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Monday, August 15, 2011

Storia di Genova (Banchero, "Genova e le due rivere")

SCHIZZO STORICO

x, Genua, cosi vien detta negli scriilori e monumenti greci e latini la capitale della Liguria. Oscura è l'origine di un tal nome; né questo è il luogo di fare una discussione etimologica. Mentre l'Italia era sotto il dominio dei Carolingi il vocabolo Genua per vezzo francese fu monco del G con sostituzione del J atto a quella pronunzia, a talché diventò Jenua come si trova in alami scrìtti, ma che per eufonia più generalmente si ebbe a dire Janua; il qua! barbaro vocabolo comparve più veramente verso P anno 900 e piacque tanto, che fece quasi dimenticare l'antico. Con tal vocabolo significar volevano esser Genova la porta d'Italia, ed essere stata fondata da Giano; credenza quest'ultima che perfino scolpirono sui marmi del Duomo. Ma col risorgere delle buone lettere coiai nome fu cacciato dagli atti pubblici, dagli scritti e dalle monete, e rimesso in onore quel di Genua dato alla città dai latini antichi. Da Genua derivò Genoa e Genova, come da Afantua. Capita uscirono Mantoa, Capoa, e più dolcemente Montava e Capava. Genuate$ furono detti gli abitatori nella famosa tavola di bronzo trascritta distesa

mente a carte 324 di questa Prima Parte; e Gennentes si ha in marmo d'Alba: Janueniis da Janua non è più usato e non usasi che nella curia ecclesiastica od in certe iscrizioni che hanno del gotico e di quella fraseologia barbara da stuccarne chiunque siasi de'più accaniti pedanti.

A levante i monti delFEtruria oltre la Magra, a ponente que' di Provenza oltre il Varo spingendo i lor Banchi nel mare, e rientrando il lido che li tramezza verso tramontana con quasi parabolica curva, formano un vasto golfo appellato mare Ligustico: in fondo a questo, siede la regina del mare, Genova, sulle pendici e alle falde di un ramo dell'Apennino che la difende dal diretto impeto dell'Aquilone, e che a guisa d'arco si rauna indietro, inviando le due estreme sue punte, come dice poeticamente il Bertolotti, a piraraideggiar sopra i flutti che spumeggiando si frangono alle scogliose loro radici. Laonde dal!" ertezza del monte largamente e vagamente degradandosi giù al mare, Genova rende immagine di maestoso ed immenso teatro che nello specchio dell'onde si riflette con piacevolissima grazia.

La sua posizione astronomica-geografica fissata ali'osservatorio della Regia Marina è: Latitudine 44.° 23.' 4." N. Longitudine in gradi 6.° 33.' 8." E. ed in tempo a O.or 26." 20, 3 presa questa dal meridiano di Parigi. Il barone di Daussy trovò più esattamente del barone di Zach che la Lanterna del porto di Genova sta Longitudine orientale dal suddetto meridiano 6." 31.' 45."; Latitudine settentrionale 44.° 24.' 18."

Noto ancora due punti che mi furono graziosamente somministrati unitamente ai suddetti dal chiarissimo ed insigne professore di fìsica e matematica 1' abbate Giacomo Garibaldi.

Palazzo deir Uni versila Latit. 44.° 24.' 59."

Long. 6." 33.' 24." dal meridiano di Parigi.

Metropolitana di S Lorenzo Latit. 44."

21.' 32." Long. 6.° 33.' 36.' dal meridiano

di Parigi.

Dato così un cenno del nome della città, e della sua posizione astronomica-geografica, in breve è conveniente esporre i primi abitanti di essa secondo le più accreditate opinioni.

È incerta l'origine dei Liguri, vuoisi che fossero la più celebre e numerosa tribù diramatasi dalla grande colonia degli Umbri dai quali fu primamente occupata 1" Italia: la Magra, il Varo, l'Alpi, l'Apennino ed il mare rinchiusero sopra queste aride rupi questa Tortissima gente. Alcuni vogliono che il nome di Liguri derivi da Ligure figliuol di Fetonte; altri da altri vocaboli d" origin celtica; vogliono altresì che ligure s'appellasse una gente stabilita presso l'acqua, o abitatricc de' monti : ossivvero che tale vocabolo significando stridore e ferocia con che si animavano alle battaglie, questo appunto di Liguri usassero a distinzione di altri popoli meno belligeranti ed intrepidi. Ben presto i ristretti confini varcarono, furono al Rodano e superati i Pirinei è fama che alcune città della Spagna dai Liguri avessero nome e grandezza. Dalla Magra facilmente si distesero all'Arno; dalle Alpi dall'Apennino discesero al Pò; fondarono la città di Torino ed oltre valicando per i gioghi delle Alpi occidentali vi si propagarono grandissimamente. Altri si stabilirono presso i fiumi ed ebbero così in loro potere I' odierno Piemonte, l'Ol

trapò, il Monferrato, il Piacentino ed il Parmigiano. I Liguri si chiamarono rii rum padani, transalpini, orientali, apuani, briniati e friniali per i diversi confini che li dividevano; ma quello nome propriamente di Liguri rimase ai popoli marittimi. Questi cresciuti in potenza s'armarono contro Roma favorendo Cartagine che andava a oste con essa; pugnarono contro la gente latina con avversa fortuna e sostennero animosamente una guerra di 120 anni; unico esempio di un combattere così accanito e lungo per desiderio di libertà e per amore di patria che si trovi tra gli antichi e moderni. I Liguri soggiacquero, ma le vittorie romane hanno minor pregio delle sconfitte dei medesimi.

Roma conquistata la Liguria, avvisò a domarne gli abitanti, e perciò fu suo primo pensiero di praticarvi delle strade, tanto più che caduta Cartaginc disegnava di aprirsi una via fra l'Italia e le Gallici. Le vie Aurelia, Emilia e la Postumia furono quelle che i Romani aprirono nella Liguria affine di giungervi con subito esercito a frenare l'indipendenza di questi popoli. Roma si mostrò anche benefica; i Liguri parteciparono della cittadinanza romana, ed ebbero voce attiva e passiva nei Comizj. Genova fu ascritta alla tribù Coieria, ed altre provincie ad altre. Nelle guerre romane i Liguri uniti a quelle coorti dimostrarono quanto valorosi uomini fossero, e bene, anzi ottimamente il dimostrò quel ligure che in Numidia sotto Mario combattendo contro Giugurta espugnò la rocca nimica e mise l'insperata vittoria nelle mani del Condottiero romano. Sorto Augusto e caduta la Romana Repubblica, i Liguri ostandosi all'impero battagliarono, ma con avversa fortuna; e soggiogati dalla forza di quello incontrarono la medesima sorte degli altri popoli d'Italia, la quale divisa in undici regioni tra queste la nona fu la Liguria. « Genova, scrive il Canale, accomodatasi all'impero, ebbe tosto pace ed utilità. Esercitò sovra i popoli circonvicini più speciale signoria talché divenne l'emporio di luita la Liguria, come l'appella Strabene. Vide anche uscire da lei. o dalle sue vicine riviere due uomini che occuparono il seggio imperiale, Elvio Pertinace di Vado, e Tito Èlio Proculo d'Albenga; e su quel primo albeggiare della cristiana religione, mentre il mondo romano le si opponeva ingrato e crudele, ella ne fu stanza ed asilo, «

Costammo formando dell'Italia diciassette proTìocie in due diocesi, di Roma la prima eoo dieci, d'Italia la seconda con sette, delle quali quattro si chiamarono consolari e tre presidiali. Compresa Tu la Liguria nelle consolari ampliata e distesa in più larghi contini: e l'imperalor Giustiniano alle diciassette proTincie ne aggiunse altre due. La fuga dell'Arcivescovo milanese che venne a ricoverarsi io Genova accompagnato dalla più cospicua nobiltà del suo paese, segnalò la Tenuta dei Longobardi in Italia, dove recarono la barbarie, l'ignoranza, la servitù e tntte quelle goffe costumanze, e sordide leggi che narrano gli storici. È poi non vero che si trovi alcuno Governatore o Duca longobardo nei nostri paesi : quella barbara gente passava a guisa di fulmine devastando e saccheggiando ovunque I' avidità di bottino li tirava, ma non imposero mai alla Liguria ed a Genova assoluto dominio, che la provincia delle Alpi Cozzie nella quale era compresa come fu lasciata dall'imperator Giustiniano durò sotto i Longobardi ed i Franchi.

Carlomagno fu il primo che dirozzò quel buio recato dai Goti e Longobardi, e cominciarono a risorgere allora dopo i tempi latini le prime lettere. Levò il clero a grado sublime e la Chiesa francò dal poter secolare e resela indipendente. Dopo la morte di Carlo il Grosso ultimo imperatore dei Franchi, Bereogarìo duca del Friuli e Guido duca di Spoleti entrambi di padre italiano si dispaiavano il regno d'Italia. Patteggiarono, prevedendo lo scioglimento della monarchia francese, che Berengarìo s'avesse il regno d'Italia, e Guido quel di Francia; se non che questi fu respinto dai Francesi, e pensò allora di rifarsi su Berengario che primo avea cinto la corona ferrea io Milano. Vennero alle armi, l'esito della prova a vicenda sostennero or vinti ed or vincitori; ma Guido fa l'ultimo nella vittoria e fu coronato imperatore dal Pontefice Stefano v. Morì egli ed il suo figlio Lamberto; e Berengario allora regnò da solo ed ottenne dal Pontefice Giovanni x. di unire alla regia corona d'Italia quella dell' impero. Cospirarono contro di

esso, e per la sua clemenza perdette ad un tempo regno e vita. Rodolfo 11. re della Borgogna, Ugo, Lottano, Berengario n. Adalberto zio, e nipote si succedettero finché Ottone i. imperalor di Germania sceso in Italia venne coronato re in Milano e imperadore in Roma da Papa Giovanni xn. Fugò egli Berengario e quanti avevano col pretender al regno resa infelice l'Italia. Prima di ciò i due re Berengario ed Adalberto, concedevano-" privilegio a Genovesi secondo la consuetudine di Genova confermando e corroborando a tutti i fedeli e abitatori della stessa città di Genova ciò che occupavano e tenevano secondo la predetta loro consuetudine. Niiui duca, ordinavano, marchese, conte, visconte, sculdascio, decano, osasse immischiarsi nel!1 esercizio de' poteri e cose de'Genovesi, né recasse loro ingiuria o molestia. Nel caso il" inobbedienza si pagasse l'ammenda di mille libbre di ottimo oro, delle quali metà alla regia camera, metà ai predetti uomini, loro eredi o procredi. Da tal privilegio si pretese cavar argomento di dominio sopra la nostra città, la quale si credè parte del regno d'Italia. Ma i privilegi, nota accortamente il P. Spotorno, essendo di natura graziosi, chicggonsi per buoni motivi eziandio ai Sovrani non proprj. Infuni i Veneziani che non erano, nò furono mai parte del regno longobardico o d'Italia, chiesero privilegi al re Rodolfo nel 925, e, avutili, supplicarono per mezzo di due inviati Ugo imperatore a confermarli. Anzi nel 939 domandarono privilegi a Berengario. «

Abbandonando ora que" tempi ne'quali per la ferocità dei barbari invasori, Genova fu saccheggiata più d'una volta e manomessa, poco mancò che non si spegnesse inferamente quell' alba di risorgimento lumeggiata da Carlomagno : noi incontriamo verso il 1000 i primi fatti per i quali i popoli della Liguria divennero tanto celebri e rinomati. Cominciarono essi ad estendere il loro commercio dalla Spagna alla Siria, e dall'Egitto a Costantinopoli, e divenne necessità quella di armarsi affine di protegger quello; mentre ingranditi gli animi e desiderosi di conquiste si accappararono quel vasto, ma duro e periglioso campo di prove, il mare, sul quale elemento di tante vittorie si arricchirono die suscitarono l'invidia dei confinanti, la quale appunto valse a maggiormente celebrarli.

Intanto i Genovesi cresciuti in potenza crearono una milizia navale ed affrontarono i Saraceni, de'quali tutta l'Europa temeva, ed invitati da Papa Giovanni xvm. cacciarono gì' infedeli di Corsica ; ed indi a non molto congiuntamente co' Pisani conquistarono la Sardegna pur essa fatta preda dei mori ladroni imbaldanziti da Musalto a cui toccarono in dura sorte catene. La partizione dell' isola tra le due conquislatrici generò la prima guerra che durò scssant' anni. Tra battaglie e tregue poco note o diversamente raccontate dagli storici delle due rivali repubbliche, passarono diversi anni se non che all'anno 1070 i Pisani assalirono nuovamente i loro nemici in Corsica, e costoro anelanti alla vendetta armarono dodici galee parte delle quali perdettero in bocca d'Arno. Per mediazione del Papa Vittore m. fu composta una tregua, ed invitò i due popoli rivali a collegarsi insieme incontro gli Affricani tanto feroci. quanto già quelli di Musallo. Adunque si unirono e minacciosi voltarono la prua verso quelle barbare piaggio. Ben presto una battaglia navale decise le sorti della guerra, e centomila persone furono tagliate a pezzi dalle repubblicane falangi, ed il Soldano si fece tributario della Santa Sede; e gran copia d'oro e d'argento cadde nelle mani dei vincitori, i quali ritornati nei porti con pochissimo danno, ed essendo avvenuta quella giornata nel di di S. Sisto(l089 6 agosto) i genovesi votarono il bottino più prezioso a quel Santo.

L" epoca da dove derivano le più luminose glorie pei genovesi è quella delle Crociate. Urbano il. spinto dal religioso desiderio di liberare il Sepolcro di Cristo dall' orribile giogo dell'Islamismo ne predica il primo la conquista; in un momento più di centomila si mettono una croce in sul!' omero destro di lana e seta di vario colore, e questa è la divisa che distingue i cristiani che hanno giurato di tutto abbandonare per la liberazione di Terra Santa. Genova manda una grossa armata in Soria,e quindi altra composta di quaranta galee alla presa di Antiocbia grande città e capo di tutta la Siria. I crociati l'oppugnavano con poca fortuna, i genovesi accorsi ali' impresa con vettova

glie, e macchine rivoltano la fortuna e per opera loro si espugna la piazza : Antiochia cade in poter de' crociali, 1' ultimo di maggio del 1098.

Ed ecco, mirabile evento! i genovesi voltano le prore verso Genova, ed entrati nell'Asia minore approdano a Mirrca città della Licia, e vi prendono le ceneri del divin Precursore e trionfanti per glorie guerresche e per religiosa venerazione toccano il patrio lido abbracciati dagli ansanti fratelli, e fatti superbi per tanta ventura.

Né guari stettero che armata una flotta e messala sotto il comando di Guglielmo Embriaco per condurla alla conquista di Gerusalemme; giungeva egli a Giada ventiquattro miglia distante da quella città, e udito che gl'infedeli maggiori di forze traevan contro a' crociati, messe le sue bellicose macchine a terra ed affondate le galee marciò alla volta del campo cristiano che raggiunse sotto a Gerusalemme. Quivi i genovesi feron prodezze inaudite, e mentre i raggi del sole indoravano la vetta del monte Oliveto parve in alto vedere in mezzo alla più bella luce un cavaliere con asta fiammeggiante che gli inanimisca alla battaglia. Si leva un grido, prorompe una voce. S. Giorgio, S. Giorgio, a questa mille voci si uniscono gridando 5. Giorgio. Per tale apparizione intrepidamente slanciandosi i nostri alla pugna, primo Guglielmo accosta la torre ed in un subito con quella ingegnosa macchina fatto un ponte vi passa Goffredo e quanti stimano vanto di metter piede sulle mura dell'espugnata città. Questo fatto accaduto allo spuntare del di 15 luglio 1099 die fama grandissima ali1 esercito genovese, il quale per opera sua particolarmente mise in mano dei crociati la Città Santa.

Da che ebbe fine la potenza dell'impero, Genova come tutte le altre città italiane prese forma di Repubblica, e fu divisa in Compagne ch'era un'aggregazione di uomini, governata da uno o più Consoli. Nel 1099 fu fatta la Compagnia da durare tre anni. I Consoli furono sei tanto del Comune che dei Placiti. Cosi la Repubblica non solo tentava di allargarsi in terra ed in mare, ma fondava savii ordinamenti e tutelava con ordini e leggi i profitti delle riportate vittorie. Ma questi popoli liguri sdegnavano starsi, il desiderio della conquista, e quello di distendersi più largamente nelle remote contrade col traffico era pungolo tale da non soprassedere.

I Consoli però prima di mettere in assetto un' altra spedizione provvidero la città di un Tempio degno di quel primo ferver religioso , e lo innalzarono sopra un poggio che dichinava alla marina dentro la cerchia delle mura. consacrandolo ai SS. Lorenzo martire e Siro rescoro. La pietà andava di paro colf entusiasmo guerresco.

Ora dal i ino principiano gli annali genovesi, ed è un gran fatto che a quel tempo per comando della Repubblica ne fosse affidala la cura a Caflaro, storico, guerriero, e console del Comune. Seicento ottantun anni passarono senza che la vera effigie del primo storico genovese che si conosca fosse tramandata alle generazioni susseguenti, almeno non si ha memoria di questo né per iscritto De per patente testimonianza di eflìgic impressa o dipinta che lo rappresenti per quello vero di queir età in cui scrisse gli annali cioè dal 1100 al 1163. A me la fortuna e gli amici procurarono l'onore di presentare alla mia patria il vero ritratto di Cai-taro cavato dalla miniatura originale che è in capo al MS. Annales Genuenscs di Caffaro, esistente nella Biblioteca Reale in Parigi, dopo T invasione francese; che è quello stesso da esso lui presentato alla Repubblica prima che la morte il togliesse di vita.

Questa Tavola XXX. che rappresenta Caffaro credei bene di porre in capo al presente Schizzo Storico.

1100.— Adunque i genovesi partirono per la seconda volta dalla città per Gerusalemme forti di ventisette galee e sei navi con circa ottocento uomini. Ciò avveniva il di primo di agosto del 1100. Giunti che furono al porto di Laodicea città della Siria vi si fermarono per tutto l'inverno del 1101. Per la morte di Goffredo e la schiavitù di Boemondo tìglio di Roberto Guiscardo duca di Puglia quei luoghi si trovavano in balia di se slessi. I genovesi li tutelavano, e quindi davano opera a che Baldovino fratello di Goffredo, e Tancredi cugino di Boemondo, l'uno assumesse b corona di Gerusalemme, e 'I secondo

(Pi«TE I )

s'impadronisse di Anliochia. Quindi nella quaresima di quell' anno lasciavano Laodicea e colle galee costeggiando le città marittime fino a Caiffa; abbattutisi nell'armata nemica s'incamminarono a Gialla dove incontrati da Baldovino movevano insieme a Gerusalemme il mercoledì santo. Digiunato tutto il giorno e la notte precedente al sabbato santo si portavano a visitare il Santo Sepolcro; dove dopo eh' essi ritornarono dal tempio di Salomone videro quella damma desiderala sfavillare improvvisamente nella cappella del S. Sepolcro e accendere le lampade che ivi erano. Visitarono i luoghi Santi, furono in riva al Giordano, e si lavarono in quelle acque. Tornati a Giaffa insieme con Baldovino in tre giorni s'impadronivano di Assur e di Tiro, e procedevano alla conquista di Cesarea.

Questa citlà cinta da due cerchia di mura era fortissima e fortemente difesa. Ma quale è mai quell'argine che non sia superato dai crociati? Quale, quella città che non venga espugnata dall' ardimento dei liguri ? Ecco Gugliemo Embriaco armato di corazza, di lancia e di spada si gitta il primo all'impresa; e per una scala sale il primo sulla muraglia la quale greve pel seguito de' guerrieri cede e poscia si rompe rovinando tutti quanti erano con seco, eccetto Guglielmo che solo riman sulle mura. Quivi contende corpo a corpo con un rnussulmano che lo vorrebbe gettare, ma vedendosi il saraceno a malo partito supplica Guglielmo a lasciarlo, e quegli aderendo seguita a salire, incitando gli altri all'esempio, che lo seguitano immediatamente. Calano nel primo cerchio, nel secondo e come a dirlo si fan padroni della città. Tutto cade sotto il ferro dei crociati e non è salva che la moschea dove si erano rifugiati in grembo al loro bugiardo profeta. Dopo la strage si venne alla divisione della preda, e qui è che Guglielmo prepose a tutto il famoso Catino nel quale è fama mangiasse Gesù Cristo l'agnello pasquale.

Diverse altre spedizioni sono numerate dagli storici e tutte riuscite felicemente; come la presa delle terre di Accarona, Gibello e Gibeletto minore, Tortosa, Tolemaide, S. Giovanni d'Acri, Biblos, Baruti, Malmistra ecc. Guadagnarono i Genovesi in queste gloriose imprese molti privilegi fatti chiari pei trattali del 1098, 1102, 1105, 1109 e vennero per ciò in dominio della Repubblica Malmistra, Solino, Antiochia, Laodicea, Tortosa , Tripoli, Gibeletto maggiore, Berito, S. Giovanni d'Acri, Gibeletto minore, Cesarea, Tiro, Giaffa, Accaron, Ascalone ec. E quindi per la conquista di Terra Santa i genovesi oltre all'avere in Gerusalemme una contrada vi ebbero nella cappella del Santo Sepolcro un testimonio monumentale della loro forza e valore, onde sul!' architrave del Sepolcro di Cristo furono scritte a caratteri cubitali in oro quelle famose parole che quindi per rivalità furono cancellate abbenchè due Pontefici scrivessero Brevi perché fossero rimesse, finché prevalendo l'invidia e l'odio si tolsero per sempre. Dopo questi fatti la Repubblica decretò di mutare l'insegna sostituendo all'antica due scudi l'uno di campo bianco e croce rossa, e l'altro col campo azzurro attraversato da una bianca lista col motto Libertas.

Terminate le imprese d' Oriente s'incominciò la guerra a1 pisani; alle varie cagioni si aggiunse quella che Papa Urbano n. eresse in metropolitana la chiesa di Pisa suffragane! rendendole i vescovi di Corsica. Da questo venne una guerra che durò tredici anni. I genovesi i quali conservavano la Corsica a memoria de' padri videro in quello atto le conseguenze che ne potevano derivare, e si dierono alla sorte delle armi. Occuparono Bocca d'Arno , atterrarono le torri del piccol Livorno, e salendo co' legni leggieri su pel fiume manomisero tutte quelle terre che Arno dividono dal Serchio. Pisa in estremi supplicò di pace. Genova concedette ; convennero d'implorare da Roma un ditlìnitivo giudizio per la consecrazione de' vescovi corsi. Papa Calisto 11. convocato un Concilio nella Basilica di Latcrano al quale interveniva il nostro annalista Caffaro decideva in favore di Genova. Ruggero arcivescovo pisano incollerendo in ciò udire, gittò ai pie del Pontefice la mitra e l'anello dicendo. In appresso mai più sarò tuo arcivescovo. Il Papa dando de' piedi ncll'annello e nella mitra rispose : male tu fai o Ruqgiero ,• io ti prometto che avrai a pentirti di tal villania. E questa decisione anziché

spegnere gli odii, li fomentò maggiormente. Pisa ruppe la tregua; combaltesi d'ambe le parti con varia fortuna in Corsica, in Provenza e nel mar di Sicilia ; in ultimo i genovesi rimasero superiori e dettarono quella dura legge ai pisani che viene raccontata dagli storici di quella città.

11 seggio di Pietro occupava Innocenzo n. e notificando la sua elezione, lagrimava che due popoli cotanto valorosi fossero continui alle mani tra loro, mentre un antipapa occupava il Valicano ed egli ch'era il legittimo pontefice non trovare altro scampo che le torri de' suoi nemici. Diceva, si contenessero e rivolgessero quelle armi contro ai faziosi di Roma. Questo scriveva, e quindi personalmente nella nostra città diceva, che fuggendo da Roma per Pisa e Genova ricoveravasi in Francia. E in Genova fermava una tregua fra le due Repubbliche, promettendo ai genovesi di erigere in Arcivescovato la lor sede vescovile. Locchè ebbe adempiuto quando ritornato di Francia trasferissi a Corneto nel territorio romano.

« Dopo la pace, scrive il Serra, la Repubblica attese a fare alcune riforme nelle sue leggi. L'incremento della popolazione , le imprese lontane e le lunghe contese con Pisa avevano persuaso all'universale, le incumbenze de' consoli essere troppo vaste e mal definite. Ogni armamento toglieva un giudice a una compagnia, né si potevano eleggere i più idonei a giudicare, se i medesimi erano inetti alla guerra. E dall' essere presso la moltitudine il deliberare immediatamente delle cose gravi, pareva quest'altro danno nascesse, che l'utile più sensibile e vicino, quantunque minore e sol transitorio, colpisse più del lontano, quantunque stabile o maggiore. Inoltre il modo del guerreggiare co' saraceni volea segretezza, quando la moltitudine non tollera segreti.. Tali considerazioni fecero approvare nel 1134 il partito di eleggere per l'avvenire dieci o dodici consoli, parte de'quali curassero il politico, chiamati consoli del Comune, e parte il civile, delti consoli de'placiti, parola barbara del secolo di Carlomagno, significante luoghi dove si delibera, giudizi, e liti ancora, che indi chiamavansi dagli antichi francesi plaids e dai toscani piati. Dovevano questi Consoli non

solo amministrar la giustizia, ma la pubblica sicurezza proteggere, e sopraintendere ai lavori tanto di comodo che di difesa ; quegli altri guidavan le armate, traltavan co'governi forestieri, e pareggiavano in fine di uno le spese con gravezze proporzionate alle sostanze de' cittadini. «

Crearono inoltre un Consiglio composto di pressoché mille onesti cittadini, e dopo tali riforme si occuparono di avere una moneta propria e di valore che usar si potesse in tutti i contratti e spendere in tutte le piazze. Corrado H. ne die il privilegio.

Mentre queste cose si operavano pacificamente in patria, nacquero cagioni per le quii i genovesi nuovamente furono in stirarmi. I mori di Spagna ricominciarono a molestare l'Italia, perciò fu bandita la croce coatro di loro ed allestita una flotta di ventidoe galee e di sei altri vascelli; i genovesi volarono a Minorca ed entrati nel porto di Maone guastarono una parte di queir isola • e v" imposero le condizioni che vollero; e quindi s'indirizzarono per la costiera di Granata ed entrarono nel porto di Àlmeria; la quale città fu presa, benché fortissima, da Unto spavento che offerì una rilevantissima somma di danaro purché l'armata si allontanasse dal suo territorio. Fu preso il danaro per metà, e dato il guasto alle terre circonricioe lasciarono quella città ed in patria fecer ritorno. Ma quindi supplicati da re, ed invitali con special Breve da Papa Eugenio in. ritornarono ali' espugnazione di limerà forti di sessanlatre galee, di cento sessaolatre legni minori e trentamila persone eoa macchine ec. In questa sanguinosa impresa furono secondati dalla gente del conte Hai mondo e più tardi da Alfonso; la difesa fa ostinatissima, ma dopo varii e ripetuti assalti dovette la citta d'Almeria soccombere: ia questo glorioso fatto Guglielmo Pelle uomo popolano si coperse di gloria, e quindi fu assunto al consolato. Costui, dicono gli annali, inseguendo un moro d'insolita statura "' trapassa con la lancia dall' uno ali" altro fianco, e smontato da cavallo e impugnala la spada con una forza più che umana in raen che non si dice ammazza più di cento inimici. Inanimati perciò i liguri feron prodezze e ruppero si fortemente i mori che

impauriti i restanti sbandavano a ricoverarsi dal ferro inimico. Il bottino fu grasso e ciascuno ebbe quella parte dovutagli secondo le leggi del mare. Diciasettemila marabottini saldarono le spese della guerra. A questa impresa seguitò quella di Tortosa condotta a termine felicemente pur essa dal valor genovese. In simili guerreschi fatti avveniva die si portasse in patria gran bottino e danaro, e le terre espugnate si assoggettavano alla Repubblica le quali concedeva in enfiteusi, e dippiù risultavano ampie donazioni che si facevano dai Principi alla chiesa di S. Lorenzo.

In mezzo a queste battaglie il Genovese Comune si estendeva lungo le due riviere da levante a ponente con prima aver sottomesse a sé molte terre o mediante la compra di esse o per la forza. E gli uomini di quelle assuefatti a navigare coi genovesi a difendere la stessa bandiera anelavano di unirsi alla capitale, e prender tutti l'istesso nome. » Ebbe ciò effetto ( Serra ), in varie guise. Le castella delle valli e montagne vicine, sciolte da ogni vincolo feudale s'incorporarono liberamente al distretto di Genova; e gli antichi signori di quelle, giurata l'abitazione perpetua in città, si ascrissero al Breve de" consoli e al libro delle famiglie consolari. primo esemplare del libro d1 oro. Quelli poi che avevano imperio sopra terre lontane, marchesi, conti o signori, ne fecero vendita, o ne resero omaggio alla Repubblica, n

Intanto calava in Italia Federigo i. detto Barbarossa ; i Comuni italiani in questo tempo più che mai eran volti a libertà; il tedesco voleva oppressioni e barbarie; la conquista della Sicilia e lo schiantamento di Milano erano pungoli potentissimi in quell'animo feroce ed educato alla tirannide. Incamminavasi alla volta di Milano, saccheggiava ed empieva di strage alcune terre di quel territorio; l'Italia voleva serva; e l'Italia fremeva e maledivalo. ed esecrato da questa ne portava due corone sul capo, la maledizione dei popoli e 1" ira di Dio.

Genova quantunque da esso lusingata non quietava; faceva trattati coi vicini e lontani ed assestate le finanze ampliavasi e circondava la città di fortissime mura. Federigo a tutti i Comuni insolentemente dimandava tributo; a Genova anche. Questa negò e prese ad armarsi. Allora il tedesco usò dolcezze perche disegnavala in ajuto de' suoi progetti. Domandò gli fossero mandati ambasciadori. Guglielmo Lusio insieme con altri de'migliori della città andarono a lui: ottennero promessa eli'egli, non avrebbe molestata la città, ma anzi sopra ogni altra rispettata l'avrebbe. Crederono, ma non tralasciarono di fortificarsi maggiormente, perché videro che le promesse dei Principi si mantenevano finché ad essi erano giovevoli o convenienti. Il trattato conchiuso coli'Imperatore dei greci metteva i genovesi nella facilità di ampliare il commercio, mentrechè invocarono il Papa Àdriano iv. perché si dolesse contro il re di Gerusalemme, il principe d'Àntiochia ed il conte di Tripoli, i quali avevano violato nei loro domini! i privilegi concessi ai sudditi della Repubblica. Il Papa scrisse immediatamente, minacciando que' re di scomunica se tosto non rimettevano i sudditi genovesi nel godimento dei loro privilegi. Quindi siccome non mai abbandonavano il destro di estendere il più che potevano il loro traffico, stipularono un trattato di commercio con Guglielmo re di Sicilia. In patria accordarono la cittadinanza a Guidone Guerra conte di Ventimiglia, il quale mentre giurava fedeltà al Comune genovese lo presentava di tutte le sue castella, le quali poscia ad esso le s'investivano in pubblico parlamento.

Federigo che ad ogni costo tentava di farsi riverire da Italia, promulgò un editto col quale ordinava che ogni città gli pagasse un tributo e che in cambio di creare i propri consoli ricevesse annualmente da lui un podestà forestiero.

I genovesi mandarono ambasciadori ali'Imperatore, i quali protestando dissero: nulla dovere agl'imperatori come cristiani, avendo mai sempre difeso dagl'infedeli le riviere e i mari d'Italia; non godendo beni dell'impero nulla dovere eziandio come genovesi. La Repubblica riconoscere in Federigo l'imperatore non il signore diretto a cui quasi feudatario si paghi tributo. Fedeli essere, ma non ciechi servi; ed aggiungendo altre varie e forti ragioni conchiusero protestando alle ingiuste prelese. Ma il Barbarossa essendo in istrctlczza di danaro insistette a che i genovesi lo sussidiassero di mille dugento marche d'argento.

Chiesa santa era scudo e tutela delle città italiane, il tedesco volle schiantarla, ma indarno, quantunque per la morte del pontefice Addano egli, favorendo le parli dell'antipapa Vittore, operasse che il legittimo pontefice Alessandro ni fosse sbandito da Roma, ramingo dall'una all'altra città del patrimonio di S. Pietro. Il Pontefice contando sulla fede della Repubblica faceva intravedere che rifuggirebbe in Francia passando per Genova ed esortando i cittadini al perfezionamento delle opere cominciate scriveva — fieno le vostre mura inespugnabili come i vostri petti.

Or non si può figurare qual desiderio concepissero tutti i cittadini di ogni condizione, del glorioso asilo. Fu deliberato a pieni voti il proseguimento delle nuove mura. Ognuno fu largo delle sue facoltà. Siro arcivescovo dispensate le rendite, impegnò un bacile, una coppa d'argento e tutti gli arredi. Cominciarono P opera ; e tutti che si fossero • abitator delle valli o cittadini sottentravano con ordine maraviglioso al lavoro. Uomini, donne, vecchi e fanciulli correvano col cercine in capo portando al luogo prefisso i materiali e porgevanli ai lavoratori. E consumato il giorno in quest'opera faticosissima vi duravan la notte al chiarore di accesi bitumi. Soprastavano alternamente con fermezza mirabile e con eccitamento efficace i Consoli tanto del comune quanto de' placiti.

« Acceso il Pontefice da nuovo coraggio (Serra) perché la ritirata era sicura. scomunicò Federigo, Vittore, lutti i loro aderenti; ricuperò e per quasi due anni difese il patrimonio di S. Pietro; fin che prevalendo la possa degli scismatici, si mise in mare sopra quattro galee siciliane, e si ridusse in Genova. Fu lieto oltremodo il ricevimento. Che gloria per noi, l'uno ail'altro dicevano i genovesi , che un Papa sanese di origine, e pisano di nascita, abbia anteposto la nostra città, il nostro porto a quelli della propria nazione. »

Soggiogala la Lombardia si aspettava Federigo in Liguria, ma a così fiero aspetlo di guerra paventò e scese alle usale blandizie. Più non ricercava a' genovesi come da' popoli del regno d'Italia, omaggio o tributo , solo chiedeva la fedeltà dovuta agl'imperadori da qualunque principe o repubblica. Ma

voleva altresì che il secondassero con le loro Iòne navali ali' impresa di Sicilia. Prometterà larghi compensi e una terza parte del regno. La proposta ventilavano in Senato ed abbenchè molti si opponessero pure per la maxima cara al commercio di rimetter pie nella Sicilia, la proposta venne approvata dal Parlamento. Le promesse di Federigo non si crederebbono, nota il Serra, se Tatto stesso che le conteneva non fosse a noi pervenuto. Donò quasi tutta la valle di Noto. la città di Siracusa, strade, chiese, un battio in tutte le terre della Sicilia; in tempo di guerra la metà della preda ; in pace la quarta parte delle dogane, con mille altre esenzioni, diritti ed immunità da maravigliarne. Ma tosto eh' ebbe sottoscritta la lega , lasciata 1' Italia per un anno, vi ritornò per percuoterla nuovamente; e mentre i genovesi esposero che da canto loro erano pronti all'impresa, egli li rimandò con dire che mancando del parere de'suoi baroni assenti non poteva decidersi: erano pretesti e finezze di volpe ; intanto i genovesi trovatisi con una pronta flotta navale ristoraronsi negli acquisti della Sardegna che siam per narrare.

I pisani danneggiando i genovesi in Sardegna favorivano i giudici o regoli di Cagliari e di Torres i quali guerreggiavano contro a Barisene, e lo cacciavano fuori del giudicato. Questi procacciatosi il favore dei genovesi pensò di rimettersi nello stato non solo, ma ben anche di cinger la corona regia di tutta I' isola. Assecondaronlo i genovesi ed allestite le navi furono in Oristagni; imbarcarono il re e portaronlo a Genova. Quindi coi principali suoi sudditi e con molti savi della Repubblica fece il suo ingresso in Pavia e ricevette dalle mani del Barbarossa la corona di Sardegna. A quest' atto erano gli ambasciadori pisani i quali mal sofferendo la parzialità dimostrata dall' Imperatore u lo pregavano, per li servigi e l'osservanza usata sempre all'Impero a non volergli pregiudicare, massimamente che Barisone era uom rustico e loro vassallo. Federigo accennò agli ambasciadori genovesi, i quali sorgendo in pie replicarono con pari asprezza non essere il vero che il re Barisone fosse uom rustico e dipendente d'altrui. Nobilissimo egli era, « tale a notizia di tutti. che non pochi abi

tanti di terra-ferma gli pagavano tributo, o sostentavansi trafficando e lavorando ne* suoi stati. Quanto era agli altri principi sardi, avere essi voluto usurpare l'altrui, giusta e convenevole cosa essere adunque che perdano il proprio. Non millantassero i pisani alcun diritto di protezione o d'alio dominio, poiché si dovevano pur ricordare come i genovesi erano quei popoli, che avevano cacciato i mori dall'isola, sconfìtto, preso e mandato prigione all'imperadore Arrigo n. il polente IVI usa ito. La quale vittoria aveva dato libertà alla Sardegna, pace all'Italia; e fra i legni da carico stranieri posta l'usanza di offrire a qualunque galera genovese incontravano nelle marine dell' isola, uno scudo pieno di cacio, due misure di pepe e altrettante di vino. I naviganti di Napoli, di Calabria, di Sicilia e d'Affrica si conformavano da più d' un secolo a questa rispettabile consuctudine; la città di Cagliari soleva presentare annualmente i genovesi raccolti nelle sue mura con un carro colmo di viveri; e chi non sa quanto i principi di Arborea abbiano superato ciascuno in gratitudine e in zelo! Regnino dunque su tutti; e sia la presente solennità un vincolo eterno di benevolenza e di fede fra l'augustissimo Imperador de' romani, il nuovo re di Sardegna e i genovesi. »

Dopo le solite feste il Barbarossa domandò il re delle quattromila marche d* argento eh" erano il premio dell' incoronazione. Il re sardo penuriava d'oro, e vellosi ai genovesi pregolli di accomodarlo di quella somma, lo che si fece e venuto in Genova, tolse ad imprestito altra somma per navigare in Sardegna con regio apparato. Ma l'ammiraglio munito di segrete instruzioni quando fu a queir isola e non pagando il re anticipatamente, di nuovo il riportò in Genova.

Sette anni durò la sua relegazione finché i creditori feccr senno e nell'arbitrio del Senato riposero i loro interessi. Il Senato allora ascrisse il Barisone nel Breve de' consoli, donollo di una piazza in Genova e si addossò i suoi debiti, promettendo ancora di soccorrerlo se nel suo territorio da nemici fosse assalito. Il re promise e fece un trattalo nel quale giurava con insieme la moglie sua Algaburga di restituire il danaro mutuato arti vaio in Sardegna; di pagare un annuo censo di quattromila marche d'argento e in caso di guerra lire contornila al comune. Faceva donazione della rendita di due corti alla fabbrica di S. Lorenzo. Si obbligava di tener casa regia in Genova: cedeva alla Repubblica i castelli di Mormilla ed A redento, in Oristagni. In fine riconosceva 1' Arcivescovo di Genova per primate di Sardegna e legato pontificio. Alla patria lo conduccvano due Consoli genovesi con irò galee verso il 1172. Dieci anni appresso terminò la vita, lasciando un vano titolo di re e un avvertimento ai piccoli principi di non comprar protezioni.

Dovendo seguire la storia di que' tempi gloriosi ma insanguinati dirò, che quel continuo macello ci" uomini italiani rivolta la mente, e quelle continue guerre tra Pisa e Genova, mentre davano occasione ai fatti inauditi, pur pure erano di mal augurio. Pisa spogliava un vascello genovese che aveva naufragato presso alla Sardegna ; sorprendeva Albenga e la rnaml;iv,i in fiamme; per dieci anni genovesi e pisani erano alle mani per la Sardegna: in patria le cittadine discordie ingrandivano, le riviere ribellavano; nuovamente si battagliava e verso Pisa, e verso Provenza. Intanto la lega lombarda promossa dal Pontefice Alessandro Hi. faceva progressi; i collegati spedivano ambasciatori a Genova perché essa si uiisse con loro. Portata la pratica al Senato, deliberò di prendere una via di mezzo e per non offendere l'Imperatore e non ricusare l'offerta, Genova rimarrebbe neutrale. Intanto si fortificava e conchiudeva un trattato coli'Imperatore Emanuele Comneno e procurava con questo di ampliare il suo commercio in Oriente dove era già fondata la famosa colonia di Galata. Con altro trattato assicurarono i loro territorii nella Siria dagli assalti di Saladino, il quale promise di non recar molestia ai liguri. Alcune città della Liguria insorte rimettevano ad ubbidienza; Nizza sottomettevano, e si poneva sotto il patrocinio della Repubblica.

Trista novella giungeva in Europa, i popoli tutti ne piangevano. Saladino soldano d'Egitto impossessatosi di Gerusalemme e disfatto l'esercito cristiano, metteva nuovamente que'popoli in dura servitù, e Terra Santa cadeva sotto il barbaro dominio dei

mussulmani. Papa Urbano in. a così Cera notizia ne moriva di dolore. Gregorio vm. che gli succedeva, bandiva una terza crociata. Prima sua cura fu quella di metter pace fra Genova e Pisa, mezzi tanto potenti alla impresa; ma sul più bello dell'opera morte il toglieva a'viventi, e l'esecuzione di quei vasti pensamenti pigliavasi Clemente Ih. succeduto nel seggio di Pietro. Altrettanto faceva con le due rivali repubbliche, le quaji si pacificavano, perché, quando movevansi a guerra lontana speranzose di conquiste e ricchezze, si collegavano e si davan la mano siccome sorelle. Erano stranissimi affetti che per ragion di commercio ora si animavano di calda amicizia, ora rompevano in sanguinose gare, e sempre funeste, più a Pisa che a Genova.

Francia, Inghilterra seguitavano Federigo che amicatosi con Roma in persona moveva alla riconquista di Terra Santa; giungeva a Gallipoli, s'imbarcava, passava l'Ellesponto, e presto metteva il piede in Asia ; entrò in Armenia e giunto al fiume Salef volle tuffarsi in quelle acque, e vi lasciò miseramente la vita. Intanto la flotta ligure aveva sciolto le vele per Accon o Tolemaide, composta di molti valorosi uomini, i quali con quelle usate macchine in poco tempo l'espugnarono. Infelici furono i successi di quella terza crociala ed i liguri dopo quell'espugnazione sen tornarono in patria gloriosi, ma con pochi frutti.

L'interno regime doveva mutarsi : le fazioni ardevano più che mai d'ira e di vendetta, questa si commetteva in pubblica via, il sangue cittadino bagnava i sassi di questa gloriosa città.

Brigavano più che altri i ghibellini e cercavano aderenti per abolire il Consolato, e commettere ad imitazione di altri municipi i la somma delle cose nelle mani di un Podestà; instituzione imperiale e ghibeHina. Tanto fecero che ottennero decreto dal Parlamento che usciti i Consoli di quell'anno 1190 non più sarebbero rinnovati surrogando a questi il Podestà che disegnavano in un bresciano nominato Manigoldo del Tettoccio. Questo atto non si terminò senza stragi, ma il novello Podestà cominciando a valersi della sua autorità spegne col sangue come può meglio la rivolta.

- Cosi venne manco, scrive il Canale, il consolato. L'imprese di Terra Santa, quelle di Minorca, Almeria e Tortosa, la resistenza bili ali1 imperador Federigo i., la guerra pisana abilmente trattata, le due riviere acquisiate in gran parte, ridotte ad ubbidienza; i feudatarii costretti a prestar giuramento di fedeltà alla Repubblica , i molti tratiati con varii principi conchiusi, eziandio col Soldan d'Egitto; il commercio dilatato nella Soria, nell'Egitto, nella Spagna, cominciato nel mar Sere, fanno memorando e glorioso lo stato dei Consoli •*.

Morto il Barbarossa succedette Arrigo vi. figlinolo di lui il quale aveva disposata Costanza zia del re Guglielmo di Sicilia pur esso passato ne' più. Arrigo alle pretese del padre sa quel regno aggiunse le proprie, e venuto in Italia rinnovò la lega del padre coi genovesi con concessione di altrettanti privilegi ed immunità. I genovesi allettati alle fevorevoli condizioni posero in mare una flotta di trentatre galee e fecer vela per le acque di Napoli : colà udita la ritirata degli imperiali distratti quasi dalla mortalità, voltarono le prore inverso Genova, con promessa che l'imperatore medesimo sarebbe venato egli a concertar meglio 1' impresa. Mandò prima un Margualdo suo siniscalco il quale ebbe ordine di blandire ; e intanto siccome volevasi ritornare al reggimento dei Consoli, persuase i genovesi a rieleggere un Podestà forestiero. Era questo uà dominare assolatamente e tirannicamente; i genovesi vi si adattarono. Arrigo venne, il popolo l'onorò più che mai ; astuto e volpe vecchia dava udienze, lodava le forze de'suoi alleati, diceva i reami di Napoli e di Sicilia se si acquistavano sarebbero più de'genovesi che suoi; insomma sapeva adulare, benché re. mentire abbenchè cavaliere, fìngere e far l'ipocrita io casa altrui. I genovesi a ver dire in quelle pompose e sperticate promesse videro covarsi qualche mal seme e stettero in forse lunga pezza', senonchè l'astuto con alto lusinghiero seppe incantare l'animo de'principali ambiziosi e soscrissero il decreto. E primo Oberto di Olevano pavese allor Podesta dichiarò che assumerebbe in persona i) sapremo comando dell' armala. Le galee genovesi abbondanti di ciurme e di muni

zioni andarono all'assedio di Gaeta, che tosto si arrese; Napoli, Salerno e quindi Messina cedettero. In questo i pisani favorivano le parti del morto Tancredi ed insidiavano occultamente e palesemente i genovesi. Seguitava l'impresa, Catania si liberava dai saraceni, Siracusa espugnavasi, in fine cedevano tutte le terre sicule eccetto Palermo che resisteva. L'Imperadore scongiurava i genovesi a che assediassero Palermo, ripromettendo guiderdoni e ricompense. Palermo prendevasi, e l'Imperatore allora cavatasi di faccia la maschera negò ogni concessione, anzi protestando che un atomo non isprecherebbe delle sue conquiste, imponeva ubbidienza e riprolestava che se i genovesi eleggessero Consoli, gli eletti farebbe impiccar per la gola, e Genova schianterebbe. Erano invereconde parole, proteste sciocche e beffarde, ma erano prove costanti come i popoli possano prestar fede a tante millanterie, a tante generosità di re i quali vogliono essi soli partecipare del frutto dell'altrui sangue versato. Con questo premio la flotta genovese facea ritorno in patria, più ricca di comprata esperienza che di gloria. I pisani non stanchi mai di avventarsi alla guerra, corseggiando rubavano, manomettevano e Sardegna e Corsica, anzi occupata la città di Bonifazio facevano di ogni sorta danno ai genovesi. Genova non so perché ristava a tanti danni, e non moveva a comprimere i baldanzosi nemici. Narrano le storie siccome fatto degnissimo di essere rimandalo alla posterità, che in quella contingenza, tre giovani valorosi sorgessero alla vendetta. ed allestita iu un subito una flottiglia per conto proprio con ottimi marinari si mettessero in mare a ricuperar Bonifazio. Battuto quel castello per due giorni al fine s'arrese, e la fortuna come se volesse reintegrar di loro sostanze que' coraggiosi giovani gli die in mano una ricchissima nave che incauta approdava in quel porto. E Bonifazio da indi in poi si ripopolò di genovesi ed acquistò titolo di colonia.

Ribellatisi i marchesi di Gavi ajutati dai tortonesi fu fatta una lega di cittadini che espugnò le vicine castella di Parodi, Carosio e Serravalle. Conchiuso un trattato con Isacco Angelo attenente alla famiglia dei

Comncni, ed a questi succedendo Alessio suo fratello tollerò che i suoi sudditi facessero villanie a'genovesi. Un ammiraglio della famiglia de1 Caffari uscito pertanto da Costanlinopoli con quattro galee si diede a scorrere i mari vicini e s' impadronì del porto di Adramilo. Alessio mandogli incontro un'armata , ma il Caffaro la sorprese e quanti greci v'erano mise in fuga, parte delle navi affondando e parte ritenendo per sé. Ma quindi ingannato, ed in quc' muri insidiato la flotta e la vita miseramente lasciò, e di tante galee acquistate sol quattro recarono in Genova P amara novella. I genovesi neir udir questo caso dichiararono rotta la pace, ed allestita una flotta di ventitré galee le dirizzarono a Candia. S'impadronirono di Fraschia non lungi da Relimos, mentre altre quattro galee espugnarono Corfù isola greca nel mare .lonin. Mmlìii»1 e Corone città situate alla punta occidentale della Horea vennero esse pure in poter de' genovesi.

« D'altra banda, nota il Serra, Alessio sfogò I' ira sua contro la colonia genovese di Costanlinopoli. A chi tolse feudi e possessioni, a chi mercanzie e danari. Fece inoltre servire il palazzo consolare di Calamos per quartiere di soldati alemanni, i quali lo guastarono barbaramente. In tal guisa finì P anno 1200, dando luogo a un nuovo secolo, ch'ebbe principii infausti e termine glorioso.'!

Vedemmo a qual punto giungessero le intraprese conquiste frutto delle crociate, vedemmo eziandio come i genovesi curassero l'estensione del loro commercio e nella Siria, nell'Egitto, nel mar Nero, nel Bosforo e Ponto Eusino, nelle Baleari e nella Spagna, in Francia e ne' paesi d'Italia egregiamente descritto dal nostro Canale nella sua storia di Genova dal 1100 al 1200.

1200.— Sul!'albeggiare del Secolo xin. per le mutazioni accadute nel greco Impero caduto in mari dei latini, i genovesi perdettero quasi tutti i loro acquisti in oriente, e questa perdita riusciva tanto più funesta perché erano i veneziani che s'impossessavano di quelle terre. In questo mezzo la Repubblica era informata che il marchese di Monferrato aveva ottenuto oltre al regno di Salonichi pur quello di Candia, ma che non volendo conlese era prontissimo a ceder le sue ragioni e a pie

gare ad un accomodamento. Prima di ciò è conveniente sapere come Alessio fuggito di prigione dove il teneva P usurpatore suo zio ricorresse a Roma ad impetrare dal Pontelieo di essere rimesso sul trono greco; ma Innocenze ili. intento alla quarta crociata non fé caso di lui; e quegli tanto si adoperò che rivolse in suo prò le armi destinate al riscatto di Terra Santa. I crociati a dispetto del Papa, non seguitali dai genovesi vanno alP impresa di Costanlinopoli e fanno sua con tulle le terre e le si diridono tra i primari della crociata. Parteciparono Dandolo doge di Venezia, Balduino conte di Fiandra, e Bonifazio marchese di Monferrato. Or questi siccome dicemmo profferì Còndia a' genovesi; ma per imperdonabil lenlezza lasciaronsela fuggire di mano; imperocché venule il iraltato a notizia del doge veneziano lo storna colla promessa di contornila marche di puro argento. Stipulossi il conlrallo di vendila nella cillà di Adrianopoli fra il marchese ed i veneziani, i quali per queslo acquisto di Candia divennero lo spaventagli de' loro nemici, essendoché quell'isola fu il deposito dei loro formidabili armamenti oltremare. Genova se prima fu lenta, a questa notizia divenne spedita: a Venezia inlimò guerra, o l'abbandono di Candia. Venezia elesse la guerra.

In queslo medesimo tempo i pisani i quali mai non perdevano l'occasione di tormentar la Repubblica portavan le armi in Sardegna e s'impadronivano di Siracusa in Sicilia. Per ciò il Senato deliberava che prima dr ogni altra impresa si tentasse Siracusa, che domandava soccorsi.

I genovesi adunque armata una flotta la confidavano a un conte di Malta, e ad un conte di Candia tutti e due sviseeratissimi per la Repubblica, i quali s'impadronivano di Siracusa dopo averla assediata per sette giorni. Era intenzione di volgersi dilìlati a Candia senonchè i pisani rinforzati tornavano ali' assalto e per la seconda volia que' due magnanimi uomini ritornavano alla Repubblica la contrastata Siracusa. E qui è onorevol cosa il ricordare come il succitato conte di Candia per nome Alemanno Costa fosse quel uno il quale anziché servire ai nemici di Genova avesse lasciato in patria ogni bene e fedelissimo ai liguri eleggesse un bando spontaneo e una sorte non certa. V- minore attaccamento dimostrò il conte di Malta nomato Arrigo Pescatore, perocché dopo l'espugnazion di Siracusa amiate le proprie prede con Alberto Galleano esce a corseggiare il levante, ed ingolfatosi nell' Adriatico non dubita di accostarsi al lido di Chioggia e per la prima volta rizzarvi lo stendardo genovese. Va neir Adriatico e fa grossa preda di due navi veneziane cariche di merci preziose, di milledugento armadure e molto metallo, e volgendo a Soria per pigliar porto in Acri ne è impedito dai veneziani. Quindi a Tripoli assediata dagl' infedeli prestato soccorso a quel governo, ne porta una conferma di tutti i privilegi conceduti alla Repubblica dai conti di Tolosa, ma in quel tempo andati in disuso.

Pescatore era d'animo generoso e magnanimo: vende la parte sua di bottino, e ae compera altri legni e naviga a Candia. Difeodevala Rinieri Dandolo gentiluomo degnissimo del suo nome, ma alla forza e al va I or genovese è costretto lasciarla, Rinieri corre a Venezia ottiene treiit'una galea e "1 comando di esse; un prospero vento lo spinge a Candia. Vuoi egli rifarsi del danno, alla patria col sangue ridare l'isola perduta. Pescatore previdente, già s'era ingrossato, si viene all'assalto quinci e quindi rompono lancie, i genovesi han la vittoria. Dandolo fatto prigione muore di cordoglio: imbalsamato il suo corpo tre venete galee lo portano in patria; incontrate per via dai genovesi, sono predate e condotte a Siracusa ove Rinieri ebbe orrevolissima sepoltura.

Mentre queste cose si operavano in Candia, un' altra squadra genovese die la caccia ai pisani in Sardegna e mise Pietro n. figliuol di Barisene sul trono.

Tali prosperi successi non ebber fine pari al principio. I veneziani fatti più forti ricuperarono la maggior parte di Candia. Il Pescatore venne in persona a Genova a procacciarsi nuove genti e nuove galee. Ripartì, ma nel viaggio fu mal concio dai veneziani, e giunto in Candia con pochi presidii si ristrìnse ne' luoghi più forti ; aliine dovette sgombrar da quell'isola con tutti i genovesi e con quelli generosi candiani cui non soffrì I duinio di abbandonarlo giammai.

Posciachè Genova la prima aveva gettato all'emula Venezia il guanto di sfida, doveva starsi occulata e guardinga, ma assalita ed assalitrice, vinta e vincilrice, si diede a quel genere di ostilità che tanta penuria cagionò a Venezia che mandò oratori in Lombardia e nel Friuli a chieder pane. Indi la guerra fu sospesa per ragion della quinta crociata.

Innocenze in. moriva nel viaggio intrapreso per conciliare le tre repubbliche belligeranti ed animarle alla nuova crociala che egli bandiva pieno di zelo e di speranze. Succedevagli Onorio tu. il quale subitamente seguitando le ultime volontà del suo predecessore amicava le tre repubbliche.

I crociati, i re. cavalieri e baroni andarono ali" assedio di Damiata , oppugnaronla ma indarno.

" E' pare fSerra) che una mano invisibile spingesse i genovesi in soccorso delle crociate quando il bisogno era maggiore. Ed ecco poco dopo la perduta battaglia sorgere al porto le galee genovesi, accompagnate secondo gli accordi dalle venete e dalle pisane. Bramosi i capitani di compensare la loro tardanza con qualche fazione degna dell'italico nome, offrono di dare tanti assalti successivi , quante sono repubbliche, tutte le altre genti insieme ne daran poscia un solo. AH'obbiezione che un grosso canale derivato dal Milo ha inondato il fosso esteriore, rispondono che non fa forza; s'impegnano di trasferirvi dal porto gli opportuni navigli, fermarli solidamente nel fosso, e sopra le loro corsie poste le scale, con la celerilà dei marinari a salir sulle antenne, monleranno alPassallo. Approvalo così il disegno, l'esercito si divide in quattro schiere, le tre prime composte delle tre nazioni marittime, la quarta de" restanti soldati. Nel dì stabilito un' ingegnosa vicenda di prodani, carrucole e argani tira in terra cinque galee, le strascina per piaggia arenosa, e abbassale quindi lentamente nel fosso. Quivi due ferri adunchi ratlengono le [prue al dinanzi, quallro gomene indietro raccomandano le poppe al lido ; 1* onore del primo assalto è toccato a' pisani. Hanno essi disposte felicemenlc le scale, han già superala una parie del muro. Ma i mussulmani accorrendo da tulle le bande li coslringono a far alto, a ripararsi dal ferro e dal fuoco che piove loro addosso, in fine a retrocedere e torsi giù dall'impresa. I genovesi montano il di appresso sulle galee, appoggiano le scale al bastione, a una pioggia di fuoco oppongono l'aceto, a'dardi lo scudo Già afferrano il merlo superiore, già stendono il ponte immaginato anticamente da Embriaco. Ma questo non isbigottisce i difensori, altri de'quali fronte a fronte combattono, altri salgono sopra le torri circonvicine ; e zolfo, petrolio e pece infiammati precipitano a torrenti. Forse i genovesi sarebbero periti tutti in sul muro, se notte profonda non sospendeva il combattimento. «

Dopo questo sanguinosissimo fatto ed altre avventure propizie ai crociati Mcledino propose una tregua di otto anni purché a lui sì lasciasse Dannala: rinunziando insieme col fratello al regno di Gerusalemme con altre utilissime condizioni. I capitani stranieri piegavano a queir accordo, ma gì' italiani si opposero. Infatti Damiala già flagellata dalla peste e dalla fame al primo assalto si arrese. * II legato pontificio volle essere il primo a darne in Europa l'annunzio. Non consolo mai, non potestà vittorioso recò tanta allegrezza in Genova, quanto la lettera del cardinale alla Repubblica. A'tocchi della gran campana, senza aspettar voce di banditore, né ora di parlamento, tutto il popolo accorse alla piazza del Duomo; e il Potestà attorniato dagli otto rettori notificò tenendo il foglio onorevole in mano, che mercé del valor genovese la più forte città dell'Egitto era cristiana. »

In questo tempo alcune insurrezioni nella riviera occidentale mossero i genovesi a domarle , mentre per la pretesa di un grave pedaggio messa in campo dagli alessandrini rivolsero le loro armi in Lombardia. Ad un gran numero salirono i fanti destinati alla guerra: ed a mille dugento i cavalieri ciascuno de' quali olire a due cavalli propri, aveva tre scudieri e tre nobili donzelli armati a cavallo ancor essi. Accorsero chiamati tutti i feudatari della Repubblica co' lor contingenti. Ma tant' oste e tanta montura ebbero pochissimo frutto, e non che a battagliare cogli stranieri Genova dovette attendere ad estinguere la ribellione che si era levata in ponente.

Federigo ti. nipote del gran Barbarossa, potente nimico delle repubbliche, re delle due Sicilie, di Germania, imperador dei romani e fatto idolo de' ghibellini voleva ogni cosa a suo modo in Italia. Impose per un decreto della dieta tenuta a Ravenna, che popolo alcuno d'Italia non traesse i suoi podestà dall' odiosa lega lombarda. Amistà era in quel mentre tra Gregorio ix. e l'Imperadore. I genovesi, i lombardi e i veneziani rimostrarono al Papa l'imminente pericolo dell' Italia che andava a soggiacere per la forza dell'impero, il quale a tutto potere anelava a spegnere l'italiana libertà; Milano, la misera Milano ne porgeva un esempio assai sanguinoso e crudele. Federigo dalle rapine, dalle stragi, dalle barbarie passava a scene di famigliar contentezza. Un suo figliuolo bastardo nominato Enzo impalmava con Adelasia vedova di Ubaldo Visconti pisano, la quale per eredità teneva i giudicati di Gallura e di Torres in Sardegna. Enzo assunse il titolo di re contr' ogni legge e diritto. Il Papa sdegnoso per ciò formò co' genovesi, veneziani, e lombardi una lega offensiva. Genova e Venezia si armarono e porsero armati alle città collcgate ; Roma dal Valicano fulminò di scomunica l'immane Federigo. Questi fé'stringer Roma dalle sue genti, si pure Venezia e Genova. Repentinamente l'animo atroce si muta, e a quest'ultima si volge perché mandi a sé ambasciadori. Piegano a questo partilo anche contro il volere di molti del Consiglio, e mandano all'Imperatore uomini pieghevoli assai. Pieno di tracotanza tedesca innanzi di ammettere gli ambasciadori vuoi eh' essi prestino giuramento di fedeltà: e coloro Io prestano, e son favoriti e colmati d'onori. A Genova non sono ancora, che già sopraggiungevano due Commessarii imperiali chiedendo un secondo giuramento di vassallaggio: allegando in iscritto, come tutte le repubbliche e tutti i principi italiani dovevano esser ligi e vassalli del loro signore. Che se la Repubblica s'ostinava a ciò negare si vendicherebbe, e inutile sarebbe il pentimento di poi. Quella ingiusta scrittura fu letta in consiglio: molti v'erano e fiacchi d'animo, e molti guadagnati dalla fazion ghibellina. Sorse Fulcone Guercio uomo di schietta natura, d'animo fiero, amantissimo del popolo e sviscerato repubblicano. Egli l'insolente pretesa rifiuta, in comune pericolo, odasi il cotnun sentimento, dice, e fa che si chiami il parlamento. Ai tocchi della grossa campana il popolo accorre da latte le bande sulla piazza del Duomo. Inteso il perché, tutti gridano morte piuttosto che schiavitù.

Intanto Federigo campeggia in persona sulle terre del Papa, prende Viterbo e Roma minaccia. Il nonagenario Pontefice bandisce la crociata contro quello scomunicato e conToca un Concilio ecumenico in Roma ; e perché le strade di terra erano tutte guardate dazi' imperiali, fa intendere a'prelati lontani di far capo a Nizza dove a levarli verrebbe un sufficiente stuolo di navi; che tanto promettevano i genovesi. Federigo temendo il Concilio die opera perché non si congregasse, intercettando le vie. Allestite le proprie navi e secondato dai pisani che concorrevano a quell'opera infame, divisò mandarle in piaggia romana a far argine. Pisa adunque mandava una flotta di quaranta galee sotto il comando di Ugolino Buzzacchcrini : l'imperiale composta di soli ventisette navili una metà di essa capilaneata dal bastardo figliuol di Federigo, e l'altra da Ansaldo De1 Mari fuoruscito genovese, ed or parricida; ma che per cagion di salute o per vergogna rilirossi lasciando in sua vece Andreolo suo figliuolo maggiore.

Meglio di cento fra vescovi, prelati e deputati della lega lombarda giunsero in Genova per essere trasportati dalla ligure flotta alle sponde romane. In questo mezzo si scopre una lettera di Federigo diretta a'suoi partigiani che mulinavano di opporsi ai disegni deDa Repubblica. Si aduna il parlamento, Guglielmo Sordo podestà legge il foglio intercetto e disvela le fila della trama, e soggiunge: n Traditori ci sono in tutte le classi, e fra i nomi più illustri della Repubblica ci ha de'Volta, de'Grilli, de'D'Oria, un Tommaso Spinola, un Oberto Advocato. Che volete dunque o popolo che si faccia? Rispose, muoiano i traditori!" In un tratto il popolo mette mano all'arme; corre all'arsenale per bellici strumenti come se s'avesse ad espumare una rocca: volevano spianare le case dei traditori, e per questo tinsero di nero

quelle da atterrarsi. Il popolo instizzito, come belva accecata dal furore ciecamente operava. Allora i frati minori e predicatori processionalmente procedendo vanno a sedarlo supplicandolo per quella croce, eh' ei si portavano a non castipare coloro che si pentissero. -• O trionfo di religione! Le mansuete parole e T augusto segno di misericordia intenerirono ciascuno; e senza indugio a tutti quanti domandavano grazia fu perdonato. Solo co' suoi aderenti Tommaso Spinola la ricusò, mille volte eleggendo ogni ripentaglio più tosto che alla discrezione del popolo abbandonarsi. Donde assediato nelle sue case, ebbe la testa spaccata da grossa pietra. Coloro che seguitato lo avevano, celatisi in un sotterraneo, n' usciron salvi. >•> Sedate le interne discordie, i prelati impazienti dimandarono di mettersi in viaggio: Jacopo Malocelli ebbe carico di condurli alla foce del Tevere: tre ambasciatori lo accompagnavano. Partivano da Genova sessantaselte legni; ventisette soltanto da guerra e quaranta da carico, avverandosi. nota egregiamente il Serra, ancor questa fiata, che più agli agi si dona, più togliesi alla forza. Sventolavano in aria le genovesi bandiere simili a quelle delle crociate. ed era un lieto vedere gli scafi dei legni tinti di bianco seminati di rosse croci. Ebbero liete speranze, infelici propostici, ed ahi! infelicissima fine.

Adunque la flotta rattenuta da venti contrari, e quindi spinta da un fresco vento di poppa corse a piene vele verso monte Argentaro, e non si fermò che alla vista del nemico schierato in battaglia fra l'isolotto del Giglio e Montecristo. I prelati supplicarono piangenti 1' ammiraglio perché non venisse alle prese, ma riparasse dove che fosse. L'ammiraglio non volle, ed anzi seccato di quei piagnistei die subitamente il segnai di battaglia. Dapprima si mostrò propizia la sorte ai genovesi quantunque fossero minori di forze, attesoché gran parte delle navi non potevano e non erano atte alla pugna. Ma poscia rallentandosi l'impeto. e gì' imperiali rompendo la curva formata dal Malocello, assalgono , sbaragliano, affondano e predano quante sono le navi de' nostri. Chi perde la vita nel mare, chi spira trafitto sul cassero, chi volendo fuggire s'annega; insomma fra prigioni e morti si computarono diecimila persone. Barbari gì1 imperiali, barbarissimi furono i pisani in questo fatto. La battaglia del Giglio, che così venne appellata, per comune avviso fu la maggiore che il popolo genovese avesse mai perduta. Tosto che ne giunse in patria la nuova, tutti ne piansero, un sol sentimento fu quello che occupò gli animi addolorati, perdonare e riparare agli errori, *> Serraron perciò le botteghe, sospesero i negozii, mutaron le vesti di cittadini in quelle di militari, e scambiandosi a vicenda per compagnie, e lavorando non pur tutto il di, ma tutta ancora la notte a lume di fiaccola, apparecchiarono cinquantadue galee in un sol mese. E dubitando non il Pontefice s'abbandonasse alla disperazione, essi che avevano sofferto tanto, gli scrissero una lettera consolatoria, che gli archivi del Vaticano ci hanno serbata. •>

Dopo questa rotta navale, la nuova flotta andò a liberare Savona caduta in mano degl'imperiali, i quali cercavano ogni mezzo di tribolare le due riviere, ma Genova non volendo arrischiarsi contro un nemico ormai divenuto formidabile, e che noverava in sul mare meglio di trecento legni da guerra fra suoi e pisani, si fortificò dentro terra, soccorse il commercio e i luoghi marittimi, e temperando con la prudenza l'ardire si difese gloriosamente da tanti nemici.

Genova ebbe una cara novella: Sinibaldo Fieschi cardinale di S. Lorenzo in Lucina veniva innalzato alla cattedra di S. Pietro assumendo il nome d'Innocenze iv. Immenso fu il giubilo, comuni le contentezze perché gran bene si sperava da quell'animo, le cui virtù superavano la chiarezza del sangue. È fama clic Federigo ali' udir questa nuova dicesse : abbiamo perduto un amico cardinale ed acquistato un papa nemico.1 Pace chiedevano le numerose diocesi del cristianesimo senza pastori; e pace propose Innocenze, purché Federigo liberasse tutti i prigioni, e restituisse le terre tolte al suo antecessore, e s'amicasse coi governi alleati della Chiesa : dopo ciò lo assolverebbe dalle censure. Federigo non volle, ma tentò di sedurre il Pontefice, e questi ogni offerta ed onore ricusò e stette fermo sulle condizioni proposte. Federigo da tanta e 'Stanza tocco qua! serpe in

ferocisce e corre nelle campagne di Roma. Innocenze fugge a ripararsi in Sutri piccola terra fra Roma e Civitavecchia, e spedito segretamente un frate alla Repubblica, le fu intendere di spedire uno stuolo di galee a prenderlo a Civitavecchia. Il segreto è tenuto, la flotta composta di ventitre galee ognuna con centoquattro rematori e sessanta soldati va nel porto romano, infingendo di scortare una carovana che andava in Egitto. Inuocenzo avvistato, spogliatosi delle vesti pontificali ed indossato un giubbone come un soldato di cavalleria con armi leggere, e una borsa d'oro, a cavallo a un ronzino fugge spronando e a briglia sciolta incognito a tutti salvo a' suoi camerieri giunge affaticato a Civitavecchia. Quivi non posa, e mettesi in mare sulle genovesi galee, le quali dopo alcuni pericoli vogano a Genova. Federigo che

10 inseguiva sul territorio romano udite queste cose, vuoisi che rivolto a' suoi cortigiani ridendo dicesse: Povero me.' Io giuocava agli scacchi col papa, e quando ttava per dargli scaccomatto. son venuti i Genoteti a rovesciar la scacchiera.

Quando fu in Genova Innocenze, quando le cittadine mura lo salvarono dalle unghie di quello scomunicato, ringraziò Dio e sollecitò abbenchè assalito da febbre il compimento de' suoi vasti concetti. di tener cioè in Francia quel concilio universale che non aveva potuto in Italia il suo predecessore. Abbenchè la Repubblica le offerisse di farlo trasportare in Francia per mare accompagnato da una scorta convenevole, scelse la via di terra quantunque male in salute. Partito da Genova, a Stella oltre Savona fu per morire, ma come Dio volle giunse salvo in Lione. Quivi convocò il concilio per l'anno seguente. al qual tempo si trovarono al concilio i vescovi di tutte le nazioni e gli ambasciatori d'Aragona, d'Inghilterra, di Francia ed i procuratori imperiali. Non dirò le pratiche discusse ma solo è conveniente saperne

11 fine. Pubblicossi sentenza di scomunicazione contro Federigo n. dichiarando i popoli della Germania sciolti da ogni vincolo con lui ; i principi ammonendo a nuova elezipne, in ultimo dichiararonsi vacnnti i regni di Sicilia e di Gerusalemme. Questi erano a'que'tempì i fulmini più tremendi che si scagliavano

dal Vaticano contro i monarchi; i popoli vi si accostavano, cioè li riverivano ubbidienti, e seaz' altro operavano in senso delle romane sentenze. E bastava lo scioglimento dei popoli dal giuramento di fedeltà per detronizzare un imperatore. Tanta forza era nel Vaticano ! tanta credenza ne* popoli !

I popoli si ribellarono, Germania nominò Arrigo Langravio di Turingia a principe suo. I lombardi con un nerbo di balestrieri genovesi i più rinomati maneggiatori ti' arme sconfìssero l'esercito imperiale. Federigo a lante sciagure vacillò, cercò consigli, ma indarno; macchinò vendetta, ma lardi, alfine colto da una dissenteria in Puglia ammalò e come corse la fama Manfredi, il maggiore dei suoi bastardi figliuoli, nel letto il soffocò coi guanciali. La maledizione dei popoli, e I" ira degli oppressi italiani l'accompagnarono al sepolcro, nel quale discese incompianto da tutti.

Continuando la serie dei fatti più particolarmente legati con noi, troviamo i genovesi uniti alla gran flotta di Lodovico ix. re di Francia banditor della crociata in Egitto. Comaodaronla Lercari e Levanto ammiragli genovesi unitamente a quelli del re. La crociata ebbe quel fine che raccontano gli storici e se un nerba di balestrieri genovesi non liberavano il re dalle mani de' saraceni vi restava prigione insieme col conte d'Angiò.

Per opera d'Innocenze i pisani trattarono una tregua con Genova, ed i veneziani rinnovaron la lega. I primi la ruppero per le pretese di Lerici e per la guerra in Sardegna della quale si erano impadroniti. In Genova intanto il popolo stanco del podestà forestiero passava non senza strepito d'armi all'elezione del capitano del popolo che cadde su Guglielmo Boccanegra. uomo astuto, previdente ed accorto. Il popolo gli presta giuramento, e quindi a foggia degli altri municipii italiani si eleggono trentadue anziani tutti popolani i quali devono insieme col capitano governare la cosa pubblica. Questo mutamento succedeva all'anno 1257 e portava con seco varii cambiamenti ne' magistrati.

Per una offesa particolare cioè per una disputa tra un veneziano ed un genovese accaduta in Accon le due Repubbliche vengono a guerra. Venezia si collega con Pisa, con Marsiglia e col prìncipe Manfredi ; la

unione di tante forze oppresse i genovesi, i quali in un duro scontro nel mar di Soria perdono venticinque galee, e la colonia d'Acri è costretta a ritirarsi nel principato di Tiro. Lucca vedendo Genova percossa da tante contrarie fortune, manda onoralissimi gentiluomini a presentarle due mila marche di argento. Questo atto era generoso, e generosa del pari fu la risposta che agli ambasciatori lucchesi die il capitano del popolo: // dono prezioso, che in nome della vostra Repubblica voi recate alla min. essa non può accettarlo per non averne, a conti fatti, bisogno; ma tosto che l'abbia, manderà con fiducia a farvcne richiesta, tanto è riconoscente alla vostra nazione, e sicura della ma amicizia.

Papa Alessandro iv. al fine rappattumò le tre Repubbliche; i genovesi ebbero nuovamente Acri, ma questa pace non doveva durar lungo tempo.

Lo impero de" latini fondalo a Costanlinopoli era per crollare; i greci anelavano al racquislo delle terre natie, capo di tutti Michele Paleologo, il quale mandò ambasciatori alla Repubblica per conchiuder lega con essa. Ventilarono le proposizioni in consiglio: molti amando la pace co' veneziani si opponevano ed i contrarii dopo altre ragioni a persuaderli all'impresa conchiudevano: Dirà VEuropa, scriverà perpetuamente la storia: i genovesi rialzarono soli l'imperio orientale, ch'era stato abbattuto da'franchi, da'fiamminghi e da'veneziani. Approvossi la deliberazione, ambasciatori genovesi e greci partirono ed approdarono a Ninfeo ove a diporto solea stare Michele Paleologo. Conchiusesi « L'imperio avrà perpetua amistà con la Repubblica di Genova: non farà pace co'veneziani senza l'assenso di lei. Proteggerà i suoi uomini e distrii i uni i. merci e bandiere da ogni insulto; i rei di tale delitto bandirà da'suoi stati; non lascerà armare, nù riceverà legni armati contro di lei. Manterrà sempre nei suoi porti, isole, paesi e città sì di terra come di mare i genovesi, lor (lisi rii inali e chiunque diverrà tale per I* avvenire, ancorché naufraghi , in piena goduta de' loro averi e diritti personali e reali, e in libertà, franchigia ed esenzione da ogni dazio di entrata o di uscita, stando o partendo con pieno carico o senza. Non farà loro divieto, né recherà mai impedimento o ritardo all'estrazione delle vettovaglie e altre merci, salve le condizioni seguenti; la prima di non eslrarre allr'oro e argento che i perperi e turcheschi ; la seconda di vendere e comprare i generi sottoposti ali' imperiali dogane giusta la tariffa convenuta al tempo dell'imperator Caloianni di beata memoria; la terza di denunziarc le merci per conto di romani (1) o di stranieri, acciocché paghino il solito dazio. Donerà al Comune e popolo genovese in piena proprietà e dominio la città di Smirne col suo porto, distretto, possessi, diritti e tutto quanto ivi appartiene al detto imperio, salvi i privilegi del vescovado, della chiesa e de'nobili che vi han seggio. Item donerà al detto Comune nella città di A di-arni i o. nelle isole di Mctelino e di Scio, e mediante la misericordia divina in Greti e in Negropontc, nelle parti di Salonichi, di Cassandria, di Aitila in piena proprietà e dominio, loggia, palazzo, chiesa, bagno, forno, giardino e case sufficienti ali' abitazione de' mercanti. In tutti questi luoghi i consoli genovesi avranno mera e mista giurisdizione tanto criminale quanto civile sopra i lor cittadini, distrittuali. e sopra chiunque si dirà giustamente genovese; obbligandosi esso imperio a non ne accettare veruno in suo vassallo, uomo o fedele, e a non ritener le persone , mercanzie o navi fuorché per causa di debiti, furto o rapina, ne1 quali casi saran pure trasmessi alla propria curia. Veruno non sarà mai tenuto pel fatto o delitto di un altro. Tra romani e genovesi l'attore seguiterà il foro del reo. Piacendo all'Onnipotente Iddio, che l'imperio ricuperi la città grande (Costantinopoli), ei manterrà al detto Comune e popolo genovese tutti i privilegi, possessi, ragioni, ond'essi godevano per I"addietro, e aggiungerà qualora mandino pronto ed efficace soccorso per l'espugnazione di quella, la chiesa di Santa Maria tenuta al presente da' veneziani con le logge in!Itinri. il cimitero e il nudo suolo del loro palazzo. Terrà d'ora innanzi chiusa la navigazione del mar Maggiore, a tutti i popoli latini, salvo ai genovesi, a que' pisani che saran fedeli al detto imperio, e a chi

(li I greci In « mi i ni si chiamavano e volevano essere chiamati rum,mi.

recherà arnesi da guerra al porto, o copia di provvisioni al palazzo imperiale; ben inteso che i genovesi possano entrarvi o uscirne con carico o senza, franchi e liberi da ogni gabella. Manderà annualmente al suddetto Comune per la solennità delle feste cinquecento Sperperi e due pallii d'oro, all'Arcivescovo sessanta iperperi e un pallio, come si ha nel privilegio della beata memoria del signor Manuele imperator de' romani. E finalmente farà mettere in libertà tutti i genovesi e distrilluali che si trovano fino a questo dì nelle carceri de'suoi slati. Viceversa il detto Comune di Genova assumerà verso l'eccellentissimo imperadore Michele Paleologo e suoi successori le obbigazioni corrispondenti a' primi quattro capitoli della presente lega che qui si ripetono per esteso. Non porrà mai divieto né dazio a' nunzi e sudditi imperiali per estrazioni d'armi e cavalli dai suoi stati. Non darà impedimento a' genovesi disposti a militare per l'imperio, o a servirlo d'armi, cavalli e navi. Quelli che si troveranno in qualche terra dell'imperio, dovranno fino alla loro partita concorrere a difenderlo con tutto il zelo e con tutte le forze. Qualora la gente di un legno mercantile venga assoldata da un comandante di un porto imperiale o di una fortezza o piazza vicina, dovrà essa difenderli per tutto il tempo della sua condotta, come se in proprio appartenessero a' genovesi ; in caso di tradimento sarà punita da' lor tribunali come in loro propri traditori. Qualunque volta V imperio richicggalo, il comune, il capitano e podestà di Genova saran tenuti a mandargli da una fino a cinquanta galee armate e guernitc a loro spese, le quali dovranno servirlo contro tutti, salvo che contro la Romana Chiesa, e quelle comunità e baroni, co"quali il detto comune ha pace e convenzione anteriore, secondo la lista che ne sarà presentata io iscritto. Ciascheduna galea dovrà avere un padrone o comilo , quattro nocchieri. quaranta soprassaglienti, un panattiere e cent'otto remalori. Le paghe e le panaliche resteranno a carico dell'imperiai tesoro; comincieranno a decorrere dal giorno della partenza da Genova fino a quello della tornala , e saranno anticipate di quaranta in quaranta di, tempo ordinario d'ogni requisizione. Le panatiche

importeranno giusta il consueto novanta can- rioni di Metelino, i Gattilusi di Enos. Un

Ura di biscotto al mese per ciascuna galea, le fare , le carni salate , il cacio , il vino a proporzione. Le paghe mensuali saranno sei Sperperi e mezzo per ogni comilo, tre ed Qo quarto per ogni nocchiere, due e mezzo

Zaccaria va a Negroponte dove fa prodezze mirabili in Calcide e n'esce vittorioso e trionfanle, ed oltre a ciò riceve in premio dal greco Imperatore l'isola di Scio col titolo d'ammiraglio e di gran conteslabile. Aodrea

per soprassagliente, uno e caratti diciotto pel ed Jacopo Caltaneo occupano la Focea ricca

panettiere, e altrettanto pe* rematori. »

Questa è quella memorabile convenzione di Ninfeo concbiusa sotto il reggimento popolare, rogata da Lanfranco di S. Giorgio notaio e cancelliere del comune di Genova.

di materie aluminose donde ne trassero copiose ricchezze per la vendita che ne facevano a' mercanti di ogni nazione. Circa a questo medesimo tempo venne in poter dei genovesi P opportunissima Gaffa, che fu poi Alessio Strategopulo il miglior capitano di quella tanto nostra famosa colonia invidiata Paleologo ha ordine di passar 1" Ellesponto da Maometto n. e di avvicinarsi a Costantinopoli senza destare sospetti. Per via fa grandissima accolta di greci e la fortuna lo mena ad insignorirsi di Costantinopoli, e manda al Paleologo lo scettro di porpora e gli altri ornamenti abbandonati fuggendo dal latino Imperadore. A colai vista il greco Signore può appena persuadersi della presa di Costantinopoli. Ma questa subitanea e vittoriosa impresa riusciva funesta se non giungevano le galee genovesi comandate da Martin Boccanegra a consolidarla e a porre così nuovamente lo scettro d'oriente in mano
Tutti questi preziosi e felicissimi acquisti fatti dalla Repubblica dovevano naturalmente partorire una guerra con Venezia gelosa oltrcmodo della grandezza dell'emula sua. Così vediamo Simone Grillo ammiraglio genovese presso a Durazzo in Albania romper la flotta nemica e ritornare in patria carico dei tesori che i veneziani mandavano annualmente in Egitto; e i veneziani di poi presso a Trapani fugar l'oste nemica e medesimamente in patria redire carichi delle genovesi prede. Oberto D'Oria uscito con venticinque galee snida i veneziani dalle marine di Sicilia e va a sorprender la Canea, ricca provincia la quale contiene il celebre porto della Suda, cinque grosse castella e trecento casali. Dopo ciò fu trattata la pace rinunziando i veneziani

tinente dell'Asia aperto a'lor traffici, senza costar goccia di sangue, « E lutti cotcsli grandissimi vantaggi portavansi alla nazione genovese dal governo popolare.

Rimanevano ancora isole e paesi in polere di francesi e veneziani. 11 Paleologo d'accordo con la Repubblica palesa che i paesi e le isole le avranno in feudo perpetuo coloro cui darà l'animo di racquistarle. Corrono i

Alla seconda crociata di Lodovico ix. vi concorrono i genovesi e non senza frutto, che condotti da Francesco De-Camillo prendono a viva forza il castel Tunisino.

Nessuno si pensi che quantunque i genovesi fossero e prima de' fatti accennati e dopo occupatissimi nelle guerre di mare, quietassero in patria. Guelfi e ghibellini ben di sovente venivano alle prese e sangue versavano. Chi volea insignorirsi delle redini del governo e comandare a talento; a' nobili non piaceva il capitano del popolo; e volevano il podestà forestiero coloro che seguitavano la parte imperiale, cosicché mentre gloriosamente sventolava lo stendardo genovese e nel Ligustico mare e nelle più remole re

genovesi alla prova, gli Embriaci si impa- gioni, in Genova s'insanguinava ferocemenle: droniscono di Lemno. i Centeri o Centu- finché poi il governo supremo della Repnb

blica è dato a due capitani del popolo di fazion ghibellina, Oberto Spinola e Oberto D'Oria, uomo turbolentissimo il primo, il secondo noto nell" ultima guerra.

Dopo questi avvenimenti, il governo pensò d'ingrandirsi e fece acquisto di Ovada con altri luoghi vicini al Monferrato, d'Arcula, Vezzano, Tivegna, della Spezia nel golfo di Luni.

Tra il 1270 e il 1280 avvenne quella memorabile spedizione di Tedisio D' Oria ed Ugolino Vivaldi, che armale due galee a proprie spese, uscirono dallo stretto di Gibillerra per cercare le terre poste all'equatore. Essi non più ritornarono in patria, ed è molto probabile, dice il Tiraboschi, che i due genovesi autori di si ardita impresa, o altri loro concittadini, scoprissero le isole Canarie, da taluno dette Fortunate.

Gli avvenimenti ci chiamano in Corsica. Or avvenne che il giudice di Cinarca costretto a prender la fuga si rivolse a' genovesi e n' ebbe soccorsi. Egli invece di riconoscenza usò rapine a' nostri e molestie. Genova ammonillo, ma indarno; allora mandò uno stuolo di navi con gente da sbarco che il vinse due volte. Lo sleale fuggissi a Pisa e giurò vassallaggio promettendo tutto 1" imperio di Corsica alla rivale dei liguri. Genova intimò a Pisa la restituzione di quel rubello, e quella ucgò,edanzi attendendo un vento propizio mandollo in Corsica, dove ricuperò Cinarca. Pisa quindi rispose che voleva l'alto dominio della metà della Corsica o guerra. E in questa deliberazione furon tanto più duri, in quanto die Genova volendo scansare la guerra propose compensi, ma inutilmente. La guerra divenne inevitabile, e prima di venire a tenzone si ordinarono le cose pubbliche e si mise mano alla costruzione di nuove galee, il cui legname pigliavasi dai monti della Liguria. Pisa millantatricc di tanta disfida esce con cento galee. Il giudice di Cinarca rompe il primo la guerra coli'assediar Bonifazio, la quale città difesasi costantemente fece risolvere 1' inimico di torsi giù dall" assedio. Il giudice di Arborea favorito dai pisani s'impadronisce d' Alghero 1' unico presidio che rimanesse a" genovesi in Sardegna, ma poco dopo è costretto a lasciarlo. Tommaso Spinola con trenlaqualtro galee naviga verso

Capraja e piglia una galea pisana con lettera nella quale si chiede la scorta per una carovana carica di merci preziose. Egli vi corre ali1 incontro nel porto di Cagliari, e quelle fuggenti persegue fin che tutte non prenda e vittorioso non entri nel porto di Genova. Pisa ciò udendo manda Andrea Saracini con quarantacinque galee ad infestare le spiaggie di Corsica e della Sardegna. Genova fc altrettanto, cioè allestì cinquantaquatlro legni comandati da Corrado D'Oria che imprigionando i nemici a Falesia predò navi e affondonne. Al Saracini che salvossi fuggendo sollcnlrò Rosso Buzzaccherini de' Sismondi il quale arrogantemente mandò a disfidare il popolo genovese, scrivendo che appena allestito verrebbe in sul porto a lanciare da suoi trabocchi de' ciottoli fasciali di scarlatto. I genovesi risposero che i trabocchi si adoperavano da lontano e ch'egli avrebbe tantosto occasion di vederli da vicino. Oberio D'Oria con sellanla galee immantinente andò sopra Portopisano, e quivi atlerrò la torre della Veronica, e poscia si ritirò non inseguito dal Buzzaccherini che per questa indolenza perdette il comando, eleggendo i pisani in sua vece Natta Grimaldi esule genovese; il quale con la più sfacciata impudenza venne a dar fondo sopra il porto di Genova saettando nella città quadrclla d'argento, e poscia tornando addietro percosso da Gerissimo turbine di vento sulle piaggie di Yiareggio alla foce del Serchio, tanta fu la rottura de'suoi i quali furono costretti a portarsi a Pisa in camicia pregandosi le sprecate quadri-Ila. Poco dopo Arrigo De' Mari scortando una carovana che tirava in levante s'imbattè in Giovan Cavalla Gaetani comandante una flotta pisana forte di navi del doppio, ma a disegno divisa. Arrigo Ottone sullo stretto di Messina s'impadronisce di altre quattro galee, gettando il ridicolo bando che venderebbe i prigioni per tante cipolle.

I fati volgevano alla rovina di Pisa. Le sue squadre erano ovunquc battute e fatte prigioni. A Capocorso millecinquecento pisani rimasero prigioni, e circa a cenloventimila fiorini d' oro, e a ventimila marche d'argento in peso fu calcolata la preda. Furono sbaragliate in appresso verso il golfo di Cagliari trenta galee comandate da Fazio uno dei migliori capitani di Pisa, il quale fatto prigione fu menato a Genova con la metà della flotta. Mortici Malaspina ruppe la squadra pisana a Bonifazio portando a Genova la cassa militare e le vinte galee Queste perdale battaglie e questi infelici avvenimenti anzi che metter senno a' pisani gliel tolsero. Alberto Morosini nipote del doge di Venezia era innalzato dai pisani al grado d'ammiraglio della flotta. Costui entrò nel golfo Ligustico saccheggiando e predando, osò dar fondo sulla bocca del pòrto balestrando quadrclla d".irretito e sfidando a battaglia. La città a quello insulto stette cheta, nessun legno si mosse, senonchè in fine mandò sovra un battello un araldo riccamente vestito. La bianca bandiera era invito a parlamento. I," araldo presentatosi al Morosini gli disse con voce franca e composta. Signore, il popolo genovese vi taluta. e v'invita a riflettere, che poco onore può userei una disfida e un'onta fattagli, mentre la metà delle sue forze è lontana, t Poltra sta disarmata. Tornate al porto vostro, e tenete per certo chs presto verremo a vedervi. A. questa proposta il Morosini ne rimase colpito ed insieme coi primati cittadini di Pisa convenne d' allontanarsi. A /accana chiamato di Sardegna s" impose stesse in porto all'ordine colle sue trenta galee. Tennero uomini da ogni banda e le riviere molti ne mandarono assai valorosi, i forestieri che solevan accorrere al suono di guerra non furono ammessi. Passarono in rassegna le navi le quali ascendevano ad ottani'otto, cinquantasei appartenenti alla capitale, trenta alle riviere e due a'capitani. Verano altresì otto panfìli o portantini, velocissime barche ad uso di portare ordini e munizioni. Oberto I > Oria fu eletto primo ammiraglio eh' era capitano del popolo e Comun genovese. Il Zaccaria venne a secondo. Oberto sollecitò la partenza, e navigando verso Provenza e in giro alla Corsica De io parte alcuna trovando i nemici, s'accostò al lido pisano e presso alla Meloria die fondo. Oberto mandò un araldo a dire ai riisani che secondo le promesse, erano venuti a trovarli. I pisani si affrettarono di unire i loro legni e I" ammiraglio alzato il pisano stendardo il fé benedire dall'Arcivescovo che venne in piaggia a confortare le genti ed ad inanimire le turbe promettendo vittoria.

(PlBTE I )

" Come dunque il Morosini fu escito dal fiume, ci fece allargare le navi ch'erano seco a levante, e quelle che si trovavano in porto a ponente; il che venne a formare un argine galleggiante di centotre legni, difeso alla testa di sopra dalle torri del Humc, di sotto dalle torri del porto, oltre a'trabocchi e a'mangani armati lungo il lido interposto.... Oberto fe'sciogliere l'ancore alla sua armata, e inoltratosi a tre quinti della distanza fra Meloria e Porlopisano, ne formò un triangolo in questa guisa: la comandante alla sommità, al lato manco la galea di San Matteo quasi tutta guernita dai suoi parenti; appresso le divisioni de' quartieri di Susilia, di Porta, di Portauova e del borgo di Pre; al destro lato la galea dell'altro capitano comandata da Corrado Spinola, quindi le divisioni degli altri quartieri, Castello, Piazzalunga, Macagnana e S. Lorenzo. Ogni divisione era di sette galee. Non videro questo movimento i pisani senz' arder di sdegno e avvampar di vergogna, che un'armata quasi inferiore per metà alla loro, s'inoltrasse tanto per combatter nel loro golfo, e ch'essi non ardissero muovere una gomena in avanti. Queste cose seguirono il dì cinque di agosto. ÀI dimane scorgendo la stessa inazione, i più moderati andar sulle furie dicendo, la festa di S. Sisto esser quella nella quale i loro antichi riportarono sei grandi vittorie: chi preterisse un augurio siffatto sarebbe codardo o traditore. Un forestiere, qual ch'egli sia, non può lungamente resistere agli urti della vanità nazionale. Morosini fece dunque come vollero; strinse la sua linea alquanto, pose se stesso al centro, Àndrea Saracini al fianco destro, Ugolino conte della Gherardesca al sinistro, e tutti a un tempo si spinsero contro i nemici. Spumavano i flutti, e la distanza che separava i due stuoli andava svanendo a colpo d'occhio. Lietissimo Oberlo di poter combattere senza esser percosso dalle macchine di terra, compartì i suoi ordini al viceammiraglio e a' capitani. Che maraviglia , che allegrezza fu quella dell'armata nemica, veggendo i genovesi dianzi si arditi, riposarsi a un tratto sui remi, taciti immobili, e come pentiti di essersi inoltrati cotanto! Le grida, i vituperii furono molti; e duravano ancora, quando a voga arrancata, secondo gli ordini

avuti, balenò Zaccaria con trenta galee, e con apparenza di forze maggiori. I lati del1' armato triangolo si aprirono, ricevettero negl'intervalli il nuovo soccorso, diUìcilissima operazione, e si distesero sopra una linea sola; perciocché mancando con questa giunta il pericolo di essere avviluppati, cessava il motivo di opporre da tutti i lali le prore. A." panfili fu imposto di vigilare, non alcuna galea derivar si lasciasse fuori di fila; e alle galee più grosse di afferrare con uncini e ramponi nelle sarte di prua le contrarie. « Nel medesimo tempo Oberto concitò le sue genti con animoso discorso , ed altrettanto faceva l'ammiraglio pisano — "A tali parole , ripiglia il Serra , era legno a legno con Oberto, e strage faceva della sua gente. Intanto 1" acque si tingevano di sangue; saette, fuochi, e morchia d'olio miste con sapone ingombravano 1' aria. Lo smisurato furor de1 combattenti si appalesa da' filili seguenti. Un marinaio di non so quale squadra salta sopra l'opposta nave fra il ferro e il fuoco; spoglia l'ucciso nemico della corazza, e doppiamente armato, nel rimbalzare sopra il suo legno precipita in mare. Due altri, rotte l'arme, s'afferrano corpo a corpo, e volendo l'un l'altro sommergere, affondano a un tempo. È fama che pugnassero insieme con simile furore cinquantaseimila persone. Slava il desiino della battaglia in sospeso, quando Zaccaria avendo disfatta la galea contraria, spedito com'era, investì di fianco il Morosini, che affaticava la comandante; il quale dopo lungo combattere da due bande opposte, cólto da una balestra in fronte, rovesciato e semivivo fu preso. Della marina e del caslel di Diano era in gran pari* la gente del Zaccaria. ÌXel medesimo tempo una galea di Finale servita da fior di gioventù, la quale nel raddoppiarsi delle file avca preso luogo allato ai D'Oria, fracassò la prua di quella che stava loro innanzi, decorata del nimico stendale. Saltano le due ciurme dentro. I pisani si difendono lungamente senza muovere un passo, infino a che la maggior parte di essi giace uccisa o ferita intorno all'albero maestro: i rimanenti s' arrestano nel castello di poppa a difendere con le forze estreme il loro stendardo, che lacerato in più pezzi mostrava ancor qualche avanzo in sulla cima delP asta. Cade ancor questo sopra i

cadaveri de'suoi difensori. I genovesi levano il grido della vittoria, soverchiano per tulio il nemico, all'ondano sette galee e prendonne quaranta. L'altre più pronte alla fuga si salvano . entrano in Portopisano difese dalle macchine di terra, e serrano la bocca con grosse catene di ferro. La difììcollà di spezzarle, e quella di guardar laute prede, indussero il vincitore a incaminarsi verso Genova. E acciò paresse signore degli elementi com' era stato della battaglia, avvenne che tutto il tempo della sua dimora alla Meloria fu bonaccia, ma appena partito, il mare infieri di maniera, che molte navi da carico andarono a traverso sul lido toscano— L'ingresso dell'armata nel porto di Genova fu semplice e maestoso. Tutta la città, tutte le terre circostanti stivarono il porto, i ponti e le mura che riguardano il mare. Oberlo discese preceduto dall'ammiraglio pisano, il quale per la grave ferita era portato in lettiga. Venivano appresso le niniiche bandiere con l'asta e gli avanzi del grande stendardo, poi novemila dugento settantadue prigioni, die avevano di fronte, a' due lali e alle spalle i vincitori. L'armata si schierò in due linee, le galee pisane in avanti, e addietro le genovesi. Del rimanente non v" ebbe altra pompa o trionfo. Ma decretarono di portare annualmente il sei d'agosto, giorno della gran battaglia (1284), un palio di broccato d'oro nella chiesa di S. Sisto, e quello offerire per man de' maestrali ali" altare della Vergine Santa. Le insegne nemiche appesero nel tempio di S. Matteo, eh' è parecchia dei D'Oria; fecero processioni, e celebrarono messe per le anime dei trapassati. Questo pio e moderato procedere eancella ogni sinistra impressione delle passate giattanze ; e non lascia cosa da desiderare in lanta vittoria. »

Così questa celebre campagna navale fu descritta dalP illustre Girolamo Serra nella sua Storia di Genova. Dcgnissima di memoria è la pietà dei pisani, poiché tutti, donne e fanciulli, uomini vecchi e giovani vennero in Genova e per terra e per mare a visitare gì' incarcerati congiunti. Onde quel proverbio— Chi vitale veder Pisa, vada a Genova. Un infortunio non percuote mai solo. I toscani si collegarono, giurando di non posare le armi se Pisa non fosse distrutta. E l'anno appresso i genovesi con sessanta galee furono sopra Portopisano, ruppero quelle catene confinate a serrarlo; s' impadronirono di molte navi, e ritornati in patria appesero alle antiche porte e chiese gli anelli di quelle che nn Carlo Noceti fabbro férrajo con ingegno romperà.

Dopo alcune pratiche per un convegno di pace onorevolmente rifiutato dai pisani, i nostri tornarono nel mar di Toscana per nuove vittorie. Cinarca in Corsica, l'isola d'Elba riacquistarono, e rivolti a bocca d'Arno rì calarono una galea murala dai quattro Iati carica di mattoni. Mentre Pisa era assediata per mare dai genovesi e per terra dai toscani, grandissime intestine discordie manomisero il popolo e comun genovese: sedate quindi, si venne alla terza guerra co'veneziani. Quando freddamente si pensa a quelle ostinate guerre di fratelli contro fratelli, non si può se non deplorare quel bisogno di sanpue ch'era l'arbitro delle italiane contese. Opinarono molti che se le due rivali si fossero tesa la mano amichevole, e congiunte insieme le loro forze marittime avessero e fatto argine a' nemici d'Italia, e fossero corse alle conquiste unite e sorelle, avrebbero mantenuta in Italia l'indipendenza nazionale. Non poterono, né potevano, che appunto dalle guerre tra le due rivali ne nacque la maggior fama di esse, e quando i tempi dimostrarono che i cittadini si erano dati alla vita agiata, lo stendardo di S. Giorgio non corse più temuto ne' mari, né la patria si rallegrò più mai di famose vittorie. Ma torniamo alla storia.

La conquista di Costantinopoli, l'impero d'Oriente tornato nuovamente nelle mani dei greci, fu queir avvenimento che favori grandissimamente il commercio dei genovesi in levante, perlocchè essi superarono i veneziani d'assai; costoro da principio non s'opposero eoo tutto potere alla grandezza de'loro emuli, perché la Scria e l'Egitto recavano loro un largo compenso; ma dopo che i genovesi s'accordarono con l'Egitto, e s'impadronirono di S. Giovanni d'Acri, di Tiro, Sidone, Laodicea. Antarado e Torto» i veneziani si morsero le dita. Vedevano ti commercio d'Egitto in balìa di una feroce milizia, aumentato quel di Soria con la per

dita d'Acri, e quindi i loro emuli ottenere privilegi in Cipro, crescere prosperose e potenti le colonie di Pera, di Gaffa e di Famagosta; in fine le vittorie sui pisani tante invidie e gare desiarono nel petto de' senatori veneziani, che indussero il Senato a romper la tregua. Nicolo Spinola fu mandato in Costantinopoli ad avvertir le colonie, e a render loro ben affetto l'imperatore. Andronico i. che sedeva in Costantinopoli non volle far lega con Genova, rifiutò del pari le offerte del scnator vendo e si dichiarò neutrale. O invidia il rodeva per la crescente grandezza de' genovesi : oppure volea godersi la vista di due repubbliche intente a lacerarsi . . . cosi pagava il trono ereditato pel valore dei genovesi.

Allo Spinola che veniva in patria i negozianti di Pera confidano venti navi cariche di merci. Incontra i nemici che avcvan poc'anzi predate tre navi genovesi: li sfida a battaglia; s" a mia a Lajazzo, e quindi fa vela da capo verso ponente, s'imbatte di nuovo nella flotta nimica forte di vent'otto galee da guerra. S'appicca la zuffa, feroce è la mischia, ed appena tre legni veneziani possono fuggire, gli altri s'arrendono e l'ammiraglio ancora. Nella costa occidentale della Morea, e non lungi dalle campagne ove fu Troja successero altri fatti colla peggio de' veneziani. Venezia volle imitar Pisa: fé sapere al Comune eh' eglino non volevano più combatter in mari lontani, ma che entrerebbero avanti l'ottobre (1294) nel porto stesso di Genova con tutte le forze. I genovesi risposero troppo indugio sarebbe lo attenderli in un porto ch'ei non conoscevano; navigassero pel mar di Sicilia e troverebbervi persone le quali mostrerebbero loro l'entrata di Genova. La disfida fu trattenuta da papa Bonifazio vili., ma poscia spirato il termine nell'anno appresso i genovesi dai quindici di luglio ai quindici di agosto armarono in pronto dugcnto galee che poi si ridussero a centocinquantacinque per rinforzare le ciurme. L'onor del comando toccò nuovamente al vittorioso Obcrto D'Oria. Ogni galea numerava da dugentoventi o cinquanta a trecento uomini. Insieme sommavano a circa quarantacinque mila fra marinai, soldati, ed ufTìziali, un forestiere non c'era. V'erano ben ottomila uomini d'arme, giovani e nobili e popolani, coperti d'acciaio e di rame dorato, con sopravesli e calzari in seta e oro. Alla fama di tale armamento Venezia poc' anzi braveggiatrice e pronta a dar fondo nel porto, chiuse le porte, difese le mura, e studiò d'accordarsi con la rivale. Tanta paura facea perdere il senno. Oberto con la gran flotta giunse a Messina e costeggiando tutta la Sicilia cercò indarno i nemici : alfine costretto dal mare e da alcune dissensioni insorte sulle navi ritornossene in porto. In questo tempo avvennero quelle fazioni civili, che cagionarono le stragi e gì" incendii che per quaranta di Genova n' ebbe a soffrire ; onde ripresero animo i veneziani, e visti i nemici dilaniarsi le proprie viscere si esaltarono e s'armarono a tribolare le colonie dei genovesi; sorprendono Gaffa, saccheggiano Pera barbaramente e ovunque fan preda e macello. Genova discorde, non ha uomini pronti da spedire a rincontro; si congrega il parlamento, depone il capitano Corrado D'Oria sostituendo a questo un Lamba di quella famiglia. Questi intrepido di cuore, di tratto cortese e divoto al popolo persuade ad armare una Botta affine di arrestare la tracotanza nemica. Messa in pronto dopo la metà di agosto fa vela per 1' Adriatico, ubbidisce al Lamba medesimo. La nostra armata s'imbalte in quella de' veneziani sotto gli ordini di Andrea Dandolo soprannominato il Calvo.

•» Sembrava la battaglia imminente. Ma Lamba conlento di aver riconosciuto il nimico, comincia a dar vòlta. I veneziani in cambio di seguitarlo gli mandano da una saettìa dicendo, perché non viene a giornata, e se tanto non osa, perché non isgombra 1" Adriatico. Non voglio combattere avanti la natività della Beata Vergine, né abbandonar questi mari innanzi all'aver combattuto. Così Lamba risponde. I giorni di mezzo passano in movimenti vicendevoli. D'isole penisole e canali è tutta ingombra quella costiera del mare Adriatico. Se dunque sembrava malagevole altrove, quivi era quasi un portento che due armate numerosissime potessero non che evitarsi, navigare più giorni senza rompere negli scogli. La stessa difficoltà si presenta a chi legge nelF antiche storie de' greci le loro imprese navali ; né sciogliesi altri

menti che giudicando somma la perizia dei naviganti, attissima la si rullimi delle galee per quella specie di navigazione. Or la vigilia del giorno prescritto Lamba entrò nel braccio di mare che ristringe l'isolette di Cùrzola, di Làgosta, e di Mèleda ; i veneziani impazienti gli tennero dietro. Quel!' isole un tempo occupate da'Narentani, antichi nemici del Veneto nome, erano allora in potere del re di Ungheria. Son divise da varii canali più o men navigabili. Da levante si estende la penisola di Sabioocello, congiunta alla I)almazia;da mezzodì è Ragusi città libera, ma non guerriera; di fuori sta il mare aperto, e dalla parte d'Italia sopravvanzano i monti (largano e di Sant'Angelo, le cui falde meridionali cingono il golfo di Manfredonia. Così fatto era il teatro, nel quale i genovesi e i veneziani si chiusero a dispulare il primato del mare. Il rimanente del giorno fu dato agli apprestamenti della battagliala notte al riposo, ma non tutti riposarono. L'alba del dì che nacque Maria (8 settembre 1298), spuntava da l'olii boschi della penisola, quando ambe le armale quasi di concerto si strinsero al cimento Andrea grida alla sua gente di rammentarsi la vittoria di Trapani, e il nome di Borbonino. Lamba ha già disposto i suoi colla fronte a tramontana, e confortatoli a non temere la superiorità de'nemici. Curarla egli sì poco che per certi suoi fini non dubitò di spiccare durame la notte quindici galee dell" armata. >on dipendere le vittorie dal numero, ma dal valore: e il valor genovese non numerò mai i nemici. Questo essere il giorno benedetto da Maria Santissima, nel quale ciò che Pisa sofferì presso al suo porto, soffra Venezia nel suo golfo, e tutti i popoli del Mediterraneo imparino a paventare i genovesi o ad amarli. Dopo lali parole da il segno della battaglia, e oltre a frecce, sassi e morchia d'olio fa gittar calce viva misla con sabbia. Nel calor della zuffa ode levarsi dalla sua prora altissime grida. Accorre, trova un cerchio di marinari, e nel mezzo un giovinetto steso sopra la coverta. Era il suo figliuolo, trafitto il petto da dardo acuto. Pallor di morte ne copre il volto, e gli occhi si chiudon per sempre. A tal vista Lamba il raccoglie nelle sue braccia, e accertatosi che non gli resta più soffio di vita. Io balta in maro dicendo a'circostanti, l'unico mio figliuolo è morto, ma il cielo ci guardi da compiangerlo, o amici; non hanno i guerrieri tomba più bella che il luogo della vittoria. Or via. a'iuoghi nostri ciascuno. Torna di fatto sul cassero; e reggendo come dieci galee con remi e alberi rotti davano addietro. fa il segnale a tutte di formarsi in triangolo, la comandante alla sommità. I veneziani le aflàlicavaoo da tutti i lati : il sole già inclinava a ponente, quando quindici galee a remi e a vele poggiando inosservate dall'alto, urtarono disperatamente io una divisione venenana. Erano genovesi, quelle medesime, che essendo la notte senza chiaror di luna, l'ammiraglio aveva trascelte a girare di fuora Pisola di Làgosta, a introdursi nel canale Mazzarè, e a investire da poppa il nemico, quando scorgessero più impegnato il combattimento. La divisione assalita alle spalle comincia a dare addietro, voltar le prue, disordinarsi. Una galea è già presa, il disordine è in tutte. Dal semicircolo formato con si erandi speranze dal Dandolo, non riman ch'egli solo immobile al centro: ma Lamba rinforzato da due legni minori l'investe, lo abborda e il fa prigioniero. Da tutte le parti P altre- galee fracassate si arrendono ; sole dodici si sottraggono con la fuga. TI conte di Treviso, Saraca Gradenigo, un Basea, un Morosioi cadono valorosamente nella mischia. Andrea Dandolo, a cui il vincitore salvò a forza la vita , battendo della fronte contro Palbero maestro, s'uccide. Intorno a dieci mila morti, scimila seicento e cinquantaquattro i prigioni. In questo numero è il celebre Marco Polo frescamente tornato dai suoi viasgi d'India. La perdita de' genovesi montò a millecinqaecento persone secondo gli annali forestieri, giacché i nazionali in un momento sì grande sono interrotti ; avendo Jacopo D'Oria cessato di scriverli, oppresso dagli anni e dall' infermità. Questa battaglia fu nominata di Cùrzola per la vicinanza dell'isola. Fa comparata alle battaglie navali degli antichi romani, non solamente per la moltitudine delle navi e de' combattenti, ma per la riputazione dei veneziani, nelle cose marittime poco o nulla inferiori a' cartaginesi. Gli antichi solevano fare dopo grandi felicità un sagrifizio di cento vittime: e Lamba fece

sopra la piaggia di Cùrzola il memorabile incendio di sessant'otto prede inabili al corso. Lo vide da lontano Venezia, e ne tremò. E fu generale opinione, che se i genovesi si fossero inoltrati al suo lido, o la prendevano

0 nel suo porto stesso dettavano la pace. Ma Lamba si dispose a rimpatriare; e dieciotto giorni dall'ottenuta vittoria entrò con altrettante prede nel porto. I veneziani presi a Cùrzola trovarono ancora nelle carceri di Genova i pisani violi alla Meloria. Corrado Spinola porse al vittorioso collega un decreto del Parlamento, che il di 8 settembre dovesse la Signoria trasferirsi annualmente nella chiesa di S. Malteo; prostrarsi dinanzi all'imagine della Vergine Santa, e a lei offerire un palio di broccato d'oro. Fosse edificato a pubbliche spese un palagio per l'ammiraglio, e innalzatagli una statua marmorea sulla facciata. Lamba avendo letto il decreto e abbracciato il collega, salutò lietamente l'immensa moltitudine che il contemplava stupefatta, ma non aggiunse parola. Solo il banditore si mise a chiamar parlamento per lo dimane. All'ora consueta i due Capitani saliti sulla scala del Duomo annunciano al popolo, che la loro dignità è spirata (1299), tosto ne depongono le insegne, e si confondono con la moltitudine «

La rotta di Marco _Bascio nel canale di Costantinopoli colmò di confusione la plebe ed il Senato Veneto. Un decreto ordina un segreto armamento, mentre per mezzo di due principali gentiluomini Venezia si raccomanda a' vincitori. Nel medesimo tempo i pisani sentita la vittoria di Cùrzola anch'essi supplicano Genova di pace. Questa acconsente e delta quelle convenzioni che le storie ci hanno tramandate per intiero; più dura legge ebbe a tollerare la seconda che non la prima.

•n Non fu, conchiude il Serra, allora nazione che contrastasse a' genovesi la gloria di essere i primi fra i popoli marittimi. Le bandiere di Tiro e di Cartagine non erano più rispettate anticamente su i mari, che la croce rossa, o lo stendardo di S. Giorgio alla fine di questo secolo decimotcrzo. Tatti

1 documenti contemporanei ne fanno fede. Un celebre annalista, egualmente stimato per la semplicità del suo stile e per la notizia delle cose seguite ai suoi tempi, dopo aver dato un ristretto delle convenzioni surriferite*, cosi conchiude (Gio. Villani) I genovesi n' ebbono grand'onore, e rimasero in gran potenza e felice stato, più che comune o signoria del mondo ridottati in mare. La stessa sentenza ripetè in lingua latina Sant'Antonino, dotto scrittore e arcivescovo di Firenze, n

1300.— Or gli avvenimenti ci chiamano in Oriente. I primi anni del secolo M\ . movevano a danno di quell1 impero. Andronico dopo le paci gloriose con Pisa e Venezia mostrò diffidenza con le colonie genovesi, e queste con lui. Dissipolla il comune pericolo, perlocchè egli avendo chiamata una milizia mercenaria, questa s'era ribellata e

  • Genova intanto laceravasi per le civili discordie e passava a mutare il governo or in un modo, or in un altro finché Arrigo vii. doveva egli esser nominato capo supremo della Repubblica, primo esempio di forestiera dominazione, la quale lasciò in patria quei mali semi per i quali guelfi e ghibellini si dispularono sanguinosamente il primato della lor patria, e furono costretti gli ultimi a mendicare fanti e armi alle straniere nazioni

    per incrudelire contro la medesima. Questo si fu il frutto del tedesco dominio, questo il frutto dell'ambizione dei più, dei nobili. . .

    Bonifazio wn. aveva donato ingiustamente i regni di Sardegna e di Corsica a Jacopo n. re il" Aragona. Alfonso figlio di lui dopo lungo intervallo pensò ad avere con le armi quello che il Papa aveva concesso in iscritto contro anche il volere degli Angioini. In questo Genova si metteva sotto la protezione del re Roberto di Napoli, il quale per mezzo del suo luogotenente indusse il Comun genovese a dichiarare la guerra al re d' Aragona. menlrechè Raimondo di Cardona scorreva il mare Ligustico con quaranta galee saccheggiando que' luoghi che undici anni prima aveva difesi. Salagro Di-Negro con sole dieci galee passa in Sardegna, libera Alghero oppressa dai catalani, città fondata dai D'Oria. e quindi avvisato che uscivano di Maiorica quattro grosse navi che portavano in Sardegna il fiore della milizia aragonese; scopertele appena da lungi, le insegue, tanto che per alleggerire la flotta ordina di affondare tutto il carico soverchio e perfino le necessario panatiche. Fatto leggero, corre, e raggiunge il nemico, il quale dopo generosa resistenza è costretto a darsi per vinto. Gli aragonesi sperando di fare un lungo soggiorno nell" isola, avean con seco menate le mogli, che bellissime donne erano. Salagro non volle vederle ed intento a curare i feriti e a prodigare soccorsi agli afflitti prigioni, aggiunge al merito della vittoria quello dell'umanità. Quando gli portano innanzi un uomo carico di catene ; costui vinto da incontentabile gelosia aveva poc: anzi immerso uno stilo nel sen di sua moglie. Salagro perché sì crudele gli disse: rispose: la vita della consorte essergli stata men cara, che l'onore di lei. Salagro allora : ho usato pietà agli uomini armati, ho trattato i feriti come fratelli; ma tu che sospettasti I' onestà dei genovesi, uccisor di tua donna, morrai! L'esempio fu dato, e Salagro fece ritorno in patria con le predale navi. Indi ripartito, prende altre navi in diversi conflitti finché vittorioso da fondo nel porto di Cagliari.

    Benedetto Xh. i re di Francia, di Napoli e di Sicilia s'interposero a fermare la pace, che ottennesi non difficilmente. Le condizioni

    Fnrooo queste : si liberassero i detenuti ; i genovesi dimoranti nelle isole si governassero con le leggi della Repubblica; il re d'Aragona possedesse giustamente tulio ciò che aveva acquistato in Sardegna, rìniiuziassc a qualunque pretensione sopra la Corsica. Questa pace era slata conchiusa non senza occulte mene del re Roberto, il quale credeva che qualora i genovesi decadessero dalP antico splendore si sarebbero dimostrati più mili inverso d'esso che li proteggeva.... In patria le cose andavano di male in peggio, quando per opera dei Salvaghi il popolo conobbe l'errore di essere assoggettato alla dominasene straniera. Tcnevasi un parlamento il quale dichiarò spirata la signoria di Roberto, e costituì un governo nazionale pieno di antiche rimembranze. Raffaele D'Oria e Galeotto Spioola furono acclamali i due Capitani del popolo. Costoro assestate l'interne faccende si misero in pronto per sostenere validamente la guerra con Napoli. Ma Roberto percosso dalla perdita del duca di Calabria suo figlio, oppure lo adescasse la Sicilia per esser morto il re Federigo, non fece alcun movimento. Non si leggono notabili avvenimenti fino al 1339 epoca in cui fu eletto il primo Doge di Genova che fu Simonino. Borcanegra nipote del primo capitano del popolo. Un regolare parlamento approvò i seguenti capitoli: abbia il Doge autorità principesca a vita: un consiglio di quindici uomini tatti popolani e ghibellini: vi siano due podestà forestieri, uno pel criminale e l'altro pel civile e pe?delitti di stato: bando a tulli i nobili guelfi, e ni due ultimi Capitani e loro congiunti abbcnchè ghibellini. Il Doge cominciò a usar della forza per sedare i partiti, e col bando, e colla forza pose termine ai dissidi!. La serie dei Dogi a vita presenta da per sé le ambizioni dei molti, le gare di altri, l'avidità di tutti, ma presenta altresì quella forza vitale della gloriosa e vincitrice Repubblica che poi si estinse colla mutazione dei Dogi biennali. Alla carica di Doge a vita salirono di ogni grado e condizione; a quella di Doge biennale non si ammisero che i nobili e da quel momento P aristocrazia che serpeggiava dapprima, finì coll'invadere tulle te parti le più vitali della Repubblica. Torniamo alla storia; e prima diremo che in

    questo tempo, 1341 si nota dagli storici la seconda scoperta delle Canarie e d' altre isole dell'Oceano nuovamente ritrovale da Nicolo da Rccco; il quale fu uno de1 capi di quella spedizione, e che comunque ignoto, va posto fra i grandi navigatori del secolo \v. Il Pad. Spotorno credette di trovare non dubbia memoria di costui in una lapida nella nostra chiesa del Carmine; se Nicolo da Recco fosse uno solo direi che si, ma i Nicolosus de Recho potean esser più d'uno, e perciò dubito forte di quella sua non bastantemente fondata asserzione.

    LT illustre storico eh" io seguo in questo cenno, fu laccialo di ligio alla sua parte, pure non può a meno di registrare la valoria di Egidio Roccanegra il quale spedito dal fratello in ajuto di Alfonso xi. re di Castiglia, ch'avea palila una sconfina in una baltaglia navale da'mori di Granata, e che messi in fuga i nemici e predali loro dodici legni, decise la battaglia in favore di Alfonso, che vi pericolò della vita. È fama che le spoglie dei vinti ascendessero a tanto da farne calar Poro in Ispagna.

    I coloni di Gaffa assediati dal gran Kan di Kapleiak si difendono valorosamente e con una meditata sortita sbaragliano il campo nemico, e costringono il superbo gran Kan a mandare un1 ambasceria a Genova a supplicare di pace. Altro convegno di pace si conchiuse con Odoardo m. d'Inghilterra il quale adontato co' genovesi per le galee che avevano assoldate al re di Francia suo nimico, vendicossi con far predare sei navi genovesi che navigavano in Fiandra con grosso carico. E a dire che in que' tempi tanta era P ardenza della pugna, tanto il desiderio di non posare giammai, che i genovesi quando per proprie circostanze erano obbligati loro malgrado di starsi in porto, cercavano di andare a soldo di qualche principe purcli' ei pugnassero. Così avvenne allorquando andaron ad ingrossare la flotia del re di Francia per sostenere la guerra che il re d'Inghilterra gli aveva mosso. Ora Odoardo avvisato dai deputati genovesi dell' ingiusla preda, offrì diecimila lire siedine in compenso, e quindi fermò un traltato di pace per mezzo di Niccolino Fieschi, uomo illustre, dice il Serra, non solo per la sua nascita, ma per le commissioni che Odoardo in. amantissimo dei genovesi gli affidò in varii tempi. Intanto i genovesi collegati coi veneziani, coi greci e romani, vanno all'assedio di Salirne, da essi perduta non si sa quando, e l'oppugnano non senza la perdita di valorosi concittadini. 1 turchi comandati dal fiero Morbassan si ritirano, ed il Papa concede Sniirne in governo a' cavalieri di Rodi. Simun da Quarto libera il mar Nero da dodici navi del Zelebì di Sinope, che guatavano prede e se ne impadronivano.

    Armata una flotta per combattere i ribelli che scacciati da Oneglia e dalla costa di ponente andarono agli stipendi del re Filippo di Francia; il genovese Comune la disegnò alla liberazione di Scio e delle Focee, colonie perdute nella guerra civile. Simone Vignoso eletto ad ammiraglio di quella, prima di usar rappresaglie doveva introdurre amorevoli pratiche coi greci; prese terra a Caristo porto dell' Eubea per attingervi acqua, dove incontrò per la stessa cagione vcntisei galee parte de' veneziani, e parte de' cavalieri di Rodi, i quali secondo M' ebbe 1" avviso disegnavano d'impadronirsi di Scio sotto il pretesto che i turchi slavano per assalirlo. Allora egli subitamente sbrigate le ciurme s'avvia segretamente al canale, e fa intendere ai magistrati il soprastante pericolo, esortandoli a mettersi sotto la sua protezione, finché la corte imperiale certificala di ogni cosa, riconoscesse i suoi veri amici. Bruscamente risposero, e Vignoso immantinente operò, ch'egli li chiuse in guisa che veruna persona non poteva entrare né uscir di città. Alfine cedette alla forza e si sottomise alle condizioni seguenti: i pubblici dazii, l'elezio le de' magistrati, il governo civile spettassero alla Repubblica, l'alto dominio all'Imperio. Da quest' impresa Vignoso passò alla seconda e giunto alle Focee sbaragliato uno stuolo di turchi fu ricevuto qual liberatore. E da notare un tratto di giustizia di questo genovese ammiraglio. Le sue truppe calale a terra si misero a rapinare. Egli promulgò un editto, che sarebbe irremissibilmente frustato chiunque rapisse un sol grappolo d' uva. Il proprio figliuolo sedotto dalla bellezza de'grappoli, uno ne colse >• tenendolo in mano, gustandolo sen venne in mezzo a'soldati. La commessa trasgressione al decreto fu nota ; il

    padre ordinò che il reo si sottomettesse al castigo: a dissuaderlo non valsero le precidei genovesi e dei greci. Il giovinetto fu legato e condotto ad omeri nudi per la citta con dietro i flagellanti, e un araldo precedevate gridando, cosi si castigano i rubalori di un popolo amico! Da quesla conquista originò la compagnia della la Maona che fu quella che fece le spese per ciò e poi n'ebbe in fitto i dazii per ventinove anni.

    Cantacuzeno usurpatore del trono de'greci si metle in capo di svellere tutte le colonie genovesi; con astuto editlo riesce ad arruolar genie, a far danaro e ad allcslirc una flolta per divenire ali' intento. I navigli allestiti in Costaatinopoli si congiungono a quelli usciti dai porti della Propontide. Una galea genovese che veniva a Pera è presa e non si lascia in coverta animi viva. Il primo disegno era di schianlar Pera, onde a quella colonia si avviano; intanto Pera metle va in mare nove galee con altreltanti legni da carico monlati ad uso di guerra. Chi comandasse la piccola flolliglia non venne a noi, forse perché nalo e cresciuto nel popolo. Consiglialo a non dilungarsi dal castello di Calata, egli coraggiosamente si spicca incontro a forze ire .volte almeno superiori delle suo. Si mellc in aggualo sulla punta del golfo, e sul fare del giorno essendo il ciel nuvoloso, vede spuntare il greco stuolo dal promontorio orientale di Costantinopoli, ove sono due lorri e una chiesa di S. Domenico. Venivano le navi ad una ad una formando una lunga catena, e quando s'avvidero d'esser incontro al nemico si confusero: allora l'attento ammiraglio vi da dentro e le investe Chi fugge, chi s'annega, e chi s'afferra agli scogli, onde facilmente le navi caddono in potere dei genovesi.

    Accorrono le genti sulle torri e sulle mura, di Costantinopoli ed esterrefatte comtemplano la distruzione della propria armala. Questo fortunale avvenimento bastò per togliere l'assedio di Pera, ivi lenuio dalla gente imperiale la quale si mise in fuga a tulio andare. II Greco Imperatore chinò pure quantunque superbo la fronte, accettando dalla Repubblica quelle condizioni di pace ch'essa volle imporgli.

    Venne la peste a porre in assetto le cose, dico in assetto per dire che arrestò ogni umana discordia, per seminare la vendetta del ciclo. Cominciò ali' imperio Cinese, percorse l'Asia centrale, e giunse alla Tana, allo stretto di Gaffa e poi serpeggiando per le coste del mar Nero e del Mediterraneo ruppe fieramente in Italia, nelle isole, e flagellò la Francia, la Spagna e le contrade settentrionali di Europa. Erano ancor fresche le piaghe del morbo flagellatore, quando l'Imperadore de'tartari Tchanibek colta occasion favorevole che gli irrivi di molte merci orientali tirassero alla Tana più genovesi, gli assalse, a tutti togliendo la roba e una parte di essi mettendo alle catene, e l'altra spieiatamente a tradimento uccidendo. I caffesi si armarono e corsero per la palude meolida, bloccando le bocche del I u ii. a talché i barbari ripentiti accettarono dai genovesi quest'accordo: che fuori di un geaovese niun altro agente italiano né greco potesse dimorare alla Tana, e tutte le merci che giungessero dalle Indie alla Tana, per conto di qual si fosse mercante in ponente, dovessero approdare in Gaffa: e perché si osservasse un accordo di tanta importanza, i genovesi bandirono la navigazione della palude nicotida, profferendo a" veneziani e pisani, oltre le accoglienze dovute agli amici, una piena franchigia dalle gabelle. Pisa accettò, Venezia non volle, ed anzi ruppe Vaccordo intimando a" suoi naviganti di passare animosamente lo stretto. Questi avvenimenti partorirono la quarta guerra veneziana.

    I veneziani vinsero a Negroponte e portarono i prigioni e le prede a Candia, i primi chiusero nelle carceri, le seconde accomodarono ne' fondachi, e quindi si allargarono. Due galee scampate dalla sconfìtta portano subito avviso dell' accaduto alla colonia di Pera. In un batter d'occhio quanti possono indossai) 1' armi, si mettono in mare sopra sette galee e v'aggiungono le fuggitive ed altri legni. Senza posa navigano a Candia ed improvvisamente assalgono la guarnigione; rtsni sforzo degli oppugnati è inutile, è mestieri ceder la piazza e lasciare libero il varco al vincitore. I genovesi vanno dritti alle prigioni, sciolgono i compagni dalle catene, si ripigliano le merci ne' fondachi, e proprie e quelle nimiche, e tornano al porto a ripigliarsi i perduti navigli, e quindi ricchi di spoglie nemiche riguadagnano Pera, quan

    tunque gli abitatori smarriti gli avessero pregati di rimanere in Candia. ina alla colonia sguarnita di gente dovevano giustamente redire. Inviarono a Genova le mercanzie racquistate, trofei graditissimi del loro coraggio. Poc'anzi i genovesi erano stati sconfitti a Caristo, Sinione Tignoso venuto a Scio podestà, si arma e l'oppugna. Caristo con ventitre navi cariche di que' marmi che gli antichi nomavano caristèi si arrende, ed il podestà genovese fa appender le chiavi di quella terra alle porte di Scio.

    Per queste vittorie s'accrebbe il desiderio di sangue. Genova per conservare, Venezia per distruggere. Il Comun genovese retto allora dal nuovo Doge Giovanni Valente si mise in pace colle fazioni, e die la voce di guerra. Settanta galee si armarono. Venezia da sua parte si collegò con Pietro iv. successore di Alfonso re d' Aragona, e Genova richiese di lega il Cantacuzeno. I principi italiani vedevano volentieri le due formidabili repubbliche lacerarsi da per loro a brani a brani, ed un solo italiano, un solo parlò di pace. Fu questi il Petrarca il quale indirizzò ad Andrea Dandolo doge di Venezia quella lettera tutta piena di onoratissimi sentimenti e di libertà italiana, nella quale dopo avere dimostrata la superiorità e potenza delle due Repubbliche rivali, la loro felicissima posizione, l'inutilità della vittoria, perché tragge con seco una vinta nazione italiana, il piacere di dimenticare le ingiurie e perdonare al nimico, soggiunge pieno di nobilissimo concitamento.— £ pure se ciò che mi si dice è vero, per meglio saziare il rostro furore, vi siete collegati col re di dragona, e i gè- • noveii han ricercata l'amistà del greco usur patere, tal che italiani implorano Vojutn de'barbari per offendere altri italiani. Madre infelice! che pa di te, se i tuoi figliuoli medesimi prezzolano mani straniere per lacerarti il seno. J\on altra è la cagione del tuo lagrimevole stato, l'aver posposta la benevolenza de' nazionali alla perfidia de' forestieri. Noi insensati! che andiamo cercando da anime renali ciò che potremmo ricevere da' nostri fratelli. Benignamente ci steccò la natura di *-llpi e di mari. Avarizia, invidia, superbia han rotto lo steccato. Cimbri, Unni, Tedeschi, Francesi.

    Spagnuoli lo inondarono. Che fia di noi, che sarà dell'Italia, se Venezia e Genova argine non fanno al nemico torrente? Prostrato a pie delle due repubbliche (!!), pieno gli occhi di lagrime e d'amarezza il cuore,

    10 grido loro, deponete l'armi civili, datevi

    11 bacio della pace, unite gli animi vostri e le bandiere. Così I' Oceano e l'Egèo vi sieno favorevoli, giungano le vostre navi prosperamente a Tapobrana, all'isole Fortunate, a Tuie incognita e fino a' due poli. I re e i popoli più lontani vi andranno incontro, i barbari dell'Europa e dell'Asia vi paventeranno, e la nostra Italia sarà a voi debitrice dell' antica sua gloria.

    Un elogio della sua eloquenza e una satira furono le risposte date da Venezia e da Genova. A quale accecamento condussero le due emule rivali, l'ambizione e l'avarizia.

    Cantacuzeno usurpatore, diviene traditore, promessa neutralità al deputato genovese si rivolge alla parte veneziana e si collega con essa. Venezia, Aragona, Costanlinopoli vogliono subbissar Genova e le sue ricche e popolate Colonie. Ma ai conti, ne vennero meno i fatti.

    Una flotta veneta di trentaquattro galee comandata da Piicelo Pisani si unisce con Coslantino Tarcaniota ammiraglio dell' Imperio de'greci. Assediano Pera da mare, da terra ; 1' Imperatore stesso in persona con fanti e cavalli la stringe. I coloni valorosamente si difendono, nel mentre che un avviso ingiunge ali' ammiraglio venelo che smettesse immantinente ogni cosa e corresse ad impadronirsi della flotta nemica che veniva a quella volta da Genova. A' soli greci toccò l'assalto, fu per essi infelicissimo, e felicissimo per gli assediali, poiché reso inutile l'approccio di mare, i genovesi sortirono dalla parte di terra e sbandarono tutto il campo nemico. L' Imperadore fu assai fortunato fuggendo di non essere inseguito. L" armata che poc' anzi accennammo composta di settanta galee navigava nell'Arcipelago; erane ammiraglio Pagano D'Oria. Il Pisani quando da lunge la vide si mise a dar volta e fuggire, riparando a Caristo; e quivi tanta paura lo prese che tirata a terra una sol nave da partire un di per Venezia, die fuoco a tutte le altre. Pagano che gli era alle spalle, ve

    duto l'incendio e lasciatolo dileguare, intese all'assedio, ma quindi chiamato dall'irnperadrice Anna che fuggente da Costanlinopoli col figlio suo.'correva a salvarlo dalle ugne del barbaro Cantacuzeno : Pagano andato a Salonichi dove ella era, dalla pentita donna n' è licenziato e allora indispettito si viene diritto alla Propontide ad aspettare la gran flotta veneziana tanto dalla fama ingrandita. In questo mezzo si ripara al lido di Eraclea città neutrale, due marinari scendono a riva a cercar de'legumi, son presi e ferocemente menati al patibolo. Pagano favella alle ciurme di domandare soddisfazione. Che soddisfazione? andò fra l'irritata moltitudine esclamando Martino Del Moro, uno de' capilani popolari Diroccare le mura dell'infame ciltà, decimarne gli abitanti, questo dee farsi a scontare la barbara uccisione de' nostri fratelli. Dapprima s' oppose Pagano, ma tumultuando le ciurme, convenne andare all'assalto dell'odiata città. Eraclea fu presa, uomini e roba fu portato a Pera , grandi ricchezze vi presero. Del Moro voleva continuar difilato fino alla metropoli dell' impero, ma prudenza il ralenne. e navigarono a Sozopoli trentadue miglia più vicini a Costantinopoli di Eraclea. Sozopoli si diede a discrezione, e dopo l'ammiraglio genovese condusse le galee a svernare a Pera. Avvisato che la flotta nemica s'inoltrava andò a postarsi ali' isola che giace fra Sozopoli e la bocca del Bosforo. a fine d'impedire il congiungimento con quella de'greci. Un vento cosi fresco di poppa impedì al genovese ammiraglio di stornare queir unione, e l'armata nemica potè passare lo stretto lasciandosi addietro la genovese. Adunque uniti insieme i collegati greci, veneziani ed aragonesi vennero ad incontrare il nemico favoriti dal vento che propizio dianzi all'entrata cangiossi subitamente a comodo del ritorno. Pagano non si smarrì, e come scrive un coetaneo si propose di combatt'Te contro il vento, contro il mare, e contro tre armate. Non darò qui i particolari di questa battaglia, che durò fin oltre a mezzanotte. Alla dimane i nemici si erano allontanati, e i genovesi poterono riconoscere di avere tolte ai veneziani quattordici galee, dieci ai catalani, con mille ottocento prigioni, dopo ciò ritornarono a Pera come 1 nemici a Costantinopoli. Dopo che Genova ebbe vinta la lega. mandò nuovi soccorsi al suo ammiraglio, ed intanto strinse amistà con Orca m; suocero del Cantacuzeno. Già 1' armata genovese era per stringer di assedio la parte Orientale di Costantinopoli, già l'imperio bisantino stava per dileguarsi

    10 una provincia genovese, quando il Cantacuzeno offerì tali condizioni di pace che a niuno die l'animo di ricusarle, confermando del pari tempo ai genovesi tutte le convenzioni antiche e nuove.

    Clemente vi. anelava a pacificare le due repubbliche, e s'interpose per questo, ma indarno, e indarno pure suonò la voce del Cantore di Laura che come a V enezia, ora aveva indirizzata una eloquentissima e nobilissima lotterà al Doge di Genova per inchinarlo alla pace. I genovesi fan lega col re d'Ungheria, i veneziani con Carlo iv. imperatore. Le due rivali si affrettano ad armar navi, e a mettere in mare prodi guerrieri. Antonio Grimaldi esce dal porto con sessanta galee, dieci ne perde e giunge fra Portoconte e il golfo d'Alghero ove erano appostati i nemici. Erano trenta galee veneziane, venti aragonesi ed altrettante al soldo de'veneziani.

    11 Grimaldi s'avvede della superiorità del nemico ed ordina di incatenare le navi, quattro sole lasciandone libere per ogni ala. Si viene alle mani, e quando la vittoria è indecisa, fa segno di scatenare undici di quelle legate accennando di girare alle spalle dell' armata nemica. Mentre per questo movimento si rallenta la zuffa egli rivolge le prode verso Genova e vilmente abbandona la pugna, e le restanti galee delle quali trenta si rendono a discrezione, e P altre che possono si danno alla fuga. Dopo questa rotta Genova si pose sotto la prolezione di Giovanni Visconte arcivescovo e signor di Milano. Ai tradimenti succedevano i gioghi forestieri, perché quando i nobili non erano preponderanti, anziché piegare la fronte al popolo, amavano di prostrarla ai signori stranieri.

    Il nuovo signore di Genova volle tentar Venezia di pace, e inutilmente mandò una ambasceria al Senato veneziano, capo della quale era Francesco Petrarca. Nicolo Pisani esci nuovamente dal golfo di Venezia con treotacinque galee e molle navi. Da Genova

    uscirono trenlacinque galee comandate da Pagano D' Oria abilissimo navigatore. Costui non trovando i nemici in alto mare, pensò di richiamarli con un fatto strepitoso nel golfo stesso di Venezia, e colà volteggiando spedì l'antiguardia a Parcnzo. Dare l'assalto, scrive il Serra, al suo porto e impadronirsi dei legni quivi raccolti fu impresa di un giorno; e nella notte seguente f anliguardia ricca di prede, si riunì all'armata. Per questo fatto Venezia impauri e fé con catene serrare il porto temendo che il furibondo nemico non venisse a schiantarla. I veneziani richiamavano per molli messi il loro ammiraglio, il quale andava in cerca dei genovesi, com'essi di lui, e giunto alla costa Occidentale della Morea, entrò nel golfo della Sapienza. Era infausto quel luogo per la memoria di un Dandolo sconfittovi. L'ammiraglio pisano non curò il mal augurio. Quivi schierò in ordinanza le navi, mettcndonsi alla difesa delle due bocche fra le isole e la terra-ferma. Pagano ebbe avviso di ciò, e senza indugio di sorta s' addrizzò subilo alla Sapienza. Tosto eh' egli fu alla bocca Orientale, considerò attentamente l'ordinanza nemica, e quindi schierando le navi, mandò a dire al Pisani come l'attendeva di fuori per ultimare le calamità che lutto il mondu soffriva per la lor guerra. Il Pisani rispose non esser uso a combattere a senno dell' inimico. •» Allora le ciurme genovesi levarono gran grida, vituperando i loro avversarii e risuonando nachere e trombe. Stava la cosa in questi termini quando il nipote dell'ammiraglio D'Oria, e dopo lui un altro capitano (?) si trassero fuori di fila, risoluti a entrare nel golfo con due sole galee. Nicolo vedendoli inoltrare cosi follcmente, fece segnale di non gì'impedire, perché sperava racchiuderli in mezzo e prenderli ambedue a man salva. Nella stessa guisa entrarono tredici galee di genovesi a cui non bastò l'animo di abbandonare i due giovani temerarii. Or come furono tutte quindici dentro, si spinsero con grande ordine, rapidità e ardimento verso terra contro i navili del Morosini; i quali impauriti ovvero sdegnati col loro ammiraglio , opposero piccola difesa , tanto che molti più uomini affogarono gittandosi in mare, che non morirono di ferro. I gè

    novesi fecero segno a' loro compagni della ottenuta vittoria; e nel medesimo tempo si drizzarono contro la bocca del golfo, spingendosi innanzi due legni affuocati per gittarli addosso al Pisani. Ma egli non diede loro tempo, arrendendosi come uomo stravolto e fuori di sé; così diseccarono i suoi freschi allori. Subito i vincitori si volsero contro le navi, che l'altra bocca guardavano, e pieno fu il loro trionfo. Si numerarono fra trucidali e sommersi quattro mila veneziani ; prigioni cinque mila ottocento settanta. M un,i galea, niun legno, neppure un uomo fu salvo. »

    II non saper profittare della vittoria fu sempre una gravissima pecca degli ammiragli genovesi, perché più di una volta ad essi si presentò l'occasione di entrare in Venezia e di dettare a quella bellicosa città a lor talento la legge; cosi pure questa volta si trascurò l'occasione tanto propizia in quanto che era paurosa e temente dopo il fatto di Parenzo. Né pure si curò l'ammiraglio di soccorrere Alghero strettamente assediato dagli aragonesi, i quali, divolgata a disegno la fama che i genovesi erano stati sconfitti, ottennero quella città che da quattro mesi valorosamente si era difesa. Curando più a rinverdire gli allori che non seguire il vittorioso cammino, Pagano ritornò in patria a gustare gli onori che ben gli doveva.

    Venezia sconfitta alla Sapienza, insanguinata internamente per la congiura di Marino Faliero piegò alla pace, procuratale da quel buon doge Giovanni Gradenigo. Cosi Genova consegui per certo tempo ciò che era slalo cagion della guerra.

    Molti fatti d'arme, e molte avventure in patria resero questo secolo memorabile al pari de' precedenti. Cosi senza tenere da presso ad uno ad uno i fatti che lo illustrarono, noi vediamo Filippino D'oria impadronirsi ingiustamente di Tripoli, ed il Senato obbligarlo alla restituzione della preda che montava ad una somma esorbitante tanto era 1' oro e l'argento che vi trovarono. Un padrone di navi Francesco Gattilusio rimetie sul trono di Costantinopoli il legittimo signore Giovanni Paleologo e 1" usurpatore avvilito si rende monaco in un deserto. Il genovese sposa la sorella dell'Imperatore che gli da in dote

    l'isola di Metelino. Genova, cacciato il forestiero signore, rielegge a doge Simon Boccanegra. Egli assicuratosi de'nemici di fuora, investe la riviera occidentale nido di malconcontenti e faziosi. Manda in Corsica il fratello Giovanni a sedare i tumulti e fa una tregua con Pietro d' Aragona per la guerra della Sardegna. Soccorse i pisani a danno de'fiorentini. Questo gli recò addosso non pochi nemici; a talché nell'occasione che Pietro i. re di Cipro era in Genova a domandare soccorsi contro i mamalucchi di Egitto e i turchi della Cilicia, invitato il re e il doge a pranzo in casa di certo Marlocello gli propinarono il veleno.

    Adorni e Fregosi cominciarono a disputarsi il dogato; Domenico Fregoso (o Campofregoso lai: Campofulgoiius) discaccia Gabriele dal seggio dogale e vi si assicura. Fa pace con tutti, rintuzza la Corsica sollevata , e mediante una squadra ben comandata libera il Mediterraneo da numerosi pirati che avean lor nido in Malta. Stringe favorevoli accordi con l'Inghilterra, ed ottiene da questa la restituzione delle ingiuste prede e un* ammenda di due mila marche d'argento. " Ma la prudenza del Doge, (Serra) la vigilanza di Bartolomeo Franzoni e degli altri anziani, il valore di un Morellio estirpator de'pirali, e la destrezza di Marco Gemile ambasciatore in Inghilterra . non meritarono tanto di lode, quanto la munificenza di Francesco Vivaldi, gentiluomo escluso dalle principali dignità della patria ingrata, e sempre più appassionato di lei. Costui veggendola aggravata da'debili dell'ultima guerra, accumulati agli antichi, ed essendo uno dei creditori per lo valsente di novemila genuine, dispose che i fruiti corrispondenli si dovessero per l'innanzi impiegare alla compra di credili altrui, finché il capilale da ciò risultante facesse insieme col capitale originario una somma eguale al nuovo debito pubblico, e l'una metà moltipllcandosi ancora servisse ad estinguerlo, l'altra a far nuove spese senza necessità di rinnovarlo. Cotale operazione fu denominata moltiplico di luoghi, la prima di simile specie, il modello delle altre innumerevoli che le son succedute, e la base delle moderne speculazioni, le quali col nome d'aritmetica politica e d'interessi compost! insegnano alle nazioni sfondale d'oggidì l'unica ria di sdebitarsi senz' infamia. I / annalista genovese ( Stella ) saviamente notò che il Vivaldì non era moribondo né celibe quando fece quel dono alla Repubblica ; sopravisse molti anni più felice di prima, e lasciò sci figliuoli ricchi, stimali e congiunti a virtuose matrone, -n

    Erano neh" isola di Cipro moltissimi trafficatiti genovesi e molti veneziani. Per una contesa di preferenza si scannano e s'impiccano quanti genovesi vi sono; sol uno scampa ferito dall'immane macello. Viene in Genova e si presenta al Doge e gli racconta l'orribile successo. A pieni voti si delibera una straordinaria imposizione di cento quatlroniila lire, e non bastando si forma una compagnia di cittadini presti ad arrischiare le proprie sostanze contro l'incerti dell1 impresa. Quarantacinque galee e cento macchine da guerra son preste ali' oppugnazione dell' isola di Cipro. Pier Fregoso fratello del Doge è nominato ammiraglio; la vanguardia si commette a Damiano Cananeo. Questi partì, e senza ostacoli fu a Salines colà dove la costa meridionale volge a ponente, ed uno de'luoghi ove più facilmente s'approda e uno degli 850 casali che popolano quell'isola. Damiano s'interna nell'isola e con astuto accorgimento or quella terra prolegge, ed or quell'altra danneggia: sei mesi durò in queste scorrerie, perché F ammiraglio in capo era stato trattenuto in Genova per la difficoltà delle leve. Alfine giunse nei dintorni. Armata più bella non s'era iti veduta dopo le guerre della Repubblica romana; componeasi di treni'otto galee, con quindici mila combattenti e navi da carico io proporzione. Le navi quasi circondano l'isola, mettono in terra fanti e cavalli, e attraversando la prima pianura uniti alla vanguardia traversano quindi la catena de'monti, discendono bcllamenle spiegandosi nella pianura di DIezzarea, in mezzo della quale è Nicosia. I nemici dapprima siettero sulle difese, quindi indietreggiarono continuo, in fine fuggirono a ricoverarsi nella metropoli. Questa apre le porte, chiede mercé, ed in tal guisa va salva dal sacco. - Disarmate che furono le soldatesche cipriane, e rcndute per patto le fortezze di Baffo, di Cerines, di Famagosta, I' ammiraglio Fregoso ergendo

    tribunale sulla piazza medesima che grondò di sangue genovese, condannò alla morte tre ministri di corte; alla prigionia in Famagosla sessanta baroni compiici dell' uccisione, e alla torre di Genova Jacopo Lusignano zio del re con due bambini del principe d'Antiochia, il quale morì miseramente nella sua fuga. »

    Degli zii che consigliarono il re, fratricidi e amministratori del regno, l'uno morì fuggendo e l'altro fu fatto prigione siccome s'è detto, e dopo che Pietro Fregoso tenne il supremo comando dell'isola per undici mesi, ripose in trono Pietro li. ai palli che ramentano gli annali. Grandi ricchezze possedeva quell'isola ove i poeti favoleggiarono che ivi nascesse la Dea d'amore; ed i genovesi oltre ali' annuo tributo di quaranta mila fiorini d'oro e due milioni e dodici mila qualtrocento alla Compagnia, la Maona, in dodici anni, e più novanta mila per le spese del ritorno, n'ebbero immunità e privilegi a favore del loro commercio. Il principe Jacopo successore immcdialo, Carlona sua moglie ed i figliuoli del principe d' A minchia si cosliluirono ostaggi e prigioni a beneplacito del Comun genovese. 11 sangue dei genovesi sparso barbaramente costò caro ai cipriotli.

    Pier Fregoso ebbe in dono un bel palagio a Fassolo, ed ottanta mila fiorini d'oro per adornarlo, e piena franchigia dalle gabelle. II Callaneo invece ebbe a pagare alT erario il donativo ricevuto da Jacopo conlro le leggi dello si ai ulo. e sentire a lodare l'emulo Fregoso come uomo che ai proprii interessi aveva anteposto il ben della patria.

    La conquista di Cipro dispiacque ai veneziani. Il Paleologo era disgustato coi genovesi; ed i veneziani lo indussero a permettere ch'essi guardassero l'isola di Tcncdo. Questa concessione partorì la quinta guerra veneziana. In questo tempo ad instanza del soldano il Paleologo permise che il figlio di lui maggiore Andronico fosse privato barbaramente degli occhi per sospetto di ribellione destato dal fiero Amurate, e rinchiuso nella torre di Anema presso ali" imperiale palagio. I galatini n' ebbero pietà, e guadagnati i custodi il liberarono e l'ajutarono di medicine che riebbe un occhio. Andronico potentemente ajutato dai loro liberatori assale Costantinopoli e fattosene signore fa rinchiuder nella medesima torre il padre ed il secondo fratello Emanucle dichiarato poc' anzi successor nelP imperio. Allora il riconoscente Andronico dona ai genovesi l'isola disputata di Tenedo. Quest' isola siccome di tutta importanza essendo la più vicina all'ingresso occidentale dell'Ellesponto fu, come dissi, il pomo della discordia. Possono ne' suoi due porti i legni attendere un vento di poppa favorevole al passaggio, e starvi in agguato. Ha un castello fortissimo e gira presso che tutta per lo spazio di quaranta miglia. I galatini vengono a quest' isola e mostrano al castellano il rescritto ; quegli risponde che I* imperadore Giovanni gli aveva ordinato di darla ;i" veneziani, e non presentandosi, al turco, I galaliti! non essendo pronti a un assedio si ritirano e mandano ad informar dell' occorso la Signoria. In questo mentre alcune galee veneziane ritornano dal mar Nero prendono porto in quelP isola e persuadono il castellano di ceder la piazza. Per questo espediente i veneziani ebbero Tenedo in mano. Andronico irritato per ciò, induce Aronne di Strupa capitan genovese ali' impresa di Tenedo; egli vi va in persona, ma i collegati sono costretti a lasciare quell'isola mal conci e perdenti.

    Questa notizia fé rombo in patria. I mercatanti andarono al Doge esponendo, che se i veneziani tenevano quell'isola ninno potrà passar !" Ellesponto. N imi legno mercantile potrà senza scorta avviarsi agli emporii di Pera e di Gaffa. Cadere in balìa de' nemici per questo la navigazione del mar Nero e il commercio dell' Asia, vita e alimento della Repubblica. Invano essersi sparso tanto sangue dai padri nostri, perché colà a tutte superiore sventolasse la genovese bandiera, se quel punto importante ora non si ripigliasse e non si cacciassero dall' isola gì' ingordi veneziani. Queste cose decisero il Doge a proporre al consiglio di romper la pace coi veneziani. Il partito fu vinto e la guerra intimala. Venezia con arte lusingava, e intanto andava in cerca di collegati e non tutti trovava favorevoli, anzi soffriva umiliazioni e ripulse; in fine fece lega col re di Cipro e col signor di Milano e col soldano de' Turchi , il quale però prestò più nome che forze. Genova si uni con Marcovaldo patriarca di

    Aquileja, e col signore ili Padova Francesco da Carrara tutti e due confinanti con Venezia. A quest" ultimo si accostò Lodovico re d'Ungheria e di Polonia, il quale gli promise l'autorità delle sue ambasciate e la forza delle armi. Bandita la guerra, primo Vettore Pisani venne con quattordici galee nel Mediterraneo ; a Capo d'Anzo in piaggia romana I" incontrò Luigi Fieschi capitano di dieci galee. Si venne alle mani, una pioggia improvvisa a secchie cadendo irrigidi le funi degli archi e delle balestre, a talché fu d'uopo venire all'arma bianca. Il numero vinse; la capitana fu presa coli'ammiraglio, tre altre fncorsero la stessa disgrazia, e le restanti fuggirono II re di Cipro impaziente di levarsi dalla dipendenza genovese, assediò insieme co' veneziani Famagosta, che i genovesi avevano dichiarata di lor proprietà; ma quindi avendo trovata benissimo difesa quella piazza e abbandonato da suoi per mancanza di paghe si levò dall" impresa.

    In questi tempi le fazioni civili non istetlero quiete che suscitarono guerre e tumulti nel genovesaio: Albenga, Caslelfranco e Noli ne furono il teatro. Il Doge Nicolo Guarco persuase che a togliere le cittadine discordie bisognava dividere il parlamento in due consigli composti indistintamente di ghibellini e guelfi, di nobili e popolari: l'uno chiamassesi il grande consiglio, o consiglio maggiore, e l'altro minore.il primo fosse composto di trecento venti cittadini, di quaranta ali' incirca il secondo: questo ordinato a ricevere di prima mano le proposizioni del Doge e degli anziani, quello a dar loro forza di legge. Quando s' ebbe provvisto ali' interno ordinamento si spalmarono ventiline galee e sei gran cocche. Luciano D'Oria n'ebbe il comando, e corse il mare sempre con vantaggio (incile rimase trafitto nella celebre giornata di Pola. la cui autentica descrizione si ha per una lettera scritta a Francesco da Carrara dal campo genovese di Zara addi 9 di maggio del 1379. Ventiquattro nobili veneli rimasero prigionieri con circa altri duemila soldati, e quindici galee con tre navi cariche di scimila mine di grano caddero nelle mani dei vincitori.

    Pera e le colonie della Crimea a questo tempo andarono incontro a diversi perìcoli ; la prima per le mire vendicative di Giovanni Paleologo puf" anzi scampato dalla prigione e nuovamente signore del greco impero, e le seconde per la guerra coi russi suscitata da Mainai khan del Kapteiak.

    In questo frattempo Pietro D' Oria era statò eletto ammiraglio supremo delle forze navali che navigavano verso l'Adriatico. Era una voce soltanto andiamo a Venezia, a Tenezia! Egli meditò alcuni di sull'impresa grande che la patria a lui affidava, e facendo la rassegna delle sue forze numerò settantacinque galee bene armate, e centoquattordici legni da seguito fra arsili e gareussi. L'ammiraglio quindi tiene'consiglio e dichiara che la pugna vuoisi cominciare da Chioggia, ove il Bachigliene e un canai della Brenta comunicavano col padovano collegato ali' impresa, dimostrando eziandio come un assalto al porto di Venezia poteva riuscire pericoloso e incerto. Si applaudisce al disegno, e Pietro espone per lettera queste medesime cose al Padovano signore, invitandolo alla riunione in vicinanza di Chioggia. Così la squadra padovana si unisce alla genovese dopo cinque giorni che n' ebbe l'avviso. Venezia (remante si era cinta da tutte le parti di valevoli presidii, e non avea tralasciato di ritentare l'animo de'collegati con Genova perché l'abbandonassero , ma nuove ripulse n' ebbe a rincontro.

    Già il giorno dell'assalto è stabilito. Pietro D1 Oria e Francesco da Carrara dopo avere esaminato da una vedetta di Chioggia piccola le difese dei veneziani vanno il primo a disporre le navi, il secondo in Padova a sollecitare nuovi ajuti di gente e di vettovaglie. «Ciò accadde il dì 11 d'agosto (1379). La notte seguente dodici ganzaruoli (Serra) con le genti d'arme di Padova varcarono, come al passaggio del Bachigliene era seguito, dall'uno de1 porti all'altro. Onde la cocca ed il bastione del porto esteriore si trovarono in fianco le fortificazioni del lido, a tergo i ganzameli di Padova, e in fronte tutte le galee dei genovesi. All'alba cominciò una scarica generale contro i ripari dei veneziani; costoro resistettero virilmente fino a mezzodì, quindi si ritirarono dopo abbruciala la cocca, acciò i nemici non ne traesKto utile. Levatala con gli argani fuor di

    acqua, gli assalitori s' inoltrarono con le galee più sottili al ponte, e gli assediati fan testa al primo pie di quello. Ma non potendo reggere ali' impetuoso valore dei genovesi, abbandonata la porta delle Saline, si ristringono alla metà del ponte, e ricevuto da Malatnocco un soccorso, non danno più un passo addietro. La notte pon line all'assalto. In vece di ricominciarlo al dimane, Pietro D' Oria il differisce al dì sedici. Potrà allora valersi di tutti i suoi legni, di tutte le forze di Padova. L'ordine ch'egli terrà nell'assalto,

    10 fa sapere per tempo al carrarese. Comandi egli da terra-ferma ciò che gli pare più espediente; alla saviezza de' suoi provvedimenti s' appoggia la felicità dell' impresa. Come prima Francesco ebbe l'avviso, fece chiamare a Castelcarro ov'ei si trovava i suoi capitani; e loro ingiunse di partirsi in tre battaglie, la prima di duemila uomini d'arme sotto le insegne di Gherardo da Monte loro principal comandante, la seconda di duemila cinquecento guidata da Arcoano Buzzaccherini con la bandiera della lega, e la terza composta di tremila fanti forestieri condotti da Cervisone di Parma. Ognuna s" imbarchi sopra i ganzaruoli lor destinali: gli uomini d'arme sieno senza cavalli, i fanti senza bagagli; il punto di riunione sia il lido di Chioggia piccola. I genovesi erano pure divisi in tre schiere. Spunta appena il giorno prescritto, e con la prima cominciano a urtare la metà del ponte, l'altra s'appressa al lido di Chioggia grande per battere di fianco i nemici ivi accampati, e la terza coi legni sottili entra nel canale che conduce a Venezia. Seguita una battaglia così feroce, che seimila persone fra le due parti vi lascian la vita. Bombarde, mangani e balestre traggono di continuo per molte ore ; gli uni assaliscono e gli altri si difendono in modo, che dove ognuno si trovava da principio, là si mantiene. Un marinaio genovese veggendo il vento soffiar più gagliardo, raduna paglia, pegola e canne; empie di quelle una barchctta e spogliatosi nudo si mette a vogar verso il ponte. Come vi è sotto, da fuoco alla paglia, si slancia neir acqua, e con una mano sostiensi a nuoto, con 1' altra afferra

    11 legno infuocato a pie del ponte. L'incendio si dilata, il fuoco e la damma si levano in alto, i difensori sbigottiti friggono alla porta Mariana. I genovesi e i padovani raddoppiano l'impeto; la guardia del bastione l'abbandona; l'ultimo pie del ponte e la porta stessa son prese; le navi, la pia/za e il pubblico palagio si difendono ancor per poco. Il podestà Emo rimasto con soli cinquecento soldati, dopo generosa difesa s' arrende. Altri fuggono a Brondolo o nel Ferrarese, altri si rimpiattano ne' fossi. Quelli che tentano di andar per canale a Venezia giunti allo steccato lo trovano chiuso, e i custodi con le chiavi della gran porta scomparsi. Tremila ottocento sono i prigionieri. I vincitori squarciano a gran grida il gonfalone di S. Marco, e innalzano la bandiera di Genova sopra la piazza, quella di Padova sulla porta principale, e d' Ungheria sulla torre. Poiché le donne. i vecchi e i fanciulli secondo un editto dell'ammiraglio han preso asilo nelle chiese, un altro editto concede il sacco delle case. La militare licenza dura tre giorni. Un solotrofeo, giusta una voce comune, vien riservato alla Repubblica, cioè un bel cannone di cuoio col suo carro di legno che infino ad ora mostravasi nclP armeria del palagio ducale. »

    Venezia quand' ebbe udita la presa di Chioggia cadde in una lale confusione e spavento, che gli scrittori Veneti confessano, che se 1' ammiraglio genovese si presentava dinanzi alla città ne' primi istanti di quel turbamento, ella era perduta. E cosi ancor questa volta le due più formidabili ed immortali Repubbliche italiane versavano a laghi quei sangue che sorse poi, per lungo tempo invendicato, a vendicare le offese passate, e ad atterrare le speranze avvenire. Misera Italia!

    I veneziani mandarono a Chioptgia tre deputati, i quali portavano in dono ali' ammiraglio , Luigi Fieschi con altri cinque genovesi eh' avevano prigioni di guerra. Pier Giustiniano l'uno dei deputati entrato che fu nello sconvolto palazzo del podestà dove erano e Pietro D'Oria ed il signore di Padova al vedere le insegne di S. Marco cancellate ritenne a pena le lagrime e fé' forza a sé stesso, poscia rivoltosi al genovese ammiraglio disse un commovente discorso e quindi conchiuse: questo foglio vi mandano il Senato e il popolo Veneto. Scrivetevi sopra

    tutto quanto miete. Tutto si eseguirà prontamente, lalo che la città di Venezia resti libera. Di ogni altra cosa ci rimettiamo al vostro volere, buttandoci nelle vostre braccia implorando misericordia. Che più si voleva ? Infelice Venezia essa si promcttea scampo nella liberalità del vincitore; il vincitore'superbo ed arrogante non volle intrecciare gli allori con atti di generosa pietà. Venezia fortemente commossa, fortemente si cinse fc Dio l'ajntò.

    La costanza de' veneziani, le discordie nate tra i collegati, l'imperizia, ossia un error sommo commesso da Pietro I)'Oria. Chioggia assediata e da terra è da mare obbligarono i genovesi a renderla e con essa loro stessi prigioni. Ben diversamente entrarono in Venezia da quello che lor promise l'inesperto ammiraglio, il quale non portò in patria il marchio della vergogna in fronte, ma cadde in battaglia percosso nel petto da una pietra scagliata da una bombarda. La sua morte, soggiunge il Serra, da prode soldato non contrapesa gli errori commessi da capitano. Nelle diverse battaglie che si sostennero dai genovesi dall'assedio alla resa di Chioggia, valorosamente ed avvedutissimamente si comportò Matteo Maruffo intrepido popolano ed ammiraglio di una squadra navale. Ai 29 di dicembre (1380) giunse in patria Gaspare Spinola portatore di quelle due lastre di marmo che i genovesi presero nella conquista di Trieste e di Pola. In queste è scolpito il Leon di S. Marco con sotto le iscrizioni relative a tal fatto.

    Venezia pertanto ricercò di pace, e si cominciaron le pratiche in Cittadella terra del Trivigiano ove si erano adunali gli ambasciadori; ma non potendo convenire le parli, furono per opera del vescovo di Torcello di nazion savoiarda inviiate a Torino ove Amedeo vi. sopranominato il Verde offerse la sua mediazione e venne accettata. Quel principe espertissimo in guerra era lontano dal seminar zizzanie negli stati vicini collo scopo d'ingradirc se stesso, ed amava anzi di ridurre in pace le belligeranti repubbliche, ond'egli s'adoperò generosamente per questo e riuscì ncll' intento. Questa pace, appellata di Torino, venne fermata a dì 8 di agosto del 1381 ; e qui è indifferente riepilogarne

    le condizioni, e basta sapere che Tenedo tanto acremente disputata, ed orìgine delle guerre passate dovevasi consegnare al conte Amedeo di Savoja per essere guardata da un commissario di lui : e ciò eh' esso conte avrà pronunziato di farne sarà, come sentenza di arbitro, fedelmente eseguito. Così i genovesi non giungevano ad ottener ciò né per guerra né per pace. In questo trattato spiccò laminosamente la destrezza di Amedeo, il quale se non espresse il punto delicato dell"abbandono di Tenedo, con un articolo segreto provvide ali' esecuzione di ciò, sicché divenne il trattato favorevole alle colonie. Il proverbio questa volta fé fallo, che anzi di godere il terzo fra due litiganti la povera Tenedo fu spianata dalle mani stesse de' veneziani sotto P inspezioue di un commissario genovese.

    Mentre che durava la guerra in Chioggia, Megollo Lercari era in corte di Giovanni Comneno imperatore di Trebisonda. Un dì giaocando agli scacchi con un giovine cortigiano :i" ebbe una guanciata. Megollo indarno dimandò riparazione ali' offesa, e punto TÌvamcnte dal desiderio di vendicarsi, venne in Genova, e rivolgendosi a' proprii parenti raccontando quel fatto giurò vendicarsene, e fu dalla famiglia de' Lercari provvisto di due abilissime galee, ed ebbe dal governo munizioni e soldati. Avviatosi così nel mar Nero, io quanti legni di Trebisonda s' imbatteva faceva prigioni, ed agli uomini tagliava il naso e V orecchie, e quindi rimandandoli così mal conci dava alle fiamme i legni nemici. Avvenne un dì che furono presi un vegliardo di gran condizione con tre suoi nipoti in tenera età. Già si era per compiere 1' usato taglio de' membri, quando il vecchio con lacrime inconsolabili si gittò appiedi di Megollo pregandolo a far scempio di sé come volesse, ma perdonasse a'suoi miseri nipoti. Megollo intenerito perdonò per la prima volta ingiungendo a quel vecchio di portare all'Imperatore quel vaso ch'era in disparte, pieo di membra recise, con protestargli che fino a Unto rh" ci seguitasse a negar giustizia. Megollo seguiterebbe ad esser crudele. A quello spettacolo l'Imperadore sacrificò l'amore del cortigiano rimettendone il castigo a volontà dell1, offeso. Megollo allora con le

    (PARTE I.)

    debite cautele entrò nel porto di Trebisonda. L" imperadore v' era con tutta la corte ;i riceverlo, e appreseutandogli quel giovinastro in catene, il domandò se fosse contento. Costui fu tirato in galea più morto che vivo, e baciando il suolo della coverta con donnesco pianto implorava mercé. Palpitavano i suoi congiunti immobili sulla ripa, quando Megollo dandogli d'un pie nel viso gli disse: Che mi domandi tu la vita? Non sai che i genovesi non incrudeliscono contro le femmine? Panne ove vuoi io son soddisfatto. Quest'atto colmò di gioja i parenti di quello, e l'Imperatore intimorito e meravigliato ad un tempo consenti ai genovesi piena franchigia, proprio tribunale, un quartiere separato e permise che sulle porte di quello si dipingesse l'atto generoso. Dopo un anno dalla pace di Torino si fermò quella con Costantinopoll essa pure favorevole al commercio ed alle colonie.

    L'elezione del Doge era sempre un motivo di gravissimi tumulti, perché o si voleva di questa fazione o di quella ; ma il seguitare le interne discordie ci metterebbe in un troppo lungo discorso: lasciando adunque i minimi avvenimenti diremo i soli notabili che succedettero sulla fine del secolo decimoquarlo tanto glorioso per Genova, quanto infelice per Venezia. Vedemmo come Genova abbia sempre prestato scampo e rifugio ai Sommi Pontefici. Urbano vi. assediato da Carlo ni. di Durazzo implora soccorso e dal Doge si manda a liberarlo e viene in Genova dove sceglie per residenza la bella Commenda di S. Giovanni, che serve di reggia e di prigione ad un tempo ai Cardinali che immanemente son trucidati. A questo doloroso fatto succedette l'impresa dell' isola di Cerbi, e poscia quella di Tunisi tentate e condotte a buon fine sotto il dogato di Ah toniotto Adorno.

    Dopo un avvicendare di parti e d' elezione di Dogi, quest'ultimo ritorna per la quarta volta ad esser Doge. Le discordie si aumentano in seno della città e si dilatano per le riviere. Savona implora la prolezione del duca di Orleans fratello del re di Francia. Lerice, IVlonterosso e Portovenere cadono in mano de' guelfi ; i Grimaldi s'impossessano di Monaco. Montaldi e D' Oria corrono

    e

    a far leve d'uomini, i primi in Lombardia, i secondi nella riviera occidentale.

    Antoniotto Adorno anzi che cedere, ricorse al più misero ed ingrato espediente che dire si possa: propose di offerire la Signoria di Genova a Carlo Ti. di Francia, il Consiglio infamemente ne diede l'assenso, e U patria nuovamente soggiacque alla forestiera dominazione non per valor di conquista ma per debolezza di chi la reggeva, e per istoltezza di chi la consigliava. A maggior vergogna accettò la carica di governatore pel re di Francia. Cosi in questo secolo nel quale i genovesi dimostrarono essere la prima poteuza marittima, ed in cui tanto sangue versossi per ragion di commercio, nel quale fecer vedere come da casa loro governassero i destini di tanti popoli di Europa, d'Asia e d'Affrica, per non sapere governare sé stessi in sul morir del presente, chiamarono gli stranieri a dar loro governo e pace. Miserabil trovato! Pace e governo non ebbero.

    1400.— Le prime scene del terzo governatore francese furono crudeli e sanguinose. Costui era il più brusco guerriero del suo reame, Giovanni Lemaingre maresciallo di Bouciquaut, dagli italiani chiamato di Bucicaldo. Soldato di cuore eccedeva in rigori, ma altre sue doti lo rendevano comportabile; sedò per quanto potè le civili discordie più colla forza che con dolci modi, indi ambizioso di comparire prode in mare, quale era stato in terra volle comandare una flotta indirizzata a sedare il ribelle Giano re di Cipri. Colà messo a duro partito quel re, ad instanza di Filiberto di Naillac gran maestro dell'ordine di S. Giovanni di nazione francese scese a trattare di pace. Le condizioni furono favorevoli a Genova con dippiù che Giano dovesse pagare trentamila ducati per le spese dell'armata. Dopo ciò il maresciallo navigò in Soria e vi prese la città di Berito abbandonata dai mussulmani. Volle passare io Egitto dorè quel Soldano avea fatto mettere le mani adosso a' mercanti genovesi, ma respinto dai venti fece vela per Genova, dove non giunse senza avere dovuto sperimentare che altra cosa è il pugnare sull'onda da quella di terra ferma, perché incontrato per via da Zeno fortunato ammiraglio veneziano lo conciò malamente e non iscampò che fug

    gendo. Come Genova accolse i Papi; il Gover natore francese volle accogliere e festeggiare un Antipapa! Benedetto Mi i. nome assunto da Pietro de Luna. Il popolo all'ingresso di questo gridò : Benedictus, Benediciti! qui venil in nomine Domini.' Ma l'augurio non si avverò che una peste fierissima afflisse Genova ed i sobborghi. Bucicaldo ebbe Livorno in mercede da Gabriele Maria Visconti per la protezione che gli accordò; ed egli poi ne fece vendita ai genovesi per ventiseimila ducati.

    Nell' anno 1407 il francese governatore pensò a riordinare lo stato delle impoverite finanze e pubblicossi quel decreto per mezzo del quale si liberarono le rendite del Comune e si liquidarono e sdebitarono i luoghi e le compere di quello, mediante quella riforma della quale parliamo ampiamente a suo luogo. Cotesto Bucicaldo era per vero iatraprendente e smanioso di fare, o bene o male, purch'ei facesse n'andava contento. Ora messosi in capo di marciare verso Roma, a liberarla com'ei diceva, navigava inverso il Tevere, quando gli venne l'avviso che Roma s'era data al re inimico. Invelenito per questo avvenimento, cercò vittime alla vendetta: poiché ritornato in patria dove era venuto Gabriello Maria Visconti a ricercare asilo e sicurezza fu miseramente decapitato in carcere, vittima della più nera perfidia, presente a tanta ferocia il francese Bucicaldo. E mentre trasgrediva solennemente le leggi, operò che dotti legali mettessero in luce riuniti i vecchi e nuovi statuti della città. » !•'. pure tanta è la potenza di un corpo scritto di legislazione, ripiglia il Serra, che le sue infrazioni son transitorie, eterni i suoi benefizi. Gli annali di Genova e le memorie contemporanee non rammentano quest' opera di Bucicaldo ; ma noi ne troviamo la prova nella raccolta più estesa del 1498; ed è uffizio di storico di rendere il suo a ciascuno. ••

    Bucicaldo ghiotto d'impadronirsi di Milano mentre a quella volta si era condotto, Genova alzò il grido di rivolta, ed ajutata dal Marchese di Monferrato riprende le redini del governo. Bucicaldo ricevette questa notizia nel mentre che stringeva lo scettro d'oro corteggiato dai Visconti ed acclamato governatore della Lombardia. Tosto die lo sprone a' cavalli, ma fu costretto a serrarsi nel forte di Gavi ove stette due mesi e quindi ritornalo in Francia in critiche circostanze fatto prigione alla battaglia di Azimourl fini nella torre di Londra lasciando un nome più celebre, che glorioso.

    Il popolo intanto aveva acclamata alla presidenza del governo Teodoro marchese di Monferralo; ma quando i partiti seppero l'allontanamento dei francesi dal forte di Gavi, suscitavano le loro speranze e Tommasu Fregoso odilo che il marchese di Monferrato si era portato in Lombardia, secondalo e spalleggiato da" suoi scese in città armato, e costrinse il vicario a ritirarsi. Di poi mandò noa grida, che dichiarava cessala la presidenza di Teodoro, rimossi i vecchi magistrati, invitato il maggior Consiglio a nuove elezioni. Tommaso ambiva il Dogato, ma rimase illuso; posciacbè saputosi l'avvenuto da Giorgio Adorno, egli pure pretendente al Dogalo, armato e seguitato da numerosi paesani venne in Genova ; e siccome il numero delle sue genti era d'assai maggiore di quello del suo competitore fu anteposto al Fregoso (1413).

    Ora il marchese di Monferrato lenendosi ingiuriato occupò Vado e Savona, e perché si negava la resa del forte dello Sperone tenuto da Jacopo da Passano il quale diceva restituirebbe I" onorato deposito commesso alla sua fede tostochè la Repubblica avesse tra legittimo Capo, l'Adorno allora convocò il parlamento che lo confermò per Doge. Ventiquattromila cinquecento marche d'argento comperarono la rinunzia alle pretensioni del marchese di Monferrato.

    Si compilarono nuove leggi, parte delle quali si presero nell'aulico statuto e parte si fecero; ma i riformatori prudentemenle pensarono di non riferirsi punto a' tempi andati e pubblicarono le presenti come nuove, con statuire ciò che molti legislatori ardito non hanno: l'annullazione cioè delle anteriori costituzioni. «* Furono ricevute queste leggi con maraviglioso consenso. La fama le sparse tosto al di fuori, e si credè per ciascuno eh' esse partorìrebbono una stabile tranquillità. Tanto che papa Giovanni \\n. richiese di potersi ricoverare all'ombra di quelle, lungi dalle sedizioni della plebe romana, e dall'anni ocmiche di Ladislao re di Napoli. Similmente l'imperator di Germania Sigismondo bramò

    di venire a trattenersi in Genova a fine di dar ordine, senza molestia di fazioni, alle cose proprie dell' imperio in Italia. Richiamarono a sé i consigli siffatte dimande, virtualmente comprese nel capitolo delle leghe Ma quantunque onorevoli molto e in generale profittevoli alla Repubblica dubitando non ridestassero i sopiti contrasti, le ricusarono ambedue, i

    L'interno reggimento ordinato, si provvide alla Corsica sempre agitata da' consueti mali, l'inquietudine della moltitudine, e l'ambizione dei potenti. Parve che una nuova istituzione potesse soffocare questi ultimi, e mansuefare le prime; onde si crearono i caporali tirandoli dalle famiglie le più benemerite. Ognun d'essi era eletto a vita per ogni pieve, ed eragli dal Governo commessa l'ispezione politica del suo distretto, corrispondendo immediatamente col governatore dell'isola. Mentre tutte queste cose promettevano un quieto avvenire. Battista Montaldo irrompe furiosamente in città e suscita le fazioni assopite, le quali obbligarono il Doge a scender dal trono, e vi misero in vece sua Barnaba Guano uomo non infetto da parti. Questa elezione fu tanto gradita che l'annalista osservò che i luoghi di S. Giorgio decaduti nel tempo della discordia a 62 lire e */» montarono fino a 90; ma non per questo cessarono le fazioni dal disturbare il governo, e pochi mesi soltanto il nuovo Doge potè sedersi sul trono, che Tommaso Fregoso ne lo cacciò non senza strepito d'armi.

    1." andare passo passo narrando le cose riesce lungo e noioso per chi un sol cenno desidera degli avvenimenti più notabili che si hanno nelle genovesi istorie; ma pur pure in tanto breve discorso non si possono accennare le glorie di un pnpolo qual si fu quello di Genova tanto famoso, riverito e potente. Il governo del nuovo Doge fu da principio intento a promuovere il lusso; a talché in un solenne festino si numerarono setiecento dame cosi nobili come popolari vestile di drappi d' oro e cariche di brillanti ; e gli uomini ornati di porpora parvero ad un poeta astigiano di quel tempo tanti senatori romani ; e le donne tante veneri col cinto gemmato. Balli e feste continue allegravano la ciltà, ed i poveri stessi volevano darsi bel tempo ne*dì Testivi, andando a diporto nelle colline d'intorno ove sedevano a ristorare il corpo con gustosi mangiari. Il Doge volle con queste scene di gaudio cacciar dalle nienti le passate sciagure, e tenerle occupate a non pensare altrimenti. A più ntil consiglio si diede. Presidiò le mura con nuove fabbriche, e slargò la bocca della darsina, volendo con questo fortificarsi laddove eccittava la gioia ed il comun tripudio. Pur pure assalito di fuora, terminò la contesa con offerire al duca di Milano le tèrre di Capriata, di Serravalle e di borgo de' Pomari a fine di aver pace; ma guerra rumpcagli il turbolento Vicenlello d'Istria che aiutato da Alfonso v. re di Aragona scendeva in Corsica a metter sossopra quell'isola. Alfonso vi andava egli stesso, e metteva a duro partito Bonifazio, clic dal tempo che questa nobile terra venne dichiarata colonia, imuu riuscì più fedele. Bonifazio vuota di vettovaglie, assediata da tutte le bande resistette sette mesi, e consentì Umilmente a darsi, se quaranta dì dopo l'andata a Genova di un Sdo deputato, non le venisse soccorso. Alfonso s" acquetò, e richiese venti giovani ostaggi per sicurtà dell'accordo sedotto dall' acquisto di una terra senza spargimento di sangue. Genova si trovava in dure condizioni. spopolata da un morbo epidemico i magistrali rimanevano sospesi, ed i consigli di rado si adunavano, e se talvolta, si scioglievano senza conclusione. Il Deputato si presentò al Doge, e sentito l'imminente pericolo di Bonifazio gli concesse una pubblica udienza, che riuscì non legittima per la mancanza del numero. Piangendo espose il deputato I' infelice situazione della fedele colonia, e il bisogno di un pronto soccorso. Non potevano cosa alcuna risolvere i Consiglieri per difetto del legittimo numero. Magnanima fu la risoluzione del Doge il quale commosso per tanta sciagura non ebbe cuore di licenziare quel deputato senza consolarlo, e rottosi a lui, gli disse: .V i/I Doge, mancava l'autorità dei pubblici consigli, a Tommato fregato non mancherebbe lo spirito de' suoi maggiori. Le suppelletili, gli ori e le gemme ereditate da loro voleva egli spendere in munizioni da guerra; e a «corno degl' infingardi, a dispetto delle pubbliche e privai» sventure la fedele colonia di Bo

    nifazio farebbe soccorsa. I fatti accompagnarono le generose parole; mandò a Lucca tuttoché di buono e prezioso, e fecene trentamila genovine d'oro. Con questo danaro miso in mare sette grosse navi con fresche ciurme scelte dalle riviere ove il morbo non avea fallo stragi. Ebbe il comando supremo di questa flottiglia Giovanni Fregoso l'ultimo de' fratelli del doge e giovine di appena venti anni. Un vento tramontano agevolò la parlenza della squadra che presto fu alla vista di Bonifazio. Gli aragonesi, essendo il porto assai lungo e stretto, ne avevano chiuso la bocca con catene di ferro. e dispostisi in modo con le lor navi da impedire Pentrata. Scoperta l'amica flotta, un isolano di notte si slancia in mare, e nuotando arriva ai legni amici. Informa l'ammiraglio delle disposizioni del nemico, e viene ammonito da lui a che si guardino con gran diligenza le mura della città, e si nascondano dietro agli scogli uomini pronli a recider le lese catene quando investiremo nel porto. L'uom forte con questi consigli in mente, fende i marosi e si torna al patrio lido. Al dimane essendo il mare assai calmo, correndo il dì di Natale, come a rispeltare quel giorno mostrassero gli elementi agli uomini, non fessi giornata; ma succedendo a questo dì buon vento. e propizio. i genovesi si fecero innanzi l'una nave dopo l'altra. La prima guidata da Jacopo Benisia ruppe con impeto grande la pendente catena, e via via lo stesso seguendo entrarono in porto tre navi sulla terza delle quali era il capitano Giovanni Fregoso col fiore della milizia. Alfonso veduto l'evento andargli sinistro si muove in persona a combattere. u. Nel caler della zuffa un marinaio genovese, di nome Andrea e di sopranome Smergo o Magrone, per la grandmarle che aveva a star sott"acqua, cheto cheto si cala in mare con un caschetto di cuoio in capo e un coltello in mano, e così sottacqua filando inosservalo, perviene alla capitana aragonese, presso alla quale sostenendosi con la sinistra a nuoto e adoperando con la destra il coltello, sega le gomene che ne tenevano ferma e immobile la proda : quindi lieto e veloce ritorna al suo legno. Slegata e smossa dalla brezza la nave, comincia a girare sopra di sé; e a tirar seco e confondere quelle che aveva dal lato e indietro. Le ciurme stesse benché coraggiose, veggendo il mirabile effetto di una causa non conosciuta, inerti si stanno e paTentano. Giovandosi il Fregoso del loro disordine, penetra con lieve danno nelle due file, e oltrepassandole approda alla città che aveva bravamente respinti gli assalti nemici: la soccorre di gente, di contante, di munizioni e così adempie le sue promesse. Tanto poterono tre soli legni, secondati dalP arte e dallo spirito di un marinaio ! •»

    Rimanevano in portole tre navi genovesi. lardi essendo venute a soccorso le altre che erano di fuori. Come farà Giovanni a campare dalle urne degli aragonesi. Un altro stratagemma lo salva. esce dal porto e si dilegua. Alfonso allora veduta l'impresa di Booifaao perduta, scioglie l'assedio e fa vela per Napoli. "Mulinande vendette propose al re d'Inghilterra una lega offensiva contro il Duca d'Angriò e contro il Doge di Genova. Ma Enrico T. pieno di benevolenza pei genovesi rigettò qnell' offerta, ed anzi accettò dal Doge un trattato di perpetua amistà.

    La vendita di Livorno ai fiorentini, la patria venduta a Filippo Maria Visconti duca di Milano oscurarono tutte le gloriose e generose azioni di Tommaso Fregoso. Il conte Carmagnola deputato dal Duca prese le redini del governo; e cosi Genova cadeva nuovamente sotto T estera signoria ( 1 $21 ).

    Or seguitando le imprese navali, i genovesi espugnarono Precida , Castellamare , Vico, Sorrento e Massa, in quella spedizione promossa dal Governator milanese contro il re .Alfonso cui per diverse cagioni facea romper la guerra il Duca di Milano. Or vincitori sulla ripa del Sercbio battono i fiorentini e li cacciano dentro terra, ed occupano le castella e le fortezze di Pisa e della Garfagnana. Giovanni Grimaldi sul Po si sostiene gagliardamente contro il nemico doppio di forze ; sbaraglia la flotta, fa prigione In capitana ed i veneziani perdenti si vendicano contro l'infelice Carmagnola.

    Mentre l'Italia superiore tornava in pace, nell'inferiore sorgevano turbolenze e guerre. Morta la Regina di Napoli aveva per testamento instituito erede del regno Renato duca di Bari fratello d' Angiò. Il Papa a questo annunzio ammoni i napolitani a non far no

    vità, essendo, com'egli diceva, quel reame feudo della Chiesa a lui solo s'addiceva farne dono. Alfonso d' Aragona stomacato dalle passate vicende cui gli toccò sostener con quel regno per ragion della prima adozione, se n' era venuto senz' altre parole ali' isola d'Ischia e già l'aveva occupata. Quindi disceso alla foce del Garigliano raccozzato un esercito si metteva all'assedio di Gaeta per poi facilmente ritornar sopra Napoli. I gaetani scrissero al Duca ed al Consiglio di Genova domandando soccorso I genovesi consigliati dal Duca mandarono a Gaeta Francesco Spinola con ottocento fanti de1 quali quattrocento erano balestrieri ; vi portavano quella milizia una gran caracca ed una galeazza. Giunto lo Spinola venne tostamente acclamato governator della città. Gaeta più dura prova non poteva sostenere, assediata da mare e da terra mancava di viveri, e si cibò delle cose più nauseose. purché ferma e costante nel suo proposito si rimanesse. Assalita più vòlte, più volte si difese gagliardamente, e più gagliardo di tutti si dimostrava il genovese Governatore quantunque ferito. Se non giungevano soccorsi, costretti erano o a rendersi a discrezione o a morire di fame. Intanto Alfonso aVeva adunato un esercito formidabile ed una flotta numerosissima. •» Raro, scrive il Serra, o non mai si troverà un' armata navale ove fossero tanti principi e signori di stato. Alfonso, i suoi tre fratelli, il Principe di Tarante, il Duca di Sessa, e grandissimo numero d'altri baroni e cavalieri di Sicilia, d'Aragona e di Catalogna, v 11 Re d'Aragona era montato su la gran nave detta la Magnano,. Questa flotta giunse il di 4 d'agosto fra l'isola Ponza e Terracina, e videro gli aragonesi spuntar da ponente quattordici navi e tre galee genovesi. Questa flottiglia era comandata da Biagio Assereto notajo e valoroso maneggiator d'armi e di navi. Or egli giunto in faccia al nemico disse una militare orazione alle sue ciurme e quindi presenlossi al nimico.

    Il racconto della battaglia si trova nella relazione dell' Ammiraglio indirizzala agli Anziani della Repubblica, ed è del tenore seguente:

    Magnifici e reverendi signori! Innanzi di scrivere altro noi vi supplichiamo che vi piaccia di riconoscere questa singolare

    sanguinosissima battaglia, della quale siamo rimasti vincitori non per le nostre forze ma per la virtù di Dio, avendo la giustizia dalla nostra parte. Il quarto dì di questo mese (4 agosto 1435) di mattina per tempo trovammo sul mare di Terracina l'armata del re d'dragona di navi quattordici scelte fra venti, delle quali navi tei erano grosse, e le altre comuni, co're e baroni de' quali sentirete dippoi, e con uomini scimila per quello che ho da loro saputo. talché la nave più piccola ne aveva da trecento in quattrocento, le mezzane cinquecento in seicento, e la reale ottocento, sulla quale erano il re d'dragona, l'infante Don Pietro, il duca di .Vessa, il principe di Taranto con altri centoventi cavalieri. Avevano oltre a dette navi undici galee e sei barbette. Il vento spirava da Garigliano, sicch'era in loro potere quel giorno d' assalirci. Nói avendo a mente gli ordini vostri di non prender battaglia s'era possibile, ma di dar soccorso a Gaeta, ci sforzammo di tirare al vento e navigammo verso l'isola di Ponza tempre seguitati dagli aragonesi} che in poco d'ora ci ebber raggiunti. La nave del re c'inveiti per la prima nello scarmo di prua, e ti concatenò strettamente con noi. Avevamo dall'altro lato un'altra nave, da poppa un' altra, e un' altra a prua. Non pensate già che i nostri marinari e padroni fuggissero, che anzi si spinsero addosso, e così rimanemmo essi e noi tutti legati insieme. Le galee aragonesi davano gente fresca alle navi loro, e le navi ci traevano bombarde e balestre ove più loro piaceva, perché la ealma era grandissima. Non pertanto, dopo aver combattuto dalle ore dodici fino alle ventidue senza intervallo né riposo.in grazia della giustizia della causa nostra l'Altissimo ne die vittoria. Primamente pigliammo la nave del re, e le altre nostre ne presero undici; una galea loro fu abbruciata, e un'altra sommersa e abbandonata, due si sono levate dalla battaglia e fuggitesi per portarne le nuove. Son rimasti prigioni il re i? dragona, il re di Navarra, il gran maestro di S. Jacopo, il duca di Sessa, il

    principe di Taranto. il viceré di Sicilia, e molti altri baroni, cavalieri e gentiluomini oltre a Meneguccio dell' Aquila capitano di cinquecento lance. Gli altri prigioni sono a migliaja, come intenderete distintamente quando avrò tempo. Certifico le magnificenze e paternità vostre, ch'io non so d'onde incominciare per degnamente riferire le lodi e le prodezze di tutti i miei compagni e marinari, insieme con l'ubbidienza e riverenza grande che mi hanno sempre usata, e massimamente il di della battaglia; che se avessero combattuto alla presenza delle signorie vostre non avrebbero potuto far più. £ meritano invero di essere lodati e rimunerati singolarmerte. Cristo ne dia grasia che possiamo andare di bene in meglio.

    È fama che il re d'Aragona non abbia voluto deporre la spada nelle mani del vittorioso ammiraglio perché non era uomo nobile, e vuoisi che la rendesse a un capitano di famiglia Giustiniani, o al duca di Milano lontano! Come se Diagio Asscrcto in quella giornata non avesse acquistato ben più che il titolo di nobile. Il re di Navarra si arrese a un capitan Lomellini.

    Gli uomini delle riviere in questo fatto si dimostrarono valorosissimi e gareggiarono nella mischia con quelli della metropoli. Un Aicardi ed un Rarnbaldi ambedue nativi del Portomaurizio fecero abbassare le vele a molti legni nemici. I genovesi con questa decisiva giornata liberarono Gaeta da infiniti patimenti e sempre destinata a celebri assedii!

    Il traditore Filippo Maria Visconti quella luminosa vittoria volea convertire in suo prò e a danno di Genova. Il popolo sussurrò libertà , Francesco Spinola si fé capo de' novatori, e convennero di cacciare l'insolente e traditor milanese. In un tratto si armarono e scacciato il Governatore e presidio lombardo s'impossessarono della città. Altrettanto fecero le riviere e specialmente Savona. Mandarono al Duca un manifesto in lingua latina dal quale si scorge l'irritazione violentissima che gli agitava, le patite ingiurie e le violenze e rapacità de' governatori, conchiudendo essere il Duca arbitro della pace e della guerra; l'una bramare, e l'altra non paventare. Il Duca nulla ripose, ma incontanente spedi Nicolo Piccinino con tutte le sue genti d: arnie alia volta di Genova. Indarno corse da una riviera ali' altra, Genova liberata dal!' oppressione straniera elesse il nuovo Doge che fu Isnardo Guarco nipote di queir ottimo cittadino che a' tempi della guerra di Chioggia aveva governata saviamente la Repubblica. Sette giorni appena stette sul trono che venuto Tommaso Fregoso annata mano l'ebbe discacciato; e quindi Battista lui. e via via il più potente discacciava il più debole.

    In questo tempo cioè nel 1440 Antonio Noli, e due altri della sua famiglia, scoprirono te isole dette di Capo verde; e dopo una quindicina ti" anni divenne famoso Antoniotto Usodimare per la celebrità de' suoi viaggi.

    Scorrerie per le riviere, assalti in città, tregue, paci, guerre; difesa di Napoli, e la caduta di Costantinopoli sono i fatti che ci portano oltre la metà del secolo decimoquinto. Maometto Ti. assedia la metropoli del Greco Impero coti forze quattro volte tante e con più di duecento legni all'entrata di Costantinopoli. Giovanni Longo genovese creato da Costantino capilan generale fa prodezze

    10 città. Tre galee genovesi con una greca mandate da Scio a portar viveri all'assediata città, passano battagliando le file nemiche e prodigiosamente entrano nel porto. Dodici mila cadaveri turchi piombano nel Bosforo; Maometto sul lido furibondo vuoi spronare

    11 cavallo nell' onda a trattener l'inimico : tutto fu indarno. « Non ardirebbe immaginare un poeta ciò che la storia ci attesta. » Era destinato che l'impero il" Oriente dovesse cadere nelle mani del turco; i poveri greci difesero la terra nalia fino all'estremo momento , e Costantino anzi che darsi per vinto o cader nelle mani vivo di Maometto, cercò dove era più folta la mischia e più sanguinosa e dentro slanciandovisi vi lasciò gloriosamente la vita.

    Dopo la conquista di Costantinopoli, Pera cadde sotto il principato di Maometto, come pure tutte le altre colonie nell1 impero orientale. Le due Focee. Scio, Metellino, ed una parte della Morea tenuta dai Zaccaria, subirono tutte il medesimo fato. Il doge Monsiglio all'avviso delle pericolanti colonie deliberarono di cedere le restanti alla casa di S. Giorgio. E siccome Vicentello d'Istria

    si era impadronito a forza con l'ajuto dei catalani di S. Fiorenzo in Corsica, e rivoltava T isola contro de'suoi legittimi possessori in favore del re Alfonso d" Aragona, cui pesava non potersi vendicare de' genovesi dei quali era stato prigione, perciò tentava ogni via di tormentarli ora in Corsica, non contento di avere prestata la mano a fomentare il turco per la conquista di Costantinopoli. e la rovina delle colonie genovesi; cosi si avvisò di cedere eziandio la Corsica alla casa di S. Giorgio (1453).

    La cessione partorì mirabile effetto, perché i popoli se ne congratularono, e mediante i sussidii che S. Giorgio spedì nel)' isola si riacquistò S Fiorenzo. Raffaelle da Leca assediò Yicentello d'Istria ed il viceré di Aragona, all'uno fé giurar fedeltà, e l'altro costrinse a navigar per la Spagna, e così tutta l'isola si ridusse in pace.

    A questo avviso Alfonso spedì gente a tormentar la Liguria e nuovamente la Corsica , con pochissimo frutto nella prima e con maggior nella seconda ; ma quindi per opera di Calisto ni. si amicò coi genovesi e richiamò le sue genti dalla Corsica: e poi una ingiusta preda negando fatta da un suo capitano di nave, mentre era fresca la pace, trasse i genovesi a rompergli guerra; e per questo il mare, la Liguria e la Corsica divennero il teatro di nuove guerre, e Genova passò sotto la protezione di Carlo Mi. di Francia. Poco dopo Paolo Fregoso arcivescovo e capo de' fuorusciti viene in città, e ne scaccia il francese presidio, e quindi dopo che la dignità ducale fu trasferita negli Adorni e Fregosi, egli depone il zio e senza più chiamare consigli ne' parlamenti si fa acclamar Doge da'partigiani (1462).

    Questa peste d" uomo colmò di sciagure la patria. «. Ritenuta da' francesi Savona. il re Lodovico l'aveva ceduta al duca di Milano. Giovanni Carretto si era ribellato in Finale, Lamberto Grimaldi in Monaco e in Ventimiglia. Nell'isola di Cipro Jacopo di Lusignano vassallo del soldano d'Egitto e successore inlegittimo del re Giano, aveva espugnata lo colonia genovese di Cherines, e posto l'assedio a quella di Famagosta ; né Paolo mostrava curarsene, tutto inlento con Ibleto Fieschi a disertar la metropoli. Il suo governo toccò appena Ire anni, ma pose il colmo alle passate calamità. «

    Negli estremi pericoli sempre T estremo e peggiore rimedio ; Genova cadeva nelle mani di Francesco Sforza duca di Milano: la perdita di Famagosta e quindi di tutte le colonie Orientali suggellava l'atto infamissimo. Genova era per declinare dall'antico splendore; la sua potenza marittima decadeva, a questo infelicissimo stato condotta dalle interne fazioni sempre pronte a lacerarsi e a spargere il cittadino sangue. Ma la perdita di Gaffa non solo deesi attribuire alle cose accennate, ma alla viltà degli uflìziali e forse

    ad uà tradimento E dove da oltre a

    due secoli sventolavano la Croce vermiglia e S. Giorgio, insegne carissime della Genovese Signoria, si piantò la Luna falcata degli Ottomani (1475). » Cosi fu rotta nel punto più dilicato la lunga catena delle colonie e fattorie genovesi, che forse, se non era un Maometto n., avrebbe durato ancor lungamente. Cosi fu chiuso il vastissimo commercio del mar Nero, aspettando un1 altra potenza liberatrice (1). «

    Poche cose si hanno da questo tempo che il genovese Comune stette sotto Milano, a quello che passò sotto la Francia. Morto per ferro traditore il Duca, Genova si levò a libertà, e si elesse doge Prospero Adorno: La duchessa di Milano irritata mandò alla volta di Genova numerosissimo esercito, ma sbaragliato e messo in fuga in Polcevera dovè ritornare laddove se n' era partito lacero e nudo. Sotto il dogato di Ballista Fregoso i genovesi soccorsero Rodi ed Otranto; Rodi gloriosamente difesa da' suoi cavalieri e dai nostri respinse alla (ine Maometto n., ma la città di Otranto dopo un mese di assedio fu presa dal ferocissimo Mussulmano. data a sacco ed ammazzali barbaramente preti, frati, uomini, donne, le vergini violate, ed i cittadini spogliati e battuti.

    A Battista, succedette Paolo Fregoso per forza, anzi per tradimento; e di costui dicon assai le storie senza eh' io qui dispieghi le azioni sue infamissime e come Doge e come Arcivescovo. Visse assai tempo per vendere

    (t) L'abusili libcra/ione non ebbe pieno rffetlo, rhr nell'nnno 1829 iwdinnlc In pnre (li Ailrinnnpoli Tra la Russ a e la Porta Ottomana.

    la patria allo straniero per I' unione di duo bastardi.

    Carlo vili, di Francia ambendo la signoria d* Italia aveva volto le armi verso il reame di Napoli, ma infelicemente; or egli voleva spodestare Lotlovico Sforza di Genova e insignorirsene, consigliato e secondato in quest' impresa dai suoi seguaci della Rovere e Fregoso soldati col berretto cardinalizio. Il suo tentativo riuscì vano sicché convenitegli tornare in Francia, ma non per questo si levava dal pensiero I" Italia, e tanto meno la conquista di Genova; morte gliel tolse e successegli Lodovico xn.

    E qui tra il morire del secolo decimoquinto ed il sorgere del decimosesto è glorioso per Genova il ricordare, come un suo cittadino nato di popolo, lanajuolo e quindi uomo di mare scoprisse il nuovo Mondo. Ad un tanto uomo furono ingrati gli uomini, Monarchi e Principi e perfino il Tempo che ingratissimamente dimenticando il nome di quell' Eroe, sanzionò un errore nel quale raderò le nazioni appellando America quella nuova parte del globo. Ingrati tutti, e perfino la Patria eh' egli beneficava ; e la quale per più di tre

    secoli gli negava un Monumento che

    ora forse s'innalzerà

    Ludovico di cui sopra dicemmo, aveva ereditalo le ragioni di Francia alla corona di Napoli e per ragion di parentado al ducato di Milano. A queste pretese succedevano i titoli eh' egli con deliberazione del suo consiglio assumeva cioè: re di Francia, di Gerusalemme, delle Due Sicilie e duca di Milano. Queste erano e pretese e titoli, vennero i fatti. Inondava la Lombardia di tredici mila fanti e sei mila cavalli ed in soli venti giorni occupava le piazze principali.

    1500.— Luigi Fieschi se riusciva a sollevar la Liguria in favore del Re, ne avrebbe il governo in vita della orientale riviera ; cosi il Re adescava i ghiotti. Altri lusingati da promesse ed onori accettavano come il Fieschi il partito e seminavano nel popolo i semi di ribellione ovvero di cangiare catene. Luigi entrato in città armata mano non stentava a far mutare il governo, tirando a su nobili e popolani, facea che gli Adorni uscissero di città, e dichiarava la Repubblica sciolta da ogni obbligo inverso il duca di Milano. Il Re di Francia divenuto signore di Genova senza strepilo d'armi desiderava di mantenersi questa importantissima piazza, se non che le faccende della guerra per Vipoli e la scelta di governatori tali che troppo lusingavano la nobiltà vi si opposero. Questa salita

    10 superbia grandemente incrudeliva verso il popolo, ed il popolo non uso a tollerare quelle bravate, mettea mano al coltello e scannava parecchi nobili dabbene, e voleva la riforma del governo nel modo di sua maggior sud 'Istoriimi-. Creavasi un Magistrato di dodici cittadini, i quali operavano la riforma; ma non per ciò s" ebbe quiete : perocché dopo le discordie la plebe venne ad un atto decisivo creando doge un Paolo Da Nove tintore di seta. Francia si mosse allora tutta bellicosa e furente, e Lodovico Xh. entrò in Genova con piglio minaccioso. Cominciarono le vendette e molli cittadini e plebei furono dati alle forche e alla scure per atto di clemenza! Dopo ciò venivano le indulgenze e le precauzioni: ma più queste di quelle, essendoché ordinava si fortificassero il Castelletto ed il Castellacelo, e si tenessero pronte agli ordini di Francia tre galee in porto, e sul fatto s'innalzasse una rocca sullo scoglio denominato Capo di Faro, che nomossi Briglia, ma era nn morso durissimo. Assicuratasi la città,

    11 Uè passava ai festini e banchetti, non senza prima avere fatto ammazzare il povero Danove comprato a contanti da un traditor corso. Il Fieschi ricevevalo a splendido banchetto nella sua casa di Violato, festeggiato dai nobili genovesi sempre pronti a far buona cera a chi più potente era di loro. Abbandonava Genova per Milano dove disegnava nnove conquiste.

    Venezia tanto cresciuta in dominio, tanto formidabile e potente fu segno ali' invidia e per questo l'Italia che quieta alcun pò riposava, fu scossa dalle armi de'rivali di quella famosa Repubblica. La battaglia di Ghiara d'Adda poco mancò non la schiantasse dalle fondamenta. Risorta quindi per proprii rinfranchi disegnò di rintuzzare l'orgoglio dei forestieri cagion di suo danno. Il Pontefice aderiva e volentieri anelava a rincacciar Francia di là da' monti, restituire la Lombardia agli Sforza e Genova alla sua antica independenza. E questo pensiero pungeva il cuore di

    un genovese, di Giulio u. nato di famiglia popolare. Giano Fregoso mandato dal Pontefice scacciò il presidio francese, s'impadronì di Genova, e ne veniva eletto Doge. Rimaneva a levare dal Castelletto e dalla Rriglia i francesi che vi si erano disperatamente fortificati. Il primo dopo otto di d'assedio cedeva cosi al tempestar dei cannoni come al suono dell'oro, perché chi il guardava riceveva dodici mila scudi a premio del suo tradimento. La Rocca di capo di Faro era un osso più duro. Invano si tentò di minarla, invano i cannoni la bersagliavano; era un tirar nelle nubi. II Doge allora pensò di ridurla per la fame, disponendo Tarmata a mezzo cerchio dinanzi al porto affine di mozzarle ogni via di soccorsi. Infelici riuscendo l'imprese d'Italia. il re di Francia, ad ogni costo voleva ritenere quelle fortezze e piazze eh' erano in sue mani, sperando di riconquistare il terreno perduto. Or sapendo in quali strettezze si trovava la Origlia, nascostamente fece allestire in Nominililin una grossa nave carica d'ogni sorla di vettovaglie e di munizioni da guerra. Questa nave giunta in sul porto inalberava

    10 stendardo genovese e fingendo di prender porto intendeva a mettersi sotto la Rocca, e difesa da essa scaricare le vettovaglie e le munizioni. Questo disegno andava a seconda del condottiero, che virando di bordo subitamente s' andava ad uncinarsi agli scogli inutilmente fulminato dai genovesi che lardi si erano avveduti di quel subito inganno. Questo impensato avvenimento costernava ciascuno perché dopo tante fatiche e tanto sangue versato, vedevano che quel duro morso anziché rompersi diventava più forte, e la liberti') della patria dipendeva da quello.

    11 popolo sempre pieno di generosi partili ancor questa fiata salvò la patria da più lungo flagello. Emanuelle Cavallo presentatosi al Doge supplicava per una galea armata, protestando eh' egli renderebbe inefficaci quei soccorsi e farebbe pcnlirsene coloro che gli avevano prestati. A primo aspetto questa temeraria risoluzione deslava sorpresa, ma quindi conoscendo quanto fosse la potenza ed il coraggio dei liguri marinai, il Consiglio acconsentiva. I,'ardimentoso Cavallo fece apprestare la galea in luogo dove non fosse visto dalP inimico. e quindi vi s'imbarcava accompagnato da una schiera di giovani coraggiosi e pronti a menar le mani n dovere. Favorita dal vento, corre a voga arrancata verso la nave nemica, e piegando e radendo

    10 scoglio giunge felicemente tra lo scoglio e la nave a scherno e dispetto di una pioggia di sassi, di freccie e di palle infuocate da rovinare non solo una sola galea ma una flotta intera. Recidere le funi, tirare con seco la nave è cosa più presta dello scriverlo; e tosto essendo al largo da le vele al vento e s'avvia alla piaggia di Sampierdarena con la nave predata e i soccorsi ch'essa recava; flagellato sì dalle palle francesi, ma glorioso di quella prova di straordinario coraggio. Ouand'ecco

    11 capitano della nave si slancia nel mare e fuggendo s'accosta alla riva; ma non tosto fu visto che Benedetto Giustiniani egli pure si spicca nell' onda e lo raggiunge e lo mena prigioniere alla nave. Preceduto dai prigionieri , il valoroso Cavallo entrava in città tra gli applausi del popolo che lo incontrava. Questi erano quei genovesi, nota egregiamente il Varese. cui la fortuna, o piuttosto le ambizioni dei cittadini avevano tolto l'imperio del mare. Il Cavallo per decreto del Senato, co' suoi discendenti veniva francato d'ogni pubblica gravezza : nobile prerogativa che la patria concedeva a pochi e soltanto per sublimi azioni. Scrivono che sulla galea del Cavallo Andrea D'Oria compisse le sue prime prove marinaresche; vuoisi ancora che una scheggia scassinala dal cassero per una palla nemica fieramente lo cogliesse in un braccio, e poco mancasse non troncasse nei suoi primordii una vita destinata a levar tanto grido di sé, e tanta fama nel mondo che mai la maggiore.

    La Briglia non venne in mano de'genovesi cosi presto, perché i partitami di Francia illudendo la vigilanza degli assediatori le porgevano soccorsi, e sol cadde quando il doge Ottaviano Fregoso uomo di grand' ingegno e benemerito alle arti ed alle lettere, ordinò quel duro assedio per cui fu costretta a rendersi : d'ordine di Ottaviano fu quindi spianata. II governo di questo Doge fu da lutti encomiato, quantunque stretto dalle circostanze nuovamente mettesse nelle mani di Francia l'infelice Genova, ch'era sempre la vittima che si offeriva alla sfrenata ambizione dei

    potenti. I francesi intanto erano calati in Italia per una via ancor nuova, e quella loro comparsa formidabile metteva in oppressioni i Principi di Europa. Genova per torsi da un male maggiore si dava adunque al re Francesco allora assunto al trono di Francia. Il reggimento francese non era cosi sgombro di nubi e di rancori che s'avesse a presagirlo perpetuo ; non però ebbe subito fine perché i popoli occupati sempre in armeggiare e quindi le spiaggie ed il mare infestalo dai barbareschi davano altrimenti a pensare. Àndrca D' Oria già noto per avere servito in qualità d'uomo d'arme la Chiesa, indi il re di Napoli e Giovanni Della Rovere duca d'Urbino, stanco d'indossare le armi straniere era venuto in Genova con Giano Fregoso quando si tentò di liberare la patria dalla dominazione francese; e siccome dissopra accennammo fu in quella galea del Cavallo a Capo di Faro Indi Ottaviano Frcgoso davagli le quattro galee del porto, e poi lo creava capitano di queste e d' altre due al1' uopo fornite affinchè andasse a predare e combattere i barbareschi capitano de' quali era un Cadegoli, ladro e pirata famoso. Da questo tempo comincia la vita del grande Ammiraglio. Ben presto un fatto strepitoso metteva il primo fondamento della maravigliosa e misteriosa riputazione di Andrea. Incontrava i barbareschi padroni di numerosa flotta, al numero prevaleva l'ingegno, e.dopo non sanguinosa battaglia il fortunato ligure faceva prigione il Cadegoli e tutta la flotta nemica, due galeotte eccettuate.

    Ora dovevano scoppiare quelle discordie che partorirono quelle guerre tra Francia e Spagna a danno sempre d'Italia. Carlo re delle Spagne era stato gridato Imperatore col nome di Carlo v. Il re Francesco esso pure aveva agognata l'imperiai dignità, ma l'oro d' America aveva guadagnato gli animi in favore di Carlo. A tulle le antiche inimicizie e prelese dell'uno e dell'altro si aggiungeva quesf ultimo fallo che destava nel deluso rivale una sete incsiinguibile di vendetta. Tulli e due dunque rivolgevano le armi sull'Italia e per diversi fini e mezzi per onestare 1' avidissimo desiderio d'impadronirsene. Il Papa si collegava con Spagna. Questa mandava a tentar novità nelle riviere, i pari i tanti

    Adorai e Fieschi vi davano ansa, ma tanto erano diverse le inclinazioni che riuscirono inalili i tentali sperimenli. In questo mentre il vigile Oltaviano regio governatore, accortosi che bisognavano salutari rimedii, propose al Senato di ordinare un Magistrato a cui si affidasse Tesarne di tutte le leggi dello stato, affine di corregger le viziose, abolire le inutili o dannose, e crearne delle nuove accomodate ai tempi e alla educazione del popolo. La proposta veniva accolta con giubilo, e indilatamente nominavano il Magistrato che componevasi di cittadini chiari per credito di prudenza e per integrità di costumi, i oomi de" quali giustizia vuole che si mandino ai posteri: Giangiacomo D'Oria, Agostino Pallavicino, Battista Spinola, Lanfranco Usodimare, Battista Lomellino, Pietro Grimaldi, Stefano Giustiniani, Stefano De'Franchi Cocarello, Antonio De'Ferrari. Tommaso Invrea ed Agostino Maggiolo. Avevano già messo mano al!' opera, si radunavano intenti a finirla, quando ne furono sforzatamente stornati da Federigo Fregoso arcivescovo di Salerno e fratello del Doge, il quale prevedendo per quella riforma sminuito il credito della sua casa, per la spartizion degli onori, e per la somma delle cose distribuite in più mani, a tutto volere e per forza fece ritardare di sette anni quella riforma che doveva mutare grandemente lo stato di una già gloriosa Repubblica ed ora bersaglio dello straniero, idolo dei cittadini potenti e meta al governo aristocratico. Intanto gli Adorni che più degli altri conficcavano le armi forestiere nel sen della patria, stavano in guardia per cacciarvi le truppe spagnuole, e Gerolamo per avere la corona ducale; in ultimo stretta la città dal campo nemico e trovandosi i Fregosi a duro partito mandarono ambasciatori per la resa, non senza che prima il fuoco nemico avesse fatta grandissima strage e appiccato un incendio. Ma nate discordie nei capitani collegati, italiani, spaziinoli, tedeschi e montanari entrarono a forza nella città e la diedero a sacco. Qua! sacco! povera Genova! Stupri, rapine, violenze, uccisioni si fece di ogni erba fascio: durò due giorni quell'empia tragedia. Cosi si liberava* la patria. Dopo tanto sangue i generali ed i capitani crearono doge Antoniotto Adorno,

    senza il consenso del Senato, senza i voli del Consiglio, ma per militare acclamazione, per acclamazione di forza straniera.

    Intanto Andrea D' Oria colle galee si era messo in salvo portando con sé quanti erano avversi alla dominante fazione: quindi ricoverava a Monaco, trattava col re di Francia e si accomodava al suo servizio a condizioni vantaggiose. Le galee proprie di Genova, diventavano sue e vi innalzava lo stendardo francese !

    La celebre rotta di Pavia, la prigionia del re Francesco cagionarono quel mutamento di cose in Italia per cui la parte francese soggiacque, e la spagnuola avanzò grandemente in possanza. Ma quantunque fosse giunta a questo punto, pure le mal versazioni spagnuole e le ingiustizie commesse dai governatori facevano desiderare il giogo francese. II Re uscito di schiavitù pensava al modo di abbattere la tracotanza spagnuola ; Venezia e il Papa non solo desideravano ciò, ma usavano pratiche con esso lui per arrivare all'intento. Pertanto si conchiuse una lega, chiamata santa perché n'era capo il Pontefice. Il fine era, la liberazione dei figli di Francesco, statici a Madrid, la restituzione del ducato di Milano allo Sforza, della contea d'Asti e della Signoria di Genova alla Francia.

    In questo Andrea D'Oria col consenso di Francesco veniva eletto generale della Chiesa; e fra lui, il Papa e Venezia combinavano di assediar Genova. Francesi, veneziani, romani venivano sulle navi a tormentar le riviere; Genova durava fedele all'impero. Una battaglia navale sotto a Seslri di levante sostenuta felicemente dai collegati, quantunque in picciol numero, aumentava la fama di Andrea. L'ammiraglio spagnuolo costretto a fuggire dava fondo nel porto di S. Stefano nello stato di Siena. Così terminava l'anno 1526.

    Le sorti dei collegati mutarono col mutare dell'anno; il sacco, l'orribil sacco di Roma fece pensare seriamente il re di Francia. e perciò mandava un grosso esercito a tentar nuovamente la fortuna d'Italia. Andrea D' Oria visto andar male il negozio per lo sacco di Roma, chiedeva licenza al Pontefice, e passava nuovamente al soldo di Francia, non più capitano di una flottiglia pontificia. ina capilan generale del Mediterraneo eoo trentasei mila scudi di annua provvisione, col fine di venir contro la patria Adunque da Civitavecchia passato a Savona che teneva pel Re, guardava Genova con vigil occhio. Lotrecco condottiero dell' armata francese passava a stringer Genova dalla parte di terra; D'Oria stringevala dal mare, e s'impadroniva di sette galee genovesi ; mentrechè Cesare Fregoso con buona posta di fanti scendeva a tempestare in Polcevera. La città fece resistenza; ma la fame, le sciagure e la forza contraria la fecero determinare alla resa.

    Cesare Fregoso entrava vittorioso in città, e nel medesimo tempo vi entrava Andrca dal mare. I nuovi venuti si diportarono moderatamente , e perciò n' ebbero ringraziamenti dal Senato: così Genova per opera d'Andrea D'Oria s'incatenava con Francia. Chi direbbe che poco dippoi Andrea l'avrebbe slegata per legarla con Spagna! Che razza di tempi erano! che strani pensamenti brulicavano nel cervello di quegli uomini! Quali mezzi per liberare la patria, sempre serva o di questo o di quello! La storia ha le sue luci, come le sue tenebre; i suoi ordini, come le sue anomalie. Ritorniamo,!.

    Francesco mandò a reggere la Repubblica col titolo di governatore Teodoro Trivulzio. Andrea D' Oria a premio di avere dato la patria al francese Monarca, riceveva da lui le insegne dell'ordine di S. Michele.

    Or qui la storia d'Italia narra come fallissero le imprese di Napoli al Re francese per colpa d' Andrea, che già meditava di abbandonarlo per farsi non tiranno della sua patria, ma signore. La storia racconta altresì le gelosie tra il D'Oria e Renzo da Ceri, la poca soddisfazione del primo rispetto a Francia, e l'abbandono dell'armata collegata inutilmente all'acquisto della Sardegna, ed il ritorno in Genova di Andrca dove appiccò le pratiche con Cesare per mezzo del marchese del Guasto affine di condursi con lui.

    Ora quella riforma sette anni addietro dal zelantissimo Ottaviano Fregoso proposta, si rinverdiva, ed in quale epoca mai: quando la città era flagellata dalla peste. D'Oria vinceva un'altra battaglia sul piccolo promontorio di capo d'Orco; rompeva, e predava la flotta imperiale. Tra prigioni ed estinti

    furono mille; il Moncada vi perdeva la vita: ed il marchese del Vasto, Ascanio Colonna, il principe di Salerno, il marchese di Sania Croce, Camillo Colonna, Fabrizio Giustiniano e Serenone capilano aneli'egli di grido con allri nobili ed officiali rimanevano prigionieri di guerra: due sole galee nemiche scampavano, e l'una di queste indi si arrendeva calati i vessili imperiali.

    Dopo ciò Andrea D'Oria si opponeva alle fortificazioni di Savona, pregava il Re a sospenderle. I ministri lo mettevano in sospetto; ed egli spirato il termine del suo servizio usava parole risolute e tronche. I mali umori crescevano d' ambe le parti : il Re per mezzo del visconte di Turena faceva tassare il Senato per contanti tanto necessarii per la guerra di Napoli. Allora parve al D'Oria il momento di romperla con quel Monarca, e meritare della patria. S'avviò al Senato e francamente si oppose alla regia dimanda. Il Turena meraviglialo maneggiò la pratica con indifferenza, ma subitamente partito di città per a Firenze, mandava un espresso in Francia con la superba dichiarazione del D'Oria.

    Francesco montò sulle furie come vi montano i francesi: chiamò il D'Oria traditore ed ingiunse al Barbesieux che difìlasse con dodici galee per Genova e della persona di lui s'impadronisse. Accorto il francese trovò il D'Oria accortissimo, che ritiratosi bene armato nella rocca di Lerici, rispondeva agli inviti dell' astuto francese con iscuse, e comandando che le miccie accese si tenessero sopra i cannoni a fine di fulminare la squadra ancoratasi innanzi a Lerici in caso di sfida. Disperato il francese di non aver potuto colle astuzie impadronirsi di Andrea, partiva pensando di por le mani addosso alle galee. Ma la squadra comandala dal vittorioso Filippino D'Oria eh' era sulle acque di Napoli aveva già avuto ordine di venire alla Spezia appena spiralo l'ultimo dì del mese di giugno. E cosi anche quest" ultimo tentativo andava fallito.

    Andrca rimosso l'odio acerbissimo che nudriva a Spagna si accordava coli" Imperatore e passava al servizio di lui. liberando poi "dalla soggezione francese la patria, e mettendo a termine quella riforma che veramente faceva cessare il continuo spargimento di sangue cagionato dalle fazioni e dalle discordie cittadine. Laddove è la serie dei Dogi dissi un mio sentimento su ciò avvalorato dal Guicciardini. perciò qui passo oltre, tanto più che I* argomento è nolo a chiunque sia versato discretamente nelle storie d' Italia. Siamo al 1528.

    Scacciati i francesi da Genova, il Senato saviamente determinò di fortificare la città con forti presidii affine di resistere al nuovo attacco dei francesi che furibondi rompevano in Polcevera ; ma quindi fatti sicuri che dura e difficile impresa era il ripigliar Genova, si allontanarono. Allora il Senato ordinò di assediare il Castelletto che tuli' ora era nelle mani dei francesi; la qual cosa fece determinare il Trivulzio ad una onorevole capitolazione. Non appena la rocca fu sgombra che si d iroccava, da alcuni bastioni in fuori che servivano di difesa alla città. Rimaneva Su "i M. la quale affezionata a Francia, si ostinava alla resa. Andrea D' Oria caricava assai fanti e grosse artiglierie sulle sue navi e su quelle della Repubblica, e moveva all'oppugnazione della renitente città. Altrettanto faceva per terra Sinibaldo Fieschi con buon in'I-'> d'armati. Vuoisi che al primo tirar dei cannoni il governatore Moret mandasse a trattar della resa. Vuoisi che cedesse guadagnato dall'oro, oppure per viltà d'animo: fatto è che i savonesi si sdegnarono grandemente a quella notizia ; pregarono, scongiurarono il governatore a smuoversi da quella rea risoluzione, ma tutto fu indarno. D'Oria e Fieschi s'impadronivano della citlà a nome della Repubblica, e la davano in cura a Battista Lomellino, e Giambattista Lasagna. Savooa meritava un castigo; così opinavano i padri; e così deliberarono. Si rovinarono le mura della citlà, ed il porlo fu riempiulo con barche cariche di duri macigni; quesli furono i peggiori danni, e non so se giustamente ordinati, e meritamente palili. Il corpo municipale della città fu obbligato a trasferirsi in Genova ad inchinare il Senato e ricevere da esso ammonizioni a perseverare nella fede. La Repubblica dopo ciò intese al ricupero di altre terre dipendenti da lei. Così dopo tante sciagure Genova poteva respirare Uberamente, e darsi a quella primiera attività, se gli elementi suoi non fossero stati sudorali.

    Adunque promulgatasi la Costituzione del 1528, portava che la Repubblica più non riconoscerebbe nessuna denominazione che costiluisse differenza ira cittadini e citladini. Si ammetteva una sola denominazione la quale formerebbe un ordine di nobili a cui sarebbe per l'avvenire conceduto l'adito ai pubblici onori, e magistrature. A qucsl' ordine si ascriverebbero quegli individui così chiari per nascita come per ingegno e facoltà. Quindi si formavano i ventotto Alberghi de' quali già diedi cenno al Gap. 2.° della Pari. II. di qucsl" opera. Per questa Costituzione il popolo si lasciava senza rappresentazione, senza guarenzia ; era un impasto tutto aristocratico e tale che il popolo non si avvide che tardi dove colpiva quella tanto decantata Riforma. Da questo punto cominciano i Dogi biennali, de'quali primo fu Oberto Cattaneo. Vuoisi che Carlo v. nemico naturale delle Repubbliche, abbia offerto ad Andrea il principato di Genova con promessa di mantenervelo anche colla forza, ma egli no: cosi dicono le storie. Il Senato gli offerì in segno di riconoscenza la corona ducale, ed egli fece il generoso rifiuto che narrano. Non rifiutò però di sedere in Senato Priore perpetuo del Magistrato supremo di Riforma; di essere esonerato da ogni gravezza, e farne esentare i suoi cugini Filippino, Pagano, e Tommaso D'Oria e loro discendenti in perpetuo. Accettò il donativo di un palagio comperato col danaro del pubblico sulla piazza di San Matteo; e permise lui vivente gli s'innalzasse una statua marmorea nel cortile del palazzo ducale con quella iscrizione che vi si leggeva. Quando io penso a quel fanciullo nato di popolo, e cresciuto lo veggo in cerca di pane, ramingo, deriso, scacciato dalle corti e forse dalla sua patria alla quale voleva dare un ignoto creato ; io mi veggo costretto a dolermi di quella traboccante generosità, e a lamentare della mia patria la quale si tardamente rimunerava la memoria di un Eroe unico e senza confronti. L" uomo mandato da Dio a promulgare in quelle ignote terre il vangelo che n'ebbe dagli uomini? Ferri e catene; ma ferri e catene non ha in cielo quelP anima generosa e costante sì nelP avversa come nella buona fortuna; e Dio giustissimo permise appunto che la vita di quell'Eroe fosse seminata di triboli e spine, per farne da poi maggiormente conoscere T importanza di quel concetto unico, ingenerato da Lui in un misero popolano, per queir umile principio di avere il Redentor nostro preferita una stalla ad una reggia. Or seguitiamo la storia.

    Suonava in Europa il tremendo grido di guerra da parte dei due maggiori principi del Mondo, voglio dire di Carlo v. e sultan Solimano signore de' turchi. Andrea D'Oria ammiraglio di una flotta composta di quarantotto galee e trenlacinque navi con fanti e cavalli volgeva in Levante, e si metteva alP assedio di Corone principal piazza della Morea. Sbarcava i fanti e i cavalli e da mare e da terra oppugnava quella città, la quale dopo una inutile resistenza si rendeva. Dopo questo successo il D'Oria passò con l'armata a Patrasso; i turchi ritiratisi nella rocca posta sopra di un luogo eminente si prepararono a una forte resistenza: ma bersagliata dalle artiglierie del D'Oria convenne alla resa. Di vittoria in vittoria procedendo P Ammiraglio venne al golfo di Lepanto e s'impadronì dei I );i rilancili, dandoli a sacco a'suoi soldati. Appresso venendo la stagione invernale presidiate quelle piazze ritornò in Sicilia, ed ivi licenziata l'armata si condusse colla sua squadra in Genova.

    Alle glorie navali succedevano i primi semi delle congiure, perché il popolo si cominciava ad accorgere ch'egli così glorioso e potente ne'secoli addietro, ora si trovava schiacciato sotto il peso dell' aristocratica dominazione. Un Agostino Granare, e certo Corsanico popolari di molto seguito si erano offerti al Re di Francia nello scopo di sollevare la città in suo prò; ma scoperta la trama, il Granara fu subitamente decapitato, e poco dopo caduto il Corsanico nelle mani di Andrea D' Oria per ordine suo fu sommerso in mare. Tommaso Sauli dell' ordine de'nobili, incontrò esso pure la morte per avere sparlato a danno della Repubblica con intenzione di favorire la Francia; e questo tremendo spettacolo si offerì al pubblico il giorno che si celebrava l'anniversario della ricuperata libertà, quasi, dice il Casoni, si offerisse questa vittima alla medesima.

    In questo mentre la Repubblica fu svegliata da un altro accidente più pericoloso

    e dannevole. Quell' Ariadeno di Metelino, greco rinnegato, nominato Barbarossa, messa in mare una flotta di settanta galee infestava le spiaggie d'Italia, e particolarmente quelle della Liguria. Per questo la Repubblica fu costretta ad armare una flotta per unirla a quella de' collegati contro il barbaresco ardimento. Nel tempo medesimo Corone fu abbandonata dai cristiani, i quali contro le forze del turco non poterono più oltre resistere, essendo quel debole presidio mancato di soccorsi e d'ajuti da parte di Cesare e del Pontefice. Il re di Francia profittando di quell' universale scompiglio si mise ad assaltare il Piemonte.

    Genova per sé, per Cesare-e collegali apprestava una numerosa flotta di navi e galee destinata all'espugnazione di 'Cimisi nido dei barbari. Capitati generale fu creato da Cesare Andrea D'Oria regalato dal Papa, in segno di onorevole ricognizione, dello Stocco d'oro solennemente da esso consacrato, e diun cappello di velluto vagamente tempestato di perle. Andrea fatta la rassegna della flotta trovossi avere sotto di sé novanta galee; tra le quali quindici sue; cinque di Antonio D'Oria: due di Onorato Grimaldi signore di Monaco; due del visconte Cicala, le quali tutte militavano al soldo di Cesare: dodici della Repubblica , onde tra queste e nove allestite pel Pontefice la nazione genovese mise in mare quarantacinque galee. Le altre spellavano ai collegati. A molto maggior numero sommavano le navi, le quali eccedevano oltre le ducenlo; irentaselte erano della Repubblica. I soldati montavano a quarantamila; tra quali erano uomini illustri per nascita di Spagna, Fiandra, e d'Italia, e nobilissimi condotlieri che già si erano segnalali nelle passate guerre II D' Oria messosi in mare drizzò la proda al porto di Barcellona, dove ricevelie l'Imperatore sopra la sua capitana, appositamente costrutla con impareggiabile magnificenza. Quindi da Barcellona la flotta navigò in Sardegna . e di là in Affrica alle spiagge di Cartagine, dove sostò nel porto di Utica;e quindi girato il capo di Carlaginc presso la Torre dell'acqua morta sbarcarono fanti e cavalli. L' esercito mise campo intorno alla Golella, forlissima rocca, credula a' nostri dì inespugnabile, per la sua posizione sulla bocca

    del canale pel quale si entra nel seno, che si dilata in ampio porto poche miglia discosto dalla città di Tunisi.

    La Rocca quantunque valorosamente difesa, battuta dalle artiglierie di terra e di mare dovette soccombere; allora i cristiani -' impadronirono del porto e di cinquanta bastimenti, quivi ritirati come in luogo sicuro per essere armati in corso di rappresaglie. Non è a dire se questa vittoria ottenuta dai cristiani abbia tolto l'animo ad Àriadeno, il quale uscito da Tunisi culi" esercito ebbe voglia di venire alle mani coli1 Imperatore, ma Doo volendo arrischiare in un fatto la sorte della guerra, lasciato un conveniente presidio io Tunisi, si ritirò a Bona, e poi in Algeri da dove dopo la perdita del regno passò al servigio di Solimauo, dichiarato da esso Bassa del mare.

    Intanto la città di Tunisi rimasta senza capo, cadde in potere di Cesare, il quale magnanimamente rimise nel regno Muleassen, ch'era stato scaccialo da Àriadeno, con l'obbligo di pagargli un annuale tributo di sei cavalli barberi, dodici falconi, e dodici mila scudi pel sostentamento del numeroso presidio lasciato nella Goletta. Indi Cesare vittorioso e trionfante navigò in Sicilia, e licenziato l'esercito andò a svernare in Napoli dove ebbero luogo con regale apparato le nozze della principessa Margherita sua figliuola legittimata con Alessandro De* Medici poc* anzi da lui creato Duca di Firenze. Così ebbe fine la campagna contro i barbari pirati.

    Morto Francesco Sforza Duca di Milano, il D' Oria consigliò P Imperatore a ritenersi lo slato di Milano, per mantenervi un forte presidio a far testa contro P impeto dei francesi che venissero ad assalire gli stati •i' Italia. Cesare gradì il parere e miselo in eseguimento, creando governatore generale di quello stato Antonio da Leva: ciò fece però con tale astuzia che i Principi italiani, ed i genovesi e veneziani non conobbero la sua vera intenzione perché a quelP ordinamento del governatore aggiunse, eh' egli non volea già tenere lo stato di Milano per sé, ma che ne avrebbe disposto in un momento che fosse piaciuto ai principi il" Italia ; cosi aveva indorata la pillola, onde essi confermarono con Cesare la lega a difesa d" Italia ;

    mentre che il Re di Francia strepila va. e protestava e manifestamente richiedeva lo stato di Milano. L'accortezza di uno spagnuolo operava che le armi stesse d'Italia servissero a difenderlo contro coloro a'quali usurpava uno stato. Il parere non era di mente spagnuola, ma italiana e genovese. Strana politica.

    Ora cominciano quelle sanguinose battaglie tra Francia e Spagna per la benedetta Milano, guerre che in sul primo passarono sul Piemonte, vittima il Duca di Savoja, e quindi vennero a romoreggiare fino alle mura della nostra città, la quale valorosamente difendendosi costrinse i francesi a ritirarsi oltre i monti. E siccome in Genova vi erano partitami per quelli, e per i Frcgosi condottieri al servigio di Francia, scoperti furono dati al boja.

    Infestando i turchi nuovamente il mare, i collegati misero in pronto una flotta assai numerosa , ma se si toglie P espugnazione fatta dal D" Oria di Castel nuovo nel golfo di Cattaro, terminò quel!' impresa allestita con tanto apparato di guerra non assai felicemente, per le discordie dei generali subalterni al D' Oria.

    Più fortunata fu la spedizione di Giannettino D'Oria luogotenente di Andrea, il quale nelle acque di Corsica fece prigione il famoso corsaro Dragut con nove de' suoi vascelli. Per questo successo si liberarono dalle mani di que' barbari meglio di duemila cristiani, e Dragut venne portato in Genova come trofeo di guerra. Quindi questo corsaro tanto pernicioso, si riscattò; e non avendo gli affricani tanto di necessario contante per isborsare ad Andrea, lo presero in prestito dalla famiglia Soprani alla quale diedero in pegno Pisola di Tabarca. Dragut ritornò alle prede e portò quel danno alla Cristianità che è noto. Cosi un corsaro, un ladro, un nimico giurato del nome di Cristo coli' oro si riscattava, e Poro porgeva Genova a cui tanto danno aveva recato, ed era per nuovamente recare. A che mai trapge P insaziabile cupidigia di ammassare ricchezze?

    Vuoisi accennare qui di volo come P imperator Carlo v., ed il re Francesco si erano accostati amichevolmente, quello per blandirlo, e questi per carezzarlo a fine di ottenere lo stato di Milano pel suo secondo genito. Ma le blandizie e le carezze non fruì

    larono che guai; anzi Francesco mandando ambasciatori alle coni per eccitarle contro I" Imperatore fu irritato maggiormente per P assassinio di Cesare Fregoso ed Antonio Riuconec h' egli aveva inviali alla Repubblica Veneta. I Principi abbagliati da quello splendore di Carlo, o meglio addormentati dalle lusinghe spagnuole non diedero ascolto a Francia. Il Re allora temalo da Solimano aderì volontieri a far lega con esso ; così un Turco ed un Re cristianissimo apparecchiavano le armi per molestare i cristiani.

    In mezzo a questi preparativi Carlo v risolveasi a passare alla conquista di Algeri. Trentacinque galee, molti legni grossi e sottili salpavano dal golfo della Spezia. Andrea D1 Orla comandava la flotta e v' era l'Imperatore in persona. I fanti erano più di sei mila tra tedeschi, italiani e spagnuoli. Riunitasi la flotta dopo una fortuna di mare nel porto di Bonifazio; e quindi volgendo alle isole Baleari, approdò finalmente nelle spiaggie dell'Affrica in vista d' Algeri. Quivi vennero ad ingrossarla le galee di Spagna e di Sicilia, sicché I' armata sommò a più di quattrocento vele. Tanto apparato poco mancò non ingoiasse il mare per una furiosissima tempesta che sorta mandò a vuoto l'impresa. Convenne levarsi dalle spiaggie dell' Affrica e condurre la tempestata flotta a Cartagenova. Dopo ciò il D'Oria sen venne col resto delle sue galee in Genova.

    Volgeva l'anno 1547 nel quale la Repubblica non fa mai tanto in pericolo di crollare dalle fondamenta per la congiura del conte Gianluigi Fieschi, che d'accordo col Papa mirava all'indipendenza italiana. Avendo trattato questo argomento in un articolo speciale nel Capo Ottavo, proseguo senz' altro aggiungere alle cose scritle.

    Già i Principi ed i popoli avevano toccalo con mano il tentativo di Carlo di ridurre a schiavitù le Provincie italiane; Piacenza si vide presidiata dagli spagnuoli dopo il fatto della congiura: ora i Ministri dell'Imperatore anelavano a porre un morso a Genova, sotto pretesto di conservarla nella sua integra costituzione. Volevano fabbricare una fortezza nella città e presidiarla di soldati spagnuoli, e dicevano, per tenere in freno chiunque avesse intrapreso novità contro la

    sicurezza della Repubblica. In questo è da commendarsi sommamente la costanza d'Andrea D'Oria. il quale virilmente si oppose ai disegni degli spagnuoli Ministri, e francamente parlò contro di essi. Il popolo avvisato di tale divisamento, sorse in un subito moto, e poco mancò non procedesse a suo modo contro gli spagnuoli. Ma il D" Oria che uomo astutissimo era, vedendo dove stava il male, cercò di mitigarlo; perlocchè scrisse alT Imperatore assicurandolo che procurerebbe di riformare alcune cose nella Repubblica, e di regolare in maniera il governo, che non fosse in mano di pochi uomini sediziosi P abbatterlo.

    Lascio agli eruditi in materia di leggi il parlare delle nuove che si fecero nel 1547, e che vennero chiamate del Garibetto (vocabolo che suona assetto, garbo) perché Andrea D'Oria solca ripetere voler dar Garibo alle cose della Repubblica. La sostanza era che se i popolari avevano qualche parte nel governo per le elezioni a sorte statuite dalle leggi del 1528; ora lor si toglieva questa speranza, perché le elezioni si statuivano doversi fare per voti. Questa era in vero la gran riforma, il garbo d'Andrea! Intanto i pugnali si aguzzavano e i Fieschi ed altri malcontenti avrebbero volentieri sparso il sangue del Liberalor della Patria, perché per essi era divenula esosa quella persona, come la dominazione di Spagna.

    Carlo v. dopo che disegnò di dare il regno d'Italia al proprio figliuolo, venne in pensiero d'impadronirsi del Genovesato. Ma il Senato prese qualche opportune misure per le quali il colpo andò fallito non senza che nascesse in città un moto contro gli spagnuoli ; Filippo si accese di sdegno conlro il D'Oria, e contro i genovesi.

    Genova in questo tempo si trovava con stranieri che la desideravano sua; con cittadini che volgevano lo stilo contro di essa per atterrarla; con le sue spiaggie infeslalc dai corsari: cosicché doveva essa guardarsi da fuori, da dentro, e fugare il fiero Dragut che gran danno recava al commercio ed alle vele genovesi. A compimento di queste sciagure Carlo v. rompeva la guerra con Enrico n. re di Francia. Guerra che per i suoi successi , per gli assedi meravigliosi. per la moltitudine degli interessati, niun'altra mai essere stata, dice il Casoni, più memorabile nell'Europa cristiana, e niun'altra aver mai dato copia maggiore di ammaestramenti militari e politici. Questa guerra fini coir inutile tentativo da parte di Carlo v. di espugnare ffletz valorosamente difesa dal Duca di Ghisa, e fu il motivo che determinò Carlo v. a ritirarsi dal mondo, lasciando gli stati imperiali al fratello Ferdinando, ed i regni di Spagna, d'Italia, di Fiandra e delle Indie al figliuolo Filippo.

    Francia e Turchia collegate passano nel mare Ligustico, assaltano la Corsica e la empiono di spavento. Or io non seguiterò questo filo di tante guerre parziali per non essere lungo soverchiamente, di volo toccherò le principali.

    Ora l'isola di Corsica si trovava, come dicemmo, sotto il dominio della casa di San Giorgio: alcune terre al subito apparire dei collegati si ribellarono, altre chiamaron Francia, altre fedeli si mantennero, e fedelissima quella di Bonifazio che sostenne l'assedio dei francesi e turchi, finché al fine costretta alla resa, subì quel!' eccesso di rigori militari barbari ed inumani che rivoltano il cuore a pensarvi. Sampiero della Bastellica apre il teatro delle sue imprese. Ajaccio, e le terre di là da' monti, S. Fiorenzo e tutta la Corsica, eccetto Calvi, nello spazio di quaranta giorni caddero nelle mani dei francesi. Genova all'avviso di così fiera novella deliberò di riacquistare colla forza quell' isola: » e soprattutto, narra il Casoni, fu notabile la magnanimità d'Andrea D'Oria,a cui come a Padre della patria si voltavano in tanto accidente gli occhi, e gli animi de'Patrizii, e questo buon vecchio spinto dall'ardenza del desiderio, poiché ebbe con efficace discorso esortati gli altri a concorrere con tutte le loro forze al sollievo della patria comune, e alla conservazione della Libertà, esibì di consumare nella difesa della Corsica tutte le sue sostanze, e quel poco di spirito, e di vita che ueir ultima età decrepita gli restava. *

    A mirra D'Oria, ed Agostino Spinola con grandissima flotta e grosso polso di fanti e cavalli muovono da Genova per Corsica; sbarcate le genti vanno all'assedio di S. Fiorano, ricuperano Bastia, e dopo una lena

    I' UH t: I.)

    cissima resistenza S. Fiorenzo è costretto ad arrendersi e v' entra vittorioso il principe Andrea. Nel medesimo tempo Agostino Spinola va ad occupare la provincia di Capo Corso, ed oppugna il castello di S. Colombano; atterra e prende il Castellare, mentre la pieve di Casacconi si restituisce all'obbedienza di S. Giorgio. Ma la più bella giornata fu quella in cui Agostino Spinola unitamente al conte di Lodrone assalirono e vinsero i corsi in Merusaglia, nelle pievi di Rostino, d' Ampugnani e d'Orezza. Impedimento ai progressi di Corsica si fu la guerra di Toscana, per la quale Andrea D'Oria fu costretto a lasciare la Corsica per venire nel mare di Napoli affine di tenerne lontani i turchi, che davano il guasto alle riviere di quel regno.

    Per questo avvenimento le cose di Corsica rimasero addietro, quantunque la Repubblica mandasse in quell'isola soccorsi d'uomini e di danaro. La città di Calvi essendo strettamente assediata dai francesi, Andrea vi accorse forte di quarantaquattro galee imperiali.

    Or mentre Andrea presidiava quella piazza. l'armata turco-francese si era mostrata nel mare Toscano e nel Ligustico, e quindi volgeva all'attacco di Calvi. Calvi assediata da queste forze potenti valorosamente resisteva, in fine che i collegali, visto che non si poteva venire a capo, abbandonarono quella piazza per assediare Bastia; ma pur questo tentativo riescilo indarno, i turchi che male soffrivano il non potere dar dentro alle città, subitamente senza nemmeno avvisare i francesi si partirono dall' isola. Per questo, stanchi molti popoli della Corsica, di quella guerra ritornarono all'antica obbedienza di S. Giorgio, mentre tulla l'Europa vide con piacere lo scioglimenlo di quella lega turco-francese che tanto danno aveva recato. Questa contentezza fu anche maggiore quando s'intese che i Ministri di Spagna e di Francia avevano conchiusa una tregua per cinque anni con condizione che ciaschedun Principe si ritenesse quelle piazze, che di presente si trovava. Non però questa tregua pose termine alle contese e guerre parziali, poiché la Corsica nimica dell' estera Signoria. ora si affratellava con Francia per liberarsi di Genova e di Spagna, ed ora con questa per liberarsi di Francia. Corsica votea governarsi da sé, né questo

    d

    istinto naturalissimo poterono soffocare le armi, i patiboli, e le tnannaje.

    Vediamo ora il celebre Antonio D' Oria coronare la fronte d'allori per la vittoria di S. Quintino, Giovanni Andrea, trionfator dei corsari.

    Ma tutte queste vittorie ed altri avvenimenti turbò la morte d'Andrea D1 Oria, avvenuta nel 1560. Giovanni Andrea creato da esso successore nel comando ricevette in pubblico le condoglianze della cittadinanza. Quindi investilo del supremo comando delle forze della Repubblica uscì dal porto a rintuzzare la temeraria comparsa dei corsari che danneggiavano le riviere del mare Ligustico.

    La Repubblica parca clic piegasse alla quiete, quando Sampiero nuovamente si da a sollevare la Corsica e tenta di appiccar pratiche con Francia e col Turco per molestarla. Francia v' inclina ed egli con una banda di seguaci mette pie in quell'isola: i corsi avevano buone ragioni per essere irritati contro il governo, e speciali erano le tasse imposte sui capitali e sulle persone. Or chi considera che un" isola da tanto tempo in preda alle guerre e civili discordie, a rimarginar quelle piaghe vi s" introducano queste misure, dovrà convenire che non a torto si lasciavano i corsi sedurre da un uomo che predicava l'indipendenza, e la nalia Libertà. Conseguenza di ciò le guerre che seguitarono in questi tempi colla peggio de' genovesi (indir accorso urli' isola il principe Giovanni Andrea ristorò la fortuna.

    Intanto i turchi avevano assediata l'isola di Malta che si trovava a duro partito; Giovanni Andrea secondo gli ordini avuti da Spagna andò in Sicilia ad unirsi a quel Viceré per soccorrere Malta; la Repubblica vi mandò Cantillo Camilla con le sue galee. Savoja, Firenze, Napoli e Sardegna fecero altrettanto. Per queste forze dei collegati cristiani Malta fu liberala, e molti genovesi si segnalarono nella difesa di quella città. Questo felice avvenimento fu contristato in appresso per la conquista di Scio fatta dai turchi, e pel massacro dei dieciotto fanciulli Giustiniani e la callività di molti appartenenti a questa famiglia.

    Morto Sampiero, Alfonso Ornano figliuolo di lui viene chiamalo Capo dei corsi, e benché giovinetto medita di vendicare la morie

    del padre, e secondalo da Francia mette l'isola sossopra; quindi per opera del véscovo di Ajaccio Alfonso si determinò di abbandonare la Corsica insieme co' suoi fautori, e pertossi al servigio di Francia dove fé quelle militari prodezze che lo innalzarono a quel sublime grado di espertissimo Capitano. Allora la Repubblica fece pubblicare un indulto generale per tutti quei che avevano portate le armi contro di essa. I corsi spedirono a Genova due Ambasciatori coir incarico di presentare al Doge e Consiglio i sentimenti della loro obbligazione per la clemenza e bontà usata verso di essi. Così la Corsica purgala dai mali semi ebbe un lempo di quiele. Dopo che Genova ebbe a sopportare le dispendiose guerre di Corsica pareva che nel seno di lei fosse una pace da non essere per accidentale avvenimenlo lurbala: ma le umane calamità sono lante e molleplici che a guisa di vene d'acqua scalfiscono laddove non si pensa, e vengono ad inondare in un tratto le opere di molli secoli. Cosi avvenne in Genova per l'origine dei Ponici di S. Luca e di S. Pielro: nei primi vi si comprendevano i nobili del 1528; nei secondi i nuovi ascritti da quell" epoca in qua: meglio, nobili; popolari, n Rimanendo (Casoni) dunque nel corpo della nobiltà del presente tempo questa divisione di due Portici di S. Luca e di S. Pietro, ed essendo quel di S. Pietro molto più numeroso dell' altro, venivano i nobili di esso a restare mal soddisfalli della Riforma del 1557 delta del Garibello, perché in conseguenza della medesima, essendosi introdotla 1' eguale dislribuzione delle cariche pubbliche fra i due Ponici, i soggelli o sian le persone di esso, come più numerose, possedendo pari numero di luoghi nei Consigli, e nei Magistrati venivano più di rado a partecipar delle cariche, e delle dignità pubbliche. Per quesla cagione essi ne'segreti ragionamenti fra di loro dolevansi, che la Legge del Garibetlo avesse servilo all'ambizione de'nobili di S. Luca, i quali non potendo tollerare la parila con loro, avevano sovvertito il buon ordino delle cose, e le santissime Leggi dei dodici Riformatori. Che dimenticali di essere stati, in virtù della Riforma del 28, fatti capaci del Dogato, proibito loro da alcuni secoli per Legge, avessero ingiustamente, e ingratamente tolta da mezzo quella Legge, che rendeva uguali tutti i Patrizii. Essersi con tal mezzo sturbato P unione civile, e divisa la Repubblica in quelle due (azioni, le quali per singolarissimo dono di Dio estinte per mezzo della Riforma, erano state dall" ambizione degli uomini di nuovo suscitate a lacerare la Patria. Richiedeva la sicurezza pubblica, e la comune dignità dell'ordine nobile, che si annullasse la Legge del Garibetto, la quale oltre l'essere ingiusta, e faziosa, era nulla, come fatta senza il legittimo consenso del Senato, e de'Consigli, avendola Àndrea 1 >" Oria cavata per forza coir autorità sua dai quattro Senatori del Portico di S. Pietro, e da un Magistrato, deputato non a distruggere le Leggi fondamentali dello stato, ma a rimediare ad alcuni inconvenienti, e disordini sopravvenuti nel Governo. Questi erano i sentimenti de' Nobili di San Pietro. Ma i cittadini di minor qualità dell'una, e dell'altra fazione, i quali essendo privi di aderenze, e di parentele, giammai arrivavano a1 Magistrati e alle cariche, per ao'altra ragione si querelavano essere stata la Legge del Garibetto un' invenzione e per mettere io mano di pochi il Governo, che soleva prima a tutti comunicarsi. Che tolto via ogni uguaglianza ci vile, si era fatto uno stato di cento cittadini, fra quali si ripartivano le cariche, senza che altri ne partecipassero; e quindi gli uni, come perpetui nei Magistrati abusavano l'autorità del Ministero, esprezzavano gli altri; e questi vivevano in bassa fortuna negletti e quasi come sudditi. Essere espediente rimettere il Governo nelP antica forma, fuori della quale correva rischio la Repubblica rimasta oggi mai all'arbitrio di pochi di precipitare nella servitù, e nella lirannide loro. »

    Si aggiunga a tutto questo il desiderio di cose nuove manifestato dalla plebe, la quale di mal animo soffriva il peso delle gabelle. ed il lusso eccessivo dei nobili che faceva un indegno contrasto colla povertà dei manuali, i quali erano obbligati a logorarsi la vita per sostentarla. Succedettero in questo tempo quelle gare de' due partiti che fruttarono tanto danno alla patria quanto le guerre; « Spagna volendo sostenere il partito pericolante di S. Luca. mandò un' armata per

    ciò, ma Giovanni Àodrea D'Oria non consentendo che le insegne spagnuoìe sventolassero in Liguria per questo fine, si adoperò caldamente perché la flotta spagnuola n'andasse dove era venuta. Ma quindi temendo che il partilo di S. Pietro si unisse ai francesi per tentar novità, si mise alla testa di quel di S. Luca e cominciò colle armi a portar

    10 spavento nelle riviere che obbedivano ai nobili di S. Pietro. Queste ed altre calamità afllissero Genova fino a che le leggi cosi dette di Cotale, perché compilate in quella terra dai Ministri e Principi che avevano stabilito

    11 compromesso, e dai deputati delle due fazioni nobile e popolare non posero fine a tante sciagure. Queste in sostanza portavano la seguente Riforma.

    Primo, che tutti i cittadini ammessi al Governo rimanessero compresi in un unico ordine, sotto nome dei Nobili, aboliti i nomi de'vecchi e nuovi, di aggregati e popolari, e abolite le distinzioni de' due partiti di San Pietro e di S. Luca, di dentro e di fuori, e tutte le altre denominazioni, dovendo esser i suddetti Nobili e quei, che in appresso sarebbero ascritti alla Nobiltà, in tutto eguali fra di loro, come se nel medesimo tempo fossero stati ammessi al Governo.

    Secondo, che quei Nobili, che in virtù delle Leggi del 1528 avevano lasciati i loro cognomi, e le loro insegne, assumendo quelle del comune Albergo, dovessero ripigliare, e usare nel!' avvenire i cognomi. e le insegne della loro propria famiglia.

    Terzo, che da tutto P ordine della Nobiltà si costituisse un scelto numero di cento venti Padri, i quali per prudenza, per virtù, per esperienza, per età, e per meriti verso la Repubblica fossero degni della dignità Senatoria, i nomi dei quali venissero posti in un' urna, dalla quale avessero ad estrarsi due volte l'anno cinque nomi, dovendo i tre primi supplire nel Senato, e li due ultimi nel Collegio de' Procuratori, in luogo di quelli cinque, che avessero terminato il loro biennio, dovendo poi l'urna esser riempiuta di altri soggetti eletti da'due Consigli.

    Quarto, che se il Senato fosse costituito di dodici Padri, ed il Collegio de'Procuralori d' otto, oltre de' Procuratori perpetui già stati Dogi; il maggior Consiglio fosse di quattrocento, dal numero dei quali si facesse scelta di cento pel Consiglio minore, dovendosi dare la vacanza di un anno, e amendue i quali Consigli fossero eletti da trenta soggetti nel principio di ciaschedun anno. dovendo i trenta Elettori esser fatti dal minor Consiglio.

    Quinto, che l'autorità di fare Leggi nuove spellasse a due Collegi, ed al minor Consiglio con due lerzi de' voli in quelle materie, che non- fossero conlrarie alle leggi precedenti, e quando si trattasse di derogare ad esse, potessero i due Collegi, e minor Consiglio slmilmente farlo con i quatlro quinli de' voti, e con tal numero polessero ancora far le alleanze e convenire della pace e deliberare la guerra.

    Sesto, che l'imporre collette, tasse e gabelle , spettasse al maggior Consiglio con due terzi de' voti.

    In quanto al resto variata solamente la forma di eleggere il Doge, e qualche altro Magistrato, si della città, come dello slato, la Repubblica rimase ordinata secondo lo leggi del 1528. Queste leggi furono accettale e giurale dal Senato solennemenle nella Metropolitana il di 17 di marzo 1576. « Dopo lunghe dilazioni, dice bene il Varese, e un piatir ostico, e un infinito travagliarsi si contentavano di un componimento, il quale abbujava molte nobili famiglie, prima risplendentissime per (smisurate ricchezze. « Ma il D' Oda ricevette il titolo di Conservatore della Libertà, e quindi gli venne innalzata una stalua marmorea nel cortile del Palazzo Ducale alla sinistra del grand'Andrea. Alle pacificate discordie metteva fine una sanguinosa tragedia. Bartolommeo Coronato convinto di avere congiurato contro il Governo era dato al boja, insieme con altri suoi compiici.

    Gli anni che seguono non presentano cose notabili; solo è da notarsi per le sue conseguenze come Finale fu presidiato dalle soldatesche spagnuole, contro la volontà e le pralichc usale dalla Repubblica ad impedire che la Spagna tirasse a Milano per questa via il traffico precipuo de' sali, e per mettere in controversia quel dominio che la Repubblica per più secoli godeva sopra del mare Liguslico.

    La peste non mancò a desolar in questi tempi la Liguria, e la povera Genova; e per giunta il Duca di Savoja, essendo morto il Marchese del Finale, s'impossessò di alcuni feudi, che pretendeva dipendenti dal suo alto dominio; che fu poi quest'atto quel malo seme che generò gli odii e le guerre feroci tra la Repubblica e Savoja. Olire a ciò venne assalita Ovada dal Governator di Milano, si accrebbero i disgusti per la ragion de' confini tra il Duca di Savoja e la Repubblica; una Riandrà di corsari presero a saccheggiare le riviere; a compiere tante disgrazie venne la carestia, e con questa il maggior disordine della città.

    Un fatto luminoso pareva prometter molto bene, ma non durò che soli tredici giorni; voglio dire l'assunzione al Pontificato di Urbano vii. nobile genovese della famiglia Castagna.

    Questo secolo decimosesto ebbe fine colla venuta in Genova di personaggi illustri; e di due Principesse che andavano a marito: 1' una fu Margherita sorella dell' Arciduca Ferdinando d'Austria che s'impalmava con Filippo erede del trono di Spagna; l'altra P infanta Giara Eugenia destinata iti isposa all'Arciduca Alberto d'Austria, già Cardinale.

    1600.— L'anno primo di questo secolo decimosettimo fu memorabile per la spedizione intrapresa da Filippo ni. Re delle Spagne di un'armata in Affrica, per espugnare la città di Algeri, e spegnere quel nido di corsari tanto infesto a tulio il commercio della crislianità. Vi concorsero colle proprie galee il Pontefice, il Duca di Savoja, e il Gran Duca di Toscana: la dirczióne dell'impresa venne affidata al Principe Giovanni Andrea D'Oria. Ma 1' Ammiraglio trovate quelle coste benissimo difese, e credendo temeraria l'impresa non volendo arrischiare tante forze marittime, e terreslri, si ridusse di bel nuovo nel porto di Genova. E fu questa l'ultima sua spedizione, poiché essendo in età avanzata, ed incapace a tollerar più fatiche, rinunciò in questo medesimo anno la carica di Ammiraglio supremo di Spagna, che fu conferita dal Re Filippo al valoroso Principe Filiberto di Savoja figlio di una sua figlia.

    Armatosi il Duca di Savoja per cacciare dalla Yaltellina gli spagnuoli, e quest'impresa

    essendo stata interrotta per la morte di Gregorio, e 1" elezione di Urbano vili, al Papato, non volendo starsi ozioso e spettatore delle altrui prove deliberò di muover guerra alla Repubblica pretessendo un vieto diritto sul Marchesato di Zuccarello, di recente comperalo dalla Repubblica dall'Imperatore.

    Tastò Venezia se voleva entrare in lega, ma quel prudentissimo Consesso di Padri ricusò; vedendo che le mire del Duca erano d'ingrandirsi a spese altrui. Francia fu più fàcile e volentieri aderì alle proposte del Duca, ed in un Consiglio di Ministri queste due potenze si spartirono sulla carta il dominio della Repubblica, e fallì non si rompesse la lega perché tutti e due volevano per so la capitale. Con tanto fuoco alle spalle e di fianco Genova era per essere incendiata; ma la prudenza e la vigilanza operarono ben diversamente. Spagna mandò convenienti sussidii, e la Repubblica fece una levata d' uomini, non senza sacrificio. Né sola provvide all'imminente bisogno, perché varii cittadini offersero uomini e danaro a sostenere la guerra. Tra quali il Principe D' Oria servendo a tutti d'esempio esibì quattrocento archibusieri armati e pagati da lui insino a guerra finita. Gian Francesco Serra ducenlo uomini similmente da esso pagali a guerra finita ; e cento da Pier Maria Gentile. Il Governator di Milano ingrossò il suo presidio aftlnc di difendere la Lombardia e quando che fosse soccorrer la Repubblica.

    Genova si fortiGcò, e maturò 1" idea di quella ultima cinta di mura che or si vede, e la rende fortissima. Intanto nel mese di marzo del 1625 sboccò per le vie dell'Alpi in Italia l'esercito francese, il quale pervenuto ad Asti si unì colle savojarde falangi. Quattordici mila erano i fanti francesi, eguai numero que' di Savoja; senonchè la cavalleria francese non eccedeva i mille cinquecento, ove quella del Duca andava oltre i duemila cinquecento, con grosso apparato d'artiglieria e con provvisioni corrispondenti. L'esercito di Francia era comandato dal contestabile Ledighiere, quel di Savoja dal proprio Duca. Il primo attacco fu portato ad Ovada, e quindi a Rossiglione che urtati da tanto numero di soldatesca dovettero, abbencbè con magnanimo ardimento si fossero difesi, do

    vettero soccombere. Il Duca visto che le strade per Genova erano anguste e non atte al trasporto delle artiglierie lasciò sufficiente presidio nelle terre prese, e scelse la via della Bocchetta per venirsene più spedito nella capitale. Novi non si potendo difendere s'arrese ai nemici; i collegati andarono sopra Gavi e Voltaggio. In quest' ultima terra i collegati fecero dei genovesi un orribile macello, e molti personaggi illustri vi rimasero prigioni. Voltaggio perché si difese accanitamente, perché i suoi difensori bravissimi non cederono palmo di terra senza sangue, fu barbaramente dato a sacco; « fu tale, dice il Casoni, il miserabile eccidio della terra medesima saccheggiata con estrema crudeltà da' vincitori, che non solamente male menassero le case, ma profanarono eziandio empiamente le chiese, nelle quali erasi rifugiato il sesso imbelle, non perdonando né alla pudicizia delle donzelle, né a'vasi sacri, né alla tenera età dei fanciulli. nel che tanto innanzi trascorse la loro barbara frenesia; che dopo essere rimaste incenerite alcune private abitazioni fu appiccato altresì il fuoco ad un campanile, in cui eransi rinchiuse alcune donne co' loro fanciulli, che tutti divampali infelicemente perirono. »

    Siccome Annibale contemplò Roma dalle vette dell'Appennino, il Duca di Savoja, dopo questa vittoria salì a rimirare la sottoposta valle di Polcevera, e quella corona di monti che Genova signoreggia. Mai più il punse vivissimo desiderio dì unire quella gemma alla sua corona ducale. La gemma era dura, durissimi i petti che la difendevano. Però avvisando, prima d'impadronirsi di Gavi, vi diede 1' attacco e in poco di tempo lo ebbe nelle sue mani. L'acquisto di Gavi seminò discordie tra i collegali, poiché tanto Francia, quanto Savoja volevano presidiar de' loro soldati la fortezza; in Gne il conteslabile allegando che in virtù della capitolazione di Susa doveva lale fortezza restare in potere del Re, volle assolutamente pigliarne il possesso. Il Duca irrilalo mandò un espresso al Re; altrettanto fece il contestabile, se nonché fu il corriere di esso arrestato in Torino d'ordine del Duca, il quale voleva con quest' atto prepotente impedire che il messo francese giungesse primo io corte di Francia. Ad ogni modo il Re non volle risolvere senza prima aver lettera del suo Generale, e quindi confermò le cose fatte da esso. Questi fatti generarono diffidenza tra i due Capitani, e mentre il Duca di Savoja si affaticava a indurre il Contestabile a guidare 1" esercito ali' oppugnazione di Genova; quegli negava assolutamente adducendo che se tanto di resistenza, e di vigorosa difesa si era incontrato in quelle terre conquistate a prezzo di sangue, quanta mai era per riscontrarsene volendo oppugnare una città fortemente munita e dalla natura e dagli uomini. I genovesi essere tanto risoluti e costanti in guerra, quanto amanti della loro patria, che non I1 avrebbero lasciata finché nelle lor vene scorresse una goccia di sangue. Inoltre il Capitano francese rappresentava impossibile l'impresa per la difficoltà delle comunicazioni, e per la non possibilità di essere F esercito provvisto di viveri e foraggi. In ultimo temeva Milano e diceva che quel tentativo portava lo sfacimento dell'esercito francese e un"1 onta ad esso non cancellabile. Allora Carlo Emmanuele pensò di operare da sé, tanto l'animo aveva rivolto alla conquista di Genova, che si lasciava traspostare da pazzo divisamente. Mandò il proprio figlio, il Principe Vittorio alla conquista della riviera di ponente.

    Questi avvenimenti avevano sparso nella capitale lo spavento, tanto più che come suole, erano stati ingranditi dalla fama: già correa una voce che l'inimico fosse a poche miglia da Genora, i timorosi o meglio snaturati fuggivano con le più ricche masserizie, ed il popolo che sempre ha dovuto pagare col sangue proprio le altrui paure, si lamentava, e andava deplorando la temuta sovversion della Patria. Il Senato costantemente provvedeva ai più urgenti bisogni, e venne fino a proibir sotto pena di perpetuo esilio la partenza dalla città a chiunque si fosse, imponendo la confìscazione de' beni a coloro che osassero estrarre ori ed argenti o cose di valore, e perché dubitavasi di qualche sommossa, e perché un Capo esperto attendesse alla difesa della città, il Senato nominò supremo Comandante delle armi Carlo D'0ria,il quale con parte delle genti pagate, col popolo distribuito sotto diversi Capitani

    in centurie fu destinato particolarmente alla custodia delle mura. I forti e le trincee furono affidate alle soldatesche pagate. •< Ma conciossiachè ( Casoni ) non fossero queste sufficienti a guernire un si vasto andito di fortificazioni, fu egli risoluto d'inviare a Savona le galee con ordine ai due commissarii colà residenti, che lasciato munito il Castello imbarcassero le truppe, e le conducessero alla città, il quale ordine incontanente posto ad esecuzione fu poscia rivocalo, ed i commissarii non per anco sbarcati dalle galee ritornaronsi alla difesa di quella terra, nel quale accidente apparve l'esimia fedeltà, e divozione di quel popolo verso la Repubblica; mercechè siccome diede non ordinarii contrassegni di tristezza, e di doglia alla levata del presidio; cosi proruppe in eccessi dì conlentezza, e di giubilo nel punto, che videlo ritornato ; e rimasta quasi un intero giorno la città priva di Rettori, stettcsi la cittadinanza in grandissima amarezza, seuza che veruno mostrasse pur desiderio del governo di Savoja, o proferisse parola, che ne dasse alcun indizio; cosa in vero degna di eterna memoria, e bastante a cancellare ogni macchia, che per gli andati tempi avesse offuscata la fedeltà di una sì illustre città. •»

    II Consiglio quindi affine di più prontamente provvedere a tulle le urgenze della città, elessc un Magistrato di cinque soggetti che con suprema e dittatoria podestà moderassero gli affari della Repubblica. Furono questi un Giorgio Centurione, Bernardo Clavarezza, e Pietro Durazzo già insigniti della carica di Procuratori perpetui; Opicino Spinola senatore, e Francesco De' Marini procuratore. Questo Magistrato operando attivamente fece gran bene, e secondato dal Generalissimo, il menzionato Carlo D'Oria, si giunse a sedare i tumulti, a soffocar le paure e a ridestare il coraggio.

    Non mancarono ad eccitare il popolo alla difesa della patria i sacri oratori, tra i quali un Nicolo Riccardi domenicauo con la sua concitata eloquenza infiammò i cittadini di santo amor patrio, e numerando le turpitudini, e le violenze commesse dai nemici a Voltaggio gli chiamò nemici di Dio,cderesiarchi, poiché quella profanazione dei tempii e delle sacre immagini certamente fu cosa non degna di chi porti il nome di cristiano. Furono ordinate pubbliche preci, ed una solenne processione, in motivo di che si trasportarono per la città divotamente le sacre ceneri del Precursore di Gesù Cristo, e la santa immagine Edessena. Colai festa aveva un non so che di meraviglioso, vecchi, donne, giovani e fanciulli pregavano altamente Iddio per la salute della Patria. Santissima preghiera eli" era: e queir invocar Dio in colali perigliosi cimenti dimostra la pietà e la religione di uà popolo che adempiuto al primo dovere di procurare coi mezzi la propria difesa, rimette quindi I" esito delle umane avventure nelle mani di quel Dio che da fanciullo cominciò ad invocare per sé e per la Patria. La preghiera infonde coraggio e vita; T nomo quando sa che al suo Dio raccomanda la causa della sua Patria si sente doppio di forze, ed animato dalla fiducia riposta in Dio e nella giustizia del suo operare corre volenteroso al cimento, e forte precipita sul codardo inimico. Oh! s'egli è martire di tanto sacrificio, non muore bestemmiando, ma sibbene le ultime parole suonano

    su quel labbro tremebondo, Dio. Patria

    Adunque mentre la città era rivolta al Gelo, come se Dio abbia voluto dimostrare che aveva accolli i suoi fervidi voti, giunse in porto il marchese di S. Croce, luogotenente generale di mare della Corona Cattolica con venticinque galee tra napolitano, siciliane, toscane e pontificie, concedute quest'ultime dal Gran Duca di Toscana, e dal Papa ad nso della Repubblica. Sopra di esse erano duemila settecento fanti veterani spagnuoli e napolitani. Nel dì seguente (27 aprile 1623) mentre il Senato ed il popolo stavano nel duomo facendo voto a S. Bernardo di festeggiare il suo di, e di edificare in onor suo una chiesa; giunse in porto una galea con un milione di colonnati, di ragion de' privati proveniente dalla Spagna, e per fortuna avendo scansato per via il Duca di Ghisa che tutto aveva adoperato per tagliare la comunicazione tra Spagna e Genova a costo anche di fare il pirata. Vuoisi ricordare ad onore del nome genovese, come parecchi mercatanti e signori residenti in Napoli, mandassero soccorsi di ogni specie, officiali, bombardieri, polveri, viveri ec. In singolar modo

    si mostrò generoso e tenero della Patria un Ravaschiero Principe di Satriano, il quale profferì di levare un reggimento di fanterìa, e di condursi alla testa di esso a Genova. Il Milanese mandò esso pure soccorsi, a talché la Repubblica potè quasi impavida ergere la fronte, e minacciosa ostarsi al nemico.

    Or avvenne che Galeazze Giustiniano condottiero di quattro galee genovesi, s'impossessò della capitana di Savoja coli'acquisto dello stendardo, e portolla in trionfo nel porto. Questo succedeva in mare; in terra Francesco Barce d'Albenga saccheggiò i villaggi del Duca, e quindi Girolamo Giustiniano commissario dell'armi nella stessa città, e Grimaldo Spinola commissario in Porto-Maurizio, andarono a campo ad Oneglia, terra appartenente al Duca, e la ridussero a capitolare, ricevendo nella terra il presidio della Repubblica. Ma le cose cambiarono d'aspetto; poiché Vittorio Amadeo trovando modo di calare giù pei monti alquanti pezzi d'artiglieria con venticinque reggimenti di soldatesca s'accampò intorno alla Pieve, e fulminando continuamente contro di essa, abbenchè per tre di il presidio valorosamente si fosse difeso, pure in sull'ultimo tenuto per disperato il partito, abbandonò la terra precipitosamente. Quivi il Principe fece prigionieri assai uomini segnalali, e procedendo favorito dalla fortuna e dalle armi acquistò senza menomo ostacolo la città di Albenga. Quando ne giunse notizia a Genova il Senato determinò « di sciorre i sudditi tutti della Repubblica da Noli a Ventimiglia dal giuramento di fedeltà, siccome fosse lor lecito di comporre co'nemici senza incorrere la noia, e la pena di ribellione, purché serbassero nel cuore la fedeltà alla Repubblica stessa per appalesarla ogni volta che l'opportunità lo richiedesse. •» In poco di tempo il Principe Vittorio ebbe conquistata tutta la riviera occidentale in fino a Finale, salvo Monaco. Allora i Ministri di Spagna, che in Genova risiedevano, inviarono alquante galee a rinforzare i presidii di Finale, e di Monaco; e la Repubblica temendo di Savona piazza importantissima vi mandò due commissarii generali con buon nerbo di truppe.

    Le cose erano a questo punto, quando la mortalità cagionata dal caldo e dallo- smoderato uso del vino, e de1 frutti degli alberi cominciò a consumare l'esercito de' collegati. Aggiungasi a tutto ciò che i soldati tirati a quest'impresa dalla speranza di ricco bottino, ora vedutisi tra le angustie de1 monti, e con tant' argine a superare prima di poter por le mani nelle casse dei genovesi, disertavano intolleranti di patimenti e di disagi. Non perciò il Duca deponeva quel suo accanito pensiero di atterrare la superba Genova. In Gavi e Voltaggio facca fabbricar scale da muro, ed ammassava guastatori, vettovaglie, muli e bovi per venire all'assalto. Occupò varii feudi imperiali posseduti dai genovesi in valle di Scrivia, ed inviò Carlo Felice suo figliuolo legittimato all'acquisto di Savignone feudo de' Fieschi, e posto a sei miglia dalla parte settentrionale di Genova, affine di potere senza impedimento inoltrarsi nella valle del Bisagno ed assalire dalla parte più debole la città.

    Ali' annunzio di tale spedizione Genova mandò colà Girolamo Chiesa commissario dell' armi del Bisagno con un corpo di gente pagata. Il Chiesa ruppe i nemici e appiccò il fuoco a quella terra, circondando la rocca dove era Carlo Felice: questo bastò perché il Duca varcasse i monti a liberare il figlio, e secondo il suo divisamente, a camminare fin sotto le mura di Genova. Venne sulla Scrivia fra Busalla e Savignone con ottomila fanti; locchè inteso dal Chiesa si ritirò non volendo cimentarsi con forze tanto disuguali, e questa sua determinazione agevolò al Duca il cammino, onde giunto a Savignone, raccolti i suoi ed incendiata la rocca sen venne ad un passo per calare in Polcevera. Se non che Stefano Spinola commissario di quella valle accortamente prevedendo il disegno del Duca munì di forte presidio quel passo che valorosamente glielo conlese. In questo mezzo il Duca ebbe avviso che un grosso corpo di genovesi dall' altra banda del monte marciava ad attaccarlo; allora egli salito sulla montagna eminente chiamata del Lupo vide l'oste nimica, e schierò le sue genti in battaglia secondo le angustie e la disuguaglianza de' colli il comportavano. Marciavano alla testa dei genovesi i due commissarii delle due valli di Polcevera e del Bisagno con tutte le loro milizie. •- Appicciatasi (Casoni) quindi la sca

    ramuccia dopo averla i piemontesi sostenuta da un'ora di sole insino alle venti, incominciarono a fluttuare, ed allora i genovesi conceputo maggiore ardire diedersi con tale calore ad incalzarli, che disordinatisi,e rapito il Duca dalla corrente dei suoi, portò un manifesto pericolo della vita da un colpo di schioppo nel pomo della sella del suo cavallo* rimanendone mortalmente impiagato Giovanni Michele Croio suo favorito segretario. Sviluppalosi ultimamente il Duca non senza fatica, con una sanguinosa ritirala ripassò i monti senza intraprendere alcuna altra cosa, perduta alTatto la speranza di potere con frutto di nuovo intraprenderla. « Dopo questa rotta, i polceveraschi animati vieppiù dal pensiero di tormentare i nemici con frullo, riescirono a penelrare perfino ne' loro alloggiamenli e facendo prigionieri i savojardi, ed arricchendosi di bollino ritornavano alle loro case: molti ne uccisero, molli ne sbandarono, ed una volta entrati impetuosamenle nei loro quartieri fra Gavi e Carosio rapirono loro quattrocento buoi condoli! dal Piemonte per servigio delle arliglierie. I buoi si portarono in cillà, ed il Governo sborsatone il giusto prezzo ai polceveraschi se li tenne. Ciò fu un colpo assai doloroso pel Duca, perché si vedeva privato del mezzo di poter ricondurre con seco le sue arliglierie, che finirono per rimanere in polere della Repubblica.

    Il Duca persuaso che 1' aequislar Genova per forza era impresa dura anzi che nò, si condusse nel Monferrato lasciando in Gavi ed in Novi un presidio, col nome di avervi in breve a ritornare; ma sì che allora era costretto a difendersi e a non offendere posciachè la gente spagnuola spingevalo e lormcntavalo ne' proprii suoi stali ; onde gli venne il bisogno di richiamar le sue genti dalla riviera occidentale.

    In poco di tempo Novi, Ovada cadono in potere della Repubblica ; e mentre le terre soggette a questa si riacquistarono venivano in Genova tremila fami e quattro milioni di colonnati, sicché soccorsa la città d' uomini e di danaro polo attendere più fiduciosa al riacquisto di tutta l'occidentale riviera. Albenga all'arrivo della flotta genovese si arrese ; Oneglia perché non volle assoggcltarsi al dominio della Repubblica ( eh' era pure italiano) preferendo di darsi a Spagna, fu assalita, presa e saccheggiata. Portomaurizio luogo forte ed eminente era più fortemente difeso dai francesi e piemontesi, ma quando videro inutile la resistenza resero la terra e furono condotti a Nizza da una galea genorese. Dopo la presa di Portomaurizio tutte le altre terre si diedero alla Repubblica salvo il borgo della Penna, e la città di Ventimiglia; quest' ultima essendo presidiata di assai numero di francesi e piemontesi, non pensarono di espugnarla per allora essendo la stagione estiva tanto inoltrata che credettero di arrischiare le truppe a queir impresa e differironla al fine del prossimo autunno. Perciò Tarmata genovese si ridusse a Savona, e quindi a Genova, e si resero a Dio pubbliche grazie per le terre riconquistate. Rinforzata la Repubblica nuovamente d'uomini e di danaro, in appresso spedì altra armata al ricupero di Yentimiglia e terre adjacenti.

    Ora il Duca di Savoja incalzato dagli spagnuoli era costretto a difendere il suo, anziché conquistare 1' altrui. Perlocchè assalito nel cuor de' suoi stati era a cattivo partito. Saldò la piaga la sospensione d" armi fra le corone, in conseguenza di che Genova e Savoja cessarono dalle offese. La Repubblica, eccetto il castello di Penna non ancora ricuperato, possedeva oltre Oneglia ed Ormea più di quaranta terre ed assai villaggi tolti al nemico. In questo tempo essendosi scoperti in città de1 partigiani di Savoja furono dati al boja, e parte dichiarati ribelli, a loro spianaronsi le case; Vincenzo Marini ebbe tronca la testa.

    Andato in Francia il Cardinale Francesco Barberino nipote di Urbano Pontefice regnante con missione d'intromettersi fra le parti belligeranti aliine di comporle alla pace, ma indarno operando, tostamente se ne riparti, e Tenne accolto erre voi mente negli Mati della Repubblica.

    Le passate sciagure, la difTìcoUà dcir impresa, lo sperimentato'valore dei genovesi non persuasero punto il Duca di Savoja a tenere per disperato il partito d'impadronirsi di Genova; che anzi nell'anno 1626 apparirono non ambigui segnali del suo nuovo armamento. «E tanto più chiaramente (Casoni) trapelavano questi, quanto agl'antichi era usi aggiunti

    nuovi stimoli ; perciocché oltre l'ira dalle vicendevoli offese partorita, ed il crucio sperimentato per non avere potuto a suo talento sfogarla, eccessivamente infiammava l'animo suo il considerare, che dopo di avere con tanto profitto, e con tale aspetto di vittoria cominciata la guerra, avessela poi e cosi infelicemente e con tanto scapito degli affari e del nome suo condotta a fine, perdendo non solamente tutto il conquistato, ma ancora parte del proprio. Per ricuperare dunque la fama delle armi sue, ed il suo, spinto dalP innata generosità e cupidità di gloria ed ingrandimento, usando ogni studio per crescere le forze e l'erario, conducea qualunque straniere, e specialmente francesi e svizzeri; perché tutto ciò non bastava all'intento suo, erano le maggiori sue industrie rivolle ad ottenere da Francia tali sovvenimenti, mercé dei quali potesse fare una gagliarda impressione nel Milanese non meno, che nella Liguria. Favoriva queste dimando il contestabile Ledighiere, il quale per essere più spedito nelle operazioni erasi fermato alle stanze nel Piemonte, e per uscire al tempo opportuno in campagna concordemente sollecitava quella corte a riempire gli squadroni, ed a soldarne dei nuovi; la qual cosa gratamente in Francia con applauso ricevuta, uscirono dal Gabinetto promesse ningnifiche al medesimo Duca, e fecevisi le necessario provvigioni con apparenza, che avesse in quest" anno a rinovarsi in Italia la guerra con ardore, e con forze maggiori, che nell' anno precedente. Standosi su questa aspettazione la Repubblica, e paventando di essere alla prima stagione fatta oggetto dell'armi francesi e savojarde, intese con somma diligenza a munirsi, e conciossiachè avesse ella collocate le sue principali speranze negli spagnuoli, diede perciò più agevolmente orecchio al partilo del marchese Santa Croce, e del Castagneda di conlrarrc una più ferma alleanza, e più intima colla corona di Spagna per la difesa degli Stali comuni con obbligarsi a mantenere quatordicimila fanti, e millecinquecento cavalli a sue spese, ed il Cattolico reintegramela per due terze parti mediante l'assegnazione nei suoi regni di Spagna, affinchè l'esercito più abbondante di fanteria, e di cavalleria, che il Re scambievolmente prometteva di

    mantenere nella Lombardia, ricevesse a'debiti tempi le paghe. Obbligossi altresì la Repubblica di somministrare al Governator di Milano 70,000 scudi al mese con la condizione medesima di esserne reintegrata mediante la prenominata assegnazione. Fu ancora patteggiato, che si le genti della Repubblica, che del Re dovessero essere con brevità in pronto, acciocché assalendo i nemici il Milanese invadessero i genovesi dal Iato della riviera occidentale il Piemonte, ed essendo assalito il Genovesato procedessero innanzi gli spagnuoli a danni di Savoja da quello del Monferrato. Questa confederazione apportò grandissima utilità alla corona di Spagna. per cui la Repubblica spese in quest' anno 800/m. scudi, senza indi ottenerne le assegnazioni, avverandosi in tal guisa ciò, che d'ordinario suole intervenire, che la compagnia de'grandi nuoce agi' inferiori, senza facoltà prudentemente operando, pur di dolersi."

    Erano in questo stato le cose quando i Ministri di Spagna, e di Francia introdotte segretissime trattazioni di pace affine di non proceder oltre negli affari della Valtellina, nel mese di marzo di quest'anno in Monzone, terra dell'aragonese, sottoscrissero le capitolazioni della pace, e stabilirono che rispetto alle differenze fra Genova e Savoja, dovessero queste presentemente sopirsi mediante una tregua di mesi quattro, nel qual termine destinassero i due Principi a comporle, se non le terminerebbero essi Principi costringerebbero il loro alleato ad osservare la loro decisione. Questo trattato danneggiava i veneziani, ma più di loro se ne lamentava il Duca, perciocché vedeva rotte le vie ai suoi vasti disegni. Tanto brigò che la pace stette in sospeso e la guerra imminente ; perché passati i quattro mesi e Genova e Savoja cominciarono a tastarsi un po' acremente, e tanto che il Duca con un inganno poco mancò non s'impadronisse di Zuccarello. Terminò quest' anno col dar principio ali' ultima cinta delle mura che tutta circonda la città da oriente ad occidente.

    Nell'anno 1628 si cominciarono pratiche per stabilire la pace fra Genova e Savoja, ma tutto fu indarno; anzi dalle mene di avidi Ministri ne venne un maggior danno all'Italia, perché Spagna e Savoja pretendendo al

    Monferrato cospiravano insieme all'acquisto di esso. Queste mire di Savoja operavano una quiete, che poi si vide che quantunque intenta ad altro, non quietava ma moveva sorda una guerra; fatale se riusciva l'intento.

    Scampata la Repubblica da quella umilii trama fomentata da oltre Alpe, ed ordita io Genova da Giulio Cesare Vacchero (fedi Capo 8°) ricevette l'Ambasciatore di Lodovico xin. vincitor di Susa,e liberator di Casale, che veniva in Genova a svelare nuove trame di Savoja e Spagna, che secondo esso, si erano secretamente collegate a danno della Repubblica. O finte, o vere queste notizie misero in apprensione i! Senato; ed indi spedì in Susa presso quel Re di Francia Agostino Pallavicino con scerete instruzionl II Re accolse il Pallavicino con amorevolissime dimostrazioni, e quindi accomiatatolo, usci di Susa e tornossi nel suo reame.

    Ora gli annali manifestano cose non del tutto importanti per un breve cenno di questa storia genovese, come sarebbe la spedizione di Giacomo Filippo Durazzo Ambasciatore straordinario alla corte di Spagna, e l'arrivo in Genova di Maria Infanta sorella di Filippo iv. Fu in quest'anno (1630) formato un Magistrato per la continuazione della fabbrica delle mura, e dopo tre anni la Repubblica mandò in dono al Pontefice due grandi tele dipinte da Andrea Ansaldo, in una delle quali era in pianta, e nell'altra prospetticamente delineata la nostra città colle nuove mura all'intorno di essa. Morì in fin di ques'anno il valoroso Ambrogio Spinola, denominato 1' espugnator delle piazze ; ma di costui dirò largamente parlando di quella nobilissima famiglia cui appartenne.

    Fra gelosie e sospetti, passarono degli anni senza che strepitosi fatti avvenissero in Genova. Dico fra gelosie e sospetti, perché ora Francia si mostrava amica e si sospettava di Spagna; ed ora Spagna amica e Francia contraria; Savoja nimica sempre.

    In ultimo il Re di Spagna arbitro delle differenze tra Genova e Savoja pubblica i capitoli della pace: ma le parti non vi acconsentono, ed egli rimette la pratica nelle mani del Governator di Milano, ma non finita si conchiude finalmente per opera del Cardinale Infante di Spagna. E questa pace fu il frutto di quasi ulto anni di maturazione, ed impiegò lo studio di più Principi e di altrettanti Ministri!

    Intanto Francia e Spagna erano venute in aperta rottura, e si predavano rcciprocamejite le navi sul mare, e spesse scaramuccie e battaglie succedevano anche in vista di Genova e della riviera occidentale.

    Or avvenne che giunsero in porto dieciotto galee del Cattolico governale dal Duca di Fernandina, e venendo 1' armata francese incontro alla citlà, il Comandante mandò al Duca la disfida, invitandolo ad uscire dal porto e a battersi seco. Ma il Duca non si* tenendo obbligalo ricusò, ed anzi ricorse alla Repubblica, perché provvedesse affinchè i francesi non tentassero di molestarlo nel porto medesimo. Il Governo provvide a ciò, desideroso che nulla accadesse per non romper l'amicizia coi francesi, e venire ad una rottura.

    Per la morte di Lodovico un. la Repubblica inviò alla corle di Francia per soddisfare ai sensi della pubblica condoglianza, Bartolommeo de" Signori di Passano, uomo assai chiaro, e gentile (1643). Con ciò finì l'anno suddetto.

    Io cattivissima condizione si trovava la monarchia Spagnuola al tempo di cui ora parliamo (1647). Filippo iv. era buono, ma non capace e lasciava andar le cose a regola dell' Olivares suo primo Ministro. Questi, dice il Botta, per natura pendeva al tirato, ed avrebbe voluto vedere i popoli, non che obbedienti, servi, -i La enormità dei pesi pubblici, l'ingordigia dei Viceré di Napoli e di Sicilfa, le loro sottigliezze ad estorquere danari, l'aulorità usata da loro licenziosamente, la miseria dei popoli, Tessere i baroni immoderati contro i loro vassalli avevano bensì suscitate altissime grida contro il mal governo, ma Olivares e chi sentiva con lui, a Filippo i gravami e le querele dei sudditi gelosamente nascondevano ; e mentre tutto andava male, ei credeva, che tutto andasse bene - In fine le rivoluzioni di Sicilia e di Napoli svelavano che tutto andava male, e Masaniello a premio di quel suo ingenuo amore di libertà, era a furia d'archibugiate bestialmente ucciso. Questi deplorabili avvenimenti mettevano in moto le forze genovesi ; e

    quindi la Repubblica si vedeva novellamente in preda alle congiure; Gian Paolo Balbi ne pagava il fio con essere dichiarato ribelle, e posta la sua persona in forse della vita.

    Dalle scene di sangue, gli avvenimemi ci portano a delle ambascerie ambiziose. Passando in Italia la Regina Marianna d'Austria sposa di Filippo iv.. la Repubblica non potendo ottenere ch'ella si recasse in Genova per imbarcarsi, spedì Ambasciatori ad inchinarla in Milano, dove furono poco ben trattati dal Duca di Marrheda. In questo tempo Spagna e Savoja si tormentavano; il Governator di Milano meditava d'impadronirsi d' Oneglia per quindi portare la guerra nel cuor del Piemonte; D. Giovanni Vives ambasciadore residente in Genova si rivolse ai Collegi col fine di ollenere la facollà di sbarcare in alcun luogo inabilalo della riviera occidenlale le truppe spagnuole, e che nel transito loro per gli stati della Repubblica fossero queste ricevute, e. riguardate siccome proprie. Queste cose diceva in nome del suo Sovrano. I Collegi rispondevano affermativamente e deputavano Stefano Spinola a commissario di quel transito acciocché niuna cosa accadesse in detrimento dei popoli; ora avvenne che il Duca volendo rinforzare Oneglia fece dimandare al Capitano della Pieve la permissione del transito; e questi senza domandare facollà al Senato gliela concedelte. molivo per cui il Vives mostrò risentirsene, e disse anzi che la Repubblica non corrispondeva alla sincera amicizia del suo Re. E che i Ministri spagnuoli volessero male alla Repubblica e cercassero di degradarla agli occhi del Catlolico, si vide nella conpra di Pontremoli, che suscitò tante invidie e pretese.

    Accennammo dissopra come Spagna sotto diversi pretesi! si era impadronita del Finale, con detrimento della Repubblica, la quale vantava buone ragioni a possederlo. La Repubblica quantunque più d'una .volta avesse riclamato alla corte contro l'ingiusta successione, essendo Spagna pur troppo persuasa del vantaggio che aveva a ritenersi quel passo, non mai aveva dato ascolto a quelle doglianze; cosicché alla Repubblica convenne acquietarsi; tanto più che Spagna aveva promesso che non mai l'avrebbe pregiudicata ne'suoi •, diritti di commercio, soprattutto in quel del

    sale, che appaltato alla casa di S. Giorgio, era pei cittadini una ricca vena di guadagno. Queste cose prometteva e riprometteva quando abbisognava della Repubblica, e quando no, sfumavano le promesse ed ogni cosa faceva a sua posta. A lutto ciò si aggiungeva che i Finalini per l'avidità del guadagno traevano il sale dalP isole di Hieres, o dalla Provenza e lo spacciavano; avidissimi i Governatori permettevano quello ingiusto commercio, anzi lo favorivano, perché favorivan le proprie borse. S. Giorgio levava rumore*, altrettanto facevano gl'interessati, e portavano le loro rimostranze agli Ambasciatori spagnuoli, i quali davano le dolci o le burbere parole secondo che si sentivano più o meno bisognosi della Repubblica, e gli abusi non si correggevano. Allora i genovesi usavano la forza, visto che la ragione portava nissun vantaggio; si mettevano ad incrociare in quelle acque, e catturavano alcuni legni fìnalini, ed altri incendiavano. Costoro usavano in contraccambio le rappresaglie; i tribunali rimbombavano delle querele degli uni e degli altri, e così una gente unita per vincoli di parentela, per trattati, per nazionalità, si ravvolgeva in un semcnzajo di litigi e di controversie, delle quali non si potevano prevedere né le conseguenze né il fine. Questo era il frutto della dominazione spagnuola, questo P aversi tirato in casa la gente forestiera. Queste cose erano avvenute, le peggiori dovevano accadere. Cresciuti d'animo i (ìnalini e secondati da Spagna si mettevano in mare a pirateggiare. Predavano e navi genovesi e francesi; si accostavano al ligustico lido, e non volevano assoggettarsi alle leggi intorno alle cose marittime prescritte. E quanto Spagna fomentava e proteggeva quelle ribalderie si oda da questo fatto. Il Senato ebbe dato ordini perché si rispettassero le leggi, e non si permettesse \" importazione del sale. Or avvenne che alcune navi (ìnalesi capitassero alla Spezia colle solite disposizioni. I commissarii vi poser addosso le mani, processarono i capitani e le ciurme, e dichiararono confiscati i fusti e il carico che portavano. Alcuni altri legni erano catturati dalle galee di crociera e condotti in porto. I fìnalini si richiamavano al Governator di Milano; questi mandava un questore ad informare;

    e il questore sentenziava che, i commissarii della Spezia fossero impiccati, e dati alla mannaja i capitani eh' avevano visitati i legni del Finale. Davvero eh' era bella sentenza : perocché egli voleva dunque che non si rispettassero le leggi sanitarie, e si defraudassero i genovesi nel loro commercio. Giustizia spagnuola. Il Senato a questa fé un'appendice un po' incomoda al questore giudicante, cioè comandò al boja che se lo pigliasse.

    In questi termini erano le cose, quando il gabinetto di Madrid, sinistramente impressionato dal Governator di Milano, spiccava 'lettere a Napoli, a Sicilia, ed a Milano comandando ai Viceré e Governatori, che si sequestrassero in forma di generale rappresaglia tutte le facoltà dei genovesi, e ciò si effettuasse dentro il termine da prescriversi dal marchese di Caresena, a cui i dispacci pei due Viceré erano trasmessi. /

    •» II Caresena ( Varese ) era stato il promotore di questo terribile provvedimento: lungi dal por tempo in mezzo, precipitò gli indugi perché dubitava non trapelasse nel pubblico un qualche sentore dell'iniquo pensiero, e che i genovesi, messi in sospetto, non trafugassero parte delle loro sostanze. In Napoli specialmente, dove erano le maggiori ricchezze, la cosa venne condotta con una cautela ed una prontezza rovinosa. Quel Viceré, ricevuto appena il fatale comando, chiamava a segreto Consiglio i capi degli ordini togati per consultar del modo più spedito ed acconcio onde recarlo ad effetto. Costoro necessariamente opinavano secondo 1' umore del Viceré; alla dimani, ch'era il giorno 2 di maggio, numerosi commissarii regii e notai andavano, al battere d'un'ora, alle case dei principali e più ricchi genovesi con opportuno seguito di soldati o di birri, ponevano sequestro su quanto ritrovavano di prezioso, intanto che nelle provincie, le slesse violenze si esercitavano sui feudi, la case, le possessioni, gli armenti, i vini, gli olii, i frumenti; e nei porti d'ambi i reami su tutte le navi, le barche e le mercanzie. Lascio di dire come questa strana invasione si effettuasse: erano spaziinoli, erano curiali, erano soldati, erano sbirri, venivano sotto la salvaguardia di un ordine reale, e intendevano usare ima giusta rappresaglia. Famiglie, che la sera si coriramno ricche di milioni di scudi, si alzarono la mattina bisognose di pane: né gli averi delle vedove e dei pupilli, né le doti stesse delle donne napolitane maritate ad uomini genovesi, o delle genovesi a napolitani maritate andarono esenti da quell'iniqua percossa. Come un Ministro potesse risolversi a suggerimenti di tanta barbarie e un Re approvargli, questo non so intender io, a meno di Imo supporgli entrambi improvvisamente tocchi nella più nobile facoltà dell'uomo. Le rappresaglie, tenendole per giuste e permesse, non devono, a parere di lutti i pubblicisti, esercitarsi mai in tempo di profondissima pace, e contro i citladini privali ammessi a mercatóre e ad abilare negli slali di un Principe amico sotto la fede dei trattali. Meno poi debb" esser lecito col Dne di risarcir dicci inradere diecimila, e queslo era appunlo il caso, imperciocché i pregiudizi! recali dalle navi liguri ai finalini, posto pure che fosso contro ogni diritto e ragione, di gran lunga non pareggiavano le ricchezze manomesse dagli spagnuoli. Poi. la maggior parte dei genovesi abitanti in que' reami, poteansi dire sudditi del Re Caltolico; quasi erano nativi di quei luoghi,militavano ai servigi di lui, erano Dipoli o figli di coloro che avevano sacrificato per lui o pei sopì avi gli averi e le vite. Iniquo era adunquaKflicl provvedimento: era impolitico e dannoso ;i Spagna stessa, perché Genova non si sarebbe per cerio rimasla spensierata e neghittosa, come non rimaneva. * La Repubblica allorquando ebbe notizia di tali empii modi, cacciò da banda le tergiversazioni e cominciò con pubblicare un editto pel quale concedeva a' suoi sudditi di difendersi, e reintegrarsi a talento dei danni che tanto in mare, quanto in terra lor fossero cagionali dai finalini; rompeva ed anzi interdiceva ogni comunicazione coi sudditi del Cattolico, e proibiva ogni trasporto di merci o veltovaglie nel Milanese, sotto pena di confisca; ordinava che tulli gli udì/lali. marinai e suddili che servivano in mare a Spagna si riducessero sotto le insegne della Repubblica, e ciò dentro il termine di due mesi; i renitenti sottomelteva a severissime pene. Proibiva io ultimo P estrazione dal dominio dell'oro e dell'argento, coniato o no che fosse.

    Questi atti faceva per guarentir sé ed i suoi suddili, e poi perché la giustizia di essi non fosse travisata, mandava Ambasciatori alle principali Corti di Europa per dimostrare P oppressione arbitraria dei ministri spagnuoli, e depulava oratore straordinario a Madrid Gianfrancesco Sau'.i, affinchè in faccia allo stesso re di Spagna altamente protestasse contro l'iniquo provvedimento dei suoi ministri.

    Il Sauli egregiamente faceva l'uffìzio suo, il re si peritava; intanto i minislri avevano avulo lempo di nolare il grave delrimenlo che alle cose spagnuole tornava, in conseguenza di quelle determinazioni prese dalla Repubblica. E questa non potè d'altra parte impedire la totale rovina delle merci sequestrale e gli oggelli preziosi, ed i danari dei suoi suddili soffrirono quelle decimazioni che ognuno si può figurare, dovendo passare nelle mani di ministri avidi e cupidissimi di arricchire a spese d' Italia. Genova. nota assai bene il Varese, Genova se ne risenti lungamente : Spasna maledetla porlò le imprecazioni : Italia ebbe un novello argomento di quello che sapeva la dominazione forestiera e le contese coi Finalini rimasero indefinite: continuarono essi, sempre protetti dagli spagnuoli a defraudare i diritti della Repubblica , e la Repubblica quando li puniva e quando li tollerava. Era insomma una molesta spina e prima che Genova se la levasse dovevano passare molti anni.

    Ora da queste ribalderie spagnuole passiamo a un fallo dcgnissimo di memoria. Ippolilo Ccniurione dopo avere rinunciato alla carica di Generale delle galee pontificie, desideroso di spaziare nelP ampio mare in cerca di rumorosi avvenimenti, a proprie spese avendo armate due navi da guerra, si era incamminato verso il levante, quando non lungi dalP isola di Calce lo assaltarono 40 galee e cinque maone de1 turchi. Intrepidissimo il Centurione non fugge, ma coraggioso si schiera a ripararsi contro quel nembo di navi e di nemici. Colla voce animava i suoi e con P opera danneggiava i turchi; or avvenne ch'egli essendo percosso da una palla di artiglieria nella mano sinistra e tutta lacera e sanguinosa pendendogli dal braccio, ne fu deciso il taglio dai chirurghi. Questo doloroso fatto portò uno sconcerto nella sua turba, ma egli mentre sottopose la mano alla sega, più animato dal desiderio della vittoria, che punto dall' atrocissimo dolore dell' amputazione, 11 proprio sul cassero gridava n suoi coraggio e dava ordini opportuni alla difesa. Ma quando una galea nimica gli fu tanto vicina da venire all'arrembaggio , egli appena fascialo il monco braccio, stringe colla destra la spada, e fatta in subito voltar la nave salutò le galee nemiche con sì forte fiancata di artiglierie che le mandò sdruscite e lacere nelle vele. Il turco imbestialito, rotto, pensò di abbandonare la mal augurata preda e verso sera si dileguò in sembianza di fuggitivo. Il valoroso Centurione liberatosi da quella molestia, fece riattare alla meglio le due peste galee, volse le prore verso la Sicilia per quivi in alcun porto amico riordinarsi, quando pervenuto sopra Scacca e Girgenti scale di quell'isola, incontrò 15 ngvi da guerra tra lunesine ed algerine. -• A simile annunzio il Centurione quantunque debole e languido nel corpo, altrettanto nondimeno valido ed imperturbabile nell'animo, sorto da letto apparecchiossi alla pugna, in cui rinnovando gli usati prodigi di provvidenza e di fortezza ; sì costantemente sostenne per lungo spazio la zuffa, che i turchi dopo grave lor detrimento restaronsi di combattere e proseguirono il viaggio; quasi in tempo erano venute a lui le provvisioni, per questi avvenimenti ne' quali la sorte cotanto aveva secondato la magnanimità d'Ippolito, sempre più confermossi, che un'invitta risoluzione di sacrificar sé medesimo per onorala cagione a morie , frequentemenle riesce a scampo della vita e colla rinomanza. che però acquistasi. che spalanca il senliere alla vila migliore della gloria. Ed in vero il grido di questo campione divenulo di repenle grandissimo volò con festosissimo applauso per le nazioni cristiane, intanto che i maggiori principi degnamente innamorati di tante virtù lecersi a desiderarne il servigio ed invitarlo cupidamente a' loro stipendi ; e questo fu un dei motivi, per il quale abbandonò il levante malgrado delle sue primiere determinazioni; oltre di che il suo soggiorno colà apportava un grandissimo nocumento a" suoi averi ;

    conciossiachè anelando egli più alla gloria che al guadagno, ed essendo per natura profuso nello spendere e compassionevole verso le altrui miserie, non ritraeva dal corseggiare quel profitto. che sogliono colle industrie procacciarsi gli altri condottieri, alcuno dei quali egli è di maggior terrore e danno ai cristiani, che agli infedeli medesimi. «

    Venne ad intorbidare la quiete della Repubblica un'insolenle prelesa dei Cavalieri dell' ordine di S. Giovanni che. poi di Malia si chiamarono. Costoro da frati servienti ai maiali clr erano in origine , divenuti corsari contro i i urdù, erano saliti in tanta superbia, che pretendevano andar di passo coi principi più potenti. Ora volendo essi essere tenuti per superiori a tutti, mentre che in vero erano valorosi e audacissimi in mare, tiravano a costringer gli altri popoli a riverirli. Genova non voleva, ed anzi decrelava, che ogniqualvolta la capitana della religione enlrasse collo stendardo nel porto senza salulare quello dulia Repubblica la fulminassero le artiglierie. 11 decreto spedivano ai comandanti del porto, e lo notificavano al Gran Maestro di Malta, affinchè i suoi generali sapessero come regolarsi. Or si Irovavano tre galee e fra queste la capitana di Malia baltule per fortuna di mare , costrelle a pigliar pori o in Genova.. Malta salutò la capi I una di Spagna, ma pari «luio non diede alla capilana della Repubblica. Incontanente le fu subito intimato colle miccie sui cannoni di Iributar lo slesso onore alla bandiera ligure. 11 generale di Malia, imperversando in quel momento la tempesta. violentato salutò, ma indi uscilo dal porlo pieno l'animo di vendetta, andò a sfogarla contro una nave genovese, iusultando il capitano e vituperando la genovese bandiera. Queste erano azioni da cavalieri ! Ma come si educavano allora colesti uomini, volere cnlrare in casa altrui senza tor giù il berretto, era villania, eppure i cavalieri di Malia volevano ricoverare in porto amico senza onorarlo di un saluto. Era slrana la pretesa, per non dire villana. Alla notizia del fallo accadulo nel porto, Malta insolentì, e voleva in un tratto privare dell'abito quanti gepovesi erano ammessi a quella religione ; ordinò si facesse guerra a quante navi genovesi s'incontre

    rebbero: Genova si armava e commetteva ad Ugo Fieschi dodici galee e quattro galeoni, perché uscisse correndo il Mediterraneo a far prova delle galee della religione. " Ma questa volta la fortuna dimostrava più senno dei principi : benché Genova cercasse Malta e Malta cercasse Genova, non s" incontravano. Il sangue non contaminava una guerra che aveva un sì miserabile principio. Tribolazioni molto più gravi, che non queste malte superbie minacciavano all'Italia e specialmente a Genova, né venivano dagli uomini , bensì dal cielo. •

    E questo era quel flagello, voglio dire la peste, che tanto percosse Genova nel 1656, e di cai parlerò più di una volta negli articoli che compongono questa Prima Parte. Sanata la Repubblica da questo male, in appresso rivolse 1" animo a ristabilire colla Porta Ottomana le sue antiche relazioni di commercio : e per questo spedi a quella volta Giannagostino Durazzo il quale felicemente riuscì a far ammettere le navi genovesi a godere dei privilegi conceduti alla Francia ed ali' Inghilterra.

    Le mire di Savoja e del bellicoso Carlo Emmanuele n. partorirono quella guerra del 1672 che cominciata poco onorevolmente da una parte, si sostenne assai valorosamente dall'altra. Tacendo del principio di essa, ne diremo il fine in poche parole.

    I savojardi avendo occupata la Pieve misero in chiaro i disegni del Duca, e perciò la Repubblica ebbe giustissimo motivo di armarsi a difesa del proprio territorio. Procedendo le ostilità, i savojardi intimarono la resa alla città di Albenga; i genovesi rispondevano non esser usi a rendersi, senza prima provare la forza delle armi ; s'incontrarono genovesi e savojardi su pe' monti, e questi ultimi si ebbero la peggio, operando moltissimo in questi fatti i Corsi a servizio della Repubblica. Un Restori capitano valente e posato, di nazione corsa, fé' molta strage dei savojardi in altro fatto presso Stananello ; e Fedriani furiosamente percosse il Catalano capitano del Duca nella valle di Garlenda; sicché per questi fatti parziali Savoja n'andava mal concia e battuta. Erano genovesi, erano corsi, che si battevano contro Savoja, lascio dire quali erano le percosse. Eppure

    fratelli erano e tingevano di sangue italiano quelle predilette contrade. 9

    Indebolite le forze di Savoja nella occidentale riviera, rinvigorivano le genovesi. Zuccarello occupato da quella era abbandonato e la fazione di Castel-vecchio avvenuta con assai detrimento de' savojardi finì per rovinare quella campagna. Questa guerra sostenuta con molta animosità da ambe le parli suscitò nel cuor del Pontefice il desiderio della pace; ugual sentimento animò il Cristianissimo. Anzi costui spiegossi più risolutamente facendo intendere alle due parli, che non avrebbe patito il proseguimento delle contese fra due vicini principi amici suoi, per minute differenze di confini, e cosi desiderava che per mezzo di qualche suo ministro si trattasse l'accordo. La Repubblica rispose, ben volentieri accetterebbe quella valida mediazione , ma che in quanto alla sospensione delle armi non poteva se prima non cacciava dal suo territorio il nemico. Savoja rispose in modo evasivo,non volendo sospendere le ostilità ; senonchè pentissene dappoi quando inlese la ritirata di D. Gabriello e la rotta del Catalano. Allora si die a pregare il Cristianissimo di sua prolezione, temendo che i prosperi successi delle armi genovesi non finissero coli'impadronirsi di Oneglia ch'era in suo potere. La tema divenne certezza, perocché i genovesi non indugiando punto vi dieron dentro e 1' ebbero a discrezione. Il Duca per questo divenne ali'estremo sforzo, con ingrossare il suo esercito di nuove leve e genti pagate, Francia lo sosteneva. I savojardi s" impossessano di Novi, vogliono tentar Penna, ma furiosamente ne sono respinti ed in questo fatto perdono uomini, bagagli, tende e copia d'armi, non le artiglierie perché furono sepolte ; il rimanente del campo diedesi a precipitosa fuga col favor della notte. L'amore de' Pennaschi fu premiato dalla Repubblica, ed il capitano Gastaldo ebbe soldo perpetuo per sé e per il figliuolo e una dote alle femine.

    Spagna, Francia e Roma nuovamente si misero in sul tirare i due contendenti alla pace. Francia mandava in Genova il Signor di Gaumont inviato straordinario del Re. Dopo molte pratiche, la Repubblica acconsentiva alla restituzione di Oneglia, perché questo era un punto importante pel Duca. Ma il Duca, che non voleva ricevere Oneglia dalla Repubblica proQttaodo di quelP armistizio annata mano se ne impossessò, favorito dalle galee francesi eh' erano in vista per l'osservanza de' patti! Dopo ciò il-Duca scese a trattar della pace.

    n Dopo più mesi di controversie, e varie andate del Cammini da Genova a Torino e da Torino a Genova, il Re di Francia pronunciava il lodo dato da San Germano di Layc, il diciotto di gennaio del 1673 e voleva: r>

    •• Che pace stabile e buona prendesse il luogo delia sospensione il armi, senza che quanto era avvenuto nel corso della guerra avesse a cagionar perturbazione di sorta pel futuro. »

    « Che fosse confermata la restituzione già eseguita dei luoghi occupati e dei prigionieri. »

    n Che le cose avessero a rimanere come si trovarono il di dopo quella restituzione o cambio, senza che nessuna delle due parli belligeranti potesse armar preiensioni d'interessi, di danni e di spese. »

    » Che il commercio cosi per terra come per mare, fiumi ed altre acque fosse tra i sudditi dell'una e dell'altra parte ristabilito conforme era prima della mossa dell' armi. ••>

    r> Che importando di comporre in modo da non dar mai più luogo a novelle perturbazieni le differenze tra Rezzo e Cenova, notamente pel luogo chiamato il fossato di Pitone ; tra Ormea e la Pieve per la giurisdizione dell'Alpi di Viozenna; tra Briga e Triora; e quelle di Pornasio, Montegrosso, Lavina ed Arviso, dovessero le due parli accordarsi nel termine di due mesi per la elezione di Giudici in Italia e sottomettersi a quanto sentenzierebbero. »

    •- Che se dentro quello spazio di tempo prefisso l'elezione dei Giudici non fosse fatta, si la farebbe egli, il Re. «

    « Cosi finì, conchiude il Botta, la contesa del ridicolo Pornasio e delle ridicole Cenova e Rezzo: ambe le parti si fecero comandare da un re straniero. Non parlo del sangue sparso, né dei dolori sofferti. Dimenticava di dire, che la Repubblica regalò Gaumont di un' intiera credenza d'argento con alcuni tagli di velluto molto belli, e che

    il Duca lo regalò d' un bacile d'argento e d'un bellissimo gioiello: e chi pianse pianse.n

    Dieci anni quietò la Repubblica, ma indi quella slessa tanto tenera della tranquillità di lei venne a tribolarla, voglio dir Francia, ossia 1' ambizioso Luigi \i\.

    Per una pretesa di saluto, ruppe la guerra a Genova ; onestò le sue mire con questo pretesto, perché abbracciava m suo pensiero la dominazione di tnlta I" Europa.

    Vergogna per Francia quasi mi tiene dal narrare l'immane flagello cagionato dalPinumanissimo Seignelai preposto da quel re alla distruzione di Genova ; ma perché non paja troppo in me quel sentimento di giusto disprezzo per quel!' empia azione , narrerò la funesta scena con le parole di chi la vide.

    u Dalle venti ore e mezza in circa (correva il durilo diciassctlimo di maggio del 1684) che diedero principio le palandrc a gettar incendi e rovine nella città, tenendosi un buon miglio discoste dal cannone, affrettarono con tanta frequenza e tanta furia i loro colpi, che portando da per tutto fiamme e distruzione, cambiarono talmente la sua faccia altre volte sì vaga ed ora sì compassionevole, che non troverassi nelle storie più barbara memoria di crudeltà si disumana. Pioveva a diluvi di fuoco e di ferro in ogni parie la morte più spaventosa, e non trovandosi riparo assai forte all'impeto precipitoso delle bombe fulminairici, furono atterrate le fabbriche le più sode e le più sontuose, come le più deboli e le più vili ; arsero le due grandi sale del Palazzo della Repubblica, e un tale abbruciamento obbligò il Governo a irasportare la sua residenza nella fabbrica di Carbonara, dove non potendo la sua pietà sofferire, che le Ceneri del Precursore di Cristo nella chiesa cattedrale colpita dalle bombe per ogni parte, rimanessero più lungo tempo esposte a nuovi incendi e forse non meno empi dei primi, fattele ritirare da un luogo sì poco rispellato, incontrulle con santa ed ansiosa sollecitudine processionalmeote, e le fece riponere nella cappella della fabbrica suddetta, lontane da ogni somigliante apprensione. Furono dal peso e dallo scoppio de1 smisurati globi lanciali circa due miglia lonlani dai mortari, sfondate le strade e le piazze, e apparve dentro del tratto accennato dall' attività dei colpi sconvolto e lugubre l'aspetto di tutte le cose, onde deserta tasi la città, i desolati cittadini, che il disastro non colse, riliraronsi con la possibile velocità nelle colline, da dove funesto spettacolo agli occhi loro, scorgevano il fumo, le fiamme, rineenerimenlo delle lor case e dei beni loro. La magnificenza dei tempii dedicati al sommo Iddio, la religiosità de' monasteri ed altri luoghi sacri, per tanti contrassegni e titoli contraddistinti , nulla giovò a conciliarsi quel rispetto, che le fiere più terribili, non che le nazioni più spieiate hanno sovente mostrato verso le cose rese sacre dalla religione; anzi si riconobbe essere le torri e la grandezza de' santi edilìzi piuttosto la mira e il bersaglio de' colpi nemici che la salvaguardia per divertirgli altrove. Fuggirono raminghe e piangenti le vergini dedicate a Iddio, e dispersa ogni adunanza religiosa. Inaspettato e nuovo genere di morte oppresse i languenti negli ospedali più remoti. Furono atterrate le chiese, caddero i sacerdoti vittime sanguinose a' piedi de' diroccati altari prima di terminare il sacrili/in di pace e rimasero esposti agi' incendi ed alle profanazioni i più tremendi santuarii e misteri, le reliquie, i tabernacoli e i sacramenti medesimi. Inorridisce l'animo di proseguire in cosi empia e barbara rimembranza, confessando gli stessi francesi, che, per quanto grande fosse la strage portata l'anno passato in Algeri dagli ordini più severi del giusto sdegno del Re Cristianissimo contro di quei spergiuri maomettani, quella ad ogni modo fu un nulla in comparazione della presente, tuttoché di queste ostilità fondate sopra insussistenti pretesti, e contro una città si cristiana , ne sia stato regolatore il Signor di Seignelai. cui la religione e la croce, che porta sull'abito (era cavaliere dell'ordine di Santo Spirito) ed il pensiero, che deve avere della gloria del suo re, si credeva pure, che dovessero inspirare sentimenti più moderati e più convenevoli all'uno e all'altro. -•

    Cosi una delle più nobili città
    In questo fatto rifulse sommamente la costanza e la fermezza de' Padri non punto intimoriti da quelle funeste calamità. Il Sci

    I',«11' I

    gnelai che voleva ad ogni modo abbattere la superba città mandò al Senato un Bonrepos ad intimargli che mandasse Deputati a trattar della resa, che si sottomettesse e desse soddisfazione al Re : altrimenti, soggiungeva, se tanto strazio avevano fatto sei mila bombe , pensassero i Padri quanto ne farebbero diecimila ancor da gettarsi; pietra sopra pietra non resterebbe ; pensassero e decidessero.

    Il Doge rispose, che il mandar Deputati spettava al Consiglio, e non a lui, e che intanto sapesse, che per quanto considerabile fosse il danno recato alla città, questo non aveva proporzione alcuna colla fermezza d'animo, che in tutti risiedeva per la conservazione della libertà. Seignelai non voleva tirare la cosa in lungo, temendo non di Spagna giungesse qualche polente ajuto alla pericolante città; perciò rimandò il Bonrepos con ordine di richiedere la Repubblica di tali condizioni, che anzi di metter collera ne' Padri, vi posero un giusto disprezzo ; perocché senza punto sgomentarsi, risposero, che la Repubblica non era usa a regolare proposizioni di accordo sotto il calor delle bombe ; avere bensì somma fiducia nella giustizia della sua causa e nell'intrepidezza dei suoi, per costantemente vedere anche la distruzione della città, essendo per altro soddisfattissima dinanzi a Dio e agli uomini di non aver dato occasione a dimostrazioni cosi mostruose. La risoluzione fu presa concordemente ; quattro fra cencinquanta Senatori dissentirono solamente.

    Seignelai imbestialito cominciò da capo, e più fiero di prima, aggiunse allo scagliamento delle bombe quello delle palle infuocate. Chi può descrivere la ruinata cillà, chi i fumanti palagi crollare ed atterrarsi, chi le preziose suppelletili divenire in un subito un mucchio di ceneri, chi la morte, la disperazione dei cittadini? Chi insomma il furore del popolo che quanti credeva francesi e francesi erano scannava e lasciavali laceri e sanguinosi per le vie ? A tutto questo si aggiungano i ladri ed assassini i quali in quello scombujiimento di cose si erano mostrali e invadevano ovunque. Genova, la superba Genova, quella Regina del mare che più di una volta aveva guatato con occhio amoroso quello elemento di sue tante grandezze ; quella Genova che bella, sempre verde, sempre desiderata dai Potenti, era un flore a cui tutti avevano stesa la mano per istrapparlo, e sempre incauti e timorosi ; ora era lacera, squallida, sanguinosa e fumante ! Oh ! le tue chiome d'oro erano per profanarsi, che una mano sacrilega tentava di stringerle per atterrarti, ma la tua compostezza dignitosa, il tuo guardo imponente, la tua fermezza, il tuo coraggio ti salvarono. Il popolo rimirò come prodigio, che in tanta catastrofe, mentre che il Palazzo della Signoria era combusto quasi intieramente, fosse rimasta intatta ed illesa la divisa della Concordia, figurata sopra la porta della sala del Gran Consiglio coli'emblema di due mani loccantisi e da quantità di verghe strette in un solo fascio col motto Firmissimum libertatis monimentum.

    Alfine Seignelai depose il pensiero di soggiogare la costante città, cioè si accorse che inutilmente la inceneriva, e dopo di avere dal giorno diciassettesimo al ventotto di maggio scagliate nella città tredici mila e trecento bombe ed altrettanti proiettili, pigliò partito di allontanarsi imprecando Dio e i Santi per tanta ostinazione, e maledicendo a quella sua malaugurata impresa, voltò le prore verso Provenza, pieno l'animo di vendetta e col proponimento d'inasprire maggiormente l'animo del Re, aftinché volesse per sua soddisfazione schiantar dalle fondamenta una così illustre e ferma città.

    Non voglio dire come finì questa aggressione, cioè come i genovesi tanto costanti diventassero ridicoli : so che Spagna aveva conchiuso un trattato con Francia, so che altre Potenze o non volevano o non potevano assistere la Repubblica, ma so ch'era meglio lasciare incenerire la città che darsi a quel partito cui si dierono, dopo tanto eroismo, dopo tanta fermezza.

    Liberata Genova dalle vessazioni francesi, fu assediata dai tedeschi e da Spagna per danaro. Questa ingolfatasi nella guerra d'Italia era esausta e voleva danaro o per ragione o per torto.

    Frattanto il secolo, a malgrado della pace di Riscvich, doveva volgere al suo fine tra novelli strepiti. Carlo H. era per lasciare la vasta e ricca sua monarchia senza legittimo

    erede. Quattro Principi vi pretendevano : Leopoldo d'Austria, Luigi di Francia, Ferdinando Giuseppe Elettore di Baviera e il Duca di Savoja. Il monarca spagnuolo prima di morire chiamava per testamento erede del trono il Duca d'Angiò, figliuolo secondo genito del Delfino di Francia. Questo era il frutto dei maneggi dei ministri francesi imbeccati da un astui issi n io re; e questo dava origine a quella temili] guerra nota al mondo sotto la denominazione di guerra per la successione , nella quale quasi tutta l'Europa si sollevò contro Francia.

    1700.- Austria, Inghilterra e Olanda si colIcgavano col trattato delPAja, aliine di sostenere il diritto della prima alla successione del trono di Spagna ; Venezia, Genova e Toscana si dichiaravano neutrali ; il Dura di Mantova sconsigliato teneva con Francia ; Savoja parimente ma con miglior condizioni. Il Papa dapprima tentò di conciliare le parti, indi di formare una lega di Principi italiani col proposito di stornare dall' Italia le armi forestiere ; ma non riuscigli il primo, né tampoco il secondo. L'Europa doveva essere sossopra. l'Italia insanguinarsi.

    Cominciarono a tuonare i cannoni da due parti, dalla Fiandra e in Italia. I più valorosi capitani di quel tempo si trovarono a fronte l'uno dell'altro. La guerra cominciata dalle sponde dell' Adige, venne su quelle del Po e dell'Adda , e quindi in Piemonte dopo che Vittorio di Savoja malcontento di Francia si era voltato alla parte austriaca. La famosa battaglia di Torino, i disastri patiti da Francia sì nelle Fiandre, come nelle Spagne e nel regno di Napoli, ridussero il superbissimo Luigi ad umilissima fortuna.

    La pace fermata nel 1713 metteva un termine alle sanguinose contese, per questa Filippo veniva riconosciuto Re di Spagna a condizione di abbandonare all'Imperatore Milano e Napoli, al Duca di Savoja la Sicilia, il quale otteneva altresì dalla Francia i forti d'Icilia e di Fenestrelle, e le valli d'Oulx, Cesana, Pragelato, Bardoneche e CastelDelfino. Quindi il Duca era costretto a cambiare il novello acquisto di Sicilia colla Sardegna; ad ogni modo i Duchi di Savoja davano ai loro stati più larghi e sicuri confini, e trasportavano nella propria famiglia il titolo di Re. minacciala dalla Spagna. dall'Austria e dalla Francia pur pure quietò, perché i Padri procedevano nelle deliberazioni loro con molto giudizio a seconda dei tempi. Per torre ogni contesa col Finale lo comperò dall'Imperatore Carlo Ti. sborsandogli un milione e dugeoto mila colonnati, ma con patto di concedere alle soldatesche di Cesare libero il passo; con ciò non chiudeva allo straniero la porta d'Italia, dove tanto fomite di guerra aveva recato. Il possesso del marchesato del Finale fa guarentito dalla Spagna e dalle altre maggiori potenze di Europa. In questo tempo la Repubblica ottenne altresì dall'Imperatore gli onori reali, ed appose di diritto nelle sue insegne la corona regia - che già di fatto vi aveva inquartata. La quale prerogativa, dice il Varese, dopo il titolo e la qualità acquistate dal Duca di Savoja era per Genova una necessità.

    Genova durante queste guerre, abbenrhè che con essi

    Gli avvenimenti ci chiamano nuovamente in Corsica; vi dò principio colle parole del Botta.

    « I semi gettati da Sampiero sulla terra di Corsica produssero frutti a loro medesimi conformi. Un governo sempre duro per massima , talvolta abjetto per corruttela, reggeva un popolo feroce, fiero, indomito e superbo. A ben intendere le cose, che seguiranno, fia necessario dire più particolarmente quale questo popolo fosse, e quali irritamenti gli si facessero. Sogliono i popoli, che vivono nelle isole, o essere straziati dalle guerre civili. che agitano fra di loro, quando da per sé stessi si reggono, o sperimentare quanto sia darà la signorìa forestiera, quando da prìncipe lontano dipendono. L'attività degli animi non trovando sufficiente sfogo io piccola scena, si converte, per trovar pascolo, da paesani contro paesani, e maggiore sfogo danno le cattive che le buone passioni. Il commercio solo colle nazioni forestiere potrebbe smaltire gli acerbi umori e dare più mite indirizzo agli spiriti : ma quando le isole sono piccole, se sono ricche diventano preda altrui. se povere non possono né utilmente né largamente trattare il commercio. Dall'altra parte i governi lontani, che le dominano, stanno sempre in sospetto delle medesime, temendo di perdere facilmente ciò

    la natura non ha congiunto. Quindi nascono i reggimenti avari e le tirannidi crude, facendo del tener povero ed atterrito altrui il fondamento della propria potenza. I governi poi, che la sede hanno in terra ferma , difficilmente si persuadono che gli abitanti delle isole siano da equipararsi agli altri sudditi, e quel nome di colonia , che indica sempre una condizione più bassa, viene loro in mente continuamenle ; né per diritti, né per istima gli conguagliano, alterigia da una parte, disaffezione e sdegno dall'altra. L'una e l'allra condizione sperimentavano Genova e i Corsi. Quindi le ingiurie chiamavano da ambe le parti le vendette, le vendette le ingiurie e con sanguinosa vicenda di quasi un mezzo secolo la Corsica spaventò se stessa e il mondo. •»

    Premesse queste cose è a sapere come era governata l'isola e. da chi. Un governatore, quasi sovrano, risiedeva in Bastia, durava in carica due anni. Aveva due vicarii, uno pel civile e 1' altro pel criminale, che lo assistevano nel governo. Dipendevano da esso i cancellieri, il tesoriere, i raccoglitori delle taglie ed i tre commissarii giurisdiccnti per Ajaccio, Calvi e Bonifazio. In fine otto luogotenenti per gli altri luoghi ; capitani, cavalleggieri, uffiziali . subalterni e famigli. Costoro erano tutti genovesi , quantunque altre volte le cariche secondarie fossero state metà de1 genovesi e mela de' corsi. Salvo i Governatori, i quali lutti non meritarono l'odio de' corsi, ma sibbene amore e riconoscenza, gli altri magistrali mandati da Genova a governare né erano, né potevano essere tali da riscaldar gli affetti tra la madre patria e la colonia. Eccettuati i più alti, e voglio dire i Governatori ed i commissarii che erano presi tra famiglie cospicue, gli altri appartenevano a famiglie statuali sì, ma in bassa fortuna. Eglino perciò nell'esercizio di quelle magistrature cercavano i mezzi per arricchire e perché gli stipendii erano molto sottili, consuetudine non interrotta, più facilmente erano suscettibili di corruzione. Si aggiunga a tutto ciò che ben rade volte i magistrati erano nomini forniti di quelle indispensabili cognizioni che si vogliono in cosiffatta natura di persone, e perciò alla suscettibilità di corruttela , come in appendice, vi si univa la

    ignoranza; onde ingiustizie meditate, ingiustizie per difetto di mente, ingiustizie per ambizioni, per amicizie, per passioni e per vendetta. I corsi si lamentavano, si querelavano al Senato, ma con poco frutto: in ultimo pigliavano le armi ; e chi non le avrebbe pigliate? E le armi appunto e due quattrini motivavano una crudelissima guerra e la rivolta di tutta P isola.

    Vuoisi sapere che fino dal 1715 per parte dei magistrati dell'isola avevano fatto emettere un decreto dal Senato col quale si proibivano le armi da fuoco a tutti coloro che per mestiere non erano obbligati a portarle. E ciò per mettere un freno ai continui ammazzamenti, che secondo il Varese in trentadue anni ne erano stati commessi poco meno di ventinovemila, e ciò precipuamente per ragion di vendetta. Molti fecero il sacrifizio e molti no: costoro le nascosero nei boschi, nelle rupi e perfino nel grembo dei sacri altari.

    Ora coloro che innanzi al decreto portavano le armi, pagavano al fisco una tassa che patente appellavasi. Di tre sorti erano queste. Le prime si davano gratuitamente a coloro che erano assoldati dal Governo, e duravano quanto P ufficio di essi. Le seconde erano privilegiate eie ottenevano i ricchi, i feudatarii e coloro che avevano meritato del Governo. Le ultime finalmente si nomavano camerali e le avevano lutti coloro che le volevano mediante lo sborso di lire 6.18.8; si rinnovavano ogni due anni purché si pagasse nuovamente la tassa ; e questa si godeva per metà dalla Camera e per metà dai ministri della Curia.

    Il decreto abolendo le armi, portava un danno al fisco ed ai ministri: il fisco è sempre fisco, e forse più in Genova che altrove (dice il Botta), pensò al denaro che gli fruttavano le licenze e non volle perderlo; perciò stanziò che P annua contribuzione fosse aumentata di due seini, che equivalevano ad un paolo. E perché non sembrasse continua quella tassa, dichiarò che soltanto per dieci anni sarebbe durata, ma i dieci anni passarono e la tassa continuò. Ora i corsi erano inaspriti e non sol per la tassa che vedevano eterna, ma per altre buone ragioni. Correva Panno 17-28 ed in questo si mettevano al fermo di non volerla più pagare.

    IS'uove cagioni si aggiungevano a dar su alla rivolta. Quando occorrevano carestie, o gravi emergenze la Repubblica soleva far prestanza di grano o danaro a quelle famiglie che più ne abbisognavano: e questo faceva e per soccorrer P isola e per ajutare e promuovere P industria agraria. I comuni si facevano essi stessi mallevadori della restituzione della somma data in prestito: l'interesse che si pagava forse era un po' ingordo, perocché montava al sei per cento: dico ingordo se si vuoi considerare la povertà di quelle famiglie , 1" eventualità delle raccolte e la ricchezza delP imprestante. NelP anno innanzi la Repubblica aveva fatto consimil prestito a molte pievi, con patto di essere reintegrata nei primi anni di abbondanza. Ora nel 1729 Felice l'incili governatore delP isola si mise ad instare presso i comuni, perché soddisfacessero agli obblighi. II momento non era opportuno, abbenchè Pannata fosse stata abbondante, ma a raddolcire le antiche piaghe non bastante. Gli esattori andavano a riscuoter i capitali, gl'interessi, le tasse antiche e le nuove. Questo era un voler troppo ad un tempo.

    Un Giambattista Gallo, luogotenente di Corte ed esattore di tasse, andò in un umile paesello della pieve di Bozio a richiedere gli abilanli di danaro. Un Cardone di Bustanica si moveva a pagarlo : costui era in età quasi decrepita e lanlo che essendo per giunla sciancato e mal concio della persona a stenlo si arrancava malamenle sulle grucce. Sommando ali' esattore le sue monete, trovavansi di giusto tributo per ciò ch'era di spettanza del governo, ma mancavano di due quattrini, i quali per consuetudine ed abuso erano devoluti al cappellano dell' esaltore, certo Malico Pierucci. Il poveruomo si scusò e prolestò non avere altro contante ed anzi avere fallo mollo di Irovar quello. L'esattore intenerito era per dargli quietanza ; quando sopraggiunlo il cappellano insligò il Gallo, e lo indurò di modo che reslituite le monete al vecchio, gli disse : tornasse al dimane, ed allendesse pure a trovare l'intiera somma; quando no ; il pignorerebbe negli utensili di casa. Da cosi piccolo principio nacque tanta grandezza di avvenimenti; i quali cagionarono quel male che siam per narrare in breve.

    11 vecchio si licenziò e per via andando a stento. malediceva a Genova, ai collettori, alle taglie, ai cappellani e ai due malaugurati quattrini. In fine si ridusse sulla pubblica piazza, e le persone udendolo brontolare ed imprecare gli furono attorno. Allora alle sue doglianze molte altre se ne accrebbero, chi si lagnava di quel!' ingiusto aggravio , chi dicera 1" isola essere tirannicamente governata, e chi finiva col dire che il più attendere sarebbe stato un voler propriamente lasciarsi porre il pie sul collo, se già non gliel'aveTano. Alle genti della piovcjìi Bozio si unirono quelle di Noceta e di Ommessa, e senza altro (ecero intendere ai collettori, che se si volevano contentare delle taglie, sì gliele avrebbero pagate, ma che si levassero di animo la riscossione de' due seini, poiché essi intendevano di non volergliela più pagare, dicevano, essere stanchi di tante ingiustizie Indi negarono non solo i seini, ma tutto : e si armavano, correndo a dissotterrare i fucili e quante armi da fuoco avevano nascoste. Queste piccole sollevazioni, quando non sieno sedate subitamente, sono per natura contagiose. Le vicine contrade intesa la mossa dei Bozionini, Nutrie-mi ed Ommessani si riscaldarono e furono in sulle armi. Un Pompilani e un Fabio Filinghieri messi alla testa di quelle sollevazioni si diedero a regolarne le resistenze ed offese. Il primo, siccome uomo ch'aveva servito già in qualità di ufiìziale, pensò che a dar la maggiore estensione possibile alla rivolta , era uopo levarla a fama, mandò squadriglie di pieve io pieve a far rombazzo ed a raccogliere fautori.

    Quando si vide bastantemente forte si voltò difilato verso Corte che occupò, indi passò ad Aleria e quanti non si dichiaravano nemici di Genova scannava, l'incili informato di questo moto, troppo presumendo di sé e delle sue forze, credendo che quello fosse piuttosto un giuoco da ragazzi, spinse ali' incontro delle sollevate moltitudini un cinquanta soldati. Cosi debole sussidio credè bastare contro un moto, che con tanto im(ieto sorgeva ! Il capitano che comandava a quella compagnia, giunto sul poggio di Tamagna voleva riposarvi la notte; ma gli abitanti nel bujo vi dieron dentro, impadro

    nendosi delle armi, e rimandando in Bastia i soldati, il capitano inermi, vergognosi per l'inganno, umili per lo scorno.

    I sollevati per questo motivo si rincorarono e si inanimirono : decisero di pigliare l'iniziativa e si voltarono sopra Bastia. È da sapere che i Bastiesi si tenevano dagli isolani, siccome venduti al Governo, perché fra loro risiedendo la primaria autorità, avevano ottenuto de' privilegi e delle distinzioni, onde odiati, ora cadevano sotto il flagello della vendetta. Molti poderi al di fuori della città mandarono a ruba, una deliziosa villa del Pinelli discussero e rovinarono. I corsi si avventavano coniro i corsi, perché Bastiesi erano ; insomma una compagnia di duecento fanti mandati nuovamente col disegno di disperdere quella moltitudine, prestamente indietreggiò e si chiuse in Bastia. I rivoltati vennero attorno alla città , e per esser questa non ben difesa dalle mura, le quali in alcuni luoghi erano rotte e sconnesse, facilmente vi potevano penetrare. Allora il l'incili vide che la cosa si piegava ul serio, e perciò ricorse ad un espediente assai lusinghiero e fu di mandare il vescovo di Mariana Agostino Saluzzo ai sollevati per calmarli e sapere che si volessero. Il vescovo venuto in presenza di quelli domandò qual fosse il loro consiglio , e perché così contro il principe si armassero. Il l'umpilìani in nome di tutti rispose : " Volere i corsi la diminuzione delP annuo tributo, e l'abolizione della tassa dei due seini ; che fossero rimesse in piede le antiche saline presso San Fiorenzo, Aleria. Stagno di Diana ed altri luoghi, affinchè i corsi non fossero costretti, come allora erano, a comprare il sale dai genovesi; che si restituissero le armi tolte pel divieto del 1715, oppure si desse un fucile a lesta ; che i nazionali fossero capaci di tutti gl'impieghi: che si ministrasse buona, fedele e pronta giustizia e che si abolissero i magistrati, delti commissariati, i quali lunga e venale la rendevano e solo castivagano gl'innocenti; che i processi in sei mesi si terminassero. - II vescovo promise di entrar mediatore, d'informare il Governatore e la Signoria di quanto desideravano; procurerebbe ch'eglino ottenessero tulio ciò che colla dignità del Governo e la necessilà della Camera conciliar si potrebbe. Intanto i sollevati cesserebbero dalle offese per ventiquuttro giorni, affine di avere la risposta. Duro il Pinelli non voleva concedere, ma resistere non poteva : alfine si arrese al consiglio del vescovo; e perciò i sollevati fidandosi della parola del vescovo si ritirarono alle loro case. 11 vescovo come promesso aveva, cosi fece. Rappresentò al Senato l'occorso e le pretensioni de'corsi : si aspettavano piacevoli deliberazioni.

    La notizia del sollevamento di Corsica, portava in Senato uno scompiglio. Concedere a chi domandava armata mano pareva non essere decoroso per Genova ; usare rigori, come consigliava il Pinelli, era lale misura che non poteva pigliarsi in su due piedi, posciachè l'erario non era pingue, le soldatesche mancanti, e perciò sarebbe abbisognalo di ricorrere o agli svizzeri o al governator di Milano ; e tanto questa pratica importava un tempo che i malcontenti non avrebbero tralasciato di mettere a profitto. Mentre che il Senato andava indugiando, gli giungevano novelle dei rigori usali dal Pinelli e delle accoglienze falle ai colleltori, nuovamente mandali imprudentemente per le campagne dal Governatore. Non solo queste nolizic, ma per giunta, scrivevano che i corsi si erano meglio ordinati e più numerosi si erano avviati a Bastia ; forte dubitandosi non essi fossero per impadronirsene con sommo danno delle persone e della città. I primi moli sorprendevano , quesli spavenlavano. Il Senato piegossi ad un partilo di mezzo, sapendo quanlo valgono gli uomini deslri ed accorti ed insieme onorati e prudenti, scelse Gcrolamo Vcneroso, che già iti Corsica era stato governatore ed aveva esercitato queir ufficio con giustizia, integrila ed umanità, ed aveva riscossa dalle popolazioni della Corsica somma venerazione. Il Senato gli diede amplissime facoltà di perdoni e di concessioni, purché pacificamente si addomandassero. Procurasse di non divenire alle radici della soggezione; cauto, cautamenle operasse. In costui fondavano tutte le speranze di un accomodamento e vi speravano perché sapevano quanto quei popoli lo riverivano. Ebbe ordine di salpare incontanente ed insieme con esso mandarono in Bastia trecento fanti, perché sopperissero all'imminente bisogno.

    In questo mentre il Pinelli, che o fosse tocco nell'intelletto, o smania di operare il pungesse, dava le armi a molte pievi ancora rimaste devote al genovese dominio, invitandole ad andar contro il nemico; gli armati andavano, ma siccome corsi ereno, coi corsi si univano. Allora egli volle spaventare i popoli coi supplicii. Per ciò mandare ad esecuzione si appigliò ad un tristo e basso partito. Questo era insidiare e tradire. Fece scrivere al Pompiliani che venisse con gente armata e non troppo numerosa in Bastia per non dar sospetti, poiché, recava la lettera, molti Bastiesi avevano fatto una intelligenza per riceverlo, renderlo signore della città e rivoltare del tutto Io stato da Genova a coloro, che difendevano la libertà della Corsica. Indicavangli una porta per la quale dovesse egli entrare a certo segno convenuto, non dubitasse, venisse e Bastia avrebbe. Il capitano confidando in chi scriveva, si lasciò tirare all'agguato. Marciava egli alla volta della desiderata città, quando ebbe avviso che alcune navi, che genovesi parevano, si aggiravano verso le spiaggie di San Pellegrino e facevano le viste di volervi sbarcar gente. Allora temendo di essere preso alle spalle, andò a San Pellegrino, inviando in sua vece a Bastia Fabio Filinghieri suo luogotenente.

    Intanto i genovesi ogni cosa avevano apprestata perché chi securo veniva più salvo non uscisse dalla città. Soldati in agguato, sicarii, tulio era pronto; l'infelice Fabio si appressava con una cinquantina de' suoi fidati e valorosi uomini. Dalo il segnale, la porta di Tcrravecchia si apre, entrano i corsi, e subito sono attorniati e posti in mezzo a due bande di nudi ferri. Gli si avventano e a morte mettono i confidenti soldati. •- In quella estrema fine gì' ingannati corsi e Fabio specialmente, fecero quanto per uomini valorosi far si poteva. Menando asprissimamente le mani e combattendo con molta gara , il tradimento al crudele nemico rinfacciavano. Tanto fu il loro valore, ancorché pochi conlra molti combattessero, che buon numero degli assalitori restarono morti. Alla fine la moltitudine prevalse al valore. Furono, non volendo arrendersi per non cambiare le spade coi ceppi, né il campo di batlaglia colle forche. lagliati a pezzi quasi tatti. L'infelice Fabio preso da tante braccia venne vivo in forza nemica. Tormentato aspramente, nulhi rivelò sui segreti dei compagni. Dannato a morte, sostenne con animo imperturbabile il soldatesco castigo. Il suo corpo fu fatto in quarti, il capo tronco e sanguinoso esposto sulle mura della spaventata Bastia. La quale novella come venne a notizia di Compii inni, d'incredibile furore si accese e giurò che del fedele Filinghieri e dei morti amici farebbe lale vendetta che per sempre ne resterebbe la memoria. Infatti lasciata poca gente a guardia delle spiaggie di San Pellegrino, corse pieno di maltalento con le altre verso a Bastia e dovunque passava, e cosi da lontano come d'appresso, chiamava furibondo i popoli all'armi. Sorse alla voce dello sdegnato capitano per quelle campagne un gridare, un correre, un armarsi , un incitarsi, un gridare vendetta orrendo. Bastia pericolava, e contro Bastia e contro l'odiato Tinelli rabbiosissimamente si avventarono e d'assedio gli cinsero. «

    Correva l'anno 1730, ed in aprile il Veneroso giungeva nella spaventata terra.

    Mandò egli subitamente ai capi dei sollevati dicendo, lui essere venuto per rendere la pace nel regno ; portatore di benigne deliberazioni, non dubitassero, lo conoscevano. Il Governo desiderava vedere i corsi sommessi , tranquilli. di una cosa per bocca sua li pregava. Mettessero giù le armi, e perché egli la clemenza e generosità potesse usare, dessero questo segno di obbedienza ; quindi contenti e felici sarebbero. I popoli veramente lo veneravano , temevano anche i castighi , onde parte di essi si diedero al partito di obbedire: mandarono deputati al Veneroso a giurare obbedienza , questi erano i più vicini. Ma il corpo più grosso dei dissidenti protestò, che non avrebbe deposto le armi, né riconosciuto lo imperio di Genova, se non quando le domande esposte al vescovo di Mariana fossero state esaudite.

    Il Veneroso che conosceva l'ostinazione di quei popoli, subitamente spiegò con pubblico bando le intenzioni di Genova; questa costretta concedeva quello che i corsi avevano dimandato, ma le armi no. 1 corsi pensavano che quelle concessioni non fossero per durare, che per quanto sarebbe durato

    il pericolo; e che indi Genova sarebbe insorta con più sicuro partito contro l'isola disarmata e sonnacchiosa. Dal fidarsi al non fidarsi stimarono meglio di starsene coli'armi in pugno. Intanto in grandissimo numero si adunarono a Monte d' Olmo e poi a concitare meglio gli animi pubblicarono un manifesto , dove le cose che dicevano contro Genova e contro i genovesi ognuno si può figurare. Chiamavano tutti gli isolani alla rivolta , la morte di tutti i genovesi sarebbe la vita dell' isola ; si il facessero, perocché questa era opera santissima. Questo era troppo, ma tutti i torli non aveano i corsi.

    Il venerando Veneroso vide che inutil cosa era parlare a nome della Repubblica, disegnò di porlarsi al campo nemico e procurare, se possibil fosse, di ammansire quegli spiriti turbolenti. Andò a Monte d'Olmo e col Pompiliani e coi capi corsi parlò. Disse parole di amore, usò la dolcezza, pregò, scongiurò, ma inutilmente: questo solo lagrimando terminava, questo solo, e più degli onori ricevuti nella diletta sua patria, e più della contentezza nata dalla fede, ch'ella aveva in lui, tutta la vita sua consolerebbe e rallegrerebbe, se ciò conseguisse, che i suoi amati corsi lici!' obbidienza la felicita trovassero.

    Il Pompiliani rispose a nome di tutti : i corsi vedere con dolore, e lui più di ogni altro , che un tanto uomo cosi amato da essi e venerato, perché buono, giusto e savio era, avesse preso quel carico di portar loro le odiose proposizioni dei tiranni. Sempre lo terrebbero per padre della patria, mai non dimenticherebbero la dolcezza e la prudenza con cui gli aveva governati ; di lui si fiderebbero , di Genova no. Quindi il corso soggiungeva astutamente: egli, egli solo potrebbe rendere un gran servigio ai corsi; lo avrebbero obbedito come padre, come padre venerato. Se i vostri beni, continuava insidiosamente , e le dignità avete in cale, e dal fare la generosa risoluzione vi rattengono ed a tornare ai tiranni nostri v'invitano, siate re, siate principe nostro , per voi signore e duce nostro avremo in avvenire il medesimo amore, il medesimo zelo, la medesima obbedienza che per lo passato, e quando così dolcemente per un acerbo tovrano ci governavate , avemmo.

    Veneroso siccome virtuoso era inorridì e per ogni dove; a Genova

    sdegnossi alla vergognosa proposta, e vergognosa era per chi la Taceva. Sdegnossi altresì perché lo si credesse così basso d'animo e cosi nemico della sua patria, da essere capace di abbracciare quel partito che con ribelli e sopra ribelli il metteva a regnare. Persuaso che le dolcezze non valevano, che tardi si erano usate, vide l'estremo rimedio essere nella forza. Doloroso e sdegnato abbandonò Bastia ed a Genova si ridusse, con la cosa non fatta, ma colla coscienza pura tornò. Tornò pure il l'incili che aveva terminato il biennio dell'ufficio suo. Il Senato spedì in Corsica due governatori, Francesco Gropallo pel civile, Camillo D'Oria pel criminale. Gli accompagnava nell'isola un forte nerbo di soldatesca. Uomini rigorosi, risoluzioni rigorose portavano. Subitamente proibirono la vendita del sale, credendo clic la mancanza di questo genere necessario togliesse la superbia ai corsi. Peggio, da Monte Olmo corsero intorno a ventiquattro mila uomini tutti armati e decisi di dar contro a Bastia ; locchè fecero con vantaggio. Allora s' interpose a concordia Camillo Mari vescovo d'AIeria : gli ammutinati presero qualche speranza, e da Bastia si discostarono, però sempre uniti e in arme. In tutta l'isola intanto succedevano uccisioni, massacri e rubamenti. A Renno il popolo corse al palazzo del Podestà, lo incese e lasciò semivivo quel magistrato, che dopo morì. Quanti esattori di taglie cadevano nelle mani del Pompiliani, tanti li faceva nudi percuotere e così rotti e dolorosi li mandava a Bastia. Impossessatosi di Aleria, coloro che avevan voluto fare resistenza a fll di spada mandò. In ogni luogo o paese dove passava, lasciava 1" incendio e la morte. Per tutto ove poteva, ergeva fortificazioni, conoscendo che da ogni lato potevano venire le offese da parte di una potenza, che per forze di mare valeva.

    Questo facevano i corsi ed i genovesi dove potevano, infuriavano aneli' essi. Il rettore militare della città di Cairi, figliuolo al Veneroso , usciva con le sue truppe e andando ad Ajaccio, passando per Vico, ed a ferro il mise ed a fuoco. D'Oria prese Furiani e Biguglia e queste terre egli pure mettendo a ferro e a fuoco. La ribellione si era levata

    non rimanevano che Ajaccio, Calvi, Bonifazio e Bastia.

    11 Pompiliani, caduto in agguato, era venuto in potere di Genova. I corsi tennero consulta nella pianura di San Pancrazio sotto Biguglia ; vi erano poco meno di dodici mila persone. Quivi dessero generali della nazione Andrea Ciaccaldi Colonna, e Luigi Giaflerri. I popoli salutaronli capi della nazione e verso di loro si strinsero ad obbedicnza con giuramento. Le cose ecclcsìastiche affidarono a Domenico Raffaeli!, sacerdote molto stimato dai corsi.

    I due generali si misero a stringer Bastia, le schiere dei rivoltosi in poco tempo s'impadronivano dei luoghi più importanti. In questo pericoloso momento Gropallo e D'Oria dubitando della difesa, spedirono nuovamente ai sollevati il vescovo di Aleria per appiccare ragionamento di concordia col fine di acquistar tempo pci disegni ulteriori. Il vescovo fu accompagnato da un frale per nome Isaia in grandissima estimazione presso ai corsi per le rare prerogative che Io adornavano. Il vescovo ed il frate si presentarono a Ciaccaldi e Giafferri. S'accostarono al trattare. I genovesi volevano guadagnar tempo; questo era il loro disegno, i corsi volevano che gli si accordassero tutti i capitoli che avevano messo in campo nel primo abboccamento. I genovesi rispondevano non avere essi dal Governo facoltà di concludere. L'astuzia vinse 1' ostinazione dei corsi. » Convennero allineile la cosa si potesse trattare in Genova, che si sospendessero le offese per quattro mesi; che in questo mezzo tempo fosse lecito a qualunque corso di entrare armato in qualunque terra forte o altro luogo tenuto dai genovesi, eccettuata solamente Bastia; che la vendita del sale fosse libera, e libere si lasciassero le marine pei traffichi dei nazionali: che fosse vietato alla Repubblica qualunque aumento di forlificazioi.i; che si rimettessero in libertà tutti i carcerati. Gropallo e D'Oria consentirono; vergognoso consentimento, se non fosse stato disegno. » Questi due commissarii furono richiamati dalla Signoria di Genova, siccome odiosi ai corsi e cattivi strumenti per sopperire. Mandovvi in lor vece Carlo De' Fornari e Giambattista Grimaldi. Costoro tentarono di tirare in dolcezze

    gì'isolani, ma non pretermisero di fortificare a dovere Bastia. Le proposizioni dei corsi non erano accettabili, quelle di Genova nemmeno. Un prete Aitelli corso mandato dai sollevati a udire le intenzioni dei genovesi, ritornò al campo e spiegò ai generali quali fossero i sensi di Genova e come in Bastia si armassero. Allora si accesero di sdegno e furenti s'incamminarono alla volta di San Fiorenzo e se ne impadronirono. Quindici giorni dopo la rocca venne pure in mano dei sollevati. Non perdendo tempo in mezzo corsero le marine verso Calvi ; Mortella, Àlgajola sottomisero, e parecchie torri espugnarono. Ciaccaldi e Giafferri corsero sopra Bastia, ma impossessatisi di alcuni posti, per prudenza non vollero tentar oltre cangiando

    10 assedio la oppugnazione.

    I greci che in Corsica nel luogo di Paomia erano, che quelle terre tanto avevano rese ubertose e felici, invidiati e odiati perché Genova riverivano ed amavano, furono costretti ad abbandonare i propri lari e ricoverarsi in Ajaccio ; quantunque in diverse scaramuccie avessero dimostrato ai corsi che

    11 sangue spartano che per le loro vene trascorreva, non era punto degenerato.

    Genova ben si avvide che senza un- buon nerbo di truppe non poteva reprimere quelle popolazioni, ornai tutte sollevate e in armi cosi pronte che le mezze misure più non valevano, anzi pregiudicavano l'onore e la fama di essa. Quantunque ella facesse scorrere il mare dalle sue galee, volendo con questo impedire che i corsi avessero soccorsi e munizioni ; pure i corsi ricevevano e munizioni e soccorsi. Navi inglesi, francesi, spagnuole e toscane approdavano ali' isola, e cannoni, polvere, schioppi e tutte quelle bisogne portavanvi. Chi le mandasse non sapevasi, ne catturavano di Francia e d'Inghilterra, ma queste rumoreggiavano, e Genova doveva escusarsi presso coloro che le facevano sordamente la guerra. Per ciò la Repubblica venne in sospetto, che la rivolta ora fosse fomentata maggiormente per qualche Potenza, la quale volesse indi tra due contendenti godere. Si rivolse, determinata di abbassare quella superbia de' corsi, a Carlo vi. imperator d'Austria affine di ottenere da esso tanti fanti e tanti cavalli che

    valessero a far guerra nel!' isola con successo. L'imperatore aderiva, tanto più che anche esso sospettava che dentro a quella mattassa vi fosse nascosto un qualche premeditato disegno di una delle Potenze che sembravano favorire la ribellione : e che altri s'impadronisse di quell'isola non amava, piuttosto egli sì. Adunque i genovesi convennero con Austria per avere ottomila tedeschi ; quattro mila soltanto ne assoldarono e spiccarongli in Bastia subitamente, dove sbarcarono il 10 di agosto del 1731. Vacbtendock reggeva i tedeschi; Camillo D'Oria governava le truppe di Genova. Così in Bastia vi si trovò un esercito capace d'intimorire chi non fosse stato invasato o dal!' amore della libertà o dall'odio contro Genova.

    D'Oria siccome era uomo audace, sentitosi in polso di potere menar le mani, volle uscire subitamente a combattere i nemici. Facilmente fugò le prime schiere, ed ajutato dal generale tedesco e da Valdstein che guidava la sinistra schiera , arrivò a fugare intieramente i sollevati sbandandoli per le campagne e impadronendosi di quattro cannoni , di polvere e projetti. Questa fazione sciolse 1' assedio di Bastia , e fu un' importantissima vittoria su quei primi principii, da far dubitare i corsi del loro destino. Il Resteri era compagno al D'Oria in questa battaglia . che avendo servita bene la Repubblica e bene da lei ricompensato, preservava fedele quantunque corso fosse. Settanta all'incirca furoni i prigionieri, tra i quali fuvvi il Padre Bernardino di Casacconi cappuccino, uno de' più ardenti sostenitori della loro causa. » Questo religioso, narra il Botta, quantunque già vecchio e di gambe invalide fosse, non solo nelle adunanze civili, dove si trattavano le faccende della patria, interveniva molto zelantemente, ma fra le armi ancora e sui campi di guerra volentieri si ravvolgeva, capitani e soldati a difesa della causa, cui santa chiamava, sollecitando. Narrano anzi, eh' egli nel giorno della Pentecoste , presente una numerosa assemblea radunata nel paese di Corte, prendendo l'argomento dalle lingue di fuoco discese nel Cenacolo sul capo dei discepoli di Gesù Cristo, ad alta e concitatissima voce, pieno di entusiasmo così politico , come religioso , avesse gridato: Fuoco, fuoco conviene adoperare contro de' genovesi. »

    II D' Oria dopo questo fortunato fatto d' armi, promulgò un editto di perdono a chiunque fra quindici giorni ali' obbedienza tornasse; escludendo i capi ed il canonico Orticoni, caldissimo sostenitore dei rivoltati, anzi su costoro mise una taglia di duemila scudi a chi gli uccidesse, e di tremila a chi vivi nelle mani del governo gli consegnasse. Quindi seguitando la fortuna prese Cardo e Canari e gli diede alle fiamme. In questi fatti parziali, le sanguinose scene, e le tremende vendette aumentavano. Corsi facevano impiccare genovesi, e genovesi facevano impiccar corsi. Costoro furono battuti a S. Fiorenzo, e nella provincia di Nebbio, e poi ritornati alla pugna ricambiarono le percosse ai genovesi rompendoli a Calenzana e facendo prigioni di guerra Salvator Giustiniani e Gcrolamo Partengo fra i molli i più notabili. I tedeschi s'impadronivano nel tempo medesimo di S. Pellegrino; posti tra due fuochi Ottengono generosamente da Giafferri il libero ritorno a Bastia. Per questo il Vachtendok tenta di appiccar pratiche d'aggiustamento. Per due mesi si sospendono le offese, ma non si venne a conclusione, perché i genovesi coli' ajuto degl' imperiali divenuti avvantaggiati, ricusarono di prestar orecchio alle proposizioni dei corsi.

    La guerra cominciò da capo; nuovi rinforzi si attendevano da Milano, perché l'esercito e per la guerra, e per le malattie era decimato. Giunsero le truppe tedesche comandate dal generalissimo il Principe Luigi di Wirtemberg, sommarono a quattromila, le accompagnarono altri due generali, il Principe di Culmhach, a Schmettan. Il generalissimo ordinò di combattere regolarmente. Spirato il termine dell'indulto dieron dentro ai D etnici, ove con avversa, ed ove con prospera fortuna. Valorosi si dimostrarono i tedeschi, valorosi i corsi, e valorosi i genovesi, e tra questi un valorosissimo capitano per nome Vela. Finalmente la fortuna mostrò benigno il viso ai collegati; i corsi andavano per tutto battuti e sbandati. Allora il Principe di Wirtemberg volendo Osare il terrore impresso dalle sue armi, mandò fuori un editto col quale annunziava ai popoli di Corsica,

    che la Serenissima Repubblica era disposta tosto che fossero sedati i tumulti di far ragione ad essi, acciocché la tranquillità del regno fosse assicurata. E perché i corsi non si fidavano di Genova, il Principe promise, che F Imperatore entrava mallevadore non solamente della perdonando generale, ma si ancora di tutti i provvedimenti che la Repubblica prometteva a vantaggio e sollievo del regno e dei popoli di Corsica.

    I corsi percossi da tante disgrazie piegarono all'invito; i capi Giafferri e Ciaccaldi, mancando il sostegno dei popoli, inviarono ai 3 di maggio 1732 otto deputati al campo di "Wirtemberg. Essi recarono, volersi assoggettare con giuste condizioni alla Repubblica. Accetterebbero con assai di riconoscenza la malleveria imperiale. Quindi i capi andarono a deporre le armi a nome della nazione, appresso al Principe. Stabilirono che la pace si tratterebbe a Corte. Alle consulte intervennero da parte dell'Imperatore i Principi di Culmbach, e di Waldeck, il barone di Vachlendock, ed il conte di Ligneville; per Genova Camillo D'Oria, Francesco Grìmaldi e Paolo Battista Rivarola ; per la Corsica Luigi Giafferri, Andrea Ciaccaldi, Simone Raffaeli!, Carlo Alessandrini, Evaristo Piccoli da Ciattra, e con essi il Mari, vescovo di Aleria. Presiedeva quest'adunanza il Principe di Wirtemberg. Dopo alcune parole calde da una parte e dall'altra si strinsero al negoziare, ma non potendo le parti addivenire ad una conclusione si aggiornarono agli undici del corrente mese di maggio. In fine tenutasi questa consulta furono accordati i capitoli a norma dei quali dovevano per l'avvenire i Corsi e la Repubblica osservare le convenzioni ivi espresse. Le principali furono le seguenti.

    " La Repubblica condonava ai corsi le spese da lei fatte per causa delle turbazioni recenti. «

    •i Condonava medesimamente le taglie, ed ogni imposizione decorsa, e cosi ancora i sussidii dati in denaro od in vettovaglie ai corsi ncll' occorrenzc di penuria. »

    « Consentiva, che si formasse in Corsica un ordine di nobiltà matricolata, e che gli ascritti godessero dei medesimi onori e prerogative dei nobili di terra-ferma. »

    " Prometteva di non opponi all'esaltazione alla dignità episcopale degli ecclesiastici corsi, né alle visite dei visitatori apostolici, salvo il diritto sovrano d'invigilare, che le dette visite per soverchia frequenza non divenissero di troppo grave peso al regno. »>

    •n Prometteva altresì di concorrere alla fondazione di collegi in Corsica per la studiosa gioventù. •»

    » Si rinnovò l'antico uso, che il regno di Corsica potesse tenere in Genova un oratore, il cni ufficio fosse di promuovere presso la Signoria gì' interessi, cosi del regno generalmente, come di ciascuna parte di lui, o di qualunque individuo che si fosse. »

    -Si statuì, che fossero eletti per durare in Magistrato tre anni, e cosi ogni triennio tre promotori delle arti e del traffico, due del Cismonti, uno dell'Oltrementi, con non poche prerogative, ed esenzioni, e con carico d'informare, proporre e coll'ajuto del Governo fare tutte quelle cose, che all'avanzare Pagricoltura, le arti ed il commercio contribuire potessero. »

    « S' accordarono esenzioni di pagamento suite tratte delle sete col fine di promuovere le piantagioni dei gelsi, e la cura dei filugelli in un paese a tale industria così confacentc e propino, i

    « Convenissi, che in ogni luogo di residenza di Governatori, Magistrati e giusdicenti, vi fosse un arrecato, o sia protettore dei poveri carcerati per la spedizione delle loro cause. «

    « Fu similmente convenuto, che i nobili dodici del Cismonti, e i nobili sei dell' Oltramonti eleggessero rispettivamente un avvocato, cni chiamarono piatese, per assistere in tutti i sindacati le suppliche dei poveri ricorrenti contro gli aggravi! stali loro fatti dagli officiali si di giustizia che di amministrazione , o di milizia, e che, i delti nobili potessero anche deputare, o sia eleggere in tiascun luogo, dove giusdicente vi fosse, un simile avvocato, o piatese con obbligo di far pervenire per mezzo dell'oratore, o in altro modo alla Signoria, o al Magistrato sopra la Corsica quei ricorsi, sopra dei quali i sindaci biennali non avessero sufficientemente provveduto.»

    Inoltre per la tutela dei corsi il seguente ordinamento era migliore di tutti, ma cer

    tamente non decoroso alla dignità della Repubblica. Accordossi che l'Imperatore dovesse fondare in Bastia una camera di giustizia, ove si darebbe appellazione ogni qual volta la Repubblica od i suoi Ministri contravvenissero ai convenzionati capitoli. Fosse composta d'un presidente, d'un vice-presidente, d'un segretario, di sei consiglieri e di due commissarii. G' impieghi conferisse P Imperatore, eccettuati i due commissarii, i quali dovrebbero nominarsi uno da Genova, e l'altro dai dieciotto nobili. Le parti promisero P osservanza dei patti, che l'Imperatore ratificava a Vienna addi 26 di marzo del 1733.

    Ora è chiaro per le cose anzidetto che Genova poco ebbe, anzi nulla a guadagnare in quelle guerre; ed apparivano le consentite condizioni vergognose e perniciosissime per l'avvenire. Cosi il non avere ceduto dapprima alle giuste riclamazioni dei corsi; Pavere dimostrato animo avaro e prepotente fu cagione che la Repubblica in peggiori condizioni di prima si trovasse, ed inutilmente avesse speso meglio di trenta milioni per dimostrare al mondo che non aveva forza bastante per farsi riverire, e tanta clemenza e generosità per farsi amare.

    Chi volesse ora tener dietro ai successivi avvenimenti sarebbe cosa lunghissima e fastidiosissima e dirò anche vergognosa per noi, giacché anche dopo i patti, pur questi si violarono, che Giafferri, Ciaccaldi, il pievano AitHIi. e Raffaeli) furono ingiustamente arrestati e tradotti nelle carcari di Genova; quantunque dopo per opera di alcuni Principi fossero fatti porre in libertà.

    Corsica era stanca di Genova, Paoli sorgeva a rinfocolar quegli animi a vero dire instabili ed ineducati ; in questo Giafferri nuovamente mette pie ncll' isola; il rumor delle armi levate per ammazzar genovesi lo avrebbe tirato dall' Indie. Pigliano Corte, pensano che a portare l'impresa a non più periglioso partito sia bene darsi in braccio a qualche potenza. Scelgono Spagna, innalzano la bandiera aragonese, e Spagna ricusa l'offerta. Allora più saviamente si elimino ad operare per conto proprio, e come se Genova non fosse, statuirono proprie leggi, e nominarono il Giafferri, il Ciaccaldi, ed il Paoli capi della nazione, e gli onorarono del titolo di Altezze Reali. Ma se bene pensarono in quanto al trattare le cose di loro, per loro', male anzi peggio deliberarono in quanto al nominar diversi capi e a dare preminenze ed onori. Quegli che potevano essere i fondamenti della corsa indepedcnza, furono gli stromenti di sua distruzione. I. ambizione è tiranna, anzi sterminatrice e ministra sanguinosissima del reggimento democratico

    Genova fortificata, attendeva ali' assedio dell1 isola; i corsi per questo nuovo genere di guerra erano ridotti a cattivo partilo ; imperciocché le navi genovesi attorniando l'isola impedivano lo sbarco in essa di viveri, polveri, munizioni ec. I corsi in durissimi termini essendo, stavano per piegare In fronte, quando un solennissimo impostore gli francò da quell' atto umilissimo.

    Costui fu quel Teodoro barone di Neuhof, il quale per ultimo partito delle sue tante ribalderie scelse di larsi incoronar Re di Corsica. Il suo arrivo nell' isola, le sue imposture , le macchinazioni, l'ingegno a'd uccellare non solo le genti, ma le nazioni saranno mai sempre motivi non di ammirazione ma di disprezzo sorprendente. Pertanto soccorsa da costui T isola di danaro, di munizioni e d'armi, mise in sospetto la Repubblica non sotto a questo covasse un' insidia di qualche potenza, la quale si servisse di simile stromenlo, per quindi a tempo opportuno saltar su e farsi propria la Corsica.

    Genova si appigliò al partito d'invocare una seconda volta l'ajuto dello straniero; questa volta scelse Francia per ragioni particolari. La cosa non incontrava difficoltà, anzi gradivasi.

    Tra Francia e Genova per mezzo del suo Plenipotenziario si stabiliva.

    Il Re di Francia manderebbe in Corsica sei battaglioni per rimetter I" isola sotto la dominazione della Repubblica.

    La Repubblica pagherebbe alla Francia un sussidio di settecento mila lire.

    Non bastando i sei battaglioni, Francia ne manderebbe sedici ed anche più ; in questo caso la Repubblica pagherebbe due milioni.

    Segretamente convenivasi che la Francia marnerebbe illesa la dignità e la sovranità della Repubblica, e per niun conto s'intrometterebbe nell' amministrazione e nel governo.

    Francia sospettava di Spagna, di Olanda e dell'Inghilterra, e però era facile consenziente.

    Tremila buoni soldati ed un conveniente treno d'artiglieria si mandarono in Corsica. Il conte di Boissieux era preposto a lor comandante. L' arrivo delle armi francesi in Corsica metteva sossopra tutta l'isola; narrano che fino dai primi giorni si levassero in armi meglio di sessantamila uomini. L'impeto francese e l'ordine della guerra scemò quella massa di gente indisciplinata. A Boissieux morto nell' isola succedette il marchese di Mailleboix, il quale dopo fieri e numerosi combattimenti, ottenne di sottomettere tutta la regione cismontana. Paoli, GiafTerri ed altri capi col consentimento del Comandante francese s'imbarcarono, ed in Napoli capitanearono negli eserciti di quel Re con valore, e furono insigniti di gradi onorevoli. Tutta l'isola all'anno 1740 era tornata in divozione di Francia e della Repubblica ; allora pubblicossi per la seconda volta il trattato di Fonlaincbleu; questo recava pace e vantaggiose condizioni ali' isola.

    Partiti appena gli eserciti francesi, i corsi pigliavano nuovi prelesti per insorgere: questa volla insorsero a torto, ma fomentavali quel bugiardo Teodoro.

    Costretto a partire dall' isola disprezzato e non creduto dai corsi medesimi, fini la sua vita in Londra, vita che tra il carcere e la reggia passò meschina ed inonorata.

    In ultimo Corsica stanca, stanchissima Genova pubblicò nel 1744 un convegno, che riusci a metter pace nell'isola per poco più d'un anno, quindi l'estera politica vi seminò nuovi guai, ma prima rampollarono in terraferma e particolarmente in Genova.

    Ora perché e' inoltriamo nella narrazione di un fatto unico nella storia universale, ci è d'uopo a fine di bene avere innanzi agli occhi le condizioni in cui si trovava l'Europa in quel tempo, rivolgere lo sguardo in addietro. Francia, e Spagna più non imperavano in Italia; Austria possedeva il Milanese, i regni di Napoli e di Sicilia, i porti della Toscana, il ducato di Mantova, e i feudi imperiali de' quali molti si trovavano nel cuore stesso della Liguria. La preminenza austriaca era mal volentieri tollerata dalle due potenze rivali. Esse ricordavano di avere comandalo ali1 Italia, e quel vedersene del tutto escluse era una piaga insanabili1.

    Carlo Ti. cingeva la corona imperiale, senza prole virile, disperava di averne, e non ne aveva. Già fino daH7l2 aveva ordinato, e nel 1724 pubblicato la prammatica sanzione per la quale tutta l'eredità de' suoi vasti dominii doveva tramandarsi ali" Arciduchessa Mariateresa, sua primogenita. Ma perché questa sua determinazione sortisse 1" effetto desiderato, era d'uopo che le potenze Europee, mentre ancor egli vivea, vi consentissero, e per rata e ferma l'avessero. Molti, non ignorava egli, che avrebbero visto con assai di soddisfazione che quel colosso austriaco cadesse, perciò con arte si aveva accaparrato la Russia e la Prussia ; ma Spagna e Francia rammentando gli antichi diritti stili" Italia, stavano sul tirato, ed il consenso prolungavano, anzi miravano dove si dovesse contare, quando egli mancasse, per menare le mani con opportunità. Ben tosto a Francia le si offerse motivo di cimentar le armi già forbite, per la successione al regno di Polonia. A Francia si accostarono Spagna e Sardegna, tutte e due ansiose di conquistare l'Italia e spartirsela. Inghilterra ed Olanda dovevano rimanersi neutrali.

    Il Maresciallo Villars scese in Lombardia unitamente ai piemontesi. Vigevano, Novara, Tortona, Pavia, Milano, Lodi, Cremona, e tutto il Milanese fu inondato dalle armi dei confederati. E qui le discrepanze nocquero alle successive diliberazioni, perché Sardegna voleva restarsi a munire il conquistato; Villars invece voleva avventarsi ai passi del Tirolo per impedire che i tedeschi calassero al piano, come minacciavano. Sardegna faceva suoi conti, perché secondo i patti prestabiliti ad essa doveva toccare il grasso paese.

    Intanto che Italia superiore era in preda delle armi piemontesi e francesi, la bassa non quietava. Spagna pretendendo la sua parte della penisola, mandava il conte di Montemar a prorompere verso Napoli. Don Carlo Duca di Parma e Piacenza figliuolo del Re Filippo e di Elisabetta Farnese, correva insieme cogli spagnuoli il paese della Chiesa. Le cose cosi speditamente riuscivano che presto Napoli renne in poter di Spagna. Questa non si dava pace se non vi aggiungeva la

    Sicilia; e pur questa senza quasi sparger stilla di sangue venne un'altra volta in signoria di Spagna.

    Le armi tedesche non solo nella penisola erano battute con vantaggio, ma ricevettero a Guastalla un di quelli urti che le subbissarono. I piemontesi ricordano ancor oggi quel combattimento con un giusto orgoglio nazionale, poiché davvero vi si mostrarono intrepidi e valorosi guerrieri.

    Austria a questi dolorosi termini ridotta, desiderava la pace; semprechè per essa fosse riconosciuta la prammatica sanzione Spagna era contenta dell'acquisto di Napoli e della Sicilia; il Re di Sardegna possedeva finalmente il tanto desiderato Milanese. Francia non aveva acquistato paese per sé, e non voleva a petto delle altre rimanere senza un frutto di quella guerra. Da sola entrò a trattare con 1' Austria condiscendendo ad una tregua, a condizione che il gran ducato di Toscana passasse, dopo la morte di Giangastone, a Francesco Duca di Lorena, il quale per ciò doveva rimettere ogni ragione alla Francia sulla Lorena stessa. Spagna e Sardegna strepitarono, ma inutilmente: si accontentarono e riconobbero la prammatica sanzione.

    Moriva il Duca Giangastone ; Francesco marito di Mariateresa s'impossessava subitamente della Toscana, riducendo così questa bella parte d" Italia in dipendenza della cnsa d'Austria. Di poi moriva Carlo Ti. Imperator d' Austria e padre siccome dicemmo di Mariateresa. Questi avvenimenti svegliavano in Europa desiderii e speranze. Le potenze che avevano giurata la prammatica non potendo saltar su ragionevolmente, mandavan fuori cavilli, e intanto forbivano le armi. Francia più di tutte, quelli e queste pretestavano, preparavano. Or essa affine di abbattere la casa Austriaca, si metteva a sostenere i pretendenti a quel regno. Sorsero e Carlo elettor di Baviera, Filippo di Spagna. Federico di Prussia, ed Augusto m. Re di Sassonia : costoro mettevano in campo un mondo di diritti, ma non intralasciavano di accompagnarli dalle armi, che mandavano innanzi. Intra essi si accordavano, a ciascuno toccherebbe un boccon della torta. Sardegna per non rimanersi colle mani alla cintola, si accostava alla lega.

    Mariateresa, intanto che un tal nembo addensarasi sul capo di lei, si faceva gridare in Vienna Regina d'Ungheria e di Boemia, e Sovrana ereditaria di tutti gli stati che appartenevano al padre suo.

    A Presburgo convocata la Dieta, vi presentava il figliuolo numi' bambino, che fu poi Giuseppe. I baroni commossi, giuravano di difenderla, e tutti i popoli d'Ungheria, e la maggior parte delle provincie austriache si levarono in armi. Allora il Re di Sardegna pacificatosi con essa lei voltò bandiera e si unì alP Austria, in ciò consigliato anche dalPInghilterra, che desiderava di muover Francia. Carlo Emmanucle e Mariateresa stipulavano un trattato in Vormazia ai 13 di settembre del 1743, pel quale il Re riconosceva la prammatica sanzione di casa
    Francia a questa novella fermava una lega difensiva ed offensiva con Spagna, ed ai 30 di settembre intimò formalmente la guerra alla Sardegna. Questa faceva altrettanto, e quindi le due confinanti rompevano a guerra. Intanto che seguitavano queste battaglie - si conviene, ripiglia il Botta, all'ordine della storia, che facciamo parola della Repubblica di Genova, a cui pel trattato di Vormazia veniva tolta dall'Austria e dalla Sardegna una parte importante dello stato, parte, ch'ella possedeva per consentimento di tutti, anche degl'involatori medesimi, già da lungo tempo. Parlo del marchesato del Finale eh' ella aveva, oltre le sue antiche ragioni, compro dall'Imperatore, per un milione e ducente mila

    pezze, e di cui ella era entrata in possesso. L'Imperatore Carlo vi. se gli aveva presi questo milione e queste pezze, ed ora la sua figliuola per gratificare al Re di Sardegna, di cui aveva bisogno, cedeva la cosa venduta e compra, senza partecipazione del compratore, e con promessa solamente di restituzione del prezzo a carico di chi non aveva né voglia, né possibilità di pagare, cioè del Re di Sardegna. Bene era serbarsi la montagna delle pezze, ma sarebbe stato meglio serbar la fede con serbare al compratore la cosa comprata. Misera Genova, ch'era piccola! 11 pianto più forte, che presto faremo di lei, pruoverà sempre più, che la miglior ragione è quella dei cannoni, e che han fatto bene a serivervela su. «

    Genova immediatamente faceva protestare contro quella manifesta ingiustizia alle corti d'Austria e d'Inghilterra, per mezzo de' suoi Ministri colà residenti. Senza ch'io l'accenni ognuno s'immagina quali fossero le risposte date ad una protesta da parte di un debole. L'una si schermiva, l'altra al solito colle lagrime agli occhi diceva dolerle della disavventura della Repubblica, ma il Re di Sardegna essersi cosi mostrato cupido del Finale eh' ci non pareva da sperarsi che se ne fosse mai rimosso. Per così poco non credeva essa di disgustare un alleato tanto utile a serrar la porta d'Italia ai gallispani. Questa era Inghilterra !

    In tali gravi e dolorose emergenze chiamossi a consulta il minor Consiglio. Più volte si adunò, e finalmente vinse il partito di accedere alle instanze che con molta vivacità Francia e Spagna non intralasciavano di fare. Al postutto il primo di maggio del 1745 la Repubblica, Francia, Spagna e Napoli convennero in Aranjuez, e quest'ultime si obbligarono a difendere e guarentire i suoi stali, e nominatamente il Finale, con che essa unisse alle loro forze un corpo di diecimila soldati in qualità di ausiliarii, e fornisse altresì un treno di artiglieria per coadiuvare alle imprese che si stavano preparando.

    Mentre che la Repubblica assoldava genti, e forbiva le armi, Austria, Inghilterra e Sardegna vollero castigarla di essersi unita alle potenze nemiciie, cioè di essersi concordata con quelle alla difesa del proprio territorio. Sapevano che a tribolarla con frutto, era uopo levar su la Corsica che quietava. SI il fecero; Savoja ed Austria manda va i io fuori un manifesto dicendo, che sapevano come fosse risola barbaramente trattata dai genovesi, e perciò esse spinte dall'amore per quella, volevano liberarla. Inghilterra alle parole uni i fatti, mandando le sue flotte ad insultare Genova nella Corsica. L'Ammiraglio Townshend si appresentò in cospetto di Bastia, intimando al Commissario Stefano De' Mari di dar la piazza. Costui brevemente rispondeva, se poteva se la pigliasse. L'inglese, ed il genovese si tirarono assai colpi e tali da una parte che la capitana fu malconcia e fu costretta a farsi rimorchiare. Quel che non potè la forza, poterono gli artiflzi, a talché 1" isola si levò in armi, e quindi di nuovo per necessità si sottomise alla Repubblica; ma le faville non erano spente, ma abbene coperte.

    Col nuovo anno dovevano mutare d'aspetto le cose. Mariateresa si amicava con la Russia e con la Polonia, per ciò si costituiva in grado di soccorrere più efficacemente alla sua armata in Italia. I tedeschi si avvantaggiarono soccorsi da poderosi ajuti mandati giù dal Tirolo. In ogni parte d'Italia superavano, vincevano.

    Gii spagnuoli erano a campo in Piacenza, a tale partito che Gages che li comandava domandò soccorso a Maillebois che su l'alto Monferrato fronteggiava il Re di Sardegna. Il Generalissimo francese venne subitamente, a talché francesi, spagnuoli, napolitani e genovesi formavano grossa testa a Piacenza. Questa città pareva destinata ad essere spettatrice dell'esito di quella campagna. Andava la notte dei 15 ai 16 di giugno, quando i soldati delle tre corone e della Repubblica saltarono fuora del loro campo, e si avventarono ai tedeschi che gli accerchiavano. Lichtenstein gli reggeva. stette saldo ad aspettarli. Quivi successe una mischia sanguinosissima. I confederati cominciarono a confondersi, e quindi a fuggire, quantunque arrivasse il prode Maillebois con un drappello di cavalleria animando e chiamando i suoi soldati ali' onore, alla pogna, ma inutilmente.

    Mentre che i francesi andavano perdenti sull'ala destra; sulla mezzana era battuto il

    Generale spagnuolo, abbeochè molta energia e molto valore avesse dimostrato nell'assalto di due ridotti, che due volte li prese e due volte ne fu rincacciato. In ultimo fu costretto di rientrare ne' suoi alloggiamenti. La vittoria ebbero gli austriaci, ma sanguinosa. I confederati perdettero seimila soldati, dicci cannoni , e dieciotto bandiere : mancarono fra gli austriaci cinquemila. Per dar sepoltura ai morti e curare i feriti si sospesero le offese per un giorno; il Generale austriaco infermo già da qualche tempo si ritirò, lasciando il governo delle armi al marchese Rotta, il quale ebbe tantosto ordine da Vienna di obbedire al Re sardo come generalissimo.

    L' esercito dei confederati era ancor di qualche importanza, ma avendo dal nemico interrotte le strade, gli mancavano le vettovaglie, ed il più rimanere in Piacenza aumentava le suo angustie. Il Generale francese pensò adunque di aprirsi un passo sulla sinistra del Po, correndo il paese tra l'Adda e il Lambro ; segregare i piemontesi dai te deschi, e passare fra di loro per ridursi nei contorni di Novi. Detto fatto, e questo passo del Po, nota stupendamente il Rotta, in mezzo a due eserciti nemici è una fazione delle più celebrate nelle storie, e la lode di chi la divisò, cioè del Maillebois deve andare innanzi nella posterità.

    L'esercito spagnuolo esso pure si levò da Piacenza salvo il presidio che rimase poscia prigioniero di guerra, tenendo dietro al francese e protetto da questo andarono e l'uno e 1' altro ad alloggiare in Vogherà ; cosi Maillebois conseguì il suo fine di attraversare gli eserciti nemici, e guadagnare le falde dei monti liguri, per donde avere libera comunicazione colla Francia.

    Il Re di Sardegna pensò aHora che la guerra andava a terminare in Provenza, e perciò si mise in cammino per giungere sulle alture della occidentale riviera. Giuseppe Maria D'Oria governavate sino ad Òneglia, Anfrano Sauli da Òneglia fino a Savona. Escher maresciallo di campo della Repubblica aveva a cura le soldatesche regolari. Un Filippo del Carretto di Halestrino nemico a Genova, comandava in quelle parti pel Re di Sardegna. S'impossessò di Calizzano e di Zuccarello, ma dal primo dovette sloggiare scacciato dalle bande paesane, e nel secondo restò prigioniero dei genovesi guidati dal capitano Giambattista Berlinghieri insieme con quattrocento de' suoi.

    Il Re di Spagna Filippo v. andava coi più; succedevagli Ferdinando Ti. figliuolo della prima sua moglie. Elisabetta, da cui pendevano, vivendo il marito, le deliberazioni gli era matrigna. Si prevedeva quindi, che il figliuolo non si mostrerebbe tanto docile agli avvisi di lei, e che vcrisimilmente le cose pubbliche sarebbero con altro tenore indirizzate. Si credeva con fondamento altresì, che Ferdinando quantunque amasse il fratello Filippo generalissimo dell'armata d'Italia, non fosse poi tanto infiammalo del medesimo ardore della madre per fargli procaccio di uno stato in Italia. Era primo e supremo desiderio della pertinace Farncsiana l'acquisto di Parma e Piacenza affine d'investirne il proprio figliuolo. Ben presto si vide Spagna cambiar di politica.

    Vogherà ospitavj il campo spagnuolo, Tortona quello di Francia. Quivi i Generali avevano deliberato di farsi forti tra Tortona, Serravalle e Novi, finché da Genova e dalla Provenza non fossero giunte nuove soldatesche di rinforzo. A quest' uopo avevano spedito messi in Francia ed a Genova.

    Erano su questo piede le cose quando arrivò al campo il marchese di Lasminas mandato dal nuovo Re a scambio del Gages. Quanto aveva costui di spirito e d'esperienza, tanto aveva quegli di superbia e di ostinazione; e per soprappiù digiuno era della pratica di guerra. Il nuovo arrivato non dava ascolto al Maillebois, anzi mettendosi in opposizione coi suoi disegni si pose in viaggio alla volta della Bocchetta ; nò piuttosto era un andare,-ma sì una fuga; abbandonando Serravalle, Novi e i francesi si condusse in Voltaggio. Gli austriaci subitamente s'impossarono di Serravalle, guardalo da Napoleone Spinola, che trovarono assai condescendente.

    Avanzando continuamenle i tedeschi obbligarono e i francesi e gli spagnuoli comandati dall'Infante Don Filippo, insieme con tutti i Generali ad alloggiare in Langasco in vai di Polcevera.

    Ora un tremendo avvenire si prepara per Genova. L'infelice città bene il vedeva, e a

    quale salutare partito non sapeva appigliarsi. Ognuno era costernalo, i padri corsternatissimi, e la necessaria tristezza aumentavano le donne, i fanciulli, che a furia entravano in città portando con seco le loro più facili masserizie, giacché i tedeschi avendo fatto motivo su Langasco davano a vedere che sarebbero calati giù a storme per la Polccvcra; onde gli abitanti di questa popolalissima valle ricoveravano in città.

    Gli spagnuoli primi, i francesi secondi difilarono verso ponente: Filippo già se n'era partito per la via del mare alla volta di Nizza. Così Genova gli amici suoi o abbandonavano o tradivano ; e l'infelice città rimaneva atterrita, stringendosele intorno tanto nembo di guerra fierissima.

    Brown comandante la vanguardia tedesca si avanzava lasciando il corpo de'suoi a Campomarone ove tutta quella orda di barbari era calata insofferente di venirsene alla ricca Melropoli. Il Senato mandogli incontro Escher con rinfreschi e dilicali mangiari, affine di scandagliare il terreno e vedere con che gente s'aveva a fare. Cannoni voleanvi e non rinfreschi, e i cannoni vi erano, ma quietavano.

    Il tedesco ricusò i rinfreschi, e ad Escher che gli esponeva le inutili scuse della Repubblica con duro piglio rispose: come nemico veniva, e con Genova da nemico userebbe. Intanto i suoi soldati occuparono Sanpierdarena ; meglio di un migliaio di tedeschi con bestie, tende ed arnesi restarono annegati e portate, poiché essi goffamente si erano accampati proprio nel letto della Polcevera. ed essendo cadute ne' giorni precedenti grosse pioggie sui monti, le acque vennero giù e menarono via quegl' intoppi. Vuoisi che in quella confusione i polceveraschi avessero dimandate armi e cannoni a dar dentro al resto; ma il Senato intento a preparare nuovi rinfreschi al Botta, non aderiva.

    Il Botta conoscendo che Genova non era preda da lasciarsi ad altri spiccava da Novi e sen veniva inverso la città. Il Senato mandavagli incontro Agostino Lomellini, e Marcello Durazzo. Costoro se gli rappresentavano carichi di dolore, dicevano Genova innocente, essere stata necessità quella di pigliare le armi, a difendersi provocata. Gli raccomandavano una città famosa al mondo, per edìfizii maravigliosi, per religiosa pietà, citta che come ad essi a lui anche apparteneva; la sua famiglia, sapere bene egli, trovarsi inscritta nel libro d'oro; quel nome di Botta Adorno eh' egli portava, abbastanza dimostrava che alcun sangue genovese per le sue vene scorreva: conchiudevano, per merito, come per prosapia, e per volontà dei Padri della Repubblica, genovese era, genovese doveva stimarsi, e genovese si addimostrasse.

    L'intrattabile Botta, queste miserande voci di una eletta patria, di una dolente città, non che il muovessero a mansuetudine, vie più P induravano. L'italiano fatto tedesco montava in superbia, e rispondeva con piglio imperioso, insolente ed arrogante: da nemico era venuto, e da nemico voleva trattar Genova, egli vincitore essere, e contro la vinta Genova la vittoria userebbe : eseguissero quanto nel foglio che loro consegnava era scritto; obbedissero. Nel foglio si ordinava.

    •- Che alle ore 23 (era il giorno 6 di settembre) si consegnassero le porte alle truppe della Regina d'Ungheria; che la guarnigione rimanesse prigioniera di guerra; che i disertori fossero dichiarati con promessa però di perdono; che si consegnassero tutte le artiglierie, armi e munizioni si da guerra che da bocca raccolte per cagione di guerra; che la Repubblica comandasse a' suoi popoli, soldati e milizie di non commettere ostilità contro i soldati della Regina, suoi alleati e dipendenti; che fosse libero l'accesso e l'uscita del porto alle navi delle potenze alleate; che fossero notificate le persone e le proprietà dei francesi, spagnuoli e napolitani; che il castello di Gavi subito si desse, e la guarnigione prigioniera di guerra restasse : che dorante la presente guerra, le soldatesche austriache avessero libero passaggio per tutti gli stati e piazze della Repubblica; che il Doge e sei Senatori fossero spediti, dentro lo spazio di un mese, a Vienna per implorare la clemenza cesarea, e domandar perdono dei passati errori; che si liberassero tutti gli ufficiali e soldati austriaci od alleati d'Austria presi in guerra; che la Repubblica sborsasse incontanente cinquantamila genovine (andava la genovina sette franchi con qualche soldo di più) da dispensarsi ai soldati a titolo di

    ( l'in r r I.)

    rinfresco e pel quieto vivere, oltre le contribuzioni di guerra, circa le quali ella dovesse intendersi col commissario Chotek ; che con ciò gli austriaci si terrebbono in disciplina, e pagherebbono ogni cosa in contanti; che la convenzione valesse sino a ratifica o cambiamento da Vienna; che intanto quattro Senatori si mandassero a Vienna per ostaggi; finalmente 24 ore di tempo a pensarvi. •<

    A tali intimazioni i Deputali erano presi da cosi forte orrore e spavento che il Botta veggendoli cosi intimoriti, soggiunse loro: Di ciò a me, restate obbligati, che vi apro la strada di poter riscattare la libertà e la vita, le quali se non vi tolgo, vi sia d'argomento, che né d'umanità sono spoglio, né di quella patria dimentico, che voi chiamate mia. Se poi ad alcuno gravi ed acerbe le condizioni parranno, costui pensi, quanto più grave ed acerbo sarebbe il vedersi sforzare le case, involare le sostanze, rapire in servitù, e ferro e fuoco e sacco sofferire, ed ogni più dura cosa sostenere di quelle, con cui i vincitori sogliono i vinti ricalcitranti punire.

    I due Deputati tentarono nuovamente di ammollire quel duro tedesco, ma inutilmente. Dissero l'impossibilità dell' eseguire, accennarono che le leggi vietavano proporre e deliberare nel medesimo giorno. Rispose, altra legge non esservi che la sua volontà, eseguissero le condizioni, così voleva.

    Era già scorsa la mezza notte quando fu posto fine al tremendo colloquio.

    Convocarono in ora straordinaria i Collegi; si chiamò pure un Consiglio di guerra. Mesti i Padri e spaventati esposero le pretese del fierissimo Botta; esaminarono la loro possibilità, le loro forze; e stretta da quelle angustie, come credettero piegarono il collo sotto l'ingiuriosa e funesta mole. Per questa servitù ne andavano piangendo i Padri, ma dice bene e superbamente il Botta, sciocco chi, quando ne va la libertà o la servitù della Patria, si terge con le mani gli occhi in vece di armarle di ferro. Genova infortunata, se avesse avuto soltanto mani patrizie! Genova fortunata, che delle plebee n'ebbe!

    Adunque la Signoria sottoscrisse il foglio fatale, e rimandollo al Botta. Subitamente egli spedi una compagnia di granatieri a pren

    r

    der possesso della porta della Lanterna, e poi domandò quella di S. Tommaso. I Deputati gli dissero che una sol porta aveva domandato; egli sogghignando rispose: che se essi non avevano cervello, egli lo aveva ; che quando aveva domandalo una porta, non aveva punto inteso di un mucchio di sassi in arco, ma sì di un andito aperto e libero in Genova; e che voleva S. Tommaso; e se 1' ebbe. Per ordine della Signoria ebbesi ancora il castello di Gavi, non senza sdegno di Gianluca Balbi che lo guardava. Dopo che il Botta si ebbe lutto questo; dopo che in somma Genova era stata resa schiava, serva da coloro stessi che dovevano difenderla, salvarla; la Signorìa mandò al tedesco Botta rinfreschi e cibi preziosi ! ! Che strana politica governasse gli uomini di allora non so; so che il popolo non avrebbe fatto questo, o dunque altri cibi ed altri mangiari avrebbe inviati a quel duro uomo; come poi mandoglieli quando fu stanco e del Botta e della Signoria. Ma torniamo ai tedeschi che ce ne furono dei duri e dei durissimi.

    Or ecco agli otto dello slesso mese venirsene in Sampierdarena il commissario Chotek, un tedesco dei più duri. La Signoria inviò ad esso Giambattista Grimaldi e Lorenzo Fieschi perché lo udissero e riferissero. Cominciò col dire che la Regina d' Ungheria era clemcntissima; finì con ripetere che siccome era clemente e buona, cosi si contentava di tre milioni di gcnovine, uno fra illumini'oi11.> ore, il secondo fra giorni otto, il terzo fra quindici. Per giunta disse, che se non pagavano i milioni avrebbero ferro, fuoco e sacco. E questa era clemenza!....

    Air udire di tal enorme contribuzione, i Padri rimanevano pieni di spavento. Aggiungasi che il Botta ogni di richiedeva e voleva tende, farine, biscotto, bastimenti da trasporto ec.: e tutto voleva senza pagamento veruno. Così trafugava le cinquantamila genovine, e voleva che l'esercito a spese della Repubblica si mantenesse. Tra questo, e la nuova enormissima contribuzione la Signoria mandò Deputati al Botta affinchè rappresentassero che i genovesi perivano sotto il peso di tanti aggravamenti. Il crudo rispose, che bene restavano loro gli occhi per piangere. Queste parole si sentivano dire un Grimaldi

    ed un Fieschi. Il popolo non le avrebbe sofferte senza dar su a qualche cosa; e tra poco vedremo che se restavano occhi per piangere, restavano pure mani per battere; ma ha bisognato che la pazienza diventasse furore.

    Botta e Chotek volevano il primo milione; velevano danari per pagare e pascere l'esercito; volevano danari per la spedizione in Provenza e per Napoli. I Deputati pregarono, scongiurarono: il Chotek volle il primo milione, d'un breve indugio s'accordò.«Oppresso da una necessità ferrea, il Senato prese una risoluzione insolita e spaventosa, e fu di metter mano nel sacro deposito di S. Giorgio, dove erano i capitali, non dello stato, ina di particolari uomini, che avendo fede in Genova, là gli avevano investiti, né mai avrebbero, fra i casi strani del mondo, potuto immaginare questo, che un' allagazione tedesca venisse a turbare le più sante obbligazioni. Si fecero i sacchi, si apersero le porte, si caricarono le some, e V illibato danaro fu portato nella borsa dell' avidissimo Chotek. Egli ne godeva; ma la cosa successe con tanto dolore dei genovesi nel vedere quei sacelli e quelle some, che molti avrebbero desiderato di non essere mai venuti al mondo anzi che vedere quell'incredibile sforzamento. Così traboccarono nella borsa tedesca i danari di S. Giorgio, dico la prima rata. Le arpie poi venute di tramontana aspettavano senza remissione il tempo prefisso per la estinzione delle due altre. Né cessavano con tutto questo le domande del Botta per nuovi attrezzi militari, nò le molestie dei soldati contro i cittadini, cui per una minima cagione, ed anche senza cagione maltrattavano disonestamente cosi nelle case come fuora. Non mai si vide un soldatesco furore simile a questo. Certamente, se i genovesi fossero stati, non uomini, ma bestie, con tanta rabbia non si sarebbe incrudelito contro di loro.»

    Ora gli austriaci colesti rubamenli avevano rivolti tutti in loro prò. Carlo Emmanuele qualche cosa voleva ancor egli: gì'inglesi il favorivano, e mandavano una nave nel porto di Genova. Si ancorava alla bocca, e quante navi arrivavano tante metteva a ruba o per amore o per forza. I genovesi alzarono grida

    dolorose, vedendo, che presto alla rapacità soldatesca si sarebbe aggiunta la fame inesorabile; imperciocché non era da dubitarsi, che, sparsosi il grido dell'incredibile avanìa dell* inglese, nissuna nave non si sarebbe indirizzata a Genova, tutte essendo sollecite di fuggire i" inglese rapitore. Queste cose e mille altre rappresentarono al Botta; rispose farebbe, provvederebbe: intanto la rapacità continuava. I tedeschi spremevano le borse in città, Tinglese faceva altrettanto in porto; la povera Genova n' aveva, o -uè trovava per tutti.

    L'interno della città faceva veramente compassione: i negozii erano chiusi; un andare e venire da ogni banda; i cittadini dimentichi della patria e forse di loro medesimi, abbandonate le proprie case, e l'antica sede delle loro famiglie, si davano a volontario bando. Già molli negozianti si erano partiti dalla città ; molti patrizii avevano fatto lo stesso, a talché si venne in pericolo che per tale diserzione non fosse per mancare il numero dei suffragi necessario in Consiglio per andar a partito, e fare le deliberazioni. Il Senato vi provvide saviamente con una legge, la quale proibiva che nessuno degli annoverati nel minor Consiglio potesse per un anno scostarsi dalla città o dalle vicinanze sotto pena di quattromila scudi d'oro, e di essere mandato a confine per dieci anni.

    Non meno peggiori si passavano le cose nelle due riviere. I generali Piccolomini e Rai erano intenti a tribolare a spolpare quella d'oriente. In occidente i francesi e gli spagnnoli si erano ritirati oltre il Varo, lasciando tutti quei paesi all'impeto dei loro nemici. Savona era caduta in mano dei piemontesi; quindi s'impossessarono di Finale, di Vcntimiglia, di Villafranca, di Montulbano e per ultimo della desideratissima Nizza ; furono in tutte queste operazioni sempre secondati dagl'inglesi, i quali si dimostrarono più teneri di Savoja, che non di Austria. In questo mezzo, piemontesi e tedeschi divisarono di proceder oltre e sforzare Àntibo, ma siccome mancavano di grosse artiglierie, e non potendo il Re di Sardegna tirarle dagli stati suoi per la difficoltà delle strade, tennero proposito di ammannirsi di quelle di Genova ; onde scrissero al Botta che le mandasse.

    Intanto Cholek si pronlava a riscuotere il secondo milione di genovine; alle di Ilici il i A opposte dai Deputali, rispondeva le solite inscienze per non dire bestemmie, fuoco, ferro, sacco se non pagassero. Creossi un Magistrato il quale andò tassando tutti i proprietarii in proporzione, wa non bastando la somma, fu d' uopo aprire di nuovo le illibate porte delle sacristie di S. Giorgio per compiere il milione. Benedetto xi v. ali' udire le angustie in cui si trovava Genova si commosse; ordinò al suo nunzio di Vienna di adoperarsi caldamente presso l'Imperatrice Regina, aflìnchè verso la malarrivata Repubblica pietosamente s'inclinasse.

    Il nunzio tanto si adoperò che dalla bocca slussa dell' Imperatrice ebbe in grazia delle preghiere di Benedetto che si contentava di desistere dalla domanda del terzo milione. Di questo sommo favore avvisato il Papa, egli avv isonne subitamente la Repubblica. Già si rallegravano i genovesi, quand'ecco Chotek addoniandare colle solite minacce il terzo milione, colla giunta di altro milione pei quartieri d'inverno, e dugento cinquanta mila fiorini per prezzo, come disse clementissimamente valutato i Lillà sua Sovrana, dei viveri che per mantenimento delle soldatesche genovesi, dovevano essere in Genova, quando arrivarono gli austriaci. A queste prelese spaventose , e non saprei come chiamarle di peggio, i Deputati si presentarono nuovamente al Bolla per fargli intendere che impossibil cosa era soddisfarle. Rispose più crudo che mai. Se non si aveva oro od argento, colesti genovesi tanto teneri ed affezionati alla lor patria, mettessero mano nei capitali che possedevano in Inghilterra, in Olanda, in Alemagna, in Francia, in Ilalia, e con essi soddisfacessero. E poi come pentito, ripigliò: volere oro e non carie, il milione con le due arrole di sopra indicale in contanti si pagassero, altrimenti sapevano che ferro, fuoco, sacco noti mancherebbe.

    Gran peccato forse doveva scontar Genova, perché Dio non fulminasse in quello stante tulla quella ribalda tedescheria.

    Or chi può dipingere al vivo lo stato deplorabile della citlà; i miseri ciltadini erano disprezzati e balluli dai fieri ledeschi i quali o solto un preleslo o solto l'altro, volevano quel che volevano. Le botteghe sforzavano, i negozi per forza aprivano, e dove ancora qualche poca resistenza trovavano, si facevan ragione colle bastonate, dico ragione perché avevano la forza. I soldati insolenti visitavano i posti dov' erano quelli della Repubblica, gli bravavano, e da loro imperiosamente richiedevano, quale numero di gente abbisognasse per provvedere le necessarie sentinelle, affermando, che presto sarebbero venuti a prenderne possesso. Noveravano le case destinate al sacco; e non rispettando veruna legge, le pudiche vergini e le probe matrone offendevano. Andò tant'oltre la barbara insolenzà, che alcuni tedeschi osarono entrare a cavallo nel Portofranco, dove sotto la fede della Repubblica, ed all'ombra del diritto delle genti erano raccolte le più vaghe e più preziose merci del mondo, luogo di civiltà e di benevolo commercio fra le nazioni, ed ora divenuto sugno di rozzi e fieri modi, e di soldatesche brutture. Le parole non erano minori dei falli; dicevano i ledeschi,che fra poco tutto ad essi loro sarebbe spettato; otto giorni non passerebbe che il cittadino sangue tutta quanta Genova allagherebbe; più orribilmente mostra farebbero i mucchi dei cadaveri che il sangue medesimo. Genova doveva essere un lago di sangue, un monte di corpi morti. Iddio questo non volle, perché altrimenti stava scritto nel libro degli eterni suoi decreti.

    In questo mezzo il General Botta dava opera al suo disegno, di tor via cioè, le artiglierie di Genova per mandarle all'impresa di Provenza. Già i tedeschi un tredici pezzi coi loro carretti ne avevano incamminati verso la Lanterna. Lascio pensare se al vedersi involare quelle armi, il popolo non fremesse. i> La indegnazione, la rabbia, scrive il Botta, l'orrore più nel minuto popolo si manifestavano, che nei gradi più alti; imperciocché in questi casi il pensare è vizio, il fare virtù, e gli uomini dubitosi non salvano mai gli stati; perciò la plebe che tant'oltre non guarda, è stromento eccellente per le subite scosse. Coli'animo invasato dal furore e dalla vendetta ad ogni momento il popolo si affollava, e fremeva e mormorava là dove qualche ingombro od intoppo nasceva intorno alle artiglierie, che per le strette e raontuose vie

    di Genova dall'odiato nemico verso la porta a riva il mare si conducevano. A tutti i segni si vedeva un brutto nembo in aria. Ciò non ostante l'ostinazione del Botta, come se Dio pel castigo degli oppressori gli avesse tolto l'intelletto, continuava. Chotek altresì con quella sua cupidigia dell' oro non sapeva quel che si faceva: solo gridava, danaro, danaro, date qua danaro, e tra i cannoni e il danaro sorse una scena stupenda, unica al mondo: l'ira del cielo già piomba su i tiranni di Genova. «

    Era il giorno 5 di dicembre del 1746, or fa un secolo, di poco era tramontato il sole. Strascinavano gli austriaci un mortaro a bombe pel quartiere di Porteria, abitato da numerosissimo popolo. Erano propriamente in quella strada che dai quattro canti di Portoria, mette ali' Ospedale dello di Pammatone, quando sfondatasi la strada sotto il peso di lui, restò incagliato il trasporto. Questo avvenimento succedeva accanto a queir immagine di Maria Santissima che ancor oggidì si vede, ed è in somma venerazione della generosa Portoria. Il popolo avvisò che quello avvenimento fosse un allo della particolare predilezione di Maria Santissima, e fiducioso risolse di mostrare comecheffosse l'antico valore.

    I tedeschi vollero sforzare alcuni popolani a dar loro ajuto per sollevare l'affondato mortajo. Abborrirono da si empio ufficio, se il volevano sollevare, dissero, il sollevassero essi. I tedeschi al solito si misero ad usare il bastone. Qui si ruppe l'argine. In un subito l'aer tuonò di strida d'orrore, e grida di vendetta; d'ogni intorno suonarono fremiti di furore, di rabbia e di disperazione. Un fanciullo cominciò la tempesta. Chinossi. die di piglio ad un sasso, e voltosi ai' compagni disse: Che I' inse parola che nella nostra energica lingua, significa Oh! che dia principio! che non rompiamo la testa a costoro! Disse, e trasse il sasso fatale al soldato percussore. AH' invito risposero i popolani con una cosi fitta sassaiuola, che quegli slolidi soldati indietreggiarono più che di passo, ma rinfrancati dall' ufficiale che li comandava, tornarono con le sciabole sfoderate, minacciosi e certi di riuscir vittoriosi. Altro simile saluto di quelle sassate li convinse che meglio era andarsene, e se n' andarono con dolorose botte, perché chi rimase pesto, chi sciancato e chi coi bernocoli in fronte.

    Il mortaro rimase dove era affondato, ed i ragazzi vi salirono su festanti e vittoriosi; il popolo godeva. Ma ora che l'argine era rotto bisognava terminare l'opera cominciata. Come ognuno si può figurare da tulle bande diluviavano le genti ; i capi del popolo si adunarono in cerchio, e decisero di andare a Palazzo a domandar le armi, perché bene vedevano, che se non si faceva di più, s'era Catto peggio di nulla.

    Sopraggiungeva la notte, ed il popolo in assai grosso numero s'incamminava al Palazzo della Signoria ad alta voce gridando. Animo, animo, a palazzo, a palazzo, a prender l'armi, viva Maria, armi, armi.'

    Intanto strada facendo il numero vie più ingrossava; garzoni di taverna, pattumaj, ciabattini, pescivendoli, fornaj, facchini da carbone, da vino tutti si accompagnavano. •» Tra il bujo della notte, le grida, che assordavano l'aria, i lumi che passo passo perle vie e su per le finestre si andavano accendendo, era uno spettacolo ad un tempo spaventoso e promettente : fra i quieti chi per le case temeva Fultimo eccidio, chi sperava la liberazione, n

    II popolo giunto a Palazzo domandò le armi; in quel mentre erano congregati i Collegi sulle afflitte cose deliberando: udito il rumore e inteso che fosse, e che si volesse, mandarono due Padri a procurare che il popolo si sciogliesse. Inutile fu la missione, armi e non parole volevano i popolani, ed armi appunto non voleva dargli la Signoria. Intanto la voce del fatto, e della sollevazione si era sparsa negli altri quartieri e così ad ogni momento giungevano uomini ed aumentavano quella massa ormai fatta numerosissima: ma cadendo una pioggia smisurala, e molti citladini già stanchi essendo a poco alla volta senz' altro sen tornarono alle case loro, dicendo che al dimani sarebbe stato ili. e qualche cosa si sarebbe fatto. La notte era avanzata di molto quando il popolo si quietò e tirò alle case sue.

    La Signoria più timorosa del male che confidente del bene, che da quel moto poteva nascere, mandò al Botta Nicolo Giovio, affinchè lo informasse dello scompiglio, e gli

    dicesse che desistesse per allora dal volere il mortajo, per non cagionare qualche più grave malanno.

    Il tedesco Botta rispose che non temeva del popolaccio, e che nella seguente mattina avrebbe mandato altra soldatesca per prendere il raortajo, ma condotta da ufficiale prudente per evilare nuovi scandali.

    Al dimane si videro enlrare per la porta di S. Tommaso cento granatieri austriaci con la bajonetta in canna. Scortavano una compagnia di guastatori destinati al ricupero del ben avventurato mortajo. Già erano giunti suHa piazza di Fossatello, quando gli percosse una grandine di sassate che gli obbligò a tornarsene donde erano venuti. Il popolo allora facendo testa, si mosse e andò a Palazzo per via sempre più ingrossato dagli accorrenti. Armi gridavano i barcaiuoli, armi i tavernaj. armi i facchini. Dateci le armi gridavano tutti, se non vi volete salvare voi altri, vi salveremo noi, vi salveremo noi, e noi con voi. Ma i signori che avevano paura di essere salvati, continuarono nel disdire la richiesta. La Signoria, continua il Botta, resisteva al popolo per perire, il popolo le voleva far forza per salvarla.

    " II popolo, che nato libero, cosi scrive l'Accinelli non elcgantemenle. ma palriolicamente, allra mira non aveva, che conservare della patria la libertà, e che fette non aveva promesse, nò data parola, o sottoscritti capitoli (quelli, che portavano, che i genovesi fossero obbligali di lasciarsi segar la gola dagli ausiriaci senza difendersi ), l'intese a suo modo, voltossi a cercare le armi altrove, corse alle varie porte e posti della città, e per forza strappò di mano alle guardie i fucili, dicendo loro, che se ne facessero dare degli altri. Quindi pensando, che ne potessero essere nelle case dei particolari, specialmente degli ufficiali di guerra, si portò a principio verso di quelle, e sforzandone le porte, o scalandone le finestre, vi entrò, e si provvide. Adocchiò altresì le botleghe degli armajuoli, spezzandone le serrature, s'impossessò di quante armi vi polo ritrovare senza portar via alcun'altra cosa, o fare la minima violenza. Si radunò ora qua, ora là a squadriglie, macchinando ciascuno a suo modo la meditata sorpresa. «

    Qui l'amore del vero mi tira a fare una osservazione che già notai di passaggio parlando del Doge riputatissimo che allora reggeva in quelle critiche circostanze i destini della Repubblica (F. Part. li. Cart. 39}. È vero sì o no, che la Signoria avesse firmato un Capitolato col Botta (e vero è ch'io stesso vidi l'originale, non è molto, andare in vendita per le mani di persone che sanno esse dove lo tolsero): è verissimo; dunque la Signoria doveva in forza della data fede mantenere le promesse giurate; e questo tanto più, perché se il tentativo del popolo non tosse riuscito, tutto il peso delle maggiori calamità (se delle maggiori ve n'erano) sarebbe ridondato non sopra del popolo, ma sibbene su coloro che lo reggevano. Se però difendo i Padri come corpo, non intendo già che essi possano meritare scusa come individui, poiché benissimo potevano i Senatori negare le armi in Senato, ma come particolari, come padroni de' loro vassalli concederle : anzi darle ai loro dipendenti, e non chiudersi con essi loro come fecero nei sontuosi palagi, impedendo cosi che più forte diventasse la massa di quel popolo che disperato e destituito di ogni soccorso, da per sé tanto operò che salvò la Patria ed il suo Governo; ed è un fatto tanto celebre, quanto degno della più grande estimazione, che alla virtù dei genovesi la Francia andasse obbligata della sua salvezza, e l'Italia della sua libertà.

    I tedeschi si erano fortificati nella porta di S. Tommaso, e sulla piazza del Principe erano grosse forze di croati, panduri e simili, fanti e cavalli. Serrarono la porta, e usciti fuora con alcuni cavalli respinsero i popolani. Presero un cannone ad una turba di ragazzi che con le giovani braccia lo avevano tirato in quel luogo per fulminare gli austriaci. Questi usando di quel vantaggio corsero fino alla piazza della Nunziata. Quivi ricevettero una salutazione non più di pietre, ma di archibusate, onde i poveri tedeschi impauriti e feriti dovettero a gran fretta ripararsi nella sicura stanza di S. Tommaso.

    II popolo andava crescendo immensamente: agli altri quartieri della città si uni quello di San Vincenzo, robusti e generosi uomini. In poco tempo trovarono ogni sorta d'arme, si pure cannoni. mortai e colubrine. « Deli

    ziosissimo aspetto, scrive elegantemente il Botta, era per gli amatori della patria il vedere il fremito. il bollore , l'ardore, il durare contro la fatica di chi le trovava e di chi le trasportava. A forza di sole braccia, senza alcun ajuto di bestie da tiro, unmini, donne , fanciulli, laici, preti, frati strascinarono i pesantissimi bronzi con una velocità incredibile per le ineguali, e perciò assai malagevoli vie, cui era loro necessità di traversare per arrivare a fronte di chi Genova sobbissava. Uom credere non potrebbe, se non chi 1" ha veduto, che per luoghi così erti e cosi disastrosi si siano potute condurre quelle macchine fatali. Narrasi specialmente, ed è vero, che un grosso mortaio a bombe fu montato a forza di pure braccia in pochissimo d'ora sulla ripida, angusta e difficilissima a salirsi collina, detta di Pietraminula , cui molto importava di guadagnare per poter battere di là centra i tedeschi a San Tommaso e sulla piazza del Principe D'Oria. Anche ai nostri di, chi esamina quel luogo così repente, erto, malagevole e stretto, e col fatto il paragona, non può restar capace della verità. Forse, raffreddatosi il fervore dopo l'esito di quel moto improvviso, quelli slessi, che il fecero, non arrivavano a comprendere ciò. che avevano fatto. Tanta forza Iddio spira a chi difende la patria ! e più mirabili cose fa talvolta l'istinto che la ragione. Tutto bolliva, come narra pure l'Accinelli. I facchini carichi di polvere presa dalle pubbliche polveriere, spezzate con violenza le porte, chi portava una cesta di palle di cannone, chi una bomba, perfino i ragazzi si ajutavano a portare o una palla o un piccone da romper terra, o altro arnese bisognevole ali' intento r,

    1 popolani cominciarono ad ordinarsi; conoscendo quanto danno poteva loro recare la cavalleria tedesca, abbacarono con botti, panche, tavole ed altri impedimenti le contrade dell'Acqua verde, di Prc e di Sottoriva, le quali strade da San Tommaso mettevano siccome mettono le prime due al centro della città. Le barricate munirono di cannoni ; posero scolte e sentinelle a' posti avanzati ; meravigliosamente si ordinarono militarmente, ed abbenchè da quattro giorni cadesse una pioggia dirotta stavano fermi e duri ai posti assegnati. Insegnavano agi-imperturbabili tedeschi l'imperturbabilità. I nobili si erano chiusi ermeticamente nelle loro case, e non che le aprissero al popolo che richiedeva riparo a tanta intemperie, i portoni stessi dei loro vastissimi portici avevano impietosamente fatto al di dentro sbarrare con ferro.

    E qui vuoisi encomiare non solo, ma mettere a cielo la somma prudenza dei popolani. Essi non una di quelle avarissime case sforzarono , non uditi si stettero e sofferenti patirono a cielo aperto, acqua, freddo e tutto che veniva a tormentarli : scaldati da quel santissimo amore di patria, seppero non solo tollerare i disagi, ma pazientemente ancora quella barbara indifferenza. Così i nati ad obbedire salvavano i nati a comandare.

    I i. palazzo solo sforzarono, e fu quello dove allora era il collegio dei gesuiti e che ora accoglie la Regia Università degli studi in strada Balbi. Quivi piantarono il loro quartier generale ed i principali popolani vi si adunarono a consulta. Dominarono capi : Tommaso Bisserete, detto l'Indiano, presidente del quartier generale, e Carlo Bava mediator generale delle milizie di campagna. Quindi nominarono altri per ciascun quartiere, tutti subordinati al quartier generale e furono: Giambattista Ottone paramcntaro; Giuseppe Cornetto pittore ; Giuseppe, Terroso mereiaio; Cantillo Marchini scritturale: Durai e Muratti mercanti; Francesco Lanfranco mercante di formaggio; Carlo Parma mereiaio ; Andrea Vrbedò calzolaro , detto lo Spagnoletto; Stefano, Domenico fratelli Cotta, detti li Grassini tintori, Domenico e Francesco Sicardi impresari dei forni; Giuseppe Malatetta detto il Cristino, facchino; Giovanni Carbone ajutante di locanda; Lazzaro Parodi calzolaro; Alessandro Gioppo pescivendolo e Bernardo Cariassi.

    A costoro diedero bailia di fare quanto la salute della Repubblica richiedesse. « Questi oscuri uomini coi corti intelletti, con le rozze mani, ma con caldi cuori e forti anime sviscerate della libertà, si travagliavano e mettevano la vita a pericolo per la salute di Genova , mentre gP ingentiliti patrizii nel fondo dei loro palazzi nascosti, lasciavano, che la fortuna volgesse a suo talento quello slalo: in coi essi tanti onori avevano e tanta

    potenza. ... Ma veramente i popolani anche comandare sapevano. Fecero ottime provvisioni, ordinarono pattuglie di giorno e di notte per ovviare ai furti e ad ogni altro disordine; mandarono edilli rigorosissimi solto pene estreme ad ogni genere di persone, perché accorressero alla difesa ; disposero quadriglie ai capi delle strade, perché invigilassero e chi voglia avesse di obbedire accettassero e chi non ne avesse voglia sforzassero. Fu successo degno di grandissima lode, che in tanto tramestio di cose, in tanta concitazione di animi nissun inconveniente .notabile ebbe a contristar coloro, che della giustizia e della libertà si dilettavano. l'ingiustizia e la licenza detestavano. Il popolo si dimostrava furioso contro il nemico, continente verso i cittadini. Per provvidenza dei capi eletti, perché il popolo non traviasse ai danni di chi genovese era, e garbugli in mezzo non mettesse , abbondò sempre il pane a chi cessati i lavori e gli esercizi!, colle non avvezze, ma devote mani difendeva la patria. ->

    I tedeschi intanto forti nella porla di San Tommaso, si erano maggiormente fortificati sull'altura dei Filippini; dalla prima fulminavano contro la strada di Pre, dalla seconda contro l'Acquaverde e strada Balbi. Il Botta dopoché si avvide che quello non era scherzo e che il popolaccio da lui disprezzato, ora gli dava a pensare , mandò subitamente a chiamare le soldatesche eh' egli aveva distribuite per le riviere e temendo poi dei paesani delle due valli di Bisagno e di l'olir vera, uomini belligeri ed alla Repubblica deditissimi, vi spedi un diploma colla parola imperiale, protestando eh' egli più non voleva i due milioni di fresco intimati e che sgraverebbe!! da ogni peso di guerra, purché non si travagliassero in quel moto della capitale. e fedeli restassero alla regina. E qui la Signoria commise altro gravissimo errore. perché diede ordine ai capitani delle medesime valli, che tenessero quete le popolazioni e vietassero sotto pena di galera ch'esse prendessero le armi. Ma se la Signoria non voleva compromettersi col Bolla in forza delle giurate capitolazioni (come se essa non fosse slata in diritto di romper la fede a chi primo l'aveva calpestala ), perché volere

    emanare quel divieto, che impediva che quegli forti e robusti uomini precipitando dalle montagne tagliassero a pezzi quanti tedeschi e barbari assediavano la città? Qui non v' è scusa che tenga : ben fece è vero non volendo, come pretendeva il Botta, ordinare alle sue truppe che contro il popolo si rivoltassero, ma meglio era comandare che al popolo stesso si unissero e lutti contro i tedeschi marciassero.

    Fra mezzo a questi avvenimenti alcuni pietosi o paurosi uomini si erano portali al Botta per appiccar pratiche di conciliazione, vi andarono un D'Oria (!), un Agostino Lo- . niellino, il Padre Porro teatino ed il Padre Visetti gesuita. Si convenne di alcune ore di armistizio, perché i tedeschi avevano innalzata bandiera bianca. Questo faceva il Botta per guadagnar tempo, affinchè le sue milizie giungessero dalle riviere; i popolani vi condiscesero per meglio armarsi. In ultimo il popolo stanco di quelle mene tedesche furibondo si scaglia contro 1' inimico ; in quel mentre s'incontra nel Padre Visetti che ritornando dal Botta, diceva che avrebbe consentito a rilasciare le porte della città. Non è più tempo, risposero, non rodiamo limosine. Il gesuita allora soggiunse: ho fatto quanto ho potuto, ajutateri figliuoli, ajutatevi, non vi è più rimedio. E si veramente che si ajutavano.

    Era il giorno 10 di dicembre, correvano le ore diciasette quando i cannoni da ambe le parti tuonavano orribilmente, qua e le archibusatc sterminatrici ; aggiungeva terrore il suonare a martello di tutte le campane ; ovunque si udiva un frastuono misto di grida e di parole eccitatrici: grida tedesche contro grida italiane, e grida italiane contro grida tedesche alzavansi. In tutte le chiese era esposto il Santissimo Sacramento ; chi non poteva combattere, pregava il Dio della pacca infondere lena e vigore in coloro che difendevano la patria. Santa l'impresa, la religione santissima l'ajutava. Le donne, gl'imbelli, gl'infermi pregavano; i capaci combattevano: preti e frati ora salmeggiavano ed ora uscivano a pugnare valorosamente. Dio, Dio certo ajutava i genovesi, dice il Botta, e Genova sarà lodata di avere rinnovato in tempi corrotti la romana virtù.

    Settecento alemanni erano alloggiati in Bisagno; volevano entrare in città per la porta romana, subitamente i bisagnini, i vincentini li affrontarono ; quei di dentro dalla batteria di Santa Chiara per di sopra li fulminarono. I superstiti fuggirono velocemente, soli cinquanta granatieri facevano grande resistenza in un' osteria dove si erano riparati. Un ragazzo per soprannome Pittamuli, disse alle turbe che circondavano quell'osteria, lasciate pur fare a me e presa una pistola da una mano e dal!' altra una fascina accesa, corse contro l'osteria e piantata una palla in petto al primo tedesco che gli fu innanzi, entrò dentro e appiccò il fuoco ai sacconi del letto, per forma , che l'incendio , le cannonate ed archibusate costrinsero i granatieri ad arrendersi , gettate le armi prima dalle finestre. I fuggitivi diedero avviso dell'occorso, col fatto, ai paesani della riviera orientale, cosicché essi quanti tedeschi poterono uccisero od imprigionarono. Coloro che stanziavano in Chiavari o ne' luoghi circonvicini, di essi quelli che poterono si salvarono pel Monte di Cento Croci nel Parmigiano. Così tutta la riviera rimase liberata dagl' invasori.

    Non minore era l'impeto dei popolani col quale sloggiavano dalla parte occidentale i tedeschi. Accrebbero smisuratamente, anzi si può dire che tutti eccetto i nobili indossavano le armi. La soldatesca della Repubblica costretta dal popolo anch'essa si mise al cimento. Cominciarono a fulminare contro la Commenda di San Giovanni, dove nei di addietro alquanti tedeschi si erano trincierati. I meschini percossi orribilmente, si erano ritirati sul campanile. A quello voltarono le bocche sterminatrici ; travi, campane e tedeschi rovinarono a terra in un mucchio : i sopravviventi furono condotti a palazzo trionfalmente, argomento a dimostrare alla Signoria che già Genova risorgeva per virtù delle mani e dei cuori dei popolani.

    Il popolo tra la contentezza ed il furore si mise a correre a furia verso San Tommaso e verso l'altura dei Filippini.

    » Da questa altura gli austriaci fulminavano contro i popolani in strada Balbi ; da questa medesima strada i popolani fulminavano contro gli austriaci. Più i soldati d'Austria resistevano, e più i difensori di Genova induravano la battaglia. Quivi rimase morto da una scheggia di granata Giuseppe Malatesta, vocato Cristino, uno dei principali capi del popolo, da noi più sopra mentovato. La sua morte non rallentò, anzi aggiunse ali al furore de1 suoi. Tiravano col cannone, si presentavano a petto aperto contro la tempesta dei colpi alemanni. Gente patria contro gente mercenaria accanitamente combatteva : si pareggiavano le sorti. Infine riuscì ai genovesi di smontare al nemico un cannone, che più degli altri bersagliava la via Balbi, onde le loro artiglierie cominciarono a sopravvanzare. Nel medesimo tempo la batteria di Pietraminuta folgorava sulla porta, sulla piazza, che le sta davanti, e sulla tanto contesa altura dei Filippini. Gettavano granate reali e palle o di marmo o di ferro. Maravigliosa cosa era il vedere, come quella gente inesperta sapesse bene ed opportunamente scegliere il bersaglio ed aggiustare i colpi. Gnu maestro è l'amore della patria! •>

    11 Botta che aveva schierate le sue truppe sulla piazza del Principe fuori la porta di San Tommaso, salutato da una granata reale che si era scoppiata in aria cadendo con grave suo pericolo, il fece avvisato che quello non era luogo da starsi, perciò più che di passo $' incamminò verso la Lanterna, lasciando uno squadrone schierato a rincontro di San Tommaso. Da ogni punto della città i cannoni dei popolani tempestavano furiosamente i tedeschi; gli scacciarono in prima dall'altura dei Filippini, poscia dalla porta di San Tommaso, molti uccidendone e molti facendone prigioni. In questo mentre, dai monti di Oregina e di San Rocco calarono a guisa di torrente i paesani armati di falci, di picche , di schioppi ecc. ; i tedeschi vedendo che costoro venivano a tagliar loro il cammino si diedero ad una precipitosa fuga ed il Botta che si era soffermalo sulla piazza Dioegro pur quivi salutato da una palla che gli fé' intorno cattivo giuoco, leggcrmcnte ferito si mise pur esso a fuggire; e tanta era la tempesta che da ogni banda percuoteva i tedeschi, che tremanti gridavano: Jesus, Jesus, non più Iiiotii. non più fuoco, siamo cristiani. Cristiani essi si, ma il Botta e il Chotek no.

    E cosa ammirabile l'osservare come pochissimi popolani in quelle ferocissime mi

    schie rimanessero morti. Nel giorno della compiuta vittoria non più di otto mancarono, non più di trenta rimasero feriti. Dei tedeschi mille rimasero uccisi e meglio di quattromila prigioni.

    » Tutti i popolani nella gloriosa impresa fecero le parti di buoni e valorosi cittadini; ma ogni altro sopravvanzò quel Giovanni Carbone . già da noi poc' anzi menzionato . il quale nato in povero stato, essendo servitore nell'osteria della Crocebianca, e solo in età di ventidue anni, tanto si adoperò. non solo con la mano, ma ancora col senno, avvegnaché ferito fosse, che nissuno fra i più celebri amatori delle patrie loro mai meritò più lode di lui. Questo coraggioso e dabbene popolano, che tanto merita di esser messo nella memoria degli uomini, avute in mano le chiavi della porta di San Tommaso da lui prese, quando a forza ne cacciò gli anstriaci, si condusse a nome del popolo a palazzo , ov" erano i Collegi adunati, e al Doge presentandole, disse: Signori, queste sono le chiavi, che con tanta franchezza Loro Signori Serenissimi hanno date ai nottri nemici ; procurino in avvenire di meglio custodirle , perché noi col nostro sangue ricuperate le abbiamo. Terribile ammonizione data da un umile garzone d'osteria a tanti patrizii d' antico e chiaro sangue.

    Colesti uomini si veramente che si possono appellare Salvatori della patria. Essi si che meritarono di essere effigiati in marmo ed innalzati alla pubblica ammirazione. Ma pure non sono ricordati che per la storia, monumento eterno per chi non ebbe dalla fortuna sangue illustre e potenza di parti e di tesori

    Botta colle restanti soldatesche lacere e sanguinose stavano in Sampierdarena. Egli pensò che se si levassero in arme i polccveraschi non v'era più scampo per lui. Ordinò di' ammassare in silenzio 1' oro estorto da Genova e di far cammino verso la Bocchetta. Mandò innanzi uomini a sparger voce, che ogni differenza col Governo era stata accomodata, e che partivano con buona pace per tornare negli stati della loro sovrana , amica a Genova. Cammin facendo lasciava cadere denari in mano dei paesani, a talché giunse ad ingannare la semplicità di quelle alpestri popolazioni ; ma alla line accortisi i polceveraschi dell'inganno dieron dentro alla retroguardia eh' era a Pontedecimo e gli rapirono il danaro e se lo divisero fra loro. Gli austriaci non quietarono finché non furono olire Gavi.

    La vittoria conseguita il giorno 10 dicembre del 1746 dal popolo di Genova contro gli austriaci risuonò con onore per lutto il mondo.

    Ora io non seguiterò a narrare i parziali avvenimenti succeduti in città : ognuno immagina che dopo la tempesta i nobili uscirono e con arte intesero a sbrigarsi del popolo, perché il comando in mano di esso non volevano , dirò anche che ragionevolmente non vi poteva slar bene. Fatto è che il territorio genovese rimase liberato dalla oppressione tedesca dal popolo, e il popolo tornò come prima.

    Il famoso mortajo fu agli otto di gennaio ricondotto solennemente nel suo antico sito della Cava in Carignano. Glielo tirarono i popolani sur un carro tappezzato e indorato. Le campane suonavano a festa, le arliglierie rombavano, il popolo allegro e trionfante seguitava quel principio della liberazione di Genova. Non mai si vide una festa cosi ingenua e così a proposito. I capitani erano vestiti delle spoglie tedesche. Sessanta giovani a cavallo guerniii d' elmo e di corazza strascinavano a terra le insegne e le bandiere tolte alP avido oppressore. Genova era in quel momento la più bella delle città. Ancor oggi esislc la bandiera secolare, che il popolo aveva innalzato al momento della primitiva zuffa e che quindi fu come un sacro trofeo piantata alla porta del quartier generale e sempre difesa a costo delle cittadine vite. E come quell'amatissimo stendardo, quella croce rossa in campo bianco lampeggiò primitiva nella gloriosa Portoria, ora in questo sestiere ha sua stanza e riposa alT ombra di quella santa Immagine di Nostra Donna che tanto animò le giovani destre e come corse una voce di uomo in odore di santità. Essa fu vista alla testa del popolo sfolgorante di raggi e maestosamente composta in atto di fulminare colla destra la falange nemica.

    Mariateresa dopo la sconfitta mandò il generale Schulembourg, costui si avanzò forte di nuove soldatesche alla Bocchetta disegnando di calar giù a tempestar su Genova. Il tedesco

    aliino di riuscir meglio ad impadronirsi della perduta città, ebbe modo di far vociferare che il Governo (posciachè allora le cose erano ritornate nel suo pristino stato ed il popolo era popolo) si accorderebbe cogli austriaci e che i patrizii avevano macchinato di dare il misero popolo in preda ed alla vendetta dei tedeschi. Queste falsissime voci accortamente disseminate facevano l'effetto desiderato , di far cioè ribellare i popolani, affinchè non essendo più le forze unite. il tedesco potesse venir giù a conquistar Genova in preda alle dissenzioni. Il popolo si sollevò e s'incamminò con sinistre intenzioni a palazzo; capi n'erano un Gianstcfano Noceto bargello di professione, un Gianfrancesco Garbino pescivendolo, e per colmo d'infamia un discesso dal carnefice ; e forse costoro erano gente imbeccata.

    Già erano sulla piazza detta de' Pollajuoli rimpetto al palazzo ducale, già vi voltavano contro la bocca di un cannone strascinato con seco per fulminare la Signoria : quando in quel pericoloso momento uscì di palazzo Giacomo Lomellmo disposto a calmare quella forsennata rabbia, o a morire. Costui che dabben uomo era, si mise a pacificare le turbe, disse non vera l'accusa , spiegò che se il popolo aveva sofferto. i patrizii non meno, perché la regina d' Ungheria aveva confiscato tutti i capitali di essi che avevano ne' suoi stali. Invitò il popolo a marciare contro il nemico e non contro la patria , giusti fossero, siccome erano stati valorosi. A queste parole alcuni ingannati si disingannarono, ma i più volevano menar le mani: e già un plebeo più degli altri crudele colla miccia accesa in mano si accostava per dar fuoco al cannone. Allora Lomellino paratosi avanti alla bocca da fuoco, disse : Non fin che queir augusta sede offendiate, se prima non avrete lacerate queste mie membra: in me, m mt sfogate tutta la rabbia vostra ; saziatevi col mio sangue; meno rei sarete per l'uccisione d'un cittadino solo che per I' eccidio di quel primo presidio della patria; ed io felice morrommi, se gli ocehi miei una tanta scelleratezza non vedranno.

    Questo atto di Giacomo Lomeliino merita elogio grandissimo e la storia glielo ha scritto eterno, perché eternamente si parlerà di luì.

    II tumulto sedessi e quei rabbiosi e venduti uomini furono dati al boja. Cosi finirono le mene tedesche.

    La condizione di Genova diveniva fatale ; i tedeschi l'assediavano da tutte bande. In questo Francia e Spagna si amicarono, e volsero il pensiero a soccorrere l'infelice Repubblica. Quella prima mandò danari ed officiali, quindi vennero soldati delle due potenze sotto la condotta del Marchese di Mauriac pei francesi, e del Marchese di Taubin per gli spuminoli: questi ultimi recarono quaranta casse di contanti. Schulcmbourg non cessava dal tribolare le riviere e le valli di Bisagno e della Polcevera; i cannoni si facevano sentire da tutte le parti. Si sparse nel mondo un famoso grido dell'assedio di Genova ; il valore e la causa dei genovesi erano nelle penne di tutti gli uomini gentili e nel cuore di tutti gli uomini generosi.

    Il Re Luigi di Francia benevolmente inviava alla Repubblica un altissimo personaggio, il Duca di Boufflers. La storia ha consacrato alla virtù di questo illustre guerriero alcune pagine, la storia di Genova dovrebbegli consacrar molto di più, che veramente fa per questa città un portento, e tale che forse senza di esso non tanto felicemente sarebbe terminato l'assedio. O italiani, o stranieri che sieno coloro che hanno meritato per te loro virtù di essere amati da noi, deggiono non mai da noi essere dimenticati, ed il Duca di Boufflers sarà un nome che caramente risuonerà mai sempre sulla bocca dei genovesi. Tanto amore e tanta costanza per le nostre sorti, pagò colla vita, ricambiarlo noi di eterna ricordanza è riconoscenza non solo. ma dovere.

    Egli né giorno riposava, né notte , ora capitano ed ora soldato. •» I luoghi più deboli fortificava, i più forti maggiormente muniva, i movimenti indirizzava, col Governo ottimamente s'intendeva, né se Genova fosse stata sua patria propria, e fra quelle mura fosse nato, più amorevol volontà non avrebbe potuto dimostrare, né con più attento o forte animo la causa genovese procurare. Mandato da nn re benefico, il suo mandato egregiamente eseguiva. Valoroso uomo a valorosi unmini presiedeva. *

    Molti fatti d'arme intanto succedevano dalla parte occidentale della città e particolarmente in Polcevera, dove i tedeschi le più vergognose azioni commisero, non .rispettando la santità delle chiese, il sesso, i vecchi e fanciulli. Scannavano e rubavano., strano modo di far la guerra. I quadri e le masserizie preziose imbarcavano sulle navi inglesi che assediavano da mare tutto il littorale della Liguria. Schulembourg dopo il combattimento sostenuto contro i francesi che erano usciti di città insieme coi genovesi e contadini, e venuti a tastarlo crudamente alla Madonna di Misericordia a Rivarolo. pensò di assaltare la città dalla parte la più debole Silenziosamente adunque si partì, lasciando i piemontesi a guardia degli alloggiamenti e trincee fatte sulla Polcevera, e venne inosservato pe' monti che sovrastano al Bisagno. Quivi si accalorarono le fazioni. S'impossessò del Castellazzo, poscia benché gli costasse molto sangue sforzò il monte dei Ratti e l'ebbe, posto considerevolissimo da dove poi si stese ali' eremo de' Camaldoli e per la montagna di Qnezzi. Cosi la linea tedesca cominciando dal mare occidentale. saliva per le rive della Sturla e su pei monti accerchiando la città veniva quasi a sboccare sul mare orientale. Se non che a questo congiungimento si ostava il presidio della Madonna del Monte, sito importantissimo, perché da quel luogo si poteva battere coi cannoni le mura e lanciar bombe nella città. Sickel maresciallo di campo di nazione svizzera ai soldi della Repubblica ben conoscendo l'importanza del posto vi fece fortificare i francesi, i quali respinsero gli austriaci venuti ferocemente all'assalto. Nei giorni che i soldati francesi, spagnuoli e genovesi erano impegnati coli'inimico il quale ogni via tentava per insignorirsi di Genova, era commoventissima cosa il vedere i frati. i preti armati di schioppo far la guardia alle porte e ai posti avanzati ; e questo pietoso ufficio fecero finché durò il bisogno Monsignor Saporiti Arcivescovo spinto ancor egli dal medesimo zelo. andò a farne la rivista là dove erano o accampati o vigilanti ai loro posti. Il tedesco Generale persuaso che la forza non valeva a soggiogare gì' indomiti animi dei genovesi. pensò che la fame pòirebbe conseguire il suo divisamente : in questo parere convenne l'inglese ammiraglio. Costui per spiare se Genova era provvista inventa una meschinissima sorpresa, quella cioè di mandare al Doge una lettera richiedendo a. nome della Corte di Torino una cantatrice. I Padri indovinarono la missione perché ben sapevano quella Corte non abbisognare di simil gente. Fecero anzi che i messi per la città ovunque passeggiassero, e videro pane per tutto e mangiari squisiti e superflui. Boufllcrs invitolli a desinare o presentolli di una tavola si abbondantemente e squisitamente imbandita che gl'inglesi divoratori se ne tornarono non vuoti, ma pieni e riferirono. Allora l'Ammiraglio divenne tristo ; e quantunque facesse raddoppiare di vigilanza , inutilmente faceva ; avvegnaché tanto erano abili i padroni dei liuti, sactlìc, gondole e che si fossero, che in mezzo all'armata nemica guizzavano a pieno meriggio, sotto si può dire delle fulminanti batterie dell'avarissimo inglese. In Qne l'assedio di Genova si sciolse per debolezza dell'inimico, i francesi ossiano i collegati gallispani avevano liberata la riviera occidentale e facevano le viste d'invadere il Piemonte; anzi avevano mandato numerosi battaglioni su pel dorso delle Alpi condotti dal cavaliere Bellisle col proposito di tentare qualche fatto sulle fonti della Dora e del Chiusone, per aprirsi il varco nelle pianure subalpine. In questo pericolo il Re di Sardegna chiamò subitamente le sue soldatesche, le quali abbandonarono l'assedio di Genova per soccorrere al regno pericolante del loro re. Qui caddero le speranze d' Austria , e vani tornarono i desiderii di possessione e di vendetta. Schulembourg nella notte dei 3 di luglio del 1747 stendo, e levati tutti i campi che sul Bisagno avea posti, con somma cautela si ridusse all'antico alloggiamento della Torrazza, e quindi varcata la Bocchetta, abbandonò fuggendo il territorio della Repubblica, non senza essere percosso alla coda dai paesani, che gli rapirono alquante some di danaro. Nello stesso tempo gl'inglesi spiegate le vele andarono con Dio, riconducendo con sé le artiglierie e le provvisioni che con tanta fatica e spesa aveano portato ad un'impresa di cosi brutto proposito per le armi d'Inghilterra.

    I genovesi si rallegrarono al partire delle odiate insegne ; gli uni gli altri si abbracciarono e le passate calamità, quasi un orrendo sogno si raccontavano. La patria debbe gratitudine al popolo, che primo liberolla dal giogo forassero, ai patrizii pur anco perché dappoi ordinate le pubbliche cose la raccomandarono alle estere Potenze, per le quali Genova potè fiduciosa ergere la fronte non depressa, ma libera e superba.

    II Di somma beneficenza finalmente debbono lodarsi Francia e Spagna, che per salvare Genova dalla perdizione, a cui due vicini Principi ed uno lontano la chiamavano, di tanti soldati, di tanti denari e di tanto sangue furono liberali. La Francia soprattutto è degna di grandissima commendazione, perciocché nissuna spoglia per sé serbava, solo intenta a proteggere il giusto e ad ostare ad un ingrandimento pernizioso di emulc Potenze n

    Tanti tripudii, tante contentezze pel felice evento, doveva guastare un avvenimento deplorabile , lagrimevole. Il generoso Boufflers ammalossi di vajuolo, in pochi giorni tanto crebbe il maligno morbo che venne in forse di vita, quindi si mori. Uomo non può immaginare quanto questo accidente contristasse tutta Genova. Tutti piangevano, non v'era chi non lamentasse quella perdita, non invocasse Dio a coronare eternamente quella fronte tanto intrepida contro i nemici di Genova. Fu un pianto e un universa! desiderio di quel!' uomo. I popoli tutti il piansero e le lagrime loro sono la più desiderabile orazione funebre, da cui uom possa venire onorato. Nissuno, scrive il Botta, fu mai né più caritatevole verso i poveri, né più pietoso verso la religione, né più amante di Genova, né più generoso verso gli amici, ne più valoroso contro i nemici che il Duca di Boufflers.

    I Collegi decretarongli una lapida con una iscrizione latina, da porsi innanzi alla cappella di S. Luigi della nazione francese nella chiesa dell'Annunziata; e questo monumento di riconoscenza perpetuato a ricordare la memoria di tanto uomo luti" oggi si legge non senza commozione che ridesta un sentimento di gioja e di dolore. Statuirono pure che il figliuolo del Duca e tutti i suoi discen

    denti fossero ascritti al libro d'oro della nobiltà genovese, e potessero annestare le armi della Repubblica, con quelle del proprio casato.

    Decretarono altresì i Collegi che in avvenire per tutto il dominio si digiunasse la vigilia della festa della Concezione di Maria Tergine, dal patrocinio speciale della quale riconoscevano la conservazione della pubblica libertà, per essersi nella novena di lei il popolo sollevato al felice riscatto. Il Doge e Consigli fecero poi voto di ossequiare personalmente tutti gli anni in detta Decorrenza la Madonna di Loreto in Oregina dove si portava con assai pompa a udire la S. Messa e un buon discorso che ricordava sempre il felicissimo avvenimento. Ancor oggi si celebra quel giorno con festa religiosa, e sempre sovveoilrice di quell'epoca memoranda.

    I morti in difesa della patria si ebbero i dovati onori nella Chiesa Metropolitana. Sulla porta si leggevano scritte le seguenti parole in latino, che trasportate in italiano significano.

    -• /' fortissimi cittadini . cui l'amore itila patria spinse a morte, perché abbiano, dopo le guerriere fatiche . pace e riposo eterno . questo lutto di pietà . quest' ufficio ti gratitudine. «

    II Re Ludovico xv. mandò il Duca di Ricbelieu, il quale volendo comparire non indegno successore del Duca di Boufflers attese a fortificare la città. Costui si travagliò in piccoli fatti perché la guerra, che incrudeliva altrove, liberò il territorio genovese da fazioni di grave importanza. Non pertanto gli austrìaci e gl'inglesi cessarono dal tribolare le due riviere della Repubblica, ma al male cagionato dalle due collegate Potenze si contrometteva tutto quel bene che Richelieu nel suo benevolo animo portava, e gli era stato dal re prescritto.

    Era ornai tempo che i Potentati rivolgessero I animo alla pace ; inclinaronvi stretti dal bisogno di essa. I/ Inghilterra era gravata di debiti. Spagna aveva consumati immensi tesori e l'America cessava dal versare nel sun regno i ricchi tributi. La regina di Ungheria sfiduciata del regno di Napoli vedeva che inutilmente tentava di romper la testa ai genovesi che P avevano dura. L'Olanda era a mal partito per le vittorie dei

    francesi nella Germania inferiore e nei Paesi Bassi. La Sardegna per troppo volere andava perdente di Nizza e della Savoja e non poteva che seguitar le volontà dell' Austria è dell' Inghilterra. Il Re di Francia, quantunque in migliori condizioni di tutti, per bontà il' animo inclinava alla pace per conceder quiete alla sconvolta Europa. Genova più che tutti poi dcsideravala per riaversi da tante percosse e ricominciare l'interrotto commercio fonte di ogni sua prosperità. Sentiamo dal Botta la definizione di questo importante argomento. .

    » Sorse un inaspettato e benigno lume per la misera umanità. Già il marchese di l'uisieux per parte del Re di Francia, il conte di Sandwich mandatovi dal Re d'Inghilterra si erano abboccati per praticare gli accordi del pacificamento universale in Brcda. Poscia si adunarono per venire alle strette del risolversi e stagliare e determinare tutti i punti controversi, in Acquisgrana i plenipotenziarii dei principi, per l'Inghilterra il conte di Sandwich ed il cavaliere di Robinson; per la Francia il conte San Severino d'Aragona ed il cavaliere de la Porte da Theil ; per 1' Austria il conte di Kauuitz ; per la Sardegna Don Giacomo Masones de Lima, per la Repubblica di Genova il marchese Francescomarìa D'Oria ; pel Duca di Modena il conte di Monzone; per la Olanda Guglielmo conte di Bentinck, Federigo Enrico barone di Vassenaer, Gerardo Hasselaer, Giovanni barone di Borssele, Onno-Zevier-van-Harem. Il Papa vi mandò un canonico di Liegi, perché avesse cura delle ragioni pontificie su Parma e Piacenza. Dopo i discorsi consueti in cui ciascuno stava sul tirato più che poteva , convennero finalmente fra di loro e sottoscrissero i preliminari l'ultimo giorno d'aprile del presente anno 1748, che poi furono ridotti in trattato definitivo ai diciotto del seguente ottobre. Assettarono al modo che segue le condizioni dell' Europa. Riconobbero, conforme alla prammatica sanzione. in Mariateresa I" erede degli Stati austriaci t> la qualità d'imperatrice con quella d'imperatore in Francesco di Lorena suo marito. Diedero a Don Filippo i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, con regresso, quanto a Piacenza, al re di Sardegna, caso che la stirpe di Filippo si estinguesse e Carlo di Napoli andasse a regnare in Ispagna. Mantennero Carlo in possesso della corona delle Due Sicilie. Aggiudicarono definitivamenle e guarentirono al re di Sardegna l'alto Novarese , il Vigevanasco e I" Oltrepò, paesi già cedutigli dalla regina d'Ungheria per prezzo dell'alleanza. Riutegrarono Genova nel possesso del Finale e così il Re Carlo Emmanuele restò deluso di un paese, che gli si era dato in acquisto pei patti di Vormasia. La Francia restituì tulle le sue conquiste e PInghilterra le rendè l'isola del Capo Breltone. Restituirono al Re di Sardegna "Sizza e Savoja, ma desolate e guaste dalla guerra. Gli Spagnuoli, massimamente in quest'ultima provincia , fecero d' ogni erba fascio. Un certo Amorino, che si faceva chiamare Don Giuliano Amorino, loro sopraintendente alle provvisioni, fu contro i poveri savoiardi il più rapace pubhlicano che mai fosse stato al mondo. »

    •i I popoli respirarono, ma tutti dicevano, che non portava il pregio, che si spandesse Uinto danaro , si spargesse tanto sangue , si accumulassero tanti dolori per lasciare poi le cose a un di presso, com' erano prima. Ma i popoli non avvertivano, che quando s'infiammano gli sdegni guerreschi, e' non si calmano se non dopo le solite evacuazioni. »

    •" Ma lode sia data alla Francia, che con animo disinteressato protesse i deboli e nulla serbò per sé. Quei che si dilettano della servitù delle nazioni, la biasimarono, e tuttavia la biasimano in questo fatto di debolezza; ma io credo che un esempio di temperanza da una potenza grande, sia più fruttifero al mondo, ed anche a lei medesima, che l'acquisto di una provincia. «

    Ti Seguitarono le rimunerazioni a chi aveva bene meritato nel corso della lunga ed acerba contesa. I Re diedero onori, titoli, emolumenti , quieti e dolci vestigi di orrida tempesta. •»

    « La Repubblica di Genova, che più di ogni altro aveva avuto bisogno degli esteri generosi e dei cittadini amorevoli, imitò i re. Scrisse al libro d' oro Riehelieu e Haumada con le loro famiglie. Scrissevi medesimamente i benemeriti cittadini Giambattista Celesia, Giuseppe Calvi, Giuseppe Asplanati, Giam

    battista Carrogio, Giorgio Torelli, Giuseppe Lagomarsino, Agostino Maggiolo. Tutta Genova con somma lode esaltò Gianfrancesco Rrignole Sale Doge, per la fortezza, prudenza ed attività da lui mostrate nelle congiunture più difficili e gravi, che da molli secoli addietro avessero perturbalo la Repubblica. Compilo il travaglioso biennio, uscì Hrigoole d' ufficio. Gli venne sostiluilo coi più favori Cesare Cananeo citiadino riputatissimo. »

    " La Repubblica per testimoniare ai posteri, ch'ella riconosceva dall'intercessione della Madre di Dio la sua liberazione, stabilì con perpetuo decreto, che ogni anno il giorno dieci di decembre, giorno in cui a furore di popolo furono cacciati gli alemanni e che dedicato è alla Vergine di Loreto, i Collegi andassero a tener cappella pubblica nella chiesa di Oregina de' frati minori osservanti di San Francesco, posta sovra di un allo monle fuori della porta di San Tommaso. Ordinò eziandio, che nel medesimo anniversario dopo la solenne messa si cantasse in ciascheduna chiesa l'inno del rendimenio di grazie, pietose ricordanze d'uomini forti e di beneficio eccelso. Così ciò che era venuto da Dio, a Dio tornava. »

    Mentre la Repubblica era travagliala dalla guerra poc'anzi descritta, l'isola di Corsica era nuovamente in preda alle fazioni guerresche. Pubblicata la pace di Acquisgrana sgombrarono dall'isola e gli austriaci e i piemontesi colà mandati affine di tener viva la guerra dei sollevati contro la Repubblica. Francia v' avea i suoi francesi comandati dal marchese di Cursay; costui eie soldatesche rimanevano nell' isola ; egli seminovvi quei semi che poi partorirono quei frulli che or ora si accenneranno. Andò persuadendo i capi a fidare nella magnanimilà del He di Francia e tanto fece, che ebbe in parte in proprie mani l'amministrazione della giustizia. Insomma Francia, quantunque Genova sospettosa fosse, procurava di cattivarsi l'animo degli isolani, e quantunque pel trattato di Acquisgrana l'isola dovesse rimanere sotto lo imperio e la dependenza della Repubblica , pure col fallo pareva che Francia ne fosse padrona, o padrona divenir ne dovesse. Il Re Luigi volle troncare quelle odiose pratiche, e siccome uomo eccellente era, ordinò che secondo il trattato di Acquisgrana la Corsica tornasse in obbedienza della Repubblica. O fossero stanchi quegl'isolani, o covassero ulteriori e non per anco maturati disegni, discesero ali' accordo, ed i deputati affermarono volersi stare alle proposizioni che Francia proponeva, e stabiliva con un espresso capitolato, ove le cose tornavano come prima, salvo alcune eccezioni riguardanti T amministrazione della giustizia ed il personale per le pubbliche amministrazioni. Ma queste loro determinazioni durarono pochissimo, perché nuovamente i corsi si dierono alla rivolta o istigati che fossero da Cursay, oppure che propriamente di Genova non volessero più ombra di soggezione. In questo il Re di Francia chiamava dall'isola tutti i francesi e le speranze dei sollevati si ingrandirono. Per questa mancanza di presidio il commissario Grimaldi sollecitava i soccorsi da Genova, e soli cinquecento uomini erano venuti a rinforzarlo, pochissimo appoggio in tanto momento.

    Di sangue in sangue, di orrendi delitti in orrendissimi tradimenti seguita la narrazione delle istorie corse fino al momento nel quale un uomo generoso, un vero amante della sua terra natia, scende in quell'isola col generoso e nobilissimo proponimento di levarla a libertà e toglierla per sempre di sotto al giogo straniero. Santissimo fu quel pensiero, ma se da prima ebbe un risultato promettente finì con la maggiore servitù della sua patria.

    Fu questi Pasquale Paoli figlio di quel Giacinto che viveva in Napoli ai servigi militari di quella corona in grado di colonnello. Pasquale appena aveva compiuto il quarto lustro dell'età sua, giovane di belle maniere, d'animo intrepido, educato nelle lettere e nelle discipline filosofìche da quel Antonio Genovesi, uno dei principali ornamenti d'Italia. Quando fu sul partire il padre gli disse, Fa , figlinolo, va e più felice di noi i nottri desiderii adempì. Meno ora m'incresce la cadente età, poiché te vedo, o figlio, chiamato a fare ciò. che noi fare volemmo e non potemmo. Parrammi ancora combattere per la corsa libertà, quando tu per lei combatterai. Secchio sono, questa è forse r ultima volta , che con questi foschi occhi

    e con queste frali braccia io ti vedo e t'abbraccio ; ma qualunque abbia ad essere la mia restante vita o di mesi o d'anni, contento l'estrema ora e l'aperta tomba vedrò, se i venti mi porteranno di te, che per la libertà vincesti.

    Il Paoli fu ricevuto nell'isola con trasporto, tutti i popoli concorsero bramosamente a vederlo. Fanciullo l'avevano veduto, ora di fiorita età il vedevano e portatore di libertà. Nel mese di luglio si chiamò un parlamento di tutta la nazione a Sant'Antonio di Casabianca. Il Paoli v' intervenne. Per unanime consentimento fu chiamato Generale delle armi e capo della parte economica e politica del regno. I primi nemici eh' egli dovette temere furono i corsi medesimi, coloro per i quali veniva a combattere. L'invidia è fonte di ogni male, di ogni perverso divisamento. Il Paoli che intendeva non solamente a libertà, ma sì pure a render l'isola educata e civile, applicò T animo a sanare questa peste. E siccome in quei popoli predominava tuttavia l'antico vizio della vendetta, egli stabili in ciascuna provincia magistrati con facoltà -di giustizia pronta e sommaria a terrore dei feritori e degli omicidi. Alla storia di quella isola rimane il debito di narrare le parlicolarità del governo del Paoli e le minori e le maggiori azioni fatte da esso in beneficio della sua patria. Svolgendo la storia eh' io narro vo alle cose che più toccano la nostra Genova.

    Francia ed Inghilterra si rompevano la testa nell' America settentrionale. La prima venne in sospetto, chela sua rivale tentasse di levar l'isola dall'obbedienza di Genova e farvi sua stanza per essere nel caso di maggiormente danneggiarla ne' suoi interessi ; tanto più che correva una voce che il Paoli si fosse inteso con l'Inghilterra. I francesi pensarono di metter nuovamente piede ridi'1 isola e ottennero da Genova di esservi introdotti e di presidiare i luoghi più importanti; Genova per le medesime ragioni facilmente accondiscese. Vi restarono il tempo prefìsso ed i genovesi si approfittarono di quell'occasione per maggiormente fortificarsi nell' isola, e prepararsi ali' impeto delle milizie del Paoli. Costui mentre che più convenevolmente ordinava il governo civile, faceva accolta di gente avvalorata ed atta al servizio per istringere più da vicino Bastia, senza la possessione della quale prevedeva sempre incerto e vacillante il proposito della libertà dell'isola.

    In questo tempo un grandissimo disordine regnava nelle cose ecclesiastiche di Corsica ; i vescovi non più erano nelle loro sedi, i preti. i frati si erano fatti [intentissimi istigatori contro di Genova; gli ordini religiosi che ancora riconoscevano questa per loro sovrana, erano discacciati ed ogni libero e dispotico reggimento governava quegli uomini che da per loro si erano consacrati al Dio della pace. L'amore della libertà, della patria è santo ; ma 1' amore della licenza e del dispotismo è infame e dannevole ognor più in persone che hanno abbracciato l'augusto ministerio del sacerdozio. Erano in questo stato le cose, quando Roma considerando che per 1' assenza dei legittimi pastori, le potestà ecclesiastiche si esercitavano senza legittimo mandato, perla quale mancanza succedevano non pochi scandali ed il servizio divino ne pativa, deliberò di mandare in Corsica un Visitatore Apostolico, affinchè avesse cura, che si rimediasse ai disordini, ed il relto culto si riordinasse. Di questo spinoso ufficio fu incaricato il vescovo di Segni Cesare Crescenzio De Angelis con particolare instruzione che unicamente delle cose ecclesiastiche si occupasse e nelle temporali a niun modo s'ingerisse.

    Questa deliberazione del Pontefice dispiacque sommamente a Genova, perocché presa non solamente senza il suo consenso, ma eziandio senza sua saputa. In quell' atto del Papa vedeva un non so che di predilezione per i ribelli; prevedeva altresì che di quell'andata ne avrebbero levato rumore, e se ne sarebbero prevalsi pei loro iniqui divisamenti

    La notizia di quella delegazione fatta da Clemente pervenuta alle orecchie del Paoli e de' suoi compagni la ricevettero con grandissima allegrezza e la stimarono una riconoscenza non tacita, ma espressa fatta dalla autorità pontificia della loro sovranità. Incredibile perciò fu l'ardimento che ne presero, assai più certamente pel fine politico, che pel religioso.

    Genova senz'altro decretò, che il vescovo di Segni Cesare Crescenzio De Augelis ,

    quando mettesse piede in terra genovese, arrestato fosse e trasportalo decentemente nella metropoli. E chi lo pigliasse un premio di tre mila scudi romani si avesse. Questo parve e fu la maggiore ingiuria. Il decreto fu spedito ovunque affinchè dove comparisse gli mettessero le mani addosso. Queste misure non saprei dir come, non valsero ; il vescovo di Segni sbarcò sano e salvo in Corsica , ed il suo arrivo destò un tale entusiasmo che veramente non aveva che fare colle discipline ecclesiastiche. Dopo averlo festeggiato, acclamato, gridato lor vero ministro di Dio e del Papa a cui protestavano servitù ; fecero lacerare, incendere per le mani del boja il decreto della Serenissima Repubblica. A questi fatti seguirono le pubbliche accuse e le pubbliche discolpe ; Roma mandò fuori un proclama dove dannava il decreto della Repubblica e diceva le mille cose in suo prò e le mille contro della stessa. Genova fece altrettanto, dichiarando il vescovo dì Segni persona sospetta e senza saputa di lei violentemeote intruso nel suo regno di Corsica, in atto di una violenza tanto meno tollerabile, quanto più offensiva dei sovrani suoi diritti ; e siccome Roma conchiudeva che quel decreto si dovesse avere per nullo, ingiusto, iniquo, irrito, vano e temerariamente e dannabilmente emanato: cosi la Repubblica dichiarava che il suo decreto dovesse rimanere nel suo fermo vigore, nella sua intiera forza e piena osservanza ec Però fu generale opinione che

    quel mandare in paese amico un personaggio di quella importanza e con quella speciale missione gelosa assai, di soppiatto e senza il consentimento del Principe naturale non fosse cosa lodevole, anzi biasimevole assai. tanto più che accusavasi Clemente xui. di non avere seguitata la prudenza del suo predecessore , l'immortai Benedetto, il quale voleva bene intervenire negli affari di Corsica per regolare le faccende religiose ed ecclesiastiche dell'isola, ma protestava e dichiarava che mai nessuno vi avrebbe mandato se non d'accordo e colla grazia della Repubblica. A tutto questo si vuoi aggiungere la scelta della persona, siccome quella conosciuta per propensa ai moli di Corsica ed avversa alla Signoria I popoli tulli in generale conoscevano la riverenza che in ogni tempo Genova aveva dimostrato alla Sede Pontificia; e quella riverenza e quella sommissione e quella prontezza nella difesa della Cattedra di San Pietro facevano pensare che un troppo giusto motivo si fosse posto in mezzo tra Genova e Roma

    Lascio la disquisizione delle ragioni messe in campo e dal!' una parte e dall'altra. Taccio pare come la Corsica con maggiori ingiurie di Roma offendesse Genova, come questa facesse bruciare per le mani del boja i manifesti di quella e come quella facesse bruciare per la medesima mano i manifesti di Genova. A sedare tutte queste scandalosissime operazioni tra Roma, Genova e Corsica si metteva il Re di Napoli. Inutilmente perorava in favore della Repubblica e del Principato, poscJachè Clemente era uomo fermo nel suo proposito. Se a pace convenir si dovesse , voleva egli che la Repubblica fosse la prima a rivocare il decreto ; e questa non volendo, le cose rimasero ferme ed il De Angelis si stette ancor quattro anni in Corsica, dove in virtù del mandato pontificio dava facoltà pastorali, amministrava le rendite ecclesiastiche, e regolando la disciplina delle chiese. era instigatore potente pei sollevati, poiché vedevano essi Roma favorevole ai loro disegni e perciò quel appoggio era di somma importanza.

    I corsi adunque maggiormente animati per la protezione di Roma, deliberarono di muover guerra in tutti i sensi contro la loro sovrana , e perciò ordinarono la guerra di mare contro i genovesi, permettendo a qualunque nazionale od estero che volesse armare bastimenti di corso contro i genovesi, d'innalzare la bandiera corsa, quando alle instruzioni che ad essi sarebbero date si conformassero.

    Qnesto genere di guerra mise a cattivo partito la Repubblica, ossia il governo di essa in Corsica. 11 Paoli continuamente era in sali' armi e per quanto poteva cercava di opprimere i genovesi e gli opprimeva, quantunque un Matra sleal corso contro di esso e contro la patria in favor di Genova combattesse. Oramai Genova disperava della sottomissione dei corsi, perché tutta l'isola alla voce del Paoli, uomo veramente generoso ed

    (PlRTB I.)

    amantissimo della natia indipendenza , tutta concorde ed unanime si muoveva e le mani di ferro armate minacciosa e fiera contro Genova brandiva.

    La Repubblica non potendo da sé sottomettere T indomita Corsica pensò di usare ali' intento soldati forestieri. L'ultimo esperimento faceva e davvero che l'ultimo era; e come i corsi amavano meglio di essere dati in braccio a chicchessifosse purché non genovese, così Genova amava meglio vedere la Corsica in balìa altrui che signora di sé medesima. Questo era odio e non politica.

    Genova adunque ricorreva nuovamente a Francia. Conchiusero, addì 7 di agosto del 1764, che sette battaglioni francesi approderebbero in Corsica, non per farvi guerra, ma solamente per difendere le piazze di Bastia, Ajaccio, Calvi e San Fiorenzo.per impedire che di queste i ribelli s'impossessassero. Il conte di Marbeuf che guidare li dovea aveva ordine di persuadere ad un accomodamento ; ma da quel momento in poi. dice bene il Rotta, la Corsica non fu più di Genova che di nome.

    Marbeuf intavolò alcuni negoziati col Paoli, ma infruttuosamente; perocché i corsi volevano la loro indipendenza e Genova no. Rotte le pratiche, Achille Muratti improvvisamente con una banda di corsi s'impadronisce della Capraja ; questo avvenimento fini per desolare la Repubblica. Genova era inabile a ritornare i suoi antichi sudditi all'obbedienza. Quaranta anni di sforzi inutili, oltre le antiche perturbazioni, che tanto travaglio le avevano dato, bene dimostravano, che per lei era la ribellante isola perduta. Le tregue, le paci, le armi non erano valse ; genovesi e corsi non potevano più vivere insieme. Ed ora che il Paoli aveva uniti tanti discordi animi in concordia; ora che questo generoso uomo aveva saputo ordinare una libertà più ancora fondata sulle leggi che sulle forti inclinazioni di una gente rozza e quasi ancora selvaggia, ora che col ministerio delle lettere da esso lui fatte gustare ai suoi fratelli, ora che aveva introdotta la civiltà nell' isola, veniva a somministrare i mezzi più efficaci di resistenza e rendeva con le cose tulle anzidette la causa corsa più cara agli uomini e più degna di felice fine.

    Si tini i ancora, che i popoli si meravigliavano, come quella Genova che nel 1746 con si generoso e forte animo si era contro i tedeschi rivendicata in libertà, ora contro una nazione del pari forte e generosa tanto odio nutrisse ed ostinatamente volesse serva e conculcata.

    A dare l'ultimo tracollo alle cose di Corsica vennero i gesuiti. Spagna li cacciava dal suo regno, Roma non li voleva; e la prima otteneva da Genova che in Corsica ricetto avessero; destinavansi per loro seggio le piazze, dove i francesi tenevano i presidii. Genova compiacendo a Spagna, dispiaceva a Francia , che anch' essa poc' anzi aveva scacciato gl'ignaziani. Il Re di Francia strepito e mandò ordine a Marbeuf che all'arrivo dei gesuiti sgombrasse dalle piazze dove essi erano per entrare. Così fece Marbeuf; Algajola ed Ajaccio abbandonali dal presidio francese, caddero tantosto nelle mani dei corsi e poco stette che non s'impadronissero pure di Calvi; cosi i genovesi, dice il Botta, per aver voluto dare ricovero agli esuli di Spagna, sdegnarono la Francia, e parecchi forti ed importanti luoghi perdettero; i soldati francesi cessero il luogo ai frati spagnuoli. I corsi meglio di ora non potevano agognare alla loro indcpendenza; quasi padroni di tutta l'isola ; Francia disgustata e Genova incapace a resistere. Ma da questo anziché nascere la loro independenza ne nacque la mutazione di padrone, e se italiani erano, dovevano diventare francesi. Così doveva finire la Iliade di quella travagliatissitna isola.

    Adunque Genova non potendo più da sé soggiogare quei forti e pertinaci isolani e non sperando più di ciò conseguire coli' ajulo di Francia, costrettavi dalla necessità cesse l'isola ai francesi alle seguenti condizioni.

    » La Repubblica cedeva alla Francia il regno di Corsica, comprese le fortezze, le artiglierie ed ogni attrezzo militare con patto però che per le artiglierie e gli attrezzi secondo la stima, che se ne farebbe dai periti, il Re corrispondesse in denaro l'equivalenza.»

    " Che la sovranità del regno apparterrebbe sempre alla Repubblica. «

    « Che agli antichi proprietarii , mostratane 1" identità, tutti i beni confiscati si restituissero. •'

    'i Che i corsi fossero veri sudditi della Francia tutto il tempo che l'isola possederebbe. "

    11 Che la Francia fosse obbligata a mantenere in Corsica sedici battaglioni. -

    - Che guarentirebbe la Repubblica dai corsari turchi e corsi, acciocché la bandiera genovese potesse liberamente trafficare nei suoi mari, n

    » Che il Re desse libero possesso della Capraja a Genova.

    Come si sdegnassero i corsi all'amaro annunzio , come lungamente contrastassero a Francia il dominio di quella loro terra natia, e come finì quella generosa lotta dirallo il Cav. Gian Carlo Gregorj con nuove e più vere parole. Egli inlento a tessere la storia dell'isola che gli fu madre, è intento a rintracciare tulle le verilà, sì ad onore come a scorno di Genova. Nato di Corsica, di sangue italiano, forte di mente, narrerà con magnanimo ardire le virlù, i vizi, le glorie, le debolezze di uni nazione generosa ; ma era deslinato dal cielo che non avesse a guslare pieuamenle la desiderata libertà, e come Genova dovesse cessare, più questa che quella dalla propria rappresentanza. Così la Metropoli, come la Colonia nel lacerarsi vi cendevolmente le viscere si prepararono ad essere inghiottite dal più forte. Sorte cui locca a chi lullo vuole, e a chi non sa tollerare in altri le proprie passioni, e pratica quelle virtù che slima in sé e in altri delesla.

    Già ci avviciniamo a quel punto in cui fu rovesciato dalle fondamenta il nobile edilìzio della ligure independenza. Per quell'amore che ognuno porta alle patrie instiluzioni ci è doloroso a descrivere il falale scoppio della francese rivoluzione, per cui venne a cessare la Repubblica Genovese. Dirò poco perché i tempi sono freschi e le piaghe aperte e si perché a dire il vero non tulio ci potrebbe recare plauso ed onore. La storia siccome maestra e ministra delle verità vuoi essere in largo quadro dipinta, perché quelle luminosamente appariscano; e se è palesalrice delle virlù, vuoi essere dei vizi. Le prime generalmente si accettano con amore e plauso, i secondi siccome pungenti si vogliono allontanare ; ma allora le pagine della storia Sodo mentitrici, bugiarde, adulatrici e false; senza paure scriverà la storia dei tempi a noi vicini chi sarà dopo di noi di un secolo; se in questo basso mondo si scriveranno più storie.

    Era già un tempo che tra il Governo e i governati non passava più quella confidenza, e quella devozione e cieca ubbidienza che forma quel nesso indistruttibile del sistema repubblicano, quantunque oligarchico. L'alta aristocrazia occupava le cariche più cospicue e lucrose, senza dire come alcuni fra i nobili che la componevano si erano impadroniti dei più giovevoli appalti e di tutti i monopolii del commercio. E queste cose facevano non solo a danno del popolo, ma pur anco di quei nobili poveri costretti a strisciare per le ampie sale dorate in busca di qualche impieguccio, che io sé non era né onorifico né lucroso. Tranne quei di antica, e specchiata virtù che pur non mancavano ; ogni individuo della casta aristocratica pensava per sé; il Consiglio e grande e piccolo, siccome in gran numero componevasi di costoro, pensavano per loro e per loro deliberavano, e per accrescere i proprii profitti e favorire le private lor mire.

    Scoppiava la rivoluzione francese, quale cibo volesse ognuno sei sa. L'assemblea nazionale affine di eccitare per tutto l'amore di cose nuove, mandava col titolo di ministro in Genova Semonville. Costui nobile coi nobili, commerciante coi commercianti, popolare coi popolani s" ingegnava di sedurre e quelli e questi. Successegli quindi un Naillac che se non fece maggior frutto non ne fece meno. Seminali i germi fomentatori, dovevano col crescere recare quel frutto proprio di loro natura. Le grosse potenze si erano collegate ad impedire \" allagamento de' nuovi principii; le piccole spaventate si guardavano armate e diffidenti; Venezia e Genova si dichiararono neutrali, e poco accortamente in neutralità disarmate, peggio per Genova che aveva sul capo si può dire i rumori delle armi francesi che avevano invaso il Piemonte. In questo 1" Inghilterra stata neutrale, si stringeva col Re di Sardegna. I Ministri delle estere potenze residenti in Genova davano opra a che il Governo si risolvesse ad una qualche dichiarazione, in ciò caldamente insisteva Francesco Drake da parte dell' Inghilterra, suggerendo che Tilly ministro di Francia succeduto a Naillac, cacciasse dallo

    stato suo insieme con i suoi aderenti. La Repubblica finiva col mandare Ambasciatori alle Corti d'Inghilterra, d'Austria e di Spagna a rappresentare la sua difficile posizione, e la necessità di star ferma ncll' adottata neutralità. Invece di armarsi si perdeva in inutili ambascerie.

    Gì' inglesi non contenti di minacciare per mezzo di Drake il Governo genovese, passavano ai fatti usando una stragrande prepotenza. Era nel porto di Genova la Modesta fregata francese; questa fu improvvisamente assalita da due navi inglesi, che le si erano a questo fine poste a lato. L'equipaggio sul quale gl'inglesi a sangue freddo avevano fatto una scarica d'archibugiate, parte rimase estinto e parte buttatosi in mare si salvò colla fuga.

    Una cosi sfacciata violazione delle leggi delle nazioni faceva montar sulle furie quanti francesi erano in Genova; e non si tosto la notizia di questo fatto giungeva a Nizza che i rappresentanti del popolo Robespierre il giovane e Ricard pubblicavano uno scritto, in cui le cose che dicevano contro gì' inglesi ognuno facilmente può immaginare; e rivoltisi a Genova dicevano di risolvere incontanente a voler essere o amica degli amici, o nemica dei nemici della Società oltraggiata nelle persone dei repubblicani francesi. Conchiudevano con protestare al popolo genovese, che se il Senato tardasse a risolversi a dare condegna punizione agli autori di quel delitto commesso nel suo porto e sotto le bocche delle sue artiglierie, lo riputerebbero come nemico, e per tale lo tratterebbero; essi si vendicherebbero di questo e di altro. Il Senato, il popolo ci pensassero, risolvessero. Genova risolveva, cioè il Governo che la reggeva, di rimaner nella fermata neutralità. In questo proposito indotta anche dal vedere come non tanto facile era ai francesj recarle danno finché la squadra inglese aveva la signoria dei mari, e perché anche per quella neutralità il commercio ne sentiva un notabile vantaggio per l'approvigionamento di vettovaglie sì agli uni che agli altri. Drake strepitava, Tilly faceva peggio ; intanto si acconciava l'affare della Modesta collo sborso di quattro milioni, che Genova pagherebbe metà all'erario nazionale di Parigi, e metà alla cassa dell' esercito d'Italia.

    Intanto i repubblicani riuscivano vincitori a Telone; il Consesso nazionale non volendo perdere tempo in mezzo mandava i francesi sul territorio ligure col pretesto d'impedirò che il Re di Sardegna s'impossessasse di quello tanto da esso lui desiderato. Dumorbion conduceva con sé meglio di sedicimila soldati. laceri, mondici; dopo le inutili proteste del Governator genovese, occupava la città di Ventimiglia. Vero è che i francesi avevano domandato il passo soltanto per andare a ferire il Piemonte tanto avverso alla nuova Repubblica francese, ma chi fa un passo ne fa due, e cosi essi, poiché non solo tragettavano, ma s'impossessavano delle eminenze e delle fortezze come appunto in Ventimiglia fecero occupando il castello di quella città. L'esercito repubblicano si divise in due squadre, l'una s'avviò al marchesato di Dolceacqua a percuotere i piemontesi; e l'altra s'indirizzò alla volta di S. Remo per ferir Oneglia, il solo spiraglio che s'avesse il Re di Sardegna per comunicare colla flotta inglese. Ma lasciamo i francesi intenti a romper la testa agli austro-sardi e seguitiamo le cose che toccarono più vivamente la vita di una Repubblica che doveva lottare con tutte le Potenze, e con se medesima

    Drake spalleggiato dal Ministro spagnuolo insolentiva in Senato, e poscia si partiva da Genova rilirandosi a Livorno, dichiarando prima i porti della Repubblica e principalmente quello della capitale in istato o" assedio. E queste cose succedevano, si noti bene, innanzi che i francesi oltrepassassero i confini e violassero la neutralità di Genova. Le impertinenze inglesi facevano senso nel popolo, che imprecava di tutto cuore a quella nazione. I partigiani di Francia, ossia gli amatori di cose nuove pigliavano ansa: Tilly faceva l'ufficio suo, e s'intende non tralasciava di riscaldarli. Il Senato per paura di maggiori dimostrazioni faceva chiudere la bottega di un farmacista Felice Morando, dove convenivano i più caldi e sviscerati di Francia. Faceva nel tempo stesso serrare in Torre un Gasparc Sauli, un Grimaldo Serra, un Vincenzo Di Negro, un Domenico Rivarola, un Emmanuele Scorza, e finalmente un dottor Repetto con assai altri. Ordinava le milizie cittadine, assoldava gente, e Savona ed i più forti luoghi

    pei quali dovevano passare i francesi, fortificava e di gente sperimentala muniva.

    Gli ottimati, e voglio dire gli aristocratici, si facevano forti temendo che il popolo non si levasse su ad innovare Coloro di questa sella, nemica dei Re come del popolo, che non avevano le mani in pasta, desideravano le novità; ma siccome erano scaltri e pratici del mondo, e ben sapevano che chi primo comincia male n'incoglie, stavano ad aspcllarc che la necessilà, senza ch'essi avessero cooperato in veruna cosa, li chiamasse a dominare. Cosi per esaltar se stessi si volevano servire del popolo che odiavano, e che ciecamente era strumenlo come fu sempre alla loro grandezza.

    La Corsica di francese eh' ella era divenula, ora per opera di Pasquale Paoli diveniva inglese. Subitamente si mandava fuori un manifesto di guerra a nome della nazione Corsa contro Genova. Si esortavano i corsi ad armar navi in guerra, per correre contro i bastimenti genovesi; avessero gli armatori facoltà di appropriarsi, non solo le navi genovesi, ma ancora, cosa certamente enorme, le merci genovesi che si trovassero a bordo di bastimenti neutrali. Stabilivasi poscia che i genovesi presi, sarebbero condotti nell'isola in qualità di schiavi e condannati alla gleba; finalmente si pagassero cento scudi di premio per ogni capo di lali schiavi, che fosse condotto a Bastia.

    •» Non è certo da meravigliare, nota umanissimamente il Botta, che Paoli nemicissimo per natura ai genovesi, e mosso dai risenlimenti antichi, abbia dato in questi eccessi; ma che gì' inglesi, signori allora di Corsica, che potevano in Paoli quel che volevano, e che erano, o si vantavano di essere civili ed umani uomini, gli abbiano tollerali e forse instillati, con lasciar anche scrivere in fronte di un manifesto europeo le parole di schiavo e di schiavitù, nissuno non sarà per condannare. Adunque Algeri per mano dell' Inghilterra si trasportava in Corsica? Intanto arditissimi corsari corsi correvano il mare, e con patenti spedite da Elliot, facevano danni incredibili al commercio genovese, e peggio ancora che il manifesto non portava. «

    La celebre battaglia di Loano decise le sorti in favore dei repubblicani, che per questo fatto s'impadronivano di tutta la riviera di ponente e cacciavano da questa gli austro-sardi, i quali a loro volta avevano andi' essi violato il territorio della Repubblica; e a lor volta come i francesi ora avevano contaminato il territorio ligure con tante ribalderie da far lagrimevole testimonianza. che la guerra, anche tra nazioni civili, è una peste cagione d'ineluttabili esorbitanze. nCosi l'Italia, lacerata dagli amici, lacerata dai nemici, in preda al furore tedesco, in preda al furore francese, mostrava quale sia la condizione di chi alletta con la bellezza, e non può difendersi con la forza. ••

    II Direttorio, succeduto al Consesso nazionale in Francia, deliberava di volere in questo anno (1796) vincere la tenacità austriaca, e darle una di quelle lezioni da distoglierla da più oltre impugnar l'arme contro la francese Repubblica. A quest' effetto mandava generale dell' esercito
    11 Direttorio per queste strepitose vittorie cresceva in desiderii di conquista; scriveva al fortunato vincitore che di tutta Italia se potesse s'impadronisse. Bunnaparte non era nomo da far meno di quello che gli si ordinava. Vincitore per tutto, gettavasi sulla Toscana; invadeva i ducati di Massa e Carrara e la Lunigiana, riuscendo cosi nel fianco della Repubblica da parte di levante, fomentando coloro che desideravano le cose nuove: intanto che con una mano fiaccava la potenza Austriaca in Italia, coli' altra toglieva la Corsica all'Inghilterra. I popoli in questo generale movimento d'uomini e di cose insorgevano;

    Milano fu prima a darne l'esempio; i francesi ajutavano chi voleva esser ajutato e chi non voleva. Venezia e Genova le quali sebbene fossero di nome uguali a quello adottato dalla Francia, pure siccome in sostanza erano fondate sopra basi aristocratiche non piacevano a questa, e desiderava che con una variazione più popolare si fossero accostate alla Repubblica francese tipo e primogenita. Faipoult era in Genova Ministro per Francia succeduto a Villars; ebbe dal Direttorio instruzione che facesse opera, affinchè il Senato si risolvesse a temperare l'antica Costituzione, o. abbandonata la neutralità, si voltasse senza restrizione alla parte francese. Faipoult, faceva ogni cosa per riuscire all'intento: intanto altri accidenti inducevano il Senato a negoziare col Direttorio le condizioni di un'alleanza, che Vincenzo Spinola conchiudeva in Parigi, e quindi la Repubblica ratificava. Ma tutto questo non bastava, e' bisognava che la Repubblica mutasse di forma ; duri erano gli aristocratici. ma a smuoverli per forza da quella loro durezza venne Saliceli a fomentare gli spiriti già fomentati da tanti francesi Ministri.

    Già i primi indizii di novità si facevano vedere; per isventarl i il Governo creava Inquisitori di stato Francesco Maria Spinola, e Francesco Grimaldi. caldi amatori della Patria e della dominazione forestiera abborrenti; costoro mettevano le mani addosso a qualcheduno de' più aperti partigiani di Francia ; ma queste loro misure anzi che sedare i tumulti li crescevano, perocché il Ministro francese gridava e protestava che i suoi francesi non voleva si toccassero. Era intanto una bella pretesa il volere congiurare contro di uno stato impunemente! Ma i tempi correvano così pregni di rigenerazioni che si tolleravano le sevizie anche da parte di persone indifferenti, perché quell'aura di libertà faceva addormentare, o pure, servendomi di un vocabolo odierno, magnetizzava non solo gl'individui ma i corpi medesimi, perocché poi bene si avvidero i municipi! a quale libertà italiana gli avesse indotti un italiano ambiziosissimo del supremo comando, come prima fu caldo repubblicano.

    Correva il dì ventuno di maggio del 1797 quando una numerosissima folla si avviava al Palazzo Ducale; il Senato mandava a dire che si volesse, perché contro la fede del Principe in piglio così minaccioso volgesse. Risposero, si liberassero i carcerati; il Senato a sua posta rispondeva non esser uso a ricever leggi, bensì a darle: la giustizia farebbe il suo corso, i perturbatori dell'ordine pubblico giustamente incarcerati, poscia si vedrebbe, intanto si ritirassero, si sciogliessero, o userebbe la forza. Al domani i congiurati veduto che quella cerimonia del di innanzi non era valsa al loro fine, si armarono e non solo s' impossessarono delle porte di S. Tommaso, di S. Benigno, ma sì del ponte Reale e della Lanterna. Correvano per le strade cantando la marsigliese, indizio che una Potenza straniera tra poco si sarebbe impossessala del Governo, il quale se aristocratico era, era genovese ed italiano. Ma ci voleva Francia a rovinare le due più famose repubbliche il" Italia.

    Il popolo a questo moto non aveva preso gran parte, perché il popolo genovese è divoto, e queir insorti erano francesi. Ma dopo che si avvide o qualcheduno gli sussurrò all'orecchio che la rivoluzione si faceva per Francia, saltò su e si armò a difendere col sangue i diritti del suo Principe naturale. Questo avvenimento che pareva dovesse salvare la Patria dalla soggezione straniera, era anzi argomento a Buonaparte per trattare la nazione genovese siccome avversa a Francia, e per ostinarsi a volerne disfare il suo antico governo.

    Buonaparte non stette molto a minacciare il Senato; Faipoult da vicino suggeriva che T unico mezzo di entrare in grazia del Direttorio e del Generalissimo era quello da esso lui sempre accennato, ma finora sempre dal Senato rejetto. Si allargasse, diceva, si riducesse il governo a forme più democratiche ; quella antica macchina della ligure Repubblica , essere nelle presenti condizioni una manifesta enormità. A tutto questo si aggiungevano le armi di Serrurier, che la pubblica voce annunciava rivolle a danno di Genova, perché se colle buone non si voleva mutare, si muterebbe colle caltive. Il Senato adunque prese alfine deliberazione di mandare Deputati a Buonaparte che stanziava a Montebello, per concordare insieme con lui dei futuri destini.

    « La grave e gelosa missione presso il Generalissimo di Francia era stata imposta ai patrizi! Michelangelo Cambiaso già Doge, Luigi Carbonara e Gerolamo Serra, cittadini di singolare ingegno e d' animo buone e risoluto, ma, a quanto se ne diceva, d'indole e di pensieri non del tutto tra loro concordi. Vuoisi che i due primi inclinassero a forme democratiche molto larghe; il terzo a più temperate: in ciò, meglio degli altri consenziente con Buonaparte le cui ambizioni maturavano fin d'allora la sovranità e l'impero. Ma, né Cambiaso, né Carbonara intendevano H novello ordinamento a modo di certi patriotti che avrebbero voluto seguitar piuttosto la sfrenatezza del Consesso nazionale che la moderazione del Direttorio. Per la qual cosa facilmente convenivano delle condizioni; e ai dì cinque e sei di giugno, in Montebello presso a Milano, presenti Faipoult e Lavalelte che colà vi aveano seguito i Deputati di Genova, in nome delle due Repubbliche statuivano quel governo temporaneo a tulli noto. »

    Proclamata la nuova Costituzione, si fecero le feste, e dopo queste le empietà, perocché il popolo ebbro di quella pazza gioja volle avere e bruciare il libro d'oro, cioè quel libro dove erano registrati i nomi della ligure aristocrazia, monumento anlichissimo che per questo solo rispello merilava di essere conservato. Rompevano la statua di Andrea D'Oria e del nipote Giannettino. Dopo, le statue di coloro che avevano beneficata la Patria non con vane parole, ma colle proprie sostanze abballevano, ed empiamenle insullavano. Fallo veramente indegnissimo perocché coloro i quali queste cose commettevano, erano da quei generosi instilulori beneficali, siccome lutlodì quelli singolari beneficii si spandono sulla massa del popolo, che come allora oggi sconosce chi su di esso volgeva 1'occhio pietoso, e col sacrificio delle proprie sostanze voleva il bene di questo popolo dal quale n'ebbe insulti, siccome or n'ha indifferenza e freddezza.

    Già il Governo provvisorio era per pubblicare la nuova Costituzione, quando i bisagnini, ed i polceveraschi fomentali dai nobili ossia dagli aristocralici si sollevarono coll'inlendimenlo di scacciare il nuovo Governo.

    Duphot che aveva il comando delle armi coi suoi francesi e i patrioti! corse a sedare quei moli non senza molto spargimento di sangue tanto dall'una quanto dall'altra parte, e fini quella scena sanguinosa e furente col mandare al boja e al remo parecchi dei più caldi {autori, e stette a un pelo non vi andasse un figliuolo di Doge, sospetto di aver dato favore agli insorti.

    Dopo questo attentato, Buonaparte mandava in Genova buon polso di soldati, sotto il comando del Generale Lannes, e quindi da Milano scriveva al Governo, stabilendo esso la nuova forma del medesimo che si convertiva in Direttorio a mo1 di Francia. Così periva Genova, imperciocché da quel giorno riceveva le leggi da chi più poteva, e cessava di rappresentare politicamente. Ma queste vittorie ossia sorprese di Francia erano per riuscire ben presto inefficaci, poiché 1' Inghilterra aveva sordamente operato per rovesciarle. La Russia e l'Austria si davano la mano per cacciare dall' Italia i repubblicani eh' essi oltre ogni dire odiavano. Il Turco anch'egli si era lasciato allettare, e moveva contro la Francia; il miglior Capitano di questa allora si trovava sulle lontane sponde del Nilo, ma pure il Direttorio non si era spaventato, perché alla ruvida scuola delle battaglie parecchi de' suoi guerrieri si erano segnalati. La sorte mostrando buon viso agli alleati, vìncevano ovunque e ritoglievano alla Francia la maggior parte delle sue conquiste nella penisola.

    La potenza vacillante di Francia si sosteneva su i monti della Liguria ; quindi la giornata di Novi sostenuta ferocemente dagli austro-russi metteva in forse la sorte dei repubblicani, perché tutta Italia da alcune piazze forti e dalla Repubblica di Genova in fuori, tutto veniva in podestà dei confederati, con che si vede di quanta importanza fosse pei francesi la capitale della Liguria.

    In questo pessimo stato di cose erano le condizioni della guerra in Italia, quando Buonaparte salpava dai lidi egiziani, ed improvvisamente si mostrava nella sconvolta Parigi. Quel eh' egli operava, quel che fin d'allora mulinava dentro di sé, la storia ha Catto conoscere. Astuto, e previdente in quel suo primo passo di Console, pace prometteva,

    e pace implorava presso i Re; anzi offerivala all'Inghilterra che sdegnosamente la ricusava; la Russia, e la Prussia P accettavano ; solo Austria sul continente le si mostrava nemica, ed egli siccome tale si preparava a domarla. In un subito ordinava e disegnava i motivi della nuova guerra: Massena mandava nella Liguria, ed egli divisava varcare le Alpi e discendere nelle pianure della Lombardia. Moreau confermava al governo del Reno. Di questa guisa ordinate le cose veniva a far grossa testa incontro ai punti principali dell'armata austriaca.

    1800. — Ora col nascere del presente secolo, si apriva in Genova un teatro pieno di scene dolorosissime, un teatro sul quale il valore e la sofferenza dei francesi e dei genovesi dimostrò quanto sia mai potente l'avversione ch'essi nutrivano contro il nemico. La pazienza e la virtù degli assediati era argine alla forza dei confederati.

    Massena adunque si portava in Genova; quanto fosse pericoloso il suo posto vedeva, e come in questo era tutta la somma della guerra. Intanto Buonaparte operava che il genovese Direttorio si scioglìesse e mettesse in piedi una Commissione di Governo, più consentanea ai segreti pensieri di esso.

    Io qui non mi farò a descrivere le parlicolarità del celebre blocco di Genova, perocché gli uomini il ricordano tuttavia; basti il conoscere che il territorio genovese era lutto all'intorno circondato dagli austriaci, e che gì' inglesi e napolitani avevano chiuso ogni via da parte del mare. Anzi a così duro partito erano le condizioni di Genova, che gì' imperiali impadronitisi delle alture che sovrastano a Genova, vagheggiavano questa città con occhio cupido ed avaro. Il valoroso Massena ridotto con assai scarso numero di soldati laceri ed affamati, si vedeva costretto ad uscire incontro al nemico e batterlo sotto gli occhi slessi dei genovesi, affine di non dare argomenlo di sollevamento ad un popolo già tanto sofferente la fame, e costretto a cibarsi delle cose le più nauseose.

    Massena si apprestava ad una ostinatissima difesa. Melas aveva posto il suo campo a Sestri di ponente; a levante le più importanti posizioni erano attaccate dagli austriaci. Genova contorniata da terra, bloccata da mare, in preda alla fame e ad un" epidemia che decimava la sua popolazione, e la milizia che doveva difenderla dall' invasione austriaca.

    Il Generale francese costretto a far la guerra dalla capitale, quando gli si presentava il destro rompeva sulP inimico, ma disugualissimo di forze era obbligato a presto rientrare per non vedersi tagliato fuor di città. La guardia nazionale volonterosa e forte, con la più grande costanza faceva le scolte, e correva ai posti più pericolosi. Da quando a quando qualche legno leggero deludeva la vigilanza inglese, e sguizzava di sotto ai formidabili colpi, portando in città qualche centinajo di sacchi di grano. Dura era Genova, ma in durissime condizioni tenuta.

    Soult si copriva di gloria sul monte Greto, ma una palla lo feriva io una gamba, e questo accidente dava la vittoria agli imperiali, dei quali il bravo guerriero rimaneva prigione (1). Dopo questo fatto che tanto scemò di morale valore negli animi dei cittadini, Massena si vide obbligato a pensare ad una capitolazione; e come era atto a sostenere il peso immenso di un assedio che stringevulo da tutte le parti? Crescevano di giorno in giorno le morti, le armi erano divenute insopportabil peso alle languenti braccia, esse cadevano di mano ai soldati, molti disertavano, altri mormoravano, il popolo era stanco, e l'ultima stilla aveva inghiottito di queiramarissimo calice.

    A tutto questo si aggiunga il fiero bombardamento degl' inglesi, che così per celia cacciavano ogni sorta di palle nella città.

    Dopo parecchi preliminari Massena calò ai patti, i quali furono onorevoli assai per Francia, ed anzi ogni cosa concedettero i Generali austriaci e 1' Ammiraglio inglese a Massena, perché quest' ultimo diceva ad ogni pretesa del Generale francese, la vostra difesa è itala troppo eroica perché $' abbia a negarvi qualche cosa. *> Pattuivano, convenzione chiamerebbesi i accordo, e non resa

    0 capitolazione: uscirebbe Massena insieme

    (I! Fa dello che Suult vedendosi abbandonalo in meno ai nemici si toglie?»» il suo cappello, e la sua sriarpa da Generale, e li gettasse sdegnosamente Tra

    1 suoi. Il popolo di Genova vide con dolore rienlrare in (ina un di quei corpi che avevano combattuti, nel quale due guide aveano in mano lai distintivi di Souli.

    a tutti i suoi ufflziali e soldati al numero di ottomila cento dieci. liberi cosi delle persone come della fede per ritornarsene in Francia per via di terra, e chi per terra non potesse andare, fosse, assieme alle artiglierie e munizioni d'ogni genere, trasportato sulle navi inglesi ad Antibo o al golfo Juan : si dessero cibi in copia, si curassero gì' infermi : nessuno paesano armato avesse facoltà di entrare in Genova né individualmente né in corpo: la porta della Lanterna non si consegnasse alle genti inglesi ed austriache prima delle ore due pomeridiane. «

    Questo accordo si conveniva il giorno 4 di giugno del 1800 alle ore nove di mattina nella piccola cappelletta che è in mezzo al ponte di Cornigliano.

    Massena affine di tenere oziose le falangi dell' Apennino e dar tempo il più che potesse propizio a Buonaparte, indugiò fino alla sera a sottoscrivere il trattato. Anzi, vuoisi che dicesse a parecchi genovesi che si trovavano nel suo alloggio: Datemi o assicuratemi qualche viveri per 4 o o giorni soltanto, e straccio il trattato; tanto confidava di ricevere notizie che cambiassero la sua tristissima posizione. Cosi terminò il celebre blocco di Genova. La storia della guerra della rivoluzione non offre un più glorioso contrasto.

    I tedeschi entrarono in città, vi entravano gì' inglesi col loro Ammiraglio Reith al rimbombo delle artiglierie, al suono festivo delle campane! Hohenzollcrn era incaricato di creare una reggenza temporanea , e la metteva su fissando e scegliendo uomini temperatissimi. Assestate le cose, impediti i disordini i più evidenti, il tedesco domandava danaro, e perché 1' erario era veramente esausto sessanta cittadini si tassavano e sborsavano un milione in presto ad uso de'soldati : cosi aveva scritto Melas, il quale quantunque tedesco si mostrava più amano di quel che fosse stato il Botta italiano.

    In questo mentre le sorti dell' Europa si decidevano nelle insanguinate pianure di Marengo. Buonaparte vinceva quella famosa battaglia il giorno quattordici di giugno. Il nome di queir umile paese nelle vicinanze del quale si fé tanta strage d'uomini, basterà ai ocpoti, come a noi bastano i nomi di Canne e di Maratona.

    La vittoria di Marengo, dava per capitolaziooe sottoscritta il giorno successivo in Atessai)' i quasi tutta l'Italia in polere dei francesi. Per questa Hohcnzoilern sgombrava Genova dopo venti giorni che se \i era impossessato; il di ventiquattro di giugno v" entrava Suchet. 11 Consolo ordinava una Commissione governativa, con potere esecutivo. Erano chiamali a farne parte uomini moderati e risplendenti per vita; Agostino Maglione, Agostino Pareto, Gemiamo Serra, Antonio Mongiardini, Luigi Carbonara, Luigi Lupi ; presiedevate Giambattista Rossi. In seguito Buonaparte creava una Consulta legislativa che componevasi di altrettanti uomini di sperimentata dassajezza, amatori della patri.i, ed inclinati alla parte francese, erano: Luigi Corvetto, Emmanuele Balbi, Girolaino Durazzo, Cesare Solari, Giuseppe Fravcga, Nicolo Littardi e Giuseppe Deambrosis. Il generale DejeaD veniva in Genova Ministro straordinario presso il governo Ligure, ed interprete sagacissimo dui pensieri del vincitor Buonaparte.

    Dopo ch'egli ebbe conquistata e sedotta l'Italia, sedotta e quietata la Francia, depressa l'Austria, aggirata la Russia, e ridotta l'Inghilterra a predare pel mare, sfogando cosi T impotente suo sdegno ; procurò di farsi desiderare ovunque, deprimendo prima le Repubbliche ed i Governi rappresentativi, onde giungere poco alla volta a quello scopo coi mirava l'ambiziosissimo animo di lui.

    I Governatori di Genova pronti a secondare quell'aura, mandavano a supplicar Buonaparte perché si degnasse dar loro una costituzione. Il Consolo condiscendeva facilmente, e spediva la nuova costituzione che in sostanza portava : » Un Senato reggesse la Repubblica con podestà esecutiva: si dividesse in cinque Magistrati: il Supremo, quello di Giustizia e Legislazione, quello dell'Interno, quello di Guerra e Marina, e quello di Finanza. Trenta membri lo componessero. Ufficio suo fosse, presentare ad una Consulta nazionale le leggi da farsi, eseguire le fatte: elegessc il Doge, sopra una lista triplice presentala dai Collegi. II. Doge presiedesse il Senato ed il Magistrato Supremo: stesse in carica sei anni: rappresentasse quanto alla dignità ed agli onori, la Repubblica: sedesse

    nel palazzo nazionale; la guardia del governo avesse obbediente, e fosse in ogni suo atto da un delegato del Magistrato supremo assistito. Il Magistrato supremo si componesse del Doge, dei Presidenti degli altri quattro Magistrali, e di quattro Senatori eletti dal Senato: a lui appartenesse specialmente la pubblicazione degli ordini, degli editti,e la esecuzione delle leggi : avesse subordinati tutti i Magistrati amministrativi, e facoltà di rivocargli : gli affari esteri regolasse; vegliasse a che la giustizia Fellamente e secondo le leggi si amministrasse; i giudici dei Tribunali e gli altri Magistrati non dipendenti, potesse per sei mesi sospendere. Sopravvedesse le entrate, le cose ecclesiastiche, gli archivii, l'istruzione pubblica: e finalmente l'esercito comandasse.*

    Veniva in Genova Ministro plenipotenziario di Francia Saliceti. Addi 29 di giugno 1802 la nuova Repubblica ligure entrava in officio.

    Ma questo governo ombra dell'antico, ben presto doveva anch' egli cessare; Buonaparte creavasi Imperator dei francesi (1804) e poi Re d'Italia (1S05). Il Papa gli metteva sul capo la corona imperiale a Parigi, e quella di Carlomagno colle proprie mani si cingeva in Milano. Genova per quella magnificenza aveva mandato i suoi deputati: Durazzo Doge, il Cardinal Spina arcivescovo, Carbonara, Roggieri, Maglietta, Fravega, Balbi, Maglioni, De-La-Rue, Scassi, Senatori. Alle grandissime e troppo estese cerimonie si accorsero i liguri Ambasciadori che una qualche magagna sotto vi si covava. Napoleone già primo ed accanitissimo repubblicano ora non voleva Repubbliche. Genova ossia la ligure Repubblica doveva anch'essa cadere. Con mezzo insidioso si otteneva che il Senato supplicasse Napoleone di unire lo stato Ligure a Francia. Questo amarissimo ufficio toccava a Gerolamo Durazzo; tutto il calice delle amarezze inghiottiva il nobilissimo patrizio.

    Lebrun arcitesoriere dell' impero veniva mandato da Napoleone ad ordinare lo stalo alla foggia francese, e conforme alle leggi di Francia. Rivolgeva lo sguardo subitamente agli studj e gli incamminava a buone discipline, uomo prudente era, e procedeva in lutto molto temperatamenie.

    Le campane suonanti a festa, ed il rimbombo delle artiglierie annunziavano la minparsa di Napoleone; era il di 30 di giugno del 1805; Michelangelo Cambiaso costituito Sindaco dal Principe Lebrun gli presentava le chiavi della città. Le feste di terra, di mare coronavano 1" unione di Genova alla Francia. Napoleone partiva per Parigi, che quindi era obbligato abbandonare per volare al governo della guerra, posciachè l'Austria prostrata ma non doma, risorgeva a novelli cimenti. Alla Russia era destinato di fiaccare la potenza Napoleonica, ed il gran guerriero, l'uomo di cento vittorie doveva siccome nato in un isola aver sua tomba in altra isola; e come! non più monarca, ma prigioniero, e prigioniero di coloro che non avendolo potuto abbassare lo avevano compro e venduto.

    Inghilterra non mai oziosa quando al colore di pacificate 1' uman genere si accoppia l'interesse proprio spiava di qua!'animo fossero i genovesi. Bentinck con una polente flotta dopo avere stabilita la dominazione britanna in Sicilia, impossessatosi di Livorno veniva alla volta di Genova. Udiva che il presidio che la difendeva componcvasi di seimila uomini governati da Fresia, il quale si era fortificato sulle alture dei monti di S. Tecla e Richelieu, distendendosi insino al mare. Mandava a spazzare quello impedimento i generali Monlresor e Malfarlane, il colonnello Ciravegna piemontese ai soldi di Inghilterra, ed un Travers colonnello esso pure. Cosi inglesi, italiani, greci e calabresi ruppero sulle ville vicine e in poco di tempo si resero padroni dei luoghi più importanti. Stretto tutto intorno il nemico, erano per divenire ali' ultima prova, quando i cittadini chiesero i patti, tanto più che Pellew a cui era affidata la flotta aveva cominciato a tuonar colle bombarde. Era il 18 d'aprile del 1814 quando Fresia calò ai seguenti accordi.

    " La piazza di Genova si rimetterebbe alle truppe inglesi e siciliane, le quali ne prenderebbero il possesso alla dimane sulle cinque ore del mattino: occuperebbero cioè le porte Pila e dell' Arco, il quartiere della Pace fra le dette porte situato, il forte Quezzi, e successivamente nella giornata gli altri forti e le porte esteriori. Tre vascelli da guerra entrerebbero all'ora stessa nel porto. Il restante della città rimarrebbe, sino alle otto di mattino del di ventuno, nelle mani dei francesi

    i quali avviercbbonsi poi per la più breve verso Francia, coi tamburi battenti, colle insegne dispiegate, miccie accese, irisomma con tutti gli apparali d'onore militare, le armi, i bagagli e sei pezzi di cannone. I magazzini particolari dei corpi seguiterebbero, non quelli del governo. Tutto ciò che spetta alla marina francese consegnerebbesi ai commissarii inglesi. Gli ammalati e i feriti rimarrebbero negli spedali della città curati e mantenuti a spese di Francia. «

    Bentinck acquistata la possessione di Genova, mandò fuori proclami e manifesti coi quali dava speranza di franco stato. Forse egli diceva bene, forse egli suggeriva quel che si dovessero fare i polenli di Genova, affine di ripristinare l'antico governo; ma o non fu inteso, o allrimeuti inleso. In sostanza una Repubblica aristocratica non poteva più esistere, una democratica non si voleva; e per un governo di mezzo i nobili o chi poteva allora (dico chi poteva allora, perché l'oro mollo poieva anzi il più, e di ricchi ve if erano senza esser nobili) non vollero negoziare.

    1 Seni i nrk ordinò un Governo provvisorio, il quale doveva durare in ufficio sino al primo dell'ottocento quindici. Questo corpo componevasi: Gemiamo Serra Presidente, Andrà De-Ferrari, Agostino Parclo, Ippolito Durazzo, Gio. Carlo Brignole, Agostino Fiesco, Paolo Pallavicini. Domenico Dealbertis, Giovanni Quartara, Marcelle Massone, Giuseppe Fravega, Luca Solari, Giuseppe Gandolfo Senatori.

    Intanto il Governo provvisorio aveva mandato il patrizio Agostino Pareto a Parigi e Londra perché sostenesse i diritti della sua patria. Dovendosi il Congresso generale riunire in Vienna pel definitivo assetto delle cose di Europa, il Governo spediva a quella volta colle medesime instruzioni il patrizio Antonio Brignole Sale. Si l'uno sì l'altro sostennero colle parole e con forti e generosi scritti i diritti della lor patria pericolante. Ma i fati avevano altrimenti deliberato; la Repubblica di Genova doveva per sempre cessare dal mondo politico. A questo annunzio il Governo mandò una protesta a Vienna; Brignole quantunque già calato agli accordi, avendo prima a tempo debito protestato riprotestò con atto del 10 dicembre del 1814, dimandando que la presente declaration soit intére dans le protocole du Congrès. Ma l'alto il più solenne e dignitoso si fu la memorabile protesta del 26 di dicembre sottoscritta dall'illustre patrizio Gerolamo Serra.

    Era questo 1' estremo anelito del Ligure Governo dopo che il trattato di Vienna metteva nelle mani del Re di Sardegna il territorio della Repubblica di Genova. Eccone gli articoli che ci riguardano.

    Art. i.— Let génois seront en tout assimilét aux autres sujets du Roi: ils participeront camme eux aux emploù civili, judieiaires, militaires et diplomatiques de la monarchie. et, saufs les privilèges qui leur sont ci-après concédès et assurés, ils teront soumù aux mèmes lois et réglémens, aree les modifications que S. M. jugera convenablei.

    La noblesse gènoise sera admisc, camme etile des aulres parties de la monarchie, aux grandes charges et emplois de la cour.

    Ari. 2.— Les militaires génois composant actuellemenl les troupes génoises, seront ineorporès dans les troupes royales. Lei afficiert et sous-o/fìciers conserveronl leurs gradei retpectifs.

    Art. 3.— Les armoiries de Gènes enlreront ili nix l'écusson royal, et ses couleurs don» le pavillon de S. M.

    Art. 4. — Le pori frane de Gèncs sera rètabli, aree les réglémens qui existaient tout l'ancien govvernemenl de Gèncs.

    Tonte facilité sera donnée par le Kui pour le tramit par ses états des marchandises tortant du port frane, en prenant les préeautiont que S. M. jugera convcnablcs pour que cei mèmes marchandises ne soicnt pas venduet ou consommècs en contrebande dans l'interieur. Elles ne pourront étre sujettes qu'à un droit modique d'usage.

    Art. 5. - II sera établi dans chaque arrondii$ement d'intendence, un conseil provincial, compose de trente membrei choisis parmi lei notables des differente! classes, tur une liste des trois ccnt plus imposés de chaque arrondissement. Ils seront nommés la première fois par le Roi, et renouvellés de mòne par cinquième tous les deux ans. Le sort deciderà de la tortie dei quatrei premièri cinquièmes.

    L'organisation de ces conseils sera réglèe par S. M. Le Prèsident, nommé par le Roi, pourra è tre prii hors du conseil: en ce cas, il n'aura pas le droit de voler.

    Les membres ne pourront étre choisis de nouveau que quatre ans après leur sartie.

    Le conseil ne pourra t'occupar que dei besoins et réclamations des communes de l'intendence, pour ce qui concerne leur administration particuliére, et pourra faire des rcprésentations a ce sujet.

    Il se rèunira chaque année au chcf-lieu de l'intendence, a l'epoque et pour le temps que S. M. determinerà. S. M. le rèunira d'ailleurs extraordinairement, si elle le juge convenable.

    L'Intendant de la province, ou celui qui le remplace, assisterà de droit aux sèances camme eommissaire du Roi.

    Lorsque les besoins de l'è tot exigeront l'ètablissement de nouveaux impóts, le Roi rèunira les diffèrens conseils provinciaux dans tcllc ville de l'ancien territoire génois, que S. M. designerà, et sous la présidence de tcllc personne qu'elle aura déléguée a cet effet.

    Le Prèsident, quand il sera pris hors dei conseils, n'aura pas voix deliberative.

    Le Roi n'enverra a l'enrégistrement du Sènat de Gènes aucun édit portoni crèation d'impòt cxtraordinaire, qu'après avoir recu le vote approbatif des conseils provinclaum comme ci-dessous.

    La majoritè d'une voix determinerà le vote des conseils provinciaux assemblei séparemenl ou rèunis.

    Art. 6.— Le maximum des imposilions qut S. M. pourra établir dans l'état de Gènei, sans consulter les conseils provinciaux réunis, ne pourra excèder la proportion actuellement établic pour les autres parties de sei états. Les imposilions maintenanl percues seront amcnées a ce taux; et S. M. se resene de faire les rectifications que sa sagessse el sa bonlé envers ses sujels génois pourront lui dicler a l'cgard de ce qui peut-étre reparti soit sur les charges ftnancières soit sur les perceptions dircctes ou indirectes.

    Le maximum des impositions étant ainsi règie, toutes les fois que le besoin de l'état pourra exiger qu'il loit atsis de nouvellet

    impositioni ou de charges extraordinaires, 5. M. demanderà le vote approbatif dee conseils provinciaux pour la somme qu'elle jugera convenutole de proposti-, et pour l'espèce d'imposition a établir.

    Art. 7.— La dette publique, Ielle qu'elle existait légalement sous le dernier gouvernement francai», est garantie.

    Ari. 8.—Lei pensioni civiles et militaires accordées par l'état, d'après dei lois et des réglémcns, soni maintenus pour tous le» stijets génois habitans les états de fi. M.

    Sont maintenus sous la mème condition lei pensioni accordées a des ecclésiastiques ou i' d'anciens memore» de maisons religieuses des deux sexcs, de mime que celle qui, sous le titre de secours, ont ite accordées a des nobles génois par le gouvernement francai».

    Art. 9.— II y aura a Génes un grand corps judiciaire ou Tribunal Suprème, ayant les mémes attributions et privilèges que ceux de Turin, de Savoie et de ftice, qui porterà, comme eux, le nom de Sénat.

    Art. 10.— Les monnoies courantes d'or et d'argerit de l'anciene ètat de Génes, actuellement existantes, seront admises dans les caisses publiques, concurremment avec les monnoies piémontaises. Art. 11.— Les levées d'homme», dites provinciale», dans le pays de Génes n'excéderontpas en proportion les levées qui auront lieu 'dans les autres états de S. M.

    Art. 12. - S. M. creerà une compagnie génoise de gardes-du-corps, la quelle formerà une qùatrième compagnie de ses gardes.

    Art. 13.— 5. M. établira a Génes vn corps de ville compose de quarante nobles, rni'it bourgeois rivans de leurs revenus ou •:irrnii>i des arts libéraux, et vingt des principaux négociants.

    Les nominations seront faites la première fois par le Boi, et les remplacemen» se feront a la nomination du corps de ville mème, sou» la rèsene de l'approbation du Hai.

    Ce corps aura ses réglémens particuliers, donne» par le Roi, pour la residence et pour la dMsion du travaii. Les Présidens prendront le titre de Syndics, et seront choisis parmi les membres. Le Roi se réserve, toutefois qu'il le jugera a propos, de /aire prétider le corps de ville par un

    personage de grande distinction. Les attributiont du corps de ville seront l'administration des revenus de la ville, la surintendance de la petite police de la ville, et la surveillance des établissemens publics de riuniti de la ville.

    Les membres de ce corps auront un costume, et les Syndics le privilège de portf.r la simare ou toge comme les Présidens des Tribunaux.

    Art. 14.— L' Université de Génes sera maintenue etjouira des mémes privilèges que celle de Turin. S. M. avisera aux moyens de pourvoir a ses besoins. Ella prendra cet établissement sous sa protection speciale, de mème que les autres instituts d'instruction, d'éducation, de belles lettres et de charitè, qui seront aussi maintenus.

    S. M. conserverà, en faveur de ses sujets génois, les bourses qu'ils ont dans le college dit Lycée, a la charge du gouvernement. se réservant d'adopter sur ces objets les réglémens qu'elle jugera convenables.

    Art. 15.— Le Roi conserverà a Génes un Tribunal et une Chambre de commerce avec les attributions actuclles de ces deux établissemens.

    Art. 16.— Sa Majestè prendra particulicrement en» considération la situation des employés actuels de l'état de Génes.

    Art. 17.— .Sa Majestè accucillcra les plans et les propositions qui lui seront présentées sur les moyens de rétablir la banque de Saint George.

    Conte Alexis De Noailles

    Clahcarty Le Babon De Binder (V. Raccolta dei Pubblici Trattati della R. Casa di Savoja con le Potenze straniere, pubblicati d'odine di S. Maestà. Voi. iv. pag. 28;.

    •n II GoTerno temporaneo, piuttosto per dimostrare a tutto il mondo di aver cercato protezione ed assistenza ovunque speravano trovarne, deliberava mandare al Parlamento il" Inghilterra le note indirizzate al Congresso, e faceva capo ad un Lord Whitbrad il quale aveva altre volte levata la voce in favore della independenza di Genova nella Camera dei Comuni. Poi scrivevano ai residenti esteri una Circolare in cui riassumevano dignitosamente le ragioni diffusamente descritte in quelle note: altra ne dettavano pei Governatori delle varie giurisdizioni dello stato colla quale, partecipando loro la prossima riunione al Piemonte, gli rendevano avvisati che il Governo, senza opporre resistenza, era risolato di non prestare alle innovazioni imminenti nessuna guisa di adesione. Finalmente, avvertiti dal colonnello Dalrymple inglese, lascialo in Genova da Bentinck a regolare in sua vece, che aveva ordine di assumere il Governo per poi rimetterlo nelle mani del Redi Sardegna, pubblicavano un'ultima protesta nella quale, rammentati gli antichi diritti e raccomandata a tutti la tranquillità, riannziavano ali' autorità loro conferita dal generale inglese e dalla nazione. Queslo succedeva il dì venzetle dicembre; tre giorni dopo il Re Vittorio Emmanuele, entrando in possesso del prezioso acquisto, dettava in Torino una paterna allocuzione che si leggeva in Genova assieme alle regie patenti pei privilegi, il tre del susseguente gcnnajo (1815)."

    -• Questi gli ultimi atti generosi del Governo che cessava, e questi i primi affettuosi del Governo che sorgeva. Coloro cui sarà dato scrivere le storie successive, dimostreranno come la congiunzione al Piemonte sia tornata tanto a Genova profìcua, quanto a lei fosse dato sperare. Del quale felice successo, io credo dover assegnare due ragioni principali: la prima, già molte volte messa innanzi, e per fini quando onesti quando no, è questa: la maggior parte dei genovesi, considerando che la fortuna così degli uomini privati come degli stati, dipende dal saper procedere coi tempi, si persuasero facilmente che i presenti non consentivano più alla loro patria di correre a reggimento comune. Il Macchiavelli lo ha detto, e I' esperienza lo comprova: a volere ristabilire fermamente una Repubblica vissuta per molti anni o in dependenza di un Principe assoluto o in quella dei Nobili, conviene tirarla verso li suoi principii, e restituirle quella maggior riputazione dì che godeva nei tempi eroici della nazione. Esaminando spassionatamente quali siano stati

    gli elementi veri della gloria e della prosperità dei liguri, niuno è che non sia convinto come, nell' attuale marittima condizione di tutte le potenze di Europa, il far rivivere quelli elementi, fosse piuttosto impossibile che diffidi cosa. L' altra ragione è d'essere entrali a signoria di Principi buoni che posero il cuore e l'onore a far vere le promesse, non a deluderle: la quale inclinazione subito dai dominati conosciuta, è stala cagione ch'ei hanno riguardato i Principi nuovi come antichi, e così ad essi notevolmente agevolate le difficoltà delle novelle dominazioni. Per questo, nel volgere di pochi anni, i sudditi, presi dal ben presente e dalle speranze del futuro, hanno dimenticato il passato che non di rado è slimolo a ricalcitrare; ed i Principi hanno avuto la facoltà di ornare e corroborare il principato nuovo di buone leggi, di buone armi, di buoni amici e di buoni esempi, fondamenti stabili, se al mondo sono. di durevole regno e felice. »

    Con queste parole finisce la storia del cavaliere Carlo Yarese che la narrò fino al 1814. Ora da questo tempo, a quello in cui mi è dato scrivere, corse uno spazio felicissimo, se si eccettuano i torbidi che molestarono l'Europa nel 1821, da'quali Genova fu tocca leggerissimamente, e dove si segnalarono per amor patrio le guardie nazionali. E qui va un tributo di lode giustissimo alla memoria del Baron De Geneys allora Governatore di Genova. Ripristinate le antiche cose il generoso uomo dimenticò le giornate di marzo, e la sua vendetta converse in obblio. Fedele ai Reali di Savoja, morì redolissimo, desiderato e compianto da ogni famiglia.

    Vuoisi ricordare ad onore e gloria della brava marineria sarda i! fatto di Tripoli succeduto nel 1825. Non potendosi appianare colle buone le ingiuste pretese di quel Bey, il valoroso capitano di vascello Sivori comandante la divisione navale spedita a quella volla dal Governo sardo si accinse ali' attacco di quella città. La notturna spedizione da esso mandata ad incendiare la piccola flottiglia del Bey riuscì così felicemente che costui calò a'patti, e furono terminate compiutamente le differenze nel modo più onorevole per la bandiera sarda. In quella spedizione pericolosissima tanta era l'ardenza della pugna, che tulli voleanvi aver posto. " E quando il Comandante Sivori ordinò l'imbarco degli equipaggi deputati alle lancio e scialuppe che dovevano assalire l'interno del porto di Tripoli, i marinaj, i cannonieri, i soldati, non comandati a far parte della pericolosissima impresa , sen crucciarono . ed ardentemente domandarono d' imbarcarsi. Per contenerli, il Comandante fu costretto a far porre la guardia in sulP armi. E ciò non bastando a far cessare il loro dolersi di non andare ove si aveva a combattere, egli disse a que" che dovevano rimanere. Se a malgrado della felice riuscita dell' assalto, il Kty non domanda la pace, io vi prometto che domani metterò alla prora con più gagliardo e risoluto fatto il rostro valore. Al che tutti risposero con entusiasmo, gridando Piva il Re. Contuttociò non vi fu lancia o scialuppa che non avesse a bordo tre o quattro volontarj. E noto come que' prodi incendiassero le navi tripolitane, passando e ripassando sotto le batterie de' nemici, atterrili e quasi stupidi da tanto ardimento. Aveva il Sivori affidato il comando dell'impresa al Car. Mameli! luogotenente di vascello. VIl'atto del partire gli disse: Guardatevi dal ritornare a bordo senz'aver ottenuto I' intento. E il Mamelli rispose: Comandante, se vedrà Ella ritornare le lande e scialuppe senz' aver adempiuto a' suoi ordini, dica francamente, Mamelli è morto." Senofonte e Valerio Massimo avrebbero registrato questa risposta, soggiunge il Bertololli, a cui questa nota fu dallo stesso Comandante Sivori consegnata pochi mesi prima della morte di lui. Qui io metto termine a questo Schizzo storico; che se le mie prepolenti condizioni non mi avessero impedito di meglio studiarlo forse sarebbe riuscito più degno della mia patria, e della storia di essa, che è fra le italiane una delle principalissime. L'economia vuoi misurare le opere intellettuali siccome le materiali ; dura legge per chi non ha beni di fortuna o altri mezzi ad ajuto. Comechessia, mi conforta l'idea di averlo scritto con animo schietto perché sommi che la franchezza è una di quelle principali doti che si vogliono a condurre una storica narrazione qualunque ella siasi, e a chiunque appartenga. Se narrando avventai qualche giudizio il cre

    dei ufficio di storico; d'altra parie ho seguitato gli autori i più sani di critica ed i più moderati. Ad ognun credo avergli dato quel che gli spettava, e questo non solo era ufficio di storico ma dovere di coscienza. Ora che ho descritto il passato mi si permellano due parole sul futuro.

    18Ì6.— In quest' anno un gran debito nazionale sarà per compiersi, intendo l'inaugurazione del monumento al Colombo. Alcuni benemeriti cittadini promossero questo divisamenlo. Sua Maestà, che già aveva in animo di onorare con pubblico contrassegno il grande Navigatore vi aderì generosamente assegnando per lo stesso sul R. Erario la cospicua somma di Ln. 50,000. Ai cittadini rimane a fare il resto, cioè a dimostrarsi generosi e larghi affinchè la somma che si vuole a compiere il progettato tributo possa adeguare la spesa che non dovrebbe essere poca, se veramente si vorrà innalzare un monumento degno del Colombo, e di Genova.

    Vuoisi che la Commissione creata per ciò con R. Brevetto dei li di dicembre dello scorso 18Ì5, dopo che sarà scelto il disegno ad eseguirsi, comunque esso siasi composto, sia la Commissione intenzionata a farlo eseguire dalle notabilità scultorie; perché quando non si possa ottenere l'erezione di un monumento grandioso per mole, si abbia per fama di opere sculte dai migliori ingegni italiani. E questo è proponimento degnissimo di essere mandato ad esecuzione, e che onora grandemente la R. Commissione che lo ha .concepito.

    E l'inaugurazione del monumento al Colombo ossia la cerimonia di esso dovrà mandarsi ad effetto al cospetto degli Scienziati italiani e stranieri che qui si aduneranno nel prossimo settembre. Una così lunga dimenticanza ben meritava di essere compensata dal convegno di tanti uomini illustri al cospetto dei quali si dia una solenne testimonianza che Genova può quando vuole ricordare le grandezze degli avi, e non arrossire delle proprie.

    Il futuro vili. Congresso Scientifico Italiano dovrà, se mal non mi appongo, riuscire splendido e decoroso; e quel che più importa utile alle Scienze per la magnanima determinazione del Corpo Civico che deliberò Ln. 6000 a vantaggio di esse.

    Già fu pubblicato da parte di S. E. il March. Antonio Brignole Sale Presidente Generale del futuro Congresso e la Circolare d'invito, ed il Manifesto per gli esperimenti relativi alle Scienze fìsiche e naturali da eseguirsi durante il medesimo Congresso.

    E le Scienze fisiche hanno perduto in questa bellissima occasione un dotto e profondo cultore di esse, voglio dire l'insigne Prof. Àbb. Giacomo Garibaldi a noi rapito il giorno diciotto di aprile. Chi il conobbe, e chi ebbe la fortuna di amicarlo, sa quanto era e quanto valesse, e quai dolci modi alle scientifiche discipline accoppiasse. Uso a non profferir parole indarno, a battere quella via del positivo e sodo ragionamento conservò fino all'estremo momento una tale lucidezza di mente e serenità di volto, che parvero più potenti del morbo stesso che lo strascinava ella tomba. Dio P abbia con sé, che certo fu uomo dotto, religioso e pio. Morte a Genova fura i suoi più eletti ornamenti in sul più bello orizzonte di loro vita. Ah! queste sono pubbliche calamità.

    Chiudo questo scritto col riprodurre la Circolare d'invito, ed il Manifesto, acciocché rimanga maggiore testimonianza della solenne decorrenza cui andiamo incontro.

    Circolare

    i Gli Scienziati del Ti. Congresso, convenuti in Milano nel 1814, ebbero a ricordar con amore un' antica Città italiana, che vagamente sorride al mare, di cui già tenne glorioso dominio, e donde tuttavia riceve tributo di esteso commercio: e però nella seduta generale del 15 di settembre scelsero Genova a sede della vin. loro Riunione «

    •* Questa deliberazione venne da S. M. il Re nostro Sovrano onorata di benigno assenso; e Pili.""1 Municipale Consiglio ha preso le opportune disposizioni per la più degna accoglienza di ospiti cosi eletti e desiderati dal pubblico volo. «

    » A noi pertanto è cosa grata ed onorevole il porgerne ora avviso a tutti coloro ai quali è dato d'intervenire al Congresso, siccome compresi nell' articolo 2.° del Regolamento Generale che qui trascriviamo. •»

    •• Hanno diritto di essere membri della •• Riunione tutti gì' italiani ascritti alle prin

    * cipali Accademie o Società scientifiche « istituite per P avanzamento delle scienze n naturali, i Professori delle scienze fisiche n e matematiche, i Direttori degli alti studii, » o di stabilimenti scientifici dei varii Stali « d'Italia, e gP Impiegati superiori nei corpi « del genio, e dell'artiglieria. Gli esteri com11 presi nelle categorie precedenti saranno •n pure ammessi alla Riunione. »

    11 Si è stabilito, che il Congresso debba incominciare il di 14 del prossimo settembre, ed aver fine il di 29 dello stesso mese. »

    •"Abbiamo fondata speranza, che gl'italiani, e gli stranieri più illustri per fama e per sapere vorranno in buon numero concorrere ad onorare dei loro talenti la Patria di quel Grande, che. unendo un nuovo Mondo alP antico, si è fatto per durevoli benefici) immortale: dove dopo avere ammirata nei pubblici e privati monumenti P antica grandezza genovese, avranno pur campo a darsi ad importanti investigazioni il mincralogo, il geologo, l'entomologo, ogni altro naturalista, il cultore d'agraria, e di tecnologia. E invero, a loro si rivelerebbero le produzioni animali del nostro mare, meritevoli di nuovi studi; i variati scoscendimenti de'nostri monti, feconda materia di osserva/ioni per chi si travaglia ad indagare le opere della natura; e il piacevole aspetto delle nostre colline, le quali offrono continua testimonianza di quella paziente industria che vince la naturale asprezza del sito, facendo ricche d'ulivi e di vigneti le più scabre e nude pendici. *

    Con successivo avviso si faranno note le ulteriori disposizioni riferibili alla Riunione. Intanto annunziamo, che furono eletti alla carica di Assessori:

    11 L'Abbate Giacomo Garibaldi Professore di Fisica nella R. Università,e di Matematica nella R. Scuola di Marina, Cav. dell'Ordine de' SS. Maurizio e Lazzaro; e l'Intendente Avt. Giovanni Cristoforo Gandolfi. Bibliotecario della R. Università. «

    " Preghiamo in ultimo i Presidenti delle Accademie, i Rettori delle Università, e i Capi degli Istituti scientifici di partecipare ai corpi cui presiedono le presenti notizie. «

    Genova 10 dicembre 1845.

    MANIFESTO

    -• Scelta la città di Genova a sede della viti. Riunione degli Scienziati italiani, l'Ili.""' Consiglio Municipale, seguitando il nobile esempio dato di recente dalla città di Milano, stanziava la somma di Ln. 6000 per esperimenti relativi alle Scienze fìsiche e naturali da eseguirsi durante la Riunione medesima ; ed annunziava questa sua deliberazione al Congresso di Napoli perché venisse comunicata agli Scienziati colà convenuti."

    •" Volendosi ora provvedere nel miglior modo al conseguimento dcir utile scopo, cui mirava la sovraccenata deliberazione, la Presidenza Generale del prossimo Congresso in Genova invita tutti i cultori delle Scienze suddette, italiani e stranieri, i quali avessero da proporre di colali esperimenti, a voler trasmettere ad essa i loro progetti entro tutto Giugno venturo. •»

    « Una Commissione Scientifica, appositamente creata. procederà ali' esame delle presentate proposizioni, per poterne fare la scelta, dando la preferenza a quelle che avessero una maggior importanza e novità scientifica.»

    •• Gli autori dei progetti adottati ne verranno tosto avvertili dalla Commissione, la quale comunicherà coi medesimi per avvisare di concerto ai mezzi, ed ai preparativi che saranno convenienti per I' esecuzione che rimarrà loro intieramente affidata, n La Commissione sarà composta dei signori : « M." Massimiliano Spinola, Membro delT Accademia Reale delle Scienze di Torino; M." Lorenzo Pareto, Membro dell'Accademia Reale delle Scienze di Torino; e Cav. Giuseppe De-Notaris, Membro dell'Accademia Reale delle Scienze di Torino, e Professore di Botanica nella R. Università. «

    Genova 12 dicembre 1845.

    Il Presidente Generale

    M." Astohio BRIGNOLE SALE

    II Segretario Generale M.w Francesco PAIXA VICINO
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