo che in Aristotele c'è qualche cosa che fa pensare alla coscienza morale, che anzi, a prima vista, potrebbe confondersi con essa; ma o c' inganniamo, o) la vera e propria coscienza morale manca in lui, 0 almeno mancano in lui alcuni dei caratteri proprii e distintivi di essa. ; Coscienza morale non è infatti soltanto la legge morale giudicata, conosciuta, interpretata e applicata 298 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ una specie di giudice interno un processo intorno ai nostri un giudice che ci loda dall’ agente morale; è anche che istruisce, per così dire, atti e pronuncia una sentenza; È o ci biasima, ci premia o ci castiga, e traduce in una soddisfazione ineffabile la lode ed il premio, in un tormento d' inferno il biasimo e il castigo. Fa altrettanto la retta ragione in Aristotele? La retta ragione giudica anch'essa, ma giudica alla maniera d’un artista: essa decide che cosa si deve fare per raggiungere l’ ideale, e vede poi se l'ideale è attuato nelle azioni e fino a che punto; ma l'approvazione 0 la disapprovazione che dà, il sentimento che suscita di piacere o di dolore, perchè l'ideale è attuato o non è, assomigliano molto più a quell’approvazione 0 disapprovazione, 4 quel sentimento di soddisfazione o di disgusto che dà e: prova un artista dinanzi a un’ opera d’arte, dinanzi all armonia o disarmonia delle sue parti e del tutto, che a un’approvazione 0 disapprovazione, a una soddisfa zione.o a un disgusto d’ indole propriamente morale. Fu già osservato! che il bene si distingue dal dello massimamente per questo, che nel bello l'oggetto del giudizio è estraneo e più o meno indifferente all’ uom0, come sono i colori, i suoni, le parole ecc.; nel bene invece è la volontà propria dell’uomo, cioè l’uomo | [N x stesso. -In Aristotele l'oggetto del giudizio morale È bensì l’uomo, la volontà sua, e perciò non è certo. estraneo e indifferente all'uomo stesso; ma è d'ordi- nario così sereno il giudizio che la retta ragione Ne pronuncia, si addentrano così poco nell’ intimo: del- l'uomo l’approvazione o la disapprovazione, il piacere o il disgusto che ne sono -la conseguenza, che parrebbe SES l’uomo non fosse in gioco in quel giudizio; dI l 3 Lindner, Lelrbuch der Psycologie al cap. dei sentimenti morali: o almeno fosse in qualche modo estraneo a se stesso, Insomma la coscienza morale in Aristotele,-se pure si vuole chiamare con questo nome la retta ragione, manca di quel che di intimo e profondo, che ne è il ; carattere distintivo principale, sta, per così dire, alla È superficie dello spirito, non ne ricerca le intime fibre, 5 e non conosce quindi nè gioie austere solenni pel bene TM compiuto, nè rimorsi dilaniuni pel bene violato. In o nessun luogo -d’ Aristotele troviamo qualche cosa che © pi possa paragonarsi a ciò che noi diciamo rimorso, come Sa in nessun luogo troviamo quella che noi econo pace «e tranquillità della coscienza 1; l’ idea che Aristotele si - SO È fa della responsabilità interiore, dice anche qui Ollè La | Laprune, è piuttosto estetica che morale ?. : SUE È Per quanto s'è detto adunque è proprio vero che TS la virtù in Aristotele ha un valore e una significazione x estetica assai più che morale. » A non diversa conclusione si può arrivare esami- |. mando il concetto che Aristotele si fa della malvagità e È del vizio. s Nel capitolo 8 del libro V_ Aristotele determina netta- ; È mente le condizioni della malvagità. Non si dà il nome” di malvagità a un malanno che capiti inopinatamente, ma02)6f 05; questo si direbbe piuttosto infortunio, &76yagz; non si parla di malvagità neanche quando un danno. recato ad altri è bensì conosciuto da noi e noi ne siamo | 4 Per verità in un certo luogo (Eth. Nic. IX 4, 8-9) è detto che i malvagi odiano e fuggono se stessi ‘e la vita, e si uccidono; il che, farebbe supporre che nei malvagi fosse vero e proprio rimorso. Mao c’ inganniamo, o qui è più che altro l'interna disarmonia e l'in- terno squilibrio, e quindi ancora un qualche cosa di contrario. alla La Le, la causa dell’ odio alla vità e del suigdio: EI i Op. cit. p. 99: ; Tata _ (G. ZUCCANTE SIR EESO NIC Del Fainivissisceteiesrecorssisvossaogiessapesareneone ivo iovopivoiocenserrenescepnescernnia iii la causa; ma manca da parte nostra il proposito deli- berato di nuocere, manca la malizia; ciò si direbbe piut- tosto errore, dudoTapz. La malvagità esiste quando si fa ‘danno con intenzione, col proposito veramente di farlo I IAIIION| ada; allora l’uomo dix uoyBngizvh Piaba , È4 è veramante &dtog; rovnpos, moy0npos |. Conveniamo che un'analisi più proionda delta malvagità non si poteva dare, nè si poteva meglio mettere in rilievo la parte che nella malvagità si deve assegnare al volere. Ma in che consiste in ultimo questa malvagità, questa xzziz, questa uoybnpiz, chè tali sono specialmente le parole che per Ari- stotele denotano la malvagità? L'anima dei malvagi è ) in discordia con se stessa, eruci4ler 2dràv + dz, è detto nel ] capitolo 4 del libro IX, e una parte s'addolora per astenersi da certe cose, e un’ altra s' allieta, e una parte qua li trascina e un'altra là, come lacerandoli e dila- niandoli ?. È il disordine adunque e l'anarchia interiore il carattere principale del male morale; è la deformità, la bruttezza che da questo disordine e da quest'anarchia ! Riferiamo l’importantissimo luogo: &7xv év ody TILLIOOG I DION Yet, arbg apo, dTav dI uh T46AA6YO legge positiva: alle sue formole brevi, inesatte pel loro rigore medesimo, bisogna sostituire, nella pratica, il libero e delicato apprezzamento dei fatti, delle circo- - tanze, dei rapporti, senza il quale la morale è una scienza vuota e falsa, e la legge può condurre a delle vere ingiustizie. La giustizia sociale dev’ essere corretta dalla giustizia naturale, che con quella deve costituire come un solo tutto. Ma la giustizia naturale, l'equità, l'imeize, non ha la sua applicazione che alla giustizia determinata dalle leggi positive? : Il concetto dell'equità è in Aristotele troppo ristretto. Non soltanto essa corregge le leggi in ciò che queste possono avere di difettoso; non soltanto fa che queste s'interpretino con criterii larghi e benigni, e non sì pren- dano dal lato peggiore (srì ò yeèsov), anzi si sminuiscano (zero) nelle loro applicazioni!; non soltanto insomma si estende a quella parte dell’ umana attività che è rego- lata dalla legge; ma comprende ogni genere di rapporti che si possono stabilire fra gli uomini, si estende a tutta la sfera dell’ umana attività. Si potrebbe dire che ne sia espressione la formola: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso, » formola larga e comprensiva, suscettibile di essere applicata a tutto e a tutti, e non soltanto ai casi determinati dalle leggi. : > tele] . «_» Non daremo ora che un cenno della giustizia pro- - priamente detta, É noto con quanta profondità e verità | Aristotele abbia trattato questa questione. La dottrina : x x $ lr tata i È, LI dove leggiamo: Zori dI èmuerzis TO TAPR TOY YEYPHLUEVOV VODOY YA DIZZLOV. i ; «R eRENTO NE , 22 1 Eth. Nic. V, 11.80 WN dapiBodizzios èm TÒ % % , Co eipov KAÀ EXaa- Dari x ‘ ARE corinbe, nalmeo Syoy dv vop.ov Bonfov, smueuzig Soru. » 4 della giustizia è, con quella dell'amicizia, la parte più bella e perfetta dell’ Etica Nicomachea. La giustizia, in un senso larghissimo, è abito di conformare le proprie azioni alle leggi; ©, siccome le. leggi comandano ogni specie di virtù, essa è la riunione di tutte le’ virtù, sta nell'esercizio di queste con rela-. zione agli altri uomini, è il bene altrui, cò dMMorgrov &y200v, p come dice con frase energica Aristotele !. Ma oltre questo significato generale e troppo largo e indeterminato, la giustizia ne ha un altro, più particolare, più ristretto e preciso. Lagiustizia è sovratutto eguaglianza, e siccome l'egua- glianza può aver luogo nella distribuzione dei beni e degli onori, oppure nelle transazioni e negli scambi, nella riparazione delle ingiurie, nella compensazione dei danni, abbiamo due specie digiustizia, la distributiva (qò èv es dravoads Sizaroy), e la correttiva o compensativa (è èv T-1:-20000 cova pani dopdriziv) ®. Tanto la prima quanto la 4 Eth. Nic. V, 1. 12-17. Vedi specialmente queste parole del $:17 uri ceto dzioy Dozet siva dizioni uova Tav dpETOY, dui Tpòs Etepov totlv. i 3: zi 2 Eth. Nic. V, 2. 12 775 dì zatà pipos dizzionovag vel zoù nur mothv duzziov &v per èomw cidos 7ò èv als dzvonale cure 7 yPuuaToy ) s0v ov do peprotà To LOMavoval'AGiGi moliretzg ( èv Tolto Yip for el dvicoy Eye nat nov ETEpov Eripov), Ev dì 7ò èv 70 avvale pari Sropeziziv. A torto si chiamò dai più giustizia commutativa quella che Aristotele chiama — ‘correttiva, T6Ò Sroplworzdy dizzioy, perocchè la giustizia correttiva non si riferisce soltanto ai contratti, alle permute quali le intendiamo ‘noi, come compere, vendite, prestiti, garanzie, locazioni, depositi, — mercedi; ma abbraccia anche moltissimi altri casì di rapporti e di ‘scambi tra gli uomini, come furti, adulterii, false testimonianze, vi neficii, uccisioni ecc. La parola Guvdlik para, che Aristotele adope na È sorsoneseosezasaniesenoavsa sossascasuzeosseresennevesavvevesavesenconaezesee ceca ezeeni seconda suppone di necessità quattro termini, due persone e due cose. Ogni scambio e ogni distribuzione non può infatti avvenire che fra due o più persone, e le cose distri- buite o scambiate devono essere almeno due. Ma mentre nella giustizia distributiva si richiede che il merito d’un uomo stia alla porzione di benè che gli è dovuta, come il merito d’un altro uomo alla porzione di bene che gli è ‘ egualmente dovuta, sicchè non basta determinare il rapporto delle cose, ma bisogna anche combinarlo col rapporto delle persone, € si ha perciò una vera € propria proporzione geometrica, che si potrebbe rappresentare colla formola A: B::G: D:1; invece nella giustizia cor- rettiva non ci sono da comparare e, bilanciare che le cose scambiate, indipendentemente dalle persone. Qualunque siano i contraenti, qualunque sia il loro carattere, la. loro condizione, la loro fortuna, il loro merito, essi non entrano punto nella determinazione della quantità scambiata. La giustizia in questo caso sta nella perfetta eguaglianza delle due cose che si scambiano; quanto altri dà, altrettanto deve ricevere in contraccambio. E ciò avviene anche nell'altro caso della giustizia nel caso cioè che si tratti di riparazione di danni. L’ingiuria dev'essere come due; dev'essere correttiva, di ingiurie, di compensazione è come due, e la riparazione ‘1 danno è come dieci, e la compensazione per indicare tutte queste cose, si traduce male e troppo restrittivamente | con contratti 0 commutazioni; sì ‘relazioni, indeterminatamente. (Cfr. stizia commutativa in senso stretto, di quella giu nelle vendite, nei contratti ec luogo nelle compere, nel cap. 5 del libro V $$ 8-18; ma questa è parte. e non tutta la correttiva. 1 Eth. Nic. V, 3, specialmente 1 98 5-15: Eth. Nic. V, 1. 13). Della giu- stizia cioè che ha c.) Aristotele parla della correttiva, . ì We tradurrebbe meglio con rapporti, - come dieci, indipendentemente da ogni considerazione di persona; la legge guarda solo alla differenza del danno, trattando i colpevoli alla stessa stregua, come eguali (pds 700 fMdfovs 7hv dzgopdv povov PISTE Ò vopnos và yofitat ds too1s). Il giudice ha il compito di pareggiare le partite; egli è come la giustizia personificata, ed opera come chi, delle due parti disuguali in cui fu tagliata una linea, tolga alla maggiore quello che avanza per aggiun- gerlo alla minore; solo allora gl’interessati dicono d'avere quello che loro spetta,, xò 25708: infliggendo la pena, il giudice annulla il vantaggio che l’offensore ha sull’offeso!. Aristotele ha cercato di tradurre in linguaggio mate- matico anche la giustizia correlliva, rappresentandola con una proporzione aritmetica continua. Ma è difficile comprendere, osserva molto giustamente lo Ianet®, come sì possa costruire una proporzione con un solo rapporto; il rapporto di eguaglianza perfetta fra la perdita e il guadagno. Aristotele qui pecca per soverchio rigore € sottigliezza; egli avea ben detto nel principio della Nico- machea che non bisogna pretendere dalla morale |’ esat- tezza della matematica ?. ‘Del resto Aristotele limita esclusivamente la giustizia i ‘alla vita sociale; la giustizia è la virtù sociale per eccellenza; non si parla di giustizia che fra liberi e ‘eguali che hanno comunità di vita; per quelli che non. ‘hanno queste qualità non ci può essere giustizia che in un certo senso. La giustizia non v'ha che per quelli per i 1 Vedi per tutto questo Eth. Nic. V, 4. Si può aggiungere Eth. Nic. V, 5, 8-18 per quella parte della giustizia correttiva che riguarda le vendite, le compere, i contratti ecc. 2 Histoire de la Science politique dans ses rapports avec la cui v'ha la legge, e legge non v'ha là dove non può essere ingiustizia !. Perciò se si parla di una giustizia del padrone verso lo schiavo, 0 del padre verso i figli, se ne parla soltanto per analogia; lo schiavo e il figlio (quest'ultimo finchè non sia d’una certa età. e non sia separato dal padre), sono proprietà dell’uomo, sono come una parte di lui stesso, &o7sp {épos 2709; € Verso le cose proprie, verso se stesso, assolutamente parlando, non si dà ingiustizia, e quindi neanche giustizia ?. Più che verso,i figli e gli schiavi, può aver luogo giustizia verso la moglie, sebbene anche questa specie di giustizia famigliare sia ben diversa dalla giustizia sociale ®. Sarebbe facile notare qui quanto, questi concetti che riguardano i rapporti specialmente del padrone collo schia- vo e del padre col figlio, siano erronei, e contrarii a quello spirito di fraternità e d’eguaglianza che già fin d'allora "È incominciava a manifestarsi nel mondo: sarebbe anche sa facile far le maraviglie come mai un filosofo del valore Di di Aristotele si sia indotto a considerare non solo gli schiavi, ma i figli stessi, almeno fino ad una certa età, come una proprietà del capo della famiglia, sicchè anche I Eth. Nic. V, 6. 4. ToDTO (7d TONLTLADY dizzuoy) d tor [eri] 3 Vor N , È tb» A zomaviy Blov reds tò siva abTuozet, evlisoy ze icov © È VITE CAIO CA] È, 203 dprduoy' (ate doors pin èoti modro, ob sor n mobTors TpdG ove Ò mONIZOY dizzioy, GINA TL diano xa. 228) GUoLoTATA. Cotti Ye Òizasoy, ole nat vipos TpdG niTodg VOos w Sèy cis ddutz. È 2 Eth, Nic. V, 6. 8-9 od ag Er dÒrnta mods Td nITOÙ: TOI fg dv È tendizoy nai porsi, a) spetras Bertani dò obz fam , Udi dizzuov Td TONTIZOY. , =D dî xe Auz Vi TO TEZIOY,, . ret ds x SEGNA Ea grad, bro d oUdets T90% uépos 2 È) ELA Yad: obd' dea ddtnoy 0 ° ’ LI ENIVATA Toos x 5 Eth. Nic. Vj È. 9. 4 g atua LMRAER:. bar CAI? _ . scotta e) ULI molitizéig, TEVOY di Bzariz®s): ora il potere regio differisce in questo — le | dal potere dispotico, che il primo mira all'interesse dei sudditi e il condo al suo proprio. Cfr. lanet Histoire de la Science patilique ecc. Si sopra di questi, e non sopra quelli soltanto, egli abbia un potere dispotico, un'autorità assoluta: si potrebbe anche, slargando i limiti della trattazione, mostrare la falsità della dottrina, pure per tanti rispetti importante, con cui Aristotele si prova di giustificare la schiavitù, cercandone il fondamento nella natura, e non nel diritto del più forte e nell'autorità delle convenzioni, come si soleva fare ai suoi tempi?. Ma tutto questo oltrepasse- rebbe lo scopo nostro. A. noi preme soltanto mostrare che la virtù è per Aristotele. sovratutto sociale; e la giustizia negata agli schiavi cd ai figli minori, negata a rigore perfino alla moglie, rinchiusa nei limiti della vita politica e della legge positiva, ne è la prova più sicura. + VII. se” Ed ora in che rapporto, secondo Aristotele, si trova la virtù morale colla natura deli’ uomo? i Aristotele dichiara che i figli sono una proprietà del padre e che verso di loro non si può commettere ingiustizia, non siano che un’iperbole per esprimere l'autorità sovrana e irresponsabile del padre verso i figli. In realtà l'autorità del padre, Aristotele non considera come affatto | Sai | arbitraria, poichè altrove dichiara che è da paragonare a quella d'un. È Lre; non a quella d’un despota ( Polit. I, 1255 b 1 ANIA “puyatzòs uèv. > I. p. 201-202. ; chi Polit. I, 1253- 1260. Cfr: Ianet op. cit. vol. 1 p. 194-199. - |) D'* 1 È da credere però che le parole della Nicomachea con CULT RIT IT ICIIIIITE PESCO II TI TI CCI CI CITI TE LICITA LITI nersrnraze are zesi ve neneenzoniazanaa nen aee ta conaseozizanicnee Aristotele afferma esplicitamente che la virtù s'inge- nera in noi non già per natura, ma per abitudine (4 dî hiizh E 003 sreorfifvetar... obdeu.tz ‘gi zi dostov - qbazi duty èffiprerzt); niente di ciò che è per natura in 43 una data maniera, si potrebbe avvezzare diversamente DI i da quello che la natura sua comporta; la pietra che per na- È A tura va all’ingiù, non si avvezzerebbe ad andare all’insù, si neppure se altri la gettasse in su dieci mille vole per 3 f: _avvezzarvela !. E bensì vero che se la virtù nonè in noi per: | i, è natura, non per questo si può dire che sia contro natura x" (74 qbsw): la natura nostra non si oppone al formarsi e allo svolgersi in noi della virtù morale; noi siamo per natura tali da accoglierla. e da non farle opposizione e resistenza, reguzosi ciutv Bitzolar abtdg apetds >. Per tal modo il mondo morale è per Aristotele non . opposto al mondo naturale, ma diverso da esso; il mondo morale è esclusivamente fattura umana, produzione dello spirito per mezzo della consuetudine. Ma come è nata la consuetudine? com'è sbocciata . la prima operazione da cui la consuetudine si origina? come ha avuto incremento? Alla consuetudine stessa non si può in nessun modo assegnare quella prima ope- razione. Quest obbiezione: si direbbe Aristotele abbia fatto È. a se stesso; e perciò, in un altro luogo, parla di una virtù naturale, guar dp27%4, vale a dire di una disposizione ‘naturale che è come preparazione alla virtà morale, e che si trova con questa in quel rapporto in cui l'abilità natu- ur rale si trova colla prudenza: «A tutti sembra che cia- 2 scun costume si trovi in noi in qualche maniera per , a natura; perocchè subito fin dalla nascita abbiamo la i Eth. Nic. II, 1 $$ 1,2 + 2 Eth. Nic. II, 1. 3. disposizione ad esser giusti e temperanti e forti e alle altre virtù» ?. E bensì vero che questa disposizione non è ancora la virtà, e deve, per diventar tale, esser assog- gettata all'impero della ragione; perocchè « anche nei fanciulli e nelle bestie sono gli abiti naturali; e tuttavia senza la mente sembra che arrechino danno » 2: ma in ogni modo questa disposizione naturale c'è, ed è come il dato, il presupposto della virtù morale; anzi nel mondo morale sono due parti, la virtù naturale, € la virtù morale, tri où iizod dio torw, dò pèv doeth QUeLzin TÒ dA zupla 9, Così il mondo morale che dapprima pareva staccarsi dalla natura e sorgere, se non in contrasto con essa, almeno in un dominio diverso dal suo, in ultimo si riconnette alla natura. L’ affermazione quindi, già accennata, di Aristotele, che la virtù morale non è in noi per natura, ma si acquista coll’uso e coll’esercizio, non si deve prendere nel senso che in noi non ci sia niente d’originario e primitivo, non ci sia un'inclinazione speciale, da cui possa svolgersi la virtù; bensì che la virtù non esista già in noi bell'e data e presupposta in potenza, ma che la dobbiamo far noi operando, che ce la dobbiamo acqui- stare gradatamente, con dolore e fatica, per merito A Eth, Nic. VI, 13. 1. 2 Eth. Nic. VI, 13. 1. ; 5 Eth. Nic. VI, 13. 2. Che alla formazione della virtù morale concorra un elemento naturale, un elemento cioè non fatto, ma dato, lo provano anche i seguenti luoghi, oltre il citato: Eth, Nic, III, 5, 17 dove la buona disposizione naturale è chiamata * 7eActz #2 PIXVISKO eb@uta, Eth. Nic. IX, 9. 6, dove i ben disposti da natura alla virtù chiamansi ©9 &iadég edrvyeis ed Eth. Nic. X, 9, 3, dove parlasi ‘d’un’indole ben nata; 5 sbyeves. nostro, pure servendoci a tal uopo di elementi origi- narii Che sono in noì per natura |. È noto in qual conto fosse tenuta nell'antichità quella che si chiama oggidì la trasmissione ereditaria. Pindaro celebrando le lodi d’ Ippoclea tessalo, che avea vinto il premio alla corsa del doppio stadio, risale all’ Eraclide ond’ebbe principio la stirpe di lui, perchè dalla stirpe quegli ritrasse la sua virtù ®: altrove con- trappone la virtù acquistata con la fatica e la cura del singolo cittadino, a quella discesa per li rami, e trova la seconda di molto superiore alla prima 3. Teognide anche più di Pindaro ha chiaro in mente il concetto della virtù della stirpe, forse per l’aspra lotta che ebbe, egli patrizio, a sostenere colla democrazia soverchiante4, Aristotane paragona i vecchi cittadini alle vecchie monete, oro fino, ben suonante, d’ottimo conio, accetto del pari ai Greci ed ai toda e i nuovi alle muove, coniate nella maniera peggiore, d’infimo rame: i primi, di buona stirpe, sono per ciò stesso savi di mente e giusti e per ‘bene; i secondi invece, gente servile, capitata non si sa «donde, cattiva e di cattiva genia °. 1 Ecco come s'esprime a questo proposito lo Zeller, commentando Aristotele: « Die Naturanlage und die Wirkung der natiirlichen Triebe "hingt nicht yon uns ab, die Tugend dagegen ist in unserer Gewalt; jene ist uns angeboren, diese entsteht allmihlich durch Uebung». Philosohie der Griechen, Zwcite Abtheilung p. 485. Tubinga 1862. E altrove p. 483.« Das Vermògen ist uns angeboren, die Tugend und — Schlechtigkeit nicht». 2 Pyih. X. 19 5 Nem. III, 69 e seg. - 4 Theognid. nell'edizione del Welcker, passim. Cfr, i Pr ‘olego. A meni dello stesso Welcker. $ Ranae 718 e seg. Per n È ben vero che altri attribuirono ben poco valore alla stirpe. Così Democrito ha lasciato scritto che molti più diventano buoni per istudio che per natura », ed Epicarmo che lo studio dà più che non la buona natura?: Licofrone poi, un sofista, sostenne addirittura che valore di stirpe è nome vano, e che in niente si distingue chi l'ha da chi non l'ha3. Ma Socrate, pur poco 0 nulla, secondo pare, facendo dipendere dalla stirpe, faceva dipendere molto dalle condizioni fisiche dei genitori 45 e Platone affermava esplicitamente che la disposizione è migliore da natura dove è buona e vecchia la stirpe 5; € raccomandando nella Repubblica che si combinino in una certa maniera i connubii, mostrava di riconoscere che dalla qualità dei genitori dipende la qualità dei figliuoli; la volontà di ciascuno, in tutto o in gran parte, è fatta dalle disposizioni a lui trasmesse dai genitori. Aristotele ha addirittura un libro intorno alla bontà della generazione o della stirpe, Iegi Rùyevetzs, libro perduto, ma di cui ci rimane un estratto in Stobeo. Eùyeveta, egli dice, vuol dire virtù, valore di stirpe, e stirpe di valore è quella in cui persone di valore sogliano generarsi da natura. Ciò avviene quando un principio di valore s'ingeneri nella stirpe, chè «il prin- cipio ha questa potenza, fare molti esseri com' esso è». «Negli uomini come nei cavalli e in ogni altro animale 1 Stob. Floril. XXIX, 60. Ed. Gaisford vol. II, p. 11. 2 Ib. 54 p. 10. 5 Citato da Aristotele nel suo libro mepl Evyevela nell’estratto fattone da Stobeo; ib. LXXXVI, 24 vol. III p. 200. 4 Memorab. IV, 4. 23. Qui Socrate dice che non basta, perchè il figliuolo sia buono, che buono sia il padre; e insiste molto sulle condizioni fisiche dei generanti. 5 Alcib. Maior XVI. 120 D. St stia RI I I ha luogo questo». Eugeni, di buona stirpe, sono n adunque coloro che discendono da buoni ab antico, a È. patto però che ci sia stato nella stirpe alcuno il quale ss AE abbia dato la prima mossa e la mossa duri. Che se ; alcuno nella stirpe, pur buono lui, non ha tal potenza n da generare esseri simili a se, i suoi discendenti non si potrebbero allora chiamare eugeni, di buona stirpe !. Però, osserva Aristotele in altro luogo, «v'ha la messe nelle stirpi degli uomini, come v'ha nei prodotti della terra»; sicchè «quando sia buona la stirpe, vi nascono per un i pezzo uomini segnalati; poi si fermano; poi ne manda fe fuori da capo» ?. E perciò c’è come una varietà e inter- mittenza nella produzione delle stirpi, e il principio È; di cui è parola più sopra, è immaginato come un seme ss Da che talora dà frutti buoni e in gran copia, talora scarsi 3 e cattivi; congetto che già prima d’ Aristotele avea espresso anche Pindaro 9. «a Ma anche con questa restrizione, il valore della 4 trasmissione ereditaria è in Aristotele notevole; nella Nicomachea ei giunge fino ad ammettere una perfetta -3 e vera felicità di natura, melelz ei &inbwh sbobta, che è sa ‘A come una specie di occhio naturale, con cul si giudica © “di rettamente e si sceglie quello che è bene secondo verità, i dbiv n over 27465 nai cò nat Arberay dpalby cipriota. Anzi _ Ù 1 ITegi Foyevetzs 1490 A 1-B 6; 1490 B 31- 1491 A, 1-20 citato i dal Bonghi nella sua lettera intorno ai Limiti ed al fine dell’ Edu- È care vol. III. della traduzione di Platone. Dichiariamo poi qui che NS tutte queste notizie riguardanti il valore della stirpe e la trasmissione ereditaria abbiamo tratto dal Bonghi; e chi volesse averne di più det- tagliate rimandiamo alla bellissima lettera citata. 2 Aristot. Rhetor. II. 1390 B. 5 Nem. XI, 48 e seg. Cir. Bonghi, lettera citata, + Eth. Nic. III, 5. 17. G. ZUCCANTE si direbbe che a questo punto egli riduca a ben poca cosa l’opera dell'individuo; l’attività di questo è costretta ad esercitarsi in una o altra direzione secondo il fine che è posto in lui dalla natura!; solo i mezzi in-questo caso sono in suo potere. E non solo la trasmissione ereditaria, ma mille altre influenze, diciamo noi, si esercitano sulla natura degli individui; non tutte le circostanze stanno nell’ eredità sola; se questa è una legge, non è la legge. L'eredità mette le condizioni più intime; ma ve ne sono anche d’esterne, e d'ogni maniera; il clima, il modo d'’alle- vamento, lo stato agiato 0 disagiato della famiglia, Ì costumi di questa; i costumi, le leggi, le istituzioni della società; insomma tutto l’ ambiente fisico e sociale in cui L'individuo nasce e cresce. Tutte queste influenze, in maggiore 0 minore proporzione, intrecciandosi, tempe- randosi, eccittandosi, mortificandosi a vicenda, concor- TE rono a determinare la natura prima dell'individuo, danno + come il fondo, il sostrato su cui s'eleva poi l’attività SR dell'io, poichè l'io senza quegli elementi non è, pur non Mei essendo nessuno di essi. L'io non è il germe che le gene- razioni passate abbian lasciato dietro di se; non è neanche il risultato dell'ambiente fisico e sociale; è un'attività nuova che a mano a mano s'esplica e padroneggia; ma la facilità, anzi la possibilità sua di prodursi, dipende dalle circostanze in cuî sì sviluppa la persona umana. Aristotele adunque egregiamente ha fatto a tener conto di un fondo naturale, a cui s'aggiunge e sovrap- pone l’attività cosciente € direttiva dell'io; a non con- siderare |’ individuo come una specie di fabula rasa, — a» Lie de x TESE pn . » 0% ” x GI Pa) î) t Eth. Nic. III, 5, 18. &ugov y%p duotos, 7 £f206 u2ù È o e nin i trvodfrote qalverar val > y LIDO, TO aélos quat fi irmadamote pulveta: 44 settat, TA è Mer | Xowrd mpds ToÙT' dvapépovtes medTTOvELI dTwAdATITE. » è ii nani TNT RT su cui l’esercizio e l'abitudine venga a scrivere tutto peo quanto; a non ridurre insomma la virtù a una semplice n 2a questione di abitudine e di educazione. L'opera e l'at- di Bo tività sovra tutto; (la filosofia d’ Aristotele si fonda tutta “i À | sul concetto d’ attività); ma opera e attività, che si eser- 1S Ta citino su qualche cosa di preesistente, > 2 Si dirà che ammettendo le attitudini naturali alla ad virtù e quindi anche al vizio, si viene a negare che virtù e vizio sono opera nostra? Aristotele discuterà questa . questione, e noi la discuteremo con lui nel Saggio che “si terrà dietro a questo, sulla dottrina della Volontà. - Appunto perchè sono in gioco nell’operare morale xs certe : disposizioni naturali, dipendenti in gran parte dalla sensibilità fisica ed animale, il sapere ha poca È; importanza per la moralità. E questo il punto in cui Aristotele si allontana più che mai da Socrate e da Platone. Aristotele dice esplicitamente che in riguardo alla virtù il sapere poco o niente ha di forza, puzgdv i oddîv ing der}; che quand’ anche si sappia ciò che è buono e giusto, non per questo si diventa abili a farlo £; e attacca diret- tamente Socrate, e lo nomina, là dove afferma che la 4 Eth. Nic. II, 4. 3. repds dè 7d was depends (Eyew) cd pv cidbvai pazoov È oùdiv ioybet. | È | © 2 Eth. Nic, VI, 12. 1. obdîv dè mparrimo spor To cidivar aÙTd (7% dizma za nodd nat dya04) ècuev. i nza che nessuno che giudichi rettamente, opera mai sente lo fa per ignoranza, mette contro il meglio, e se lo fa, in dubbio cose che manifestamente si vedono, contrad- È dice all’ esperienza quotidiana, dugregntet tot QULVÒLEVOLG 2 dvapyòs!. La virtù non è sapere, sebbene non sia senza sapere; e Socrate era nel vero, quando credeva che la virtù non fosse senza sapere, era in errore quando i ‘affermava che la virtù fosse sapere *. Gi Il sapere necessario alla virtù non è il sapere teo- 9 retico, è il sapere pratico; in morale non si tratta di conoscere che cosa sia la virtù, ma come si generi, € ‘come si deva operare per diventar buoni *. Socrate ha trascurato il sapere pratico; ha pensato che basti il sapere ves È teoretico per la pratica della virtù, sostenendo per ciò di che la virtù si può comunicare da uomo a uomo per fc via d'insegnamento. A Contro questa sentenza Aristotele osserva che; inas materia di bene, non vi può essere discepolo pos- DI sibile senza la pratica del bene; chi si fa uditore di E — morale deve aver l’animo apparecchiato conveniente È mente dai buoni costumi; la conoscenza viene da qualche î cosa, viene dall’ essere, e chi non ha fatto alcuna espe- rienza dei buoni costumi, non può conoscere nè buoni — costumi, nè buoni principi. Chi, anzichè operare il F bene, si contenti di ragionare intorno ad esso, e creda per questa via. di diventar buono, fa come quegli — ammalati, che ascoltano bensì con attenzione i consigli — 1 Eth. Nic. VII, 2. 1-2. 2 Eth. Nic. VI, 13. 3. Zozpdrng cf pèv oplog are ci Viudpezieri Gai pèv yo qpoviioas iero siva mas rd RoETdE, ipdpravev, OT D'obz &ve) 990vAGEOS, AANSS Eeyev. s Eth. Nic. II, 2. 1 € XK, 9, 1-2. 4 Eth. Nic. I, 4. 6-7 e X, 0. 6. eri n) rt dadini NELL’ETICA D'ARISTOTELE 325 del medico, ma si guardano poi dal tradurre in atto cosa che sia stata loro imposta !. Ma che cosa è il sapere pratico, così necessario alla moralità? Perchè, mentre il sapere ha poco o nulla di forza per la virtù, diventa poi, sotto una certa forma, indispensabile per la virtù stessa? Aristotele, come sappiamo, ha distinto nell'anima umana due parti; una parte irragionevole e una parte ragionevole. Della parte irragionevole abbiamo detto 2. Da parte ragionevole comprende due potenze; colla prima contempliamo le cose che non possono essere altrimenti, che, vale a dire, son necessarie; colla seconda contem- pliamo quelle che possono essere altrimenti, che, vale a dire, sono contingenti: la prima è detta scientifica (70 imerpoviziv), la seconda discorsiva o raziocinativa (70 Moqueriziv) ®. La ragione discorsiva s' accoppia all’ ap- petito, e se ne ha la ragione pratica, o volta all’ operare. Lo scopo di questa è la verità, ma non la verità consi- derata teoreticamente, bensì la verità in quanto serve al fine pratico di rettificare l'appetito, di misurarlo, di regolarlo, di tracciargli la via che deve seguire; l'appetito è una forza cieca, e ha bisogno di esser guidato dalla ragione. È propria per conseguenza della ragion pratica la verità che va d’accordo col retto appetito, 40 dì pae Tuuoò ni dravontizod % cInberz Ouoioyos ÈyovGa TA dpstet TA dp07 1; quello che la ragione afferma è seguito dall’ap- petito; quello che la ragione nega è dall’appetito avver- sato, fetw d' drep èv diavola zurdozsis vai drdozote, TOdTO Èv dpscer duty nel pura ® rà 1 Eth. Nic. II, 4. 5. 2 Cfr. la Dottrina della felicità nell' Etica Nicomachea p. 204. 5 Eth. Nic. VI, 1. 5-6. + Eth. Nic. VI, 2. 3. s Eth. Nic. VI, 2. 2. È importante il riscontro che fa Aristotele Ma la ragione discorsiva non possiede naturalmente e spontaneamente l’ abilità di guidare l'appetito illumi- nandolo; quest abilità bisogna che l° acquisti coll’ eser- i cizio e coll’abito: l'abito per cui la ragione discorsiva può deliberare rettamente intorno a ciò che è bene ed utile al conseguimento del fine supremo della vita, costi- tuisce la prudenza (996vnats)!. La prudenza, sebbene virtù intellettuale, si può considerare come la forma delle virtù morali. Senza la prudenza le virtù morali non sarebbero; esse risiedono come in loro soggetto nell’ appetito, e l'appetito ha bisogno di esser guidato. Ma la prudenza alla sua volta non può essere senza le virtù morali *. I sillogismi della prudenza, con cui ci proponiamo questo o quel fine buono, non si possono formare senza la virtù. Il vizio perverte e deprava il giudizio della ragione, e fa che c'inganniamo intorno ai principii dell’azione ®. I prin- cipii dell’azione sono ciò per cui l’azione si fa (xò ob &veza tà mpazt4), e chi è corrotto dal vizio non può scorgere il principio vero, e se ne propone uno falso 4. . Ora, falsato e corrotto il principio, saranno anche false fra l'affermazione (427494915) e la negazione (&r:d@xa1g) della mente, e il seguire (debiti) e il fuggire (quyA) dell’appetito. Per tal modo la cognizione e la pratica sono strettamente congiunte fra loro. 1 Eth. Nic. VI, Ss. 1. È 2 Eth. Nic. VI, 13. 6 dH2ov obv éx té sipnpévov GT odg oîoy. } e o280y siva zUpiws ZIev Opoynoeos, oùdi ppoviuoy &vev hg G Ouafig dpetiis. Rec hi “di ; i 5S- «A LA . . ne . Eth. Nic. VI, 12. 10% dè E16 (A 9povnGIC) Tm dppati tosto Sirena die bye obi dev dpertic.... ci Yip ovIdayiapoi TOY IAABZ,A QAUIENI MN. as n} A La AZ x 3 È Ò , x 4 recano) doyhv NOE Tore diarrpépei ag A poy0npio x2t Srabebdenda: more mepi 7ds mountizds day de. ti SI 3 È: 3 Ù ife * 4 Eth, Nic. VI, 5. 6. mIo Ion eo Eee val evmobdconese be sectapei sed seorndegesgeeri cesenatni DICI AL aneriand on onasena rane cereneesenensi ne le conclusioni che se ne cavano in riguardo all’operare. Senza la virtà non si ha la prudenza, ma quella certa destrezza o abilità naturale (dewérzs), che, qualunque sia il fine prefisso, anche malvagio, mette in opera tutto ciò che valga a conseguirlo; senza la prudenza non si ha la virtù morale, ma una virtù naturale, che, scompa- gnata dalla prudenza, è come un corpo robusto, a cui manchi la vista; che corre quindi il rischio di gravi danni ed offese !. . Virtù e prudenza sono adunque tanto unite da for- mare una cosa sola; la virtù fa diritta la mira, 73y azondy tore 6p06y, la prudenza fa diritti i mezzi per arrivarvi, _moseî, dela Tx pds azordv ®. In questo fatto dell’ unione della virtù morale colla prudenza, Aristotele trova la soluzione di quella questione che fu tanto agitata da Socrate e da Platone, se la virtù sia una sola, o ce ne siano più. Finchè si tratta, dice Ari- stotele, delle virtù naturali, guzzi aperzi, cioè delle dispo- sizioni naturali alla virtù, può darsi che altri non sia egualmente disposto per natura ad ogni virtù, bensì soltanto ad alcune, e sotto questo rispetto quindi le virtà o siano separate le une dalle altre; ma quando si tratta “1 delle virtù morali, per cui altri è buono veramente, siccome queste non vanno mai disgiunte dalla prudenza, e la prudenza è una sola, così chi ne ha una le ha tutte, e chi le ha tutte ne ha una. Insomma le varie maniere unità dalla prudenza 3. 4 Eth. Nic. VI, 13. I. ; loecue dali D % i è DI re Y, souo D 2 Eth. Nic. VI, 12. 6. Cfr. VI. 13. 7 9V% FIA ia Di = RIS Voet: 1h MEV N #EX05 T dvev @povhosws obd' %vev dperdis' i pv ep TO Ss405 n de È L erre? Ve A \ “mpds Tò Te\0g TCOLEL TIUT CAS NES: gin Ri oa xo: DEA 5 Fth. Nic. VI; 13. 6. 4% zed 0 A0Y95 FRUTTA d’operare il bene sono congiunte fra loro in armonia ed A chi poi osservasse che è un circolo il presupporsi a vicenda della virtù e della prudenza, come è un circolo la dimostrazione in cui due proposizioni sì pro- vino reciprocamente l’ una per mezzo dell’ altra; Aristotele 3 potrebbe rispondere che in questo caso il circolo non esiste che in apparenza. Non abbiamo già qui da una parte la virtù morale, e dall'altra la prudenza, sicchè queste possano stare separatamente, come nel caso della dimostrazione le due proposizioni; la virtù senza prudenza non è virtù, ma qualche altra cosa; come la prudenza senza la virtù non è prudenza, ma qualche altra cosa. La virtù e la prudenza sono necessarie a costituire la Ò virtù vera, come la materia e la forma a comporre l’ u- i nità dell'individuo. Poichè la prudenza è necessaria alla virtù, Aristotele rettifica la definizione che ha dato della virtù .in più luoghi «la virtù è un abito secondo retta ragione », in ‘questa maniera: «la virtù è un abito con retta ragione). 0 StadeyBetn 4 dv dr yopiloviai DIO di dperzi: od dp è 3g "a Fo abtds eL@UinTATO: mods dmdoze, ate Thv uv dn Thv SD olro 3 siino®s Eomar' TobTo ip «età uèv ds ouorzde dpetàs èvdeyemzi, su bi. ì 270 de dì darle Veyerat dpalos, ob4 vdiyerar Gua do TRI E Qpovnaei paz olen niGU rdetonam. Nel cap. IX del libro II della >» 7 Morale Grande, e nel XV del libro VII dell’ Eudemia, è descritto il collegamento di tutte le virtù nell'amore del bello e del buono; e.lo | © stesso pensiero, sebbene da un punto di vista diverso, è espresso qua — e là nel libro X della Nicomachea (cap. 6 - 9). Vere virtù comprensive G e universali nella vita pratica sono però sempre, secondo Aristotele, la prudenza e la giustizia. Di. 4 Eth. Nic. VI, 13. 4-5. mdvres, dToy oplleovtai Thy Gaeta mpootileza: chv El... Thy zed còv bplbv Agyov. dplde do | zutà Thy qgoynaw. Soluzo: dh uavtercalai mos drmavtzg dad | movaban Eers dipetà tomi A zarà ThY gpoynow. der de puenpd È uit r A a x E molto a proposito, poichè la virtù morale non sol= tanto risulta di appetito, ma anche di ragione, e quando si dicesse abito secondo retta ragione, parrebbe risul- tare soltanto di un elemento appetitivo, che si con- formasse esteriormente alla ragione, mon già che la possedesse in proprio !. ; : i Ci potrebbe essere un abito secondo prudenza o retta ragione, € tuttavia non essere virtù, quando la prudenza o retta ragione non appartenesse al soggetto proprio dell'abito. Perchè ci sia virtù, bisogna che l’ abito non soltanto, ma anche la retta ragione appartenga a chi ha l'abito. Riconoscendo che la virtù morale non è possibile senza la prudenza, che anzi questa costituisce come la forma di quella, Aristotele concede alla ragione e all’ in- telletto una giusta parte nella formazione della moralità, nel tempo stesso che non disconosce, come Socrate, Ci Ò e % na s, a 4 LI *À 3 L’ ant uetapAiva où Jp povov A 4xT% TOY opfoy AoyoY, INN A UETZ où 09000 UCI) seus dpetm Sem. ! Cfr. il commento del Michelet al luogo citato (Eth. Nic. VI, « Hoc (perà 708 09005 \6y9v) ab xatà adv doplòy A0yov 76y0g inest virtuti (scilicet morali), sed (Op. cit. p. 229); € il bel commento del le Virtù sieno interamente 13, 5): eo differt, quod non solum etiam affectus et appetitus » Segni: « E' (Aristotele ) non vuole che Prudenze; nè vuole anchora, che elleno sieno @ punto secondo la ragione; conciosia chè nel primo modo elleno sarebbeno stiette Virtù © intellettive; e nel secondo sarebbono stiette Virtù appetitive. Onde modo nel diffinirle, cioè che elleno sieno con aggiugne egli un terzo he elleno sien' retta ragione, nè secondo la la retta ragione, e non € 3) chè diffinendole egli con la retta ragione elle vengon' date nell’ Appetito; € dall'altra vengono diante la Prudenza, che è la. retta ragione; per da una banda ad esser fon ad havere perfettione dall’ Intelletto me lor forma » (Op. cit. p. 327): x l’importanza di altri elementi, quali l'elemento sensibile e appetitivo, e un elemento acquisito, l’abitudine !. Così anche nell'ordine morale egli considera l’uomo nella sua totalità, e non ne smezza e divide le facoltà; senso, intelletto, esperienza sono in gioco del pari. Si potrebbe anzi mettere in rilievo una considerevole ana- logia fra la sua dottrina della conoscenza, e la sua > dottrina della virtù; in tutt'è due è l’esperienza che Ca i tiene il primo posto; nell'’una l’esperienza che ci offrono x i sensi, nell'altra quell’esperienza speciale che prende. il nome d’abitudine, e che consiste nel dare una spe- = ciale direzione ai nostri impulsi appetitivi; poi viene i l'intelletto e la ragione, che a questa doppia esperienza 5; dà norma e forma. : so : “ IX. = Ma la prudenza, in causa della sua importanza per quanto riguarda le virtù morali, merita una considera- zione e una trattazione anche più larga. La prudenza è virtù universale; essa è la guida | suprema di tutta la vita pratica e civile; quindi non soltanto abbraccia sotto di se la prudenza che possiamo chiamare individuale, ma la famigliare eziandio e la 1 Nella Grande Morale (I, 1. 7) si fa rimprovero a Socrate div avere ESD nella virtù l'elemento appetitivo (74006) e l'abitudine ; Ù oc): i perà TOUT ( TERA Lozodrns èmuevopevos pe SNrwoy uaì er micio cimey Into FobTOY (deerov), oùz dp; dì odòd od noe TÙs TEA re CO semola colo, dÙ Sol siva i ade politica, con cui da una parte si provvede al buon andamento della famiglia, dall’altra alla prosperità e alla felicità dello stato. Per verità, quando si parla di prudenza, s'intende più propriamente quella con cui si d provvede al bene proprio, mentre a quelli che provvedono al bene pubblico, agli uomini politici, è riservato piuttosto il nome di faccendieri, rolurpdjpoves, poichè sembra che s'occupino di cose a loro estranee e affatto indifferenti. + Ma gli è chiaro che il bene proprio non può stare indi- d pendentemente dal bene della famiglia e dello stato; : l’uomo è un essere essenzialmente sociale; la vita sua è connessa colla vita della società e ne dipende; e però la prudenza individuale presuppone € la famigliare e la poli- : tica!, Aggiungasi che la prudenza ha bisogno dell’ espe- d | —’rienza per formarsi, e l’ esperienza non si acquista che per Do: «—’mezzo della consuetudine e del commercio cogli uomini; p% «l’uomo isolato non può essere prudente °. La prudenza, in tutte le sue forme, ha per oggetto ni. le azioni, e versa per ciò stesso intorno a cose singolari, cà nal Ezzota, e che possono essere e non essere 3; l’uni- |. versale e il necessario non appartiene ad essa, ma alla ui Fe scienza 4. E questa la ragione per cui un giovinetto so. potrebb' essere, ad esempio, buon matematico e buon = a no. D PEZZO r3 / Da I, La O x a, dizvontizio Ts duyiis èYfHerzi uogto fvovrar by al apetat LA Ul LS , po pa = 3 INCI ur abtoy Ev TO MoyioTiz®o TAG Uuyiis Lopio cuppalver e, > ta Si » , ni - OLOÙvTI TS RPETÀS avatpety TO dioyoy pepos . pa 3 x Do oriov dvzipeî nat 7400g uai Rioc. du od TCA % ov aùto ETUSTANAG TE x x - dì va Ths Yuyiie, ToUTO dî © oplag fato raven TOY daetoy. Ò Sa ! Vedi per tutto questo Eth. Nic. VI, $, 1-4. ‘A . ‘ v vas 2 Eth. Nic. VI, 8. 5. Cfr. il commento del Michelet a questo luogo i p. 209-210. 5 Eth. Nic. VI, 5- 3, ed Eth. Nic. VI. $. 5. i ui 4 Eth. Nic. VI, 3, specialmente il 62. 332 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ geometra, non mai prudente e saggio: l’esperienza dei Si particolari richiede gran numero d’anni!. Non è a dire però che non ci sia nella prudenza qualche cosa che ricordi la scienza, e che in essa manchi affatto la cognizione dell’ universale. La maniera in cui si forma l' azione assomiglia al A processo sillogistico. Come nel processo sillogistico si t parte da principii generali e si viene a conclusioni par- ticolari, così nell'azione si_parte dalla conoscenza del bene generale, e in seguito, per mezzo della conoscenza 4 del bene particolare nel caso attuale, si conclude che ù bisogna tendere a questo bene. Io conosco, ad esempio, il principio generale che le acque pesanti sono dannose alla salute; conosco un’acqua particolare come pesante; «ne concludo che è necessario che me ne astenga. Del resto delle due cognizioni, l’universale .e la. particolare, la più importante per la prudenza, il cui oggetto è l'azione, è pur sempre la particolare: finchè la mente è ferma nell’universale, l’operare non è possibile. Vediamo infatti alcuni che non sanno e che pure hanno espe- o. rienza di casi particolari, essere più atti a operare di quelli che sanno, evo. od eidétes ETipuYv sidotav pato tuorepor nai èv Toîs 4dos, oi eumerpor. Se altri sappia, ad esempio, che le carni leggere sono facili ad essere smaltite ed igieniche; e poi non sappia quali sono leggere, costui certamente non provvederà alla sua salute; invece vi provvederà chi sappia che sono leggere ed igieniche, ad esempio, le carni degli uccelli 3. Da questa analogia della maniera in cui si forma l’azione colla maniera in cui si forma il sillogismo, | Eth. Nic. VI, 8. 5-6. 2 Eth. Nic. VI, 8. 7. 5 Eth. Nic. VI, 7. 7. TR uptnlti E LN NI SN AA Potato RIT en line pat e E Gn a — x e di ti sen NT nno eee en Aristotele cerca di trarre la spiegazione del fatto che altri, pur conoscendo il bene, operi contrariamente ad esso. Può avvenire, egli dice, che altri sappia ciò che è bene in generale, cioè conosca la proposizione maggiore del sillogismo pratico, e non sappia ciò che è bene in particolare per una circostanza speciale, cioè non conosca la minore del sillogismo; oppure può avvenire che s'ab- biano bensì tutt'e due queste specie di cognizioni, ma quando si tratti di praticarle, ci si serva unicamente dell’ universale, e per nulla della particolare: in questi casi si può peccare senz’ essere tuttavia ignoranti !. Senza dire che la conoscenza si può avere in abito e non usarla attualmente, ovverossia averla e non averla ad un tempo, come avviene in chi dorme, o nel pazzo, o nel- l’avvinazzato; che è la condizione nella quale si trovano coloro che si danno in braccio alle passioni: i quali pos- sono bensì sapere quello che è bene, e tuttavia dall'ira, . dalla libidine e da altre voglie siffatte essere acciecati *. E qui, come si vede, c'è una nuova critica di Ari- stotele contro Socrate, che sosteneva chi sa non poter peccare, il peccato essere effetto d’ignoranza. Dove però è notevole che, malgrado la critica, Aristotele finisce col- l'accostarsi a Socrate. Quando, egli dice, altri sappia ciò che convien fare, e vi rifletta nel momento dell’ope- rare, sarebbe bene strano, detvéy, ch’egli operasse altrimenti da quello che conviene ®; se altri può peccare per avere { Eth. Nic. VII, 3. 6. 2 Eth. Nic. VII, 3. 7. 5'Eth. Nic. VII, 3. 5. DMN ere è digg Meyopey Tò sriotacta: 2 È S e ICROI (al qdo è Eyov pev od upopevos dè + ariovhpn val è ypdpevos 1 I Ò x È ast, Cà, x x Veferat tmierac)a:), Otolcet TÒ [euparebzo0a:] Eyovra pèv ph dx | ZA x 9.1 n empodvra dì è ud der mpurten OÙ | duparredepda] Eyovra ual “ , » % 9 n} È Oewpodvra, ToSTO pap Sons Dewéy, AIN odz si pù Newpéy. soltanto la conoscenza dell’universale e non quella del particolare, sarebbe meraviglioso (B2uzotév,) che peccasse quando avesse le due’ conoscenze |. Se si pecca cono- scendo l’universale e il particolare attualmente, gli è perchè non si sa mettere il particolare sotto quell’uni- versale che gli conviene ?. Insomma, e questo mi pare il pensiero d’ Aristotele, quando il sapere non ci con- tentiamo soltanto d’averlo, ma ce ne serviamo: quando non vogliamo averlo soltanto in abito, ma in atto; quando il sapere è efficace veramente, € Sie: pet così dire, assimilato a noi e alla nostra natura, sicchè non è il sapere dei fanciulli che ripetono meccanicamente quello che udirono e non ne sanno il significato, nè quello degl*istrioni e degli ubbriachi che cantano i versi d’Empedocle senza comprenderli 3; di più, quando il sapere è completo, vale a dire, non abbiamo soltanto la cono- scenza dell’ universale, ma quella eziandio del particolare, e possiamo per ciò formare, all’occasione, il sillogismo pratico come si deve; l’operare si conforma al conoscere, e il peccare è impossibile. Sd Con queste rettificazioni la dottrina di Socrate si può accettare. i 5°. Come si vede, dopo molte oscillazioni e titubanze e dopo una critica in gran parte giusta, Aristotele ritorna pur sempre al pensiero fondamentale della Scuola socratica, che il sapere ha valore sovra tutte le cose, e che nella stessa vita pratica tiene in ultimo il primo posto. Certo egli non si ferma al solo sapere teoretico, come avea fatto Socrate: il video meliora proboque, deteriora. N Miti fai e LI te uu" IRIS eo PRESE et o) 1 Eth. Nic. VII, 3, 6 in fine. 2 Eth. Nic. VII, 3 g-10. Cfr. il commento del Segni a questo. luogo Op. cit. p. 344- 345: Me | 3 Eth. Nic. VII, 3.66 8 e 13. 3 1 LI Se a A DI sequor, era anche allora la condizione di tanti uomini, che non potev a sicuramente passare inosservata: ma al Sapere non si può negare il compito suo di schiarire, di illuminare © per ciò stesso di dirigere e servir da guida. La ragione non è ciò che in proprio costituisce l’uomo, la parte più nobile ed elevata dell’umana natura, quello da cui deve pigliar norma e forma tutto ciò che all'uomo appartiene? E il sapere non è il prodotto più schietto, e genuino della ragione? Adunque al sapere, anche nella vita pratica, spetta un compito importan- tissimo. E un fatto che molti mali e molti vizii sarebbero evitati quando si avesse appreso ad averne orrore. L’an- tropofagia, ad esempio, che disgraziatamente è pratica diffusa presso tanti popoli barbari, deve sicuramente la sua diffusione al non avere quei popoli coscienza del male che fanno; i pregiudizi religiosi per cui si sa- crificavano, e si sacrificano anche oggidì delle vitti- me umane alla divinità, hanno la medesima sorgente; l’impudenza sfacciata di talune popolazioni allo. stato d'infanzia, per cui le donne si prostituivano e si pro- stituiscono allo straniero, è in gran parte ancora l’ effetto dell'ignoranza. E nei bassi fondi delle società nostre civili non troviamo la conferma di questo medesimo fatto? Pure non accettando l’identificazione ammessa da alcuni antropologi fra delinquenza e idio- tismo, bisogna però riconoscere che spesso i delinquenti sono d’un'’intelligenza ristretta e d'uno spirito angusto, donde. la loro inferiorità e il loro svantaggio nelle lotte sociali. Perfino certi vizii puerili e quasi innocenti. implicano e suppongono una certa ignoranza” da palio di chi li ha. Si può ammettere, ad esempio, che il — millantatore, il vanitoso, abbia COScIenza di diventare ridicolo colle sue millanterie, di diventare SRIRSEDTOSe "I insopportabile? Egli che aspira sovra tutto alla stima degli sà Sap Ni 336 LA DOTTRINA DELLA VIRTÙ altri, se sapesse gli effetti della vanità, per vanità nascon- derebbe il suo vizio. Senza fare una certa parte all’ igno- ranza, non si comprenderebbe, osserva molto giustamente lo Ianet!, quella massima profonda del Vangelo che «si vede bene il fuscello che è nell’ occhio del vicino, e non si vede la trave che è nel proprio ». Ma dunque basta conoscere ciò che è bene per farlo, e ciò che è male per astenersene, sicchè si possa identificare senza più la virtù col sapere e la malvagità coll’ignoranza? Certo la vera virtà, la virtù ideale, 4 idéz tig dpetfig, come la dice Platone, è la virtù lumiade dal sapere; mentre al contrario la virtù d’opinione, quella che si fonda sulla coscienza attuale dell’ individuo, che potrebbe non essere illuminata dal sapere, e credere vero bene quello che non è bene che in apparenza, non è, secondo lo stesso filosofo, che un'ombra di virtù, c4% doerig; e così egualmente il vizio non dipende spesso che dall'ignoranza del bene. Ma il sapere, per essere condi- zione, e importante condizione di moralità, ha bisogno di una trasformazione; ha bisogno di diventare efficace, di farsi pratico, operativo; se rimane nel campo della speculazione e della teoria, a nulla giova per l’operare. L'idea dev'essere insieme una forza; la dottrina delle idee forze trova qui la sua applicazione: e per essere una forza, bisogna che parli insieme al cuore e alla volontà, bisogna che s'addentri in noi, che s’identifichi con noi, per così dire, che faccia parte intima della nostra natura, non già soltanto che ci illumini dal di fuori. Il che vuol dire che oltre il sapere e più del sapere, sono anche necessarie altre condizioni per la moralità: è un fatto che in parecchi casi l’uomo fa il male con coscienza e in conoscenza di causa. Il bene non basta 1 La Morale, Paris Delagrave 1887 p. sio. Paneasienizaniernenaene ssa re nervovore che sia conosciuto, bisogna anche che sia amato; non basta che rimanga nelle altezze serene, ma fredde della ragione; bisogna anche che scenda nelle regioni più basse, ma calde del sentimento. Senza calore di senti- mento, senza emozioni vive ed ardenti, senza entusiasmo, senza fede passionata, non è possibile la pratica del bene. Il Kant vuole escluso affatto dalla moralità il sentimento; ma è un errore grave. Tolto il sentimento, tolta l’attrat- tiva del bene, tolto l'amore, manca alla volontà l'energia necessaria per vincere la lotta colle passioni. Il sentimento morale, l'amore del bene è adunque condizione neces- saria alla moralità; l'educazione deve mirare a svolgere questo sentimento negli animi; non basta far conoscere agli uomini il bene; bisogna anche farlo amare. «Se la beltà, diceva Platone, ci apparisse in se stessa e senza veli, susciterebbe in noi amori incredibili. »: Ciò che Platone diceva del bello, si può dire del bene. Aristotele stesso che non era un poeta, si rappresentava il bene come qualche cosa di sovranamente amabile, e sovra- namente desiderabile. Ma non basta la scienza del bene e l’amore del bene; è anche necessaria la volontà del bene, la forza morale, l'impero dell’ anima su se stessa. Quante volte l’amore del bene e la scienza del bene sono impotenti del pari! Quante buone intenzioni inspirate dal cuore e dalla ragione, non riescono a tradursi in atto, Dr mancanza di un volere energico che SERRE FILA passionise dominarle! Già Sant'Agostino ci ha descritto igli i rosa colorita e fan- meravigliosamente, in quella sua pros: È ) È assioni: « Io era : aggia energia delle p EI SARE tastica, la selvaggia 5 vegliarsi, ma vinti simile, egli dice, a quelli che vogliono s ARSA, dalla forza del sonno, ricadono nell ASsoria SI x v'ha alcuno senza dubbio che voglia sempre non preferisca, se è sano di s pirito, la veglia al sonno; 22 G. ZUccaNnTE uetnneazzzazzanaiaaionaniaziaionaaziziz ione nia eene sirena na sapere zanisare iti METIETEZIANETTATEZEZZNE ARA tienena n aranuamarenanerenicionenesisseonenareonee e tuttavia niente è più difficile che scuotere il languore che pesa sulle nostre membra; e spesso, nostro malgrado, siamo presi dalla dolcezza del sonno, quantunque l’ora del risveglio sia giunta.... Io era impigliato nei frivoli piaceri e nelle folli vanità, mie antiche amiche, che scuotevano in certo modo le vestimenta della mia carne e mormoravano: Ci abbandoni tu?.... Se da un lato era attirato e convinto, dall'altro era sedotto e incatenato... Io non rispondeva che queste parole lente e languide: Subito, subito, attendete un poco. Ma questo subito. non veniva mai, e questo poco si prolungava all'infinito. Chi mi libererà da questo corpo di morte 1? », Per vincere le passioni, per operare il bene è adunque necessario uno sforzo supremo, un atto personale di riso- luzione, è necessaria la forza morale, la volontà. E la volontà non è sapere, sebbene non sia senza sapere; è impulso appetitivo che il sapere illumina e guida, ma che il sapere non produce. Ben fece Aristotele pertanto ad ammettere come fattore essenziale della virtù la volontà; in questa parte specialmente egli ha oltrepassato di gran lunga la con-. cezione unilaterale e ristretta di Socrate e di Platone, ‘ € ha reso servigi eminenti alla morale. La virtù è forza, scienza, amore indivisibilmente uniti in una medesim Aristotele parlare lun che segue. a azione: della forza conveniva ad samente, come vedremo nel Saggio È 4 Confessioni lib. VIIL Pisto » da LA DOTTRINA DELLA VOLONTA — NELL’ ETICA NICOMACHEA DI ARISTOTELE - La dottrina della volontà in Aristotele è anche più importante della dottrina della felicità e della virtù. Qui più che altrove si manifesta l'originalità del filosofo. In generale, come abbiamo notato, Socrate e lo stesso Platone aveano considerato condizione, se non. unica, quasi unica della virtù il sapere: un’altra condizione scorge necessaria Aristotele; bisogna che l'appetito, trasfor- matosi in volontà, si rivolga là dove la ragione consiglia, poichè ci può essere contrasto tra gli appetiti da una: parte e i consigli della ragione dall'altra, e nessuna efficacia avrebbe in questo caso la ragione, e il lume che viene da questa, indarno si spererebbe che riuscisse a rischiarare le tenebre della passione. Perciò Aristotele ‘si accinge a un esame accurato della facoltà del volere, studiandone gli elementi costituuvi, sorprendendola per | così dire nel suo nascere € conducendola su su fino al: n 2 più alto grado di svolgimento, fermandosi sull impu- | tabilità e sulla responsabilità e mostrandole egate al libero arbitrio, dando insomma di questa condizione ‘interna della virtù una teorica Così po Cono SRI 4 quale si poteva appena aspettare al tenipi. suole. da Sui : gu R 342 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ i dovranno in fondo prendere le mosse tutti quelli che si occuperanno di simile argomento. le 7 È Già i Cinici aveano riconosciuto nel volere una certa 1 importanza per quanto riguarda la condotta dell’uomo : virtuoso; ma erano scarsi accenni, che doveano essere ui svolti e ampliati: conveniva non soltanto riconoscere d l’importanza del volere, ma penetrarne l’intima natura s e mettere a nudo il.substrato psicologico, sul quale si t.) fonda, e da cui domina, per così dire, ed invigila tutta à È quanta la vita dello spirito. Il fondamento psicologico Di) che anche qui, come nella teorica della virtù, Aristotele i o: ricerca alla morale, è la sua novità grande e bella. , 3 Cominceremo anche per questo, come pei due Saggi & che precedono, dall'esposizione della dottrina. i Poichè la lode ed il biasimo non spettano se non alle azioni che si fanno volontariamente, e queste sole quindi sono del dominio della virtà e del vizio, mentre alle. altre che si fanno involontariamente è riservato il perdono - e talora la compassione; è necessaria, ad illustrare anche | meglio la natura della virtù, un’altra ricerca ancora, la ricerca intorno a ciò che è volontario (&4obawy) e intorno 2% a.ciò che è involontario (azobcrov) 1. G ESE In primo luogo adunque è involontario ciò che altri > AE fa costretto dalla forza, fix, ed è azione forzata, ffxoy, «a quella il cui principio è al di fuori di chi la fa o da © i patisce, e a cui chi la fa o la patisce in niente contribuisce __* Eth. Nic, III, 1. 1-2. Forse si renderebbe assai meglio 1’ gxob- giov e l’axodotoy di Aristotele col nostro ) spontaneo e non spontaneo, — che col volontario e involontario. Comun Ù que sia, ricordiamo a scanso — di equivoci che il volontario con cui traduciamo l'ézovaov di Ari- ; ‘stotele, significa quel principio di volere che è nell’ Appetito, e non già nella Volontà ragionevole; perchè questo volontario è comune | _°—‘’“anche ai bruti. Cfr. Bernardo Segni Commento Cit. p. 121. AVI Aia e . Ù agi io E O Por; LS ; - 1 NELL’ ETICA D ARISTOTELE 343 / da parte sua: come se altri venisse trascinato dovec- ce chessia dal vento o da uomini in potere dei quali fosse ui caduto !. fs Può sorgere il dubbio se si devano considerare volontarie o involontarie o, ciò che è lo stesso, forzate “De o non forzate, le azioni che altri fa, benchè a malincuore, x per paura di mali maggiori, dvx gofioy pertévoy zax6y, O per conseguire cosa onesta, dit 2226v 71; come se ci avvenisse | di dover gettare in mare le robe nostre, per salvare dal naufragio noi stessi e gli altri 2; oppure un tiranno ci ingiungesse di commettere qualche cosa di turpe, e solo a tal patto ci desse salva la vita dei nostri genitori .0 dei nostri figli, che fossero in suo potere 3, Assolutamente parlando, nessuno vorrebbe gettare in mare le robe sue o sottomettersi, sia pure per ottenere Un fine onesto, al comando inonesto di un tiranno: sicchè, prese in sè e. assolutamente, quelle azioni sono forse involontarie (em). 3 too: dsobarz) #5 ma siccome in esse il principio del moto è pur sempre intrinseco a chi opera, e quello di . IN FIAT ROINZ DI IO { Eth. Nic. III, 1,3. Bfxuoy dÈ 06 4 cpXa Ecolev, corzvta À, À 7 ge 7 , vi pendiv cvpt2era 0 mpdTTOY © 9 masgov, otoy ci | 006% È uop.ica: Tor CRCAV TOLTI ubproi dvTes. 2 Eth. Nic. III, 1. 5: 5 Eth, Nic. III, 1. 4. Abbiamo creduto col Ramsauer (Commento all’ Etica Nicomachea di Aristotele) riferirsi l'esempio, del tiranno. i alle azioni fatte did e40v 7, non già a quelle fatte De Qopov pets I Covwy AILOY, Per le quali ci sembra bastare l'esempio del IO in e le merci. Perciò abbiamo invertito nell’ esposizione l'ordine dei pe (Commento cit. p. 9$) pare credere (308 alle azioni fatte dt 969oy pelivov mare le merci a quelle fatte did mar due esempi. Il Michelet invece l'esempio del tiranno riferirsi l'esempio del gettare in LIKOY, zI6Y Fi 4 Eth, Nic. 1 ze II, 1. 6 in fino.” mensusazecenionienzaniniosarenenazonsecenioaasaze;aciveonzariveveneaneeneseeeieeezazenninevivaosicezeanaeraseoiananeziarenezzionenezizioo cui è in noi il principio, sta in noi anche il fare o il non fare; siccome in quel momento e in quella circostanza particolare si fanno volendole fare e preferendole ad altre, ur: e deve parlarsi di volontario e d’involontario non assolu- i, speravasi di evitare; non dimenticando mai che fra i beni edi mali ve ne sono di così grandi, che per causa loro La sembra quasi lecito all'uomo checchessia, e fra le azioni e fatte di così turpi e malvagie, che niente v'ha per cui. 2 ue. possano essere perdonate‘. Così non merita alcun perdono + . SA Alcmeone che uccise la madre, ed è ridicolo ciò ch'egli Ne: addusse a sua discolpa: a certe cose non dobbiamo lasciarci RS costringere, piuttosto è da preferire la morte 5. Invece . »” 4 DO 1 e 3 N N ” 1 Eth. Nic. III, 1. 6 e 10. % dì 00) gità uèv dnodarà tot, eni IN iui n * ‘ e ‘ . VÙV dî zl avti TOVÒs viper, al dà doyh èv té TPATTOVTE, n II x » 4 IANGLI DI x ORIO LI zo astà uiv dnobar ar, vv dì ue Inti movie suobera. C'è | in Aristotele per quello che riguarda questa specie d’azioni una certa | oscillazione e titubanza, che è assai difficile riprodurre nell’ ni 2 Eth. Nic. III, 1, 6 parti rodlex. 5 Compendio della Morale di Aristotele, parte II, cap. IV | $ Eth. Nic. III, 1. 7-8 5 Eth, Nic. III, 1. 8, A DI esposizione. fi Eta quando vi siano tali mali che oltrepassino l’ umana natura e che nessuno potrebbe soffrire, se altri, per evitarli, faccia cosa che non deva, è degno, non certamente di L lode, ma di perdono; e alle volte è perfino degno di lode chi non dubiti di sottostare a qualche cosa di turpe o doloroso, mirando a fine bello e grande!. Del resto è difficile determinare quali cose si debbano scegliere e quali sopportare di preferenza, presentandosi - molte differenze nei casi particolari; e ancor più difficile + PA è rimaner fermo nella presa risoluzione, poichè potrebbe 4 smuovercene o il dolore che ci si minaccia, o la turpezza dell'azione, a cui ci si vuole costringere. Chè in generale è questo il caso più comune di tali azioni: ci si vorrebbe costringere a qualche cosa di turpe colla minaccia di grandi dolori. Dove siccome è sempre da preferire il dolore all’operare turpemente, si loda chi non vi si lascia costringere, si biasima invece chi vi si lascia costringere. I Eth. Nic. III, 1. 7. Svtote nel èrzwodviai, dTAY alcypoysat ‘À Nuti gÒv UTOPEVOGI dti PEYÀ.OY ua 4240. î 2 Eth. Nic. III, 1. $ 9 in principio e $ 10 in fine. 3 Eth. Nic; III, 1. 9.... &Tt dì yederotepoy Supetvat Tot mi cd ROXb dom FÀ piv mpocdozopeve Nutnpz, x pocbztay ds Y% È a di >» U, » VANE a 2 de vaqadbovma vicy 94, ev î7 Il senso di questo luogo imbrogliato mi pare il ù difficile rimaner fermi nella presa risoluzione 0° , poichè, essendo il più delle volte "Sa uello che =» LI vor val goyor yvovTat TEL TOÙS avarpraslevzas A ua seguente: è ancor pi di operare in una certa maniera doloroso quello che ci aspetta se non operiamo, e turpe q CI ci si vuole costringere ad operare, avviene che o il dolore minacciato, 3 attuale ci smuova dal nostro proposito. Una o laturpezza dell’azione IPEOR : n tiranno, anziché sottostare STA a, donna ha deciso di piegare alle voglie d’u ottostare ai tormenti da lui minacciatile, ma al momento dî Meter i; deci a tur 'azi a per compiere, la trat- quanto ha deciso, la turpezza dell azione # st De So Sa n Ì i ferisce i tormenti, Un uomo ha o di soffrire — tiene dal compirla e pre leciso d È 346 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ Uursussazzenatessaaeeice isa reneeaaee re va naasenaoaineanininianienaninininiaeaninrioeinezizanioneeaerisseeereenaeoaierazeoiza lean ese ria zezanei Riassumendo, involontaria o forzata è l’azione il cui principio è al di fuori di chi la fa, e a cui questi in niente contribuisce da parte sua; e il timore di mali maggiori (6 96Bos pertivey zaz6y) e il fine onesto per cui si operi (dt x4).6v 71), non rendono punto involontaria o forzata l’azio- ne, sebbene le comunichino un carattere speciale, di cui è necessario tener conto quando si tratti di stabilirne il valore morale. Che se alcuno dicesse che in realtà l’onesto (rà x21é) e il piacevole.anche più (xè dt2), rendono involontaria e violenta l’azione, perchè costringono dal di fuori (avar- stem #0 dv7z), se ne dovrebbe concludere che tutti in tale ipotesi sono forzati a fare ciò che fanno, poichè tutti operano per questi due motivi, l’onesto e il piace- ‘a vole!; l’utile stesso per cui spesso si opera, non si sceglie se non come mezzo a un bene o a un piacere; ciò che | è amato e scelto come fine, è il bene e il piacere 2. D'altra parte chi opera per violenza e involontariamente, opera con dolore (2vrnpòs): invece chi opera per il piacevole e qualunque tormento piuttosto che rivelare un segreto che possa, ad esempio, compromettere la patria; appena sente i tormenti, si rimuove © dalla sua decisione. Siccome poi si tratta di dolore proprio, personale, da una parte, e di onestà dall'altra, e siccome è da preferire sempre il dolore al venir meno all’onestà, così l’autore aggiunge: O0ey Erauvot zz Yéyor ecc. cioè a dire che si lodano coloro che non si lasciano costringere dal dolore a fare qualche cosa di turpe, mentre invece si biasimano coloro che vi si lasciano costringere. Ero: è da riferirsi ad 7 pi, Yéfora mepi Tod; vayzaolivmzz. 3 tNEth: Nic. III. 11. x 2 Eth. Nic. II, 3.7: 7eiòY Yao dvrwy cav sic TRS UiosGeLe. AIN0d GUozs0vTos Adios ed Eth. Nic. VII I, 2.1. dofcre dov yecusov civai di ob fiera apabov ari dovk, bare QUINTA dv ein v&Y206v TE AU Td 400 we Tin. NELL ETICA D'ARISTOTELE 347 l’onesto, opera con piacere (19 4dovîs); per la qual cosa se ciò che è piacevole ed onesto: costringesse ad operare, si opererebbe ad un tempo con dolore e con piacere, il che involge contraddizione!. « E ridicolo adunque, conclu- de Aristotele, accusare le cose esterne, e nonse stesso come facile a venir attirato da esse, e delle azioni belle dar la causa a se stesso, delle turpi alle cose piacevoli » ?. I Eth. Nic. III, 1. 11. L'affermazione di Aristotele che chi opera per il piacevole e l’onesto, opera con piacere, non si può accettare che in parte; perocchè, se è vero che chi opera pel piacevole opera con piacere, chi opera invece per conseguire cosa onesta, si sottopone il più delle volte a dolori e non opera conseguentemente con piacere (Cfr. Eth. Nic. III, 1. 7.) Masi potrebbe risolvere questa contraddizione in cui pare Aristotele si trovi con se stesso, affermando, come fa il Michelet nel suo Commento, che qui ($ 11) Aristotele parla dell’onesto che per se ci spinge ad operar rettamente, mentre prima {$ 7) ha parlato dell’onesto che ci induce a soffrir dolori per ottenerlo. « Postquam auctor de honestate, quae nos ad molestias subeundas impellit, et de molestiis locutus est, quas ut vitemus ad turpia facienda cogimur; jam de voluptate loquitur, quae nos ad haec cadem, et de honestate quae ad recte agendum compellit. Sunt autem haec illis magis spontanea, quia voluptas et honestas fines sunt, quos sponte nostra per se cligimus, molestias autem semper invite subimus, utpote a natura nostra alienas » Michelet Commento cit. pag. 103 - 104. D'altra parte si potrebbe ricor- dare che nella teoria d’ Aristotele è virtuoso solo chi opera il bene con piacere. 2 Eth. Nic. III, 1. 1 uh aitdy ebmpatov ovTa d tuuròv, Tv d aley pv nÙ i è cosa ridicola che, mentre si sostiene che tanto 1 ci costringono ad operare, quando si viene alle applicazioni, a che le azioni buone non siano già dovute, come a causa e per contro le azioni turpi siano dovute 1 yeXoloy Sh cd qitizola mà 4706, dI mò 76V rowirmy; zal TGV pev 4XA6Y Si. Il senso del qual luogo è il seguente: l bene quanto il piacevole si sosteng efficiente, al bene, ma a nol; die - i 348 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ Nel qual luogo il filosofo riconosce evidentemente, e sì fa gioco di coloro che non vogliono riconoscerlo, che delle azioni nostre siamo noi la causa efficiente: noi abbiamo in noi stessi una forza e un'energia nostra propria, colla quale possiamo sottrarci alle influenze che ci vengono dal di fuori, perfino all'influenza che ci possa venire dal bene. Il che, o c'inganniamo, o è un accenno abbastanza chiaro alla libertà del volere. Quanto è detto del bene e del piacere, si può ripetere dell’ira (0vpés) e del desiderio (r:0vuiz): le azioni che si fanno sotto lo stimolo dell’ira e del desiderio non sono involontarie !. Perocchè se lo fossero, nessuno degli altri animali agirebbe volontariamente, e neppure i fanciulli che agiscono massimamente sotto lo stimolo di questi due moventi interni ®. D'altra parte anche alle azioni come a causa efficiente, non a noi, ma al piacere che ci costringe. Per esser conseguenti dovremmo invece tutti due questi generi d’azioni attribuire alle cause esterne. Inteso così questo luogo, mi pare che non si possa dire in riguardo ad esso quello che dice il Ramsauer; (Commento citato): « vides illi (Aristoteli) quasi codem tempore cum diverso hominum genere rem esse. Qui enim dicant etiam 7% 423.d fizuz esse, non poterunt iidem té zz4.6v zi7izola é2UT005. Invece a me pare si tratti degli stessi uomini. Soltanto mentre in teoria sostengono che il piacere non soltanto, ma anche il bene costringe ad operare, e aggiungono il bene per far passar meglio la loro teoria, in pratica poi sostengono quello che loro fa comodo; fa comodo a loro esser riputati veri autori del bene; non fa comodo esser riputati autori del male. 1 Eth. VE III, AB Noi traduciamo ira il 0vuds greco. Ma veramente 0»yd5 non significa soltanto l'affetto speciale dell’ira. Il 0105 indica l’impeto, la veemenza, il calore dell'animo, ha quindi un signi- ficato più largo di ira. Tuttavia in italiano non parola che renda perfettamente il Inps. 2 Eth. Nic. III, 1. 22. Qui il volontario anche più che altrove Saprel trovare una belle siamo spinti da un qualche desiderio, da un qualche affetto, e sarebbe ridicolo dire a nostro elogio volontarie le azioni belle, involontarie le turpi, mentre dipendono dalla medesima causa. Ci sono poi delle cose che conviene desiderare ardentemente, come ci sono dei casi in cui conviene adirarsi: come si potrebbe dire involontario ciò che si fa in questi casi? ®, Ancora, che differenza c'è fra i peccati che derivano dalla fredda ragione e quegli altri che derivano dall'ira o dal desiderio, per cui questi. ul- timi soli devano essere involontarii? Sono da evitare si gli uni come gli altri e le passioni irragionevoli non meno della ragione sono umane. Finalmente perchè si dovranno chiamare involontarie quelle azioni che derivano dall'ira o dal desiderio, che muovono cioè di là donde il più delle volte gli uomini sono spinti ad operare 4? Come si vede, Aristotele in questa questione che riguarda il volontario e l’involontario e ciò che è forzato e ciò che non è forzato, procede rettamente dall’estrinseco all’intrinseco, dal mondo esterno al mondo interno. Violenza è solo quella che ci viene dal di fuori, dagli è preso nel significato speciale di spontaneo. Perciò non è a far le meraviglie se Aristotele dice che appartiene anche alle bestie e ai fanciulli. 4 Eth. Nic. III, 1. 23. 2 Eth. Nic. III, 1 24. i Eth. Nic. III, 1. 26. Come si vede l'argomento è questo: le gionevoli non meno della ragione sono umane: per conse- da ragione, è anche volontario (2) passioni irra guenza se è volontario ciò che deriva i ciò che deriva dall'ira e dal desiderio. Qui è ritenuto come volontario tutto ciò che deriva dall'essere dell’uomo; perchè ‘volontario anche qui è preso nel significato di spontaneo. Tratteremo largamente in fine la questione dell’éz00 4 Eth. Nic, III, I. 27. . ti Giovy e dell'uzoustov. 350 LA DOTTRINA DELLA VOLONTA elementi, il vento per esempio, o dagli uomini, ed è violenza materiale, a cui non è possibile opporre resistenza; il vento ci trascina o ci solleva; gli uomini, quando ne abbiano il potere e la forza, c'imprigionano, ci tormen- tano, fanno di noi tutto quello che loro aggrada. Il timore di mali, che si vogliano evitare, un fine onesto per cui si operi, non costituiscono violenza; i mali per verità sono al di fuori di noi, e il bene a cui si miri è anche fuori di noi; ma il timore che si ha dei primi, è cosa subbiettiva, personale, e il bene ci alletta e ci sospinge solo in quanto è appreso ed apprezzato da noi, e s'è quindi trasformato in cosa nostra. Il movente è perciò sempre in questi casi interiore, senza contare che la vera causa motrice, il principio che mette in moto le membra, n dpyn où zuelv Td dpyavizà uéen, appartiene a colui stesso che opera,'èy abrò torw |. Altrettanto è da dire del piacere, dell’ira e del desi- derio che sono tutti moventi intrinseci, tutti dipendendo dalla natura e dall’essere stesso dell’ uomo, di cui sono come la manifestazione. Per Aristotele è volontario o spontaneo tutto quello che è intrinseco all'uomo: egli non si cura di determinare se quello che è intrinseco sia intrinseco soltanto apparentemente, e dipendain ultimo ancora da qualche cosa d’ estrinseco; quello che è nell’ uo- mo, per qualunque motivo vi sia c da qualunque causa derivi, gli appartiene, e gli si deve a giusto titolo attri- buire. Il regno dell’ szobary è vastissimo, quasi tanto vasto quanto la vita dell’uomo. 4 Eth. Nic. III, 1. 6. metal a . [ie à PA. x x | I ° MATTONI INI CRE PET ARI FR IR e PR ARR i nin enizaz azz nana 10S Pan TTA nerina nen ini era reni esente merpasenazeanenesaziaricnennenecaasionzossenenianeanisea II. E in secondo luogo involontario quello che si fa per ignoranza (%yvorx) *. Intorno a questo è però da osservare che non tutto ciò che si fa per ignoranza è a rigore da chiamare involontario; imperocchè chi pure per ignoranza abbia fatto cosa di cui poi non ebbe a pentirsi e a sentir dolore, che anzi a lui piacque di aver fatta, non si può dire l’abbia fatta involontariamente, sebbene per verità neanche volontariamente, non facendosi volontariamente se non ciò che si sa: invece è da dire veramente involon- tario ciò che si fece per ignoranza e di cui poi si sentì pentimento e dolore ?. Della quale restrizione è da tenere 1 massimo conto nello stabilire il grado d’imputabilità d'un’azione. Se altri infatti si compiaccia -d’ un'azione che fece a sua insaputa, quest'azione che non si poteva dir sua perchè l’ignorava, diventa quasi sua per effetto di quel compiacimento. Intorno all’involontario per ignoranza è anche da osservare, che bisogna distinguere ciò che si fa per igno- ranza, da ciò che si fa ignorando bensì, ma per un altro motivo. Imperocchè l’ubbriaco e l’ adirato è certo che non sanno quello che fanno, e tuttavia non Sl può dire che operino per ignoranza, e quindi si devano ritenere involon- tarie le loro azioni; le loro azioni, anzichè dall ignoranza, AO origine dall’ ubbriachezza € dall ira, SR non hanno saputo astenersi © da cui derivò 3PRUGL, ‘OSCUra= mento della loro mente 3. Per conseguenza chi abbia 4 Etb. Nic. III, 1. 3- 9 Eth. Nic. INI, 1. 13 © 19: 5 Eth. Nic. III, 1. 14 permesso che gli affetti dell'animo suo prendano tanta forza da accecarlo interamente, sicchè non possa più discernere quello che pure poteva discernere, costui non accusi come causa di peccato la sua ignoranza, ma quegli affetti che non ha saputo regolare. Ancora non è da credere che renda involontaria l’azione l'ignoranza dell’universale, cioè del bene e del male, l'ignoranza che riguarda il fine da conseguire, per cui gli uomini volgono l’opera loro ad un fine indegno, non sapendo ciò che sia veramente da desiderare. Il malvagio ignora ciò che convien fare e ciò da cui con- viene astenersi; ma non per questo egli è non malvagio: anzi è questa ignoranza appunto la causa della sua mal- vagità!, Chi opera male non può addurre a sua scusa R di aver ignorato ciò che conveniva. fare. L'ignoranza x del bene e del male non può essere ottima ‘scusa del | ‘peccato; altrimenti si dovrebbe riputar buono chi pure abbia commesso azioni turpi ed ingiuste, quando in antecedenza abbia stimato bene quello che si propose di fare ?. Invece rende involontaria l’azione l’ignorare le cose i singolari nelle quali e intorno alle quali versa l’azione medesima; chi ignora qualcheduna di queste, ben lungi dall’operare volontariamente, merita compassione e ‘4 Eth. Nic. III, 1. 14 în fine e 15. 2 Aristotele oltre che dell'ignoranza dell’universale, * P22) 1: x: III dvorz, parla anche d’un' ignoranza che ha luogo nel preeleggere, SR È) 17 mpozipécei dryvovz, come d’una causa della malvagità, alla in #36 poy0nptxs (Eh. Nic. II, 1. 15). Gl’incontinenti, &xpxTeì, non errano nel fine, poichè sanno che sì deve fuggire la libidine, ma, tratti __—’ al desiderio, si allontanano dalla via che conduce al fine. In questi. | —©’è conoscenza dell’ universale, e ignoranza nella preelezione. Cfr. Mi. i |‘ cheler Commento cit. p. 108. + perdono !. Essendo le cose singolari, nelle quali versa l'azione, al di fuori di noi ed estranee a noi, l'ignoranza di queste è in qualche modo una causa esterna, un istru- mento esterno ed estraneo alla nostra volontà, sebbene in noi; sicchè ciò che si fa sotto il dominio di tale ignoranza, sembra fatto non da chi agisce, ma da questa ignoranza stessa. Mentre l'ignorare che cosa sia bene e giusto e retto dipende da cattiva volontà, ed è non già qualche cosa d’estraneo e d’estrinseco, ma un principio interno, una qualità propria di chi agisce, che rende questo imputabile della sua azione °. C'è insomma un’ignorantia juris, come la chiamano i legali, e wn’ignorantia facti; la prima è imputabile, la seconda non è imputabile; Ignoranzia juris nocet, ignorantia facli non nocet. L'ignoranza dei particolari può riguardare e chi opera (is) € ciò che si opera (xt) e intorno a che o in chi si opera (rspì #t È evi) 3, e con quale mezzo sl opera (rim), e per qual fine (Evezz 7ivos) e in qual modo (05) 4 Certamente non è possibile ignorare tutte queste circostanze ad un tempo, chi non sia pazzo; peroc- chè non foss'altro, come potrebbe chi opera ignorare se stesso? Ma si può ignorare o la sostanza dell’ azione, o l'oggetto in cui cade |’ azione, 0 il mezzo, o il modo, o il fine. Per esempio ignora ciò che fa O) la sostanza dell’azione, chi ignorando non si dovesse dire una certa, 1 Eth. Nic. III, 1, 15. 2 Cfr. il Commento del Michelet p. 105, 5 Accetto la spiegazione del Michelet p. 109. Il rrept ab el’èv Ti Ì i 2 L i ì U AI CD - indicano la medesima circostanza, l'oggetto in cui cade l'azione;sol to mentre il mepi ci si riferisce a cosa inanimata, l'îv 7ou si riferisce tan ico: pata, ersona Refer #s0l zi ad rem inanimam, îv ivi ad hominem. a p 3 i È + Eth. Nic. INI, 1. 10. 23 G. ZUccaNTE uu i* Dà ‘per un nemico, come Merope, e l’uccida, ignora l'oggetto cosa, se la lasci sfuggire nel discorso: chi scambi il figlio dell’azione o la persona su cui agisce: ignora il mezzo chi credendo una pietra esser pomice e perciò materia tenera e innocua, oppure essere spuntata l’asta che ha invece acuta la punta, la scagli contro qualcheduno e lo ferisca: ignora il fine chi apprestando all’ammalato una pozione collo scopo di salvarlo, l’uccida; e chi volendo solamente toccare, percuota invece violentemente, è ignorante del modo !. Intorno a tutte queste circostanze potendo aver luogo l'ignoranza, chi operi sotto il dominio di questa opera involontariamente. Se adunque, per quanto s'è detto, involontario è ciò che altri fa costretto dalla violenza e per ignoranza, volontario invece sarà ciò che sì fa per un principio intrinseco e conoscendo le singole circostanze in mezzo alle quali versa l’azione 2; 0, come spiega lo Zanotti, avendo considerato le ragioni di farla, « perciocchè le singole circostanze, 7% x20' Éxxst2, che debbon conoscersi dall’operante, contengono appunto le ragioni, per cui dee, o non dee operare » °. 1 Gfr. per tutto questo Eth. Nic. II, 1, 17. Accettiamo il 7i0xs del Susemhil, e non il rafees del Michelet, del Ramsauer ecc. L'esempio di chi appresta una pozione all’ammalato affine di guarirlo e invece l’uccide, piuttosto che un esempio di chi ignora il fine, ci parrebbe un esempio di chi ignora il modo o il mezzo. Vedi quello che dice il Ramsauer molto giustamente in proposito p. 142. 2 Eth. Nic. III, '1. 20 7òd Szobcvoy Séterev dv civa où dex Ev abré cidoti 7% nol) Enzota èv oîs modkic. E 3 Op. cit. Parte II, cap. IV. III. Alla conoscenza delle circostanze in cuirsi compie l'azione, o, ciò che è lo stesso, alla esatta considerazione delle ragioni per cui l’azione si deve compiere, mirano la deliberazione, Bosdenaiz, e la preelezione, Tpoztoegts. La preelezione, chio chiamarei più volentieri propo- sto, ha grande importanza per la virtù, ed è ad essa strettamente congiunta. RE Dalla, preelezione si giudica il costume meglio che dalle azioni medesime !. Per la virtà infatti si guarda di più al come siamo disposti nell'animo, che a quello che si fa; gli atti esterni della virtù possono essere fatti a caso, 0 per ostentazione, o per simulazione, o per ignoranza, o per violenza; se manca l'intenzione, il proposito interno, la preelezione, mpoziosaw, gli atti vir- tuosi non hanno valore etico. Che cosa è adunque la preelezione ? La preclezione pur appartenendo al volontario, non è tutto il volontario; il volontario ha un'estensione maggiore; il volontario è il genere, di cui la preelezione è una specie. E difatti e i fanciulli e gli animali operano volontariamente, ma non con proposito deliberato, non con preelezione; e le azioni che sono l’effetto di un moto improvviso dell'animo, non essendo premeditate da.chi le fa, non si può dire sicuramente che siano state proposte, o prescelte, sebbene non si possa negare che sono volontarie *. » = IN %, » , 1 Ech. Nic. III, 2. 1. Trepi TINZPEGEOS eretar dte)berv, otzetd- . è; Ù ne EIA À ” TATOYV Ye siva dozeì cf desti vat uao 7% in nplvew iv Ù TPACEOY. 2 Eth._Nic. III, 2. 2. DEMI SATO Z CPI, eee?) pi SA a 4 Pa, 356 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ unsasaezeraa:iezaazez; nnnasioneeeesaneazasose sseeneti Poneszeszoanesipanizionesianaaneraneionezeze sv anenzenennariceeneai nina neneeaniaseaianizsane. La preelezione non è neppure un fatto d'ordine appetitivo; nessuna delle specie dell'appetito, il desiderio (emivita), l'ira (016%), la volontà (fovàno:s) *, è preelezione. Che l’ira e il desiderio non siano la stessa cosa della preele- zione l'argomento capitale è questo, che i primi sono affetti che appartengono anche ai bruti, mentre invece la seconda appartiene soltanto all'uomo. Per quanto poi riguarda il desiderio in particolare, preelezione e desiderio si op- pongono l’una all’altro, come avviene hell’incontinente e nel continente, nel primo dei quali la preelezione è vinta dal desiderio, nel secondo per contro il desiderio è vinto dalla preelezione ®. S’ aggiunga che il’ desiderio ha per oggetto il piacevole in senso positivo, il doloroso in senso negativo; la preelezione invece non ha per oggetto nè l'uno nè l’altro. Chi desidera, qualunque cosa desideri, JI: Bpetic, appetito, risulta veramente di tre clementi, 0up.òs, eridupiz, Rodina: Cfr. Eth. Nic. I, 13. 18 e la nota dél Ramsauer a quel luogo: « 7ò emibrinazizoy zi 6)0g bpeztiziv: hoc denique nomen 70 4)6Y0v illius.... ad quod universam Thy #014hv dpethv referri mox discemus. Primum est in eo quod habet èr iMuniay, at insunt etiam alia, ut addita voce %%Ì 190; ROTOnTe, quae presto Th ET I DDAZAI DS dpicems sunt. "055 E1s VEN ve Pe NTAZ vai Quuds où Bobana (414 b 2) » pag. 75. 2 Eth. Nic. II, 2 4 za! 6 &zoztie Ce DIIONIDTA] Tare mpozipodu evo d' où 6 Syapathg Ò' avdrzdiy Toogipobuevoe ev, Ceri VIIXONI d’ où. Il continente e |° incontinente hanno questo di co- mune che c'è in loro una specie di lotta intestina come di forze ostili; da una parte il desiderio, dall'altra la ragione; nel continente 3 la ragione si assoggetta il desiderio ribelle, nell’incontinente il desi- derio ottiene il sopravvento. « Quum Aristoteles ad mores hominum spectans, ut breviter loquamur, quatuor distinguat genera (qui boni, qui mali sunt, qui &y4p%TeTs et CRI in duobus illis quos, priore » loco diximus, discrimen quo in anima % Gostic a ratione differt ante” “ani tai Pacini te nai init NELL’ ETICA D'ARISTOTELE 357 sia buona o turpe, per una certa necessità dell’ umana natura se la finge come piacevole; chi preclegge, anche se per caso preelegga i più turpi piaceri, se li rappresenta sempre come beni !. Non è adunque da confondere il ° desiderio, colla preelezione. > Anche meno è da confondere l’ira con la preelezione, poichè le cose che si fanno sotto l’ impulso dell’ira, sono ben lontane dall’esser fatte con meditazione e proposito deliberato *. La volontà, sebbene affine, non è neppur essa la stessa cosa della preelezione. La volontà infatti può versare intorno a cose che o sono del tutto impossi- bili, come chi volesse vivere immortale, oppure sono tali che il farle non è in potere di chi le vuole, come chi volesse che un certo istriéne o un certo atleta vin- cesse. Chi preelegge invece, non si propone cose impos- sibili, salvo il caso che sia pazzo, nè cose che non sia in suo potere di compiere 3. Aggiungasi che la volontà si riferisce piuttosto al fine, la preelezione invece, ai mezzi che conducono al fine. Noi vogliamo esser fe- lici, scegliamo i mezzi necessari al conseguimento della oculos non est. lam enim in .probis hominibus Tò dpe4tizoy totum se conformavit ad auctoritatem rationis, in pravis co. redacta est ut potentiae 705 opeztinod libenter assentiat et inserviat. Contra oi 49% mel et oi azparete id commune habent, ut in utrisque spectetur inte- stina animi dissensio et dimicatio quasi virium hostilium... In ANZI enim victa ratione optime apparet con) sit propria 775 dpitews vis spernentis © TOY If. +; in îjnpeare stz vero subacta cupidinis rebel- lione eventus docet, rationem iubentem atque increpantem aditum habere ad 7ò dpetu0Y ». Ramsauer Commento cit. p. 74 i { Eth. Nic. JII, 2 5. Cfr. la nota del Ramsauer a questo luogo. 2 Eth. Nic. III, 2. 6. 5 Éth. Nic. IMI, 2. 7-8. RE ore a a ad felicità. Dire che si sceglie d'essere felici non sarebbe conveniente !, Se però la volontà è differente dalla preelezione, non è differente che nella maggiore estensione ch’essa ha: noi vogliamo quello che preeleggiamo, ma non inversa- mente tutto quello che vogliamo preeleggiamo ?. Stabiliti i confini tra la preelezione e le singole forme dell’appetito, resta a vedere se la preelezione sia un fatto d'ordine puramente intellettivo. E qui Aristotele | confronta la preelezione coll’opinione, dé, dando però i all'opinione un valore e un significato più esteso dell’or- .dinario, sicchè si può dire che abbracci in generale tutta l’ intelligenza 3. È 1 Eth. Nic. III, 2.9. à e: “6 ? Eth. Eudem. II, 10. 17 &rxvTeg zo Govtonela È nel Tonzi- i pobuebz, ob pevtar ped Rordoualz, riva rpeozipobts"z. Osservo però che in realtà tutte le cose che si vogliono, si scelgono anche; perocché le cose impossibili non si vogliono, si vorrebbero soltanto; c’è, vale a dire, per quanto riguarda le cose impossibili, un volere iniziale, non una vera e propria volizione; c'è il vorrei, non il voglio. Si 5 Eth, Nic. III, 2. 10-15. L'opinione com'è intesa qui abbraccia La in realtà tutta l'intelligenza, perchè in 1° luogo si riferisce anche alle cose eterne, che cioè non possono cssere altrimenti, quindi abbraccia. quella parte del principio avente ragione, che Aristotele chiama 7ò Pr . ’ . . . . pr EmaTovzoy; in 2° luogo sì riferisce anche alle cose che possono L: essere altrimenti, quindi abbraccia quell'altra parte del principio avente Cor ragione che Aristotele chiama 7ò ).0yto7t6y (Cfr. Eth, Nic, VI, 1. 5-6). È * Per conseguenza abbraccia l’intera ragione. Senza contare che è leo- + enti didvorz, perchè dof4lousy di ci 307 insi it CD path dizvoz, p o9439uev de TL EoTw, e insieme moeztizA RIGICATO , ; i $ i drdvo1a, perchè:dot4lonev Tini cuuptper i oc. Il dolzoridy adunque. È : Sal ha qui la stessa estensione del davanti. Nel libro VI cap. VS il È x » Telo "a . 4 . - AR —_——’—doQxstiziv ha un significato più ristretto: % == yde dé * S pi Li cu Teol TO ° evdey duevov Dos Eyew al i geivacis. AAT NELL’ETICA D'ARISTOTELE 359 Primieramente adunque l'opinione si estende a tutte le cose, non meno a ciò ch'è eterno ed impossibile, che a quello ch'è in nostro potere; la preelezione invece si limita a quest'ultimo appunto, come già s'è fatto osser- vare !. L'opinione ha per sua legge il vero; la preelezione il buono. Coll’eleggere il bene od il male diventiamo di certa qualità, buoni o cattivi, mentre coll’ opinar bene non si diventa buoni, come non si diventa cattivi coll’opinar male *. E poi si sceglie di seguire o di fuggire una qualche cosa in seguito all’ opinione che ce ne siamo formata, ma non si può dire affatto che opiniamo il seguire o il fuggire medesimo ®.. Si noti inoltre che la scelta cade su beni conosciuti, mentre l'opinione si forma là dove manca una perfetta conoscenza *. Finalmente se la preelezione fosse la stessa cosa dell'opinione, si vedrebbero le stesse persone opinare e preeleggere il meglio: mentre non è raro il caso che si opini il meglio e per malvagità d'animo si elegga il peggio °. 1 Per quanto fu detto adunque la preelezione non è un fatto che appartenga del tutto 0 all’ appetito 0 all'intelligenza. Forse che risulta di tutti due questi ele- menti? Vediamolo. Ma prima esaminiamo che cosa sia la deliberazione, . 41 Eth. Nic. III, 2. 10. 2 Eth. Nic. SII, 2. 10-11. 3 Eth. Nic. III, 2. 12. ‘ RUS, 13. %d Tooztpodue % où rav touev. Intorno al qual argo- ice il Ramsauer: Parum in hoc sexto A Îoc vi , Ò Sara 4 ziòv dotalovtwYy 00 OLGTAL0VGWY, . Ma univ È$ uoMiota iouev 4 Eth. Nic. III, 2. \ (Sa \ Kay = SÌ dpa9à dvra, Dobalopev dè to si può riferire quanto Ò Evo. Y%0 iDevar 1140 db 24-27. men argumento ponderis: YI olovtal cups e ‘ mpozipeois esse d0S4 TU s Eth. Nic. III, 2. 14 Poterit igitur nibilominus ° dii è. titan nazio piantina ® PY log * stesso Tpoxtosote foblevai, perocchè la scelta pare non si possa dare senza aver prima deliberato che cosa si debba scegliere. Il nome sw indica elezione di una cosa con esclusione d’un’altra, e ciò non si può fare senza un antecedente x è) giudizio e un'antecedente deliberazione. IV. La deliberazione, fobieva, è come quella specie di giudizio pratico che nelle creature intelligenti e ragionevoli deve sempre precedere l’azione. Perciò appunto non in tutte le cose si delibera e si prende consiglio. Non sì delibera sulle cose eterne e immutabili, o sulle impossibili ‘a ottenere; non si delibera sulle cose che dipendono dal caso, e neanche su quelle che dipendono dagli altri uomini; non si delibera su ciò che o per necessità di natura o per altre cause avviene sempre d’un modo, 0 sempre muta !. Si delibera invece su quello che dipende da noi e che può essere operato da noi, fovXeuius)a dì repl mov 89’ fiutv mpazzov *, là dove però l’esito è incerto e indeterminato, e ci può esser luogo a dubitazioni molte x e diverse; chè dove è certezza e sicurezza cd esattezza, anche nelle cose nostre non si delibera 9. . 4 Eth. Nic. III, 3. 1-6. 2 Eth. Nic. IlI, 3. 7. \ D 3 (3 Eth. Nic. III, 3. 8-10. %xl mept pèv mas dzorbeis al abrdo- \ LIT » pei E) » toy èriotmuiy nba fatt Bouth..... td Bovdeveclar dì èv I SE OA A UL IS di 7ò x #R0À E A gola NEL mois ds ETÌ Fò FOO, di priore dè nos aroboerzi, nai èv 0Îg ddLd- NELL’ ETICA D' ARISTOTELE 361 sensoszerzeveeansazzosiessoneanen Si badi però che non si prende deliberazione e consiglio intorno ai fini, ma intorno ai mezzi che condu- cono ai fini. « Imperocchè nè il medico si consiglia s' egli ha da sanare, nè l'oratore se ha da persuadere, nè il politico se ha da fare buone leggi, nè alcun altro dei rimanenti si consiglia intorno al fine: ma tutti avendosi proposto un qualche fine, indagano in che modo e per quali mezzi sarà ottenuto, € se apparisca che per più mezzi si possa ottenere, ricercano per quale si otterrà più facilmente e meglio, e se non si possa ottenere che per uno, ricercano il come di quest'uno, e il come di quel come, finchè giungano alla prima cagione, la quale -. L'ultimo nell'analisi è primo nella ricerca è ultima. . li ultime parole vanno intese nella generazione » , Le qua I Eth. Nic. III, 3. 11-12. Non è vero che si deliberi sempre in- on intorno al fine. Verius enim hoc (che deliberiamo intorno in artibus, velut medici, oratoris. - - e ordinandam spectant. Etenim quomodo erit judicandum de torno ai mezzi e N Ecco le giuste osservazioni del Ramsauer a questo luogo: ai mezzi e non intorno al fine) uae ad universam vitam ben quam in iis q aa RO REESE * ve ut ipslus philosophi vestigia Preriano i Re e dy dizapivat OTOV AITI TOLG) AIOETEON, illo cui forte factum est LAAET i : quoniam et timet instantem dolorem nec libens admissurus est quo efas sit (r110 @ 29-33)! Annon ambiget deliberabitque, utrum dolor na t? Aut igitur duplex genus sibi fugiendus an honestas amplectenda si ee ltera qualem h. 1.(C 15 sq.) depingit; Boumis es de fine altera, altera 3 i Ve) aut illa quidem meditatio quae ad ciln perunet, quamqua psa i vel ACETI, intendi audivimus, alio nomine indenda genere seponenda. Silentio vero camdem obruere utrumque negari non poterit et esse cam et facere pi . CRI o Neque enim in exemplis quibus nititue Aristoteles 0 Ù k quod dici. Fuerunt profecto viri poliuci, Ilent sUvopiav compa in pio aliquani 14 - - erateta TIP wPETSO: haud licuerit: na ad mores hominum. S ino verum est ra È eno certo constabat, utrum ma ; a uibus haudita P i pre DARet I; ivitati an sibi potentam; arqui Ista de fine q rare Cl sibi così: quando l’uomo nella sua ricerca dei mezzi per giungere a un certo fine, è arrivato a quell’ ultimo, oltre il quale non resta più nulla a deliberare, cessa dal deliberare e incomincia a operare: per ciò quello che fu ultimo nella ricerca diventa come il principio dell’ azione. Avviene qui quello stesso che nella risoluzione d'un problema di geometria. Chi si propone, ad esempio, di ricercare il centro d’un circolo, dati tre punti della circon- ferenza, congiunge i punti con due rette, divide le rette È in due parti eguali, innalza una perpendicolare sopra il "i ‘punto di mezzo di ciascuna delle rette, e dove si incontrano le perpendicolari, qui ha il centro del circolo. Il centro del circolo è ultimo a esser trovato, ma in realtà è il principio da cui dipendono i singoli momenti della figura geometrica descritta, è il principio da cui il matematico | fu mosso a fare quella sua operazione !. Insomma fra la deliberazione e l’azione, fra le Bobdevas e la pà4:5 intercede questa relazione, che il fine che uno si propone a raggiungere, è il principio della deliberazione, eil termine della deliberazione è il principio dell’azione 2; ciò per cui si fa l’azione (65 od fveza) è il fine, ciò che muove all’azione è quell’ultima cosa che. ; fu escogitata dalla deliberazione: il primo è causa finale, | la seconda è causa motrice (60sv zivaoto). i ‘ Del resto è naturale che se la ricerca mena all’impos- sibile, si cessi dal deliberare e si abbandoni il pensiero dell’azione 3; come è naturale che si deva porre un qualche { Eth. Nic. III, 3. 11 in fine: è y&p PovAevopevos Eorzey Cnteiv uri daiva)ibe Toy cipa ivo: Teoroy OoTEg DICA TLITZA Cfr. il com- mento del Michelet e del Ramsauer a questo luogo, 2 Eth. Eudem. Il, 11. 6. #5 pv GÙv Y0Gzo Ò SE Ni Di (a n by Tò ito È 5 Eth. Nic. III, 3. 17. BoyMevToy DI vl TIONISTO È TÒ, | i ZA ZOATO ; 4 ef nf T00- TINI d9mpLepevoY 4Òn 70 mpozipetov. 70 YZ9 Ca 776 Ho Dogo 21 dp Ennntos SaToy ms TpaSei, 4 "x . A bet yotMiy T0OLL9ETOV. EGTUY. TZU vpriev Toti O . (N i y PLS Y DIXI DITO Ea TÒ “ifodueroy Gray sly abroy WASLIATA coyhI, 42 x y } ra zodro 1% TO TA0ULIOVEVOY TONLTELO dx "Oy Sutuelto! ot TONLTELOY 45 Opnpos culi SaXov dì 7odTo z2i Ent dpy alto) SCE ZINIO % mposdowvta In poche parole, può avvenire che la parte appetitiva della nostr'anima, la dpeGts, si opponga alla presa delibe- razione, ein talcaso nonsi ha preelezione; oppure che la dpe- € sia disciplinata per modo da lasciarsi guidare dalla ragione e da acconsentire per ciò a quella, e in tal caso ha luogo la preelezione. Dal che si vede come la. preelezione, contrariamente alla deliberazione, non sia semplicemente un fatto d'ordine intellettivo, ma abbia natura mista, risulti cioè d’intelletto e d'appetito, e si possa definire come un desiderio, una tendenza che deriva da deliberazione, e che si conforma ad essa (Gpetis fovdeutwzi) *. Per concludere, due momenti si devono distinguere nell'atto complesso del volere. Dapprincipio si delibera intorno ai mezzi necessarii al conseguimento d’ un certo fine; è questo il primo momento, il momento della {o)- euri. Compiuta la deliberazione, lo spirito si deter- mina e dà l'impulso necessario per compiere gli atti esterni ed interni che valgano a far conseguire quel fine. E questo il secondo momento, il momento della rpordozors. È in questo secondo momento che si manifesta propria- mente l'energia del volere; la rpoziosaw è forza appetitiva illuminata da ragione, o, per dirla con Aristotele, appetito razionale, o ragione appetitiva, è il principio die. costituisce in proprio l’uomo, @ 7ozita deyà dolpo . L'uomo apparisce appena si MAU la volontà. Tiso pn 33 159. 1 Eth. Nic. III, 3. 19-20. dvtos Sì 700 © pron TOY uu ino PA02) A TRO sl a E e N n e AMA SIT i x - b P N e È : o E — È Me ae reesrcocosseceseapennponegeetosscoseogeseuandiene con vonaereonenerarsz TRIESISI Ne egsserenpasesecacagezssseppssonne Pe der setti e il potere di deliberare fra due partiti e di decidersi per l’uno di essi, escludendo l’altro. Sta qui la nota distintiva che lo eleva al di sopra degli animali e lo separa da essi !. La deliberazione e la scelta, s'è detto, cadono sui he conducono al fine, cadono su ciò ch'è possibile, mezzi c tutto ciò che rinchiude cadono su ciò ch'è in nostro potere; una impossibilità fisica 0 razionale, tutto ciò che oltrepassa “la naturale capacità dell'uomo, tutto ciò che riguarda il fine, è escluso dal dominio della deliberazione e della scelta. ; Sul fine non si delibera, nè si sceglie; l'appetito volontario, BobXnat, è per natura determinato al fine; È anteriormente ad ogni deliberazione e ad ogni scelta noi vogliamo il bene *. 5 Aristotele al pari di Socrate, al pari del suo maestro Platone, ammette una tendenza generale dell’ uomo verso il berie, tendenza che occupa presso la ragione umana il medesimo posto che l'appetito presso la sensibilità animale. E questa tendenza s'impone a noi; noi l'accettiamo come un fatto intorno 2 cui non si discute nè si delibera. « L'appetibile, osserva Aristotele, muove dapprincipio, il A dpelte divonmuh, val fi capo. Me Be 1 Aristot. De Part. amm. IV, 10. 6 9 Frh. Nic. II, 2.9. " pév Boblnsis Foù at)005 tori paddy. 30 Tata a di Bobdmars ri uèv È covdan day diiporos. Cfr. rutto il FUN Nic. 1U 4.1 oî eius Sotly sipatat. a . dirtelo pensiero muove in seguito a causa di esso, di maniera che l’appettibile è l'origine del pensiero... L' appetibile muove senz’ essere mosso dal pensiero ch’ esso eccita » x E questo appetibile è il bene. Il desiderio e la volontà del bene adunque non è nel potere dell’uomo. In suo potere sono soltanto la deliberazione e la scelta dei mezzi. La deliberazione e la scelta infatti suppongono non soltanto che due possibili siano presenti, e quindi la contingenza nell’oggetto dell’azione; ma eziandio che l'azione sia contingente per rapporto a noi, vale a dire che niente ci obblighi a scegliere e a tradurre in atto uno dei due possibili piuttosto che l' altro. Contingenza nell'oggetto a cui s' applica, contigenza nel soggetto che la deve applicare, sono le condizioni della scelta °. Gli animali hanno bensì potenza motrice e sponta- neità di movimenti; ma questi movimenti, pure spontanei, pure non determinati dal di fuori, sono però sempre sottoposti interamente a una forza intrinseca, l'appetito; e si compiono colla stessa rigida necessità con cui in un sillogismo date le premesse se ne trae quella conclusione che vi è contenuta. « Presso l’animale l'appetito tiene luogo della maggiore; la sensazione, o in generale l'intuizione, della minore; l’azione, della conclusione ». « Bisogna bere, 1 De anima III, 10.2 e 7 TÒ è ‘4 Suivora aei dTL doyn abrlis tari mò dpeziov.... TOÙTO N02) uve Ob ALvOUNevoy TO vonbdiva.. 2 Eth. Eudem. II, 10. 10-11. TÀ pièv {20 duvztà pev sori z2Ì siva vel ph civas, DN obi do uiv adr h fivens èoth, DIL TÀ per did gbsy TZ Di di wars aitizs yer, mepl Oy abdels dv èyysrgnosie Bondebcala: più apuoov megì Oy D avdézera vu / . % 4 n x . \ RZSA Pe pevoy 7ò siva val pih, Id val 70 Bontebazaa coîg dvbpdamore, | » ri att N >, Dia OR) SATA SI eZ È d DES ITAUTA tati box èo° vipiy toni mozioni uh Toda. dice l'appetito; ecco la bevanda, dice il senso, e tosto l’animale beve! ». L'uomo non ha soltanto le facoltà dell’animale, il principio motore, l'appetito, la sensibilità; ma un’altra facoltà ancora che tutte queste trascende, la ragione: colla ragione compare nell'uomo il potere di.deliberare e di scegliere. La maggiore del sillogismo pratico che riguarda il fine da raggiungere, è nell'uomo ancora fatale, perchè il fine è dato da natura e non può essere che il bene; ma la minore, che riguarda i mezzi, non è più abban- donata alla sensazione o all’imaginazione, nè è quindi quella prima che capita; bensì è soggetto di riflessione € di esame da parte della ragione, che la determina libe- ramente. La minore del sillogismo è perciò contingente, e contingente è anche l’azione, o la conclusione, che partecipa della essenza di quella. x Questa contingenza 0 libertà nell’operare è il grado più alto a cui possa giungere la natura, ed è il privilegio esclusivo dell’uomo, dell’uomo adulto e maturo, chè il fanciullo partecipa ancora con tutto l'essere suo all'ani- malità *. Per questa contingenza 0 libertà l'uomo è il padrone dei suoi atti, è il loro generatore, come è generatore dei suoi figli 3: a nessun altro va attribuita un'azione che a chi l’ha fatta con contingenza e libertà. 1 Ravaisson Essai sur la metaphysique d'Aristote t. I. p. 494. 2 Iuer: "Gis Td moToy, tal) 3 « Iottoy pos imbpla Veyer Tods 70 moto, i atalinore simey, dc n 9, SAT . È A guitasta, À è vode, sbids iver. De Anim, mot. VIII. Cfr. De A aoieianiit i Anima VI, 1h specialmente $ 2. z x x , 5 9 Aristot. Historia anim 1, 1. BovdevtIzby dì povov avbprtos x x tari i Louv. Eth. Eudem. II, 10. 18. Uta Ev Folk dimo Cor T% 3 x î \y A mpoal9e0%4, oUrz îv mdon iuzla. DA ì, IVI AMI è 44 e 3 Eth. Nic. II, 5 5 4eXaY sivzi YEYVATAY TOY TIASSOY WETEI La virtù pertanto è in nostra facoltà, come è in. nostra facoltà la malvagità !. « Perocchè in quelle cose nelle quali è in nostro potere il fare, è anche in nostro potere il non fare, e în quelle nelle quali sta in noi il no, sta anche in noi il st: cosicchè se il fare, quando ciò sia bello, è in nostro potere, sarà anche in nostro potere il non fare, quando ciò venga ad essere turpe; © se il non fare, quando il non fare è bello, è in nostro potere, è anche in nostro potere il fare che venisse ad essere turpe. Che se è in nostro potere il fare le cose belle e le turpi, ed egualmente il non farle, c ciò vale quanto esser buoni e cattivi, starà appunto in nostro potere l’esser buoni e cattivi » *. Il qual luogo è da intendere cosi: non c'è ragione che delle azioni cattive si giudichi diversamente che delle buone, e mentre le seconde si trova comodo far dipendere da noi, si creda non dipendano da noi le prime: sono in nostro potere le azioni buone e le cattive nella stessa misura, e poichè dalle azioni risultano gli abiti, anche la virtù e la malvagità. La vecchia sentenza che wnessuro. è volontariamente malvagio, nè involontariamente beato, obdeic Ezòv rovnods odd’azov pizzo, è vera nella seconda parte, è erronea nella prima 3. Anche Socrate errava quando affermava che la malvagità è involontaria e fin anche la a vai stavo. Cfr. Magn. Mor. diiloy oùv dr è Mlpwro: T6v Tp4= «i Eemy tori qevratizds. 4 Eh. Nic. III, 5. 1. : 2 Eth Nic. III. 5. 2-3. Abbiamo tradotto: ciò vale quanto esser 4 buoni e cattivi. Il testo veramente ha: 7070 di iv ad ceyalloto nad ua29ì sivas. È adoperato qui il passato fiv perchè fu dimostrato prima pri (Cfr. il cap. I del libro II) che col fare il bene od il male si diven xa | buoni o cattivi; e l’autore intende riferîrsi a quanto ha detto allo | 3 Eth. Nic. III, 5. 4. virtà !. A chi attribuire le azioni se non all'uomo stesso, a un principio ch'è in lui #? Non sono prova di ciò gli onori ed i premi che si danno alle azioni buone, i biasimi ed i castighi che si danno alle cattive? Certamente coi primi si vuole incoraggiare la virtù, e coi secondi disto- gliere dal vizio: ora chi vorrebbe eccitare o distogliere dal fare checchessia; qualora questo non fosse nel nostro arbitrio? Si eccita forse qualcheduno a non avere caldo o dolore o fame, quando in realtà egli provi tutto ‘questo 3? La lode ed il ‘biasimo, il premio ed il castigo non si danno alle cose che sono il risultato della ne- ‘ cessità, della natura o del caso: non si loda e non si biasima, non si premia e non si castiga che ciò di cui noi siamo la causa 4. La stessa ignoranza il legislatore punisce nelle azioni . umane, quando sia frutto di colpa e derivi, per esempio, da ubbriachezza o da negligenza, che stava in noi evitare ?. 4 Per verità solo l’autore della Grande Etica sostiene che Socrate ammettesse non soltanto la malvagità, ma anche la virtù essere invo- = lontaria. Loxp4Tas È9%, ob èo' ipo favola nò arovdzio»e sbai Î gu0)0vs. si {9 T6 gui, iprheeiey ivtivagiY OTEPOY &Y oUleiz dv foro Tv dduzlzv.... x CISA BovXorro Sia: siva fi #0L403, | a ps DI I) +; », A 5 9 dov d © ei 920708 235 siolu, ob %y E4OVTES ENG%Y Uzbtor ; Horse dflov dti obdi arovdzto.. Magn. Mor. t. 9. 7 -$. > Eh Nic. III, 5. 0. Eth. Nic. III 5- 7. 5 ma sa tI »% = O Tor È, Vu Wi " 4 Eth. Eudem. IT, 6 10. Ersi d° "ee N ù sit va . n DIN x t— E szrd | Ve PETAL à 1 quriv Soy 7% peY ErZiESa è der defi Y aa AMEITEN ber SSL Si cd di avdlgzns di ebyns Di proeos Urso L I . ad dn SI V- où vii èRANElTot DTT VERRI 2) Gewy uuroi atrrot SGuavi 050Y viag Yos aitros, EASÌvOs ONT, nA o pela RIS x iagy déyor x sì adv Erzavov gye1), diiloy brr net pet vai 4: ì BREA i 4 venni. FEpÌ cuba ton Oy abtds giciog nai def TIAGEOY. = ") AI Tv s Eh. Nic. III, 5. 8-9: , 24 G. ZUCCANTE 3 srt RE neo 7.1 viel RT È to ilzaza del corpo, se effetti Perfino certe brutture e certi vizii uindi da noi e di trascuranza 0 di abusi, se dipendenti q non da natura, vengono, biasimati e puniti !. Taluno potrebbe opporre che se altri trascura j suoi doveri, gli è perchè è tale che non può non trascurarli; che tutto quanto egli fa di male, è necessaria conseguenza del suo carattere, € dell'abito oramai preso di fare il male *. Ciò è vero; ma di aver preso quell’ abito l’uomo è causa e responsabile. Stava in lui il nov condurre la vita tra i maleficii e le gozzoviglie; stava in lui il non com- pire i singoli atti da cui dovea derivare a poco & poco L'abitudine del vizio; egli pur sapeva, © l’ignorarlo è da insensato, che dagli atti si formano gli abiti; dovea atti che conducono ad abiti mal- vagi. L'abito malvagio è volontario, com’ è volontaria la malattia che s'è contratta furia di sregolatezze © per aver trascurato le prescrizioni del medico. Si sa, non è in potere di uno, per quanto lo voglia, non essere malvagio, quando malvagio sia diventato: Ma era in suo potere non diventarlo. Non è in potere di chi ha scagliato un sasso :l trattenerlo, ma era in suo : potere non scagliarlo; non è in potere di chi s'è ammalato dunque guardarsi dagli A per sua volontà, riacquistare la salute quando il voglia, È ma era in Suo potere non ammalarsi 8. vi E perciò degli abiti si deve direbensì che non sono tanto TE in nostro potere, quanto sono le azioni, perchè di queste % siamo padroni dal principio alla fine, e di quelli invece soltanto da principio; ma non per questo si devono Con- - siderare come indipendenti da noi e quasi non nostri 4. i Eth. Nic. III, 5. 15-16. 2 Eth. Nic. II, 5. 10. 3 Eth. Nic. II, 5. 10-14. 4 Eth. Nic II, 5. 22. 90/, duolos dì gi modbers snoberol Ta e I. 1 Si 7 0 MA Lalla Si potrebbe opporre ancora che l'uomo opera sempre mirando, come a fine, a ciò che gli sembra bene; e non dipende dall'uomo che gli apparisca bene questo o quest'altro, non è l’uomo signore dell’apparenza (cis pavtzataz où vipios); invece quale ciascuno è, tale gli ap- 2 parisce anche il fine; se cattivo un fine cattivo, se buono un fine buono !. ReTA r Ma se ciascuno è in qualche maniera cagione a se stesso del proprio abito, come s' è dimostrato, dipendendo da lui le singole azioni da cui l’abito deriva, è per ciò stesso cagione dall’ apparenza, cagione dell’ apparirgli questo o quello come bene *, perocchè il giudizio morale è sempre in corrispondenza all’abito contratto 3, e quali noi siamo, e tale è il fine che ci proponiamo ‘“. È Se poi s'intenda parlare non già d’una qualità acqui- sita, d'un abito, da cui dipenda la scelta del fine, ma d’ una qualità originaria, dipendente dalla natura, e si dica che l’apparirci questo o quel bene, come fine da conse- guire, dipende da natura; in tal caso non si capisce, se l'apparenza del fine cattivo non è in nostro arbitrio, come non deva dirsi la stessa cosa dell’ apparenza del fine buono, (ON " RAI AE VE OE SIIS O pre, Ep RR È apr ed sai ul Efes To Lev 29 Tpascwy 7 CY ALI pi yer ToÙ TEX0US z 5) NS e n) Su ere i ni > nes* += nbprot îGueY, sidbrae cà nol’ Enzona, TOY EEswy dì T7is do yi, 42 LIOGTLOV ’ . 4 St pae 0° gyuota dì mpdobzars où uopos, Gore èrì Tov de o DEI a a A EDU TOSI \ =; dI OTL io ipy Riv ovTOS A LN DITO prozia, dx TOÙTo ELDUGIOL. 4 Eth. Nic. III, 5. 17. ; Me 92 Eh. Nic. II, 5: 17 BI ev oùv EnaGTos sito Ts ESEm3 GTI FW AT, 24 TRS qurTanlas fora TW aùtòs ars. as 3 Cfr, Eth. Nic, IMI, 4. 4 specialmente le parole 6 aTovdZios YR9 unì èv E44GTO m%\nbès adrò o2veTat. tI votver 00005 poro voler 09U0s, i; CESRDA 20 AL TO mori 7wzs siva Tò TEMI TOLOvdE 4 Eth. Nic. III, 5. Pi aspetta. e si continui a chiamar volontaria la virtù e degna di lode e di premio, mentre invece la malvagità si dice involontaria, e non si ritiene quindi meritevole di biasimo e di castigo. A tutti duc egualmente, al buono e al cattivo, a il fine apparisce per natura O comecchessia, e vien posto x + tI 7 IL sd nat die dyaloy aipricetat, noi fatw sbguns @ ToUTO ernia Yi VIEN RANE o . a MINDS TEGULEV © TL ZIO) dh dgeth Ts varrdize fama EAGUGLON 3 mò nun, Td Edo quae " - È n tc] INS Tous TADTA TOZTASL, dz TOÙUTOY Eolo OÙA (CRI - è CURL QUEI 233 -Ò ugo YZ ouolos, TO dado rà iTwadATOTE QUNETAL uri astra, Ti dI Vorrk mods TOUT daga govTes TPUATTOVGU inoadimore. pp 2 Id. ib. RESA TL ee ee Come si vede, Aristotele, in risposta all’ obbiezione, ha insistito più che altro sul fatto che virtù e vizio vanno trattati alla stessa maniera, e se si dice involontario il secondo, perciò che l’uomo non è libero nella scelta del fine, involontaria si deve dire anche la prima per la stessa ragione. Ma ha lasciato insoluta la questione che si riferisce all’ essere o non essere veramente volontarii la virtù e il vizio. A che giova infatti a tal uopo affermare che virtù: e vizio sono volontarii, perchè sono volontarie le azioni da cui questi derivano? La questione è così semplicemente spostata, dovendosi sempre dimostrare come € perchè siano volontarie le azioni. In sul finire perciò Aristotele aggiunge: « Sia che il fine, qualunque esso sia, non apparisca per natura @ ciascuno, ma sia in parte anche presso chi agisce, &Xe ni nai map abrdy tot, sia che il fine sia dato da natura; per il fatto che il buono opera volontariamente il resto, la virtù è cosa volontaria, e punto meno verrebbe ad essere cosa volontaria la malvagità. Perocchè similmente anche nel malvagio si ritrova il condutsi di per se nelle azioni, sebbene non nel fine, duotos osi da) O pria qa sd de gùrby è TAS TpUGSAUI vo sì uh SY T@ TO » ; Le quali parole indicano che adunque, ance e au l'ipotesi: che ‘ fine derivi da natura, le nostre azioni pero oi, sono în nostro potere e non vi siamo scono a ll i AE, volontariamente quello che determinati; L'uomo Opera vi Ù i Ne và obesi endoro QI i stre dh FO mEX0g MN DUCE ERLOTA ne 4 Eth: Nic. TIT, 5. 19 SETS PERI DIR 4 TII uoToy Sam, € È ’ a rd puev Ted0s N i x pero E2099L0g =dy arovdziov # dosth VETZAI piovd mote: \ io di Mom Toe D SUE 2 ooy 20 i dI szotoror dv sta. duotos Ficià] (e) Pil VU ACCAGI 1,71. ì ; | St ESS Ho “rd DL abrdy SY mite morbo nai el LI UGO, È . e 7 N fuoUgtoy È RCA Soi ra nas DELE , opera, sebbene il suo operare sia diretto @ quel fine. La le opere che conducono natura pone il fine, l'uomo pone a quel fine; quindi degli abiti contratti, virtù e vizio, È egli è almeno concausa, auvzirtos !. 3 Aristotele però non alterma recisamente che il fine È derivi tutto da natura; egli non esclude che possa anche SO su essere in parte presso chi agisce, Mk si (sc. Toù 8).005) Ri $ 20 TIP UdTN; cioè, se non m' inganno nell’ interpreta= b zione, che l'uomo colla sua energia individuale possa modificare e trasformare il fine posto da natura, € aggiun- gervi quindi qualche cosa di suo: in tal caso le azioni i e gli abiti che ne derivano, sarebbero anche meglio in E nostro potere. : i ai i Per concludere, Aristotele qui evidentemente occupa CI come una posizione intermedia fra il determinismo € * l’indeterminismo; indeterminismo, perocchè ad ogni buon 20 ‘conto, anche se il fine non lo pone l’uomo, egli opera Do volontariamente quello che opera per conseguirlo; deter- > minismo, perocchè Aristotele créde che il fine sia posto da sea ve, natura, o che tutt'al più noi vi contribuiamo in minima ip” parte. Il che concorda con quanto s'è detto, più sopra, che il fine essendo voluto e determinato per natura, la DE libertà e quindi il merito appartiene soltanto alla delibe- 4 razione e alla scelta dei mezzi che conducono a quello. VI. x Per queste condizioni in cui nasce e si svolge, | 7 sola. libertà in Aristotele è di necessità limitata: nè. a E, À na A È 4 Eth. Nic. III, 5.20. 7©Y £620Y cuvalzioi TOS ultot MEI Wa S a ad I Une NELL'ETICA D' ARISTOTELE 375 caso certo di parlare della libertà sconfinata di certe scuole. La natura dell’uomo è il limite primo e più forte che ad essa sì opponga. Ecco in proposito un luogo assai notevole della Grande Etica: « Si potrebbe dire che poichè non dipende che da me l'esser buono, io sarò, quando il voglia, il migliore degli uomini.-Ma ciò non è possibile. Questa perfezione non ha luogo neanche per il corpo. Poichè non già perchè voglia prendersi cura del corpo, altri avrà il migliore dei corpi. Chè non soltanto a tal uopo son necessarie cure assidue, ma è necessario ancora che la natura ci abbia dato un corpo bello e robusto. Colle cure, il corpo sarà certamente migliore, ma non sarà per ciò il migliore di tutti; La stessa cosa conviene ammettere per quanto riguarda l'anima. Non sarà il migliore degli uomini chi semplicemente decida di esserlo; se la natura non vi concorra, sebbene sarà molto migliore in seguito a questa nobile risoluzione » Ra Non sì potrebbe assegnare um posto PIÙ importante alla natura, e negare con maggiore energia l’onnipotenza del volere. Si direbbe anzi che l’autore della Grande Etica abbassi qui di troppo lo spirito, facendolo dipendere da certe fatalità, analoghe @ quelle del TIESA lo Pie | ha degli istinti paturali; ma esso non è perfettamente AI : CIESE ne DON IREYOL a CI ATL imaidameo I Magn. Mor. I, 11472 1905 RELA ue î dA TO i uol sento Salo siva 27) GRINdIO, €2Y Pobezzi, Srna n° iuot Fot © Nato rosdalo, id Posto SI. LOI) GTOVIMITZTOS- où dh duvatdy TOLTO. Su al; dui obd' în TINTOY Di A) ° CEI e IP EA i-uusAetoa , Ina 0070. 0) LUG II > 12 Neri Tu © GOULTIS IVVETAL 70% (4 1 i ten #)}] GOULTIS he ’ nr T0Y her "0 GO. det SZ) uh 4, 9 O sa D 4 L = couzzos, 22 Îh mduov derato) “33 i fd i TOY GO: ADOS) 2) DI VIN A DAL 143 cl] Qual pesa + MINOLI NEVI VISO Aa) 2) fi quae òvoy NY STILE O serata ty ofy Ego 7d Tous UpraTz ILEYTOL ooua 190) PEAZAIO Berry pay 99) 557 î ; GOUA #0 LIT HTOY pù. duolws Ò: del RI 100 BSLO GTO ZITTI V. n N Vai Viiie/ nz OR Y dro iabre #2 ir dois. ® 1 DI , Da) uh DI21 n DIGI È) SaTÀ 376 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ formato quando si schiude alla vitas e come con una buona igiene si riesce qualche volta a trionfare di certi vizii inerenti alla costituzione fisica, coll’educazione e con un regime conforme alla ragione e alla virtù si può riuscire anche meglio a vincere e a trasformare la natura morale. Del resto, nel luogo accennato, mentre si nega l’onnipotenza del volere, non se ne disconosce però l’ effi- cacia, dal momento che a quanti aspirano alla perfezione si rivolge l’incoraggiamento: « Sarete molto migliori in seguito a questa nobile risoluzione ». E in realtà la risoluzione d'essere il migliore degli uomini, indica non soltanto che in chi la fa, c'è l'idea della perfezione da conseguire; ma il desiderio ancora e la facoltà di fare degli sforzi per conseguirla; e questo desiderio non può nascere che in chi ami già il bene, e trovi in questo sentimento d'amore la forza di attuarlo. Ma un ostacolo anche maggiore viene alla libertà del volere dalle esigenze logiche del principio di contrad- dizione. La libertà, s'è detto, richiede che gli atti dell’uomo siano contingenti non solamente nelle loro condizioni esterne, ma anche nelle loro condizioni interne, sicchè la scelta non sia in alcun modo determinata nè per l'uno nè per l’altro dei due possibili opposti. Ora in logica due proposizioni contradditorie, di cui cioè l'una affermi e l’altra neghi una medesima cosa, come ad esempio, Socrate è bianco, Socrate non è bianco, ogni uomo è mortale, qualche uomo non è mortale, stanno fra loro in tal rapporto che se l’una è vera, l’altra è falsa di necessità, e se l'una è falsa, l'altra è vera di necessità; in altre parole, la verità o falsità loro è necessariamente posta € determinata. Le proposizioni singolari riguardanti il modo con cui altri agirà nell’ avve- nire in un caso determinato, comprendono i due lati TV nio ‘ n) NELL’ETICA D' ARISTOTELE 377 srvenieaazezione onnarezeazeneaneneappisanesaianezonenettoi d’ un' alternativa e rientrano nella categoria delle pro- posizioni contradditorie; e di esse per conseguenza è da dire quello stesso che s' è detto di queste: altri agirà in un modo o in un altro di necessità; sicchè tutte le azioni che si dicono contingenti, diventano necessarie € la contingenza loro non è che un'apparenza, che tosto è dimostrata dall’ applicazione di un principio elementare di logica. « Se è necessario, dice Aristotele, che di ogni affermazione e negazione opposte, sia negli universali, sia nei singolari, l'una sia vera, l’altra falsa; non c'è più indeterminazione nè caso nelle cose, ma tutto avviene necessariamente, sicchè non bisogna più nè deliberare, nè agire » 1. Non si può negare che l’obbiezione sia forte, e che Aristotele se la sia fatta con perfetta conoscenza di tutti isuoi termini. Egli però la risolve in favore della contin- genza € della libertà. Il criterio della verità non pare @ lui qualche cosa di astratto, dipendente da deduzioni logiche, ma qualche cosa di concreto, dipendente dall’ espe- a esperienza; € Ì esperienza dimostra che c'è veramente della contingenza nelle azioni. Nel passato € nel presente, quando l'una delle due proposizioni contradditorie sia vera, l'altra è falsa di necessità e vice- versa; Ma nell’avvenire la cosa È diversa; a AVSCIDES tutte due-le proposizioni potranno essere Sa 0 vere egualmente; l'una non sarà più Vera ell’altra, ovdsv rienza, anzi la stess SÒ DA VONTO. TOT de uòv dn CIIPIIVOVTA LTOR% tata G è dmondazos, N eTÌ sai dr ° \ n L=50% simo 7455 49% AT09 Te 5 444 orgia 5750% dote È SEZ ni fiv 200070) Jeyouevoy 85 23900), N St È ; L TOY LIMO IV RES, VIa07, Tv di deudi ; \ | De Interpretattone I Do LITIGIIZOG ay sN Th sdenin TOY INTEN ; RE GNEfHn TO, ar goyyey ca È big VIGEVOS » GINE TINTA dev Sì onore? Eouyey ENZi Seu Bodeveodat Sla iv t LA RI AI n» x siva 2 pesta: _E6 bealat. olme mpafUaTeo Pg - sr udIdOY nIT4OIT* Î 7094945 Vendi ciò che è vero © assolutamente vero in questo caso, è che la cosa avverrà o non avverrà senza determinazione precedente. Le proposizioni contradditorie riguardanti l'avvenire hanno per essenza loro L'indeterminazione: « NOn sì possono considerare ad un tempo come future, come singolari € come determinate, senza contraddire i tecmini stessi della questione » >: i Così Aristotele neanche ‘dalle esigenze del principio di contraddizione è indotto a negare la libera scelta; la scelta non sì può determinare è prevedere in antece- denza. Nè a questa indéterminazione della scelta si oppone la sua metafisica. Il Dio d'Aristotele, come già fu detto altre volte, è atto puro, È pensiero di pensiero; egli non fa che pensare se Stesso eternamente, a nessuna altra cosa egli pensa, chè in tal caso nell'essenza sua purissima 5’ introdurrebbe un elemento di potenza, che ne altererebbe la purità. Perciò neanche al tempo egli pensa; il passato , e l'avvenire sono per lui come non fossero. Dio non prevede l'avvenire, come non conosce il passato. E poichè Dio non prevede avvenire, la famosa contraddizione, messa in campo dai teologi posteriori, fra la prescienza divina e la libertà, non ha ragione di essere: soppressa la prescienza, niente più s'oppone alla contingenza. Che importa infatti che dei due membri d'un’ alternativa l'uno sia vero di necessità, e l’altro di necessità falso, se nessuna mente c'è che possa dire in antecedenza, quale «sarà vero e quale falso ? Solo quando ci fosse una mente di tal I De Interpret. IX. 2 Fonsegrive Essai sur le libre arbitre, Sa theorie et son histoire, È Paris, Alcan 1887, p.31- 32- Cir. anche Chaignet, Essai sur la Psycho- logie d' Aristote, Paris, Hachette pag. 565-506. : NELL’ ETICA D' ARISTOTELE 379 fa TARE de l’obbiezione logica accennata sarebbe temibile: poichè questa non c'è, la contingenv ‘i inazi Da tingenza e l'indeterminazione avvenire resta sempre. VII Così in una esposizione per quanto ci fu possibile esatta abbiamo cercato di riassumere la dottrina di Aristotele che riguarda la volontà. Evidentemente nel pensiero dell'autore la trattazione che riguarda l'izobcroy € l'iobsv, quella che riguarda la Gobdevats € la rpozipeate, € quell’ altra che riguarda la Bob- Ina, sono tutte subordinate a quella in cui si determina se la virtù e la malvagità sieno volontarie (srobgwi cis gi doeraì pai di VILLA szobaror cio) | e.in DLOStTO potere (èp Aut). Si può dire che questa è come il fine p; cui sono i mezzi, &Se viene ultima. nel fatto, è però prima nell’idea: da- essa dipendono idealmente; quelle altre ricerche, © in grazia di essa SI son fatte. Il ensiero ‘d' Aristotele, giù accennato, che Sbello che È ultimo nella ricerca è primo nell'azione, trova qui a i licazione. sua piene Aristotele Sì proponeva di mostrare che la virtù e la malvagità sono IN nostro - arbitrio, comple- AREA tando in questo modo € dando per così dire l'ultima alla trattazione della virtù iniziata-nel libro II, era ano dile 3 2 5 He SPS . m le che ricercasse IN primo luogo se CI sia in nol naturale =". ‘riva e originaria, che appartenga proprio un’ attività primi inte RIOAIOA sia la semplice © ? quelle prime - ipercussione di un moto eta TL ibra ano r EO esteriore. Se si arrivasse a provare che niente c'è in noi di spontaneo, che tutto dipende dal di fuori, nè virtù, nè malvagità sarebbero in nostro potere, e ogni autonomia personale sparirebbe. Se noi tanto rendiamo quanto rice- viamo; se il nostro spirito si può ridurre ad una specie di congegno meccanico, il quale, senza produrre niente di proprio, non serve ad altro che a ricevere impressioni dal di fuori, ch’ei rimanda poi equivalenti di peso e di misura; a che parlare di virtù e di malvagità? Di qui la grande importanza della ricerca intorno all azar. L'ixodaov è lo spontaneo, è ciò il cui princi pio è in noi; se il principio del moto non è in noi, ma viene dal di fuori, abbiamo il contrario dell’ szo0auoy, l’azobavy, il forzato, fizroy; € naturalmente tutto quanto è forzato, tutto quanto non è spontaneo e non deriva da noi, non è suscettibile di lode e di biasimo, non può dar luogo a virtù e a malvagità. ‘ Ma questo spontaneo, quest'attività primitiva e originaria, questo principio interiore di moto, appartiene veramente all’ uomo? Aristotele non dubita di annoverare fra le varie facoltà dell’uomo anche una facoltà motrice, 7òd zuvatizòy zatà céroy!, e la congiunge strettamente alla facoltà appetitiva, xò èpeztiziv. Ecco com’ egli ne parla: « Quanto al movimento di locomozione, è chiaro che la causa di esso non sta nella facoltà nutritiva, perchè il movimento >, % ne pa » i De Anima II, 3. 1. Auvapers de is Unyiig strouey Oper pei È Ò TRO RIST b IENA AZ: A T‘40Y, giclintiziy, doesnTizov, VAVITIZOY ASTÙ TORON, SLLIONTIAON. E notevole però come altrove {De Anima III, 10, 5) Aristotele sop- * prima la facoltà motrice per sostituirvi la volitiva, #0 BovXevTizoY; not dì diziogda. 7% uson D Unyiie SR RESA NNIANIZ, Ax LEG buy, E2V AAT T4 dUVAPEL 5 , rd veri, Mosmanzby, 2icincuzòy, dita 2% sorta, T4 i È Vv? \ Ì Ì B I, #) AL, » DI > , vontiziv, BovAevtizoy, Eri d' OpezTIzoY. NELL’ETICA D'ARISTOTELE 301 mensanazinenianeolo. o pesa rei dacancesesvustesezi sovcoAUaripintiorSeacati0o pan eza tane nera rczri ; compie sempre per uno scopo, ed è accompagnato 0 CI UNE rappresentazione, & petz gxvrzstzs, O da un’appeti- ZIONE. Î deétc0s, che sì riferisce a questo scopo. Niente di ciò che non prova nè inclinazione, nè avversione, si muove, se non per una forza estranea; altrimenti le piante avrebbero pure la locomozione e qualche parte che alla locomozione servisse come di strumento. Facoltà motrice non è neppure la facoltà sensitiva, perocchè ci sono molti ‘animali che hanno la sensazione e che sono - fermi e immobili sempre.... Non è neanche la ragione e ciò che noi chiamiamo intelletto, 7ò opt vai d ua)obpevos VOÙs; perchè la conoscenza distaccata dai sensi non ci fa conòscere niente di pratico, e non dice niente su ciò che si deva desiderare 0 fuggire; mentre il mo- vimento è sempre accompagnato da inclinazione o da avversione. Quanto alla comoscenza pratica, se essa apprende qualche cosa di temibile o di desiderabile, non er ciò essa ci spinge a evitarlo o a ricercarlo.... E anche uando l'intelletto comandi, e la ragione ci dica di fuggire qualche cosa © di farla, non per questo Si produce movimento, come succede negli incontinenti che pur vedendo il da farsi, operano @ seconda dei loro desiderii. È così che quello che ha la scienza medica non gua- risce per ciò; bisogna che qualcheduno agisca secondo la è Ja scienza che agisce Infine non € i e scienza, ma nol) SIA I OETO SERRA neanche l'appetito tutto solo; dpetts, Il principio della c , Ò È jocomozione, 25716 mogli This 2aVHa80s perchè i conti nenti pur appetendo e desiderando, non DUE però ciò “e o desiderio, Ma obbediscono alla ragion» casa ds he muove è il concorso dell'appetito € Ciò € so si fa rientrare in questa la concezione imaginativa, ‘h QIITI4; perchè molti o VO. dell’intelligenz4, tativa O “Sw i (PRESA muovono contrariamente alla ragione per inazione; € altri sì animali S! muovono che a tener dietro all’imag l’imaginazione solamente. i principii della locomo- A PISTA ANTA pi non hanno la ragione, ma Queste due cose adunque sono “zione, la intelligenza e l'appetito, 4uow 40% sarà toTOY, voi zi bpelis nl. E se tale è la dottrina d' da solo, ma accompagnato all’imaginazione, il principio del moto, si domanda: è l’imaginazione, la concezione, 0 comecchessia la rappre- sentazione di un qualche oggetto, d'un fine, ciò che alla sua volta determina. |’ appetito, e ne è il principio? è l'esterno che determina l'interno? In altre parole, e come si domandava più sopra, c' è nell'uomo e nell’animale in genere una spontaneità originaria? oppure quella che "i | diciamo spontaneità non è spontaneità veramente, Ma il 196 riflesso, il contraccolpo d'un moto esteriore, come sostiene 2 modernamente la scuola positiva? n: Probabilmente Aristotele non s'è proposta neanche fi: ri la questione; 0 Se mai, non se l'è proposta con Ja. (060 x | chiarezza ela perfetta coscienza, con cui potrebbe propor- Vira si: sela un autore moderno. Crediamo lecito tuttavia affermare - PAR i che Aristotele, per quanto legasse l’appetito alla rappresen- È Ki tazione d'un fine esterno, non facesse però dipendere | interamente quello da questa. È troppo nota infatti la sua teorica dell’ interna attività degli esseri, € dell’immanenza del fine per cui ogni essere passa dalla potenza all'atto; è troppo noto che il concetto d'attività è come la chiave di volta di tutto il suo edificio filosofico, per poter credere che è quest'attività non fosse per lui attività veramente, ma il risultato di un semplice meccanismo di moti. Aristotele, se è l'appetito non alla conoscenza pratica 0 , 09 5.8g. e II, 10. 1. Avvertiamo che nell 1 De Anima III arola, ci siamo attenuti allo spi traduzione Spesso più che alla p: s NELL’ETICA D’'ARISTOTELE 383 D'altra parte oltre il moto di traslazione, x27% é70v 4 ivan, il cui principio bensì si potrebbe considerare come esteriore, Aristotele ammetteva altre specie di moto; il moto per cui la sostanza si genera e si corrompe, yivenis, gIop4; Il moto per cui la qualità si modifica e si cangia, @otor:g, e il moto per cui la quanzità si accre- sce 0 diminuisce, 20191, gUNias. Ora questi moti sono tutti intrinseci agli esseri, nè possono certo derivare dal di fuori; e fanno prova per ciò d’un’attività prima e spontanea. Non è dubbio quindi che la teorica d’ Aristotele possa essere opportunamente paragonata per questo rispetto a quella del Bain. Anche il Bain, solo forse dei filosofi positivi moderni, ha messo in rilievo la spontaneità propria dello spirito, ricercandone gli elementi attivi primordiali, e sostenendo che il cervello non obbedisce semplicemente agl'impulsi, ma che è esso stesso un istrumento spontaneò (se/f- acting) !. Si potrebbe dire: ma come conciliare questa sponta- neità di moto e di attività colla teorica d’ Aristotele del primo motore immobile, mpé70s 4modv debatos, dal quale deriva in ultimo il moto ‘alle cose? Come potrebbe essere ancora spontaneo un moto, che è in fondo conseguenza d'un altro moto? Confessiamo che ci troviamo qui dinanzi all’intima contraddizione che travaglia tutto quanto il sistema aristotelico, tra la finalità estrinseca e l’intrinseca, tra Dio e la natura, tra il dualismo e il monismo. Ma come la natura nel sistema aristotelico non perde, per l’azione che Dio esercita su di essa, la sua, chiamiamola così, individualità e la sua forza, che rimane e Si contrappone anzi a quella di Dio stesso, come prova i*Vedi quanto abbiamo detto in proposito a pag. 1So- 181 del Saggio I! problema della conoscenza nella filosofia moderna e segna- tamente nell’ Empirismo contemporaneo. RE » C- l'espressione 6 Beds zl gbats ovdev uarav 7 moroder; COSÌ egualmente gli esseri, sostanze ed energie operanti, pur tendendo a Dio come a fine ed ARA il moto, non x sono però da esso assorbiti e distrutti come individui: «4 il moto negli esseri è insieme estrinseco ed intrinseco, determinato e spontaneo. Ognuno ricorda a questo propo- sito i versi dell’ Alighieri: Ed ora lì, (a Dio), come a sito decreto, Cen porta la virtà di quella corda, Che ciò che scocca drizza in segno lieto. de Ver èfome forma non s'accorda de : Molte fiate all’intenzion dell’arte, o Perchè a risponder la materia è sorda; 7 i Così da questo corso si diparte Talor la creatura, che ha podere Di piegar, così pinta, in altra parte !. Ma non è la sola spontaneità che costituisca l’ gzo6- cv; g20bcoy non è soltanto quello il cui principio è in chi agisce, comunque vi sia, e che non è quindi effetto di violenza: per avere l'éxo5cwy occorre anche un’altra ‘condizione, occorre che si sappia quello che si fa, occorre la conoscenza. Senza la conoscenza, quell’attività di cui ra IST parlato, per quanto’ non ripercussione di un: moto | esteriore, per quanto spontanea, per quanto dentro di noi, non potrebbe dirsi propriamente nostra; sarebbe — | NELL’ ETICA D’ ARISTOTELE 385 un effetto cieco dell'organismo, che l’uomo avrebbe comune coi bruti. E in realtà anche i bruti possiedono l' ézobaroy, inteso come attività spontanea, e tuttavia non sono atti all’azione, come non sono atti all’azione i fanciulli !; appunto perchè nei primi manca affatto la conoscenza, e nei secondi non s'è ancora sviluppata. La conoscenza illumina l'appetito, cieco di natura sua e irrazionale, e mostra il fine da conseguire, e sceglie con deliberazione i mezzi necessarii a conseguirlo, e tutte mette sott'occhio le singole circostanze in cui versa l’azione. L'attività volontaria è perciò insieme appetito e ra- gione; nè le azioni potrebbero dirsi propriamente nostre, se non vi concorressimo anche colla parte migliore di noi, e non soltanto con ciò che abbiamo comune coi bruti. Nel trattare della conoscenza, di questa seconda condizione dell’ gxo0grovy, Aristotele è in generale abba- stanza preciso e lascia pochi dubbi e poche incertezze. Opportunissima e conforme a verità la distinzione che « sò dI de vor 0dy, nobarov uiv day. ori, mobaoy dI z—f' Tò Sriiurov vel èv meTanehetz *», come l'alta che « Erspoy { / x Ù . ” , “ D' forsey zz 7d ÒL Kyvorzi TodTTELY TOÙ cyvoouvT (mpdrtew) ® us (0I esatta l'affermazione che l'ignoranza del fine non rende, azobeg lazione #; ma troppo assoluta ed esclusiva quell'altra che questa stessa ignoranza è causa della malvagità 5; come se malvagi non vi fossero che non ignorano il bene, e tuttavia operano il male! Aristotele per questa via s'accosta alla sentenza di Socrate, che 1 Eth. Nic. I, 9. 9-10. Eth. Nic. III, 1. 13. Eth. Nic. III, 1. 14. Eth. Nic. III, 1. 14-15. 5 Ib. G. ZUCcANTE 25 12 4» CI Dia sn An “A 386 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ pure ha combattuto in altri luoghi e con energia, che la malvagità è ignoranza. Non bisogna neanche tacere che l'enumerazione a cui s'è accinto Aristotele, delle singole circostanze che possono essere ignorate da chi agisce, per quanto opportuna in se, riesce però incompleta e non scevra di oscurità. Sebbene qui, dovendosi tener conto della difficoltà dell'impresa, Aristotele non sia da rimproverare più di quanto convenga. Come si fa ad assegnare confini precisi € distinti alle singole circostanze, in cui può versare un’ azione, quando non ci si trova alla presenza d’ un'azione determinata? IX. Il risultato finale della discussione intorno all’ s2ob- cioy e all’azobov è che Aristotele ha cercato di dimo- strare in primo luogo la differenza fra l'atto volontario e l'atto involontario, eliminando dal primo gli atti com- piuti per vioienza,e per ignoranza; e in secondo luogo che vi è un atto volontario che appartiene a noi, non soltanto perchè il suo principio è interno, ma perchè abbiamo o possiamo avere conoscenza delle circostanze in cui si compie. In questo modo egli s'è ingegnato di stabilire la libertà come condizione del valor morale e della bontà delle azioni, presentandola come una spon/4- neità cosciente, e S'è opposto recisamente al fatalismo colle sue conseguenze di quietismo e d’indifferenza. Ma stabilire che c'è un atto volontario che dipende. da noi, perchè il suo principio è intrinseco, e abbiamo o possiamo avere conoscenza delle circostanze in cui si compie, se basta per escludere il fatalismo, non basta per atfermare la libertà. La libertà richiede come sua NELL’ETICA D'ARISTOTELE . 387 condizione non soltanto la conoscenza, non soltanto che non ci si vincoli dal di fuori, ma anche che non ci si vincoli internamente. I motivi interiori, per questo solo che sono interiori, non cessano dal vincolarci. Bisogne- rebbe, perchè non ci vincolassero, che dipendessero da noi; che non dipendessero dalla natura, o dall’educazione, o dall'ambiente sociale, o da tutte queste cause insieme; o che, anche dipendendo: da queste cause, avessero subìto da parte nostra una specie di rimaneggiamento; che noi colla nostra attività e colla nostra energia indi- viduale li avessimo trasformati e comunicato loro un valore ideale; che insomma di fronte ad essi non fossimo rimasti inerti e non li avessimo accettati passivamente. In caso cotrario, in che difl'eriscono questi motivi interiori dalle cause propriamente esteriori? Intanto però Aristotele crede che, purchè venga dal di dgatro, l’azione sia libera e imputabile; la determi- nazione interna non toglie all’azione del suo valore morale; se l’azione viene dal di dentro, se è spontanea, tanto basta perchè sia degna di lode o di biasimo, di premio o di castigo; delle ‘azioni in parte spontance e in parte non spontanee, siamo in parte imputabili e ine ‘ parte non imputabili; la imputabilità è in ragione diretta della spontaneità !. L'uomo deve rispondere di ciò. che fa sotto l’impulso di moventi interni, quali sono il piacere, l’îra, il desiderio; e non avere la strana pretesa che quanto fa di bene gli venga attribuito come a causa, e quanto ‘ fa di male gli sia scusato sotto pretesto che non dipese da lui 2, I moventi interni, pare che dica Aristotele, non sono cosa diversa dall'uomo, nè c'è ragione che quanto ! Cfr. Eth. Nic. III, 1. 1-12 dove pare appunto che Aristotele ' non richieda per l’imputabilità alcun’altra condizione che la spontaneità. 2 Cfr. Eth. Nic. III, 1. 1r-12 e II, 1. 21-23. | 2 4 ohi RATE er. cis A dai 7 int 388 (LA DOTTRINA DELLA VOLONTA deriva da quelli non si deva considerare come dipendente da questo. : È ben vero che altrove definendo l'szobarov, Aristo- tele mette innanzi il concetto del #ò so’ gut, del rò Ein) mpdrToval, vale a dire il concetto che |’ sxobg1ov sia anche in nostro potere *: ma con tutta probabilità quelle due espressioni non hanno valore diverso da quello che ha l’espressione sempre adoperata nel capitolo I del libro II, èv iu A d0Xh vale a dire che szobgtoy sia quello il cul principio è in noi. La elasticità della quale definizione risulta evidente . quando si noti col Ramsauer (pag. 144 del Comm.) che. anche di quelle cose che appartengono alla natura - nutritiva o accresciliva, il principio è senza dubbio in noi, èv vuîv A doy, € tuttavia non si può dire che siano in nostro potere, èo' vijlv. La libertà adunque che Aristotele ha cercato di sta- bilire e di difendere, come abbiamo visto più sopra, s'assomiglia piuttosto a un determinismo psicologico: Si direbbe anzi che è veramente questo determinismo :l sistema in cui dopo oscillazioni c titubanze diverse, dopo non poche contraddizioni e contrariamente a quanto egli stesso affermava, s' è in ultimo acquetato Aristotele. Ricordiamo in proposito la sua dottrina della BodXnste. L’appetito volontario, fov}no:s, è per natura determi- nato al fine; antecedentemente ad ogni deliberazione € ad . i I e ” ; x I Eth. Nic. V, 8. 3 eyo È’ szodarov piév, Oorep rà m9OTELON lonza, dava 36 CASS \ vi _ Inte DN LAT (o) v Èo' adrà Uvtov silos zal ph depvoisy mpdTT D MITO) OVTON ELOS XL IL VAGUZIONI TPLTTA RARE A (I "ol : e punte ob { vezey). Coll'espressione ©97S0 vai Tod= » . , ni reoov clonra: evidentemente l’autore sì riferisce al libro III cap. 1; perciò non pare a noi fuor di posto la congettura fatta nel testo. Nello stesso li è defini ì l'a î pe stesso lib. V_cap.8$ 3 è definito così l' azobaroyi Tè dh do obuEYOY, Î) uh dyvoobue èv ‘ui I , Ti 1 &ftoovpevoy ev ‘pn MSI i Eri ea v in'abrò d' ov, © bia, dd eLove. NELL'ETICA D' ARISTOTELE 389 ogni scelta, la volontà è determinata al bene, alla felicità; la deliberazione e la scelta si applicano solamente ai mezzi che conducono ad essa. Evidentemente adunque non è in nostro arbitrio il proporci il fine; non dipende assolu- tamente da noi, non siamo liberi di proporcelo o no @ . nostra posta. La potestà di volere o non volere, l’ arbitrio d'indifferenza non esiste. Il Leibnitz diceva: « Noi non vogliamo volere, ma vogliamo fare; e se volessimo volere, noi vorremmo voler volere:e così si andrebbe all infinito». Il che vuol dire che la volontà può volere ogni cosa, Ma ò volere se stessa; la volontà ha bisogno di un e non può essere la. sua non pu fine per esistere, e questo fin volizione. L’arbitrio d'indifferenza implicherebbe che la volontà volesse se stessa, fosse attività vuota, Il fine è colto immediatamente, ossia il volere non è voluto, non è preceduto da un altro atto della stessa volontà, è im- mediato. Ma la causa finale: non muove per quello che é in se stessa. bensì per quello che apparisce, per quello che vet non secundum suum è conosciuta; Calsa finalis mo esse coguniutum, come è mei esse reale, sed secundum suum le. Il fine adunque passt per così dire, diceano le scuo attraverso l'intelligenza di ciascuno, e assume Ora una forma, Ora un'altra a seconda appunto delle varie in- telligenze. Tutti sono egualmente determinati al bene, ser determinati al bene: serchè è nella natura di tutti es ma il bene di ciascuno è quello che.a lui sembra tale, voy dy200v Così parrebbe che sebbene . l’uomo op280v. Ti QUE Hiper natura il fine già fissato, per il fatto che do sua intelligenza gli lavora, per così dire d'attorno, Sa determina € lo specifica ID una data maniera, egli goda d'una certa libertà. — i Ma quale l’uomo è, € tale È. se buono, crede che Ja felicità SU le si propone anche il fine; a nel bene e sì propone 390 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ il bene a conseguire; se malvagio, crede che la felicità stia nel-male, e si propone il male a conseguire, repu- tandolo un bene. In fondo adunque è a seconda che il nostro carattere è conformato così 0 così, che il fine ci apppare così o così; e percio è il carattere il vero autore dei nostri atti. Se non che Aristotele sostiene che siamo noi gli au- tori del nostro carattere, perocchè noi non nasciamo con un carattere formato. Il carattere è il risultato di una serie di atti che, a furia di ripetersi, ingenerano delle abitudini buone o cattive. Certo, una volta contratte queste abitudini, non è possibile mutarle, come non è possibile a chi ha scagliato un sasso rattenerlo; ma di- pendeva da noi non contrarle. La favola di Prodico, secondo la quale è in un'ora solenne della nostra vita che noi sciogliamo una volta per sempre il problema della virtù e della malvagità, indirizzandoci per luna o per l’altra delle due vie che ci si parano dinanzi, non corrisponde alla realtà. In ogni ora, in ogni momento della nostra vita, o almeno della nostra gioventù, quelle due vie ci si parano dinanzi e il problema ci si impone a risolvere, e noi lo risolviamo a poco a poco, insensi- bilmente, quasi senz'avere coscienza di risolverlo. Il ragionamento parrebbe esatto; ma cela nel suo seno una difficoltà insormontabile. Se in quel periodo in cui si forma il carattere, ogni volta o quasi ogni volta che ci si presenta un'alternativa morale, noi ci decidiamo in un certo senso; se ogni volta o quasi ogni volta che ci. si presentano quelle due vie, noi ci mettiamo per una di o Sn la stessa; vuol dire che nel far questo noi obbediamo a una certa disposizione in i era impossibile cancellare, Tar RA ico che non è carattere ancora, ma che diverrà tale sicura- mente. Aristotele stesso afferma recisamente che per fare i vst PARETE Bel} de iena ire PATER v A Rit Le ai # Paia! dia Rita DeTa MSC LIE > NELL’ETICA D' ARISTOTELE 391 il bene è necessario una certa inclinazione naturale, una specie di occhio naturale, con cui discernere quello,che è bene veramente, per proporcelo poi come fine. Risolve egli forse la difficoltà quando afferma che noi siamo in qualche modo coautori del nostro carattere, . mov Etemy auvzizioi mws abtot EoueY, dicendo che, se non nel fine, ci comportiamo però liberamente nelle azioni che sono necessarie per conseguirlo !? In questa conclu- sione anzi altri potrebbe vedere una specie di disfatta, una confessione d’impotenza; se non fosse che in realtà Aristotele vi si ferma, perchè è la meta a cui vuole ‘ arrivare, una meta tutta pratica e positiva. Egli prova contro i suoi avversarii quietisti che gli argomenti che si possono addurre contro la libertà del male, che cioè esso è dovuto a una disposizione naturale primitiva, al fondo intimo del nostro essere, si possono addurre con agione contro la libertà del bene; e questo gli eguale r nto il benè quanto il male sono in nostro potere, basta. Ta dacchè i mi i esteriore a me stesso, Ma il fondo intimo del mio essere. Il fatalismo è perciò combattuto, € la solita scusa del vizio « non è mia colpa » non puo essere accettata. Il determinismo interno 0 psicologico non salva: | azione dall'essere imputabile; quando l’azione è de dal di dentro, essa ci appartiene, € il legislatore non o- manda altro per premiarla © punirla. 1 Cfr. Eth. Nic. III, 5: 17720 il principio delle mie azioni non è una fatalità. ti. Sip PO SPIN La stessa dottrina della fovMevas € della rpoztpests, in cui più che altrove Aristotele crede trovare la libertà, non arriva in fondo a diversa conclusione. Egli afferma, come s'è detto, che sebbene il fine ci apparisca per natura, siamo liberi però nella scelta delle azioni necessarie al conseguimento di quello, e quindi la virtù e la malvagità che ne risultano, sono in nostro potere !. Ma come sono queste in nostro potere, e come siamo noi liberi, dal momento che il fine propostoci dalla natura è di necessità la legge a cui le nostre azioni si conformano? Le nostre azioni hanno un indirizzo e una tendenza speciale, e non possono andar fuori di quel- indirizzo e di quella tendenza. Il filosofo afferma ancora: le azioni ingenerano gli abiti, e gli abiti alla loro volta le azioni; e siccome le azioni sono in nostro potere, Eco) ‘api, Sono in nostro po- tere anche gli abiti che.ne derivano, e per riflesso ancora le azioni che derivano dagli abiti %. Ma donde derivano le prime azioni da cui derivano gli abiti? -Riportiamoci colla mente al primo principio dell’a- bito. Ivi l'abito è nullo, e quindi le azioni non si può dire che dipendano da un abito precedente. Da che dipendono adunque? Dalla natura? Parrebbe di sì, dal momento che è dessa che pone il fine e mette in noi le, inclinazioni 4 Eth. Nic. II, 5. 19. 2 Eth. Nic. II, 5. 10-15 ? I IR SR . Lutz pri nti ict PAZ ade I La ei i ARAN C » LATE (et sardine ‘ abito. Ma l'uomo È >» NELL’ETICA D' ARISTOTELE 393 evsreme rione sveneeee buone o cattive. Ma in tal caso, siccome la natura non è in nostro potere, non sono in nostro potere neppure quelle prime azioni, € quindi neppure gli abiti che ne derivano, e le azioni che derivano da questi. © dipendono quelle prime azioni dall’educazione e dall'essere avvez- zati in una data maniera? Aristotele infatti riconosce che « non è di piccolo momento l'essere avvezzato così 0 così fin da fanciullo, anzi è di grandissimo, e forse è il tutto ! ». Ma è chiaro che quanto più si concede all’ ef- ficacia educativa, 7ò i viov uni, tanto più si impove- risce l’arbitrio individuale e si concede all’ arbitrio altrui, all’arbitrio di chi educa, 705 sHiCovTos. Nell'uomo quanto c'è di pfopriamente suo, quanto c'è che si possa attribuire alla sua energia individuale? Aristotele ammette che è necessario per esser virtuosi una felice disposizione naturale, Vabitudine e la guida della ragione. La disposizione naturale \non è nostra; V'abitudine, siccome deve RI fin da giovanetti, quando non SÈ ancora Svo ta pi . Seo uindi s'ha bisogno della guida degli ia age SÉ sa nostra. Svolta la ragione, può altri, non € neppur essa. ll Rn nficioreientio essa modificare | abitudine € IO no nega 2. Che cosa resta dunque all Niente. So ? Ro i «va anche per un ‘isultato sì arriva A questo stesso. TS E fine che si conforma al suo arisce quel helsconi a è signore de’ suol abit, quindi è anche D del fine. Così Aristotele ®. ‘ All'uomo app ca Po signore dell’ apparenze , pb) » È À roc 2gipe1 TO olrws À oltws uAXdoy dÈ 9 ni. \ x ui Ò ù uu guy d! 18. ov. ps.90Y Ù Nic. II, I 1 4 Eth. NIC DIL INA 20905 è% vito sMie00a1, 2.Eth. Nic. 111, 5: 14 5 Eh, Nic. Il 5:17: 1% talea, LA: 394 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ Ma quando l'abito non è ancora formato, l’appa- renza del fine, a cui conformare le azioni, non dipende sicuramente da un abito. Da che dipenderà adunque, poichè la ouvtesia 705 784016, s' egli deve operare, ci dovrà pur essere? Dalla natura? Ma in tal caso le azioni che ne derivano non saranno propriamente dell’uomo. Da uno che mostri all'uomo un fine, da un educatore, da un #0 insomma? Ma in tal caso le azioni che l’uomo fa, sono più propriamente di questo. x XI. Tutte queste difficoltà e contraddizioni intrinseche non si possono togliere, a mio credere, che ad una con- dizione. Non si può negare la verità sperimentale del deter- minismo, ma non si può negare neppure la libertà. Certo, non si opera senza motivi; la tesi della completa indif- ferenza della volontà non è sostenibile. Alla libertà per esistere, non è necessaria l'assoluta vacuità, l’indipen- denza assoluta da ogni elemento esterno: le basta un'at- tività che possa trasformare l'esterno in interno, ciò che non è nostro, in ciò che è nostro. La natura esteriore e la natura interiore, l’ambiente sociale, l’ambiente della famiglia, l'educazione in generale forniscono motivi al- l’operare. Ma questi motivi non vengono subìti pas- sivamente da noi; la causalità in questo caso non è causalità esterna e meccanica. Nel mondo meccanico l’effetto è in perfetta corrispondenza colla quantità della causa; la quantità di moto nel corpo urtato è esattamente determinata da quella del corpo urtante. Questa rigida è) NELL'ETICA D' ARISTOTELE 395 causalità Ì e n a fluenza delle cause IR SAR SA ente all’ in- i ri o interiori, di qualunque SFMECSESIaUOS gina egli possiede una forza e un’ernegia sua propria, colla quale reagisce contro gli stimoli a vuti, nè mai s'avvera il caso che li subisca passivamente, quand'anche sembri subirli passivamente. Già questa reazione alle cause esteriori e interiori si manifesta anche prima che quella forza ed energia speciale sia guidata dalla ragione: quand'è guidata dalla ragione, la reazione che prima era cieca e dipendeva solamente dall’ orga- nismo, si fa più sicura e con uno scopo determinato. Il fine ce lo indica la natura, è vero; è insito nella stessa disposizione organica; tutti per natura tendiamo alla felicità: però dal momento che ce lo proponiamo noi, questo fine, anche se indicato dalla natura, esso assume un altro valore, esso diviene in qualche modo una nostra creazione. Noi ci proponiamo il fine in maniera corrispondente a quello che siamo; il fine ci apparisce così o così a seconda dell'indole nostra originaria 0 acquisita. Vero anche questo. Ma l'indole originaria, quella che si dice temperamento, non rimane immutata, e può essere, sebbene non distrutta mai interamente, trasformata € modificata in mille maniere da noi. E quanto all’ indole Do ita, quanto. a quello che posslim9 clEmee fi, rattere, siccome consiste nel subordinare 1. singoli atti dal volere ad un’ unica massima, ad un unico principio d'azione; evidentemente non può ottenersi se non per della nostra energia individuale illuminata dalla e, La inclinazione naturale potrà in sul principio i certa maniera; chi cl educa potrà erta maniera; ma nè l'inclinazione mezzo ragion farci operare In Una i ‘e in una € farci operare ! i naturale, nè l'educazione potrà ma i arrivare al punto di 3} È "A 2 perni Pa: 396 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ farci contrarre un abito in cui tutti i nostri atti sieno organati mirabilmente e, per così dire, gerarchicamente disposti. Il carattere è più che qualunque altra cosa l’opera-della persona. Insomma l’essere il fine dato da natura, il farlo noi consistere in questo o in quello a seconda della nostra disposizione naturale o acquisita, se diminuisce la libertà; non la distrugge. Il fine è dato dalla natura; ma in una forma indeterminata, e spetta a noi determinarlo. Lo determiniamo conformemente alla disposizione naturale o acquisita: ma la disposizione naturale si può modificare, e la disposizione acquisita è in gran parte opera nostra, « L'uomo porta con se un organismo, e con esso alcune disposizioni naturali, che sono il sostrato della sua attività: da questi vincoli ei non si può mai liberare del tutto. In che consiste adun- que la sua libertà? In ciò, che tutto quello che gli è dato esternamente, ei per mezzo della sua attività se lo in- trinsechi e lo faccia suo. Così l'elemento naturale della sua esistenza rimarrà; ma poichè è stato trasformato in prodotto spirituale, non nuocerà più all'indipendenza dell'attività umana, e l’uomo si può a buon diritto chiamare libero »!. Queste parole del Fiorentino tendono evidentemente a conciliare la verità sperimentale del determinismo col fatto della libertà, e noi le accettiamo in tutta la loro estensione, e le mettiamo qui come il risultato e quasi diremo il succo’ delle considerazioni nostre alla teoria di Aristotele. Intorno alla quale dobbiamo dire un’altra cosa ancora. L'abito, afferma. Aristotele, ci appartiene perchè è il risultato di azioni che si poteano fare e non fare, e 1 Fiorentino- Lezioni di filosofia pag. 309. che erano quindi in nostro potere: ma una volta con- tratto, non è più possibile mutarlo; le nostre azioni sono per sempre determinate da esso. Questa dottrina è troppo assoluta e trova una.smen- tita nell'esperienza. Aristotele ha paragonato l'abito alla malattia contratta per voler nostro ®. Questo paragone dovea condurlo a ricercare se per caso non avvenga del- l'abito, quello che avviene della malattia. Come l’am- malato, sebbene non possa esser sano quando il voglia, può tuttavia far molte cose con cui vincere la forza del male; così egualmente l'abito anche dopo il principio, uetà civ doy Av, non è affatto sottratto al potere dell’umana volontà; si può a forza di energia e di buon volere riuscire. a mutarlo. Certo, non è facile; e lo spirito, crediamo noi, trova ben maggiori difficoltà a modificare un abito che è opera sua, che.,non una disposizione naturale, che non è opera sua: ma impossibilità assoluta non c'è. L'attività dello spirito è così varia e multiforme, si esercita in tante direzioni, ha tante vie aperte dinanzi a se, che una via nuova non manca mal diyersa da quella comunemente battuta. Il passato sl depa all! avvenire, sa dubbio, ed esercita su di esso un'efficacia SRRSRE l'abito sottrae a poco a poco le azioni al SODIO ella volontà e le converte in connessione SUTOIz Uso, 1 CRETA vecchi diventano sempre più forti © IMPperiosl: e Psa é : i sorgere nello spirito? La un motivo muovo non potrà SOrgert dr ‘tà di motivi nuovi, per quanto limitata, per iquanto GEpec è nando l’uomo è Innanzi cogli anni, in SE MS herà però mai del tutto. e condizioni non mane RSI A ATIO do l'immutabilità degli abiti, Aristote AINSI ) tein quel determinismo psico- adeva per un’altra par cert ric i Eh. Nic. III, 5:14 395 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ logico, ch'era una contraddizione flagrante alla libertà che così vigorosamente sosteneva, come condizione del valor morale e della bontà delle azioni. XII. La dottrina della volontà, sebbene tanto importante per la sua novità, sebbene tanto ricca di fatti e di os- servazioni d’ogni maniera, è però anche la più oscura, la più incerta forse delle dottrine psicologiche d’A ristotele. Intanto da che cosa è veramente costituita la volontà? Essa è, ci dice Aristotele, un’attività risultante di ragione e d’appetito; ma in quale di queste due parti l'essenza sua propria sia riposta, da quale propriamente dipenda la sua libera determinazione, nè egli dice, nè a noi è facile indovinare. Da una parte, osserva lo Zeller !, si ascrive alla ragione il potere di dominare l'appetito, si designa la ragione come facoltà motrice, come quella da cui procedono le risoluzioni della volontà *, si considera come una corruzione della ragione l’immoralità 3; dal- l*altra si nega che la ragione possa di per se produrre 1 Geschichte der Philosophie der Griechen - Zvveiter Theil, zvveite abtheilung- Zveite Auflage- Tubingen 1862 pag. 460-461. 2 Eth, Nic. III, 3. 17-18. madetat fap înzotos Untòv ms mpULEI, Grav cis abtdy ava; ThI doyny, vai abrod eis dò Ayod- pevoy (la ragione)" TodTo Xp TO Tpozipobpevov. 5 Eth. Nic. VII, 7. 2. è pv 7% drspfoXtk duzov Tav Adt0y À za UrepBoXhy nel dix mooztoznw, di abtd val undiv di Etepoy drmobatvoy, dn6)acros. Cfr. anche Eth. Nic. VII, 9. 1. vi NELL’ ETICA D'ARISTOTELE un movimento *, e si afferma che sia infallibile 2: di maniera che non dipendendo il fallire dalla ragione. sa- rebbe lecito concludere che la volontà a cui appartiene il retto e non retto ‘operare, non sia in essa riposta. Aristotele si lascia trascinare qua e là da considerazioni _ opposte, nè gli riesce in mezzo ad esse di prendere una posizione sicura. L'alto concetto ch’egli ha della ragione, di questa facoltà divina che per poco non innalza l’uomo alla condizione di un Dio, che deriva da Dio stesso, non gli permette di mescolarla alla vita corporea e di attri- buirle l'errore e l’immoralità; ma d'altra parte ad essa sola appartiene il dominio nell'anima, e tutto quanto in questa avviene, o direttamente o indirettamente si può far derivare da essa. Dalla ragione dipende solo il retto operare, ma gli errori e i traviamenti, pur dipendendo direttamente dalle facoltà inferiori e corporee, provano, non foss’altro, che la ragione non ha vegliato abbastanza, e non ha saputo, come doveva, esercitare il suo dominio. Però il dualismo fra quella facoltà superiore e le inferiori, fra la facoltà razionale e le corporee esiste sempre; € l'essenza umana è come divisa in due parti SCPATAtO, fra n è possibile discernere il legame vitale 3. L unità il sinolo dell'individuo umano, l’Io uno i sa dire in che veramente consista cui no della persona, e persistente non s secondo Aristotele. Quantunque, Sa : Ò , Sa 1 Eth. Nic. VI, 2. 5 014V012 i ROMANI D yo tyaparoDi > NATI: L0Y0Y 2 Eth. Nic. 1, 13. 15 799 Y20 èpupatoDs XL KKPATIVS TOY AOYOY «Nic. 1, 13 , a ve î OY €f0Y ET von Udo Td A0Y0% SXOY ) ci è ida TE VOyALIS sr. Cie. Eth. Nic: IX, 8. 8 7%5 Yàp vods clpetra: BeNmioTA miu, Cit È Ò in un certo luogo parlando della beh ob)îv ast RE FAST LNOGEY, delos yio val èri Tx r. Cir. Di Qi ad Borat) tato, 6 d eraetzhe 7 i y pe Lal 10.4 Nods | 3y oÙV T% i i Pi - Pi 3 Zeller, op. cit. P98 461-462 dpf6g EGTiV. 400 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ rpozioznis, dopo aver detto che risulta di ragione e di appetito e averla definita una ragione appetitiva o un appetito razionale, egli affermi recisamente che se ne ha così un principio, che costituisce in proprio l’uomo !. Il che farebbe supporre quasi che la volontà è un pro- ‘dotto della ragione e dell'appetito per una specie di combinazione chimica, donde nasce un essere novello differente da’ suoi elementi. Lo Stuart Mill, conforme- mente alla tendenza della Psicologia dell’ associazione, parla di questa specie di chimica psicologica, per la quale di due idee e di due facoltà che si combinano, si produce una terza idea e una terza facoltà sostan- zialmente differenti dagli elementi che le compongono, come l'acido solforico è differente dallo zolfo e dall'os- sigeno dalla cui combinazione è formato %. Si direbbe che non in diverso modo Aristotele tratti la volontà in rispetto a’ suoi elementi integranti, e veda in essa qualche cosa di uno e inscindibile, quantunque composto, in cui si possa con frutto ricercare quell’ ultima realitas, che è la persona umana. Sebbene però non bisogna dimen- ticare che altrove, e ripetutamente, è detto da Aristotele essere la ragione quella che in proprio costituisce l’uomo e ne forma l'essenza ?. Abbiamo visto contro quali difficoltà si dibatta, la dottrina della libertà in Aristotele, e come il determinismo interno o psicologico sia in ultimo il sistema, a cui vanno a metter capo le premesse stesse del filosofo. Ciò stesso risulta dall'esame dei due elementi di cui { Eth. Nic. VI, 2. 5. dtd © opeztizds vods mpoalozsts di dock Snonaizk, zati soraben dog Wiparos. -.2 Stuart Mill- Logigue ece. lib. VI, c. 4. 5 Cfr. fra gli altri luoghi Eth. Nic. X, 7.9 Sobere D dv ual siva Enyatog tosto (0 vods ); ed Eth. Nic. I, 7. 12-14, ‘SL ricette cità dini rorTITTETeee rece I NELL'ETICA D' ARISTOTELE 401 verfreniezaraniza;secasieneeee cessare resenprnareotontereonesono: so erasenei e composta la volontà. Se la volontà è in se, essenzial- mente, una ragione, non può essere libera, perchè la ragione obbedisce a leggi necessarie, ed è per di più, il vods TonTILOS almeno, connessa strettamente al primo motore, sia un'irradiazione sostanziale di questo, o sia semplice- «mente la forma più elevata dell'attrazione che questo esercita. Se è in sè, essenzialmente, un appetito, e quindi strettamente legata al corpo, non può esser libera neppure, perchè il corpo è ciò che di più determinato ci possa essere nelle sue operazioni. Se poi è in sè, essenzialmente, un composto dei due elementi e i due formano uno, non si capisce perchè il composto dovrà esser libero, mentre i componenti sono necessitati. Aggiungasi che Aristotele ha sostenuto che il cielo e la terra sono sospesi a un principio unico, il bene, che per la sua beltà eternamente desiderabile, produce, senza muoversi, il movimento e col movimento l'ordine nell'universo; che dai cieli e dagli astri i quali ricevono direttamente l’azione divina, deriva nei corpi una specie di necessità, % &md s@v dortp0y ciuapuévn, da cui non è esente il corpo dell’uomo. C'è adunque nell’ uomo un assieme di necessità; il suo appeuto lo spinge necessa- riamente al bene, la sua ragione € necessariamente il- luminata dui raggi del vero; il suo corpo è imprigionato nel fato corporeo. Nulla più resta alla potenza dell'in- determinazione contingente. x Ma è questa mescolanza medesima di necessità ‘a il Fonsegrive, che permette ad Aristotele diverse, OSServa | grive, erm i contingenza delle azioni umane. € Questa ) re la ammettere c x ; > I ° . d'e olanza costituisce il nostro essere e crea in noi li Ka x ° o Tia posizioni. Queste opposizioni sono In noi, vengono elle O x "ci. dipendono da noi; esse costituiscono il 7ò îo' ua. CZ TO fra l'intelligenza e la volontà, fra po a su eriori e gli appetiti inferiori, produce in j desideri P 7 G. ZUCCANTE 402 LA DOTTRINA DELLA VOLONTÀ ECC. noi una contingenza, una indeterminazione in cui gli uni e gli altri sono a volta a volta vincitori e vinti, E questa contraddizione costituisce così bene la nostra essenza, che distruggere la contingenza che ne risulta sarebbe distruggere noi stessi »!. E sta bene; ma di una libertà e d'una indetermi- nazione di tal fatta, come osserva il Fonsegrive stesso, non è il caso certo d’inorgoglire; più che una potenza è una debolezza, più che una felicità, un’infelicità; più che autonomia e dominio di se, una deplorabile servitù interiore. 1 Fonsegrive- Essai sur le libre arbitre pag. 36. ME im 4 nn nese pi ETTI tt INDICE ” Prefazione. I. Del Metodo di filosofare di Socrate II Del Determinismo di fohn Stuart Mill . III Fatti e Idee . IV. Il problema della conoscenza nella Filosofia moderna e segnatamente nell” Empirismo contemporaneo . V. La dottrina della felicità nell' Etica Nicomachea di Aristotele . VI. La dottrina della virtù nell’ Etica Nicomachea di Ari- stotele à nell’ Etica Nicomachea di VII. La dottrina della volont Aristotele +. iaia ERRATA-CORRIGE SISI NIAVIIA Pag. 7 linea 29 A un certo punto ammirando, leggi A un certo punto costoro ammirando 4 VS ALII SPESE discernere, leggi e discernere » 36. » io cheetra la materia e la forma, leggi che è tra la materia e la forma fe loro cose, leggi le cose 0! La loro abilità ecc., leggi e, che gran cosa invero! la loro abilità eco. gi Soltanto, questa = n 9 (ee) s + » S IC) ®» (E) w e che, gran cosa inver Soltanto questa dottrina, leg. Senago 23 dottrina »_I4I po 19 angusta, leggi augusta n 21 , 8 se la intenda bene, leggi se la s'intenda bene i, affetto, leggi effetto ne, leggi nè sta sul medio, leggi sta nel medio > w (02) = i] DE ou vi = n n 272 Sia SI. n 270 » 3 nella distinzione della virtù intellettuale e morale, lla distinzione della virtù in intellet- leggi ne tuale e morale Aristotane, ‘egg! Aristofane n CIRIE v 43 nota 3 Grocoùv, leggi 0RWwE CITI 1 Toast; © oliv leogi dele Ti LG; egg! Tipacto AS ezIAn ® ago ata praktishen, leggi praltischen ; x N x TEO PARESIS StopPoor0y dizzioy, leggi droplwTwoy dinzioy te gli accenti e gli % ci riguardanti specialmen ù correggere fa- Altri errori ortografi e il lettore intelligente pour spiriti delle citazioni grech cilmente da se. .
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