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Friday, July 5, 2024

GRICE ITALICO A/Z C10

 

 

Grice e Carlini: l’implicatura conversazionale della filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more,  but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza è GENTILE, conosciuto qualche anno prima, e CROCE, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al C., anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fa seguito uno studio su BOVIO che desta l'interesse di non pochi studiosi e l'approvazione di GENTILE, considerato da C. suo tutore indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.  In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero immanentista gentiliano (GENTILE è, fino alla propria scomparsa, suo amico, oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia. Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani, raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist. Naz. di Cultura); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura); Il problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4    ala I ai Mi L. LL  a cura di  alberto schiavo Gy  giovanni volpe editore  FUTURISMO E FASCISMO. Una fotografia inedita di Marinetti mentre si esercita  al poligona di tiro di Gorizia nel 1915. Marinetti e Russolo si erano  arruolati volontari nel « Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti » il  3 agosto 1914 per poi combattere da alpini sul Monte Altissimo. In  seguito Marinetti verrà assegnato ad un reparto di autoblindate e poi  servirà nei bombardieri. Sarà tre volte ferito e tre volte decorato  al valore.   Tutti i diritti riservati. Giovanni Volpe Editore  in Roma, Via Michele Mercati. FUTURISMO E FASCISMO a cure di ALBERTO SCHIAVO GIOVANNI VOLPE EDITORE    FUTURISMO CON E SENZA FASCISMO    «A Giacinto Menotti Serrati allora direitore del-  l’Avanti, che si era recato in Russia per respirare  aria comunista. Lenin affermò: “Voi socialisti non  siete dei rivoluzionari. In Italia ci sono soltanto tre  uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,  Annunzio, Marinetti”. Il povero Menotti, inotridito, ritornò a Milano precipitosamente. E. quando, paco dapo, un capo scarico con un  magistrale colpo di forbice gli tagliò di netto, per  beffario, Ia veneranda barba, reagì in questo modo:  facendo proclamare nella grande città lombarda lo  sciopero generale. I milanesi orripilarono, è il caso  di dirlo, perché si sentirono da quel giorno appesi  ai peli del direttore dell'Avarti »  EmiLio SErTIMELLI, Mille giudizi di statisti, scrit-  tori, giornalisti, scienziati, industriali di Cinquanta  Stati sulla personalità e misstone di Mussolini, Erre, Milano). Quale futurismo? Il futurismo è ormai un fatto d’esportazione: italiano  d'origine pur se si è cercato di farlo passare per francese  e russo poi di acquisizione e di affermazione, è ormai  alla ribalta dell’esperimentazione artistica americana. Segno questo che il fenomeno è vitale e ancora carico di  prospettive, nonostante la « storicizzazione » di un avvenimento che fu d'avanguardia. Ma quale avvenimento?  Il manitesto del futurismo fu pubblicato sul parigino Le Figaro. Si tratta di un manifesto letterario di rinnovamento e di rivoluzione, se vogliamo, della tradizione classicista e « passatista » {secondo un termine caro ai futuristi) dominante.  Gli aspetti politici non furono tuttavia estranei alla sua volontà di rivolgimento letterario ed artistico. Ci  sembra quindi giusto prenderli in considerazione, eftet tuarne un esame. Anzi, è proprio di questi che ci vogliamo occupare, del loro svolgersi, articolarsi 0, comun-  que, manifestarsi nel corso del tempo e della vita del futurismo. Che, in fondo, ancora oggi è accettato o respinta,  condiviso o negletto, « approvato » o denigrato a seconda  delle posizioni o degli intendimenti politici del momento.  Ma anche è ticonsiderato, tivisto e « rivisitato » nel suo  complesso, da tutte le parti, vicine e lontane, amiche ed  avverse, per la carica vitale e rinnovatrice che lo anima,  suscitatrice di nuovi spiriti e ancòra, in fondo, moderna.   « La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pen-  sosa, l'estasi e il sonno », scriveva Marinetti in quel Mani  festo di settanta e più anni fa. « Noi vogliamo esaltare il  movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di cor-  sa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno». E non è  già atteggiamento letterario « aggressivo », ma anche di  rinnovamento, questo? Non è, come si suol dire ancora,  « fare politica »? Al settimo punto del Manifesto, Marinetti così continuava: «Non c'è più bellezza, se non  nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere ag-  gressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere  concepita come un violento assalto contro le forze ignote,  per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo ». Per conclu-  dere poi con l'undicesimo: « Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; can-  teremo le maree multicolori e polifoniche delle rivolu-  zioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fer-  vore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da  violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici  di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole. E tutto questo cantava e diffondeva da Parigi, da uno  dei più gloriosi quotidiani della capitale francese; ma cio-  nonostante « ...è dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo  questo nostro manifesto di violenza travolgente e incen-  diaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché  vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena  di professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari. Un grido così coinvolgente e totale non può, in fon-  do, non trascinare ancora gli osservatori della cultura,    A       non invitarli almeno a prendere posizione, poco importa  se favorevole o contraria. Non si può rimanere indiffe-  renti ancora negli Anni Ottanta, non sentirlo tutt'ora pre-  sente nei suoi contenuti « prospettici » e attuali. Ecco  perché tutti lo hanno ripreso, riconsiderato o « riabilita-  to» alla loro dimensione storica: liberali e comunisti,  socialisti e conservatori, cattolici e radicali, fino alla nuova destra. Anche noi, vorremmo quindi riesaminarlo a  distanza non però per riappropriarcene, ma solo per ve-  dere la sua origine, il muoversi storico e la collocazione  politica nel corso della sua esistenza, che in fondo, è ancora incerta e anche, in parte, controversa.    Si è parlato d’irrazionalismo filosofico, di decadenti-  smo o di romanticismo letterario, di surrealismo con evi-  dente errore di collocazione, di nietschianesimo natural  mente, o di bergsonismo ecc. ecc. Ma non sta a noi que-  sto compito, perché siamo convinti che rutto si potrebbe  dite, o comunque tutto si potrebbe adattare in buona  combinazione di purpurie filosofica, o di pensiero. E in-  vece è il futurismo che vorremmo considerare nella sua  realtà storica, nella sua entità e valenza « politica », di  fianco o a distanza di quel fascismo con cui bene o male  si è accompagnato. Anche se ciò non basta certamente  per avere un'idea chiara e precisa della sua effettiva por-  tata e del suo valore « storico ». Perché il futurismo va  visto sì nel suo tempo, che non è poi tanto passato, pur  se non è più momento dell’oggi; ma va visto anche nella  sua prosecuzione e nella sua proiezione al tempo presen-  te, sia pure per quel che riguarda la « dimensione d’arte ».   Il futurismo oggi non è più un fatto politico, ma è  tuttora fatto culturale, e diverse manifestazioni e pubbli  cazioni lo dimostrano ancora. Quando nacque, fu espres-  sione rivoluzionaria di un paese giovane e « nuovo » mos-  so dalla felice conclusione dei fermenti unitari, i quali  — è ovvio — comportano sempre semi di sconvolgimen-  to e di rinnovazione. L’« Italia di Vittorio Veneto » sancità definitivamente  ed epicamente il ciclo dell’unità e segnerà così anche, nel  l'immediato dopoguetra, il momento di temperatura massima del « futurismo politico », che vedremo poi ricadere  in seguito completamente a zero.   Oggi, in tempi di riflusso dopo una guerra perduta  anche se ormai lontana, il futurismo risulta meno com-  prensibile e meno « attuale » alla nostra capacità d'in-  tendimento storico. Ma a ben osservare possiamo ancora  intravvederlo, per intendere poi anche meglio il futurismo  artistico e letterario, che del tutto estraneo a quello « po-  litico » proprio non è.   La cultura è un fatto del presente, ma anche dell’av-  venire. Come tale è o dovrebbe essere giovane, perché  vissuta, voluta, « creduta » e quindi guardata in prospet-  tiva nella visione dell’oltre, nell'ottica di uno sguardo lon-  tano. Il futurismo si pone in questo «taglio » di visuale  sull'inizio del secolo, e si focalizza in tale dimensione.  Vuole aprire una nuova strada e vuole porgere un'indi-  cazione, una proposta.   Erano i tempi del progresso, dello sviluppo della scien-  za e dell'industria, del nascere della velocità dei nuovi  suoni e dei nuovi rumori, quelli delle scoperte e delle  invenzioni, del cinema e dell'aviazione. Marinetti percepì  tutto questo e lo espresse. E fondò il futurismo, pose  le sue basi e cantò la sua prima voce. Nessuno forse  s’aspettava o s'immaginava che potesse riuscire a trovare  ascolto. Marinetti però viveva a Parigi a quel tempo, e  seppe approfittare dei contatti che aveva con la cultura  rancese per lanciare il Manifesto: fu un'occasione, e fu  anche un lancio sicuro.    2. Futurismo e « passatismo »    Esiste ancora oggi il « passatismo », quello di mari-  nettiana memoria. E se è pet questo c'è ancora il futu-  rismo. Proprio per tale suo aspetto, dunque, il futurismo  è ancora attuale: la decadenza della cultura o il suo in-  vecchiamento, e la sua inadeguatezza ai tempi; il preva-  lere per contro dell'accademia, della pedanteria, del vec-  chiume cattedratico sono sempre all'ordine del giorno.    ®    Il futurismo, quindi, non ha esaurito il suo compito, ov-  vero non è riuscito nel suo intento. E allora dovremo dire  che non è morto ed è tuttora attuale. Ma prima di aprire  un'ipotesi di «nuovo futurismo », dovremmo esaminare  quello passato, fattosi movimento d'avanguardia, e ormai  da ridefinirsi vera e propria avanguardia storica, solo ed  esclusivamente.   Il « passatismo » può essere oggi solo un « fatto di  ritorno », o esser rientrato ad occupare il suo campo d'’ori-  gine, ma il futurismo settanta anni fa aveva già conosciu-  to quello di allora, tanto da indicarlo e da definirlo, con  una sua caratteristica espressione: passatismo, appunto.  E non si trattava anche allora di una cultura ripetitiva  e monocorde, puntualizzatrice e pedante, noiosa e inat-  tuale? Allora come oggi: una cultura fuori dal tempo,  sterile e ferma. E il futurismo aveva voluto muoversi a  rinnovarla, a darle nuova spinta vitale. Ecco allora le  sue invettive contro l’accademismo o il professorume, i  suoi appelli alla distruzione di musei, archivi, biblioteche.   Si trattava di appelli squisitamente letterari, ma sono  stati presi il più delle volte alla lettera o in senso lette-  rale, per farne atto d'accusa al futurismo e alla sua anti-  cultura. Leggendo al di là delle righe, invece, dovremmo  capire la portata o la dimensione del messaggio, rivolto  agli uomini più che ai musei e alle accademie, o almeno  a certi uomini capaci di rappresentare solo ed esclusiva-  mente cultura da museo.   Sulla spinta di questo stimolo « ideologico », era fatale  che il movimento trovasse più facili accoglienze 0 acco-  stamenti con le parti politiche d’azione, quelle dell'inter  vento prima della Grande Guerra, e dell’arditismo prima  durante e dopo il conflitto. La guerra veniva ormai intesa  sola ed unica «igiene del mondo », ed era logico che i  futuristi si accostassero a lei, come ad una forza capace  di debellare ed estirpare il tanto inviso « passatismo ».  I futuristi quindi furono interventisti accanto ai naziona-  listi (D'Annunzio) ed ai socialisti di Corridoni e di Mus-  solini. La ineluttabilità della storia accosta spesso e vo-  lentieri i « differenti ». Furono vicini nei comizi, nelle  manifestazioni, nella propaganda per l’intervento.  E poi partirono, praticamente tutti 1 futuristi, volontari per il fronte di una guerta che avevano inteso e visto  aggressiva, purificatrice e moderna. Una guerra al passo  coi tempi, si direbbe oggi, una guerra insomma « futu-  rista ». Partì Martinetti e partì Boccioni, partirono Funi  e Sitoni, partì Sant'Elia, che lasciò i suoi 23 anni in trin-  cea sulle colline del Carso. Erano entrati tutti e cinque  « compatti » in quel glorioso battaglione ciclisti, che tan-  to fece patlare di sé, e che Funi rittasse in un famoso  quadro. Anche Boccioni morirà in ospedale a Verona.  La vita fu forse la massima offerta all’« igiene » di una  guetra tanto desiderata.    Il futurismo in quanto fermento rinnovatore di una  lotta nazionale che concluse il Risorgimento, potrebbe es-  sere inteso come un epigono del Romanticismo. Fu in-  vece di più e di meglio, visto in altra dimensione o in  altro significato. Perché fu avanguardia, anzi il primo ve-  to e proprio movimento d’avanguardia culturale del nuo-  vo secolo. E l'avvento del fascismo in senso politico, di-  mostra in fondo che lo sbocco di tutto quel rivolgimento  innovativo 0 avanguardistico che tutti sentivano e « avevano  nel sangue », era diventato una ineluttabile necessità del  momento.    L’irreggimentazione del fascismo è un fatto successiva,  indipendente dal futurismo. Il fascismo-regime, per dirla  con De Felice, è un'esito autonomo e « solitario » di Mus-  solini e del potere. Il fascismo-movimento invece, sempre  per dirla alla De Felice, no. I) fascismo-movimento è una  realtà più complessa, articolata e multiforme, più sentita e  partecipata. Ed in essa entra il futurismo, che « vive » il fa-  scismo ma anche lo anima, che Jo vuole in parte, ma anche  lo informa.    Il « passatismo » doveva essere stroncato: e in un  primo momento, con l'avvento di Mussolini, languì. La  cultura subì uno svecchiamento non indifferente ed il fer-  mento del nuovo portò sulla scena uomini « giovani » ac-  cantonando | « vecchioni » dell'accademia libera!socialista.  Balla, Carrà, Soffici, Funi, Sironi, Prampolini si afferma-  rono col vento futurista che stava soffiando. Ed ebbero spazio nelle mostre, almeno in un primo momento, aper-  tura nei musei, apprezzamento all’estero, dove vennero  accolti, ammirati, imitati. Il futurismo ebbe una grande  forza vitale sua, autonoma e individuale. Senza per que-  sto imporsi e schiacciare la « concorrenza », anzi. I fu-  turisti accettatono nuove esperienze ed accolsero scambi  con avanguardie straniere (come l'astrattismo), che vol.  lero mutuare in reciprocità l’influenze. Il fascismo fu l’avan-  guatdia collaterale politica del futurismo, che tuttavia que-  st'ultimo cronologicamente precedette e « ideologicamente »,  almeno in parte, ispirò. La lotta al « passatismo » diven-  ne così quasi simbolo del fascismo, che si fece portaban-  diera del rinnovamento e della nuova rivoluzione nazio-  nale.   I « professori », non avendo messaggi originali da con-  trapporre, rimasero in disparte. Marinetti divenne acca-  demico d’Italia a fascismo avanzato e, forse, suo malgra-  do. Tuttavia « usò » l'Accademia per promuovere ed ap-  poggiare i « suoi » futuristi, per dar loro spazio nelle di-  verse manifestazioni d’arte e di cultura. Il filosofo Croce,  « professore ad honorem », era stato proposto alla presi-  denza dell’Accademia, ed era stato proposto da parte fa-  scista, quando ancora da Napoli applaudiva a Mussolini:  ebbe invece più consensi la presidenza Marconi, lo scien-  ziato, e Croce si ritirò nell’antifascismo, forse mi litante,  della sua incensurata e liberissima Critica. Croce fu « pas-  satista », 0 tortò ad essere tale dopo una parentesi {od  un tentativo di rivolgimento innovativo), che non lo sot-  trasse tuttavia dalle « carte » della sua più o meno im-  mobile filosofia.    3. Futurismo e politica    La comparsa « politica » del futurismo fu praticamente  contemporanea alla sua nascita «artistica: infatti avvenne  in occasione delle elezioni del 1909, quando Marinetti  lanciò il suo Primo Manifesto Politico, che così si rivol-  ge agli « Elettori Futuristi »: « Noi Futuristi invochiamo da tutti i giovani ingegni d’Italia una lotta ad oltranza  contro i candidati che patteggiano coi vecchi e coi preti ».  Posizione confermata nel marzo dello stesso anno in un  famoso Discorso ai Triestini tenuto al Politeama Rosset-  ti, della città giuliana, dove così sottolinea: « In politica,  stamo tanto lontani da] socialismo internazionalista e an-  tipatriottico — ignobile esaltazione dei diritti del ven-  tre — quanto dal conservatorismo pauroso e clericale,  simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto ». Sono  le premesse del famoso anticlericalismo marinettiano, che  sfocerà poco dopo nello « svaticanamento » tanto predi-  cato per la salvezza nazionale.    Nel 1910, dopo la nascita del futurismo politico, vie-  ne fondato il Partito Nazionalista Italiano, antidemocra-  tico ed antiborghese. Nel 1913 nasce Lacerba, cui diede-  ro vita a Firenze Soffici e Papini, la rivista che in pra-  tica divenne ben presto organo ufficiale del futurismo /ato  sensu. Sempre nel 1913 sorgeva a Napoli un’altra rivista  futurista, diretta da Ferdinando Russo e intitolata Vele  Latina, che si ergeva in un primo tempo a voce di pa-  sizioni morigerate e tranquille, e poi dal 1915 più spinte  nella mischia dell'intervento.   Ancora del ’13, e dell'11 ottobre per l'esattezza, è  la pubblicazione del Programma politico futurista a firma  di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, per le elezioni  dello stesso anno. « Questo programma vincerà », s'in-  dica al margine inferiore del foglio, «il programma cle-  rico-moderato-liberale » e «il programma democratico-re-  pubblicana-socialista ». Cosa che poi in realtà non avvenne.    Il 12 dicembre dello stesso anno Marinetti pronun-  ciava un discorso al Teatro Verdi di Firenze, dove sao-  stiene la volontà di appoggiare l'impresa libica ed il suo  felice compimento. Il discorso viene immediatamente ri-  preso e pubblicato da Lacerba, nel numero del 15 dicem-  bre (n. 24, anno I): « Si convincano i socialisti che noi  rappresentanti della nuova gioventù artistica italiana com-  batteremo con tutti i mezzi e senza tregua i loto vigliac-  chissimi tentativi... » iniziava il discorso; e così concludeva, a rafforzamento delle sue inconciliabili posizioni:  « Noi siamo dei nazionalisti futuristi e perciò ferocemen-  te avversi all’altro grande pericolo imminente: il clerica-  lismo con tutte le sue propaggini di moralismo reaziona-  sio, di repressione poliziesca, di professoralismo archeo-  logico e di quetismo rammollito o affatismo di partito ».  Ormai la collocazione del movimento è quanto mai chia-  ra e inequivocabile.    4. Futuristi e « fiorentini. Che i futuristi fossero « milanesi » è problema tutto  da vedere, anche se è vero che Marinetti abitava a Mi-  lano e che dopo la fondazione del movimento a Parigi  fu a Milano il suo centro di spinta e di irradiazione.  Ma i legami con Firenze furono ben presto agganciati,  e determinanti. Scrive Luciano De Matia: « Fsiste un fu-  turismo milanese (con Marinetti e Boccioni in simbio-  si); esiste un primo futurismo fiorentino lacerbiano, che  assimila, elabora in modo nuovo, creativo, le istanze mi-  lanesi; esiste un secondo futurismo fiorentino (la « pattu-  glia azzurra »; i giovani de L'Italia futurista) psicologico,  occultista, predadaista e presurrealista. E potremmo con-  tinuate nelle differenziazioni »”.   Ma non è tanto per questo tipo di differenziazioni che  ci interessa il futurismo fiorentino, quanto per la dimen-  sione « politica » dei personaggi che vi aderirono, diversa  da quella di Marinetti e degli altri futuristi milanesi o  degli altri politici che a Milano operavano e si muove-  vano (Boccioni, Sant'Elia, Balla; più tardi poi, Vecchi  e Mussolini). Milano era già città d'avanguardia e alla  guida dell’industrializzazione settentrionale: questo non va  dimenticato.   Firenze era ancora « passatista », accademica e salot-  tiera; legata comunque ad una cultura d’indagine e di    ! Tuciano De Maria, Palazzeschi e l'avanguardia, Mondadori,  Milano, 1968, pag. 31. riesumazione di un passato ricco e glorioso, ma ormai ri-  petitivo e sclerotizzato. Firenze tuttavia era anche la terra  feconda del primo Novecento, delle nuove riviste, dei  tentativi di rivisitazione di una cultura pur sempre na-  zionale, e di lancio dell'avanguardia sullo scorcio del nuo-  vo secolo, che andava creato e costituito, Il Leonardo apre  le sue tirature il 4 gennaio 1903, per chiuderle poi nel-  l'agosto del 1907. Era stato Papini a fondarlo, ma c’era  già anche presente Prezzolini (Giuliano il Sofista). Che  poi mise in piedi La voce nel 1908: uno dei migliori ten-  tativi di collegamento delle forze intellettuali e di fon-  dazione di un minimo denominatore comune, letterario e  politica {idealismo e sindacalismo socialistico di tipo so-  reliano). Papini continuò la « collaborazione ». Ma vi fu-  rono anche, sulle pagine de La Voce, Amendola e Sal  vemini, Soffici e De Robertis, oltre che il futuro fonda-  tore de Il Popolo d’Italia e del Fascismo.    La Voce chiudeva però i battenti nel 1912 senza ec-  cessiva eco politica immediata. Papini non aveva condi-  viso certe alleanze del suo amico Giuliano il Sofista, come  non condivideva l'intento didascalico e divulgativo della  Voce su qualsiasi argomento artistico e sociale, come an-  che « idealistico ». Si unì a Soffici di cui condivideva gli  atteggiamenti, ed insieme fondarono Lacerba (il 1° gen-  naio del 1913, sempre a Firenze). « Non si volge chi  a stella è fisso! », portava come motto il Leonardo sotto  la testata. Volendo dare tono battagliero a Lacerbae, Pa-  pini forse ancora seguiva le prospettive d’arte e di cul-  tura del Leonardo. Anche se in una dimensione « attiva »  che già i « leonardiani » avevano inteso fondare nell’uti-  lizzazione del pragmatismo come « strumento di poten-  za ». (« In quegli anni tutti vollero sapere che cosa fosse  il pragmatismo »).  Lacerba riprende l’impostazione di  battaglia, tipica di Papini, e ritotna all’orientamento spe-  cifico dell’arte.       ? Vedi anche Giovanni Papini, Pragmatismo, Firenze, Vallec-  chi, 1927.    14    In questo contesto è evidente che non poteva man-  care l’incontro col futurismo.   La scazzottatura dei futuristi con Soffici e i vociani  nel 1911° non poteva aver contribuito all'incontro? Potrebbe darsi, anche se Papini non vi aveva partecipato,  come Marinetti stesso asserisce in una sua lettera a Pra-  tella. Sta di fatto che col 15 marzo del 1913, cioè col  suo sesto numero, Lacerba diventa futurista. Con un articolo proprio di Papini dal titolo Contro il futurismo che  dal famosa attacco iniziava così: « Il futurismo italiano ha  fatto ridere, urlare e sputare. Vediamo se potesse far pen-  sare». Segue un passo di Boccioni sul «fondamento plastico  della scultura e pittura futurista». Proprio Boccioni che ave-  va investito Soffici col suo celebre pugno, poco più di  un anno prima a Firenze. E che continuerà a pubblicare  articoli sul numero del 1° di aprile e su quello del 1° di  agosto e poi sul primo numero del 1914, ecc. Per non  parlare di Carrà, Marinetti, Russolo, Sant'Elia, Auro d'Al-  ba, ecc., che porteranno continuamente i loro contributi.   Il 15 ottobre del ’13 Lacerba pubblicherà addirittura  il citato Programma politico futurista in occasione delle  elezioni generali. Il manifesto politico compare in prima  pagina con tutti i crismi d'appoggio o di affiancamento  della rivista. Papini ne dà un commento più che « sod-  disfacente ». E lo stesso Papini il 1° dicembre dello stes-  so anno uscirà poi con un lungo articolo intitolato Perché  son futurista. Sarà l’atto di accettazione definitiva del fu-  turismo, od il suo accoglimento più completo, e « globale ».    1 Su La Voce Soffici pubblica la sua Ri-  cetta di Ribi Buffone. Vi si elencano gli ingredienti del neonato  futurismo: « Un chilo di Verhaeren, 200 gr. di Alfred Jarry, cento  di Laforgue, trenta di Laurent Tailhade, cinque di Viélé Griffin, un  pugno di Morasso..., una presa di Pascoli », aggiungendovi poi « una  pila di undici automobili, sette aetoplani, quattro treni, due carghi,  due biciclette, diverse batterie elettriche e qualche candela arden-  te». Sempre su La Voce Soffici pubblicherà poi nel ‘10 e nell’11  dei rendiconti negativi sulle opere futuriste esposte a Venezia e a  Milano, per cui sarà decisa la spedizione punitiva a Firenze da par-  te dei fuiuristi,   Non molti giorni dopo, il 12 dicembre (lo ab-  biamo già visto), si tenne al Teatro Verdi a Firenze  una « grande serata futurista », di cui riporta il « reso-  conto sintetico » il numero 24 della rivista (del 15 di-  cembre 1913).   Non molto tempo dopo, però, il 15 febbraio del ’14,  appare sul quarto numeto del nuovo anno I! cerchio si  chiude, che avvia inesorabilmente al declino della colla-  borazione. Autore ne è ancora una volta Giovanni Papini,  che chiuderà definitivamente il « colloquio » sull'ultimo  numero dell’anno insieme a Soffici, cofirmatario de Il Fu-  turismo e Lacerba. E’ l'atto di chiusura di un « perio-  do »: quello, appunto, del futurismo lacerbiano. Rispon-  derà Boccioni il 1° di marzo sul numero 5 con Il cerchio  non si chiude; ma sono solo sussulti, e anche sugli ultimi  numeri dell'anno della rivista compariranno solamente i  cosidetti « canti del cigno ».   Il cerchio era ormai già chiuso. E non molto dopo  chiudeva anche Lacerba, nonostante i suoi ultimi tenta-  tivi interventisti di rivivificazione (1915) e le sue discri-  minazioni tta futurismo c marinettismo, che ne sarebbe  stata la versione deteriore‘. 1l marinettismo sarebbe pra  ticamente già morto secondo «i fiorentini », mentre il  futurismo avrebbe potuto tendere a mete migliori. Dopo  pochi mesi in realtà morirà definitivamente anche Lacerba.    5. Il futurismo e la guerra    Nel 1929 Marinetti ricordava così l’inizio della sua  « carriera interventista »: « Nel settembre 1914 dutante  la battaglia della Marna e in piena neutralità italiana, noi  futuristi organizzammo le due prime dimostrazioni contro  l’Austria e per l'intervento. Bruciammo il 15 settembre  nel Teatro Dal Verme e il 16 settembre in Piazza del       4 Cfr. Palazzeschi, Papini, Soffici, Futurismo e Marmnettismo, in  Lacerba, anno III, n. 7, 14 febbraio 1915, pp. 49-50. Duomo e in Galleria undici bandiere austriache ». Poco  prima di quegli avvenimenti, Mussolini aveva fondato il  suo nuovo quotidiano, I{ Popolo d’Italia. Contemporanea-  mente, sotto l'auspicio e il favore di Corridoni, i gruppi  rivoluzionari di sinistra, già pronunciatisi a favore della  guerra, si stavano organizzando per sostenere anch’essi  l'intervento. Come ricorda De Felice, «il 5 ottobre il  Fascio Rivoluzionario d'Azione Internazionalista avreb-  be lanciato il suo primo appello ai lavoratori italiani in  questo senso » * L'incontro tra futuristi e rivoluzionari  di estrema sinistra si stava verificando e « stringendo »,  anche se già confortato da reciproche simpatie per le uni.  voche posizioni anticlericali ed antiborghesi.  Mussolini scriveva dalla direzione de Il Fopolo d'Italia una lettera a Buzzi, che  riportiamo interamente: « Caro Buzzi, Boccioni vi avrà  detto — se mai vi avrà parlato di me — che tutte le  mie simpatie sono — anche nel dominio dell’arte — per  i novatori e i demolitori: per i “futuristi”. Inattesa, e  perciò gradita, mi giunge la vostra lettera riboccante di  simpatia. E’ questo uno dei momenti più amari della mia  vita. Ma vincerò. Vincerò. Lo sento. F' necessario. Ho  messo nel gioco tutta me stesso. Credetemi. Vostro Mus-  solini ».   L’amarezza gli è data probabilmente dall’espulsione  dal Partito socialista proprio per la posizione da lui assun-  ta a favore dell'intervento. La conoscenza da parte di  Mussolini, di Boccioni e del movimento d’arte d’avanguar-  dia di Marinetti, risultava sino a poco tempo fa inesistente.  La lettera, unica del genere, conferma la precedenza del  futurismo politico rispetto al fascismo ancora da sorgere,  che poi mutuerà da esso idee, elementi e programmi.   Le simpatie si manifestano per il dominio dell'arte,  al dire di Mussolini, ma non solo; c'è un « anche », che  indica chiaramente dell'altro e un'apertura, forse politi  ca, possibile nei confronti degli innovatori e dei « demo-    Renzo De Felice, Mussolini il Rivoluzionario, Einaudi, Tori. litori », vale a dire per i futuristi. Che ancora il 9  dicembre di quell’anno organizzano le prime manifesta-  zioni interventiste all’Università di Roma, sotto la guida  di Marinetti, Balla, Cangiullo e Depero. Qualche mese  dopo, nel ’15, le autorità di governo fermano Marinetti,  Cangiullo, Balla e Depero che avevano indetto una manifestazione interventista un’altra volta a Roma, in Piazza  Venezia. E' il primo « fermo politico » di Marinetti. Sia-  mo quasi alla vigilia della guerra.    Il 12 aprile 1915 si mette in piedi la « terza grande  dimostrazione interventista » davanti alla Camera dei De-  putati. E' presente anche Mussolini e si verifica uno dei  maggiori « momenti d’incontro » tra futuristi e Mussolini  sul terreno dell’intervento. Balla, Corra, Settimelli, Ma-  rinetti e lo stesso Mussolini vengono attestati. Tutti gli  sforzi ormai, tutte le volontà e tutte le energie sono con-  centrate verso un'unica e suprema meta: quella della guer-  ra. A Messina esce il nuovo periodico La Balze, e Ma-  rinetti pubblica il manifesto Guerra sole igiene del mon-  do, mentre il poeta futurista Auro d'Alba « lancia » a Mi-  lano per le Edizioni Futuriste di « Poesia » (« sostenute »  da Marinetti) il volume Baionette.    Con l’entrata in guerra nel maggio, a Fitenze Lacerba  interrompe — come si è visto — le pubblicazioni. Una  guerra che avevano tutti quanti, in un certo senso, pre-  parato con interventi, discorsi, giornali, manifestazioni e  pubblicazioni. Fra questi non va dimenticato il manifesto  del Teatro futurista sintetico, firmato da Martinetti, Corra  e Settimelli, nel quale, fra l’altro, così si legge: « Aspettan-  do la nostra grande guerra tanto invocata noi Futuristi al-  terniamo la nostra violentissima azione artistica sulla sen-  sibilità italiana, che vogliamo preparate alla grande ora  del massimo pericolo ». E più avanti: « Perché I’Italia  impari a decidersi fulmineamente a slanciarsi, a sostenere  ogni sforzo e ogni possibile sventura non occorrono libri  e riviste... La guerta, futurismo intensificato, ci impone  di marciare e di non marcire nelle biblioteche e nelle sale  di lettura. No: crediamo dunque che non si possa oggi  influenzare guerrescamente l'anima italiana, se non median-    18    te il teatro ». E in effetti, a partire dal gennaio del '15,  i futuristi avevano iniziato una serie di « Tournées di tea-  tro futurista interventista » per sostenere la necessità del-  l’intervento con un mezzo di comunicazione ben più po-  polare e « circolante » della letteratura.   Anche la «serata futurista », per esempio, è un al  tro canale o strumento di « incoraggiamento » dell'inter-  vento. Si tratta di una sorta di riunione o ritrovo di arti-  sti futuristi, uno dei quali sollecita gli intervenuti (pubbli-  co) danda uno spunto, e proponendo un tema, o aggre-  dendo qualche aspetto dell'arte del passato, da cui nasce  lo stimolo alla creazione e alla lotta del nuovo 0 del futu-  ro, e anche lo stimolo alla guerra che lo conduce sino alle  ultime conseguenze. Ma sentiamo Marinetti come la defi-  nisce quando si rivolge agli studenti in un altro manifesto,  di poco precedente a quello « teatrale », intitolato Im que-  st'anno futurista, rivelto agli « studenti italiani » e datato  29 novembre 1914. Laddove si esortano i giovani alla  guerra così si afferma: «... il futurismo segnò appunto  l’irrompere della guerra nell’arte, col creare quel fenome-  no che è la Serata futurista (efficacissima propaganda di  coraggio). Il futurismo fu la militarizzazione degli artisti  novatori ».   E la guerra arrivò, come A biamo visto, e per molti  versi fu vera e propria « guerra futurista ». In luglio par-  tiva il gruppo più consistente di « volontari »: Marinetti,  Boccioni, Russolo, Sant'Elia, Bucci, Carlo Erba e Funi.  Ma ci saranno al fronte anche Carrà e Sironi, fattosi futu-  rista nello stesso anno, e Piatti e Fortunato Depero.   Alla fine dello stesso anno Boccioni, Russolo, Sant’E-  lia, Sironi e Piatti, sempre sotto l'egida di Marinetti, firmano un altro manifesto futurista, quello dell’Orgoglio  italiano, con cui si promettono pugni, schiaffi e fucilate  a quelli degli italiani che avessero manifestato in sé «la  più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, deni-  gratore e straccione che ha caratterizzato la vecchia Italia  di mediocristi antimilitaristi (tipo Giolitti), di professori  pacifisti (tipo Benedetto Croce, Claudio Treves, Enrico  Ferri, Filippo Turati), di archeologi, di eruditi, di poeti  nostalgici. Sant'Elia muore al fronte, e Boccioni, una settimana dopo, per una caduta da cavallo durante un'esercitazione militare a Orte. Nasce a Firenze la  nuova rivista L'Italia futurista. Prampolini fonda con Fol-  gore il foglio d'avanguardia Awvenscoperta. Nel ’17 nasce  il periodico Deda, che tanto dovrà nell’ispirazione al no-  stro futurismo. I) 18 è ormai l'anno della vittoria. Depe-  ro realizza i suoi nuovi «balli plastici ». Bruno Corra  pubblica a Milano con i tipi dello Studio Editoriale Lom-  bardo Per l'arte della nuova Italia. Siamo infatti nell’Ita-  lia della vittoria.    6. Il Partito politico futurista    Nella nuova realtà del dopoguerra il futurismo cerca  una sua nuova collocazione politica più « pacifista », se  il termine non è nella fattispecie una contraddizione. Ai  fasti dell'intervento e della militarizzazione, succede un  nuovo intento programmatico di realizzazione. La prima  espressione di questa volontà è ancora una volta dovuta a  Marinetti che pubblica nel febbraio del ’18 un Manifesto  del Partito politico futurista, l'adesione al quale era libera  ed aperta a tutti coloro che avessero accettato i principî  del suo programma, indipendentemente dalle concezioni  dell’arte o dal consenso all’« estetica futurista ». E questo  indica una presa di posizione più ponderata e meno « di  rottura », almeno in senso sociale.   Il documento esprime, negli intenti, il desiderio di  rinnovamento di quelle fasce del combattentismo inter.  ventista, comprese fra i mussoliniani, i sindacalisti tivo-  luzionari, i socialisti e i repubblicani di sinistra, che avreb-  bero poi dato vita alla formazione dei Fasci di Combatti-  mento, quelli cui futuristi ed arditi avrebbero infuso la  prima linfa vitale. Si possono considerare punti essenziali  del nuovo programma l'estensione del suffragio universa-  le, comprendente anche le donne, la socializzazione della  terra con assegnazione ai reduci, la tassazione progressi-  va, l'abolizione dell'esercito e la sua professionalizzazione  (volontariato), la giustizia gratuita, la libertà di sciopero  e stampa, le otto ore lavorative e Î contratti collettivi di  lavoro, l'assistenza e la previdenza sociale, la « tecnicizzazione » clel parlamento e l’introduzione del divorzio. A  diffondere le idee del nuovo partito era destinato il perio-  dico Roma futurista, fondato a Roma da Marinetti, Mario  Carli ed Emilio Settimelli, che vedeva la luce il 20 set-  tembre 1918 e portava come sottotitolo « Giornale del  Partito politico futurista ». .   « Roma futurista », racconta Marinetti nel suo libro  Futurismo e Fascismo (1924) « nacque un mese e mezzo  prima dell’armistizio, cioè il 20 settembre 1918, e porta-  va nel suo primo numero tre scritti importantissimi dei  suoi tre direttori: Mario Carli, Marinetti, Settimelli. Scri-  veva Settimelli: “Il Futurismo che fino ad oggi esplicò  un programma specialmente artistico, si propone una inte-  grale azione politica per collaborare a risolvere gli urgen-  ti problemi nazionali. Coloro che ci accusarono di squili-  brio dovranno ricredersi. I] preconcetto di serietà pedan-  tesca e quietista imposto alla vecchia Italia dai profes-  sori rammolliti, dai preti anti-italiani e dagli affaristi gio-  littiani, cercò di svalutare la nostra genialità di giovani  audaci e novatori. Ma la vera Italia non può rimanere e  non rimarrà neppure parzialmente nelle loro mani inca-  paci. La guerra ha rivelato le vere forze italiane. Sono for-  ze giovani, violente, antitradizionali e ultra-italiane” ».   Il primo numero di Roma futurista (decadario, poi  settimanale) pubblicava il programma del giornale mede-  simo ed anche il manifesto di quel Partito Politico Futu-  rista che si doveva ancora fondare. Partito che, nell’inten-  dimento di Settimelli, doveva essere « più che altro una  tendenza psicologica », una « fusione di realtà e di scon-  (inamento, di praticità e di lirismo », che avrebbe contri-  buito a creare un nuovo tipo d'italiano. Ma ecco ancora  come si esprime «la volontà» di fondazione del movimento:  « Il Partito politico futurista che noi fondiamo e che or-  xanizzeremo dopo la guerra, sarà nettamente distinto dal  movimento artistico futurista. Questo continuerà nella  sua opera di svecchiamento e rafforzamento del genio creatore italiano... Potranno aderire al partito politico futu-  rista tutti gli Italiani, uomini e donne d’ogni classe e di  ogni età... Questo programma politico segna la nascita  del partito politico futurista invocato da tutti gli italiani,  che si battono oggi per una più giovane Italia, liberata  dal peso del passato... ». La firma è di Roma futurista,  cioè, come si presume, del direttore, o anzi di tutti i tre  direttori.    Ecco alcuni punti del manifesto-programma del par-  tito: « 4) Trasformazione del Parlamento mediante un'equa  partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri e  di commetcianti al Governo del Paese. Il limite minimo  di età per la deputazione sarà ridotfò a 22 anni. Un mi-  nimo di deputati avvocati {sempre opportunisti) e un mi-  nimo di deputati professori (sempre retrogradi)... Aboli-  zione del Senato... Unica religione, l'Italia di domani...  10) ...Svalutazione della pericolosa e aleatoria industria  del forestiero... Difesa dei consumatori... Svalutazione dei  diplomi accademici e incoraggiamento con premi della  iniziativa commerciale e industriale... ».    Le adesioni all'iniziativa si fecero subito sentire da  diverse parti: ci furono vecchi futuristi come Auro d'Alba,  Rosai e Rocca, reduci dalla guerra come Bolzon e Bottai  (che avrebbe poi rivestito un ruolo di primo piano nel-  l'ambito del nuovo regime fascista) e Massimo Bontempel-  li, secondo il quale il programma fondamentale del futu-  rismo politico sarebbe stato quello di sostituire «la gio-  vinezza alla vecchiaia nelle funzioni direttive ». E non  sarebbe stato poco. Sarebbe stato uno dei tentativi, anche  se non del tutto riuscito, dell’insorgente fascismo.    Nel dicembre dello stesso anno 1918, quasi ad esito  naturale della formazione del nuovo partito, poco orga-  nizzato e poco «costituito », s'istituirono invece i « Fasci  politici futuristi », più attivi e vitali particolarmente in  diverse città dell'Italia centrale e settentrionale, la prima  ossatura su cui si sarebbero appoggiati e sarebbero cre-  sciuti i muovi « Fasci di combattimento », voluti e pro-  mossi da Mussolini quattro mesi dopo. Nel febbraio del  '19 i Fasci futuristi erano già una ventina, tra quelli di Roma (Balla, Carli, Bottai, d'Alba e Chiti), Milano (Mari-  netti, Buzzi, Somenzi e Bontempelli), Firenze (Settimel-  li, Rosai, Marasco), Perugia (Dottori), Genova (Depero),  Torino (Azari), e poi ancora Bologna, Palermo, Napoli,  Fiume, Messina, Ferrara, Piacenza, Venezia, Taranto, Mo-  dena, Stradella, ecc. I futuristi avevano quindi accolto  con entusiasmo l'iniziativa e vi si erano immersi fino a  determinare una prima ossatura: l’organizzazione. E Mus-  solini a sua volta aveva visto di buon occhio e seguìto  la formazione dei Fasci politici futuristi, sino a « scopri  re » in essi un punto d'appoggio per la sua campagna  combattentistica ed antisocialista che si concretizzerà nei  suoi Fasci di combattimento (quelli di Piazza San Sepolcro).  Carli, come condirettore di Rowza futurista e  dietro spinta di Marinetti stesso, caldeggiava da tempo,  anche dalle colonne del suo nuovo periodico, l’avvicen-  damento e l'annessione degli arditi al partito politico, di  cui sul primo numero del giornale si pubblicava il rivolu-  zionario programma: era il 20 settembre 1918.    Dieci giorni dopo, il 30 settembre 1918, le proposte  politiche si fanno più tecniche, più « specializzate », più  particolari. Volt firmerà un testo « dinamico » per dichia-  rare: « Sostituiremo il Parlamento con le tappresentan-  ze dei sindacati agricolo-industriali ed operai. La rappre-  sentenza sindacale sarà la base dello “Stato tecnico” futu-  rista ». Ma allora di quale rappresentanza sindacale si ttat-  rerà e quale sarà riconosciuta dallo Stato nella sua veste  di personalità giuridica? Sono tutti problemi che già Volt  si pone e così, a suo modo, « risolve », e continua: «To  credo non si debba tener conto del numero degli iscritti  al sindacato, ma della importanza della funzione economica  che esso esercita nel Paese ». Ed ancora, prosegue ad in-  terrogatsi: « Quali saranno i limiti posti all'esercizio del  potere dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza  sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere li-  mitata alle questioni prevalentemente economiche, che so-  no del resto le più importanti in politica. Le questioni  di famiglia, di politica estera, ecc. dovranno esser risolte    II! 'EUE vu SS it: _gLZffkfkzstllEaAaz:F:=+”sx«x:®(  '81‘daoiaaiA'.°’°à0‘@e ra —-    in parte mediante il referendum popolare diretto ed in  parte attribuito alla competenza del potere esecutivo ».   Gli arditi venivano poi sciolti nel gennaio del ’19  dai loro reparti di ufficiali, sottufficiali e truppa, perché  considerati provocatori di disordini e di incidenti nella  vita civile. L'iniziativa era stata ovviamente criticata dai  diretti interessati come manovta socialista-giolittiana atta  a disconoscere i loro meriti di guerra. Ed anche Marinetti  aveva appoggiato dalle colonne di Roma futurista 1’« uni-  ficazione » (ira futuristi ed arditi),   Alla fine di novembre del ’18 Mario Carli fondava,  a conclusione di questa « campagna », l’« Associazione fra  gli Arditi d’Italia », che fu un po’ l’altra faccia del Partito  politico futurista. In breve, l'associazione atrivò a racco-  gliere circa diecimila iscritti, la maggior parte, forse, degli  ex «reparti militarizzati ». Futurismo e arditismo    Ormai anche gli arditi, nonostante lo scioglimento del-  la loro organizzazione paramilitare, hanno una consistenza  civile ed in certo modo un loro peso politico. Tanto da  poter fondare un loro organo di stampa che prende a  uscire a Milano dall’11 di maggio 1919: il settimanale  L’Ardito, edito dall’Associazione nazionale, e condiretto  da Ferruccio Vecchi e, non a caso, da Mario Carli. Nello  stesso periodo altre furono le voci di stampa allineate su  analoghe posizioni: Armando Mazza, per esempio, fondò  a Milano I remici d'Italia, settimanale « antibolscevico »;  il più importante di questi giornali « minori » fu però  L’Assalto, pubblicato a Bologna come voce dell’arditismo,  e diretto da Nanni Leone Castelli. Marinetti ed i futuri-  sti non potevano a questo punto non vedere negli arditi  dei nuovi futuristi politici, così come Mussolini non po-  teva non vedere in loro dei potenziali simpatizzanti e allea-  ti. La pronta adesione di molti di essi ai Fasci di combat-  timento lo dimostrerà definitivamente.   Arditismo e futurismo furono dunque componenti es-    dd    senziali del nuovo insorgente fascismo. Almeno dal punto  di vista ideologico, o formativo del suo nascere. Mussoli-  ni aveva, per così dire, « abiuraro » il suo vecchio socia-  lismo e aveva bisogno di una forza nuova, una forza idea-  le o di pensiero che gli permettesse il suo «slancio in  avanti ». Il futurismo gliela porgeva già bell'e pronta, o  quasi, mentre il precedente socialismo gli alimentava certi  spunti sociali, in parte, almeno, già presenti nel futurismo.  L'arditismo, ancora, gli comunicava una spinta, una forza  di aggressività e di « assalto », che forse gli sarebbe man-  cata, o non sarebbe stata, senza di esso, tanto irruente.    L'11 gennaio il futuro « duce » partecipava a Milano  ad una « serata futurista » contro Bissolati, alla Scala, con-  tribuendo in parte al suo « siluramento ». C'era anche  Marinetti e, forse, non fu un caso, e si trattò di un incon-  tro importante.    II 23 marzo dello stesso anno in una riunione milanese  a Piazza San Sepolcro, presieduta da Ferruccio Vecchi, Ma-  rinetti tenne un discorso alla presenza di Dessy e di altri  arditi e futuristi, per la fondazione dei Fasci di combatti-  mento, decisa da Mussolini. Questi propose come pro-  gramma ai nuovi raggruppamenti l'abolizione del Senato,  il suffragio universale, il sindacalismo nazionale, ricona-  scendo «le rivendicazioni d'ordine materiale e morale »  agli ex-combattenti e rimproverando al partito socialista  di essere stato « nettamente reazionario, assolutamente  conservatore », col negargli così qualsiasi possibilità di  « mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di  ricostruzione ». La conclusione del discorso, antimassima-  lista ed antitotalitaria, era in fondo quanto mai « futu-  rista ». Così terminava il Mussolini:  « Noi conosciamo  soltanto la dittatura della volontà e dell’intelligenza ». Al  termine della riunione si nominava un comitato centrale  dei Fasci di combattimento di cui facevano parte anche  Vecchi e Marinetti.   Il 1° di aprile Marinetti venne nominato insieme a  Mussolini membro della commissione di lavoro nazionale  per Ia propaganda e la stampa. Ancora in aprile a Milano  nuclei di futuristi, arditi e « principianti » fascisti assali-    tu    rono la sede del quotidiano socialista Avanti! Il giorno  dopo i « fattacci » del 15 aprile, visto il mancato inter  vento delle forze dell’ordine nel prender provvedimenti  contro i promotori dell'azione, Vecchi e Marinetti emise-  ro un « proclama agli italiani » a nome dei futuristi, degli  arditi e dei fasci: « Nella giornata del 15 aprile avevamo  assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna  controdimostrazione perché prevedevamo il conflitto e ab-  biamo orrore di versare sangue italiano. La nostra con-  trodimostrazione si formò, spontanea, per invincibile vo-  lontà popolare. Fummo costretti a reagire contro la pro-  vocazione premeditata degli imboscati. Col nostro inter-  vento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quat-  tro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono diri-  gere e dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia ». La  « controdimostrazione » si riferisce ad una manifestazione  socialista all'Arena, cui seguì la « battaglia di Via Mer-  canti », dove furono chiari, secondo i reduci, alcuni mo-  menti di provocazione nei confronti del combattentismo  {da qui, l'assalto all’Avanti!).   Sempre nell'aprile del *19 esce a Milano per i tipi del-  l’Editore Facchi un volume politico di Marinetti, forse il  suo più importante: si tratta di Democrazia futurista, che  porta come sottotitolo « dinamismo politico ». E' una rac-  colta di articoli apparsi su Roma futurista e che appari  ranno sul nuovo giornale di Vecchi, L’Ardito, generoso  sempre di spazio per Marinetti. Questi definisce il suo  « concetto democratico » in un altro articolo edito in apri-  le sempre dall’Ardito: « Vogliamo dunque creare una vera  democrazia cosciente e audace che sia la valutazione e  l'esaltazione del numero poiché avrà il maggior numero  di individui geniali. L'Italia rappresenta nel mondo una  specie di minoranza genialissima tutta costituita di indivi-  dui superiori alla media umana per forza creatrice, inno-  vatrice, improvvisatrice. Questa democrazia entrerà natu-  ralmente in competizione con la maggioranza formata dal-  le altre Nazioni, per le quali il numero significa invece  massa più o meno cieca, cioè democrazia incosciente ».  Certo, si tratta di una nuova cancezione di democrazia,    26    che con quella tradizionale, anche attuale, non ha niente  a che vedere. E' una lotta di democtazie, o una demo-  crazia di lotta, il che alla fin fine non è poi molto diverso.  E’ una vera e propria concezione dinamica. Che, tanto  per tener conto del suo opposto si mette a confronto, a  dire di Marinetti, così: « Arturo Labriola definisce la de-  mocrazia "come sentimento dei diritti concreti della mas-  sa sullo Stato e sulla Economia“... Noi intendiamo la de-  mocrazia italiana come massa di individui geniali, divenu-  ta petciò facilmente cosciente del suo diritto e natural  mente plasmatrice del suo divenire statale. La sua forza  è fatta di questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua  quantità valore, meno il peso delle cellule morte (tradi.  zione), meno il peso delle cellule malate (incoscienti, anal-  fabeti). La democtazia italiana è per noi un corpo umano  che bisogna liberare, scatenare, alleggerire per accelerar-  ne la velocità e centuplicarne il rendimento... ». Come  potrebbe essere più futurista e avanzata questa nuova con-  cezione democratica « progressiva »? Che così, giustamen-  te, si conclude e si definisce: «La democrazia futurista  è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le sue  cellule vive ».   E’ il punto d'arrivo, logico e conseguenziale, di una  concezione « d’assalto ». E per la definizione ulteriore del-  le posizioni e dei concetti, il 27 aprile 1919 ancora, sulle  pagine di Roma futurista, un testo di Mario Carli (Non  chiamatela reazione) afferma: «Non è per l’ordine, non  è in difesa dell’autorità costituita o della borghesia vile,  non è in appoggio alla così detta “benemerita” che noi ci  siamo battuti a Milano, e ci batteremo altrove, se se ne  presenterà l’occasione. Ma è per un'idea, per un princi-  pio: è per l’idea di patria, è per il principio di progresso,  che noi crediamo realizzabile con mezzi e con metodi op-  posti a muelli dei rivoluzionari russi ».   Ciò nonostante Gramsci e Lunaciarsky, al TI Congres-  so dell'Internazionale comunista, difendono i futuristi ita-  liani e li considerano veri e propri « rivoluzionari ». E  Lenin medesimo dità a Giacinto Menotti Serrati, che, co-    DI    A       me direttore dell’Avanti!, si era recato a Mosca a respi-  rare il nuovo comunismo: «In Italia ci sono soltanto  tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,  D'Annunzio e Marinetti ». Mentre a proposito di questo  ultimo, cioè di Marinetti e del suo movimento futurista,  Gramsci così annotava in un suo articolo pubblicato su  Ordine nuovo nel 1921: « Distruggere, in questo campo,  non ha lo stesso significato che nel campo economico...  significa non avere paura della vanità e delle audacie, non  avere paura dei mostri, non credere che il mondo caschi  se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia  zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone... I futu-  risti hanno svolto questo compito nel campo della cultura  borghese... hanno avuto cioè una concezione nettamente  rivoluzionaria ». E continuava a migliore definizione del  concetto: « ...Quando i socialisti si sarebbero spaventati  al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere  borghese nello Stato e nella fabbrica, i futuristi, nel loro  campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari: in que-  sto campo, come opera creativa, è probabile che la classe  operaia non riuscirà per molto tempo a far di più di quan-  to hanno fatto i futuristi! »    L'11 luglio del '19 Marinetti otteneva un biglietto d'’in-  vito alla Tribuna di Montecitorio. Andò con Ferruccio  Vecchi, gran capitano, ad aspettare un momento opportu-  no per l’« intervento ». L'occasione fu data alla fine del  discorso di un deputato socialista (Lucci). Martinetti si  sporse e, rivolto a Nitti, gridò: « A nome dei Fasci di  Combattimento, dei futuristi, e degli intellettuali, prote-  sto per la vostra politica e vi urlo: Abbasso Nitti! Morte  al Giolittismo! Dichiaro che non può sussistere il Mini-  stero dei sabotatori della Vittoria, degli schiaffeggiatori de-  gli ufficiali, un ministero che si difende coi carabinieri e  coi poliziotti!.. Vergognatevi! La gioventù italiana, per  bocca mia, vi urla: Fate schifo! Fate schifo! ». Vecchi an-  cora inveisce a voce alta contro Nitti, mentre Marinetti  lotta con usceri e carabinieri, come descrive egli stesso nel  suo Futurismo e Fascismo di cinque anni dopo. L’indoma-  ni avrebbe ricevuto da D'Annunzio la presente missiva:    2R    « Mio caro Marinetti, bravo per il grido di ieri, coraggioso  come ogni vostro atto. Vorrei vedervi. Se potete, venite.  Il vostro Gabriele D'Annunzio ».    In settembre Mario Carli, con Mino Somenzi ed altri  futuristi, partecipano con D'Annunzio alla presa di Fiume  (11 del mese): vi si recheranno anche Vecchi e Marinetti  a tenere discorsi ai legionari. Anzi, i due personaggi sembra  fossero considerati, a dire di De Felice « facinorosi sovver-  sivi » o addirittura in qualche caso « bolscevici », per il  loro atteggiamento intransigente ed estremistico.° Tanto  che si era detto fossero stati espulsi da Fiume, mentre  erano stati solo richiamati da Paselia, segretario politico  dei Fasci, che aveva bisogno di loro per l'organizzazione,  forse, del primo congresso fascista. All'inizio di ottobre,  infatti, Marinetti partecipa a Firenze al I Congresso dei  Fasci di Combattimento dove, dopo l'intervento di Mus-  soltni, parla a futuristi, arditi e fascisti sostenendo la ne-  cessità dello « svaticanamento »: « Noi dobbiamo doman-  dare. volere, imporre », dice fra l’altro il capo del futu-  rismo, « l’espulsione del papato, o meglio ancora, per usa-  re un'espressione più precisa, lo “svaticanamento” ».    Nel novembre le elezioni generali vengono condotte a  Milano all'insegna del « blocco fascista » con lista autono-  ma di Mussolini, Marinetti (secondo), Toscanini, Podrec-  ca e Bolzon. Comizi elettorali si tennero a Milano in Piaz-  za Belgioioso (10 novembre) e in Piazza S. Alessandro e  a Monza, dove parlarono sempre « accoppiati » Marinetti  e Mussolini. Dopo il 16 novembre, giorno delle votazioni,  in seguito ad incidenti coi socialisti, Marinetti, Vecchi e  Mussolini furono atrestati sotto l'accusa di attentato alla  sicurezza dello Stato ed organizzazione di bande armate,  come afferma ancora il De Felice.    Breton e Aragon, direttori della rivista Littersture, or-  ganizzano a Parisi una manifestazione di solidarietà a Ma-  tinetti: sono i momenti di affermazione del dadaismo e del  muoversi, lento, verso il surrealismo.    Renzo De Felice, Mussolini i! Rivoluzionario, Gli incontri e gli scontri, oltre che gli incidenti, tra  socialisti e futuristi non etano cosa nuova. E la « battaglia  di Via Mercanti » del 15 aprile fu solamente il punto di  arrivo di una vecchia e lunga polemica.   Già negli anni prebellici il futurismo si era scontrato  col socialismo neutralista (Turati), che non poteva andar  d’accordo con un movimento intrinsecamente interventista.  Lacerba, per esempio, entrava nella polemica affiancandosi  al futurismo e pubblicando, il 15 ottobre del ’13, quel  famoso Programma politico futurista, esaminato in pre-  cedenza. La postilla di Giovanni Papini non fa altro che  convalidare, sia pure con riserva, la sostanza del pro-  gramma.   A proposito di socialismo interviene poi nel '14 sempre  sv Lacerba, Ardengo Soffici, affermando nel suo articolo  Per la guerra che « l’idea che i socialisti si fanno del mon-  do è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle prese  con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le  arti, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni —  tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente com-  plessa, così colorita, così varia, multiforme, incoetcibile —  non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l'universo intero una  specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,  eterna, in mezzo alla quale un ragno cetca di succhiare  una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che non  deve lasciarsi succhiare ». Sicché, conclude Soffici, i socia-  listi nemmeno capiscono che si combatte una guerra per  difendere anche, magari, le loro stesse idee, o il mondo  dove l’idea socialista è nata e cresciuta, contro i nemici  medesimi del socialismo e dei socialisti: i tedeschi. Ma  questo non ha nessuna importanza, « giacché, ed eccoci  alla mentalità di codesto partito, ogni buon socialista non  vede nella guerra, qualunque essa sia, se non una lotta di  capitalisti e banchieri contro capitalisti e banchieri i quali  si servono del proletariato per liquidare le loro partite ».    La polemica continua com'è logico, dopo la guerra.  Il primo ad accenderla è Mario Carli su Roma futurista  con un articolo del 13 luglio 1919, che ha un titolo signi-  ficativo: Partiti d'avanguardia: se tentassimo di collabora-  re? Laddove si considera « partito d'avanguardia », ovvia-  mente, anche quello socialista, che tanta parte ha esercita-  to nella storia d'Italia. « Ho esaminato seriamente l'ipo-  tesi », esordisce Carli, « di una collaborazione fra noi {futu-  risti, arditi, fascisti, combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti  d'avanguardia: socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti, re-  pubblicani... Il terreno comune c’è... E' la lotta contro le  attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chia.  mino borghesia e plutoctazia o pescecanismo o parlamen.-  tarismo... sono una casta che deve cadere e cadrà », E cad-  de infatti, come sappiamo, però non certo per merito di  quei socialisti con cui Carli stava cercando di trovate un  punto di contatto, sia pur rendendosi conto che la collabo-  razione sarebbe stata difficile per non dire impossibile o,  peggio, inutile.   Ciò nonostante Giuseppe Bottai farà eco alla sua tesi  con un paio di lunghi articoli: uno del 9 novembre e l'al.  tro del 21 dicembre 1919 entrambi col titolo Futurismo  contro socialismo, il cui succo riesce già evidente. « Noi  siamo contro il socialismo », afferma Bottai, « perché astra-  zione filosofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo  che si agifa nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovato,  e mai si troverà la formula di traduzione in positivi sviluppi  di masse sociali... Noi siamo contro l’idea socialista perché  sosteniamo la necessità della diseguaglianza... Siamo con-  tro il socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria ».   Ii 14 dicembre sempre del 1919, tuttavia, certo Man-  narese, avversario, pubblica un articolo per espotre l’impos-  sibile intesa fra le due avanguardie, o l'impossibilità di ac-  cordo in unione d’intenti e di lavoro. Il Mannarese sotto-  linea l'identità di socialismo e masse proletarie con loro  relative e legittime aspirazioni. Romza futurista non gli ne.  sa spazio, ospitandolo apertamente e liberamente.   Ci pensa Bottai a rispondere e confutare Mannarese  col suo secondo articolo preciso ed aggressivo. Il titolo:  Insisto: futurismo contro socialismo; la data, 21 dicembre  dello stesso anno. La posizione polemica si specifica e si    SAI       puntualizza: « Prima caratteristica del futurismo è questa,  libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci  crede oggi difensore dei suoi salami, delle sue salsicce, poco  male! ciò potrà darci la prova della sua minchioneria, non  già infirmare l'esattezza del grido “futurismo contro socialismo” ».   L’intonazione antibotghese è evidente e forse si spo-  sa, per così dire, con quella antisocialista, essendo l'una  complementare all'altra, e viceversa. Non si può essere  antisocialisti senza essere antiborghesi, e viceversa non si  può essere antiborghesi senza essere antisocialisti, sembra  quasi che dica Giuseppe Bottai, e l’invettiva contro il sa-  lumaio non ha nient'altro che questo sapote...    L'equazione « socialismo-proletariato », sostenuta dal  Mannarese, è vacua e falsa, dice Bottai, e bisogna distin-  guere, perché va da sé, afferma, che «il socialismo è uno  dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo è mondo, si  accaniscono sulla disparità di condizioni delle classi ». Lo  esempio dato poi, del fenomeno dell’arditismo, è quanto  meno sufficiente e significativo a smentire una tesi tanto  inutile. Infatti, « in parecchi mesi di convivenza con le  fiamme nere mi son trovato attorno solo contadini, ope-  rai, lavoratori-proletari! »; e gli arditi non erano certo so-  cialisti, anzi. Tuttavia l’autore è ben consapevole della  « portata economica » del socialismo e nello stesso tempo  delle esigenze dei ceti umili o dei proletari, e degli scompen-  si derivanti da queste esigenze anche per la loro « cattura »  da parte di un socialismo ignorante e incapace.   L'individuazione dell'errore di dimensione del sociali  smo è evidente, nonostante i successi già conseguiti. Tanto  che, concludeva il Botrai, nel cogliere le possibilità della  formazione di un letale assolutismo, con la postulazione del-  la differenziazione futuristica da esso, intesa nella diffusione  di programmi e di rimedi economici: « Noi siamo per la  elevazione del popolo, e non per l'assolutismo di esso ».  Dove « il nai », è evidente, si riferisce ai futuristi ed al  loro movimento.    « Tirando le somme », alla fine, si postula petsino un  programma, quasi, nei rapporti col socialismo, di cui i    32    punti più interessanti sono il secondo ed il quarto, cioè  l'ultimo. Il secondo postilla una « possibile comunanza di  vedute economiche: il che non implica nessuna fusione »;  l'ultimo sostiene e ribadisce, sottolineandolo tutto in maiu-  scolo: « CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOLE DI-  RE CONTRO IL PROLETARIATO ».   La miopia del socialismo nella considerazione dei futu-  risti appare evidente e inequivocabile. E si parla del so-  cialismo dei primi del secolo, quello storicamente più « ca-  pace » di quanto non lo sia l'attuale, e consono ad una  realtà « epocale » ad esso, tutto sommato, più favorevole.  L’esito del socialismo italiano, confluito in massima parte  nel fascismo, non fa che confermare l'opinione o l’ipotesi  dei futuristi, che avevano saputo vedere la sua « minima  portata » da inserire, eventualmente, nel panorama di una  prospettiva ben più vasta e diversificata. A Fiume Gabriele D'Annunzio dà alla luce la sua  « Carta del Carnaro ». Siamo agli inizi del ’20 e la nuova  proclamazione statutaria sarà base fondamentale per la suc-  cessiva politica sindacale fascista (si veda la Carta del La-  voro ad esempio). Sempre a Fiume Mario Carli dirige il  nuovo foglio di vita istriama La Testa di Ferro, sulle cui  colonne (la seconda, per l'esattezza, della prima pagina) ;l  12 settembre esce un riquadro firmato da Marinetti. Che  così commenta la Prima vittoria della quindicesima batta-  glia, come dice il titolo della pagina: « Nell’applaudite oggi  D'Annunzio, liberatore di Fiume, penso che questo mera-  viglioso genio riassuntivo della nostra razza, uscito dalle  alcove del Pizcere... dopo aver esplorato le profondità del  la lussuria... ha logicamente... strappato Fiume all’imperia-  lismo europeo e americano, ed ora deve, seguendo la linea  della sua fortuna inesauribile, logicamente, con genio sem-  pre più rivoluzionario e futurista, liberare Roma dal Pa-  pato e dalla Monarchia, e creare la grande Repubblica Ita-  liana ». Siamo di fronte aul'« ittedentismo integrale » che i futnristi sostenevano contro l’« irredentismo mutilato » di  Bissolati, favorevole al Patto di Londra. Di cui il movimento  per contro chiedeva un’« estensione », oltre che una modi-  ficazione del Patto di Roma in modo che si potesse favo-  rire l’inserimento italiano sulla costa dalmata e garantire  all'Italia l'egemonia sull’Adriatico. Il Trattato di Rapallo,  poco dopo, dichiarerà Fiume «città libera » ed assegnerà  Zara all'Italia.    11 24 e 25 maggio dello stesso anno si tiene a Milano  il IX Congresso dei Fasci di Combattimento, che segna una  svolta del movimento o anche — si potrebbe dire — una  sua conversione in senso « conservatore ». Si assiste ad un  parziale ma consistente ricambio del nucleo dirigente fa-  scista. Solo 10 membri su 19 del comitato centrale eletto a  Fitenze vengono riconfermati: tra essi Marinetti e Ferruc-  cio Vecchi.    Mussolini sostiene un nuovo indirizzo: l'accordo fra  proletariato e borghesia produttiva, tipico di quel fascismo  « provinciale » che stava prendendo il sopravvento. Mari-  netti reagisce confermando la sua intransigenza antimonar-  chica ed antipontificia. I Fasci di Combattimento, come  riporta ancora il De Felice, avrebbero dovuto, secondo  Marinetti, iniziare « una politica decisa in difesa delle ri-  vendicazioni proletarie, appoggiando e scioperi e agitazio-  ni che siano fondati o formulati su un principio di giu-  stizia ». Mussolini aveva cercato di replicare che i Fasci  « hanno anzi aiutato gli scioperi che avevano un chiaro  contenuto economico », ma aveva sottolineato di non po-  ter accettare la pregiudiziale antimonarchica e: « Quanto  al Papato, bisogna intendersi: il Vaticano rappresenta 400  milioni di uomini sparsi... Io sono, oggi, completamente  al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono  problemi politici. Racconta lo stesso capo del  futurismo nel suo volume Futurismo e Fascismo pubbli  cato quattro anni dopo, « Marinetti e alcuni capi futuri-  sti escono dai Fasci di Combattimento, non avendo potuto imporre alla maggioranza fascista la loro tendenza  antimonarchica e anticlericale ». Gli altri «capi futuristi» sono Mario Carli e Neri Nannetti, appena eletto a  Milano come membro del comitato centrale per Firenze.  Ferruccio Vecchi si allontanò dai Fasci poco dopo, anche  per la crisi interna che stava attanagliando l’« Associa-  zione fra gli Arditi d’Italia ».   La spaccatura risulta evidente all'uscita dell’opuscalo  Al di là del comunismo, pubblicato in agosto da Marinetti,  per giustificazione alle sue dimissioni ed in risposta allo  svuotamento della portata rivoluzionaria, o futurista, dei  Fasci di Combattimento. Al di lè del Comunismo sarà  la sua seconda opeta politica (dopo Democrazia futurista,  del ’19), quella più ricca di spunti e di idee: quella, in-  somma, sua fondamentale.   L'opera è dedicata sul colophox « Ai futuristi francesi,  inglesi, spagnoli, russi, ungheresi, rumeni, giapponesi »:  it che esprime già tutto un programma. Fra le sue tesi,  dd esempio queste: « Noi futuristi abbiamo stroncato tut-  te le ideologie imponendo dovunque la nostra nuova con-  cezione della vita, le nostre formule d’igiene spirituale,  il nostto dinamismo estetico, sociale, espressione sincera  dei nostri temperamenti d’italiani creatori e rivoluzionari...  L'umanità cammina verso l'individualismo anarchico, me-  ta e sogno di ogni spirito forte. Il Comunismo invece è  una vecchia formula mediocrista, che la stanchezza e la  paura della guerra riverniciano oggi e trasformano in mo-  da spirituale... La storia, la vita e la terra appartengono  agli improvvisatori. Odiamo la caserma militarista quanto  la caserma comunista. Il genio anarchico deride e spacca  il catcere comunista ».    Fu questo passo a provocare la reazione dell’Ardito?  Che ben presto si fece sentire, a più riprese, per deni-  grare il volumetto marinettiano, mentre al contrario La  Testa di Ferro ad opera di un gruppo di futuristi fiumani  (e di Mario Carli, ardito a sua volta) elogiava pubblica-  mente ed ardentemente il nuovo testo. Bottai, già futu-  tista, interverrà ben presto (sul n. 35 dell’Ardito) con  una «lettera aperta a F.T. Marinetti » per mettere in ri-  salto la sua posizione critica all’atteggiamento anarchicheg-  piante dello scritto, inconciliabile con qualunque espressione di potere, sia pur di tipo « tecnico », come quello  a suo tempo proposto dallo stesso « padre » del futuri  smo. L'attacco di Bottai è senz'altro il più autorevole e  i] più significativo.   L'ideologia del fascismo-regime (da parte di un mini  stro in pectore come Bottai) cominciava già a farsi sen-  tire. E si chiudeva, ovviamente, almeno sul terreno sto-  rico della prassi politica, l'ideologia del fascismo-movi-  mento, quello dell’intransigenza e del fervore mistico, del  libertarismo e dell'avanguardia, dell'anarchismo e dell’an-  tiautoritarismo verso la monarchia ed il papato. Il pos-  sibilismo politico e il realismo tattico per la conquista  del potere subentrano e il fascismo-regime si muove or-  mai, anche se lentamente, sotto la guida del suo abile e  « compromesso condottiero ».   A Marinetti non restano che le dimissioni, e dopo il  suo « canto del cigno » politico (Al di là del comunismo),  il ritorno alla letteratura.    10. La dimensione futurista    Nel 1921 esce a Piacenza per i tipi dell'Editore Porta  il volume di Francesco Flora Dal Romanticismo al Fu-  turismo. Il giudizio più interessante è senz’altro quello  di Luigi Russo, che così si esprime al proposito: «Il  Flora, mentre vi grida il superamento sillogistico dell’ar-  te decadente, la guarigione del suo spirito dal generale  futurismo, passa poi egli stesso a fare troppo rumorosa  e compiaciuta mescolanza con quell'arte e con quel futu-  rismo ». Pirandello pubblica nello stesso anno I sei per-  sonaggi in cerca d'autore. Marinetti sostiene che sono  ispirati al futurismo e al suo spirito creatore. Il con-  gresso socialista di Livorno si spacca, e dalla scissione  si forma il neonato partito comunista. A Catania vede  la luce la nuova rivista futurista Heschisch.   Nel 1922 il fascismo salirà definitivamente al potete.  Marinetti fonda una nuova rivista, I{ Futurismo, che di-  rige in prima persona. A Berlino sarà poi tradotta in edizione tedesca (Der Futurismus), a cura di Ruggero Va-  sari. Bragaglia fonda a Roma il Teatro Sperimentale de-  gli Indipendenti, primo teatro stabile italiano, da Ivi di  retto fino al ’36: metterà in scena duecento opere d'’avan-  guardia fra quelle di autori italiani e stranieri. A_ Monza  si crea l’Istituto Superiore delle Arti decorative, trasfor-  mato poi in Biennale e dal ’30 definitivamente in Trien-  nale, con sede nel palazzo di Milano (al parco, arch. Mu-  zio). Mussolini, dopo la marcia su Roma del 28 ottobre,  forma il governo con radicali e liberali, e istituisce il Gran  Consiglio del Fascismo.    Giuseppe Prezzolini, come sempre lucidamente, poco  prima del « grande ritorno » del futurismo al fascismo,  metteva ancora una volta in risalto «come possa l'arte  futurista andare d'accordo con il Fascismo italiano, non  si vede. C'è un equivoco, nato da una vicinanza di per.  sone, da un’accidentalità d’incontri, da un ribollire di  forze, che ha portato Marinetti accanto a Mussolini. Ciò  andava bene durante il periodo della rivoluzione. Ciò  stona in un periodo di governo. Il Fascismo italiano  non può accettare il programma distruttivo del Futuri  smo, anzi, deve, per la sua logica italiana, restaurare |  valori che contrastano al Futurismo. La disciplina e la  gerarchia politica sono gerarchia e disciplina anche lette-  raria. Le parole vanno all’aria quando vanno all'aria le  gerarchie politiche. Il Fascismo, se vuole veramente vin-  cere la sua battaglia, deve ormai considerare come as-  sotbito il Futurismo in quello che il Futurismo poteva  avere di eccitante, e di reprimerlo in tutto quello che  esso consetva ancora di rivoluzionario, di anticlassico, di  indisciplinato dal punto di vista dell’arte » (da I/ Secolo,  3 luglio 1923).   Nel marzo dello stesso 1923 s'inaugura alla Galleria  Pesaro di Milano una mostra dell'« Arte del Novecento ».  Si trattava di un gruppo formatosi alla fine del ’22 in-  torno alla medesima galleria milanese, che affiancava la  nuova tendenza del regime in senso conservatote, già san-  cita dal 2° Congresso Fascista (Milano, maggio 1920).  L'animatrice del nuovo movimento « Arte del Novecen-    37    to» era Margherita Sarfatti. Il gruppo fu accolto, nean-  che due anni dopo dalla sua costituzione, alla Biennale  veneziana del ’24, e si affermò definitivamente attraverso  due ulteriori mostre: una del '26 al Palazzo della Perma-  nente a Milano, e l'altra del ’29 alla Galleria Pesaro,  sempre a Milano. I futuristi invece, rimasti esterni al  regime e aderenti ancora, in fondo, all'avanguardia, fu-  rono ammessi alla Biennale solo nel ’26, e fuori dal pa-  diglione italiano additittura. All'inaugurazione della Biennale, Marinetti  si rivolge al Re, a Venezia in visita ufficiale, e gli de-  nuncia gridando «l’incapacità senile e antitaliana della  Direzione, che massacra i giovani artisti italiani ». L’in-  tervento di Marinetti suscita scandalo. Tuttavia nello stes-  so anno 1924 si verifica anche un cetto riavvicinamen-  to tra futurismo e fascismo, e forse anche tra Marinetti  e Mussolini. L’occasione viene data dall’edizione della  terza ed ultima opera politica del capo futurista, che, co-  me già detto, s'intitola Futurismo e Fascismo, ed esce  a Foligno per i tipi dell'Editore Campitelli.    Ancora nello stesso anno escono diverse altre signifi-  cative testate, futuriste ma anche fasciste. Mino Maccari  fonda I! Selvaggio (organo del fascismo strapaesano) ed  Enzo Benedetto a Reggio Calabria pubblica il foglio fu-  turista Originalità, da lui stesso direrto: compaiono fra  i suoi collaboratori Marinetti, Jannelli, Nicastro e Sanzin,  Quest'ultimo scrive un saggio su Marinetti e il futurismo.  Gerardo Dottori, altra collaboratore di Originalità, crea  le prime aeropitture, che si affermeranno in seguito come  espressioni del « secondo futurismo ».    A Milano si tiene il Primo congresso futurista e So-  menzi vi organizza le onoranze nazionali a Marinetti.  Siamo al 23 di novembre 1924, ore 10, al Teatro Dal  Verme di Milano. Mino Somenzi legge il telegramma di  Mussolini: « Considerami presente adunata futurista che  sintetizza 20 anni di grandi battaglie artistiche politiche  spesso consacrate col sangue. Congresso deve essere punto  di partenza, non punto di arrivo. Credi mia cordiale ami-  cizia e ammirazione ». Alle 16 parla Marinetti, che conclude i lavori del congresso, così rivolgendosi all’indirizzo  del « duce »: «I futuristi italiani, primi fra i primi in-  terventisti nelle piazze e sui campi di battaglia, e primi  fra i primi diciannovisti più che mai devoti alle idee ed  all'arte, lontani dal politicantismo, dicono al loro vecchio  compagno Benito Mussolini: Con un gesto di forza ormai  indispensabile liberati dal parlamento. Restituisci al Fa-  scismo ed all'Italia Ia meravigliosa anima diciannovista,  disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale, antimo.  narchica. Concedi alla Monarchia soltanto la sua provvi-  sotia funzione unitaria, rifiutale quella di soffcare o mor.  finizzare la più grande, la più geniale e la più giusta Italia  di domani. Non imitare l’inimitabile Giolitti, imita il  Grande Mussolini del diciannove. Pensa sempre all’Italia  immortale ed al Carso divino. Schiaccia l'opposizione cle.  ricale antitaliana di Don Sturzo, l'opposizione socialista  antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di A’  bertini con una ferrea dinamica aristocrazia di pensiero  armato che soppianti l’attuale demagogia d’armi senza  pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo volerlo  e lo vogliamo ». Lo vollero, ma non lo realizzarono. La  volontà può essere bella, ardita, ispira ai più alti sensi  di giustizia, anche se non sempre la realizzazione le tiene  dietro. Come in questo caso.   Mussolini telegrafa ancora il 1° marzo del ’25 ad un  banchetto « romano » offerto da Carli e Settimelli a Ma:  rinetti: « Sono dolente di non poter intervenire al ban:  chetto ofterto a F.T. Marinetti. Ma desidero che vi giun-  ga la mia fervida adesione che non è espressione formale  ma vivo segno di grandissima simpatia per l’infaticabile  e geniale assertore di Italianità, per il poeta innovatore  che mi ha dato la sensazione dell'oceano e della macchi-  na, per il mio caro vecchio amico delle prime battaglie  fasciste, per il saldato intrepido che ha offerto alla Pa  tria una passione indomita consacrata dal sangue ». Ma.  rinetti si era già trasferito a Roma con Benedetta. La  capitale diveniva così anche centro del futurismo. In que.  sta stessa occasione Marinetti dichiarava, un'altra volta  inascoltato: « Vi sono in Italia forze che osteggiano la nostra idea imperiale, combattiamole, non dimenticando  però fra queste la più segreta e la più antitaliana: il  Vaticano! ».   Un discorso di Mussolini alla Camera (3 gennaio 1925)  dà inizio al vero fascismo-regime. A Tortino si tiene a  Palazzo Madama un'esposizione nazionale futurista. La  tendenza al riavvicinamento ira i due movimenti è già  indicata nella dedica di Futurismo e Fascismo: « Al mio  caro e grande amico Benito Mussolini ». Il che dimostra,  in fondo, una certa volontà di non troncare i contatti: ma  anche gli scritti raccolti, gli articoli e le tesi sostenute  sono di tipo più che altro conciliativo. Mussolini vi è  definito « meraviglioso temperamento futurista »: e non  risuoni però ad adulazione, perché il tentativo di recu-  pero del futurismo in senso artistico e letterario (o cul  turale in senso lato) è evidente, nonostante l'occasionale  « dimensione » del movimento nell'attività e nell'impegno  politico. Non senza motivo, il volume prende inizio con  queste parole: «Il Futurismo è un grande movimento  antiflosofico e anticulturale di idee, intuiti, istinti, pu-  gni... ». E subito dopo: « Fra le tante definizioni io predi-  ligo quella data dai teosofi: “I futuristi sono i mistici  dell’azione”. Infatti i futuristi hanno combattuto e com-  battono il passatismo... ». Il nuovo regime e la portata  storica di realizzazione di quello che si considera il patri-  monio del futurismo è così giudicato: « Vittorio Ve-  neto e l'avvento del Fascismo al potere costituirono la  realizzazione del programma minimo futurista ». Dove si  dimostra in fondo la connessione inscindibile tra futuri.  smo e fascismo, ma nello stesso tempo il distacco, in  questa realizzazione « minimale »; comunque la mancanza  di coincidenza totale delle entità ideali dei due blocchi.    « Questo programma minimo », specifica ancora Ma-  rinetti, « propugnava l'orgoglio italiano... la distruzione  dell'impero austro-ungarico, l’eroismo quotidiano, l'amore  del pericolo... ». Ma, alla fine, quello che più conta è  che «il Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che  ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha nulla  a che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello bolscevico del Futurismo russo, divenuto arte di Stato ».  Il futurismo italiano fu sempre italiano, non mai italiano  di Stato.   « Il futurismo », afferma ancora il nostro, «è un mo-  vimento artistico e ideologico. Interviene nelle lotte po-  litiche soltanto nelle ore di grave pericolo per la Nazio-  ne », E un'altra volta a migliore definizione della posi-  zione concettuale o della sua immagine: « Il Fascismo  nato dall'interventismo e dal Futurismo si nutrì di prin-  cipî futuristi... Il Fascismo opera politicamente... Il Fu-  turismo opera invece nei domini infiniti della pura fan-  tasia, può dunque e deve osare osare osare sempre più  temerariamente. Avanguardia della sensibilità artistica ita-  liana, è necessariamente sempre in anticipo sulla lenta  sensibilità delle masse ».    La consapevolezza della difficoltà del consenso è più  che sentita, ed è convinzione al tempo stesso che il fa-  scismo sia più capace di farsi accogliere o di comunicare  certe necessità, e certi principî. E la convinzione implica  la coscienza che sia il fascismo ad aver raccolto © mutuato  idee e « posizioni » dal futurismo, solo ed esclusivamente.  Senza che mai sia avvenuto il contrario. Ed appare evi-  dente, perché non viene mai fatto cenno a questa secon-  da ipotesi: che cioè sia stato il futurismo ad attingere  al fascismo. Anche se affiora l’« autocritica », l’interroga-  zione, il domandarsi sotterraneo della coscienza...    « Il lettore domanderà: “Ci sono idee futuriste su-  perate o da scartarsi, oggi?” Nulla da scartare. Le idee  vittoriose tengano fermamente le posizioni conquistate.  Per esempio questo principio: “Noi vogliamo glorificare  la guerra, sola igiene del mondo... le belle idee per cui  si muore e il disprezzo della donna”, fu una pietrata fe-  roce ma necessaria nel pantano letterario di sentimenta-  lismo dannunziano sulle cui rive singhiozzavano i gio-  vani malati di luna e di donne fatali ».   La condanna della decadenza di un romanticismo fiac-  co e sdolcinato che ha irretito la realtà della Penisola è  quanto mai chiara ed evidente. E la volontà di scuoterla  per una necessità di spirito, per una volontà di resurrezione, per una coscienza ancora viva di grandezza e di  capacità creativa e rinnovatrice, porta inevitabilmente allo  scontro e alla conflagrazione, quella della guerra, che è  guerra di sentimento e di volontà, prima ancora che di  occasione politica.    « Oggi », continua Marinetti, « l'Italia è piena di gio-  vani forti e sportivi. Ma molti purtroppo sacrificano ad  una donna la loro volontà di conquista e l'avventura...  Dopo Vittorio Veneto io predicai la necessità per ogni  combattente di diventare un cittadino eroico... Oggi esi-  ste uno Stato fascista che tutela il diritto individuale.  Ma bisogna alimentare ancora lo spirito del cittadino eroi-  co, amico del pericolo e capace di lotta, poiché occorretà  improvvisare domani gli indispensabili volontari della nuo-  va guerra. Questa, lo ripeto, è certa, forse vicina. Perciò  è sempre vivo il grido futurista: glorifichiamo la guerra  sola igiene del mondo! Il Futurismo interprete delle for-  ze telluriche, il Futurismo, manometro della nostra pe-  nisola (caldaia bollente!), odia i macchinisti incapaci. Si  palesano tali i culturali d’Italia che verniciati di patriot-  tismo parlano oggi d’Impero, con un'anima pacifista pron-  ti ad imboscarsi al minimo pericolo. Essi ignorano che  Impero significa guerra. Votrebbeto conquistarlo con una  lezione sulla Roma Imperiale! ». Ecco, ancora, la coscien-  za di cui parlavamo prima: quella della curiosità anti-  quaria di una cultura d’accatto non più in grado di te-  nere il passo della storia e di muovere lo spirito della  giovinezza vittoriosa. Marinetti lo coglie e lo esptime in  una testimonianza, ancora una volta, di vita e di speran-  za, che è vita perché è speranza del futuro.    « Noi futuristi parliamo d’Impero convinti e lieti di  batterci domani... Parliamo d’Impero perché è venuto per  l’Italia il momento di prendere le tetre indispensabili...  IÎ programma politico futurista lanciato l’11 ottobre 1913  che propugnava una politica estera cinica astuta e aggres-  siva è più che mai di attualità. Le idee vittoriose tengano  fermamente le posizioni conquistate. Le nuove idee si  slancino all'assalto. Marciare non matcite! ». Firmato: F.T.  Marinetti.    42    Il futurismo ha dimostrato di voler procedere sulla  strada del nuovo: il fascismo lo ha accolto ed ha accon-  disceso, almeno fino a un certo punto, al suo messaggio.  Oltre è stato frenato, forse, non solo dal « borghesismo »,  ma anche da quel socialismo, che avanti non è mai stato  capace di andare e che di nuovo ha portato solamente  vuote formule e fantasmi. Non così il futurismo, ben ade-  rente al reale, e capace di ritirarvisi anche, nel caso di  inadempienza (o di mancanza di corrispondenza) della  realtà ai suoi messaggi.   Marinetti docet, proprio con quel fascino che aveva  voluto, o con cui aveva marciato, e in cui aveva creduto  senza marcire mai, nemmeno nell’auge del regime, quan-  do avrebbe potuto sedersi sulle comode poltrone di un  otmai «arrivato » futurismo di «destra ». Ma il futuri-  smo per Marinetti era e rimaneva comunque movimento  d'avanguardia artistica e culturale, nonostante gli agganci  più 0 meno politici, più o meno di regime, e nonostante  l'amicizia con Mussolini, che poteva anche essere un « fu-  turista », ma era e doveva essere prima di tutto il capo  dello Stato e il « duce del Fascismo ». E il fascismo ave-  va preso e doveva tenete ormai una certa linea, molte  volte non gradita, o valida, per il futurismo, ed anzi pro-  prio al contrario.   La gloria di Roma rievocata nel monumentalismo  classicheggiante, il novecentismo ricalcante vuoti modelli  di un fasullo rinnovamento filotradizionale, la riesumazio-  ne del mito della storia come copia di grandezza e no-  vella misura di falsa gloria, erano tutti temi aborriti da  Marinetti proprio perché segni ed indici di « passatismo »,  messaggi sterili di una mentalità ferma e statica, incapace  di dare alcunché di vitale all'Italia in movimento. Ma-  rinetti era invece, e rimaneva, anche nel fascismo e no-  nostante il fascismo, « futurista », come lui amava defi-  nirsi, e come lo rimanevano anche altri, non tutti però,  anzi forse troppo pochi. Marinetti, quindi, futurista, e futurista nonostante tut-  to, fu forse fascista solo ed esclusivamente per quel che  il futurismo poteva consentirgli di essere. Ma fu anche  grande oratore Marinetti, e fu oratore d’arte, oratore di  genio letterario e improvvisatore della parola, più 0 me-  no libera o in libertà che fosse.   Mussolini fu oratore politico e parlava, anche, nella  ricerca del consenso. Marinetti invece fu poeta, e parlava  per stimolare la curiosità, per muovere l'incanto  del-  l'espressione. La sua oratoria fu essenzialmente artistica,  il suo discorso fu culturale e poetico. Mussolini forse  in parte la imitò, sempre attenendosi all’oratoria politica  e trasformando il messaggio letterario in presenza ideo-  logica e in colloquio « popolare ». Forse qui sta inoltre  la differenza fra i due movimenti: il futurismo avanguar-  dia di rottura e il fascismo sistema di potere. Anche se  il primo l’aveva spinto e sorretto nella sua azione di con-  quista. Il fascismo è allora per un suo aspetto futurista,  e non invece il contrario. E' la realizzazione di quel « pio-  gramma minimo futurista » che abbiamo già esaminato.  E Mussolini si può dire fosse stato anche futurista, o  comunque molto vicino al movimento di Marinetti. E  gli era stato anche amico, o c’era stata una reciproca  comunanza di sentimenti, che non esula dall’amicizia.   Ma Mussolini era stato anche socialista, anzi lo era sta-  to davvero e « fino in fondo ». Che fosse anche per que-  sto che i futuristi non potevano essere completamente  fascisti? O non si potevano identificare completamente  nel regime? Almeno i futuristi autentici, quelli più « idea-  listi ».   Il futurismo era stato sempre e comunque antisocia-  lista, in modo integrale, totale come si è visto. E lo era  stato dall’inizio antisocialista, per la sua posizione cultu-  rale, per il suo intendimento antimilitaristico ed antiegua-  litario, per il suo slancio antipassatista di svecchiamento.    Lo schiaffo ed il pugno, la velocità e l’aggressione,  la lotta e la vittoria erano tutti temi o motivi antisocia    44       listi. Il fascismo, nonostante tutto, era meno antisocia-  lista. In primo luogo per le origini del suo capo, per la  sua formazione-estrazione, per i suoi intendimenti di  visuale che non si erano spenti del tutto, ma si erano  solo attenuati e modificati: e si erano travasati, anche,  nella novità del futurismo.    Comunque, e malgrado questo, il fascismo rimase e  resta agli atti della storia un «movimento di massa »,  una « realtà sociale », un fenomeno popolare, un sistema  del numero in scala comunitaria e nazionale: questo è  acquisito, ed è incontestabile. E non può essere confutato  dagli storici seri. Mussolini lo volle e lo promosse que.  sto « popolarismo » e, se vogliamo anche, riuscì lenta.  mente e gradatamente ad «imporlo ». Ma non volle mai  l'uguaglianza o il livellamento, e cercò sempre di favo.  rire la distinzione dell’individualismo. Lo stimolo stesso  alla competizione nel campo dell’arte e l’amicizia con  l’amico-nemico Marinetti ne sono garanti. L’amicizia fra  i due personaggi non fu esclusivamente un fatto episo-  dico o della prima ora; fu un fatto profondo e vitale,  forse inalienabile ed « assoluto ». E durò, a controprova  del vero, fino alla morte.    Quando Marinetti, reduce dalla guerra di Russia per  cui si era arruolato volontario (malgrado i suoi 64 anni),  aderiva alla Repubblica Sociale Italiana dopo i tragici fatti  dell’armistizio, dimostrava sino all'ultimo fede ad un’ami-  cizia e ad un'idea, comunque e nonostante tutto. Mari-  netti era partito per la Russia all’insegna della coerenza,  non potendo contraddire il suo messaggio della guerra  « sola igiene del mondo ». Messaggio che anche il « duce »  aveva sentito, forse tragicamente e forse fuori tempo. Ma  lo aveva comunque sentito, e l’amicizia con Marinetti e  la sua nomina ad Accademico d'Italia lo dimostra. Quan-  do avrebbe benissimo potuto « bruciarlo ». E aveva an-  che sentito che il nuovo secolo richiedeva un cambiamen-  to, che si doveva in qualche modo maturare.    Volle promuoverlo e accelerarlo (da « futurista »?), in-  tervenite e spingere l'avanzata fino all'assurdo. Ne rimase  coinvolto e definitivamente « inghiottito ».  Marinetti si era salvato, e con se stesso aveva salvato  la poesia.    La guerra (leggi: politica) non poteva averla distrutta.  In età avanzata era rientrato a vivere brevemente, a lot-  tare fino all’ultimo per consegnare a Venezia un messag-  gio, quello vitale e ineliminabile « verso il futuro ». I suoi  discepoli lo accolsero come un testamento e qualcuno lo  trasmette ancora per testimonianza. Nonostante la trasmu-  tazione dei tempi e le difficoltà del presente. Lo docu-  menta ancora per la verità storica e per la risonanza del-  l'oggi. E, forse, per un nuovo futuro di domani.    12. Sindacalismo futurista    II fascismo aveva creato la « Carta del Lavoro », che  ricalcava a sua volta quella ptima espressione originale  di emissione statutaria d’impronta sociale, che era stata  la dannunziana « Carta del Carnaro ». Ma già prima i  futuristi avevano inteso una «loro » sindacalizzazione in  senso artistico, ed avevano ancora una volta concepito un  manifesto. Si tratta del manifesto al governo fascista del  1° maggio 1923 intitolato I diritti ertistici propugnati  dat futuristi italiani.   I diritti rimasero in gran parte sulla carta, ma l’in-  tenzione era evidente: quella di creare una specie di « car-  ta sindacale » per la costituzione dei « sindacati artistici  futuristi », atti alla difesa ed all'assistenza degli artisti  eventualmente bisognosi. Oggi quel poco che offre il sin-  dacalismo dell’arte è dovuto per lo più al sindacalismo  futurista e, in parte, a quello fascista. Ma l'idea del mu-  tuo soccorso e della solidarietà del lavoro era già pre-  sente nella mentalità futurista, orientata sempre verso  giustizia (in questo caso, giustizia dell’arte). Il proleta-  riato delle rappresentanze artistiche è fatto ben noto, e  non da oggi: non ne furono esenti i futuristi, che anche  in questo senso furono rivoluzionari veri e propri, e cercatono comunque il rinnovamento. E vollero un’istituzio-  ne che li garantisse dalla loro precarietà, dalle loro dif-  ficoltà e dalla loro miseria.   La «Banca di Credito» per artisti fu iniziativa di  Marinetti, in seguito approvata e patrocinata dal « duce ».  Che così rispose per l’occasione all'amico futurista: « Mio  caro Marinetti, approvo cordialmente la tua iniziativa per  la costituzione di una Banca di Credito specialmente per  gli Artisti. Credo che saprai sormontare gli eventuali osta-  coli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo questa lettera  può servirti di viatico. Ciao, con amicizia. Mussolini ».   Si trattava di una vera € propria forma di « assicu-  razione del denaro » che doveva favorire gli artisti, o sod-  disfare le loro necessità. Ma non solo Îa costituzione della  Banca di Credito chiedeva il manifesto del ’23, firmato  da Martinetti « per la direzione del movimento-futurista e  per tutti i gruppi futuristi italiani ». Si volevano anche  realizzare: 1) Difesa dei giovani artisti italiani novatori  in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato,  dai Comuni e private... 2) Istituti di credito artistico ad  esclusivo beneficio degli artisti creatori italiani [dove si  propone l’apertura d’istituti di credito per la sovvenzio-  ne di artisti, manifestazioni artistiche ed Istituti d'arte.  Tali istituti si manterrebbero con la buona volontà degli  aderenti, se privati, o con imposte sui redditi di guerra,  pet esempio, se statali. Le opere d'arte depositate co-  stituirebbero valorizzazione fruttifera per l’artista medesi-  mo, ecc., n.d.r.]... 8) Agevolazioni agli artisti [tramite  il riconoscimento legale dei diritti d’autore, la riduzione  del 75% della tariffa per i viaggi degli artisti e il tra-  sporto delle loto opere, l'abolizione delle tasse doganali  nell’importazione ed esportazione delle opere d’atte, il  catico sull’assicuratore delle spese per lettere di cambio  o assicurazioni delle opere d’arte, ecc..., n.d.r.]. Come  si vede i futuristi guardavano sì al futuro, ma stavano  ben calati nel presente e cercavano di opetare e di agire  di; presente pet migliorare e per rendete più giusto il  uturo. Col « ritorno all’ordine », come si definisce dagli sto-  rici l'affermazione del fascismo e la sua lenta istituziona-  lizzazione in regime, si parla anche di modifica del futu-  rismo 0 di suo adeguamento ad una nuova realtà siste-  matica e organizzativa, conseguita al periodo rivoluziona-  rio; e si chiacchiera ancora di «secondo futurismo ».  Anche se il futurismo, primo o secondo che fosse, non  ha mai avuto a che fare con l'istituzionalizzazione del  l'arte nell’« ordine fascista ». Dice il critico Enrico Cri-  spolti in un suo saggio, e lo asserisce in modo catego-  rico e definitivo: « In questo senso è politicamente inam-  missibile e culturalmente scorretta una liquidazione del  Secondo Futurismo in quanto collusivo out court con  il fascismo »’.   Ma come si atriva a questa seconda definizione del  movimento? E poi eventualmente alla sua « demonizzazio-  ne » 0 « fascistizzazione » in senso politico?   Avevamo già visto nel ’24 Gerardo Dottori « prova-  re» le sue prime aeropitture. Nel frattempo i futuristi  continuano a scambiarsi esperienze ed a lavorare intensa-  mente. È ad esporre spesso e volentieri, anzi velocemen-  te e freneticamente, « alla futurista ». Nel 1926 vengono  invitati diversi futuristi italiani alla International Exhibi-  tion of Modern Art di New York. Nello stesso anno  alla IX Biennale d'Arte di Reggio Calabria espongono  Depero, Tato, Benedetto, Rizzo, Fillia e Dottori. A_Mi-  lano intanto al Palazzo della Permanente si allestisce la  seconda mostra, che abbiamo già visto, del Novecento,  ormai in auge e prossimo ad assurgere ai fasti della glo.  ria del potere. C'è anche la dichiarazione ufficiale del neo-  costituito « Gruppo 7» di architettura, composto da Ter-  ragni, Libera, Frette, Figini, Pollini, Rava e Larco.   Nel 1928 i futuristi partecipano finalmente alla XVI  Biennale di Venezia. A Torino, all'Esposizione Nazionale,       ? Enrico Crispolti, Appunti riguardanti i rapporti fra futurismo  e fascismo, in Arte e Fascismo in Italia e Gertania, Feltrinelli, Mi-  lano 1974, pag. 54. si allestisce un padiglione di architettura futurista, con  opere di Sant'Elia, Sartoris, Balla, Fillia, Prampolini e  Chiattone.   Nel 1929, 33 futuristi espongono ancora alla « Pesa:  ro » di Milano (Balla, Farfa, Benedetto, Lepore, Dottori,  Marasco, Tato e Prampolini). Azari pubblica il suo Primo  dizionario aereo; Balla, Fillia, Depero, Marinetti, Tato,  Somenzi, Benedetto, Rosso, Prampolini e Dottori lancia-  no il famoso Manifesto dell’Aeropittura. Terragni termi.  na 2 Como la costruzione di Novocomum, nuovo edificio  residenziale periferico. Marinetti è ‘accolto il 18 matzo  nell'Accademia d’Italia, insieme a Fermi e Pirandello, su  istanza personale di Mussolini.    Esce per le Edizioni di Augustea, Roma-Milano, il  volume Marinetti e il Futurismo, quarta ed ultima espres-  sione di letteratura politica del capo futurista. L’opera  ricalea in termini ancor più encomiastici e «di suppor-  to» il già « conciliante » Futuriszzo e fascismo (1924).  Il volume esce ancora dedicato « Al grande e caro Benito  Mussolini », definito questa volta già nella prima pagina  « temperamento esuberante, strapotente, veloce. Non è  un ideologo. Se fosse un ideologo, sarebbe incatenato  dalle idee che sono spesso lente, e dai libri che sono  sempre morti. Egli è invece libero, scatenatissimo. Fu  socialista e internazionalista, ma soltanto in teoria. Rivolu-  zionario sì, ma pacifista mai ». Il che equivale a dire  « futurista ».   Del socialismo di Mussolini abbiamo già parlato, e  della sua portata teorica, a questo punto effettivamente  e « praticamente » confermata. Del futurismo « fascista »  di Marinetti si sono scritti fiumi d’inchiostro e sproloqui  di parole. La dimostrazione più lampante della sua parte-  cipazione estetna al fascismo e della sua continua difesa  del futurismo e delle avanguardie è data dal rifiuto di  onorari e prebende: unica « accettazione » per  contto,  quella dell'Accademia d’Italia, che gli servì poi per di-  fendere il fututismo e per «lanciarlo » meglio in Italia  ed all’estero.    Nel 1930 Terragni realizza un monumento a Como su un disegno di Sant'Elia (che era stato totalmente rie-  laborato da Prampolini) in occasione delle « Onoranze  Nazionali all'architetto futurista Sant'Elia », che viene  commentato anche alla « Pesaro » di Milano. Marinetti  pubblica Futurismo e Novecentismo. Molti futuristi par-  tecipano alla IV Mostra delle Arti Decorative di Monza  ed alla XVII Biennale di Venezia. Nello stesso anno Ma.  rinetti pubblica a Torino sulla Gazzetta del Popolo i) Ma-  nifesto dell’Aeropoesia, che fa eco a quello dell'Aeropit-  tura del *29. E’ il « momento» dello sviluppo aereo e  dell’aeronautica: è giusto che il futurismo si muova nella  direzione del progresso e senta, ritragga e proietti la nuo-  va dimensione aerea dello spazio verso il futuro.    Nel 1931 esce a Roma il nuovo quotidiano L’'Impe-  to. Nel 1932 la Galleria « Pesaro » allestisce una mostra  vera e proptia, ed esclusiva, di « aeropittura ». Fortunato  Depero ottiene che gli venga concessa una sala « perso-  nale » alla XVII Biennale veneziana. Prampolini erige un  plastico a ricordo di Marconi a Roma per la Mostra della  Rivoluzione Fascista. La partecipazione futurista è segno  della nuova collaborazione politica. Ciò non toglie che  le realizzazioni esprimano intenti d'avanguardia. L’Istitu-  io Editoriale Italiano pubblica per la prima volta i Ma-  nifesti del Futurismo, in quattro volumi.    Fillia fa uscire il periodico Le Città Nuova e Sartoris  il volume sugli Elementi dell’Architettura funzionale;  Terragni comincia la costruzione della Casa del Fascio di  Como. Mino Somenzi fonda il nuovo periodico Futurismo,  definito «settimanale dell’artecrazia italiana ». Cambierà  poi titolo in Atfecrazia.    Nel 1933 Hitler sale al potere e sconfessa l’arte mo-  derna (l'espressionismo, nella fattispecie). Vasari organiz-  za con Marinetti una mostra futurista a Berlino nel ten-  tativo di promuovere, e di far recepire le avanguardie al  nuovo regime. Nel settembre dello stesso anno il Congres-  so nazista di Norimberga condannerà « al rogo » l’« arte  degenerata ». Esce la rivista Diamo futurista, diretta da  Depero; il periodico di architettura Casebella è invece di-  retto da Pagano, mentre Bardi e Bontempelli pubblicano  Quadrante. Prampolini progetta una stazione per aero-  porto civile al padiglione futurista della V Triennale di  Milano, mentre al Castello Sforzesco si organizzano le  onoranze nazionali a Boccioni, con la presenza di Paul  Klee, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Vassily Kandinsky  ed Ezra Pound.    Nel 1934 Depero lancia un nuovo manifesto dell’Aero-  plastica, sempre sulla falsariga di quello dell’Aeropittu-  ra. Fillia e Prampolini pubblicano a Torino la nuova ri-  vista Stile futurista, dalle cui colonne Prampolini attacca  Hitler per le posizioni naziste sull’arte espresse a Norim-  berga. I futuristi partecipano ancora alla XIX Biennale  di Venezia. Ad Amburgo Ruggero Vasari e Marinetti di-  fendono l'avanguardia in occasione della mostra « Aero-  pittura futurista italiana », organizzata appositamente in  polemica alle censure naziste. A Lipsia ancora Vasari pub-  blica Aeropittura, arte moderna e reazione, che dimostra  la voce della nuova avanguatdia italiama improntata ai  progressi aeronautici ed in polemica contro i soliti passa-  tisti « censoti ».    Marinetti nel ’35 parte volontario per la guerra di  Etiopia. A Parigi viene organizzata una mostra futurista.  A Roma i futuristi partecipano alla II Quadriennale. Ma-  rinetti pubblica l’Aeropoema del Golfo della Spezia, che  ispirerà poi ancora molti aeropittori. Nel 1936 Prampalini realizza un salone da riunioni per municipio alla VI  Triennale di Milano. I futuristi partecipano alla XX  Biennale di Venezia. Muore Fillia esponente del « primo  futurismo ». Mussolini proclama l’Impero.    Nel giugno 1937 la mostra di Monaco attacca e de-  nuncia l’« arte degenerata » con esemplificazioni e « di-  mostrazioni ». Viene messa in luce per contro, o in risal-  to, l'arte « sana » nazista. Cominciano le polemiche e le  divisioni di fronti. Il fascismo ufficiale e « d'ordine » at-  tacca, e nuove violente polemiche scuotono l'avanguardia.  Il Popolo d'Italia e IL Perseo, diretto da A.F. Della Porta,  muovono guerra al futurismo. Quest'ultima rivista aveva  già polemizzato, insieme a Il regime fascista di Farinacci,  con l’architettura razionalista di Bardi e Terragni: « Noi siamo dell’opinione », si legge su Il Perseo del 15 giugno  1937, « che il Fascismo ha tutto da perdere da un’allean-  za col Futurismo e sia pure da una semplice connivenza ».  Risponde il periodico Artecrazia di Somenzi che contrattac-  ca in prima persona a sostenere l'avanguardia e il futu-  rismo. Difendo il Futurismo è la raccolta dei testi di So-  menzi pubblicati sulla rivista. Editi nel '37, sono l’opera  più coraggiosa e significativa della polemica per la lotta  dell’avanguardia.    14. Futurismo di destra e futurismo di sinistra    L’avanguardia, del resto, è sempre eterogenea e sfac-  cettata. Ecco perché si parla di « destra » e di « sinistra »  all'interno del futurismo nella fase della « maturità » (il  cosiddetto « secondo futurismo »). Destra e sinistra sono  termini abusati e « inflazionati », buoni per tutto. Se ne  fa spesso uso eccessivo ed improprio, semplicistico e gra-  tuito. D'altra parte, poiché avviene ancora e soprattutto  oggi, non si vede perché non dovesse avvenire allora,  quando anche si parlava, al tempo, di fascismo di « de-  stra » e di fascismo di « sinistra ».   Il « centro », almeno nelle avanguardie, non ha ten-  denze, o ne ha molto pache e solo per qualche momento.  Il « centro» ha poche tensioni, pochi impulsi vitali, di  rinnovamento. Il « centro », quindi, risulterebbe amorfo,  inutile, privo di idee 0 spirito di catatterizzazione. L’avan-  guardia allora sta a « destra » 0 a « sinistra »: non è mai  al « centro », o almeno è difficile che lo sia. Il futurismo  fu forse un’avanguardia di « destra » se intendiamo per  « destra » una certa qual spinta ideale d'impronta bergso-  niana o nietzschiana: poteva però essere anche di « sini-  stra » per le sue istanze sociali. O poteva essere al di  là della « destra » e della «sinistra », per ricalcare una  espressione del pensatore tedesco.   Sta di fatto che il futurismo non fu mai di « centro ».  Ma se si vuole dar credito a quello che comunemente si  intende otmai per « destra », si deve anche accogliere un    52    futurismo di « destra », o rivolto verso « destra »: se  è vero che a «destra » sta la conservazione, lo spirito  borghese, il richiamo all’ordine ecc. ecc. E se è vero per  contro che a « sinistra » sta la spontaneità o lo spontanei-  smo, la sincerità, la schiettezza, l'onestà e quindi anche  la miseria e la « rivoluzione »: ecco, allora, esiste anche  il futurismo di « sinistra ». Com'è possibile?    La polemica, anche se non sembra vero, fu proprio  di quegli anni. Comincia Bruno Corra con un « fondo »  di prima pagina su Futurismo, diretto dal Somenzi, n. 27  del 12 marzo del 1932, anno I e X dell’« Era Fascista ».  Il titolo è già sintomatico: No: futuristi di destra. Anche se  Corra aveva usato il termine « destra » con le attenua-  zioni del caso, affermava che «l'essenza del Futurismo è  e non può non essere rivoluzionaria ». E ancora, a spe-  cificare meglio il concetto: « ... Bisogna dire che nel no-  stro movimento i termini di sinistra e destra non si op-  pongono, perdono cioè il loto significato convenzionale.  La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovvetti-  mento e la conservazione, in quanto si libera di continuo  in uno slancio creativo », tanto per la precisione dei ter-  mini e la puntualizzazione del linguaggio. E siccome il  linguaggio ci investe di una « sua » moralità, ecco che è  bene tenerne conto quando ancora il Corra così sottoli  nea: « Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una  questione di moralità. Dare al Fututismo quel che al Fu-  tutismo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con  un'etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardi-  sta ma non futurista, sputa nel piatto dove ha man-  giato ». E fin qui è tutto chiaro e conseguenziale. Ma ve-  diamo come ancora il Corra continua: « Poi, lo stabilirci  questo principio; che il privilegio di poter restare nella  sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nella pro-  pria opera un temperamento realizzatore di destra, debba  accordarsi soltanto a coloro che han dimostrato di sapere  essere — integralmente — futuristi. E reclamerei il diritto  di sedermi a destra, per mio conto, in nome della mia  effettiva collaborazione al Futurismo più rivoluzionario... ».  Insomma, essere stati di « sinistra » per poter essere poi di « destra », o aver fatto i rivoluzionari in gioventù,  per poter pai sedere tranquillamente sugli « scanni » del  concreto o nella comodità del reale (di quando, cioè,    x    si è « arrivati »).    Può darsi sia vero, pur se non proprio giusto 0 cor-  retto il ragionamento, ma concreto sì ed anche, che ci  piaccia o meno, realistico. La polemica inizia ed. è un  susseguirsi di botte e risposte. Fra tutte vediamo come  « replica » Paolo Buzzi su un altro «fondo» di prima  pagina dello stesso Futuriswo n. 30, anno II, del 2 aprile  1933. Il titolo è anche questa volta emblematico,  Estrema sinistra, puntualizzato poi meglio nell’« occhiello »:  Non c'è che un futurismo: quello di estrema sinistra. Dove  si sancisce la necessità dell'avanguardia a « sinistra », e  la «sinistra » del futurismo, l’unica possibile. « Questo,  e non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei sedermi a  destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la causa di  Aeroplani, di Ellisse e la Spirale, di Cavalcata delle verti.  gini... ». E ancora: « Questo è futurismo: e di ultra estre-  ma sinistra. Le mie autonomie sintetiche di anime e di  sensi, le mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei co-  smopolitismi spaziali e i miei intimismi votticosi, stanno  per una intransigenza etico-estetica che costituisce, or-  mai, la gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia  lunga carriera di vomo che ha sempre fatto dell'Arte come  il sacerdote celebra messa. Aviatore sempre, adunque: fan-  te o stradino, non mai ». E conclude poi, con patole un  po’ altisonanti e troppo, forse, di effetto: «I giovani,  quelli veramente degni di questo nome primaverile, sanno  che al di fuori e al di sopra d'ogni inevitabile chiasso  letterario, la parola “futurismo” risponde alla sola unica  vera “idea forza” che oggi esista nella sfera ideale del  mondo: e che è in grazia di essa, unicamente di essa, se  oggi la Poesia della miracolosa Italia fascista vive e vi-  vrà ». Dove si dimostta ancota una volta, come se non ba-  stasse, il collegamento tra futurismo e fascismo, almeno  nella loro spinta « spontaneistica » e rivoluzionaria.    Dobbiamo comunque tenere conto del tempo della  pubblicazione di questi articoli, nel °32 e '33, in pieno ed affermato regime. Ecco, quindi, anche, il senso di una  « destra » e di una «sinistra », di un futurismo ancora  giovane ed esuberante, e di un altro futurismo per contro  già assiso sugli allori della gloria o sul comodo giaciglio  della meta raggiunta e della calma del riposo. Quando  cioè il fascismo, movimento politico rivoluzionario, eta di-  ventato « regime », ed aveva, per così dire, assunto le sue  caratteristiche sembianze (almeno fino a un certo punto).  Perché il futurismo, così come era sotto, in fondo si era  voluto mantenere. AI di là dei tentativi di conglobamento  o di «cattura » della sua entità esercitati dal regime o  da singole personalità fasciste, alcune delle quali, magari,  erano state futuriste o vicine al futurismo. Tuttavia era  e restava, il futurismo, in fondo, quello di sempre: solo  ed esclusivamente un movimento d'avanguardia.    15. Futurismo ed ebraismo    « Innumerevoli differenze separano il popolo russo dal  popolo italiano, oltre a quella tipica che distingue un po-  polo vinto e un popolo vincitore. I loro bisogni sono di-  vetsi e opposti. Un popolo vinto sente morire in sé il  suo patriottismo, si rovescia rivoluzionariamente e plagia  la rivoluzione del popolo vicino. Un popolo vincitore co-  me il nostro vuol fare la sua rivoluzione, come un aera-  nauta getta la zavorra per salire più in alto... Non esiste  in Italia antisemitismo. Non abbiamo dunque ebrei da re-  dimere, valutare o seguire », sosteneva Marinetti nel 1920:  e lo diceva nella sua opera già esaminata A! di là del Co-  munismo. Lo riportiamo non tanto per rilevare le diffe  renze fra rivoluzione futurista e rivoluzione bolscevica 0  spirito comunista, quanto per far rilevare quale era la  posizione di Marinetti nei confronti degli ebrei già nel  1920. Gli ebrei da « redimere, valutare o seguire » sono  evidenti: Marx ed Engels. Il problema invece si affaccia,  come tutti sappiamo, sul volgere del '38 e all'alba del  °39. Il Manifesto del Razzismo italiano, quello degli scien-  ziati del 14 luglio ’38, e la Carta della Razza del 6-7 ottabre dello stesso anno, cui fanno seguito le leggi razziali  del novembre sulla falsariga dell’antisemitismo tedesco,  danno buon gioco alla cultura dell’« ordine », quella più  direttamente sostenitrice o affiancatrice del regime.    Secondo Crispolti «il tentativo della cultura legata  alla destra reazionaria fascista di profittare della campa-  gna antisemita per promuovere un'edizione italiana della  operazione nazista dell’“arte degenerata” è un aspetto no-  tevole dell’azione pubblicistica che precedette e accompa-  gnò quei provvedimenti » ®. L'azione pubblicistica era con-  dotta da Telesio Interlandi in prima persona, che attacca-  va spesso e volentieri Marinetti, il futurismo e le avan-  guardie attraverso il suo periodico: dal Quadrivio, setti  manale romano ad impronta razzista, al quotidiano roma-  no Il Tevere, a La difesa della razza. Oltre a Interlandi  si distinguevano Giovanni Preziosi con il mensile La wite  italiana, e Roberto Farinacci con Il regimze fascista, quoti-  diano di Cremona.    « L'arte moderna è un tumore che deve essere tagliato  non che si debba esibire come una gloria nazionale sol  perché piace a Marinetti », aveva affermato I/ Tevere  del 24-25 novembre 1938, pubblicando un’antologia di  esempi d’« arte degenerata » italiana. Quadrivio aveva a  sua volta proposto un referendum contro l'arte moderna  considerata in blocco « bolscevizzante e giudaica », ma  senza alcun successo.    Marinetti rispondeva con una manifestazione indetta  il 3 dicembre 1938 da lui e Somenzi al Teatro delle Atti  di Roma. E Somenzi stesso lo accompagnava con un « fon-  do » polemico su Arfecrazia, n. 117 del 3 dicembre, dal  titolo Razzismo. Ad esso facevano seguito sul n. 118 del-  l'11 gennaio 1939 due articoli (Arte e... razzia, e Italianità  dell’arte moderna), ancora in posizione di attacco, aspro  e violento. Quest'ultimo, firmato « Artecrazia »  pottò a  determinare la chiusura stessa del giornale. Non è escluso       * Enrico Crispolti, Appunti riguardanti 1 rapporti fra futurismo  e fascismo, cit., pag. 58.    56    che lo avesse scritto proprio lo stesso Marinetti (con Somen-  zi). Il pretesto di voler colpire con l’antigiudaismo l’arte  moderna era messo all'indice dell'accusa. Si dimostra così  ancora una volta lo spirito d'avanguardia con cui il futu-  rismo e i futuristi operavano, sia pur sotto le bandiere del  regime, ma in fondo in opposizione a una cultura d’or-  dine e di conservazione, priva di spunti nuovi e originali,  o addirittura chiusa ai contatti e alle avanguardie europei  sotto il pretesto dell'antigiudaismo, che non poteva certo  essere aperto a nuove esperienze.   Nel 1940 entta in guerra l’Italia. Marinetti parla « Per  l’italianità dell’arte » e tiene un discorso al Teatro delle  Arti a Roma sulla « bellezza aeropoetica della guerra mec-  canizzata ». Intervengono Radice e Terragni a difendere  l’arte moderna. Declatmano Marinetti, Farfa, Scrivo, Mo-  nachesi e Berardi. La rivista Autori e Scrittori pubblica  il manifesto Nuova estetica della guerra. A Genova Mari.  netti parla su «La poesia e la guerra » nel Salone dei  Professionisti e degli Artisti, dove si declamano poesie  di Mazzotti e Balestreri.   Nel 1941 Renato Di Bosso lancia il nuovo Manifesto  dell’Aerosilografia. Nel 1942 Marinetti pubblica  Carto  eroi e macchine della guerra mussoliniana. Poi parte vo-  lontario a raggiungere le truppe italiane in Russia. Rien-  trerà nel ’43 malato, e già intaccato nella salute. Mussolini  cade il 25 luglio e Marinetti si trasferisce a Venezia, dopo  l'8 settembre. Il fascismo è finito, ma il futurismo an-  cora continua.    16. Il futurismo tra ieri e oggi    Dopo la morte di Terragni a Como (1943) per ma-  lattia contratta sul fronte russo, Marinetti aderisce nel  44 alla neo-costituita Repubblica Sociale Italiana. A_Ve-  nezia riceverà gli ultimi futuristi, rimastigli fedeli nono-  stante il « declino »: Crali (ancora vivente) e Andreoni  (recentemente scomparso). A loro vorrà consegnare il fu-  turismo perché non muoia con lui. Si trasferisce poi a  Cadenabbia sul lago di Como e muore a Bellagio nella  notte fra il 2 e il 3 di dicembre, per crisi cardiaca (i fu-  nerali di Stato porteranno le spoglie a Milano, al Cimitero  Monumentale). Postuma a lui e alla fine del fascismo  (repubblicano) si pubblicherà la sua ultima opera, che  così inizia: « Salite in autocarro aeropoeti... » Si tratta  del Quarto d'ora di poesia della X Mas, in cui l’invoca-  zione all'avanguardia alita uno strano ed inevitabile sen-  so di morte, violento ed inesorabile.   Ma l'avanguardia è, pare, ineliminabile, tant'è che il  futurismo continua come espressione artistica almeno, an-  che se ormai non più politica. I suoi epigoni lo sosten-  gono ancora, «con le parole e con le opere». Crali  Primo Conti a Milano e a Firenze, Sartoris a Losanna, Di  Bosso ed Anselmi a Verona, Enzo Benedetto a Roma  portano ancora avanti il suo programma d'avanguardia. Con  parole e con scritti, con opere e con progetti, col messag-  gio dell’arte sempre e comunque. I seguaci di Marinetti  si rifanno a lui e sostengono con vivacità e con brio la  vitalità di una prospettiva che si vuole sempre rinnovare.    Questo è ancora, malgrado tutto, il valore attuale del  futurismo. Quello di un'avanguardia italiana aperta alle  avanguardie europee, ma avanguardia comunque e  valo-  rizzatrice in ogni caso dell'arte. Che dev'essere libera e  moderna, nuova ed attuale, viva e presente ai suoi tempi.  Per questo deve ancora schiacciare le pastoie dei vecchiu-  mi « passatisti », deve smuovere il conservativo e assa-  lire i fantasmi di prolungamento di polverosi e sclerotici  retaggi. Deve insomma comunque essere avanguardia. Il  messaggio futurista, in questo senso, è ancora attuale. Ce  lo dicono Crali e Benedetto, fra gli altri, con le loto  testimonianze. Che ci aiutano a tivedere la « dimensio-  ne » del futurismo: una dimensione « presente » in tanta  odierna penuria di originalità nel moderno, presente al-  meno come forza dinamica nella prospettiva di migliori,  più aperti, e più geniali futuri.   ALBERTO SCHIAVO    58    SOFFICI, MARINETTI, BOCCIONI, RUSSOLO  SANT'ELIA, SIRONI, PIATTI    FUTURISMO E  « GUERRA SOLA IGIENE DEL MONDO. Ben presto si manifesta l'interesse dei futuristi per  la politica. Nel 1911 Marinetti pubblica giò un mani  festo « politica », che sarà la sua prima espressione di  intervento nelle cose pubbliche. «Tyripoli Italiana »  vuol dire presenza dell’Italia e primato dell’Italia;  vuol dire guerra ed espansione, allargamento del vita-  lismo italiano, e vittoria. Il « panitalianismo » si espri-  me e si dichiara apertamente, per la prima volta.  L'avanguardia politica deve accompagnare  l'avanguar-  dia artistica. E il primato italiano in arte st deve ma-  nifestare anche in politica, nella forza dell'espansione  del genio (al tempo, di arbizione coloniale).   Poco dopo la Libia, è la volta dell'Austria. L’amo-  re della guerra non può che portare a voler V'inter-  vento. Ci sembra significativa la penna di Soffici su  Lacerba del ‘14, dove si osa dire la verità e mettere  in luce la finzione del moderatismo neutralista (cat-  tolico o socialista che sia).    Il manifesto della fine del 1915, dedicato all'« or-  goglio italiano », è già un manifesto di guerra. Per  questo lo riportiamo interamente, a dimostrazione del-  la fiducia e dell’ottimismo degli artisti combattenti,  la loro convinzione della forza attiva e dello funzione  battagliera dell’arte    PER LA GUERRA    Valvola    Essere italiano (mi piace ripeter qui che adoro il  popolo italiano) non è in generale gran fatto entusia-  smante, in questa nostra epoca. Ìn questi ultimissimi tem-  pi, confesserò che per conto mio mi vergogno un poco  di portar questo nome. E’ un sentimento che si è andato  sviluppando leggendo i giornali, e posso anche ammettere  che una tale causa non meriterebbe di produrre un tale ef-  fetto; ma i giornali son tutta la nostra vita ormai e pur-  troppo. E. dai giornali italiani si alza e si propaga un tal  lezzo d'abbiezione e d’imbecillità che chi ha un po' di  cuore e di spirito non può fare a meno di sentirsene sof.  focato. E' una gara in cui corrispondenti, redattori ordina-  nati e straordinari, politicanti e governo fanno del loro  meglio per sorpassarsi a vicenda. Non che siano espliciti  nei loro articoli e nei loro comunicati, ma la bassezza tra  spare e offende. Sono reticenze abbiette, raccomandazioni  infami, voltafaccia vergognosi, silenzi più vergognosi anco:  ra. Si sente che il calcolo idiota comanda e regola tutti  questi spiriti subalterni. La guerra? Le mani in mano?  Questo enimma terribile non è affrontato a viso aperto,  ma una battaglia vinta o persa lontano detta il tono ed il  catattere (anche tipografico) della notizia, del commento  o della nota ufficiosa. Dà il là all’elucubrazione insulsa del  machiavello rimbastardito. La stampa italiana è opgi come  oggi l’indizio della più ripugnante psicologia e mentalità  che possa avere una nazione. Davanti al mondo che com-    Tralasciamo i paragrafi: Toccami il naso, Grandezzate, e Subli-  mità, che ci sembrano poco significativi dal punto di vista politico,  per riprendere con Socialismo, molta più denso e pregnante.    61    batte e soffre, accanto a una civiltà che difende le sue  — le nostre — ricchezze dal sacrilegio di un'orda senza  stotia, noi siamo il leguleio diseredato di viscere, solle-  cito della sua trippa mediocre che occhieggia le fortune  dei popoli, e risponde di sbieco o tace aspettando dietro  lo schermo della sua neutralità. Non hanno il coraggio  questi figuri di dirla una buona volta ta verità. Ditelo che  siete i più ignobili rappresentanti di un paese che è mise-  rabile perché non vi calpesta come cimici. Ditelo che vi  mancano il cuore e i testicoli. Ditelo che avete paura. O  confessate almeno che dietro la vostta prudenza c'è la  vostra impotenza, la verità che ci buttano in faccia i nostri  alleati quando fra una batosta e l'altra voglion levarsi il  gusto di pigliarci per il bavero. Che cioè l’Italia non ha  quattrini, non ha armi, non ha munizioni e che i suci  magazzini son vuoti come la badia di Spazzavento. E ci sono infine i socialisti. Io non ho un'esagerata  antipatia pet i socialisti. Trovo che la loro cravatta rossa,  il loro sol dell’avvenir, i loro discorsi in piazza, e gene-  ralmente tutto ciò che li caratterizza, così a occhio e  croce, sono un tantino ridicoli; ma le case popolari, l'au-  mento delle mercedi operaie e tutto ciò che il proleta-  riato deve loro di miglioramenti per la vita di tutti i  giorni sono cose ottime e sante. Ciò non toglie che una  cosa mi stupisce straordinariamente ogni volta l'intravedo  e mi stupirà in eterno: la loro mentalità. Si rivela spes-  sissimo in questi giorni, e sempre a proposito della neutra-  lità italiana. I socialisti l'’ammettono, non solo, ma la vo-  gliono perpetua. « Io sono e resto un fautore ogni giorno  più convinto della neutralità per la pace » ha dichiarato  in un referendum uno di loro. E voleva forse dire (giac-  ché è difficile immaginare una neutralità per la guerra)  che lui e il suo partito sono per la pace a ogni costo.  Giacché, ed eccoci alla mentalità di codesto partito, ogni  buon socialista non vede nella guerra, qualunque essa sia,    62    se non una lotta di capitalisti e banchieri contro capita-  listi e banchieri i quali si servono del proletariato per li-  quidare le loro partite. Ammettiamo che in ogni guerra ci  sia un sostrato d'interessi; ma non c'è altro? Per i so-  cialisti non c'è altro. L'idea che i socialisti si fanno del  mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle  prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le  scienze, le arti, le delicatezze, l’eleganze, i raffinamenti,  le filosofie, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni  -— tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente com-  plessa, così colorita, così varia, multiforme, incoercibile non  è nulla per loro. Tutto è grigio, e l’universo intero una  specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,  eterna, in mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare  una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che non  deve lasciarsi succhiare.   Così, nella guerra presente, che cosa importa se intere  nazioni difendono una civiltà che è la nostra, le libertà  conquistate — le idee stesse dei socialisti — contro i nemici  che sono gli stessi nemici dei socialisti? Per i compagni  di Filippo Turati non si tratta che della solita altalena dei  capitali sulle povere spalle del popolano e bisogna aste-  nersi. E parlo espressamente degli « ufficiali » ex cattedra,  giacché agli altri, a quelli del colloquio coll’emissario tede-  sco, dobbiamo l’atto forse più nobile e generoso che si sia  compiuto in Italia in quest'ora di straordinaria bassezza.    Il trionfo della merda    La cieca incoscienza dei socialisti ufficiali e l’untuosa  malafede dei cattolici alla Meda (ecco un uomo cui manca  indicibilmente l’erre!) si possono anche capire in un mo-  mento come questo, chi consideri la speciale mentalità  di codesti gruppi e la messa in giuoco violenta dei prin-  cipî e degli interessi di tutti.   I primi, i socialisti, non d'altro solleciti che di vuote  teoriche malamente idealistiche, non possono vedere nella  guerra se non un fatto inquietante, uno di quei fatti che afferrando tutto l’uomo ne mettono in mato ogni energia  vitale il che è sempre a scapito certo delle ideologie uni-  laterali, e credono l’'opporvisi con tutte le loro energie  una coerente difesa dell’« idea » mentre non si tratta in  fondo che di un semplice istinto di conservazione. I se-  condi, i cattolici, sanno benissimo che un nostro interven-  to nel conflitto attuale favorendo il trionfo di popoli tut-  t'altro che asserviti alla secolare imbecillaggine papale, si-  gnificherebbe un indebolimento considerevole della loro  compagine, e maschetano di prudenza pattiottica il loro  desiderio di vedere ancora l’Italia ribadir con la sua neu-  tralità incondizionata i vincoli che la fanno setva e com-  plice del bigottismo e dell’inciviltà eutopea.    Contro gli uni e gli altri, se si può usar del disprezzo,  non sarebbe dunque logico indignarsi. Ma c’è una massa  dei nostri connazionali che nessuna collera, nessuna abo-  minazione potrà mai bollate con l’infamia che merita la  sua straordinaria abbiezione. E' Ja massa oscura, anemica  informe degli irresponsabili, dei disamorati, degli abulici:  dei parassiti della società e della vita. Non vedendo nulla  più di là della lora piccola tranquillità presente, del loro  affare meschino, del loro affetto senza energia; rincantuc-  ciati nel loro buco momentaneo al sicuro dalla burrasca  che gli sgomenta soltanto a intravederla nelle corrispon-  denze del loro mediocre giornale, essi credono che nulla  possa essere più profittevole del prolungare, sia pure a co-  sto di ogni mortificazione, questo stato d’incolumità rumi-  nativa nell'ombra e in margine alla storia. Chè se domani  la preponderanza in Europa di una razza di pachidermi  violenti, chiusi a ogni luce di vera intelligenza, conculcherà  ogni espressione geniale di vita; se i popoli cui si lega una  comunanza di cultura, di ricordi e di tradizioni, saranno  mortificati e asserviti a un’etica da ingegnere belligero e  spia; se le nostre stesse fortune intellettuali, morali e ma-  teriali saranno manomesse e asservite, che cosa importa  a questi miopi sdraiati nella loro flaccidezza quietoviven-  te? A costoro importa che l’oggi sia senza strepiti e senza  pericoli, che il tran tran dell’esistenza seguiti: felici se l'Ita-  lia potrà uscire dal rotto della cuffia — e sia magari verso    64    l'abisso. Così nessuno si affida con più sicurezza di loro  alle decisioni del nostro governo. Il govetno italiano che  fino ad oggi s'è dimostrato come la quintessenza di questa  materia fiscale, perché non d -*ebbe divenirne anche la  stella fatale? L’ospizio degl lidi della Consulta è il  faro naturale di questa marea ».ercoraria che monta. Poi  ché essa monta, trionfando. Ogni giorno che passa nella  passività, ogni occasione perduta, ogni ambizione abdi-  cata, ogni nuova difficoltà creata servono ottimamente al  suo incremento e alla sua propagazione. Siamo già a  buon punto. Dopo aver impedito con tutto il suo peso ri-  pugnante ogni movimento, questa massa pestifera ha già  una voce per dire che muoversi ora è troppo tardi. An-  cora poche settimane e sarà forse vero, e tutti saremo  sommersi per sempre.   Amici! Noi abbiamo parlato e scritto: abbiamo propu-  gnato tutto il calore delle nostre anime per oppotci alla  vigliaccheria inaudita di una bella parte dei nostri con-  cittadini. Credo che il momento di una lotta più diretta e  dura stia per giungere. Le armi della mente e del cuore  stanno per esaurirsi. Bisognerà ricorrere alle altre, se non  vogliamo che l’Italia piombi al livello della più vergognosa  fra le nazioni. Un paese che abbia per scrittori dei Pao-  lieri e la Nazione come giornale ufficiale.    Arvenco SOFFICI  [da: Lacerba, n. 18, 15, settembre 1914; e n. 19, 1° ottobre 1914]    L'ORGOGLIO ITALIANO    Il 13 Ottobre, nella prima perlustrazione fatta da me  agli ordini del capitano Monticelli e del sergente Visconti  in terreno nemico, a 6 Km. dalle nostre trincee, fra le  alte roccie a picco, nelle boscaglie e nelle pietraie dell'A]  tissimo, dopo esserci incontrati con una pattuglia austria    65    ca che ci voltò le spalle e fuggì, constatammo con gioia  la superiorità enorme della nostra artiglieria, i cui tiri  meravigliosi, passando su di noi e sul lago, sostenevano la  nostra avanzata in Val di Ledro. Nella seconda perlustrazione fatta da  me, dai miei amici futuristi Boccioni e Sant'Elia e dal  pittot  Recci, esplorando e occupando la trincea delle Tre  Piante, constatammo con quale gioconda disinvoltura dei  giovani pittori e poeti italiani possano trasformarsi in  audaci, rudi, instacabili alpini.   Durante l'avanzata, l'assalto e la presa di Dosso Ca-  sina, compiuta dai Volontari ciclisti lombardi e da un  battaglione di alpini, vedemmo le truppe austriache sgo-  minate dalla baldanza di pochi italiani diciassettenni e  cinquantenni, non allenati alla guerra in montagna. Dopo  aver matciato per 7 giorni in un foltissimo nebbione, con  vestiti quasi estivi malgrado la temperatura di 15 gradi  sotto zero, i Volontari ciclisti pernacchiavano allegramen-  te alle migliaia di sbrapne!s prodigati loro da 5 forti austria-  ci. I nuovi raccoglitori di bossoli e di schegge micidiali  facevano finalmente dimenticare gli stupidissimi e senti-  mentali raccoglitori di edelweiss.   Constatammo che degl'italiani, già operai, impiegati o  borghesi sedentarii, sapevano vincere in astuzia qualsiasi  pattuglia di Kazserjigers. Constatammo che un corpo di  300 valontati ciclisti improvvisati alpini sapeva strategi-  camente manovrare su per montagne ignote, con tale abi  lità che il nemico si credette accerchiato da migliaia d’uo-  mini. Constatammo che uno studente italiano, trasforma-  to in ufficiale, può comandare tutta l'artiglieria d'una zona  e sfondare coi suoi tiri 6 o 7 forti austriaci, scientificamen-  te preparati alla difesa in 20 o 30 anni. Constatammo  come il popolo italiano, sotto la direzione geniale di Ca-  dorna, abbia saputo improvvisare in pochi mesi la prima  artiglieria dei mondo e vincere di continuo nella più spa-  ventosa e difficile guerra che sia mai stata combattuta.  Singhiozzammo di gioia all’udire dalla viva voce di 20 o 30  giornalisti esteri, quali Jean Carrère e Serge Basset, che l'esercito capace di vincere e di avanzare sul Carso è si-  curamente il primo esercito del mondo.   Dopo aver visto il popolo italiano, « il più mobile di  tutti i popoli », liberarsi futuristicamente, con una scrol-  lata di spalle, dalla lurida vecchia camicia di forza giolit-  tiana, vediamo ora nelle vie milanesi fervide di lavoro,  come il popolo italiano, che sembrava avvelenato di paci-  fismo, sa guardare con fierezza questa nobile, utile e igie-  nica profusione di sangue italiano.   Tutto questo ci conferma una volta di più che nessun  popolo può uguagliare:   1. - il genio creatore del popolo italiano;   2. - l'elasticità improvvisatrice di cui sempre danno  prova gl’italiani;   3. - la forza, l’agilità e la resistenza fisica degl'’italiani;   4. - l'impeto, la violenza e l’accanimento con cui gli  italiani sanno combattere:   la pazienza, il metodo e il calcolo degl'italiani nel  fare una guetra;    6. - il firismo e la nobiltà morale della nazione italiana  nel nutrirla di sangue o denaro. ITALIANI! Voi dovete costruire l'Orgoglio italiano  sulla indiscutibile superiorità del popolo italiano în tutto.  Questo orgoglio fu uno dei principii essenziali dei nostri  manifesti futuristi dall’origine del nostto Movimento, cioè  da 6 anni fa, quando primi e soli (mentre l’irredentismo  agonizzava e il partito Nazionalista non era ancora nato)  invocammo violentemente, nei teatri e sulle piazze, la guer-  ra come unica igiene, unica morale educatrice, unico velo-  ce motore di progresso.   Eravamo allora sicuri di vincere l’Austria e di centu-  plicare il nostro valote e il nostro prestigio vincendola.  Eravamo soli convinti della prossima conflagrazione gene-  rale, che tutti giudicavano impossibile in nome di due  pseudo-fatalità: lo sciopero delle Banche e lo sciopero dei  proletariati. Eravamo convinti che coll’Inghilterra, la Fran-  cia, la Russia, noi dovevamo utilizzare le nostre inesauribili  forze di razza e il nostro genio improvvisatare, collabo-    67    rando allo strangolamento del teutonismo, fatto di balor-  daggine medioevale, di preparazione meticolosa e d’ogni  pedanteria professorale.   Apparve allora il mio Monoplan du Pape, visione pro-  fetica della nostra vittoriosa guerra contro l’Austria. Infat-  ti noi soli fummo profetici ed ispirati, perché, più giovani  di tutti, più poeti, più imprudenti, più lontani dalla poli-  tica opporttunistica e quietista, traemmo la visione del fu-  turo dal nostro temperamento formidabile, e pur consta-  tando intorno a noi la vecchia mediocrità italiana, credem-  mo fermamente nell’avvenite grande dell’Italia, semplice-  mente perché noi futuristi eravamo Italiani.    ITALIANI! Voi dovete manifestare dovunque questo  orgoglio italiano e imporlo in Italia e all'estero colla pa-  rola e colla violenza, come facemmo noi in Francia, nel  Belgio, in Russia, nelle nostre numerose conferenze bat-  tagliere.   Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l'italiano  che non si manifesta spavaldamente orgoglioso d’essere  italiano e convinto che l'Italia è destinata a dominare il  mondo col genio creatore della sua arte e la potenza del  suo esercito impareggiabile.   Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l'italiano  che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio pes-  simismo imbecille, denigratore e straccione che bha carat-  terizzata la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia  di mediocristi antimilitari (tipo Giolitti), di professori pa-  cifisti (tipa Benedetto Croce, Claudio Treves, Entico Ferti,  Filippo Turati), di archeologhi, di eruditi, di poeti nostal-  gici, di conservatori di musei, di albergatori, di topi di  biblioteche e di città morte, tutti neutralisti e vigliacchi,  che noi, primi e soli in Italia, abbiamo denunciati, vilipesi  come nemici della patria, e veramente frustati con abbon-  danti e continue doccie di sputi.    Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista  o il pensatore italiano che si nasconde sotto il suo inge-  gno come fa lo struzzo sotto le sue penne di lusso e non  sa identificare il proprio cotgoglio coll’orgoglio militare  della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la  sua viltà, dimenticando che creazione artistica è sinonimo  di eroismo morale e fisico. Merita schiaffi, calci e fucila-  re nella schiena l'artista o il pensatore italiano che, fisica-  mente valido, dimostrando la più assoluta assenza di va-  lore umano, si chiude nell’arte come in un sanatorio o in  un lazzaretto di colerosi e non offre la sua vita per ingi-  gantire l’Orgoglio italiano.   Mentre altri futuristi fanno il loro dovere nell’esercito  regolate, noi futuristi volontari del Battaglione lombardo,  dopo essere stati semplici soldati in 6 mesi di guerra, ed  aver preso cogli alpini la posizione austriaca di Dosso  Casina, aspettiamo ansiosamente il piacere di ritornare al  fuoco in altri corpi, poiché siamo più che mai convinti che  alle brevi parole devono subito seguire i pronti, fulminei  e decisivi fatti. La sensibilità e l'acume politico « d'avanguardia »  dei futuristi non potevano rimanere indifferenti di fron-  te ai loro avversari 0 alla «controparte » dell'avanguar-  dia, quella socialista. La reciprocità dell'opposizione al  potere liberalborghese, a « passatista» per dirla alla  Marinetti, era motivo di accostamento, forse, 0 per lo  meno di attenzione da ambo le parti. E sappiamo dal  De Felice che molti « proletari » o esponenti dei ceti  umili osservavano con attenzione e seguivano il movi  mento di Martinetti con calore di simpatia.    Marîo Carli, fra i più sensibili esponenti certo del  futurismo «d'assalto », si accorge della presenza di ele-  menti comuni nelle avanguardie, e lancia un appello da  Roma futurista # 13 /uglio del ’19 nel tentativo forse  di un avvicinamento. L'avvertimento della necessità di  rovesciare la classe dirigente corrotta e impreparata of-  fre una base comune all'intento di collaborazione per  il sostegno del proletariato, operaio od ex combattente  che sia. La polemica continua sulla stessa testata, nel  numero del 92 novembre dello stesso anno con un arti  colo di Giuseppe Bottai dal titolo Futurismo contro  Socialismo. L'immpossibilità di collaborazione è già vista  dal Bottai con tutta la sua evidenza, ed è vista per  ragioni squisitamente ideologiche, rifacentesi gi presup-  posti filosofici del socialismo e del socialismo italiano,  in particolare. Il 14 dicembre ancora del ’19, entra  nella polemica un socialista, certo Moannarese, cui ven-  gono aperte le colonne di Roma futurista @ fargli so-  stenere più o meno la stessa tesi di Bottai, anche se  vista da angolazione marxista, dogmatica e inequivoca  bile. L’impossibilità della collaborazione è data dalla  ostrattezza del futurismo secondo Manmarese, e dal suo  scarso od insufficientemente risaltante contenuto sociale,  che esula dall'unico e imprescindibile metodo possibile:  quello della lotta di classe. L'ultima battuta è ancora  del Bottai ed esce la settimana dopo, sul numero del  21 dicembre ‘19 dello stesso periodico. La puntualizza  zione degli argomenti e la precisazione dei temi e delle  tesi di pensiero son lutte protese a dimostrare lo sin-  cerità filo-popolare del futurismo e la falsità democra-  tica del socialismo per cui è quasi necessario essere  contro il socialismo, ed indispensabile, se si ama il po-  polo italiano, quello dei proletari arditi con cui anche  Bottai aveva combattuto nelle trincee al fronte della  prima guerra. « Noi siamo per l'elevazione del popolo,  e non per l'assolutismo demagogico di esto», sottoli  neava l'autore, concludendo a grandi caratteri « Contro  il socialismo non vuol dire contro il proletariato ». Ho esaminato seriamente l'ipotesi di una collaborazione  fra noi (futuristi, arditi, fascisti, combattenti, ecc.) e i  Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali, rifor-  misti, sindacalisti, repubblicani.   A parte il fatto che, in realtà, essi siano assai meno  precursori ed audaci di quanto a parale vogliano far cre-  dere, io mi sono preoccupato esclusivamente di cercare  il terreno comune nel quale si possa, noi e loro, associa-  re gli sforzi e marciare d'intesa verso lo stesso obiettivo.   Il terreno comune c'è. Ed è quanto di più nobile e  attraente possa offrirsi a degli spiriti sinceramente aman-  ti del progresso e della libertà. E' la lotta contro le at-  tuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chia-  mino borghesia o plutocrazia o pescecanismo o parlamen-  tarismo. Non è possibile lasciar loro più oltre la potenza  del denaro e il potere governativo e amministrativo; sono  una casta che deve cadere e cadrà. E’ questa caduta che  noi dobbiamo affrettare, con tutti i mezzi e con tutte le  fotze disponibili.   Or ora, l'esperimento del « caro-viveri » in tante città  d’Italia, ci ammonisce che di fronte a problemi gravi e  pressanti, non c’è odio di parte né antipatia sentimentale  che tenga. Noi possiamo ben dare (e l'abbiamo data) una  valida mano ai pussisti per impedire che il popolo sia  affamato. Non pottebbero i socialisti vedere nel nostro  gesto disinteressato e leale una prova della nostra sim-  patia per il popolo, si chiami combattente o si chiami  operaio, e riconoscere che la nostra azione tende, quanto  e più forse della loro, ad equiparare le classi sociali?   Esiste un Marifesto del Partito Futurista, ed un libro  di Marinetti dal titolo « Democrazia futurista », dove è  condensato quanto di più moderno, di più progredito,  di più spregiudicato, di più audace e rivoluzionario si  può oggi pensare nel campo politico. Ma i partiti pseudo-    75    avanguardisti e pseudo-rivoluzionari ostentano di ignora.  re e manifesto e libro, né mai hanno fatto il più timido  gesto di simpatia o d'interesse verso idee o remperamenti  ai quali dovrebbero sentirsi attratti per istinto! Perché?  Eppure noi siamo libertari quanto gli anarchici, demo-  cratici quanto i socialisti, repubblicani quanto i repubbli-  cani più accesi.   Si tratta dunque di mala fede? Pare di sì, perché, se  non fossero in mala fede, costoro dovrebbero inginoc-  chiarsi davanti a noi e chiamarci come loro capi. Se la  loro lotta politica fosse sincera e convinta (parlo special  mente dei pussisti), dovrebbero ammirate senza riserve  il nostro spirito rivoluzionario che, dopo aver schiantato  quella fetida cancrena del passatismo europeo che si chia-  mava Impero d’Asburgo e contribuito a umiliare il tra-  cotante militarismo tedesco, vuole oggi demolire a colpi  di bomba i vecchi sistemi, i regimi decrepiti, i focolai di  putredine che costituiscono la grande cloaca politica ita-  liana.   Se fossero in buona fede, dovrebbero riconoscere che  noi soli, uomini di guerra che non ignoriamo il piombo  e l’acciaio laceratore di carni, sapremo, a tempo debito,  scatenare e condurre una rivoluzione, non già dal Quartier  Generale di una qualsiasi Camera del Lavoro, ma alla  testa delle moltitudini in marcia.   Se fossero in buona fede, sapete che cosa dovrebbero  dire questi organizzatori di masse a scopi elettorali? Ci  direbbero — Venite qua, futuristi, arditi, fascisti, com-  battenti tutti: voi che siete più rivoluzionati di noi, più  audaci di noi, più liberi di noi, voi che amate il popolo  più sinceramente di noi! Venite qua, uomini d'azione e  di comando: a voi il guidare le masse verso la libertà e  la ricchezza! a voi il rovesciare i vecchi sistemi, i vecchi  dogmi e le vecchie tirannidi! noi ci ritiriamo nei ranghi.    Perché non lo fanno?    Perché questi falsi socialisti che scrivono in giornali  luridamente borghesi come Il! Tempo e La Stampa, per  ché pagano bene, si sfiatano a chiamarci reazionari della  borghesia, carabinieri più dei carabinieri, a diffamarci imbecillescamente? Perché hanno respirato di soddisfazione al-  l'avvento del reazionarissimo gabinetto Nitti e complici?   Perché hanno lanciato dalle colonne dell’Avanti pochi  giorni fa, un grido d'amote alla censura che se n’andava,  promettendole di richiamarla con tutti gli onori non ap-  pena il socialismo ufficiale fosse salito al potere?   Perché tentano di far credere ai soldati che gli uf-  ficiali combattenti costituiscono una « casta » borghese,  quando i soldati ricordano ancora il loro tenentino che  in trincea si adagiava nello stessa fango, mangiava nella  stessa gavetta, correva gli stessi rischi, buscava le stesse  ferite, come ciascuno di loto?   Perché non si decidono a riconoscere che la guerra  ha liberato il mondo dall'incubo dell'imperialismo germa-  nico e ha impresso alle conquiste ideali e materiali dei  popoli un ritmo di fantastica velocità, che, senza di essa,  non si sarebbe neppure sognato?   Perché seguitano a confondere guerra rivoluzionaria  con militarismo, socialismo con bolscevismo, popolo con  pagliacci tesserati?   Perché combattono gli Arditi, che pure sono usciti  dal popolo, e del popolo rappresentano la parte più vi-  gorosa e combattiva?   Perché si ostinano a ripetere con tediosa monotonia  che la guerra è stata voluta dalla borghesia, attribuendo  dunque a questa classe un vanto che certo non le spetta?   Ho lanciato l’invito.   Ho mostrato ai nostti avversari il terreno sul quale  potremmo intenderci, e le pregiudiziali antipatiche che  c’'impediscono un avvicinamento.   Sapranno essi spogliarsi di queste pregiudiziali che  sono altrettanti errori gravissimi?   Sapranno a loro volta dirci una patola onesta e schiet-  ta di simpatia disinteressata? Se capiranno che è assurdo  e bestiale continuare una campagna diffamatoria contro  una guerra che si è chiusa vittoriosamente e che, malgrado  tutto, ha giovato enormemente al proletariato, se capi-  ranno che noi pur amando fieramente l'Italia, non abbia-  mo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari, codini    Fb)       e clericali, essi ci tenderanno la mano e ci aiuteranno a  spezzare tutte le schiavitù che ancora ci sovrastano.  Dopo, potremo tornare a divorarci, se sarà necessario.    Marro CARLI  {da: Roma futurista, 13 luglio 1919)  Bisogno, ad ogni sosta, di guardare attorno. Vedere  un po' come va la vita, la cui visione precisa, a volte,  si perde nel martellamento sanguigno della lotta. Misu-  rare i compagni e gli avversari. Riprendere le distanze.   Ci teniamo molto, via via che più si ingarbuglia il  fascio di forze e di tendenze del mondo politico italiano,  a rittovare i nostri contorni. Pulirli. Indurirli sì che si  rimbalzi sopra qualunque tentativo di penetrazione im-  pura.   La lotta di partiti, nel suo svolgimento poco netto,  si traduce rispetto a noi futuristi, assertori del predomi.  nio della genialità italiana, in un lavoro di isolamento.  Le scorie cadono. La marcia viene schizzata via dalle  contrazioni atletiche della nostra carne sana.   Solitudine splendida.   Nella costituzione organica dei vari aggregati di parte  noi siamo il cetvello possente che domina, e comanda  alle tre membra funzioni del tutto subordinate. In questa  immagine somatica, il partito socialista ufficiale rappre-  senta, rispetto a noi, l'intestino retto, maceratore e scari-  catore d'ogni feccia.   Un compito troppo importante, come bene ha detto  l’amico Settimelli, per poterlo disprezzare. Ci vuole.   Solamente è bene che non si dimentichi mai la sua  posizione assolutamente accessoria.   La nostra antipatia per il socialismo in genere, pet    76       il socialismo italiano in particolare, ha delle ragioni pro-  fonde balzanti dall'istinto della nostra razza di cui noi  siamo i rappresentanti più interiori, con tutti i suoi di-  fetti se si vuole, ma anche con tutte, t44te, le sue doti  di energia, di intelligenza, di ardimento. E distinguiamo  ciò che sempre si può giustificare nel quadro infinito della  vita, l'idea, da ciò che, appunto perché nella vita, si ha  il dovere di discutere e di espellere, quando ne arresti  il libero svolgimento.   Idee e uomini.   Socialismo e socialisti italiani.   Noi siamo contro il socialismo perché astrazione fi-  losofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo che  si agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovata,  e mai si troverà la formula di traduzione in positivi svi-  luppi di masse sociali. Meditazioni di uomini respinti  dalla vita calda e vibrante, per un ingranaggio disgraziato  della loro mente incapace di aderire alla bellezza appas  sionante del mondo.   La riforma che l'idee socialiste propugnano, non na-  sce da noi, dalla nostra maniera di essere, dalla nostra  natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e dividerci.  Cala dall'alto, da cieli metafisici. Ha l’impotenza caratte-  ristica di tutte le religioni meditate, ragionate, logiche,  e non create dallo slancio lirico di un'anima d'uomo.   Marx ed Engels hanno costituito delle sopra realtà  gigantesche che tutti hanno dichiarato magnifiche, ma  che nessuno ha avuto il coraggio di criticare, appunto  perché la critica umana non si può esercitare su delle con-  cezioni prive di umanità.   Boris d’Ysckull, uno di quei mistici slavi capaci di  bere ogni miscela più insipida, ha confessato di non aver  mai compreso quasi niente di simili esposizioni domma-  tiche, e di essere stato attirato solo per la loro oscurità  affascinante. Chi, italiano, può così rinunziare alla vulca-  nica e solate natura da itrigidirsi in questi mondi sen-  z'aria, non può che trovarsi nell’identica posizione del-  l’illustre imbecille  surricordato. Le prime utopie della  Città, mantenentesi allo studio di immaginose e dilettose    15;       invenzioni nei primitivi — Platone, Tommaso Moro  Campanella — passando a peggior vita nelle scatole cra.  niche dei tedeschi, si sono meccanizzate in modo da di  venire delle cose perfettamente anti-geniali, anti-latine e,  soprattutto anti-italiane.   Noi fututisti, che abbiamo violentato il vuoto e so-  gnante torpore italiano riempiendolo di idealità fatte di  vita, intessute di nervi sensibili, calde di sangue rossis-  simo, vogliamo una penetrazione a fondo nel blocco psi-  cologico della nazione: ivi è la direttiva unica delle tra-  sformazioni che il nostro destino esige.   Noi siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo  la necessità della diseduguaglianza. Diseduguaglianza di  valori, che bisogna esaltate, lievitare, mantenere ad ogni  costo. Un piano uguale di esistenza, una distribuzione ar-  monica dei beni, una soppressione assoluta di privilegi  — ma su questo livellamento di condizioni materiali  l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole capacità.   II socialismo, pretendendo distruggere la molteplicità  innata di un popolo non può, in via logica, che discen-  dere dalla nazione alla città alla famiglia, dalla famiglia  all'individuo, e quindi alla creazione di tanti individui  identici, a stampo, senza differenze di tipi. Il comunismo,  ch'è la forma più in voga, non può tradursi, a meno di  negatsi, che in un monismo esasperante, monotono e inerte.   La Russia ce ne dà la prova: la massa oppone al ten-  tativo di numerazione, che offre appena una pallida idea,  per il carattere più pacato e passivo di quel popolo, di  ciò che avverrebbe da noi.   L'Italia è tutta un magnifico inno di incoerenza, dal  l'Alpi alla Sicilia. Follemente varia. Ogni provincia un  mondo. Popolazioni dolci come le sue pianure, laboriose  come i suoi fiumi, divampanti come i suoi vulcani.   Noi non possiamo pensare che tutto ciò si riduca a  un uniforme impasto. Noi futuristi opponiamo la neces-  sità assoluta di un decentramento che mantenga, esalti,  vivifichi fino al culmine ogni caratteristica, ogni genialità,  ogni attitudine delle singole regioni: l’unità italiana sarà  allora una valorizzazione completa di sufta i'Ttalia.    78    Siamo contto il socialismo perché idea generatrice di  vigliaccheria. Della gente che riuscisse davvero ad attuare  la distribuzione economica dello Stato socialista, dovreb-  be basarsi su un concetto di mutualità cooperativistica.   Cooperativa a mutuo soccorso vuol dire la sicurezza  matematica di non rimaner mai al verde quindi abolita  ogni situazione di Jotta, reso campletamente inutile lo  sviluppo e il gusto del rischio. Spatizione di coraggio.   Se ciò è immaginabile su piccola scala, perché gli ef-  fetti malefici sarebbero ridotti così al minimo da essere  cancellati dai vantaggi, non si può pensare cosa sarebbe  mai una nazione sottoposta a tale regime, soppressa ogni  difficoltà di cartiera, butocratizzata Ja conquista della vita,  scomparso ogni pericolo, ogni ansia, ogni tensione.   Non trovando nulla di vario nei suoi sirzili, non tro-  vando nulla di divertente nella sua esistenza logica, a ore,  a mansioni fisse, l'uomo socialista finirebbe col rientrare  in sé stesso. Cercare in sé l'interesse che il mondo non  gli offre. Alla forza di diffusione dei popoli geniali, si  sostituirebbe quella di egoismo egocentrico dei popoli cal  colatori.   Da simili mondi la generosità fugge taccapricciata, non  può distribuire i suoi insegnamenti di grandezza: è come  andare a vendere ombrelli in un paese dove non piove  mai — a che serve esser generosi con della gente che è  tutto misurato, tutto il necessario?...   La morale che tali ambienti possono produtre è ma-  rale di egoismo e di vigliaccheria.   Noi opponiamo la morale della generosità, lucidamen-  te affermata da Balilla Pratella, quotidianamente da noi  vissuta in una dedizione senza calcolo, in una aderenza  spontanea e intellipente alle tramutanti necessità della  Patria.    Queste le tre ragioni fondamentali che ci dividono  dal socialismo — idea —: la astrazione filosofica e inu-  mana della formula, la sua azione di parificazione moni-  stica, la derivazione logica di antigenerosità = vigliac-  cheria, egoismo. Altre ragioni particolari ci sono, che ci porterebbero  ad una disanima troppo lunga — ragioni, del resto, che  non sono specifiche della nostra differenza dal socialismo,  ma che possono essere anche di altri partiti. Esempi:  l'assurdità della soppressione dello Stato come potere cen-  trale, la sciocca concezione di una pace eterna, ecc. ecc.    * o *    I socialisti italiani.   Sono, indubbiamente, dei buoni socialisti perché han-  no già, in pieno regime borghese lo stadio mentale senza  calore e senza colore del socialista di domani. Non sen-  tiamo il bisogno di spenderci molte parole, né di pas-  sarli in rivista uno ad uno.    Dirigenti: dittatura di vomini che hanno la mira pre-  cisa di diventare qualche cosa, un'autorità, una persona  importante. Non c'è tra loro neppure un mistico esaltato  che interessi. Calcolatori. Cinici.    Seguaci: massa la cuì concezione più alta è questa:  bisogna distruggere il caroviveri. Gente che cerca di met-  tersi a posto. Invidia il horghese, quindi ha desiderio di  divenire il borghese.   Le loto qualità principali sono:    inintelligenza: non hanno ancora capito che il sociali  smo è diverso da popolo a popolo: commerciale  nel-  l'America del Nord, conservatore in Inghilterra, filosofico  in Germania, mistico in Russia. Non hanno capito che il  socialismo in Italia può, caso mai, balzare dalle nostre  istituzioni rurali;   inattualità: sano coerenti in una maniera fantastica,  tant'è vero che le idee invecchiano e loto seguitano ad  usarle. Credono d’essere all'avanguardia, e lo sono come  il gambero, il cui traguardo è sempre alle spalle, dietro:   vigliaccheria: oltre la vigliaccheria propria della idea  hanno una viltà tutta propria, personalissima, originale:  inutile parlarne: chi interviene ai comizi elettorali ne sa  qualcosa.    Il futurismo è il mondo più lontano dal socialismo.    80    Il futurismo è veramente il senso di una religione  nuova, che si dirige alle anime, agli spiriti, ai cervelli,  e non si interessa del corpo che per fortificarne i muscoli,  farne strumento di agilità audacissime e di voluttà sane.   Generato dal cervello di un attista ha tutta l'umanità  di una idea italiana, sempre profumata di buona terra fer-  tile anche quando si esalti fino ai più puri orizzonti.   Attività poliedrica, il futurismo è lo sfruttamento com-  pleto di tutte le penialità italiane, manuali e cerebrali.  Ridarà all'Italia i suoi magnifici artieri, maestri d'ogni  sotta di lavoro, come lo à dato e lo darà ai suoi artisti  più grandi. I suoi vomini non hanno deficienza: danno  la loro vita in una proteiforme attività prodigiosa. Poeti  e soldati, sogno e vigilanza, idea e azione.   Non c’è possibilità di contatto tra la nostra morale  e quella socialista, tra i nostri uomini e i loro.   E’ assurdo ogni pensiero di collaborazione.   FUTURISMO CONTRO SOCIALISMO. SEMPRE A  QUALUNQUE COSTO!   GiusePPE BOTTAI  {[da: Roma futurista.Noi e i borghesi    Non una polemica, ma una discussione calma e pa-  cata. Polemica no, per non arrivare fino a quella anima-  zione un po’ acre e impetuosa, che annebbia le idee e  deforma la realtà.   Ci tengo, a questa dichiarazione preliminare, perché  l'amico Mannarese, nel suo lucido articolo, pur mante-  nendosi in una linea di cortese serenità, devia in punta-  tine ironiche, che non èànno ragione di essere, se vera-    81       mente egli ci vuole aiutare, nella demarcazione esatta della  nostra individualità politica.   Trovo ad esempio molto strano, per un futurista, l'os-  servarsi che la mia formula (adopto la parola formula,  per attenermi alla dizione dell'amico, per quanto essa ab-  bia un senso storico, che mi ripugna) abbia potuto rin-  galluzzir di saverchio, con la sua violenza: “futurismo con-  tro sociglismo, sempre, a qualungue costo” qualche buon  borghesetto. Questo non mi preoccupa, e direi, anzi non  ci preoccupa. Noi esprimiamo liberamente le nostre idee,  le gettiamo nel mondo, tta la gente; e i casi sono due,  come sempre: o la gente non le capisce e allora non c’è  nulla da fare: o le capisce, le approva, ci si interessa, c  le apprezza nel giusto valore, e allora poco ci importa  che tale gente sia proletaria o borghese, destra o sinistra,  e, anche, ambidestra.   Noi non sosterremo mai, com'un certo avvocatino di  nostra conoscenza fece in una recente seduta del Fascio  di Combattimento romano, che la guerra ha distrutto agni  distinzione tra destra e sinistra; ma non vogliamo di tali  logiche e necessarie e salutari differenziazioni (?) fare il  nostro spaventacchio. Chè, pet questa via, si giunge alla  grossolana affermazione di Adriano Tilgher (Tempo, 7  dic., pag. 3, Piccoli borghesi al bivio): essere il furore  antisocialista degli atditi originato dall’appartenere costo-  ro, quasi tutti alle classi medie; e pensare che in parec-  chi mesi di convivenza con le fiamme nere mi son trovati  attorno solo contadini, operai, lavoratori-proletari!   Prima caratteristica del futurismo, è questa, libera,  sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede  oggi difensori dei suoi salami, delle sue salsicce, poco ma-  le! ciò potrà darci la prova della sua minchioneria, non  già infirmate l’esattezza del grido « futurismo contro so-  cialismo ».    Socialismo non è proletariato    L’amico Mannarese fa un’identificazione  pericolosissi-  ma, e non rispondente alla realtà positiva dei fatti. Egli    82       pone sullo stesso piano socialismo e proletariato, stabili-  sce senz'altro questa identità matematica: socialismo = pro-  letariato.   Ciò spiega perché tanto si accanisca contto la finale  del mio articolo. Alle parole « contro socialismo, sempre  a qualunque costo » è dato il valore di un'affermazione di  questo genere: « contro le aspirazioni del popolo, contro  i diritti dei poveri, ecc., ecc... ».   Orta, mi ribello assolutamente. Non in nome mio sol  tanto, ma di tutti i futnristi, e anche, di tutti i nostri  amici fascisti.   Distinguere bisogna.   Una cosa è quello che l'amico chiama: «/o sforzo vio-  lento, l’oscura irresistibile aspirazione della massa verso  un regime di maggior giustizia economica » e un'altra cosa  è il socialismo. Le aspirazioni proletatie sono fatto imma-  nente, istintivo, fatale, non pensato ma sorto da sé, il so-  cialismo è uno dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo  è mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni delle  classi.   Se io mi pongo contro il socialismo o contro i socia-  listi, mi dichiaro contrario ad un sistema filosofico, giu-  ridico, economico, morale ed ai suoi sostenitori (filosofi,  demagoghi e procaccianti che siano), ma non è detto ch’io  voglia attaccare l’oggetto di tale sistema che è il prole-  tariato.   Non debbo, quindi, rettificare in nulla la mia incri-  minata frase, ch'era un grido, un appello conclusivo del  mio articolo, limitatosi ad una valutazione di idee, e non  aveva la pretesa d’essere un caposaldo, un domma, un  punto cardinale, ed altri simili paroloni che noi lasciamo  agli oratori da comizio.   L'affermazione: « Noi non siamo contro il socialismo,  ma contro gli uomini, i metodi e la filosofia socialista »  del Mannarese è un non-senso, perché appunto: socialismo  è flosofia sostenuta da wormini con determinati metodi.   Quella che il Mannarese chiama sostanza (eh! queste  parole che otribili titi giuocavano, a volte) ossia: «la  guerra per l'indipendenza economica dei poveri contro i    R3       ricchi » non è privativa assoluta del socialismo, è solo  l'obiettivo dei suoi studi, dei suoi tentativi, come essa  fu obbietto della favola di Menenio Agrippa, e delle  teorie di Fenelon, e della scuola di Saint Simon, e del  sistema di Grace Baboeuf e Roberto Qwen, e così pure  della filosofia di Marx ed Engels. Anche il nazionalismo,  anche il partito popolare, tutti anno affermazioni solenni:  « qui è l'unico infallibile specifico per il dolore del po-  palo » e io posso essere contro questi modi da cerratani  senza mai essere né contro il popolo né contro le sue  sacre e legittime aspirazioni economiche    I programmi economici    All'amico Mannarese è forse sfuggito nel mio articolo  questo periodo: « Un piano eguale di esistenza, una di-  stribuzione armonica di beni, una soppressione assoluta di  privilegi ma su questo livellamento di condizioni mate-  viali l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole ca-  pacità ».   Qui, evidentemente, si dice:  « noi passiamo essere  d'accordo nelle finalità economiche del socialismo ». Quelle  tre proposizioni del programma politico futurista di Ma-  tinetti, Carli e Sertimelli, che il Mannarese dice troppo  generiche, anno il merito di poter domani assorbire in sé,  senza contrasto, qualunque ardimento consono allo spi-  rito dei tempi.   Hanno un’intenzione pragmatista, che non deve sfug-  gite.   Il programma di riforme economiche, lanciato ai po-  poli come panacèa, è cosa vecchia di tutti i tempi e di  tutte le genti. Ogni scuola politica è per prima cosa inal-  berata questa insegna molto attraente. Tutti i programmi  ben definiti, schematizzati, rigidi, anno sempre atteso,  con grande pazienza, che le cose del mando si incanalas-  sero ne’ fossati, canali e zenelle da loro tracciati, ma le  cose del mondo anno dimostrato, a lume di storia, di  procedere per via di approssimazioni successive, le quali  avvengono non già pet magnetizzazione esetcitata cai suddetti programmi, ma per madificazioni addotte, nel blocco  fisiopsicologico di una collettività, dal sistema di educa-  zione, dalle idee di morale circolanti, dalla rinnovatasi  coscienza giuridico-sociale.   Se oggi, per ragioni ovvie, il problema economico è  venuto in primo piano, non bisogna dimenticare che la  parte veramente essenziale di un sistema politico non è  già il disegno di un futura assestamento economico, ma  è il metodo con cui saprà, attraverso uno studio positivo  dello stato presente e dei caratteri permanenti della so-  cietà in genere (meglio ancora di una data parte di so-  cietà) creare tutt'un’atmosfera spirituale intellettuale psi-  cologica, che renda possibile l’attuazione di quel dato or-  dinamento economico, che nel momento è bene limitarsi  a definire desiderabile.   I socialisti italiani sanno che il popolo italiano non  à neppure iniziata l'evoluzione sociale che permetta l’av-  vento, ad esempio, del comunismo. Ora essi, scavalcando  completamente ogni lavoro di educazione, sventagliano i  loro proclami di rivendicazioni economiche. Il popolo  risponde, è naturale: è Bengodi con i suoi meravigliosi  panorami. Ma ciò non significa aver creata una società  comunista, come non è fare un signore aristocratico d'un  villanzone qualsiasi il riempirgli le tasche di denaro.   Sotto il punto di vista della potenzialità vera di un  partito il valore di tali programmi è nullo. Hanno un  valore pratico di specchietto per gli allocchi, e se l'amico  Mannarese ci avesse detto che, abbondando gli allocchi,  è bene ch’anche noi abbiamo il nostro specchietto, gli  avremmo dato piena ragione.    Il nuovo imperialismo    Non ci deve, quindi, affligere di soverchio, la man-  canza di formulazioni teoriche, di programmi economici.  Noi futuristi non siamo mai stati assenti quando questio-  ni positive siano in tal senso nate. Né il trionfo socialista  deve farci perder la resta così da correr subito ai ripari.  No. La nostra posizione è netta, e possiamo guardarci    85    tranquillamente intorno: il germe della morte del socia-  lismo è appunto localizzato nel suo sistema di rivendica-  zioni economiche, aggravato dal fatto di essete così iso-  lato da ogni altra considerazione d'ordine superiore da  divenire il segno folle di un nuovo imperialismo.    Non è possibile nessun contatto tra due sistemi così  opposti come sono quello socialista e quello futurista.   E’ l’anima differente.   E' il cervello diverso.    Se anche noi potessimo conglobare per intero nel no-  stro ordine di idee ogni aspirazione economica del socia-  lismo, rimarrebbe la differenza profonda, incancellabile di  indole, di origine e di finalità.   Noi siamo per l'elevazione del popolo, e non pet l’as-  solutismo demagogico di essa.    Tirando le somme    E riassumiamo, perché la discussione non rimanga uno  sterile battibecco. L'amico Mannarese m’à offerto il modo  di delineare meglio la nostra situazione innanzi al socia.  lismo:    1) posizione di ostilità per indole spirituale diversa;    2) possibile comunanza di vedute economiche: il che  non implica nessuna fusione;    3) condivisione di alcune idee (come ad esempio il  divorzio ecc. ecc.) che non sono prerogativa socialista, €  che non possono, quindi, render omogenee due sostanze  diverse. CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOL DIRE  CONTRO IL PROLETARIATO.   GiusePPE BOTTAI   [da: Roma futurista, 21 dicembre 1919]   La lentezza delle democrazie, le pastoie burocrati  che dei procedimenti parlamentari. il vecchiume paro-  laio dei barbuti senatori non possono essere ben visti  dai futuristi. La velocità, il dinamismo, la lotta, la  competizione, l’azione mal si addicono agli organismi  pingui e sclerotici delle democrazie, quella italiana in  particolare. Già nel 1910 Marinetti lo mette in rilie-  vo ed indica nel suo manifesto «Contro l'amore e 3  parlamentarismo », sintomo ed espressione di questa  sua antipatia e di guesta sua avversione Persino l'amo-  re e le donne in senso romantico sono indici e stru  menti di « rallentamento », e come tali da evitare tran-  ne che per una loro ben precisa ed organica funzione  vitale. Le donne andrebbero invece bene pei parlamen  ti, dove dovrebbero entrare con le loro chiacchiere e  la loro prodigiosa e altisonante facoltà di falsificazione.   Ma non è solo Marinetti a inveire contro il parla  mentarismo: c'è Tavolato che uddirittura « bestemmia  contro la democrazia » in un suo articolo apparso con  questo titolo su Lacerba del 1° febbraio 1914, ricco di  espressione e carico di colore linguistico e letterario.  I 30 dicembre dello stesso anno un altro futurista,  Volt, tuona dalle colonne di Roma fututista: Abolia-  mo il parlamento! In sua sostituzione si propongonna le  rappresentanze dei sindacati per la formazione dello  «Stato tecnico » futurista. E si entra nel merito della  personalità giuridica dei sindacati e della loro forza rap-  presentativa in base all'importanza della loro funzione  economica. Non in base numerica, per cui si rientrereb-  be nella concezione democratico-parlamentare. Non più  onorevoli quindi sulle assise delle due camere, ma la-  voratori. E sono tutti concetti che ritroveremo nella  concezione corporativa fascista e nella suu Carta del  Lavoro   Dopo la guerra Marinetti intervtene su Roma futu-  rista mel maggio del '19 per ribadire la sua.« concezione  futurista della democrazia », come s'intitola il suo scrit-  to, che era già apparso um mese prima, più 0 mena  analogo, su L'Ardito. Vi si sostiene la democrazia tipi  camente italiana dei geni: una sorta di minoranze di  individui superiori alla media, destinati a entrare. in  competizione con le altre, definite democrazie incoscien-  li, come prodotta numerico « d’inetti e di sconclusiona-  ti». La forza della nuova democrazia dovrà essere na-  turdimente violentissima data l'accelerazione e il ren  dimento degli individui geniali. La sua « conclusione »  sarà logica e conseguenziale: « La democrazia futurista  è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le  sue cellule vive ». L'azione sarà condotta da Mussolini,    ma il presupposto è già comunque e totalmente presente.    BESTEMMIA CONTRO LA DEMOCRAZIA    Tre spanne sotto il cervello io nutto un odio, un  odio contro la presunzione del lavoro, un odio contro il  puzzo cosciente, un odio contro l’imbecillita evoluta. Tre  spanne sotto il cervello si spenge ogni polemica. I de-  mocretini rinunzino alla discussione. I democretini s’ada-  gino sopra i loro luoghi comuni, perché il mio piede pos-  sa calpestarli.   Via, batbe comiziesche che mi nascondete il sole. Via,  mani a ventola e cravatte a bandiera. Fermati, passo de-  mocratico sotto cui trema la terra offesa. Arrestatevi, la-  mentele filamentose, voci incristianare, zuccherose o  pe-  pate. Via, spade di legno, trombe sfiatate, via, inesistenti  barricate. Smontate, uomini di paglia, uomini di stoppa  uomini di cartastraccia. Nascondetevi, ceffi di cera, ma-  scheratevi, faccie rinfisecchite, sparite, ghigne insolenti.  Sgonfiate, protobischeri pastori di popolo. Aria ci vuole,  e luce e calore e solidità, o anima mia. Abbasso la de-  mocrazia! Fumano d'orgoglio, le gran fave. Fumano, questi strac-  cioni e stronzoni, questi mangiasputi e fiutarutti, questi  tinconi, questi turabuchi, questi scotticapidocchi, questi  merdaioli, questi caconi, questi galoppini, questi pagnot-  tisti, questi biasciconi, questi lumaconi, questi minchioni,  questi balordi gonzi e gralli, questi coglioni appuzzoni e  cittulli, questi sussurroni caccoloni, questi satraponi vir-  tuosoni. Già tutto il paese fuma, smerdata com'è da que-  ste pecore matte. Pulizia, pulizia, pulizia! Abbasso la de-  mocrazia!    Bischeri sollevatissimi, bischeri smargiassi, bischeri  ventosi, bischeri girandoloni, bischeri soppiattoni, bische-  ri politicanti, bischeri economicizzanti, bischeri vani, bi-  scheri solenni, bischeri tronfi, bischeri crespi, bischeri cal.  losi, bischeri pensosi, bischeti pacifisti, bischeri leghisti, bischeri classisti, bischeri marxisti, bischeti riformisti, bi-  scheri collettivisti, bischeri revisionisti, bischeti comunisti,  bischeri credenti, bischeri fetenti, bischeri ufficiali, bische-  ri legali, bischeri di cartapecora, bischeri del braccio, bi-  scheri del cervello, bischeri antilibici, bischeri internazio-  nalisti, bischeri democratici — BISCHERI DI TUTTO  IL MONDO UNITEVI! La vostra individualità non ha  importanza. Unitevi! Amalgamatevi! Confondetevi in mel-  ma! Anche la melma dei bischeri, come ogni melma, s'in-  crosterà. E sotto le croste ci sarà il gelo della morte.  Così sia. Abbasso la democrazia!    Accidenti alla democrazia, impero delle bestie da so-  ma, regno degli schiavi, padronanza dei servi, supremazia  degli impiegati! Democrazia, sostegno degli sfiaccolati,  trionfo dei cimiciosi, glotia dei piattolosi, arma dei bro-  dolosi; democrazia, orchestra di miasmi, concerto di sputi,  convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vitto-  ria dei muscoli e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte  e imposizione del mestiere, vita del debole e agonia del  forte; lurida, sudicia, tetra democrazia, cloaca dove affo-  gano fantasia, ingegno, energia, e tutte le soavità; pro-  terva asineria, fessa stivaletia: abbasso la democrazia!   E rovini Ia mediocrità!   Fuoco al tugurio dei democretini!   I democretini è la lanterne!    La libertà soltanto a chi sa cosa farsene, a chi sa vi-  verla.    Agli altri il giogo, la sferza e la schiavitù.    EVVIVA LA FORCA, o amici, per la libertà vostra  e per la libertà mia!    ABBASSO LA DEMOCRAZIA. TAVOLATO  [da: Lacerba,Firenze]   Aboliamo pure il Parlamento — si domandano mol-  îi — ma cosa metteremo al suo posto?    La risposta è pronta. Soszituiremo til Parlamento con  le rappresentanze dei sindacati agricoli industriali ed ope-    rai. La rappresentanza sindacale sarà la base dello « Stato  tecnico » futurista.    AI « collegio » elettorale, circoscrizione fittizia ed ar-  bitraria, entità che sembra creata apposta per l'esercizio  del broglio, sostituiremo il sindacato, espressione organica  delle forze economiche che danno effettivamente forma  alla società. AI posto dell’« onorevole » deputato, dema-  gogo costretto all’accattonaggio sistematico del voto e feu-  datario di una nuova feudalità peggiore dell'antica, man-  deremo a governare il paese ingegneri, commercianti ed  operai, gente che sa il suo mestiere e conosce i bisogni  reali della propria classe. Invece di un’Assemblea di in-  ttiganti, di chiacchieroni e di incompetenti, avremo un  corpo tecnico adatto allo scopo di dirigere, con conoscen-  za di causa, la grande azienda dello Stato.    In pratica l'idea della rappresentanza sindacale si tro-  va di fronte a difficoltà serie ma non insopportabili.    Vati problemi ci si presentano.    1) A quali sindacati concederà lo Stato la personalità  politica? Si tratterà di determinare le categorie di pto-  duttori che avranno diritto a una rappresentanza nel corpo  legislativo.  L'iscrizione ai sindacati sarà obbligatoria per tutti  i cittadini? A me sembta che sia più logico lasciare che  esercitino i diritti politici coloro che ne hanno la volontà  e coscienza.    Coloro che resteranno volontariamente fuori dei sin.  dacati cortisponderanno in parte alle masse degli astenuti  nelle odierne elezioni a suffragio universale. In base a quale criterio si misurerà il numero di voti da attribuirsi a ciascuna categoria di sindacati? E’ la  questione più scottante. Il criterio più semplice è quello  numerico. Ma così si ricade nell'atomismo individualistico  del suffragio universale.    Io credo che non si debba tener conto del numero  degli iscritti al sindacato, ma della importanza della fun-  zione economica che esso esercita nel Paese. Quindi un  sindacato di industriali metallurgici avrà una rappresen-  tanza eguale a quella di un sindacato di lavoratori del  ferro benché questi ultimi siano molto più numerosi.    E ciò perché l’importanza delle due funzioni si con-  trobilancerà nell'economia nazionale.    L'amico Settimelli dirà che questo è un criterio poco  democratico. Me ne infischio.    4) Quali saranno i limiti posti all'esercizio del potere  dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza sindacale?  La competenza dell'assemblea dovrà essere limitata alle  questioni prevalentemente economiche, che sono del resto  le più importanti in politica.   Le questioni di famiglia, di politica estera ecc. dovran-  no esser risolte in parte mediante il « referendum »  popo-  lare diretto ed in parte attribuite alla competenza del po-  rere esecutivo.    Non ho fatro che accennare le principali questioni. In-  vito tutti i giovani futuristi ad inviarmi le loro soluzioni  ai quattro problemi che ho posta, senza avere la pretesa  di risolverli definitivamente. Ma mi sembra che la que-  stione sia matura per lo studio. E poi per noi futuristi  « studio » deve significare già un principio di esecuzione.  E’ l’ora di finirla col Parlamento. Abbiamo fatto la guerra  senza bisogno del Parlamento. Senza il Parlamento sapre-  mo fare la pace. E' ora di sbarazzare l’Italia dalle 508  incompetenze che spadroneggiano a Montecitorio.    VOLT  [da: Roma futurista, DEMOCRAZIA FUTURISTA    L’orgoglio italiano non deve essere, non è imperialismo  che spera imporre industrie, accaparrare commerci, inon-  dare di prodotti agricoli. Nai difettiamo di materie prime,  e siamo una potenza di ricchezza agricola mediocre.   Il nostro orgoglio italiano è basato sulla superiorità  nostta come quantità enorme di individui geniali. Voglia-  mo dunque creare una vera democrazia cosciente e audace  che sia la valutazione e Ja esaltazione del numero poiché  avrà il maggior numero di individui geniali. L’Italia rappresenta nel mondo una specie di minoran-  za genialissima tutta costruita di individui superioti alla  media umana per forza creatrice innovatrice improvvisatri-  ce. Questa democrazia entrerà naturalmente in competizio-  ne con la maggioranza formata dalle altre nazioni, per le  quali il numero significa invece massa più o meno cieca,  cioè democrazia incosciente.   Su 1000 slavi vi sono due o tre individui.    L'ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che non  vi è gruppo di italiani (20, 30 o 40) che non contenga al-  meno 10 o 15 individui capaci di iniziativa e di direttiva  personale    Abbiamo ancora da sgombrare e da bonificare le zone  morte dell’analfabetismo. Questo compito molto arduo con un nemico minaccio-  so alle porte è oggi compito facile e senza pericoli per la  unità e indipendenza nazionale.    Nazione ricca di individui geniali, democrazia intelli-  gentissima. Quantità di personalità tipiche, massa di tipi  unici, democrazia che non vuole imporsi bancariamente,  industrialmente, colonialmente, ma può e deve dominare  il mondo e dirigerlo con la sua maggiore potenzialità ed  altezza di luce.    Noi crediamo che l'ora è venuta di tentare tutte le ri-  voluzioni per liberare il popolo italiano da tutti i pesi  morti e da tutti i ceppi (matrimonio e famiglia Cattolica soffocatrice, pedantismo professorale, elettoralismo, menta-  lità pessimistica, provinciale mediocrista e quietista).    Liberata dal giogo della vecchia famiglia tradizionale,  dal dogma dell'anzianità, l'Italia manifesterà finalmente la  sua potenza di 40 milioni d’individui italiani tutti intelli-  genti e capaci di autonomia.    Concezione assolutamente apposta alla cretinissima concezione germanofila che voleva svalutare i 40 milioni di  individui italiani per organizzarli meccanicamente.    Su] palcoscenico della razza italiana dobbiamo mette-  re in luce 40 milioni di ruoli diversi perché in questa luce  possa perfettamente svolgersi il valore tipico d'ognuno.(Censura) Noi non abbiamo la nevrastenica pigrizia, la neghittosi-  tà, il misticismo, il boiantismo ideologico, l’ossessione teo-  rificatrice della Russia. Siamo pieni di senso pratico, di  tenacia costruttrice, di ingeniosità inesauribile, di eroismo  bene impiegato. Possiamo dunque dare tutti i diritti di fare  c disfare al numero, alla quantità, alla massa poiché da noi  numero quantità e massa non saranno mai come in Germa-  nia e in Russia numero quantità o massa d’inetti e di sconclu-  sionati,   Arturo Labriola definisce la democrazia « come senti.  mento dei diritti concreti della massa sullo Stato e sulla  Economia ».    Noi futuristi consideriamo la democrazia non in astrat-  to ma bensì la « democrazia italiana ».   Parlare di democrazia in astratto è fare della retorica.  Vi sono numerose democrazie, ogni razza ha la sua de-  mocrazia, come ogni razza ba il suo femminismo.   Noi intendiamo la democrazia italiana come massa di  individui geniali, divenuta perciò facilmente cosciente del  suo diritto e naturalmente plasmatrice del suo divenire  statale.La sua forza è fatta di questo diritto acquisito, molti-  plicata dalla sua quantità valore, meno il peso delle cellule  malate (incoscienti, analfabeti). La democrazia italiana è per noi un corpo umano che  bisognerà liberare, scatenare, alleggerire, per accelerarne  la velocità e centuplicarne il rendimento.    La democrazia italiana si trova oggi nell'ambiente più  favorevole al suo sviluppo. Ambiente di rivoluzione-guerra  nel quale è costretta a risolvere tutti i suoi casi-problemi  insoluti, le cui soluzioni possono esercitare una influenza  sul suo avvenire. Necessità igienica di continua ginnastica  trasformattice, improvvisatrice.    Il governo si allarma oggi nel vedere formarsi innume-  revoli associazioni di combattenti. Se non fosse un governo  di miopi reazionari tremanti di paura accaglierebbe favo.  revolmente questo nuovo ritorno di vitalità italiana.    La guerra ha semplicemente svegliate le coscienze di 4  o 5 milioni di italiani che tornano oggi dalla guerra, atric-  chiti di una personalità politica.   E’ la prima volta nella storia che più di quattro mi.  ltoni di cittadini di una nazione hanno Ja fortuna di subire  in soli 4 anni un'educazione intensiva e completa con le-  zioni di fuoco, di eroismo e di morte.   Spettacolo meraviglioso di tutto un esercito partito per    la guetra quasi incosciente e ritornato politico e degno di  governare.    La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché  sente vibrare tutte le sue cellule vive.   Naturalmente ha un bisogno urgente di spalancare le  porte e di uscire all’aperto. I) governo si allarma, reprime  e trema, come la nonna leggendaria teme che il nipotino  pigli un raffreddore.   Fuori l’aria è frizzante e salubre. Il sole, spalancato, be-  ve il mare di liquido quasi solido saporito azzurro, tutto  spumante di raggi, tutto da bere fino all'ultimo sotso.    F.T. MARINETTI  fda: Roma futurista, un    EMILIO SETTIMELLI  F. T. MARINETTI    FUTURISMO E PRIMO FASCISMO    Emilio Settimelli commenta il Congresso di Firenze  su 1 nemici d'Italia (« settimanale antibolscevico diret  to da Armando Mazza ») del 10 ottobre del 1919. I  discorso di Meorinetti al congresso apparirà su L'Ardito  del 26 ottobre dello stesso anno, ma era già apparso  tre giorni prima su I nemici d’Italia (23 ottobre). Del  discorso e della «necessità dello svaticanamento »  ab-  biamo già parlato. Ma si postula anche l'ipotesi di un  eccilatorio di giovanissimi capaci di sostituire il semato  dei vecchi, ormai da abolire. Al suo posto un «consi  glio tecnico » andrebbe sollecitato e stimolato da gio  vani sotto i trent'anni, a moto continuo    Si parla poi di un proletariato dei geniali, quello  degli artisti d’Italia, più o meno a nascosti od esclusi »,  che andrebbero favoriti o promossi da iniziative pub.  bliche atte all'aiuto della loro espressione. L'origine  della proposta da parte di una «mente d'artista » ri.  sulta evidente. Marinetti è definito, al caso, « ardito  della poesia». La definizione è sempre di Settimeth,  che sostiene inoltre Marinetti sia «uscito » dal Con  gresso in «trinonmio» con Mussolini e D'Annunzio.  quello del « dopo Fiume »: un'alleanza politica mei fino  ad allora verificatasi.    Ed è ancora Settimelli, a questo proposito, a inneg-  giare ai due personaggi (Marinetti e Mussolini) in un  suo scritto, già pubblicato su I nemici d'Italia # 4 set  tembre 1919. Lo riportiamo perché ci sembra significa  tivo di un legame e di un rapporto. Non è vero che  l'arte debba essere estranea alla politica, vi si sostiene.  Anzi, è proprio l'artista a darle una sua interpretazione  od un suo connotato, un suo «travestimento », od usa  sua immagine fanto più nuova, quanto più ardimentose  ed « ardita». Mussolini è stato capace di recepirlo, e  il fascismo è un fenomeno nuovo praprin per questo,  e d'avanguardia.    La tesi di Settimelli è tipica del «futurismo delle  origini » o classica di un momento rivoluzionario, 0 di  rinnovamento. Ma anche Armando Mazza pubblica un  «fondo » il 30 Ottobre dello stesso anno sulla mede-  sima testata (I nemici d'Italia). L'articolo non è fir-  mato, ma è inserito sotto il titolo a quattro colonne:  Fascisti, a noi!, con un commento alle prospettive elet-  torali, un trafiletto in commemorazione della vittoria  nella’ ricorrenza annuale, e una colonna intestata: Ciò  che ci divide. Vi si spiegano 1 motivi di disaccordo e  distacco da tutte le altre forze politiche, quelle ew-neu  traliste e quelle del passatisma    MUSSOLINI E IL FASCISMO    Pensare col proprio cervello originale, liberare comple-  tamente il proprio temperamento, essere gli annunciatori  e i fondatori di una nuova mentalità: sofferenza di tutti i  momenti.   Mantenere la provria posizione di avanguardia, è cosa  da giganti.   Parteciparvi per qualche tempo è da tutti.   À un certo momento rimani quasi solo: la gran parte  degli amici si arrende, brutta e spregevole nella sua viltà  mascherata di scetticismo, oppure non crede più, sopraf-  fatta dalla vecchia e comoda mentalità. Disertano, perdono  ogni ritegno, ti attaccano. Si vendicano di averli resi —  sia pure per un anno — intelligenti, credono di poter me-  nomare la saldezza del tuo accizio, ti fanno recedere con i  loro atteggiamenti di commendatoria superiorità: cafoni ad-  domesticati, provinciali inguaribili.   Vivi in un ambiente pericoloso e stancante perché sen-  ti che è creato per l’« altra gente »1 mediocre, podagrosa.   Ti urti della continua ostilità.   Ti trovi dinanzi ad un avversario senza spirito, mono-  tono, insistente.   Un avversario indegno che ha la bruttezza goffa del  rinoceronte e il rompiscatolismo della zanzara.   Hai delle donne. Tentano di tutto per convincerle a  rinsavire e ti denigrano in mille modi cercando di portarle  a qualche mediocre ronzino o a qualche nobilissimo eunuco  lucroso 0 decorativo.   Lavori. Il tuo lavoro ba sempre qualche parte che  esorbita. Mai delle amicizie, ti seguono fino ad nn certo  punto. Non possono capirti a fondo.   Sei fatto per un mondo di eroismo, di forza, di bellez-  za, di temerità. Le tue grandi ali t’impediscono di cammi-  nare come il gabbiano di Baudelaire.    (eTe)    Tutto questo è atroce, ma di colpo una vittoria ti ripaga  di tutto.   Aver avuto ragione, aver visto lontano, aver costruito  un nuovo pezzo della vita, sia pure un piccolo pezzo, avere  anche per un attimo e per un millimetro contribuito allo  allargamento del mondo ti fa vibrare per la gioia dei ver-  tici.    Oggi ho questa gioia e la divido con quei pochi che  da dieci anni lavorano con me alla formazione di un am-  biente intellettuale italiano libero dai professori, dai tradi.  zionali, dai gottosi (non alludo ai seguaci del romanziere  Salvator!).   E Ia nostra gioia diviene frenetica quando constatiamo  che da un'altra parte, dalla politica ci veniva incontro un  uomo formidabile, nuovo come noi, libero come noi. E'  la gioia dei minatori che s'incontrano finalmente dopo aver  forata la montagna. Un «evviva », una manata di terra  sulle facce ebbre, sopra i sudori riganti e una stretia di  mano che è una prova del cuore e dei garretti.   Mentre con Marinetti e con gli altri amici lavoravamo  il campo artistico, dall'altro si muoveva Mussolini lavo-  rando il campo politico. Ci dovevamo incontrare. Un gi-  gante questo magnifico Mussolini! Con la forza ma anche  col peso di un grande ingegno, di un'anima vasta, di un  temperamento spaccafore, figlio di un fabbro ferraio si tira  su a suon di muscoli, di ingegno e di fegato. Supera la  più massacrante battaglia: quella contro la miseria, quella  che non potrà mai esser capita da chi non l’ha provata.  Chi è nato ricco non potrà mai essere completamente den-  tro la realtà e non avrà mai il collaudo delle sue energie.  Domina le folle, organizza, sbaraglia Turati, Treves, Rai-  mondo. Galvanizza il partito socialista. Scoppia la guerra,  capisce che la neutralità sarebbe contro il socialismo € per  il medioevo autocratico. Tenta di persuadere. I mediocri  ne approfittano per liberarsi della sua grandezza. Si forma  la imbecillocrazia dell’Avanzi! Mussolini lascia il partito che  rimane acefalo e si divincola in movimenti balordi e vili.  Intanto i piedi ridono soddisfatti per essersi liberati della    100    testa. Nasce così il Popolo d'Italia. Il primo quotidiano  veramente moderno e veramente italiano. Un ritrovo di  energie vive, spregiudicate, temerarie. Il lievito di questo  buon pane italiano nato dalla guerra. In esso tutti i vivi  si incontrano: Futurismo, Arditismo, D'Annunzio. E' una  punta sensibile e perforante, è l'effervescenza della grande  coppia italica, è il primo nucleo per una Italia nuova.   Ma il quotidiano non basta a Mussolini. Uomo d'azio-  ne ha bisogno di concretare, vuol raccogliere ciò che semi-  na giornalmente. Nasce il fascismo. Fenomeno degno della  più grande ammirazione e del più appassionante esame. Più  che un partito è una mentalità. Non si basa sulla promessa  di un certo paradiso futuro, si muove problematicamente  passo per passo alternando transigenza a intransigenza,  idealismo a realtà, arte a pratica concreta. Gli avversari del  Fascismo sono le vecchie anime che marciano solo dietro  promesse iperboliche e utopistiche, che scambiano incoe-  renza con duttilità, che non vivono dentro la vita vera e  vibrante, ma fra gli schemi arrugginiti di una mentalità  libera.   TI Fascismo raccoglie gli italiani più intelligenti e più  moderni con la sua ferrea ossatura di concretamento fa-  sciato da una atmosfera di sensibilità, di cordialità idea-  listica, di eleganza e di colore. Rende possibile la politica  anche per i temperamenti più contrari ad essa. Per esem-  pio gli artisti e gli ironici. L'Italia abbonda di artisti e di  ironici, anzi essi formano la sua parte migliore, intellettual.  mente.   Mussolini ha avuto il grande pregio di creare un’atmo-  sfera politica che non ripugna a questi scelti, a questi « mi.  gliori ».   L'intelligenza disinteressata si allontana dalla politica  quando essa s'imperna sulla falsa promessa di un paradiso  certo, sul settarismo, sulla gretteria animale.   Si sta preparando in Italia quella rinascita totale, ba-  sata sull’arte che tra le più feroci ironie e gli scetticismi  più assoluti amnnunciai nella « Inchiesta sulla vita italiana ».    SETTIMELLI  (da: 1 nemici d'Italia, Milano, SOGNO UN GOVERNO DI TECNICI,  ECCITATO DA UN'ASSEMBLEA »    Cari Fascisti! Cari Arditi!    V'invito ad acclamare un valoroso fascista assente, che  sarebbe qui con noi se il Governo anti-italiano di Nitti  non l’avesse condannato a tre mesi di fortezza    Mario Carli,  (Grida unanimi di: Viva Mario Carli! e applausi).    Il futurista Mario Carli è sfuggito alla polizia di Al-  bricci e gode l'atmosfera igienica di Fiume italiana. Ha  brillato così una volta di più l'elasticità veramente futu-  rista di questo poeta che sa tutti i viaggi più pericolosi  dello spirito, le esplorazioni più sottili della psicologia, i  razzi più colorati ed anche la strategia delle strade in  tumulto e il governo delle assemblee popolari. A Mario  Carli, poeta delle Notti filtrate, si deve la fondazione del  Fascio di combattimento romano, e, insieme con Setti-  melli, del Partito politico futurista, e del giornale Rome  futurista. Egli capeggiò tutte le dimostrazioni violente per  Fiume italiana, per la Dalmazia italiana e per la difesa  della vittoria, contro il bolscevismo rosso e nero, rinun-  ciatario e nittiano. V'invito a gridare ancora: Viva il fu-  turista Mario Carli! (Quazione, applausi).    Lo «svaticanamento ».    Io approvo incondizionatamente, in nome del futuri  smo e dei futuristi italiani, tutto il programma dei Fasci  di combattimento, che vi è stato esposto dal mio amico  Fabbri. Trovo però in questo programma delle lacune  gravi, sulle quali richiamo tutta la vostra attenzione.   Fascisti! Non c'è maggior pericolo, per l’Italia, del pe-  ricolo nero. Il popolo italiano, che ha saputo osare, vo-  lere e compiere l’immane sforzo eroico e vittorioso della    102    grande guerra, decidendo, con la sua vittoria, la vittoria  del futurismo elastico, geniale, sul passatismo teutonico,  cubico e professorale, fallirebbe alla sua missione se non  sapesse energicamente liberare la bella penisola, agile e  palpitante di vita, dalla lue mortale del papato. Noi dob-  biamo domandare, volere, imporre, l'espulsione del papato,  o meglio ancora, per usare una espressione più precisa, lo  « svaticanamento ». (Applausi, ovazione)    L'« Eccitatorio ».    Continuando nell'analisi del Programma dei Fasci di  combattimento, trovo l'abolizione del Senato, al quale si  sostituirebbe un Consiglio nazionale tecnico. Ebbene: io  vi dichiaro che il concetto di tecnicità è importantissimo,  ma non basta. Il Senato rappresenta nella storia dei po-  poli un costante ossequio alla saggezza dei vecchi, chiama-  ti intorno al potere per frenarlo, maturarne i propositi,  dirigerne le decisioni. La concezione del Senato, simile  a quella del coro nella tragedia greca, ha singolarmente  appesantito, imbrogliato, buroctatizzato e ritardato il pro-  gresso spirituale e materiale delle razze.    I legislatori hanno sempre sognato di frenare il pote-  re del Governo. Essi ignoravano dunque che potere si-  gnifica frenare. Essi ignaravano che un Governo è sem-  pre più o meno un carabiniere. Nulla di più assurdo che  il porre un carabiniere a sorvegliarne un altro. Mettiamo:  gli al fianco, piuttosto, un sovversivo, un rivoltoso, un  eccitante. Ed ecco nata la concezione dell’Eccitatorio, or-  gano animatore, semplificatore e acceleratore, che in una  razza come la nostta, piena di precoci geniali, sarà Ja mi-  glior difesa della gioventù e la migliore garanzia del pro-  gresso e di alta spiritualità. Io sogno in Italia un Gover-  no di tecnici eccitato da un’assemblea di giovanissimi, al  posto dell’attuale Parlamento di oratori incompetenti €  di dotti invalidi, che si fa moderare da un Senato di mo-  ribondi.   Il Consiglio tecnico che rimpiazzerà il Senato dovrà  dunque essere composto di giovanissimi, non ancora tren.    103    tenni. Insisto su ciò, poiché in Italia si usa invitare i gio-  vani al potere e si considera poi virile e giovanissimo un  uomo di 55 anni. Salandra grida: Avanti i giovani! Ma  tutti con lui temono i giovani, mettono in quarantena un  quarantenne come un coleroso, un cinquantenne come un  dinamitardo, e considerano un sessantenne come un au-  dace quasi maturo per il governo d’Italia!..   Occorre un Eccitatorio di giovanissimi, per evitare un  Consiglio tecnico di vecchi, che dopo aver tenuto inuti-  lizzato per molto rempo il loro ingegno tecnico non san-  no più che tecnicamente morire.   La vita italiana si riduce ancora ad una convivenza  cretina di quadri d'antenati senza autorità e senza presti-  gio, che spandono intorno, in una penombra tediosa, pes-  simisino, pedantismo, austerità professorale, verbalismo pa-  triottico e polvere di Roma antica, e in mezzo ai quali si  aggira sporca, taccagna, provinciale, brindellona, la ser-  vaccia che fa tutto male, tiene malissimo la casa, non  vuo! migliorare nulla, perde la giornata a verificare i con-  ti di cucina, ha sempre paura di spendere e di rovinarsi,  ed è tronfia perché sa fare una minestra non troppo sa-  lata che costa poco.   T quadri d’antenati si chiamano Boselli e Salandra: la  servaccia si chiama Giolitti o Nitti. (Quazione)   Contro i quadri d'antenati e la servaccia, poi propo  siamo un eccitatorio di studenti e di Arditi futuristi.    Arditismo. — Scuole di coraggio fisico e patriottismo.    Una terza lacuna io trovo nel programma dei Fasci  di combattimento, e riguarda la scuola. L'amico futuri  sta Fabbri ha precisato genialmente la grande e necessa  ria riforma completa della scuola.   To credo petò che tutto si potrebbe ottenere, e forse  anche un al di là meraviglioso che superi il tutto sogna.  ta, mediante un'imposizione assolutamente ferrea, dirò  meglio feroce, della ginnastica nelle scuole.   Si deve giungere anche presto, oltre che a tutte le for-  me d'insegnamento pratico e tecnico, nelle officine e nei    104    campi, alle scuole viaggianti, 0, per meglio dire, viaggi  d'istruzione, e a dei veri corsi o scuole di coraggio fisico  e di patriottismo.   Bisogna ogni giorno, nella giocondità di una vita al-  l'aria aperta, con un predominio assoluto del giuoco sul-  la lettura, parlare dell'Italia divina ai ragazzi italiani, in-  segnare loro, accanitamente, il coraggio fisico e il disprez-  zo del pericolo, e premiare dovunque l'audacia temeraria  e l'eroismo.   Le scuole di coraggio fisico e di patriottismo devono  rimpiazzare nelle scuole gli oramai preistorici e troglodi.  tici corsi di greco e di latino.   Noi futuristi siamo convinti di preparare così quel  tipo di cittadino eroico che saprà difendersi da sè, vera-  mente capace di libero pensiero e di libero cazzotto, e  che renderà assolutamente inutile l'esistenza delle polizie,  delle questure. dei carabinieri e dei preti.    Ferruccio Vecchi.    Il mio amico futurista Mario Carli, capitano degli Ar-  diti, e il capitano Vecchi, capi dell'Associazione degli Ar-  diti, hanno sentito come me, nascere dal futurismo e dal-  la guerra, l'Arditiswo, nuova sensibilità di patriottismo e-  roico e rivoluzionario. ]l giornale L'Ardito, diretto dal  capitano Vecchi, il celebre sfasciatore dell’Avanti! è un  forte giornale che si deve consigliare ai giovani italiani.  {Qvazioni)   Verrà forse un giorno in cui avremo in Italia quelle  scuole di pericoli che io proponevo dieci anni fa nei pri-  mi manifesti futuristi e che furopo realizzate durante la  guerra nelle esercitazioni quotidiane degli Arditi (avanza-  ta carponi sotto un tiro radente di mitragliatrici; aspetta-  re senza chiudere gli occhi il passaggio radente di una  trave sospesa sulla testa, ecc.). Il proletariato der geniali    Ed ora voglio colmare un'altra lacuna dei program-  ma, parlandovi del solo proletariato veramente dimenticato ed oppresso: l'importantissimo proletariato dei ge-  niali.   E’ indiscutibile che Ia nostra razza supera tutte Je raz-  ze per il numero stragrande di geniali che produce. Nel  più piccolo nucleo italiano, nel più piccolo villaggio, vi  sono sempre sette, otto giovani ventenni che, fremono  d’ansia creatrice, pieni di un orgoglio ambizioso che si  manifesta in volumi inediti di versi e in scoppi di elo-  quenza sulle piazze, nei comizi politici. Alcuni sono dei  veri illusi, ma sono pochi. Non potrebbero giungere al  vero ingegno. Sono però sempre dei temperamenti a fon-  do geniale, cioè suscettibili di sviluppo e utilizzabili per  accrescere l’intellettualità geniale di un paese.    Il movimento artistico futurista, da noi iniziato 11  anni fa, aveva precisamente per scopo di svecchiare bru-  talmente l'ambiente artistico-letterario, esautorarne e di-  struggerne la gerontocrazia, svalutare i criteri e i profes-  sori pedanti, incoraggiare tutti gli slanci temerari dell’in-  gegno giovanile, per preparare una atmosfera veramente  ossigenata di salute, incoraggiamento ed aiuto a tutti i  giovani geniali d'Italia. Incoraggiarli tutti, centuplicarne  l'orgoglio, aprire davanti a loro tutti i varchi, diminuire  al più presto, così, il numero dei geniali italiani falliti  e stroncati.    Il futurismo radunò molti di questi giovani geniali.  Fra di loro, nella vampa futurista, ingigantirono e brilla  rono: Boccioni, Russolo, Buzzi, Balla, Mazza, Sant'Elia,  Pratella, Folgore, Cangiullo, Mario Carli, Funi, Sironi,  Chiti, Jannelli, Nannetti, Cantarelli, Rosai, Baldassari, Gal-  li, Depero, Dudreville, Primo Conti, i geniali creatori del  Teatro Sintetico: Bruno Corra e Settimelli, e i valorosi  scrittori futuristi di Roma futurista, Rocca, Bottai, Fede-  rico Pinna, Volt e Rolzon, altissima bandiera d'’italianità  in America.   Con meravigliosa elasticità passando dall'arte all’azio-  ne politica, questi giovani furono con me dovunque nelle nostre primissime dimostrazioni contro l’Austria durante  la battaglia della Marna, in prigione per interventismo e  sui campi di battaglia.    Propongo che in ogni città siano costtuiti dei palazzi  che avranno una denominazione sul genere di questa:  Mostra libera dell'ingegno creatore. Tn tali palazzi:    1° Verrà esposta per un mese un’opera di pittura,  scultura, plastica in genere, disegni di architettura, dise-  gni di macchine, progetti di invenzioni. Verrà eseguita un’opera musicale, piccola o gran-  de, orchestrale o pianistica di qualsiasi genere, di qual:  siasi forma, di qualsiasi dimensione.    3" Verranno letti, esposti, declamati poemi, prose,  scritti di scienza di ogni genere, d'ogni forma, d'ogni di-  mensione.   4° Tutti i cittadini avranno diritto di esporre gratui-  tamente.  Le opere di qualsiasi genere o valore apparente  anche se apparentemente giudicate assurde, cretine, pazze,  immorali, saranno esposte o lette senza giuria.   Con queste mostre libere e gratuite del genio creatore,  noi futuristi ci opponiamo a un pericolo gravissimo: quel  lo di vedere nella marea delle ideologie che rissano intor-  ne alle formole del comunismo e della dittatura del pro-  lerariato, il naufragio dello spirito.    Difendiamo il cervello!    Vi sono fenomeni dovuti alla stanchezza prodotta dal  la guerra, alla manîa plagiaria, alla miopia provinciale,  alla verbosità giornalistica e alla vigliaccheria conservatrice.  Si tenta dovunque di divinizzare il lavoratore manuale e  d'innalzarlo al di sopra del lavoratore intellettuale,    No, italiani: il futurismo politico si opporrà accanita.  mente ad ogni volontà di livellamento. Tutto, tutto sia    107    concesso al proletariato manuale, salvo il sacrificio dello  spirito, del genio, della gran luce che guida. Alle classi  oppresse, ai lavoratori che stentano, sia sacrificata tutta  la plutocrazia parassitaria del mondo.    Voi fascisti interventisti sapete che la nostra grande  guerra rivoluzionaria è stata osata, voluta, imposta e te-  nacemente portata alla vittoria finale da una minoranza  di intellettuali. Erano i migliori, i meno tradizionali, i  più futuristi. Mentre tutto il popolo era ancora immerso  nella quiete pacifista, essi videro la necessità di guerra,  si separarono brutalmente da altri intellettuali, da quelli  che dello spirito altro non hanno che le qualità negative,  pedantesche, culturali, reazionatie, quietiste. Contro e so:  pra il piombo del vecchio intelletrualismo professorale e  vigliacco dei Benedetto Croce e dei Barzellotti, contro l’in-  tellettualismo cavilloso e avvocatesco dei Treves e dei Tu-  rati, si scagliarono gli spiriti veramente puri, lirici e crea-  tori, per segnare la via da seguire.   Fra questi, Gabriele D'Annunzio, che volò su Vienna  e regalò Fiume all'Italia. Fra questi Benito Mussolini, il  grande Fututista italiano, che impavido nel campo trince-  rato del suo Popolo d’Italia ha difeso alle spalle noi com-  battenti al fronte contro le ondate dei nemici interni, por-  tando le città italiane dal lurido episodio di Caporetto  alla storia ideale di Vittorio Veneto (Applausi).    Gli artisti faranno finalmente del governo un’arie di-  sinteressata, al posto di quello che è ora, cioè una pedan-  tesca scienza del furto e della vigliaccheria.    eri    Io credo che le istituzioni parlamentari siano fatalmen-  re destinate a perire. Credo anche che la politica italiana  sia destinata a un inevitabile fallimento, se non si nutrirà  di questa forza viva: gl’ingegneri creatori d’Italia, sbaraz-  zandosi di queste due malattie italiane: l'avvocato e il  professore.    Genio creatore, elasticità artistica, praticità sintetica,  velocità improvvisatrice ed entusiasmo fulmineo: ecco le  belle forze che spiegano la vittoria del 15 giugno sul Pia-  ve e quella di Vittorio Veneto (Applausi).    Artisticamente improvvisando tutto, e con genio crea-  tore, la mia bella autoblindata dell'ottava Squadriglia al  comando del capitano Raby guadava come una torpedi-  niera i torrenti gontiati. Poi si slanciava giù dalle monta.  gne carniche col tuffo frenetico fulmineo di un pugnale  d'Ardito nella smisurata pancia idropica dell'esercito au-  striaco disfatto, e schizzava fuori dalla schiera contro  Vienna.   Artisticamente, il genio creatore di D'Annunzio con-  quistò Fiume italiana.   In Fiume italiana, io provai recentemente il più acu-  to spasimo di guida della mia vita, nel gualcire un pacco  di corone austriache deprezzate a pochi centesimi dalla no-  stra vittoria.   Gioia forsennata di stritolare così finalmente il cuore  finanziario, militare, passatista del nemico ereditario, fra  le mie mani ancora frementi della vibrazione della mia  mitragliatrice di Vittorio Veneto! (Ovazione).  MARINETTI  [da: L’Ardito, MARINETTI  MARIO CARLI  MINO SOMENZI    « SECONDO FUTURISMO »  E FASCISMO-REGIME    ll 1923 è un po' l'anno di apertura del futurismo  — dopo la ritirata e il distacco dal fascismo del II  Congresso di Milano — al nascente fascismo-regime (se-  condo la definizione di De Felice), quello dell’assesta-  mento o dell'e ordine» (che si consoliderà il 3 gen  naio 1925). Marinetti si accosta in un certo senso al  nuovo governo con una richiesta in forma di « mani  festo al Governo Fascista» del 1° maggio 1923.   Col manifesto e con l'affermazione di un certo qual  futurismo «mussoliniano », 0 nel sottolineare la rea-  lizzazione di un « programma minimo » futurista da par-    te del fascismo, Marinetti cerca di porsi in buona luce  e di far accettare le sue proposte al governo fascista.  ll programma fu in linea di massima approvato da  Mussolini. Quel Mussolini che comincerà a venir illu-  strato e celebrato anche dai futuristi, forse molte volte  in buona fede per l'effettiva sua vicinanza alle tesi ed  al dinamismo tipico di Marinetti e delle sue teorie.  Tuttavia Mario Carli nel '26 pubblica nel suo li  bro Fascisma intransigente wn articolo a suo tempo se  questrato e che risuona echi di « sinistri miraggi ». S'in-  titola Natale senza luce e si riferisce probabilmente al  Natale del ‘21, dopo l'impresa di Fiume cui Carli aveva  ben ardentemente partecipato: si augurava inutilmente  il Carli che l'impresa di Mussolini (la marcia su Roma)  continuasse quella breve esplosione innovatrice della  nuova Italia della Vittoria (la marcia su Ronchi). Ma  le «vecchie pance» e le «vecchie barbe» tengono invece  «il canzpo della vita nazionale » e «la manovra parla  mentare domina ancora tutto il congegno di governo ».  Marinetti sul numero 9 del 2-11-1932 del « nuo-  vo » Futurismo, esprime aminirazione ed esalta lo spirito  rivoluzionario della Mostra nel decennale della Rivolu-  zione (svoltasi a Roma). Intitola Varticolo Stile futuri-  sta e vuole commemorare in certo senso uno stile degli  anni d'oro dello spirito interventista e rivaluzionario da  cui è nato il fascismo, quello così detta « antemarcia ».  Nel 1934 al 1° di febbraio, sul terzo numero di  SunWElia, che è secondo titolo di Futurismo, generoso  tuttavia di perticolare spazio cd attenzione at problemi  dell'architettura, Mino Somenzi intitola un suo pezzo  a IT Duce e il futurismo, e vi sostiene la necessità di  Mussolini, come capo del governo, di non essere né  futurista né passatista. Per il superiore equilibrio sulle  parti che la sua posizione richiede. Tuttavia le simpatie  di Mussolini non possono non andare ai futuristi, dice  Somenzi, quali novatori e sostenitori dell'arte d'avan-  guardia italiana. In questo sensa i futuristi non possono  non guardure a lui come ad un appoggio e ad un so-  stegno, come del resto egli medesima più volte si è di-  mostrato. E qui forse, in questa tesi, vediamo tutta la  posizione ed il carattere del « secondo futurismo ».  Ancora sulla stessa testata del 4 aprile ’34, n. 64.  un grande intervento centrale di prima pagina su Ven-  titre marzo futurfascista, mette in rilievo i caratteri co-  muni di futurismo e fascismo, anche quelli per cui  molti fascisti non st identificano con i futuristi ed anzi  simmedesimano nel loro contrario essendo dei « rimor-  chiati » che non hanno assorbito lo spirito diciannovi  sta e rivoluzionario delle « origini ». I DIRITTI ARTISTICI PROPUGNATI  DAI FUTURISTI ITALIANI    Manifesto al governo fascista    Mio caro Marinetti, approvo cordialmente la tuu  iniziativa per la costituzione di una Banca di Credito  specialmente per gli Artisti. Credo che saprai sor-  montare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti.   Ad ogni modo questa lettera può servirti di via-  tico.   Ciao, con amicizia,    MUSSOLINI    Vittorio Veneto e l’avvento del Fascismo al potere co-  stituiscono la realizzazione del programma minimo futuri-  sta lanciato (con un programma massimo non ancora rag-  giunto) 14 anni or sono da un gruppo di giovani audaci  che si opposero con argomenti persuasivi all'intera Nazione  avvilita da un senilismo e da un mediocrismo paurosi dello  straniero.   Questo programma minimo propugnava l’orgoglio ita-  liano, la fiducia illimitata nell’avvenire degli italiani, la di-  struzione dell'impero austroungarico, l’eroismo quotidiano,  l’amore del pericolo, la violenza riabilitata come argomento  decisivo, la glorificazione della guerra sola igiene del mon-  do, la religione della velocità, della novità, dell’ottimismo e  dell’originalità, l'avvento dei giovani al potere contro lo spi-  rito parlamentare, burocratico, accademico e pessimista.   La nostra influenza in Italia e nel mondo è stata ed è  enorme. Il Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che  ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha nulla a  che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello bolsce-  vico del Futurismo russo divenuto arte di Stato.   Il Futurismo è un movimento schiettamente artistico e  ideologico. Interviene nelle lotte politiche soltanto nelle  ore di grave pericolo per la Nazione.   Fummo primi fra i primi interventisti; in carcere per interventismo a Milano durante la Battaglia della Marna;  in carcere con Mussolini nel 1919 a Milano per attentato  fascista alla sicurezza dello Stato e organizzazione di bande  armate.   Abbiamo creato le prime associazioni degli Arditi e  molti tra i primi Fasci di combattimento.   Divinatori e lontani preparatori della grande Italia di  oggi.   Noi futuristi siamo lieti di salutare nel non ancora qua-  rantenne Presidente del Consiglio un meraviglioso rempera-  mento futurista.   Da futurista, Mussolini ha parlato così ai giornalisti  esteri:    « Noi siamo un popolo giovane che vuole e deve crea  re e rifiuta d'essere un Sindacato di albergatori e di quar-  diani di museo. Il nostro passato artistico è ammirevole.  Ma, quanto a me, sarò entrato tutt'al più due volte in un  MIUSCO ».    Recentemente Mussolini ha pronunciato questo discor-  so tipicamente futurista:    « Il Governo che ho l'onore di presiedere è Governo  di velocità, nel senso che noi abbreviamo tutto ciò che  significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la buro-  crazia si addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tut-  to deve procedere con la massima rapidità. Se tutti proce-  deremo con questo ritmo di forza e di volontà e di alle-  grezza, supereremo la crisi, la quale, del resto, è già in  parte superata. lo sono lieto di vedere il risveglio anche  di questa Roma che offre lo spettacolo di officine come  questa. lo atfermo che Roma può diventare centro indu-  striale. 1 romani devono essere i primi a disdegnare di  vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro  romano sono glorie del passato: ma noi dobbiamo costrui-  re le glorie del presente e del domani Noi siamo la gene-  razione dei costruttori che col lavoro e con la disciplina  del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il punto  estremo, la meta agognata della grandezza della Nazione  di domani, la quale sarà la Nazione di tutti i produttori  e non dei parassiti ». Con Mussolini il Fascismo ha ringiovanito l'Italia.   Spetta a Lui l'aiutarci nel rinnovamento dell’ambiente  artistico ove permangono uomini e cose nefaste.   La rivoluzione politica deve sostenere la rivoluzione  artistica, cioè il futurismo e tutte le avanguardie.    DOMANDIAMO:    1° DIFESA DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI  NOVATORI in tutte le manifestazioni artistiche promos-  se dallo Stato, dai Comuni e private. Esempi:    a) Alla Biennale di Venezia furono invitati avanguar-  disti e futuristi stranieri {Archipenko, Kokoschka, Campen-  donk), mentre non furono mai invitati i futuristi italiani  (creatori di tutti i futurismi). Bisogna sradicare questa igno-  bile antitalianità sistematica!    c) Al Teatro della Scala {che ha la funzione di rive-  lare, glorificandoli, i nuovi musicisti italiani) si danno ogni  anno due opere di Wagner e nessuna (o quasi nessuna)  di giovani italiani. Si preferiscono cantanti stranieri infe-  riori ai nostri, Bisogna sradicare questa ignobile antitalia-  nità sistematica!    d) Il Teatro di Siracusa non può essere riservato alla  gloria dei classici greci! Domandiamo che, alternativamente  alle rappresentazioni delle opere classiche, si svolga un con-  corso per un dramma moderno pittoresco adatto all'aria  aperta di un giovane siciliano da premiarsi e incoronarsi so-  lennemente nel teatro stesso. (Proposte Marinetti, Prampo-  lini, Jannelli, Nicastro, Carrozza, Russolo, Mario Carli, De-  pero, Cangiullo, Giuseppe Steiner, Volt, Somenzi, Azari,  Matasco, Dottori, Pannaggi, Tato, Caviglioni, Paladini Ra-  citi, Mario Shrapnel, Raimondi, G. Etna, Sportino-Bona,  Cimino, Soggetti, Rognoni, Masnata, Mortari, Piero Illari,  Rizzo, Soldi, Leskovic, Buzzi, Casavola, Clerici, Caprile, Scirocco),  ISTITUTI DI CREDITO ARTISTICO ad esclu-  sivo beneficio degli artisti creatori italiani.   Come si aprono delle Banche di credito a favore delia  industria e del commercio, similmente si dovranno creare    115    appositi Istituti che sovvenzionino manifestazioni artistiche  o Istituti d'arte industriale o anticipino denaro agli artisti  per il loro lavoro (manoscritti, quadri, statue, ecc.) i loto  viaggi di isttuzione o di propaganda.   Tali Istituti di credito potranno avere carattere pri-  vato (Società anonime per azioni) o governativo (enti e  fondazioni). Nel primo caso la nascita di tale Istituto è  legata alla maggiore o minore buona volontà e mumero  degli aderenti. Nel secondo caso il capitale necessario sa-  tebbe sicuramente e prontamente realizzabile solo che lo  Stato decretasse un'imposta od una ritenuta anche minima,  ma estesissima, sui redditi di guerra, sui patrimoni, ecc.,  o mediante una sottoscrizione nazionale ad iniziativa sta-  tale.   L'Istituto agirebbe poi come una Banca per gli artisti,  accetterebbe depositi di opere d'arte, e in base alla valuta-  zione reale darebbe sovvenzioni od aprirebbe crediti.   L’opera d’arte giacente costituirebbe un deposito frut-  tifero per il depositante e per l’Istituto stesso che promuo-  verebbe iniziative artistiche, vendite, ecc. Così l'artista e  l'opera d’arte sarebbero valorizzati.   Questi Istituti potrebbero intraprendere concessioni di  mutui a favore d’'industrie artistiche e ottenere l’uso di  palazzi per adibirli ad abitazioni di artisti, d’istituzioni arti-  stiche od aprirvi periodiche mostre. (Proposta Prampolini,  Marinetti, Russolo, Cangiullo, Depero, Settimelli, Mario  Carli, Buzzi, Matasco). DIFESA DELL’ITALIANITA'.  Italianizzazione obbligatoria immediata degli alberghi (tutte le diciture, insegne, liste delle vivande, conti, ecc.,  in lingua italiana), dei negozi e della corrispondenza commerciale. Mezzi automatici per propagare la lingua italiana  senza spese. (Proposta Marinetti, Russolo, Buzzi, Folgore,  Mario Carli, Settimelli, Depero, Cangiullo, Somenzi, Mara-  sco, Rognoni).    B) Italianizzazione della nuova architettura contro l'uso  sistematico di plagiare le architetture straniere. Cominciare  questa italianizzazione in tutti gli edifici statali, specialmen-  te nei paesi redenti. (Proposte Virgilio Marchi, Depeto,    116    Russolo, Buzzi, Somenzi, Azari, Marasco, Prampolini, Fol-  gore, Volt).    C) Italianizzazione obbligatoria delle edizioni e dei ca-  ratteri tipografici. (Proposta Frassinelli, Rampa-Rossi).  ABOLIZIONE DELLE ACCADEMIE (Istituti di    Atte e Scuole professionali).    Gli attuali sistemi d'insegnamento nan corrispondono al-  le esigenze estetiche dell'evoluzione dell’arte attraverso i  tempi. L'arte non si insegna. Gli attuali diplomati non sono  né tecnici competenti né artisti.    Abolizione delle Accademie di Belle Arti e Professio-  nali senz’altre sostituzioni. (Proposta Marasco).  PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA ALL'ESTERO mediante un Istituto Nazionale di propaganda ar-  tistica all’estero che tuteli glì interessi artistici ed econo-  mici degli artisti italiani.   Questo Istituto dovrà essere diretto da giovani artisti  stimati all’estero e che propugnino con italianità il genio  novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda  ti le varie arti e uffici di corrispondenza nei principali  centri artistici esteri. Agirà mediante conferenze, concerti,  esposizioni e pubblicazioni periodiche di propaganda. (Pro-  posta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt, Marasco). CONCORSI LIBERI D'ARTE.    Utilizzare una parte del denaro che lo Stato spende  attualmente per l'arte in concorsi di poesia, plastica, ar-  chitettura, musica, riservati ai giovani non ancora venti-  cinquenni, da premiarsi mediante un referendum popo-  lare. (Proposta Balla, Marinetti, Marasco).  AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE FE.  STE NAZIONALI E COMUNALI (cortei, gare sportive,  ecc.) ai gruppi d’artisti d'avanguardia italiani, i quali han-  no ormai provato in modo incontestabile la loro genialità  innovatrice, fonte di quell’ottimismo che è indispensabi-  le alla salute della Patria. (Proposta Depero, Azari, Mari-  netti, Marasco).  AGEVOLAZIONI AGLI ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo dei  diritti d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul mag-  gior prezzo raggiunto dalle opere loro, attraverso le ven-  dite successive, mediante una istituzione simile alla « So-  cietà degli Autori ».    d) Abolizione delle tariffe doganali internazionali sia  riguardo le importazioni che le esportazioni delle opere  d’arte moderna. (Proposta Prampolini, Depero, Azari, Ma-  rasco, Marinetti, Volt).    9° CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati da  artisti ed eletti fra artisti con una rappresentanza propor-  zionale delle tendenze d'avanguardia. Questi Consigli Tec-  nici consultivi avranno lo scopo di tutelare gl’interessi de-  gli artisti nei rapporti con le istituzioni statali, comunali,  private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini, Mara-  sco, Marinetti, Volt)  RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE.    Le avanguardie artistiche italiane dovranno essere in-  vitate a partecipare con una rappresentanza proporzionale  a tutte le manifestazioni e cariche artistiche statali, co-  munali e private. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinet-  ti, Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute.  la degli interessi artistici ed economici degli artisti d'avan-  guardia. Questo Consorzio dovrebbe proporsi l’accentra-  mento delle migliori istituzioni artistiche di avanguardia,  per la solidarietà, la difesa e la propaganda artistica ed  economica. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti,  Volt).   Per la Direzione del Movimento Futurista  e per tutti i Gruppi Futuristi ltaliani   MARINETTI   NATALE SENZA LUCE  sequestrato).    Chi fu legionario di Fiume non potrà mai dimenti-  care le rosse giornate natalizie di quattro anni fa, con  le quali si conchiudeva tragicamente e desolatamente una  breve ma non ingloriosa epopea. Il ricordo ha poi un  valore particolare per chi lo avvicini al pensiero della  situazione politica odierna, che ha qualche vaga analogia  con quella che segnò la fine di un generoso sforzo della  nuova Italia.   Il sangue fraterno di quelle Cinque Giornate non è  stato ben vendicato. Pareva a molti di noi che la Marcia  su Roma dovesse continuare quella di Ronchi per dare  alla nostra grande Patria una nuova fisionomia di po-  tenza e per vivificarla di un nuovo afflusso di giovi-  nezza. Ma la spinta rinnovatrice della generazione di Vit-  torio Veneto si è, ahimé, fiaccata nel labirinto delle vec-  chie pance e vecchie barbe che tengono tuttora il campo  della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa  segnare il passo alle orgogliose avanguardie d'impero, la  sagoma «immortale » del cavalier Giolitti si profila —  come quattro anni fa — a rassicurare il mondo che l’Ita-  lia è ancora quella mediocre, umile nazioncella di molte  chiacchiere innacue ma di pochi fatti pericolosi, e che  agni tentativo di virilizzarsi e impennarsi in alati eroismi,  è destinato al più pietaso insuccesso.   Sembra — a ben considerare i più recenti avvenimen-  ti — che il sogno di una politica più alta, più rettilinea,  più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati; e  che una sola specie di politica sia possibile: quella che  ha nome Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo,  sul compromesso, sulla pattuizione, sull’arte di farsi ricat-  tare.   La manovra parlamentare domina ancora tutto il con-  gegno di governo. E’ pacifico che non si governa coi  parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno per  eccellenza: ma è altrettanto pacifico che questo popolo italiano    119    rabbiosamente ingovernabile non vuol rinunciare al suo  bravo Parlamento, fonte di ogni male, serbatoio di ogni  decadenza.    Contro questa massima cloaca nazionale (parlo, s’in-  tende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è an-  dato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha com-  messo questo gravissimo errote iniziale: di non saltare  a pié pari il Parlamento. Viceversa vi si è sentito attratto,  ha voluto saggiarne le delizie, ha voluto conquistare que-  sta quota a colpi di scheda — mortificando la sua anima  guerriera — quando avrebbe dovuto farla saltare a colpi  di bomba. E certi errori sono troppo gravi perché non  si debbano scontare.    Tuttavia, non si potrà negare a noi irriducibili anti-  parlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per volontà pre-  meditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù  elettorali, it diritto di tener fede ai principi per quali s'ini-  ziò la battaglia, e soprattutto alla nostra accesa spiritua-  lità di italiani #4ovi: nuovi nella mente, nel tempera-  mento, nell’educazione, nella passione. Anche se tutto  crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre, perse-  guita con appassionata tensione di nervi e di cervello, do-  vesse ridursi in polvere di macerie, noi non rinunzierem-  mo ad essere quelli che fummo e che siamo: cittadini di  una Patria più grande, più eroica, più possente, più do-  minatrice.   Mai non rinunceremo — lo sappiano bene i nostri  nemici — alla nostra sete d’impero, alla nostra fiamma  di grandezza, che odia la vita democratica, l’egualitarismo  ipocrita, il pietismo umanitario, l’eunuco calamento di bra-  che. A noi conviene la formula maschia di Silla, che  per disciplinare la repubblica in dissoluzione e prepararla  all'impero, chiedeva tutti i poteri, il controllo sui tribu-  nali civili e militari, la giurisdizione eccezionale, la legi-  siazione di gabinetto da sovrapporre a tutte le leggi ante-  riori, il diritto di battere moneta, di convocare il popolo,  di sospendere e punire i funzionari dello Stato, e infine,  di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi piace  infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-mo    120    dello, che, mentre il Senato discute se conferirgli o no  la potestà dittatoria, fa giungere nell'aula il fiero ululato  dei seimila prigionieri di Porta Collina, sgozzati al suo  segnale, e che incide sulla tabella i nomi dei Senatori  vetanti contro di lui, per ricordarsene a tempo e luogo.   Il Fascismo è venuto al potere più attraverso la spa  da di Silla che l’oratoria di Cicerone. Perché dimenti-  carsene? II Fascismo non ha nulla da sperare da una  sua politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici lo  vogliono polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si  continuerà a ceder loro in ogni occasione. Dal 10 giugno  in poi, si può dire che l’Italia è stata governata dall'om-  bra dell’Aventino. Tutto questo è contro natura, contro  storia, contro giustizia. Non sono le ombre che possano  aver diritto al comando, bensì le energie luminose. Quan-  do ci scrolleremo di dosso tutte le ombre importune che  ci soffocano come ali di corvacci e di vampiri?    Mario CARLI  [da: Fascismo intransigente, Bemporad, Firenze 1926, pag. 253-256]   Con la Mostra della Rivoluzione si risolve finalmente,  e in modo favorevole, il grave problema della militariz-  zazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da im-  porre agli artisti.   Molti fra i pittori, scultori e architetti, invitati a rea-  lizzare questa Mostra grandiosa, furono indubbiamente  turbati dal prestigio di queste gloriose parole che domi-  nano ormai nella nuova storia d’Italia: interventismo, Vit-  torio Veneto, Mussolini, e Popolo d'Italia, Diciannove,  battaglia di via Mercanti e incendio dell’Avanti!, covo di  via Paolo da Cannobio, Casa Rossa, Lodi, Palazzo Accur-  sio, Marcia su Roma. Legati tradizionalmente ai noti motivi idilliaci cittadi-  nì o rurali, tramonti melanconici e ritratti statici, que-  sti artisti sentirono subito la necessità di capovolgere il  loro spirito per disegnare nell'aria un tuffo perfetto nel  mare della novità.   Da tempo il Futurismo italiano, con il suo seguito di  avanguardie estere più o meno originali, gridava per in-  segnare l'invenzione a ogni costo. Quattro mesi fa il Du-  ce, con la sua bella parola imperiosa e veloce, ordinò che  si evitasse il passatismo della palandrana di Giolitti.   Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo colorato e  tragico della Rivoluzione, essi abbandonarono la loro sta-  ticità e la classicità placida. Gli architetti incaricati di dare  una faccia nuova al vecchio e brutto Palazzo dell’Esposi-  zione, sentirono l’assurdità di qualsiasi decorativismo sim-  bolico, floreale, mitologico o grazioso.   Le loro prime linee gettate sulla carta, rizzandosi ascen-  sionalmente, presero lo slancio aggressivo, guerriero e mi-  naccioso di altissime torri di acciaio o ciminiere naviganti.   A me ricordano simpaticamente i geniali fasci di ascen-  sori dell'architettura di Antonio Sant'Elia, il grande e com-  pianto padre futurista dell’architettura moderna.    Logicamente andò determinandosi lo stile della Mostra  per virtù della Rivoluzione e del suo ritmo mobile ag-  gressivo. Si ricorda l’intero profilo d’uno squadrista. Un  dettaglio basta. Di quell’autocarro schiacciato dal peso  dei fascisti come un tino stracarico di giganteschi grappo-  li neri io ricordo soltanto il mosto rosso a terra e l’acu-  tissimo odore di benzina. Quindi sintesi, dinamismo e in-  tersecazioni di piani. Visibilità aggressività giocondità.  Questa Mostra della Rivoluzione, che tutti gli squadristi  augurano non effimera ma duratura, stabilisce la gloria  del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano che ha  avuto pet primi maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo  le parole di Edmondo Rossoni dettemi questa mattina, il  trionfo dell’arte futurista.   F.T MARINETTI  [du: Fuiuriszo, Nel fervore della polemica pro e contro il Futurismo  molti si chiedono: come la pensa il Duce? A questo in  terrogativo i nostri avversari rispondono arbitrariamente  come saremmo ugualmente arbitrari noi volendo asserire  l'opposto di ciò che loro affermano. Per la verità il Duce  non può essere dall’una o dall’altra parte (passatismo ©  futurismo) ma nella sua specifica qualità di Capo della  Nazione non può essere passatista e futurista nello stesso  tempo. Che Egli prediliga come certuni pretendono cor-  renti intermedie lo esclude il suo temperamento nemico  di tutti gli oscillamenti e di ogni mezzo termine. Prefe-  risce le posizioni diritte anche le più azzardate e non è  detto quindi che si compiaccia trattenersi ad ammirare le  varie denominazioni che si dànno alla strada nel corso  di così lungo e complicato cammino com'è quello dell'arte.  Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa. Passatismo  e Futurismo: due colossi che se non esistessero Musso-  lini li avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a gioia  patriottica di vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità  opposte, nuove faville di luminosa genialità italiana. I  piccoli mondi che rotolano ai margini di questa battaglia  sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal corpo  dei titani: hanno una vita effimera e quelli che precipitan-  do come valanghe trascinano nella loro scia deboli detriti  superficiali, se sopravvivono, sono sempre alimentati dal-  l'atmosfera incandescente generosa che emana il corpo che  li ha creati. Passatismo e Futurismo rimangono inamo-  vibili l'uno di fronte all'altro: impossibile conciliare il  concetto conservatore tradizionale del primo col principio  rivoluzionario rinnovatore del secondo. Chi sia il più forte  non è facile stabilite: dipende da determinate condizioni  intellettuali e spirituali di tempo. Oggi però — in que-  sto secolo fascista — più che le biblioteche e i musei si  moltiplicano scuole avanguardiste, impressioniste, raziona-  liste, novecentisie, moderniste in genere, tutte volenti o  nolenti generate dal futurismo. Volenti o nolenti: non ha    123    valore il fatto che molti sconfessano la loto origine. E'  fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cin-  quant’anni il mondo fascistizzato considererà Mussolini un  utopista e ogni nazione vanterà il merito di avere instau-  rato per prima il nuovo regime politico. Di queste infa-  mie la storia è... maestra; solo dopo qualche secolo si  rende giustizia alla verità. Tornando al nostro argomento,  è fuori dubbio che Mussolini, valotizzatore delle gloriose  conquiste del passato, sprona i capaci a superarle sul tra-  guardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo rap-  presenta infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto  che trascina l’esercito degli artisti alla conquista del nuo-  vo. Questo fatto in sé eloquente e inconfondibile, unico  nella storia dell’arte, ha rapporti precisi in campo poli-  tico con la gloriosa epopea mussoliniana. L'inesauribile  ottimismo futurista si identifica così con il concetto gene-  roso originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare  fatti e particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi per-  sonali, in tema « Mussolini e il futurismo » basterà ri-  cordare giacché l'occasione è opportuna queste tre date  significative: Boccioni vi  avrà detto che tutte le mie simpatie sono, anche nel  dominio dell’arte, per i novatori e i distruttori e per i  futuristi... » Mussolini. 1924: «... presente adunata futu-  rista che sintetizza vent'anni di grandi battaglie artistiche  politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve  essere punto di partenza non punto d'artivo... » Mussolini. ...Dopo di avere concesso il suo alto patronato per le onoranze nazionali al futurista  Boccioni, Mussolini offre il PRIMO generoso contributo ma-  teriale per il trionfo della grande rassegna dell’arte futu-  rista italiana.   A questo punto, dopo quanto abbiamo detto, ulteriori  considerazioni sono superflue come sarebbe superfluo ri-  cordare ancora una volta l'influenza patriottica esercitata  dal futurismo sulla gioventù italiana prima durante e dopo  la guerra e il fattivo isolato contributo dei futuristi al  fascismo nel 1919 (...).   Mino SOMENZ2I  (da: Sant'Elia, n. 3, anno II, 1° febbraio 1934]  Allorché quindici anni or sono, nel palazzo di Piazza  San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di quello  edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel  manipolo degli intervenuti individuò degli artisti, questi  erano soltanto ed esclusivamente artisti futuristi.   Appena creati i Fasci di combattimento, i primi gruppi  che cotseto ad ingrossare le schiere che cominciavano a  formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e gli  arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per me-  rito esclusivo dei futuristi.   Il nostro Movimento diede quindi al Fascismo un  apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre die-  de alla creazione mussoliniana un conttibuto gigantesco  di fede cieca, di entusiasmo eroico.    Vogliamo indagare il perché di questa spontanea sim-  patia, di questo irresistibile trasporto del Futurismo verso  il Fascismo; il perché della meravigliosa, totalitaria cor-  rispondenza fra una cemcezione eminentemente politica ed  una concezione eminentemente artistica?    Prima di tutto, troviamo che il Fascismo e il Futu-  rismo hanno alla loro origine dei germi comuni: l’amore  disperato alla propria terra, la necessità di moto e di  azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il  punto di partenza per la sognata rivalorizzazione della  patria; l’altro, lo sbocco conclusivo di quei fatti e di quel-  le idee che possono riassumersi nei tre principii futuristi:  « Tutti 1 diritti, meno quello di esser vigliacchi ». « La  parola Italia deve prevalere sulla parola libertà ». « La  puerta, sola igiene del mondo »,   Dalle piazze affollate d'Italia si passò alle trincee in-  sanguinate d'Italia: interventisti intervenuti: identico en-  tusiasmo: identici sacrifici: identica volontà di far ger-  mogliare il bene della Patria dal martirio e dalla morte  dei suoi figli.   E questa è già molto per dimostrare la straordinaria    125    affinità sentimentale, di origine e di scopi esistente tra  Fascismo e Futurismo.   Ma v'è di più. Infatti, passando dal campo delle con-  cezioni teoretiche a quello delle espressioni pratiche, noi  vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei ricordi  del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del presente,  protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla conqui-  sta del domani. Avanti, avanti sempre, incita il Duce;  raggiunta una mèta, mille altre se ne profilano: occorre  raggiungere anche queste: ogni sosta è un tradimento:  ogni indugio è un delitto.   Non sona questi i principii stessi cui s’informa il  Futurismo?   E il Futurismo è tutto azione e vita: nelle sue schie-  re accoglie la più bella e sana gioventù d'Italia: gioven-  tù d'anni, ma anche di spiriti.   I suoi artisti creano con la stessa generosità, con lo  stesso dispregio di ogni premio e di ogni riconoscimento,  con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro uni-  co orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire  a che il nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre  niù in estensione squilli nel mondo.   E non è Fascismo, questa?   Ma non è soltanto ciò quello che ci spiega come, fatto  mai verificatosi nella storia dell'umanità, una concezione  esclusivamente morale ed artistica abbia potuto così bene  assorbire ed assorbirsi in una concezione esclusivamente  politica e sociale   Il fatto straordinario che oggi non può non riempirci  di legittima se pur meravigliata soddisfazione, è questo:  un colosso della politica che pensa, agisce, crea, con la  ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta: un  poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per  la gloria della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad  oggi antitetiche, politica e arte, s'urtano o si contrastano:  anzi si può ben dire che esse hanno così informato di sé  medesime le due personalità che concepirle in diversi at-  teggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile.    Come spiegare questo fatto così nuovo e così fuori    126    del comune, se non riferendoci ad una forza incoerci-  bile, misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella for-  za cioè che crea in alcuni privilegiati quegli speciali stati  d'animo per cui il Genio, attraverso l'adamantina lumi-  nosità di un pensiero superiore, giganteggia e s’infutura?   E’ indubbiamente questa forza contro la quale noi  nulla possiamo che fa di Mussolini un futurista della  stessa tempra di Marinetti e di Marinetti un fascista, de-  gno seguace di Mussolini.   E' sempre questa forza che avvicinando i due crea-  tori, avvicina conseguentemente le loro due creature: è  perciò che come non potrebbe comprendersi un futurismo  non fascista così non si potrebbe concepire un fascismo  conservatore e passatista.   E’ perciò ancora che i futuristi e i fascisti, se veri  ambedue, s’intende, non possono distinguersi: l’italiano  nuovo è un miscuglio — nel valore che la chimica dì  a questa parola — di fascismo e di futurismo: essi costi-  tuiscono i due elementi inscindibili e insostituibili di un  tutto organico.   Chi ha detto ai nostri giovani di chiamarsi /uturfasci-  sti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così amano de-  finirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una gran-  de verità che non può discutersi e non si distrugge.   Come altrettanto vero è che i fascisti autentici sono  ottimi futuristi. e non potrebbe essere diversamente data  l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista nella  quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani.   Ma come avviene, allora, che anche tra i fascisti sono  molti i contrati al Futurismo?   Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo in  camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e pur-  troppo parlando solo) fascisticamente e mettendosi sem-  pre in prima fila nei cortei, han tuttavia conservato l’ani-  ma italiana di anteguerra, pavida, gretta, piccina.   Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo tutto  ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un sen-  so invincibile di borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio di essere tenuti e rispettati quali  persone serie, dicono e non dicono, ammettono e smen-  tiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti, bor-  ghesi, vigliacchi.   Ma ciò che prima o poi capiterà a costoro, che noi  sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto di  più dei nemici nostri aperti e leali, che almeno rispet-  tiamo, lo ha detto chiaramente il Duce nel suo recente  magnifico discorso all'Assemblea quinquennale. Per essi  non si tratta né di Fascismo né di Futurismo: si tratta di  vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a chiamarsi  italiani.   Né escludiamo da questa ignominiosa schiera quei gio-  vani d'anni che han conservato intatta l’anima dei bisa-  voli: che gridano doversi l’arte rinnovare e si impuntano  come muli riottosi dinanzi al futurismo: che accettano e  sì prosternano ad ogni novità che ci proviene d'oltre  confine, anche se figlia di genitori futuristi italiani, e  fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i superuomini verso  il nostro movimento che gli stranieri stessi ammirano co-  me un’altra delle tante glorie italiane.    Anche questi così detti giovani non possono e non po-  tranno mai essere fascisti sul serio, giacché essi non  hanno del Fascismo né compreso né assimilato quelle ca-  ratteristiche di spiccato futurismo che sono il rinnovamen-  to, la velocità, il dinamismo, il continuo superarsi, la mat  cia ininterrotta verso la perenne conquista.    E lo stesso diciamo di quei critici che si fermano a  vivisezionare un'opera d’arte, isolandola dal vasto am-  biente donde essa ttae la sua ragione di vita; che fanno  l'anatomia di un nostro artista senza riflettere che esso è  soltanto un membro di un corpo gigantesco. Essi dimo-  strano di aver perduto o di non aver mai posseduto quella  somma virtù latina, fascista e futurista insieme, che è la  virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda pesantez-  za anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i compri-  matii, le comparse della nostra vita e abbiamo di già  concesso loro troppo onore di discussione.    Su tutto e su tutti restano le idee: nel campo politi    128    co-sociale, l'idea fascista; nel campo artistico-spirituale.  l’idea futurista.   Ambedue han detto al loro mondo una parola non an-  corta udita; ambedue hanno tracciato, ognuna nei propri  confini, la via nuova da seguire per giungere alla salvezza:  tanto l’una che l’altra si sono dimostrate possenti dina-  mo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì ottimi-  smo. di passione, di entusiasmo.   L'una, nel campo politico, ha raccolto infiniti proseliti  ovunque, e ciò in relazione ai numerosi problemi d’indole  contingente di cui ha trovato o propone le soluzioni; l'al-  tra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente susci-  tato energie, ridestato gli addormentati, incitato i pigri,  rincuorato i pavidi, persuaso i dubbiosi.   Se qui dovesse attestarsi l’opera vitale sia dell'una  che dell'altra idea, già tutti i diritti esse avrebbero acqui-  stati per l'imperitura riconoscenza della civiltà.   Ma ambedue continuano nella loro marcia ascensio-  nale: e i critici che affermano essere il Futurismo supe-  rato ci fan lo stesso effetto di quei pochi e sparuti anti.  fascisti che affermano aver il Fascismo esaurito il suo  compito.   Idee come queste nostre non possono né sostare, né  esaurirsi, né esser superate: la loro essenza stessa di con-  tinua marcia, di continua ascesa, di continua conquista  non lo permette.   Un uomo, a idea, una opera potranno esser supe-  rati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera.   Ed ora che conclusione trarremo dalla dimostrata iden-  tica struttura spirituale del Fascismo e del Futurismo, dal-  la dimostrata perfetta corresponsione fra loro di scopi e  d’intenti?   La conclusione è la solita: ripetiamo ancora una volta  e confermiamo che il solo artista capace di riprodurre in  tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in tutta la  sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è l'artista  futurista e che il Futurismo è la sola espressione d'arte  degna e capace di tramandare ai posteti la vitalità, la po-  tenza, la dinamicità dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da quel-  l'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del  Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che  nessuna scuola, nessuna tendenza, nessun'altra forma di  arte può vantare   E noi teniama al riconoscimento di questo nostro di-  ritto: non perché ci spingano meschini interessi o poco  nobili ambizioni ma perché, forti di un infinito amore per  la patria nostra e di una dedizione cosciente e completa  di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di  un'idea, al fascino gigantesco di un Genio universale, vo.  gliamo che non abbia soste il cammino trionfale che l’Ita-  lia rinnovata sta compiendo verso le sue più alte mète,  sotto il comando romano di Benito Mussolini.    FuTURISMO  [da Sant'Elia, n 64, anna III 4 aprile 1934]  La polemica accesasi negli Anni Trenta tra futuristi  rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già  espressione di quel «secondo futurismo», che abbia  mo visto e detto essere momento collaterale del fa-  scismo-regime. O tentativo piuttosto di conservare la  avanguardia nell'ambito di un sistema che come tale  era più propenso ad un suo ordine intrinseco e im-  prescindibile da mantenere 0 da continuare. In questo  senso il futurismo «di destra», come lo definisce il  sansepolcrista Bruno Corra nel marzo del ‘32 su Fu-  turismo, vorrebbe un po’ essere quello degli « arri.  vati », di chi si asside sulle comode poltrone della  fine della carriera, pur cercando di mantenere uno  Spirito 4 precedente », giovanile e innovatore, che non  può essere venuto meno in chi ha giù combattuto e  si è esposto per una causa di rinnovamento. Gli fa  eco Corrado Gawvoni riprendendo il discorso e pun-  tualizzando il concetto stesso di futurismo, senza che  gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è staio  fatto da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua  portata e i suoi risultati.   Solo una settimana dopo ribatte Paolo Buzzi sul  numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un  violento attacco ai «futuristi di destra » e il sostegno  4 un ritorno alle estrema sinistra », come già dice nel  titolo. L'’avanguardia, in quanto avanguardia e se vuol  rimanere avanguardia, non può che esercitare una  funzione di vottura per il rinnovamento ed il rivolgi-  meuto del vecchio e del passato. Come tale l'aver  guardia non può che essere e rimanere di « estrema  sinistra », sC il futurisito si ritiene ancora uvangaar  dia 0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una  voce isolata quella del Buzzi, rincalzato ancora il 2  aprile, sul numero della settimana dopo, da Remo  Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui tutto  si annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in  cuni tt futurismo diviene ercativo e vu libera dvi con-  formismi e delle convenzioni.   Ancora «all'Avanguardia » dedicava un quinto ed  ultimo articolo Luciano Folgore, sempre su Futurismo  dello stesso anno (1933). Il futurismo di destra e  quello di sinistra st superano oramai nell'avanguardia  che ancora continua e sì muove nell'avanzata dell'en-  tusiasnio. E l'ottintismo continua in effetti fino al’ul-  timo, anche con la fine del fascismo, anche con la  morte di Marinetti, anche con la sconfitta nella guerra  « sola igiene del mondo », continua ancora nelle ulti  me gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo manifesto,  quello del «futurismo-oggi », che vive e crea nel pre  sente.    NOI FUTURISTI DI DESTRA    Quando si riunirà in Roma il primo grande congresso  dei futuristi di tutto il mondo, io andrò a sedermi —  vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni — ad un  banco dell’estrema destra. Ma esiste dunque, può esiste-  te un Futurismo di destra? I due termini non fanno a  pugni? Un movimento rivoluzionario può contenere in sé  tendenze conservative? E, infine, l’espressione « futuri-  sta di destra» non val quanto « futurista annacquato e  prudente » non s'identifica con l’ambigua parola « nove-  centista »?   Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una que-  stione di moralità. Dare al Futurismo quel che al Futuri  smo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con una  etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardista ma  non futurista, sputa nel piatto dove ha mangiato. Poi, io  stabilirei questo principio: che il privilegio di poter restare  nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nel-  la propria opera matura un remperamento realizzatore di  destra debba accordarsi soltanto a coloro che han dimo-  strato di saper essere « integralmente » futuristi. E recla-  merei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in no-  me della mia effettiva collaborazione al Futurismo più ri-  voluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due  opete di audacissima narrazione fututista (La donna ce  duta dal cieln — Sam Dunn è morto).   In realtà, fermo restando che l’essenza del Futurismo  è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che  nel nostro movimento i termini sinistra e destra non si  oppongono, perdono ciaè il loro significato convenzionale.  La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovverti-  mento e la conservazione, in quanto si libera di continuo  in uno slancio creativa. Perciò un eventuale Congresso fu-  turista dovrebbe assumere una configurazione non oriz-  zontale ma verticale: fututisti di cima e futuristi di base,    133    aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di comodo, io  qui mi son servito della parola destra.   Ma diciamo pure i fanti, i pontieri, i costruttori di stra-  de del Futurismo, e avremo indicato il carattere e spiega-  to la necessità di questo settore nel nostro movimento:  l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura, come la  decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in  gran parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equili-  brarsi tra il dovere del rinnovamento artistico e l’impe-  rativo degli scopi vitali ai quali la sua natura la destina.  Un romanzo illeggibile equivale a una casa senza finestre  per vederci o a una stazione dove i treni non possono cir-  colare. Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tem-  po attuale anche nel senso della praticità. Le case futuriste  vogliono essere le più comode: la struttura delle città futu-  riste mira ad assicurare i massimi vantaggi alle moltitudi-  ni che devono abitarle. Allo stesso modo il narratore fu-  turista ambisce di garbare alle folle dei giovani, traendone  e in esse trasfondendo gli ideali tipici del nostro tempo,  per via di una tecnica intonata alla sensibilità moderna,  tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon  narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna  terrestre, per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un  volo lirico la propria tempra di novatore. Questa nota velo-  ce non intende di risolvere l'importante problema al qua-  le si riferisce: ma soltanto di proporre lo studio ai came-  rati futuristi.   Bruno CorRrA  Sansepolcrista  [da: Futurismo -- Con il suo articolo « Noi futuristi di destra » uscito  nell'ultimo numero di Futurismo, Bruno Corra ha oppor-  tunamente aperto una tempestiva discussione intorno al  movimento futurista che, secondo me, va allargata e approfondita da una serie di perentorie domande — argo-  menti che, investendone in pieno la vita e la vitalità, ri-  chiedono altrettante risposte urgenti e risolutive,   Quali sono le origini e le funzioni del movimento fu-  turista in Italia.   Quanti e quali sono i movimenti artistici e letterari  succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa, che  accusano sinceramente una netta derivazione dal Futu-  rismo.   Individuazione dei movimenti artistici e letterari che  rappresentano una deviazione e una contraffazione del  Futurismo e dei movimenti che, o fingendo d’ignorarlo,  o ammettendolo furbescamente solo attraverso la propria  attenuazione, continuano a pompargli generoso sangue e  a servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda  simbiosi di Bernardo l’Eremita.   Quali sono Je vere umane ragioni per cui elementi  di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono dal  movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo aver-  ne attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi  e Carrà; Soffici e Papini).   In che cosa consista e came vada intesa il cosidetto  « contenuto polemico » che, seconda certa critica nostra-  na, costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del  Fututismo.   Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fu-  tutismo di essere un movimento difettoso e caduco per-  ché nato senza una dottrina estetica che lo giustifichi.   Espansione influenza e fortune del Futurismo in tut-  to il mondo e suo riconoscimento in Italia.   Sono tutte domande che hanno bisogno per una con-  veniente risposta, di lunghe e minuziose trattazioni.   Ed è più che naturale e logica la irresistibile tendenza  dei nostri connazionali a sbarazzarsene con una sola pa-  rola.   Questa parola la conosciamo troppo bene: Marinetti!   Ma conosciamo troppo bene anche il grossolano  trucco,    Si accarezza Marinetti (fino ad un certo punto, e il più nascostamente che sia possibile: è bene non compro-  mettersi troppo!), per negare poi il Futurismo e massacra-  re i futuristi.   Da troppo tempo si pratica ormai l'iniquo inganno  per non sperare che abbia finalmente a fruttare un ri-  sultato vittorioso e definitivo!   E’ il trucco indegno tentato dagli antifascisti contro  il fascismo quando si cercava di mettere in mora il fa-  scismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda cana-  gliesca mira di dividerli, per batterli poi con più comada  separatamente.   Mussolini anche a quei tempi era trappo Duce per  non avvertire la subdola insidia e sventarla.   Marinetti! Chi più di noi l’ha più fedelmente amato  ed ammirato?   Per conoscere quali prodigiosi tesori di amore e di  energia egli possieda, bisogna vederlo all'estero. Bisogna  sentire allora con che fuoco egli è capace di affrontare  i pubblici più paurosi per numero e distinzione, più ostili  ad ogni cosa che abbia la nostra impronta di quanto non  st creda, e per mentalità, per gelosia e furore d'inferiorità;  bisogna sentirlo dominare a poco a poco col suo impeto  irresistibile gli spiriti o avversi o diffidenti, e, mentre  fa giganteggiare nelle assemblee stipate l’ombra magnani-  ma del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e co-  stringerle a riconoscere la poesia italiana come una cosa  caduta dal cielo: bisogna, dico, vedere quest'Uomo straor-  dinario all’estero, per capire che instancabile affascinante  ambasciatore d'italianità nel mondo noi abbiamo in lui.   Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza, que-  sto avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che  è forse il suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sul-  l'argomento.   Ma approfitrarsene come troppi fanno, è un mostruo-  so delitto.   Che cosa volete allora?, ci domanderà qualche impru-  dente con un sorriso allusivo.   No, no, non invidiamo il puzzo di benzina, state tran-  quilli: a questo volevate alludere. Ma troppe volte ricevia-    136    mo in faccia la cenciata dell'insolente puzzo di benzina  per non sentirci offesi e disgustati nella nostra rassegnata  povertà.   La ragione del nostro malcontento è che da troppo  tempo noi andiamo seminando e falciando per quelli che  ci seguono e allegramente raccolgono senza nemmeno ri-  volgerci un pensiero di ringraziamento.   Amici cari, se ci fermassimo un po’, se ci voltassimo  un pochino indietro anche noi? Se pensassimo anche noi  di raccogliere un pugno di quelle spighe, da portarcele a  casa se non altro per ricordo e testimonianza della lunga  fatica compiuta?   Ma se lasciamo ancora correre un poco, ho paura che  ci negheranno anche questo piccolo premio di consolazio-  ne; e se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo  non sarà che per il museo, tra le mummie di coloro che  st prodigarono e sactificarono per una fede e un ideale  e che Alfredo Panzini già propose di raggruppate in una  sola classifica con la denominazione di collezione di fessi...    CorRrADO GovonI  [da: Futwrismo,  ESTREMA SINISTRA    E non vorrei altro aggiungere. Le distinzioni, «i pun-  ti fermi», Îe categorie anagrafiche non contano. Si sa  che, per taluni, l'età del « destino » futurista è passata da  un pezzo. Pure, quando la febbre della creazione non è  discesa e, soprattutto, quando il traguardo tremendamente  astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si sente,  ogni mattina, l'età — magari — di Vittoria, di Ala e di  Luce Marinetti...! Questo, e non altro, è il vero futurismo.  Perché dovrei sedermi a destra, proprio io? Mi sembre-  rebbe di tradire la causa di « Aeroplani », di « Ellisse €  la Spirale », di « Cavalcata delle vertigini », di « Popolo  canta così! » di « Dannazioni » e di tutto il mio Teatro  inedito, ma ultra violetto, che ha forse, a suo tempo, spa-  ventato anche i genii scenici sovversivi di Petrolini e di  Bragaglia.   Soprattutto, mi sembrerebbe di tradite le mie Opere  fantasticamente audaci di domani: « Beatitudini »  (affret-  tati mio caro Campitelli: perché l'aeroplano-razzo deve  partire per le stelle!). « Canto quotidiano », dove vedrete  il Poema attimistico del 1932 (la « Prora », lo sta stam-  pando); e «Nostra Signora degli Abissi »: dove, fina]  mente, la Motte sarà vinta e le onde cosmiche impaste-  ranno da pari loro la nuova genesi delle radiazioni inter-  planetari.    Questo è futurismo: e di ultra estrema sinistra.    Le mie anatomie sintetiche di anime e di sensi, le mie  aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmapolitismi spa-  ziali e i miei intimismi vorticosi stanno per una intransi-  genza etico estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed, un  pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera di uomo  che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra  messa. Aviatore sempre, adunque: fante e stradino, non  mai. Lo so che i miei romanzi (appunto perché sempre ed  esclusivamente poemi) non hanno trovato che editori san-  ti, martiri ed eroi. Ma anche questo è un segno nobile del-  le cose e degli uomini e degli eventi. In quanto alle mie  opere di Poesia pura, ho avuto la soddisfazione recente di  trovarmele analizzate e comprese e discusse ed evidente-  mente — quindi — amate da una Rivista di giovanissime  menti e di ardentissimi cuori: dico, la « Penna dei Ragaz-  zi » diretta da Vittorio Mussolini, edita in Roma.   I giovani, quelli veramente degni di questo nome pri-  maverile, sanno che, al di fuori e al di sopra d’ogni inevi-  tabile chiasso letterario, la parola « futurismo » risponde  alla solo unica vera «idea forza» che oggi esista nella  sfera ideale del Mondo: e che è in grazia di essa, unica-  mente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa Italia  fascista vive e vivrà.   Naturalmente io dico ai giovani, anche e specie se    138    coronati dal casco d'alluminio in pieno cielo: « lavorate »  non accontentatevi di quattro parole intonate all’onoma-  topea del motore: la Poesia italiana ha ben altri diritti ed  impone ben altri doveri! guardate dalle finestre di Palazzo  Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi « Carmi de-  gli Augusti e dei Consolari », se ne siete capaci! Il Duce  vi premierà.  PaoLo BUZZI  [da: Futurismo,  FUTURISMO SOSTANZIALE    « Non c’è che un futurismo: quello di estrema si-  nistra », ha affermato Paolo Buzzi. Ma questa generosa  intransigenza che parrebbe volere ammettere un unico  modo di manifestarsi — contro la premessa di Bruno Cor-  ra circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di destra  « aderente al terreno pratico » — rimane una questione  poetica e individuale di fronte agli argomenti che le ter-  ranno dappresso:    1) Il futurismo non è formalista; non si crea né  si lascia creare barriere dalle definizioni; pago della pro-  pria influenza, lontano da ripulse d’ortodossia vendicati-  va, riconosce per suo anche quello che è tale sull’altro  name.   Del resto Corra aveva scritto: « fermo restando che  l’essenza del futurismo è e non può non essere rivolu-  zionaria, bisogna dire che nel nostro Movimento i termi-  ni sinistra e destra non sì oppongono, perdono cioè il loro  significato convenzionale. La mentalità futurista supera  il contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in  quanto si libera di continuo in uno slancio creativo ». Le centinaia di migliaia di aderenti al Movimen-  to non si compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione può essere unica; ma l'ispirazione e i tem-  peramenti saranno naturalmente diversi. Così uno stesso  tema, di sentimento futurista, verrà espresso in stili di-  versi.   Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel pun-  to? E come negarne la sostanza futurista?    3) La varietà di tipi, che documenta l’importanza  sociale del fenomeno futurista, è assoluta; e va dai poeti  ai militari, dai pittori agli industriali, ecc.   Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.  zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si.  tuazioni ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non  si tratta qui di temperamento o di mentalità più o meno  ardenti. Si tratta di concezione e di azione che devono  spesso basarsi sul comune « campo pratico » dove s'in-  contrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali  negli scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,  gl'ingegneri).   Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni e  alle inaugurazioni, faccia — con istintiva attenuazione del-  la sua anima inquieta — del futurismo di destra. Perché  allora è sul terreno « pratico ».   E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi stes-  so, uomo ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente,  che pure fu l'organizzatore, modesto e alacre del I. Con-  gresso futurista a Milano, 1924, riuscendo con l'intelli-  gente accoglienza a dare alla manifestazione una luce  di concordia, rara nelle ancor più rare grandi adunate di  artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso che fon-  dò questo giornale indispensabile alle rivendicazioni di con-  quiste artistiche e ideali misconosciute ed alla continua-  zione della tenace opera di ringiovanimento, ed accolse  dopo, con larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e d'ogni  fama purché attratto da poli positivi.   Dunque, se si dovesse affermare l'essenza d’un solo  futurismo bisognerebbe dire: « futurismo sostanziale », che  è poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano, illi-  mitato, ascendente.   Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini che le divinano e le dettano. Esse formano il « tempo », mi.  racolosamente, quasi contro tutte le volontà.    Corrado Govoni, a seguito della discussione aperta da  Bruno Corra, proponeva di riesaminare la posizione del  tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette que-  siti presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mos-  sa dal culturalismo circa una pretesa assenza di dottrina  giustificante l'estetica futurista.    Anche il Fascismo fu accusato di assenza di dottrina: -  e non dai soli avversari.    Quale dottrina, quando la critica ufficiale vede attra-  verso la cultura, divenuta una seconda natura?    Remo CHITI  (da: Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile 1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni propendeva per un  movimento chiuso e voleva che i giovani artisti, i quali  si dichiatavano futuristi e aspitavano ad entrare nel nostro  gruppo, subissero un lungo periodo di quarantena.   Secondo Boccioni non bastava proclamarsi novatore  per esserlo, in realtà; non era sufficiente una adesione più  o meno entusiastica per avere ingresso libero in un mo-  vimento che si proponeva di attuare nell'arte e nella vita  un nuovo ordine di cose.    Dal suo punto di vista, puramente artistico, il crea-  tore del « dinamismo plastico » non aveva torto. Il dono  della originalità non è largito che a pochi. Per superare  il già fatto, mettersi in armonia coi propri tempi e pre-  vedere i lineamenti estetici del futuro occorre un’intelli-  genza ardita, geniale e di largo respiro.    Ma contro l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vi    141    brante liberalità di Marinetti, che più futurista di ogni  altro intuiva la necessità di creare un clima, di generaliz-  zare una tendenza, di suscitare una vasta atmosfera spiri-  tuale in cui si dovessero respirare continuamente il senso  e il desiderio della novità.   Ecco la ragione profonda del suo proselitismo, della  sua accettazione, quasi incondizionata nel movimento, di  tutti quei giovani e giovanissimi che avessero fede nel  futurismo.   Tale generosità non fu e non sarà mai faciloneria.   Nel fervore del diciottenne c'è sempre qualcosa di vivo  e di sacro che è impossibile trascurare. Ognuno di noi  sa per esperienza che è la primavera, anche con le sue  intemperanze, la stagione che prepara i germi e i frutti di  domani. E non bisogna aver paura che gli entusiasmi sbol-  liscano presto. Basta che la fiaccola timanga accesa e che  trascorra di mano in mano agitata e sollevata continua-  mente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna giovinezza  della nostra arte e della nostra vita.   Futurismo di destra? Futurismo di sinistra? Non cre-  do che sia il caso di parlarne. In quanto alle benemerenze  e al sacrifici, talvolta eroici, dei primi banditori del futu-  tismo essi appartengono ormai alla storia.   L'amico Govoni vorrebbe che i futuristi della vigilia  fossero promossi al grado di santoni e avessero quel tribu-  to di applausi e di ricompense che essi giustamente meri-  tano. Ma ciò equivarrebbe a una giubilazione e noi ri-  schieremmo di diventare dei sopravvissuti.   Il piedistallo e l’altare non sono il nostro posto di  combattimento.   In prima linea sempre e all'avanguardia ad ogni co-  sto! Anche a costo di essere eternamente in contrasto con  il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e  accetta soltanto il futurismo di seconda mano, addomesti-  cato dagli abili profittatori del nostro movimento.   Questo disprezzo del rendiconto e del caso personale,  questa ferma volontà di essere più giovani dei giovani è  un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di quell’otti-  mismo che molti pseudo-avanguardisti aborrono perché so-    142    no nati con la barba nel cervello, non hanno avuto mai  vent'anni e non arrivano a comprendere che soltanto nel-  l'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza mez-  zi termini c'è il lievito di ogni grandezza futura e d’ogni  poesia nuova. Chi ha il torcicollo nostalgico non può guar-  dare dititto innanzi a sé e andare oltre speditamente.   Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che si per-  petua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze  istintive e fornito da madre natura del vero e genvino  senso dell'immortalità.   Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il clima fu-  turista dev’essere sopratttuto un clima primaverile e  acerbo.   Luciano FOLGORE  [da: Futurismo, -- Abbiamo raccolto quattro testimonianze futuriste, è  sul futurismo. Una è di Alberto Sartoris, architetto,  una di Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli, eri-  tico d'arte, e una di Enzo Benedetto, pittore e giorna-  lista. Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo Bel.  loli) è un esperto, studioso ed interprete del futurismo.  Ci sono sembrati interventi significativi e ittdispensa-  bili alla puntualizzazione dell'argomento, visto che si  tratta di personaggi viventi, che hanno partecipato al  futurismo e che ancora oggi lo sostengono e cercano  di dargli alito o di vivere futuristicamente a tutt'oggi  in un mondo, forse, ricaduto nel « passatismo ». Crali  con l'aeropittura e la sassintesi ha continuato l'avan-  guardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre  l'aveva sostenuta, al di qua e al di là del fascismo.  Benedetto con un manifesto {Futurismo oggi) e poi    con un foglio periodico «operativo », capace di pro  porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi. Sar  toris con un'ottività artistica professionale volta 4 con-  timuare, anche se in oltre direzioni n con altri strumen-  ti di vicerca, la prima avanguardia cui aveva aderito  entusiasta. Belloli puntualizza e sancisce criticamente  con la profondità dell’evperto certi. rapporti e certe  « colleganze », troppo spesso volutamente dimenticate 0  accantonate. La critica deve essere seria e intellettual.  mente, n «ideologicamente », corretta. E° quello che  abbiamo cercato di fare. Anche con la pubblicazione  di questo testimonianze    Carlo Belloli, critico, poeza « visuale » di sperimen  tazione futurista, e docente nelle università svizzere di  estetica {Basilca) e storia della critica d'arte (Strasbur-  go) Nato nel 1922, vive a Milano e Basilea. E' colla  boratore de La Martinella di Milano, già del Roma di  Napoli, e della rivista Les Arts di Parigi Organizza  come consulente le mostre di numerose gallerie d'arte    di Milano.    Enzo Benedetto, pittore e scrittore, futurista « da  sempre » (1923). E' nato a Reggio Calabria nel 1905,  vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica Futurismo  aggi, che esce dal ‘69, bimestralmente, con saggi e ri  produzioni di opere futuriste. Fu anche autore del  l'omonimo manifesto nel dopoguerra (1967).    ‘Tullio Crali, pittore futurista e aeropittore. E' nato  nel 1910 a Igalo, in Dalmazia. Vive a Milano dove ha  lo studio e il più importante archivio del futurismo  attualmente esistente. Futurista dal '29 e creatore della  camicia anticravatta e della giacca antibavero (nel '33),  é firmatario nel ‘58 del manifesto futurista sulla « Sas-  sintesi ». Sarà uno degli ultimi a vedere Marinetti nel  ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare can  lui la continuità del futurismo dapo la guerra    Alberto Sartoris, architeito e professore dll'Univer  sità di Losanna. Futurista e amico di Terragm e di Le  Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a Cossonay  Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e  nel ‘28 sarà con Prampolini e Fillia nel gruppo torinese.  Nel ’36 fonda il gruppo degli astrattisti a Como, dove  collabora con Terragni nel progetto della città operaia  di Rebbio. ('39-40). Sua opera fondamentale è il li  bro Gli elementi dell’architettura funzionale (1932),  pilastro teorico del razionalismo architettonico italiano  (introdotto da Le Corbusier)    FUTURISMO-FASCISMO:  OSMOSI DI DUE MOVIMENTI DELL'ITALIA  CONTEMPORANEA    Dal futurismo confluirono al fascismo, o viceversa, al-  cuni letterati e pittori, qualche pensatore, di singolare auto-  nomia espressiva.   E' il caso di Mario Carli, Emilio Settimelli ed Arman-  do Mazza letterati e giornalisti di non trascurabile inci-  denza che dalla originaria militanza futurista estrassero  dialettica, argomentazioni autonome e maturazione spiri-  tuale, per assumere nel giornalismo fascista più avanzato  ruoli protagonisti.   Mario Carli, ufficiale degli Arditi nella prima guerra  mondiale e poi legionario fiumano, fondò con F.T. Ma-  rinetti l'Associazione degli Arditi d’Italia e il periodico  Roma Futurista dalle cui colonne trovarono sistematica  divulgazione il teatro sintetico, le pratiche parolibere dei  poeti futuristi e le prime prove versoliberiste di Giuseppe  Bottai che ne fu redattore.   In quel 1919 anche il generale Luigi Capello si avvi-  cinerà ai futuristi per esporre alcune tavole parolibere di  accertata ingegnosità, alla « Grande Esposizione Naziona-  le Futurista » nella galleria centrale d'arte di Palazzo Co-  va a Milano, mostra successivamente presentata a Firenze  e a Genova.   Mario Carli con la raccolta di versi liberi e parole  in libertà Caproni, pubblicata a Milano nel 1925, precorse  l’aeropoesia futurista degli Anni Trenta.    Alla prosa poetica, Carli, aveva dedicato Le notti fil-  trate, singolare repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ri-  stampato a Roma, nel 1923 per i tipi di Giorgio Berlutti  che dirigerà quella Libreria del Littorio, editrice di mo:  numenti e documenti dell'era fascista. Il suo debutto di  prosatore era avvenuto nel 1909 con un seguito di novel-  le, Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo romanzo, Retroscena. All’attività letteraria e giornalistica Mario  Carli alternerà quella politica e diplomatica.    Nel 1926 pubblicherà a Firenze Fascismo Intransigente,  con prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la ten-  denza più oltranzista del fascismo.   Nel 1925 Carli era stato nominato Console d’Italia  in Brasile, per essere in seguito trasferito a Porto Alegre  nel 1927, anno in cui Bernardo Attolico assumerà la reg-  genza dell'Ambasciata d’Italia a Rio de Janeiro.   La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a  Rio de Janeiro, Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel  maggio del 1926, troverà Mario Carli a fianco di Mari-  netti per arginare le polemiche causate in Brasile dalla  aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in li  bertà.   Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà la  parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futu-  risti non aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle  arti e nell'estetica alle quali la poetica futurista aveva  aperto liberi orizzonti precisamente influenzando il « mo-  dernismo » sudamericano.   Emilio Settimelli, poeta, scrittore di teatro e giorna-  lista, aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel  1915 e con F.T. Marinetti e Bruno Corra aveva curato  la prima antologia del Teatro Sintetico Futurista, edita da  Umberto Notati, a Milano in quel medesimo anno, nella  collezione dei « Breviari Intellettuali » del suo Istituto  Editoriale Italiano.   Nel 1917 Settimelli pubblicherà a Firenze Maschera-  te e, nel 1918, I capricci della Duchessa Pallore, edito a  Milano dalle Messaggerie Italiane. Settimelli risulta pre-  cursote di un periodare scarno e telegrafico, serrato e dia-  lettico, inttoducendo la pratica di neologismi sociopolitici  che avranno fortuna nel linguaggio governativo e giorna-  listico italiano degli Anni Venti e Trenta. Il teatro sin-  tetico di Settimelli si differenzia da quello degli altri auto-  ri futuristi per lucida imprevedibilità di azioni-stati d’ani-  mo simultanei. Nel fascismo anche Settimelli appartenne  alla corrente più revisionista e le sue Sassate, pubblicate    148    a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col:  piranno più di un gerarca in posizione moderata e con-  formista.   Filippo Tommaso Marinetti redigerà nel 1921 con Emi-  lio Settimelli e Mario Carli il manifesto Che cos'è il Futu-  rismo | Nozioni elementari, dove vengono considerati « fu-  turisti nella politica » coloro che amano il progresso del-  l'Italia più di loro stessi, quelli che vorranno liberare  l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal parla-  mento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, pro-  positi del fascismo.   Così la volontà di perseguire un governo tecnico di  giovani, senza parlamento, « vivificato da un consiglio ec-  citatorio di giovanissimi », la determinazione di « espro-  priare gradualmente tutte le terre incolte e malcoltivate,  preparando la distribuzione della terra ai suoi lavoratori »  e l'abolizione di ogni forma di parassitisma burocratico,  industriale e capitalistico, diventeranno tipicamente na-  zionalfasciste e fasciorepubblicane.   Il manifesto considera, poi, « futurista nella vita » chi  « sa dare a tempo un cazzotto e uno schiaffo decisivo »,  chi « agisce con energia pronta e non esita per vigliacche-  ria », come chi « fra due decisioni da prendere preferisce  la più generosa e la più audace, sempre che sia legata al  maggiore perfezionamento e sviluppo dell'individuo e del-  la razza... »: medesima l'etica fascista di alcuni anni dopo.   Nel 1922 Emilio Settimelli aveva dedicato un saggio  critico all'opera di Marinetti, edito a Milano con | tipi  di Gaetano Facchi, che può essere considerato il primo ten-  tativo di analizzare la letteratura marinettiana al di sopra  del clamore scandalistico e della propaganda futurista.   Nel 1927 Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni  d'Arte e di Critica, Come combatto che raccoglie i suoi  più polemici scritti apparsi sul quotidiano romano L’Irm-  pero, diretto con Mario Carli.   Verso la fine degli Anni Trenta, Settimelli, subirà al.  cuni anni di confino di polizia causati dalla sua intransi-  genza critica verso alcuni personaggi-chiave del regime.   Di Armando Mazza, che ci fu dato di personalmente    149    conoscere e frequentare, il futurismo si avvaleva per pre-  sentare le prime, contestate, serate propagandistiche nei  teatri della Penisola.   Eccellente declamatore di versi, tonante dicitore di  manifesti tecnici futuristi, Mazza possedeva un fisico atle-  tico di lottatore greco-romano. Marinetti affidava, quindi,  a Mazza la protezione della ribalta dagli attacchi passatisti,  mentre Îa sua voce tonante sovrastava i fischi e il vociare  degli oppositori.   Singolare poeta parolibero, Mazza, sarà il primo ad  organizzate un movimento anticomunista, fondando nel  1919 a Milano, il settimanale politico I wmemzici d'Italia,  organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Nel 1918  Mazza aveva pubblicato dall'editore Gaetano Facchi di  Milano 10 Liriche d'Amore, seguito di altrettanti poemi  in versi liberi stampati come cartoline postali raccolte in  contenitore di carta crespata. Queste cartoline poetiche so-  no il primo esempio rilevabile e significativo di quella che  negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, « Arte po-  stale », assegnando alla comunicazione poetica il canale  inabituale della spedizione a domicilio del messaggio este-  tico. Già nel 1917, Armando Mazza, aveva introdotto l’uso  delle « Cartoline Postali di Guerra », edite dallo Stabi-  limento Tipografico Taveggia di Milano, di cui Vedetta  (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa ed esteticamente de-  terminante. Ai poemi postali faranno seguito Due morti.  liriche pubblicate nel 1919.    Nel 1920 Mazza pubblica Firmamento / con una spie  gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in Libertà, edito a  Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta di  una pregevole sequenza di parole in libertà dove la com-  ponente tipovisuale dialettizza le scelte semantiche, tal-  volta enfatiche ed irruenti con frequenti ricorsi ad ana-  logie non sempre depurate. Poi Mazza verrà totalmente  assorbito dal giornalismo e dall’attività politica    Sarà direttore di importanti periodici come La grande  Italia e di quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di  Genova, Il Resto del Carlino di Bologna.    Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando Mazza    150    farsi ancora più liquidi e trasparenti quando ci parlava del  Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe del qua-  le Apollinaire gli inviava, nel 1913, fiori, « rose », riser-  vando « merde » ai conservatori e ai romantici. Mazza  aveva frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e Grasa  Aranba a Rio de Janeiro, Benedetto Croce a Napoli, ai  tempi de La Diana e Giovanni Gentile a Milano, proprio  mentre il filosofo stava orientandosi verso il fascismo.  Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva aiutato nei  primi anni del soggiorno milanese, Mazza, era stato di-  pinto dal maestro futurista in un esemplare pastello di  rara fattura e di deflagrante cromaticità, che pubblicam-  mo nel 1977 fra le opere inedite di Boccioni.    Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per la  critica d'arte, presentandolo ad Umberto Notari, editore  del quotidiano, poi settimanale, Gli Avvenimenti dove il  pittore reggerà per qualche tempo la rubrica d'arte. Il  fascismo di Armando Mazza restò sempre moderato e la  sua coerenza politica gli causerà nel dopoguerra 1940-1945  il più completo ostracismo, impedendogli di continuare la  attività giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia sino  agli ultimi giorni di vita.   Il forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza alla  poesia alla quale apporterà non trascurabili contributi in  versi liberi pubblicati, fra il 1948 e il 1959, presso editori  inadeguati. Fra i più importanti poeti del futurismo con-  fluiranno al fascismo, assumendovi incarichi di alta re-  sponsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto Bottone) che,  a Roma, diventerà capo dell'ufficio stampa della M.V.S.N.  (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e Paolo  Buzzi che, a Milano, assumerà la carica di Segretario Ge-  nerale della Deputazione Provinciale. Altri futuristi di  minore rilievo, come il poeta Federico Pinna-Berchet, au-  tore delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel 1930,  il poeta parolibero giuliano Bruno Sambo e Ferruccio  Vecchi, prosatore e capitano degli Arditi, aderiranno al  fascismo svolgendovi ruoli anche decisivi. Sambo diventerà  federale di Addis Abeba, mentre Pinna-Berchet e Vecchi  ricopriranno alte cariche corporative. Così il genovese Bolzon, poeta-pittore futurista dal 1919 e battagliero  giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel 1928, poi  Consigliere di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di  saggi di critica sociale e di teoria fascista pubblicati dalle  edizioni Alpes di Milano.   Anche il grande invalido di guerra Giuseppe Steiner,  piacentino, poeta parolibero e autore di quei fondamentali  Stati d'Animo disegnati, editi nel 1923, che precorsero la  « poesia grafica » di Pino Masnata e la « poesia visiva »  dei giovani fiorentini negli Anni Sessanta, sarà nominato  Consigliere Nazionale fascista. Dal futurismo si oriente-  ranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore Guido Kel-  ler, legionario fiumano e autore del lancio aereo di un  pitale su Montecitorio a monito di Francesco Saverio Nitti,  il « cagoia » del « Natale di sangue » fiumano; e la Me-  daglia d'Oro ferrarese Olao Gaggioli, poeta parolibero fu-  turista e pluridecorato ufficiale del XXIII Battaglione di  Assalto dei Bersaglieri sul Podgora.    Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Da-  quanno, poeta parolibero e cofondatore a Milano del pe-  riodico I Principe, organo fascista difensore della « Mo-  narchia integrale ». Daquanno, che nel 1925 aveva pub-  blicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio dell’artigianato  italiano, diventerà nel 1927 capo ufficio stampa della  Federazione Fascista delle Comunità Artigiane.    Un riferimento, poi, al poeta parolibero e autore di  teatro sintetico Guglielmo Jannelli, messinese, che dai «Fa-  sci Futuristi », di cui era stato promotore nel 1918 con  Marinetti, passerà ai « Fasci di Combattimento Siciliani »  assumendovi compiti determinanti. Nel 1924 Jannelli pub-  blichetà a Messina, per i tipi delle Edizioni della Balza  Futurista un polemico saggio dedicato a La crisi del Fa-  scismo in Sicilia, dedicato in frontespizio « A Emilio Set-  timelli e Mario Carli, miei fratelli nella avanguardia arti-  stica e politica della nuova Italia e anime capaci di ren-  dere pienamente la sincerità che mi ha mosso a compiere  queste franche pagine obbiettive ».    Questo scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una  autocritica nell’ambito del fascismo, di una volontà revt-   con 1acusaro adagio. «.., oDbDedienza pronta, cieca, aSS0-  luta... ». Così Jannelli vede il fascismo nel 1924: «... il  fascismo si è rotto in due pezzi: molta della parte più  buona è rimasta bloccata, impedita di agire; e l’altra par-  te trionfa esteriormente unita ma intimamente diversa, po-  co moderna, niente affatto veloce e qualche volta insi-    gnificante... ».    Anche Corrado Pavolini, poeta, autore teatrale, regi-  sta, critico d’arte e letterario, che si era avvicinato al mo-  vimento di Marinetti attraverso l’opera del pittore futuri-  sta fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924 un  saggio monografico al fondatore del futurismo pet, infine,  pubblicare nel 1927, a Bologna per i tipi dello Zanichelli,  quel fondamentale Cubismo Futurismo Impressionisnio, ade-  rirà al fascismo assumendo importanti incarichi nel diret.  torio del partito e al Ministero della Cultura Popolare.  Dal fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo Fran-  cesco Orestano, Accademico d’Italia, che negli Anni Tren-  ta dedica al movimento di Marinetti saggi di teoria este-  tica e di critica letteraria. Orestano aveva pubblicato nel  1907 quegli importanti Valori Umani la cui struttura teo-  retica aveva particolarmente influenzato il giovane Ma-  rinetti.”   Anche Paolo Orano, scrittore, storico della filosofia  e sindacalista sorelliano, che fu Deputato fascista per la  Sardegna alla XXVI legislatura e per la Toscana alla XXVII  e al quale venne affidata nel 1926 la prima cattedra di  storia del giornalismo nella facoltà di Scienze Politiche  dell’Università di Perugia, si orienterà verso il futurismo.  Nella raccolta di saggi critici I Contemporanei, pubblicata  a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà a Ma-  rinetti una esegesi determinante, del tutta favorevole al  futurismo considerato estetica nuova di apertura inter-  nazionale. Dalla pittura futurista si muove, invece, verso  il fascismo Antonio Marasco, senz'altro il più impegnato  e coerente politico fra tutti gli operatori plastici del futu-  rismo. Calabrese di nascita, Marasco, ebbe parte rilevante nelle squadre d'azione fasciste di Firenze dove si era tra-  sferito prima ancora di arruolarsi volontario per la guerra  1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di ipri-  te sul Piave e dopo essere stato promotore con Marinetti  dei « Fasci Futuristi ».    Nel 1914 Marasco aveva accompagnato Marinetti nel  suo secondo viaggio in Russia, a Mosca e a Pietroburgo,  dove avrà modo di conoscere Velimir Klebnikow e Wla-  dimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di estrema  inventività grafica al  medico-pittore Nicolaj Kulbin, al  pittore Nikolaj Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poe-  ta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore B. Livshits, al mu-  sicista A. V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di Ma.  rasco presenterà sempre componenti sperimentali, non con-  dizionata da temi fascisti o da enfasi dell'aviazione mili-  tare e civile che, purtroppo, sviliranno molta parte della  neropittura futurista degli Anni Trenta. Antonia Matasco  precorre il cosiddetto « astrattismo » delineatosi nell’am-  bito della milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghi-  ringhelli e può essere considerato uno dei pionieri del  costruttivismo e del concretismo internazionali.    Particolarmente affezionati a Marasco avevamo avuto  modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima  mostra personale a Milano, di carattere antologico, attra-  verso la quale il più vasto pubblico riuscì a scoprire le  sue ricerche preastratte e protoconcretiste realizzate a Fi-  renze fra il 1923 e il 1930    Marasco restò sempre legato al futurismo e il suo fa-  scismo ebbe coerenza di adesione alla Repubblica Sociale  Italiana dove ricoprì importanti incarichi nella rinnovata  Direzione Generale delle Belle Arti e dei Beni Culturali  del Ministero della Cultura Popolare. Questo magistrale  pittore svolse anche attività di scrittore e di critico d’arte  e un suo libro, pubblicato a Firenze nel 1935, Parrorami  allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale science-fiction.   Nell'ambito del movimento futurista, Marasco, pro-  mosse i « Gruppi Futuristi Indipendenti », attivi a Firen-  ze fra il 1925 e il 1958, che rivelarono personaggi della  importanza di Cesare Augusto Poggi, architetto razionalista, tecnologo del cemento armato e ideatore di singolari  costruzioni civili per la difesa bellica. Quando, nella se-  conda metà degli Anni Trenta, s'inasprirà la campagna fa-  scista contro il futurismo, accusato di difendere l'arte  « astratta » considerata « giudea e massonica », Matasco  sarà a fianco di Marinetti per chiarire i termini di indi-  pendenza dell’« astrattismo » plastico da ogni motivazio-  ne di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o mura-  toria. Se disponessimo di maggiore spazio per analizzare  compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti fu-  turismo-fascismo ne risulterebbe la conferma di una pre-  cisa interdipendenza di propositi e di azione fra i due  movimenti. Il futurismo non condizionò mai le proprie  libertà espressive, i propositi di rinnovamento, di costan-  te evoluzione spirituale, alle esigenze agiografiche del fa-  scismo che, del resto, non considerò il futurismo come  arte di Stato, riservando questo pericoloso privilegio al  movimento del Novecento, celebrarore di miti romanistici  e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo, pur  mascherato da un malcompreso funzionalismo.   Antonio Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla so-  glia degli ottant'anni.   Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto, sino  all'ultimo, cromostrutture dinamiche e inoggettive di auto-  noma soluzione cinevisuale. Puntualmente ci inviava let-  tere di accorata italianità, preziosi appunti di teoria pla-  stica che, un giorno, dovremo pur raccogliere e pubblicare  come contributi fondamentali alla storia del costruttivismo  e del concretismo internazionali. Noi giovanissimi non era-  vamo disposti ad anteporre la dogmatica della mistica fa-  scista alle libertà espressive promosse e favorite dal futu-  rismo, né ci si potrà accusare di aver posto le nostre pri-  me ricerche futuriste al servizio dell'apologia di regime.   Così le nostre Parole per la Guerra, pubblicate nel mar-  zo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi in Armi, sovven-  zionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai canoni  conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli an-  ni ma anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta e visuale, come è stato ampiamente rilevato dalla critica  internazionale più obiettiva e attenta.    Il nostro poema Bimba / bomba, del 1943, può essere,  infatti, considerato il primo esempio esistente di poesia  concreta a struttura semantica reversibile e a susseguenza  ottica alternata, dove l'uso della parola-chiave è già seria-  listico.    Il nostro fascismo eta quindi disarticolato dalle pra-  tiche dell’estetica futurista, proprio come si era verificato  per gli iniziatori del futurismo: F.T. Marinetti, Paolo Buz-  zi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. In-  fatti anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944  dalle Edizioni Etre (Repubblica) con un «collaudo » di  Martinetti, piuttosto di risolversi nell'abituale apologia  guetresca di quel periodo, introducono un modo nuovo di  poetare inaugurando le problematiche di quella « poesia  visuale » che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi  internazionali sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideo-  logia politica di Marinetti, le teorie del suo particolare na-  zionalismo « prefascista » sono raccolte in due volumi pub-  blicati in tempi diversi. Democrazia Futurista, edita a Mi-  lano nel 1919 da Gaetano Facchi, è la sintesi delle posi-  zioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato dopo-  guerra 1915-1918.    Vi si ripercorre l'atmosfera in cui nel 1918, dopo Ca-  poretto, Marinetti fonda i « Fasci Politici Fututisti » con  Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Mario Carli, Gugliel-  mo Jannelli, Antonio Marasco, i pittori Gino Galli, Gia-  como Balla, Ottone Rosai, Fattunato Depero, il poeta-pit-  tore cremonese Enzo Mainardi, lo scrittore Remo Chiti,  il poeta Luciano Nicastro, Massimo Bontempelli, il chirur-  go Giovanni Masnata, poi Senatore del Regno, padre del  poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali aderi-  Sta settanta intellettuali e uomini di varia estrazione cul-  turale.    I «Fasci Politici Futuristi » si trasformeranno, poi,  gradualmente in « Fasci di Combattimento » confluendo nel.  lo squadrismo fascista. Così, quando i fascisti partecipe-  ranno per Ja prima volta alle elezioni politiche del 1919,    156    rinetti, Piero Bolzon, il poeta-aviatore Giacomo Macchi,  Baseggio e Podrecca.   Futurismo e Fascismo, pubblicato da Franco Campi.  telli, editore in Foligno, nel 1924, indica, invece, la per-  sonale interpretazione della dottrina fascista praticata da  Marinetti e da molti artisti futuristi, come dai numerosi  affiancatori e propagandisti del movimento futurista. Con  il manifesto L'Impero Italiano / A Benito Mussolini - Ca-  po della Nuova Italia redatto nel 1922 da F.T. Marinetti,  Mario Carli ed Emilio Settimelli, il futurismo, già in que-  gli anni, istigherà il fascismo alla fondazione dell'Impero,  precorrendo una realtà che, negli Anni Trenta si concluderà  con la conquista dell'Etiopia.   Marinetti scriverà nel 1924: «... il Fascismo, naro  dall’interventismo e dal futurismo si nutrì di principi fu.  turisti... »   Una storia parallela dei due movimenti, ancora da scri-  vere, dovrà tener conto della mai rinunciata indipendenza  futurista che non condizionò le esigenze di libera ricerca  espressiva alla necessità della politica dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato alla vita sociale  prima come fascista e dopo come futurista.   Avevo sedici anni quando nel 1921, proprio in corti.  spondenza del mio compleanno, sottoscrissi una domanda  di ammissione ai « Fasci di Combattimento ». La doman-  da fu avvallata da due miei amici di maggiore età, come  soci presentatori, i quali compirono coscientemente un pic-  colo falso alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia ammissione come socio ad ogni  effetto. Così diventai a pieno titolo uno dei pochi iscritti  della Sezione di Reggio Calabria dei « Fasci di Combat-  timento », che aveva allora sede in una baracchetta per i  bagni di mare, in disuso.   Perché questo sedicenne studente del Liceo aveva  ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente  pericoloso? A mio avviso, furono determinanti, l’amore  per la Patria, nato dentro durante fa guerra sull’esempio  di un avo materno che ne aveva avuto, forse, di troppo;  l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente indignazione  per quanto accadde subito dopo con l’attività dei cosid-  detti progressisti del momento, ostili ai reduci, in con-  trasto con la spavalderia ed intraprendenza di questi ul-  timi.   Il mio apptoccio con il Futurismo avvenne, invece,  due anni dopo, con la scoperta di Zang iumb tuumm e  l’incontro con F.T. Marinetti    Questo essere prima fascista e poi futurista, mi sem-  brò una particolarità personale e la confessai un giotno —  dopo tantissimi anni -— a Mario Dessy, e lui mi disse che  gli era accaduto lo stesso benché avesse cinque anni più  di me. Comunque è chiaro che nel periodo fra il 1919 ed  il 1922 vi fu un rapporto di identità ideale fra queste  due forze, anche se vi furono dissensi spesso di carattere  costruttivo, E’ difficile — infatti — che possano andare  in tandem per lungo tempo movimenti di carattere poli-  tico e movimenti di carattere intellettuale o culturale. Le  ragioni mi sembrano evidenti: un movimento culturale,  anche se basa la propria forza nelle realtà della vita (come  il futurismo), ha il suo fulcro nella idea-base che difende  con ortodossia e non è disponibile per transazioni ideolo-  giche. Il movimento politico, invece, pet propria natura,  specie quando atrivi alla gestione del potere, diviene dut-  tile e transigente al fine di mantenere è consolidare la  proptia forza concreta, allargando la base dei consensi.    Il Futurismo prima della guerra mondiale si caratteriz-  za artisticamente con l'invenzione dei grandi temi di rin-  novamento nei settori di tutte le arti e, in veste politico-sociale, nell’esaltazione dell’Italia, fantasticando per que-  sta, una nuova organizzazione anti-demo-liberale ed anti-  clericale. Un nuovo mado di vivere. Uno Stato industriale  ed agricolo tecnicamente progredito, che si progettava  astrattamente, certamente irrealizzabile. Qui i tentativi di  un’azione politica che non aveva, però, un valido autonoma  sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da poeti ed ar-  tisti?   Nel tempo in cui Marinetti iniziò il « Movimento »,  le forze che affermavano di voler realizzare un nuovo svi-  luppo sociale al fine di un miglioramento della situazione  economica delle classi più disagiate e trascurate, trovava-  no una sede formalmente appropriata nelle spinte del sa-  cialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe durata bre-  ve perché questo socialismo si sviluppò in senso interna-  zionalista apatriottico collettivista antindividualista e fu  sconfitto dagli eventi della prima guetra mondiale. Tanto  è vero che dal suo seno, a guerra conclusa, prosperarono  il comunismo ed altre scissioni e nacque il fascismo.    Sono noti e possono essere facilmente consultati i do-  cumenti delle manifestazioni spiccatamente politiche del  movimento futurista che precedettero la Fondazione dei  « Fasci di Combattimento ». Intendo rifetirmi al « Pro-  gramma Politico Futurista » dell'11 ottobre 1913, firma-  to da Marinetti Boccioni Carrà Russolo, all'azione politi-  ca svolta da La Balza Futurista fondata da Di Giacomo  Jannelli e Nicastro del 1915, e dei «Fasci Interventisti  Siciliani », di Roma Futurista e dei relativi gruppi, nati  nel 1917-18, del Partito Politico Futurista sempre del 1918  che concretizzava un suo programma nel libro Democrazia  Futurista di Marinetti, eccetera eccetera. Tutte queste for-  ze si concentrarono nel movimento fascista nel 1919, sia  aderendo direttamente all'assemblea di fondazione di Piaz-  za San Sepolcro in Milano, sia successivamente anche per  forza d'inerzia.   Il fatto è che — di solito — quando si parla di par-  tecipazione politica dei futuristi, ci si richiama soltanto  al ricordo dell’attività degli artisti che militarono con la  qualificazione di « futuristi ». Vale a dire dei poeti, scrittori, pittori, limitandosi ovviamente ad esaminare il con-  tributo di coloro che hanno raggiunto maggiore notorietà,  trascurando i « minori ». Ma questi ultimi erano in nu-  mero stragrande e molto attivi. Senza tenere inoltre conto  che i maggiori spesso presi del tutto da altre attività, non  erano altrettanto validi e disponibili in campo politico. In  verità, il « Futurismo » di quel tempo è stato un movi-  mento a larga partecipazione di giovani, di tantissimi gio-  vani. Non tutti poterono — ovviamente militare nel  campo dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere ri-  cordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente attivi e  furono a migliaia i militanti di futurismo che partecipa-  rono ad episodi fascisti negli anni precedenti, o appena suc-  cessivi, alla marcia su Roma.    Non credo di sbagliare se affermo che nelle cosiddet-  te schiere dello « squadrismo » molte furono le partecipa-  zioni futuriste. Azione lotta e coraggio erano proposizioni  futuriste. Basta ricordare la prima azione di Marinetti e  Ferruccio Vecchi nel 1919 (16 aprile: Piazza Mercanti Mi-  lano) e ricordare i tanti nomi dei militanti futuristi che  ebbero più spicco in campo politico che in quello dell’arte.    Alla fondazione dei Fasci, confluirono nel fiume che  diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come ho  già accennato) movimenti di ogni genere che avevano un  minimo comune denominatore nella volontà di rinnovare  in qualche modo l’Italia che, pur vittoriosa nella guerra,  si dimenava in serie difficoltà ed era incapace ad affron-  tare la svolta storica che la vittoria aveva aperto. Anche  i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso  forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con  capacità ed intendimenti politici ed il secondo come lette-  rato e poeta), ma dei quali non si è ancora scritta la  storia, né accertato la reale efficienza, vi aderirono. Come  aderì Marinetti con tanti altri futuristi che risultano elen-  cati nella schiera dei cosiddetti « sansepolcristi ».    In seguito, quando il fascismo andò al potere, ai futu-  risti sembrò che finalmente sarebbero stati realizzati nel-  l’arte gran parte dei propositi del futurismo. In questa  illusione fummo cullati da alcuni elementi: la impostazio-       160    ne altamente patriottica dei propositi, la valorizzazione del  combattentismo e del volontarismo, l'amore per il nuovo  ed il rischio, il pragmatismo attivo dimostrato immedia-  tamente con i primi atti di governo, eccetera. Va anche  rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni  non rispondenti alla realtà di allora, che la personalità  di Mussolini era molto al di sopra non solo di quella dei  suoi collaboratori politici, ma sovrastava la media dei cer-  velli politici di quel periodo. Tanto è vero che furono ap-  punto gli avversari a votargli subito i « pieni poteri » che  gli consentirono l'avvio della prima gestione governativa.  Questo fatto rilevante, gli consentì di attrarre dapprima  le simpatie collettive ed — in seguito — a conquistare  una enorme fiducia, non solo da parte dei suoi sostenitori  di un tempo, ma anche da parte di ex avversari e simpa.  tizzanti e — nei periodi più floridi — perfino dai nemici  del sistema politico che egli cercava di sviluppare.   Quando il fascismo s’insediò al governo per realizzare  la rivoluzione {a dire dei fascisti), o perché chiamato dalla  debole monarchia (come dicono gli altri), subì dapprima  una sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) pro-  blemi immediati dalla cui soluzione dipendeva il recupe-  ro dell'ordine econamico e politico. Per questo, Mussolini  non si sbarazzò immediatamente degli avversari che erano  troppi e in gran parte si erano dichiarati disponibili a  collaborare per il meglio, pur costituendo nello stessa  tempo zone di resistenza alle innovazioni    Così anche nei fatti dell’Arte ovviamente meno pres-  santi, ove non comparvero personalità « nuove » che aves-  sero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivolu-  zionare tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari.  netti e nella quasi totalità si convinsero che la « rivolu-  zione » potesse realizzarsi per pradi anche in Arte. Che  la forza del nuovo potesse penetrare per gradi nelle isti-  tuzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione. Illusione giu-  stificata sul momento non solo dal fascino personale di  Mussolini al quale ho già accennato, ma anche da certe  sue caratteristiche gestuali (come la particolare sintetica  e precisa oratotia che andava direttamente allo scopo in    161    modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale  capo futurista. Se si aggiunge inoltre l'amicizia personale  fra Mussolini e Marinetti, vicini anche in altre precedenti  azioni politiche, si comprende come il movimento rivolu-  zionario rappresentato in arte dal Futurismo, rimase a fian-  co del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla ba-  sel, anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze  immediate dell'esercizio del potere su una nazione che di  rivoluzionari di qualsiasi tipo ne ha avuto — per la veri-  tà — sempre pochi, anche se gonfiati ad oltranza quando  occorre, in tutti i testi di storia antica e recente.   I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila del  fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i]  messaggio che concluse il Congresso futurista di Milano  (L'Impero, 27 novembre 1924):    « L'ultima riunione del congresso futurista è stata de-  dicata all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti  espose alla numerosa assemblea una dichiarazione prece-  dentemente elaborata in accordo con i maggiori futuristi  politici, la lettura della dichiarazione fu entusiasticamente  approvata ed acclamata in ogni suo punto. Ecco Ja dichia  razione:    «“I futuristi italiani, primi fra i primi interventisti nella  piazza e sui campi di battaglia e primi fra i primi dician-  novisti più che mai devoti alle idee ed all'arte lontani dal  politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito  Mussolini: Primo: con un gesto di forza ormai indispen-  sabile liberati del parlamento. Secondo: restituisci al fa-  scismo ed all'Italia la meravigliosa anima diciannovista di-  sinteressata ardita antisocialista anticlericale  antimonar-  chica. Tetzo: Concedi alla monarchia soltanto la sua prov-  visoria funzione unitaria, rifiutale quella di soffocare e  morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta Italia  di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imi-  ta il grande Mussolini del ’19. Quinto: Pensa sempre al-  l'Italia immortale ed al Carso divino. Sesto: Schiaccia la  opposizione socialista antitaliana di Turati e l'opposizione  mediocrista di Albertini con una ferrea dinamica aristocra-  zia di pensiero.«“Tu puoi e devi far ciò. Noi dobbiamo volerlo e lo vo-  gliamo. F.T. Marinetti - Capo del Movimento Futurista  Italiano”».   Sono inoltre innumerevoli le manifestazioni dei futu-  risti in tanie occasioni, con opere scritti ed anche con  la partecipazione concreta alle guerre di quel periodo. Vo-  glio ricordare, però, un solo scritto di Fillia (morto nel  1930 e che adesso cercano di passare per antifascista) il  quale nel 19527 in occasione della Quadriennale di Tori-  no, così scriveva sulla sua rivista Vetrina Futurista:    «... Bisogna, però, giungere a “convincere” il grosso  pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter  pretazioni. Perché il favore organizzativo che oggi ci cir-  conda, non basta: è assurdo riconoscere il futurismo come  manifestazione d'Arte ed ammettere contemporaneamente  le antiche manifestazioni. La vita può avere individual  mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere in-  quadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente  alla vita stessa. Non voglio con questo negare il diritto di  esistenza a intere categorie di pittori rimasti spititualmen-  te arretrati: ma è necessario preparare il pubblico alla loro  graduale eliminazione dalla vita artistica ufficiale, fino al  riconoscimento del Futurismo “arte di Stato” massimo ri-  conascimento che lo caratterizzerà nella sua importanza... ».   Purtroppo però le autorità artistiche avevano il so-  pravvento favorendo a vele spiegate l’architettura di Pia-  centini e gli enormi pupazzi della scultura e pittura no-  vecentista, effettivamente arte del regime. E noi futuristi  interpretavamo le isianze di rinnovamento dell’arte senza  alcun riconoscimento dal Regime che ritrovava sé stesso  nelle manifestazioni novecentiste.   Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni Venti.  E poi?   Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali, gli entu-  siasmi e le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la mag-  giore maturità. Ma non creda di sbagliare se affermo che  noi futuristi vivemmo quel tempo con spirito indipendente  e piena libertà fiduciosi che in fondo avremmo avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle autorità  artistiche e subiti obiorto collo quando necessario.   Poi andammo all'ultima guerra, che fu sconvolgente per  tutti. To ne vissi scrupolosamente la mia parte con coeren-  za. Fui costretto fuori a lungo. Pet un anno di guerra, ne  subii sei di prigionia e non conosco nei particolari ciò che  è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie esperienze.   AI ritorno, nel Natale del 1946, mi sembrò di sbarcare  in un altro mondo al quale non mi sono ancora completa-  mente assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero e nell’aprile  del ‘47 cominciai la mia nuova personale battaglia per il  futurismo con la mostra alla « Galleria di Roma » inaugu-  rata da Benedetta c dedicata a F.T. Marinetti.   Continuai ancora e vado avanti con i futuristi soprav-  vissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e non  disdegnano l’idea del futurismo che continua e si rinnova  attraverso le spiccate personalità dei suoi artisti. Crali, lei è pittore ed è futurista Uno dei pochis.  simi, oggi. Crede che il futurismo sia ancora attuale?  SÌ, ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua  attualità perché si è espresso, si è mosso, e ci parla ancora.  Ma non certo per chi ci ha mangiato sopra, per chi non è  mai stato futurista, ed ha espresso solamente « necrofilia »,  vera e propria « necrofilia ».Il futurismo di prima, quello per cui lei aderì  al movimento, o vi st convertì, come la investì per così  dire, o come la ispirò?    R. — Non mi sono affatto « convertito », perché non  c'era niente da convertite. Mi sono trovato di fronte al    164    futurismo come un’anima candida, che non sa e non è con-  sapevole di nulla. Mi sono ritrovato una simpatia incon-  scia per alcuni quadri riprodotti su Il Mazzino illustrato di  Napoli. Mi sono piaciuti, mentre ad un amico mio, che  la pensava diversamente da me, non piacevano. Cominciam-  mo a litigare, e per litigare ad approfondite l’argomenta  ecc. ecc. Così ho cominciato ad essere interessata al futu-  rismo. E sono partito senza avere una preparazione di me-  stiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a dipingere  o disegnare, anche se poi una specie di grillo della coscienza  mi ha suggerito che dovevo imparare a dipingere, sia pure  da solo (anatomia, prospettive, ecc ). L’astratto e il figu-  rativo erano | temi o le prospettive dominanti. Ho cercato  una « terza via », che fosse tutta mia, tutta personale: una  ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi ho lasciato il  figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di dover  dire ciò che altri non avevano detto. Così mi sono accostata  a Marinetti nel '29, quando gli scrissi per aderire al movi.  mento. L'aeroplano era una macchina nuova, un congegno  del futuro, o, per allora, del « futuribile ». E fu una delle  realtà che mi diedero più spunti, più ispirazione (l'Idrovo-  lante italiano, D’'Annunzia e il volo su Vienna, e il campo  di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato, ecc.). Così  sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora oggi.  Marinetti, invece, per quello che lo frequentò  o poté essergli vicino, come lo considera? Forse l’unico vero  futurista, © forse solo un grande « maestro »?    R. — No, non lo considero un maestra, perché non ha  mai voluto essere un « maestro ». Ci ha sempre stimolato  e spinto a lare, senza mai dire però come dovevamo fare  Era contrario ad ogni gerarchia nel movimento del futuri.  smo. E si opponeva sempre a Boccioni e Prampolini, che  volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno di  noi fosse libero e indipendente. Prampolini invece voleva  fare il caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno fosse  se stesso e non ha creato nessuna scuola. Amava la sua  libertà e la sua indipendenza a tal punto che non poteva  imporre insegnamenti. Fotse D'Annunzio lo aveva influen-  zato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane e spregiudicata. Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con rico-  noscenza. Quasi come un padre. O come un fratello map-  giore. E come l’unico vero futurista, come ho sempre de!  resto pensato. Gli altri hanno tutti « mollato ». Lui è an-  dato avanti fino all'ultimo. L'unico che può personificare  il futurismo è fui, l’unico che non ha rivestito patine di cul:  turame intellettvalistico, come hanno fatto invece molti al-  tri (Soffici, Conti, Palazzeschi, Papini, ecc.). Amava essere  futurista sempre e comunque, anche nel gusto del contra-  sto. Amava la luna, e scrisse un manifesto « contro il chia-  ro di Juna ». « Uccidiamo il chiaro di luna », vi si diceva,  forse contro i poeti. Ma non era poeta? Predicava la guer-  ra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno. Amava la  madre e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté  la donna sul piano ideologico. In questo è veramente futu-  rista. E lo è solo lui. Gli altri non lo sono mai stati.  Il futurismo di Marinetti che accento o che an-  golazione aveva particolarmente: letteraria, artistica, filoso-  fica 0 piuttosto politica?    R. — Politica no, assolutamente e mai. Filosofica nean-  che, se non forse in senso attivo, ma allora « senza pen-  siero ». « Il futurismo entra in politica soltanto quando la  patria entra in pericolo », aveva detto Marinetti in un  momento cruciale della nostra storia nazionale. Il manifesto  politico del fuuttismo è conseguenza del fatto che esso sta  movimento d'arte e di vita, e come tale anche di vita poli-  tica, tout court. Il manifesto politico è del ’13. Dopo Ja  fine della guerra l'accostamento agli arditi o al fenomeno  dell’« arditismo » era inevitabile, e Marinetti si unisce in  vincolo d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esem-  pio (ardito) e con Mussolini. All’avvento del fascismo e allo  accostamento di Mussolini alla monarchia e alla chiesa Ma-  rinetti si stacca. Abbandona il partito e si ritrova pressoché  in miseria, con moglie e figli. Aveva grande ammirazione  ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse ricambiata  per una certa forma di invidia-gelosia mussoliniana nei con-  fronti di Marinetti. Il regime gli offriva incarichi 0 preben-  de, che continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad offrirgli la  presidenza dell’Associazione dei grandi alberghi italiani, pro-    166    prio a lui che disprezzava l’industria del forestiero. Accer-  tò solamente, e sollecitato, la segreteria dell'Associazione  Italiana Autori ed Editori, altrimenti forse destinata al  solito « arraffone » di turno. Tuttavia si tenne sempre in  disparte e non fece mai politica attiva, non partecipò mai  direttamente al regime, che anzi forse osservava contrariato,  a parte solo qualche onesta e sincera manifestazione di sim-  patia per Mussolini.   Nel ’35 si oppose alla presa di posizione politica di Hit-  ler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che si manifestò  e sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E nella  stesso momento organizzò a Berlino una mostra di aero-  pittura futurista che creò non pochi problemi e suscitò non  poche difficoltà anche diplomatiche fra i due governi ira  liano e tedesco. Oltre che produrre una situazione difficile  e imbarazzante per le posizioni o i movimenti artistici e in-  tellettuali della Germania dell’epoca. In Italia fu l’unico  in questa occasione a prendere posizione ed esprimersi con-  tra l’ingerenza politica e l'intervento del regime di Hitler  nella cultura e nell'arte.   Nel ‘43 ero da Marinetti a Roma: arrivava Marinotui  (presidente della Snia Viscosa) che era stato da Mussolini  insieme ad altri « consiglieri regionali » del regime. Ma-  rinotti si era accinto a raccontate a Marinetti che tutti i  consiglieri avevano « relazionato » Mussolini e che nessu-  no aveva avuto il coraggio di dirgli che le cose andavano  male, tranne uno, il consigliere sardo, che aveva sostenuto  la stanchezza della gente, la maldicenza, il tradimento...  Marinetti osservava che non era possibile che non si sa-  pesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che non  era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da  lui e mi comunicò che il consigliere sardo era stato nomi-  nato da Mussolini ispettore generale per tutta l'Italia.   Nel ‘44 poi si mosse da Venezia e risalì verso la Lam-  bardia, perché non se la sentiva di starsene in disparte a  « far l’antifascista »... L'ultimo suo poemetto in versi, l'ul-  tima sua espressione letteraria s'intitola appunto: Musica  di sentimenti per la X Mas. E vi si dice: « Io sono fato    167    di aeropoesia fuori tempo e spazio ». E' già definizione  sintomatica e totale dell'opera.    D. — Ailora, Marinetti fu fascista? E se lo fu, lo fu  fino a che punto? O non lo fu, e fino a che punto non lo  fu per essere futurista?  Marinetti è stato sempre e comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché ha se-  guito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futu-  rista non è mai entrata la faziosità di un genere che « entra  in politica ». Non fu mai fazioso. Una volta eravamo a  casa sua, in un gruppo di amici, a parlar di Majakowski  e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: « Ma Majakowski  è un comunista ». Ed egli allora ribatté immediatamente:  « Non ha nessuna importanza. Perché Majakowski è prima  di tutto un grande poeta ». Nei suoi rapporti cal fasci-  smo si può considerare forse il fatto che fosse nato al  l’estero, che fosse educato in Egitto alla cultura francese,  spesso pesantemente sprezzante verso l'Italia. Sentì quindi  una specie di aspirazione all’Italia 0, più ancora, di nostal-  gia della patria. Poi, volle rivendicare il futurismo come  fatto classicamente e squisitamente italiano. Così s'inimicò  tutta la cricca culturale parigina, ma volle sprovincializzare  e dare un certo orgoglio e una certa autonomia alla cultu-  ra italiana. E pensò o vide che Mussolini potesse essere  l'uomo adatto per rifarla, l’Italia, e per darle una sua nuo-  va base, culturale ed artistica. Senza sapere, alle origini o  senza conoscere, quando era all’estero, ed anche a Parigi,  la furbizia, anche culturale degli Italiani. Lui fu in buona  fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia (con appan-  naggio onorario in un momento in cui era anche in disagi  economici), ed ebbe la Biennale di Venezia {come « una  riserva indiana »). Il suo è un fascismo di speranza o di  desiderio, nella speranza di poter vedere realizzato il suo  futurismo. E' contrario al « Novecento » e al classicismo  « romano » alla Piacentini, che Mussolini invece appoggia-  va. Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di  eliminare le avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, men-  tre il nazismo e il comunismo le stroncarono. Sta di fatto  che Marinetti appoggiava Terragni a Como, e non appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a Venezia, il futurismo  è stato accettato sì, ma mon con la considerazione che  Marinetti si sarebbe aspettato, e che sarebbe davuta spet-  tare all'unico movimento d'avanguardia esistente allora in  Italia. E invece è stato accolto sì il futurismo, ma quasi  messo in disparte.    Nel ’26, all'inaugurazione della mostra, durante il di-  scorso di presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad  alta voce, presente il Ministro dell'Educazione Nazionale,  lamentando l'ingiustizia per l'esclusione dell'unico  movi-  mento d'avanguardia dell'arte italiana. L'anno dopo Mus-  solini stesso gli concesse un padiglione di riserva, che do-  veva rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi (la  « riserva indiana », già summenzionata).    D. — Mussolini invece, secondo lei, fu futurista?    R. — E' stato un politico ed ha appoggiato Marinetti  per avere il futurismo dalla sua parte. Anche se il futu-  rismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione. Che  avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma  nei suoi simboli e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che  era rimasto fuori dal futurismo.    D.— E allora il fascismo di Mussolini ed il futurismo  di Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si  possono, secondo lei, mettere in relazione o in collega  mento, e fino a che punto ciò è possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per Mari-  netti il futurismo è poesia. Sono due posizioni completa-  mente diverse.    D. — Non si può quindi parlare di futurismo fascista,  nemmeno del primo, quello delle origini?    R. — Finché un movimento politico è in fase rivo-  luzionaria, le posizioni della « rivoluzione » culturale con  quelle politiche coincidono; poi però quando il movimento  politico diventa regime si burocratizza, e allora non può  non scontrarsi con la cultura che rimane sempre rivoluzio-  naria e che non può assimilare come tale le esigenze politi-  che di un «partito». Ecco perché esistono punti di contatro    169    o momenti di simbiosi tra affermazioni marinettiane e fa-  scismo politico dei primi anni, poi rallentati o rilasciati  quando si afferma l’« ordine romano », utile al regime, ma  speculare di un passatismo senza mezzi termini, e totale.  Marinetti tollera questa esigenza politica di Mussolini, ma  non la condivide od ammette in campo artistico e cultu-  rale. Tuttavia Marinetti era uomo che non confondeva ami-  cizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per  principi ideologici, anche violentemente, senza però in-  taccare l'amicizia, che rimaneva sempre e comunque.    D. — Resta oggi il futurismo? E resta come realtà  artistica solamente, o anche politica, nella sua dimensione  d’espressione artistica? Senza fascismo, che è finito ovvia-  mente, e da tempo. Forse resta il futurismo, come ten-  sione di rinnovamento?    R. — Sì, il futurismo resta, credo, nella sua posizione  di rinnovamento, o di indicazione nella creazione di nuove  forme, e di nuove idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta  per distruggere senza dire quello che si vuole proporre in  sostituzione. Il futurismo aveva invece dato i suoi mani-  festi. Volle distruggere, ma propose ciò che voleva rico-  struire. Anche oggi, per quel che resta, il futurismo cerca  un suo rinnovamento che si superi continuamente. Oggi  c'è molta saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca  l’entusiasmo, nonostante la grinta. Penso che esista an-  cora futurismo oggi, perché esiste ancora temperamento di  novità, e di rinnovamento. Perché esiste ancora una spinta  vitale di « ossigeno ». E l'opera deve avere un suo sangue,  se si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve vivere,  o un sangue per cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore  assoluto che resta, non si toglie, perché è ineliminabile.  Anche in bottiglia, nella plastica, rarefatto 0 alla luce del  sole. Il futurismo è un po’ come l'ossigeno, o l'anima  o lo spirito del lavoro e dell’opera, o della vita: è un po'  il suo « entusiasmo ».  [Intervista u cura di Alberto Schiavo]    Per quanto riguarda lo svisceramento dei collegamenti  fra Je correnti del futurismo indipendente come movimen-  ro artistico e culturale ed il fascismo come movimento po-  litico e sociale, particolarmente per quel che si riferisce  al carattere autonomo del futurismo torinese e al fascismo  delle origini, è ovvio che i tapporti intercotsi fra di loro  furono lungi dall’essere quelli di un matrimonio d'amore.  Consistettero specificamente in taciti e necessari accordi  immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che  abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una  vera rivoluzione (quella artistica e spirituale scatenata dal  futurismo), in un clima fascista che di rivoluzionario non  ebbe in seguito che la sola etichetta.   Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in pie-  na italianità, condivise nelia sua giusta misura taluni prin  cipî che il primo fascismo stabili quando provò a inte-  grarsi nel campo difficile della moderna civiltà europea.  Alla stessa stregua e per raggiungere gli stessi fini il futu-  rismo piemontese trattò anche con l’anarchismo e il co-  munismo idealitario di Gramsci, sui quali ebbe una consi-  derevole influenza negli sviluppi dell’architettura.   Il senso altamente novatore di Fillia e la sua molte.  plice attività (stupefacente in una esistenza così breve) per:  sonificano le forme coerenti e concrete dei concetti più  originali e più saldi delle imprese del futurismo torinese.   Figura rappresentativa dell’essere istantaneo, Fillia non  temporeggiava mai, viveva come una ruota, partiva come  una freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico che  per ordinarie ragioni razionali ed estetiche militava in  margine della Chiesa cattolica apostolica e romana di quel  l'epoca, egli affermava con rigare di logica e con argomen-  tazioni arditissime che la religione ha relazione di somi-  glianza con la geometria interna dell’arte. Misteri dottri.  nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta ai  nuovi concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità,    171    la Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia s'imme-  desimava con quello del futurismo in cui si cercava una  forza di liberazione, e la trovava in quel movimento, cie-  camente.    Originati da una geometria astratta superiore, i suoi  dipinti possiedono quella qualità rara di non essere visà,  e perciò non ricavati dal vero, ma di sorgere senza sha-  vatura alcuna dal proprio io, e come se l'artista non vi  fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni sua scoperta con  un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non ces-  sava di inventare e di portare sempre più avanti i perfe-  zionamenti pittorici del futurismo. Tuttavia, una continui-  tà è discernibile nella sua arte che è, innanzitutto, di una  grande purezza, di una grande acconcezza, di una grande  serenità.    T colori si oppongono l'uno all'altro e si sovrappon-  gono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo, fan-  tasticherie metafisiche, sogni astrusi. Opera di contempla-  tivo che accomuna sempre iutto e sempre con estrema  dolcezza, e dalla quale si spande una pace angelica che  sembra invalidare, apparentemente, taluni assiomi violen-  ti della dottrina futurista. Ma è invece la prova Iampante  che il dinamismo di questa scuola italiana non esclude  quello stato di grazia dove i conflitti diventano preghiere.  Si tratta di fermare il nemico per ritrovare Ja quiete, di  combattere ferocemente per amare di un più grande amo-  re. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi del sentimenta-  lismo romantico, dell’ebetismo della debolezza: esso con-  voglia l’arte verso quell'alta sfera mitica e visionaria che  invade la mistica futurista.    Gli errori di pensiero che possono insinuarsi nella men-  te di un poeta come Fillia, che non può sempre ridurre  tutto al controllo della logica, non vanno interpretati nel  lo stretto senso letterale. Il movimento è irrefrenabile,  talvolta irresistibile, porta oltre la matura e si perde in  un mondo di realtà fantasmagoriche.    Nessuna amarezza, nessuna amarezza siatene cetti si  nascondeva in questa libertà concettuale e della riflessione:  vi era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e di poeta, troppa felicità per i suoi amici, perché si possa at-  tribuire un significato ironico alle sue composizioni sacre  come non hanno mancato di fare borghesi indirozzabili e  bolsi dalle maniche troppo lunghe, dalla mente inceppata.   Ho buona speranza per Fillia, per questo artista pen-  satore che fu anche un provetto artigiano; non mi rat-  trista la sua morte prematura. Un suo misterioso paesag-  gio dell'ex raccolta Ferrari di Ginevra mi scopre un ci-  mitero e la scala rossa che lo vincolò in eterno con gli  eroi: quello stesso cimitero e quella stessa scala di Sant'E-  lia. Distinguo la luna bianca della sua grande dolcezza, e le  cose della terra non reggono, sono rovesciate su loro stesse.   Le pitture religiose di Fillia sono un richiamo allo  spirituale puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende che  un tentativo di tal fatta non deve giungere al disprezzo  della cosa creata, dell’Incarmazione: ma non è il caso di  Fillia le cui forme della sua arte si disegnano, si creano e  si distaccano dalla loro causa prima.   Tutto il lavoro dell’opera si riporta ad una giornata  ben definita della creazione dove gli uomini non sono  ancora che allo stato di abbozzo, ma dove la macchina  respira già, dove i fantasmi girano secondo una traietto-  ria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la riconciliazione.   Una siffatta pittura è infinitamente rispettosa, il suo  pudore è un perpetuo tremita davanti alla bellezza; essa  sprigiona cdelicatezze insospettate, scrupoli inauditi e non-  dimeno una audacia che le viene soffiata dallo spirito.   Nonostante il suo atto di fede nella macchina, Fillia è  certamente un pittore spirituale. La bellezza intrinseca del.  le macchine corrispande ad un suo bisogno di esattezza  sovrumana, di perfezione nelle linee e negli spazi. E’ una  dimostrazione pratica che consente all'uomo di disinca-  gliare la vera vita, di ricercare quegli elementi universali  dell’arte che scaturiscono nei momenti fecondi ed imperiali  delle Nazioni e ne rendono lo spirito eierno.   Per non spappolarsi nella struttura, per non sgreto-  larsi alla radice, il futurismo è lui stesso alla ricerca del-  l'eterno. E’ ben vero che questa eternità non è sotto i  nostri passi, non è dietro di noi, ma davanti a noi, In  questo senso tutti i cristiani dovrebbero essere futuristi,  diceva Fillia, perché meno legati degli altri uomini al  passato e al presente, e più ferventi dell'avvenire. Questo  richiamo ad una tradizione spirituale, questo allenamento  {secondo la felice definizione di Marinetti) non ha nulla  di necroforo, non intralcia lo sviluppo dell'arte ma stimo-  la, spinge in avanti, crea. Non si dimentichi perciò il con-  tributo molto importante di quella autentica tradizione che  serve a ristabilire l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio Je  forze novattici distruggono talvolta, svelano uno sprezzo  irragionevole del passato e di ciò che la vera tradizione  conserva pertanto di eternamente vivo. Un rifiuto non  controllato potrebbe anche andare a scapito del progresso  stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che motiva  nuove conquiste. Non si negano gli elementi universali  dell’arte passata perché non si possono negare quelli del-  l’arte nuova.    L’opera di Fillia rivela una tendenza perpetua verso  il progresso nel senso più alto della definizione. Trasfor-  mandosi da una pitiura all’altra svolge senza contraddi-  zioni la sua sincerità primitiva. Un futurista non può  dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel  la del suo movimento: egli porta il peso di un passato  inventato che non può rinnegare senza distruggersi.    Questo passato inventato risale certamente al di là  del futurismo — che costituisce una specie di dialettica  dello spirito — e affre l’unica possibilità capace di abbat-  tere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla cascata come  se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio.  Il futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo aiuta  a farle scoprire senza remissione.    Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era. Dalla sua  opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di  Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto,  si stacca un’arte pubblica universale che l'architettura fun-  zionale rivela, contribuendo efficacemente alla diffusione  delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e degli slanci del  purismo di Le Corbusier.   Nell’intento di realizzare ad ogni costo, Fillia si ap-  poggiò al Regime attraverso gli interventi efficaci di Ma-  rinetti. Però, non ho mai visto Fillia in camicia nera,  ne lo sentii mai parlare di politica nostrana. Parlava sol-  ranto dell’Italia che amava. Le due idee rispecchiano gli  scopi e i metodi creativi di quel movimento indipendente  di buona lega che fu il futurismo torinese.  SARTORIS   per conto dell'Editore Volpe   dalle Arti Grafiche Pedanesi Roma, Via Fontanesi, Luciano De Maria e Mauro Pedroni, Aggiornamenti bibliografici sul  futurismo, in Il Verri,  Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, Archivi del futurismo, De Lu-  ca, Roma 1959-1962, due volumi.   Enrico Falqui, Bibliografia e iconografia del futurismo, Sansoni, Firenze,Futurismo, a cura di Umbro Apollonio, Mazzotta, Milano, I futuristi, a cura di Giuseppe Ravegnani, Nuova Accademia, Mi.  lano  I manifesti del futurismo, Edizioni di « Lacerha », Firenze.  I manifesti del futurismo, Istituto Editoriale Italiano, Milano s.d.  {1919), quattro volumi.   I nuovi poeti futuristi, Edizioni Futuriste di « Poesia », Roma  I poeti futuristi, Edizioni Futuriste di « Poesia », Milano Noi futuristi, Riccardo Quinteri Editore, Milano Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di Luciano De Matia,  Oscar Mondadori, Milano 1973.   Piccola antologia di poeti futuristi, a cura di Vanni Scheiwiller, Al-  l'Insegna del Pesce d'Oro, Milano Poesia futurista italiana, a cura di Ruggero Jacobbi, Guarda, Parma  Sintesi del futurismo: storia e documsenti, a cura di Luigi Scrivo,  Bulzoni, Roma 1968,   Teatro italiano d'avanguardia: drammi e sintesi futuriste, a cura di  Mario Verdone, Officina Edizioni, Roma 1970.  L'arte nella società. 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Futuris:, Philosophical Library, New York  Artemisia Zimei, Marinetti, Ed. Le Stanze del Libro, Roma Vaccari, Vita e tumulti di Marinetti, Editrice Omnia, Milano  Verdone, Cinema e letteratura del futurismo, Edizioni di Bian-  co e nero, Roma Teatro del tempo futurista, Lerici, Roma Che cosa è il futurismo, Astrolabio-Ubaldini, Roma Acquaviva, Le colonne d'Ercole della modernità. Futurismo, Gastaldi, Milano Altomare, Incontri con Marinetti e il futurismo, Corso, Roma  Apollinaire, Lettere a Marinetti, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano Benedetto, Futzrismo 100 x 100, Edizioni Arte Viva, Roma  Buccafusca, Studenti fascisti cantano così, Casella, Napoli    Paolo Buzzi, n e la Spirale, Edizioni fututiste di « Poesia »,  Ilano. Francesco Cangiullo, Le serate futuriste, Ceschina, Milano, Carli, Fascismo intransigente, Edizioni dell'Impero, Roma Corra, Sar; Dunn è morto, Einaudi, Torino 1970.   Fillia (Luigi Colombo), Il futurismo: ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento Futurista Ttaliano, Sonzogno, Milano Marinetti, Mafarka il futurista, Milano 1910.   — Uccidiamo il chiaro di luna, Milano  La Battaglia di Tripoli, vissuta e cantata, Milano Ll’aeroplano del papa, Milano. Guerra, sola igiene del mondo, Milano. Otto anime in una bomba, Milano Democrazia futurista, Milano Al di lè del comunitmo, Milano Lussuria velocità, Milano N tamburo di fuoco, Milano. Gli indomabili, Piacenza. Futurismo e fascismo, Foligno  Primo dizionario aereo, Milano Marinetti e il futurismo, Roma Spagna veloce e toro futurista, Milano Il paesaggio e Vestetica futurista della macchina, Firenze. Poemi simultanei futuristi, La Spezia. L'aeropoema del golfo della Spezia, Milano. Il poema africano della Divisione «28 ottobre », Milano. Mario Carli, proflo, Milano  Il poema di Torre Viscosa, Milano Patriottismo insetticida, Milano. ll poema non umano dei tecnicismi, Roma L'esercito italiano, Roma. Cento uomini e macchine della querra mussoliniana, Roma Quario d'ora di poesia della X Mas, Milano  Teoria e invenzione futurista, Milano. La grande Milano tradizionale e futurista, Milano. Lettere ruggenti a F. Balilla Pratella, Milano. Poesie a Beny, Torino. Gir RA l'esperienza futurista Vallecchi, Firen-  ze,Sanzin, fo e il futurismo, Istituto di Propaganda Libraria,  Milano 1976.   Emilio Settimelli, Come combatto, Edizioni d'arte e critica, Roma    Ardengo Soffici, Primi principi di un'estetica futurista, Vallecchi, Firenze Somenzi, Difendo il futurismo, Edizioni A.R.T.E., Roma Tato raccontato da Tato, Zucchi, Milano. Futurismo con e senza fascismo (A. Schiavo) 5  Soffici, Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant'Elia, Si-  roni, Piatti, Futurismo e «guerra sola igiene del  mondo » 59  Carli, Bottai, Futurismo e socialismo 71  Tavolato, Volt, Marinetti, Futurismo e democrazia 87  Settimelli, Marinetti, Futurismo e primo fascismo 97  Marinetti, Carli, Somenzi, « Secondo futurismo » e fa-  scismo-regime ili  Corra, Govoni, Buzzi, Chiti, Folgore, Futurismo di  destra e di sinistra 131  Belloli, Benedetto, Crali, Sartoris, Testizzonianze 145    Bibliografia 177 Armando Carlini. Keywords: filosofia fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carmando – Roma – filosofia italiana (Roma). Charmander -- According to Seneca, Carmando wrote a book on comets.

 

Grice e Caro: l’implicatura conversazionale dell’interpretare -- interpretante, interpretato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Caro likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact that while the Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say – ‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s philosophising, notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson borrowed – but never returned – from Peirce!” Insegna a Roma.  Si occupa di filosofia morale, di libero arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta " naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista di Estetica  e Filosofia e questioni pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La Repubblica, La Stampa e il manifesto. Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal  al. È vicepresidente della Consulta Nazionale di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo RAI dedicato alla filosofia.  L'asteroide 5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete. La filosofia di Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari, Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi); Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una vicenda filosofica” (Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le altre tradizioni (Roma, Carocci).  Bentornata Realtà: Il nuovo realismo (Torino, Einaudi,. Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice,. Biografie convergenti: venti ircocervi filosofici, disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine, Mimesis).  Cos’è il nuovo realismo [“What is the new realism”], Mimesis, Milano, forthcoming.2)    Azione [“Action”] , Il Mulino, Bologna,  Il libero arbitrio. Un ’  introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ], Laterza, Roma-Bari); Dal punto di vista de ll’int  erprete. Il pensiero di Donald Davidson [ “ From theInterpreter  s  Point of View. Donald Davidson  s Thoug ht”],  Carocci, Roma  Interpretazioni e cause [“Interpretations and Causes”] , Doctoral dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli) of  La libertà umana: storia di un’id  ea, Carocci,Roma, forthcoming.2)   Editor (with Lavazza  –  Sartori) of Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società,  Codice, Torino Marraffa) of  La filosofia di Martino, special issue of  Paradigmi, Editor (with L. Illetterati) of a special issue of Verifiche  on “ Classical German Philosophy. New Research Perspectives between Analytic Philosophy and the Pragmatist Tradition”)   Editor (with S. Gozzano) of a special issue of  Rivista di filosofia   on “The philosophy ofconsciousness, ”  Editor (with M. Ferraris) of  Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi,Torino)   Editor (with S. Poggi),  La filosofia analitica e le altre tradizioni, Carocci, Roma)   Guest editor,  Naturalismo, special issue of  Rivista di Estetica, 44, 2010 (with C. Barberoand A. Voltolini)   Editor of The Architecture of Reason. Epistemology, Agency, and Science, Carocci,Roma 2 (with Egidi)   Editor of Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio,Codice, Torino) (with Lavazza and Sartori).11)   Guest editor of  E’ naturale essere naturalisti?, special issue of  Etica e politica, (with C. Barbero - A. Voltolini).12)   Editor of Scetticismo. Storia di una vicenda filosofia, Carocci, Roma  ( Spinelli)   Editor of  La mente e la natura, Fazi, Roma  (Italian version of  Naturalismin Question ) (with D. Macarthur)   Editor of the Italian version of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy, Fazi, Roma)   Editor of  Normatività, fatti, valori, Quodlibet, Macerata, 2003 (essays by G.H. vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De ll‟ Utri).16)   Editor of  Logica della libertà [ “ The Logic of Free dom”],  Meltemi, Roma) -- contains the Italian translation of essays by A. Ayer, R. Chisholm, P.F. Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt)   Guest editor of “ Libertà e Deter  minismo”  [ “ Freedom and Determinism ” ], specialissue of  Paradigmi, Presentazione” del numero speciale di  Paradigmi  (25, 2013) dedicato a  La filosofia di Ernesto De Martino,  “Machiavelli e Lucrezio ”,  postface to A. Brown,  Machiavelli e Lucrezio. Fortuna elibertà nella Firenze del Rinascimento, Carocci, Roma, 2  “Metafisica e naturalism o: una entente cordiale? ”, Sistemi intelligenti, “Galileo e il platonismo fisico - matematico”, in R. Chiaradonna (ed),  Il platonismo e le scienze, Carocci, Roma “Introduzione” (with R. Chiaradonna) to R. Chiaradonna (ed.),  Il platonismo e le scienze,Carocci, Roma Naturalismo nel mirino: ma quale intendiamo? ”, Vita e pensiero, Autonomia della filosofia e neuroscienze,”  Rivista di Filosofia, “ Libero arbitrio e neuroscienze,” in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di),  Neuroetica,Il Mulino, Bologna “ Filosofia della mente,”  in  Dizionario della mente Treccani, Istituto de ll EnciclopediaItaliana Italiana, Roma “Ne uro-mania e natura lismo”  (commento, su invito, a ll articolo target di CristianoCastelfranchi e Fabio Paglieri) (con A. Lavazza), Giornale italiano di psicologia, “ Il migliore dei naturalismi possibili  Etica & Politica / Ethics & Politics, (with A. Voltolini).14)   “ Psicologia, intenzionalità, scopi: un punto di vista filosofic o,”  (invited commentary to atarget article by C. Castelfranchi and F. Paglieri), Giornale italiano di psicologia, “ Libertà e responsabilità mora le,”  in  Enciclopedia del Terzo Millenio, Istitutode ll Enciclopedia Italiana, Roma   “ Le neuroscienze cognitive e l'enigma del libero a rbitrio,”  in M. Di Francesco  –   M.Marraffa (a cura di),  Il soggetto. Scienze della mente e natura dell  ’  io, Bruno Mondadori, Milano “  Neuroetica e libero a rbitrio,”  in S. Bacin (a cura di),  Etiche antiche e moderne, Il Mulino,Bologna Introduction to the Italian translation of John Dupré,  Human Nature and the Limits ofScience, Laterza, Roma-Bari, 2007 (with Telmo Pievani).12   ) “ Temi scotistici nella discussione contemporanea sul libero a rbitrio,”   Quaestio “ Gazzaniga, Hauser e la fallacia dei cromosomi mora li,”  Micromega  (“ Almanacco di scienz e” ) “ Filosofia, musica e asc olto,”    Rivista di storia della filosofia, “ Il ritorno dello scientismo,”  in M. Failla (a cura di) “B ene navigavi ”. Studi in onore di Franco Bianco, Quodlibet, Macerata “ Il naturalismo scientifico contemporaneo: caratteri e pr  oblemi,”  in P. Costa - F. Michelini(eds.),  Natura senza fine, EDB, Bologna  Causazione mentale e plura lismo,”    Iride, (with MassimoMarraffa).18   ) “ Due concetti di libero arbitr  io,”  in R. Calcaterra (ed.),  Le ragioni del conoscere ede ll’agire. Scritti in onore di Rosaria Egidi, Franco Angeli, Milano “ Scienza e libertà: due comuni fraintendimenti, SISSA NEWS,  Quattro tesi su filosofia e scienza,”   Sistemi intelligenti, “ Frankfurt, Harry Gor  don”  “ Teoria de ll az ione”  “ Scetticismo moderno e contemporane o” (vol. 10, pp. 10115- 10119), in  Enciclopedia filosofica di Gallarate, Bompiani, Milano Nozick, Strawson e lillusione  della libertà,”  in G. Pellegrino - I. Salvatore (eds.),  Nozick .  Identità personale, libertà e realismo morale, LUISS University Press, Roma  “ Questioni metafisiche: Dio e la libertà,”  in A. Coliva (ed.),  Filosofia analitica. Temi e problemi, Carocci, Roma with G. De Anna).24   ) “ Davidson sulla libertà umana,”  Iride, “ L'inscindibilità di fatti e valori in etica, in economia e nelle scienze natura li,” in troductionto  Fatto valore. Fine di una dicotomia (Italian translation of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi, Roma “  Naturalismo e scetticismo: il caso del libero a rbitrio,”  in R. Lanfredini (ed.),  Il problemamente-corpo, Guerini, Milano, “ Responsabilità e sce tticismo” in Egidi - De ll Utri - De Caro (eds.),  Normatività, fatti, valori, Quodlibet, Macerata “ Olismo e interpretazione radica le,”  in M. De ll Utri (a cura di), Olismo, Quodlibet,Macerata 2002, pp. 17-36.29   ) “ Il naturalismo fisicalistico: un dogma filosofico?,” in P. Parrini (ed.), Conoscenzae cognizione, Guerini, Milano “ Teorie de l’int erpretazione e criteri di correttezza,”  in C. Montaleone (ed.),  Parole fuorilegge.  L’idiotismo  linguistico tra filosofia e letteratura, Cortina, Milano  “ Liber  tà,”    Paradigmi, 58, 2002, pp. 67-84.32   ) “ Forme dello scetticismo e interpre tazione,”    Fenomenologia e società,  “ Contro la centralità delle regole: l esternalismo di Donald Da vidson,”  in  Atti della Società Italiana di Filosofia del Linguaggio, Novecento, Palermo, Sui presupposti sociali della responsabilità, «Filosofia e questioni pubbliche, “ Per un connessionismo non eliminazionista, ”   Sistemi Intelligenti, “ Varianti de llolismo. Aspetti della teoria analitica della traduz ione,”   Colloquium Philosophicum, “ Libertà metafisica e responsabilità mora le,”    Paradigmi, “ Prese ntazione,”    Paradigmi,  “ Determinismo e filosofia della mente contemporanea,”  in M. Cini (ed.), Caso, necessità, libertà, Cuen, Napoli “ Monismo anomalo ed epife nomenismo,”    Il Cannocchiale, “ Il lungo viaggio di Hilary Putnam,”    Lingua e Stile, XXXI, “ Epistemologia e interpretazione: l esternalismo di Donald Da vidson,”    Rivista di filosofia, “ Il platonismo di Ga lileo,”  Rivista di filosofia, “ La discriminazione tra la scienza e l'arte: un problema per il relativismo epistemic o,”    Paradigmi, Review of S. Nannini,  Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente,in  Iride, Review of L. Fonnesu, Storia dell'etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica,in  Iride, Review of A. Massarenti,  Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima, in  Bollettino della Società filosofica italiana, Review of M. De ll Utri,  L’inganno  assurdo, in  Epistemologia, Review of Carlo Montaleone,  Don Chisciotte o la logica della follia, in  Bollettino della Società filosofica italiana, Review of Mario Ricciardi - Corrado Del B o (a  cura di),  Pluralismo e libertà fondamentali, in  Iride, Review of Giacomo Marramao,  Minima temporalia,  Iride, in  Iride Review of Donald Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective, in  Iride, Review of Massimo Marraffa,  Filosofia e psicologia, in  Epistemologia, Review of Nicla Vassallo, Teoria della conoscenza, in  Epistemologia “ Wittgenstein su mente e linguagg io”  [Review of R. Egidi (ed.) Wittgenstein: Mind and Language ], in  Rivista di filosofia, Review of Mark Pickering (ed.), Science as Practice and Culture, in  Archives Internationale  s d’   Histoire Des Sciences, Review of Marc De Mey, The Cognitive Paradigm. An Integrated Understanding ofScientific Development, in  Archives Internationales d  ’   Histoire Des Sciences, 1Review of M. De ll Utri,  Le vie del realismo. Verità, linguaggio e conoscenza in Hilary Putnam, in  Physis, Review of “ Il naturalismo filosofico di Willard Van Orman Quine ”  [review of: W.V.O.Quine,  La scienza e i dati di senso, Roma  Tempo presente, Review of “ Scienza e relativismo: un ossimoro? ”  [review of: R. Egidi (ed.),  La svoltarelativistica nell'epistemologia contemporanea, Milano Tempo presente, Review of “ E' ancora possibile una storiografia dell'arte? ”  [review of: H. Belting,  La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte, Torino Tempo presente,: Università della Calabria, Conference of Italian Association of Philosophy ofMind. Commentator of the main speaker, Tim Crane.May 16, 2006: participant in the debate on “ Semiotics and Phenomenology of the Se lf,” Roma, Società Italiana di Filosofia.May 10, 2006: University of L  Aquila. Lecture on “ Free Will and Causal Determinism ”. Ravenna Scienza, “  Neurobiology of Free Will: Is Our Will Free? ”.Invited speaker. Paper: “ The Philosophical Mystery of Free W ill”.  Roma, Auditorium “ Parco della Musica,”  Festival of Science. Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will”  (with Rebecca Goldstein).: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “  Nature and Free dom”; invited spekaer for the section “ The naturalization of free dom” (commentators A. Benini eS.F. Magni). Nature and Free dom”.  December 2, 2005: University “ Ca   Fosca ri,”  Venice. International Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action ”; invited speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ”.Sassari, Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on “ Freedom and Scien ce”.  Vita  –   Salute “ San Raffae le”  University, Cesano Maderno (Milano),  First Meeting of the Italian Association of Philosophy of Mind ; organizer and chairperson. University of Genoa, International conference, “ Mental Processes ”;relatore invitato per la sezione “ Action and Rationality ”   Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA, Trieste. Conference “  Neurophysiology and Free W ill”;  invited speaker. Paper: “ Etica e libero arbitrio ”. University of Trento, International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ”. Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “ Vita e Salute - San Raffae le”  University, Milano. International Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”. Discussant di Hughes.May 12, 2005: University of Florence, International Conference “ Philosophy, Neurophysiology and Free will”  On the compatibility of philosophy and scienc e”.Istituto di studi americani, Roma, International Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and Interac tions”  (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura lism”.  University of Piemonte orientale, Department of HumanisticStudies. Three lectures on  Freedom and Nature.   November 26, 2004: University of Florence - Department of Philosophy. Lecture on TheConcept of Naturalism. November 16, 2005: University of Pavia  –   Giason del Maino College. Lecture on TheContemporary Debate on Free Will . University "Vita e Salute  –   San Raffae le,”  Milano. Lecture on  Freedomand Nature. University of Piemonte Orientale, Vercelli, Department ofHumanistic Studies, conference on “ Scientists and Philosophers and the Study ofComplex Sy stems”.  September 23-25: Genova, VI International Conference of the Italian Society of AnalyticPhilosophy (member of the scientific committee).   Rome. International Symposium "Questions on Naturalism"  Rome. “ Davidson on Human Free dom”.  Conference on DonaldDavidson, Department of Philosophy, Università Roma Tre (Rome. Discussant of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29, 2003, Florence. Paper: “ Metaphysical Libertarianism ”. Conference on Robert Nozick   s philosophy, Department at the University of Florence (speaker).September 15, 2003, Sassari. Lecture on “ Logica e retorica ”  [Logic and Rhetoric].Department of Foreign Languages and Literatures, University of Sassari (invited lecturer). May7, 2003, Siena. Paper on “  Naturalism and Free dom”.  Workshop on The Free   Will problem. Department of Philosophy, Università di Siena Sassari. Workshop on Skepticism and the Reemergence and the Self ,” Department of Philoosophy, Università di Sassari, (discussant).October 12, 2002, Messina. Paper on “  Naturalism and Intentionality ”. Annual Meeting of theItalian Society of Philosophy of Language (speaker).May 14, 2002, Cosenza. Lecture:  Memoria e identità [Memory and Identity].Department of Philosophy, Università di Cosenza.May 6, 2002, Florence. Paper: “ Freedom and Moral Responsibility: Mysteries orIllusions? ”. Florence Rome. Lecture  La teoria della conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth Century]. Italian Society of Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome. Paper on  Il fondamento filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical Foundation of Human Rights]. Conference “ The Question of HumanRights Today,”  Università di Roma “ La Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture on  Responsabilità e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ “ Responsability and Causality: Some Criticisms of Strawson and Frankfur  t”]. Department of Philosophy, Università di Pavia (invited speaker). Cosenza. Lecture on “ Ragioni e ca use”  [ “ Reasons and causes ” Calabria ( Padua. Lecture on “  Freedom and Naturalism,”  Department of Philosophy,Università di Padova (invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper on “ Interpretations and Criteria of Correctness ”.Conference:  Interpretation and Correcteness, Università Statale di Milano (Bologna. Paper on Causality and Naturalism. Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic Philosophy, Università di Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper on  Forms of Causation. Annual Meeting of the Italian Societyof Philosophy, Università Roma Tre  Siena. What P.F. Strawson Hasn’ t Proved . Annual Conference ofthe Italian Society of Analytic Philosophy (Rome. Paper on “ Freedom and the Self  ”. Conference: The Nature of theSelf, between Philosophy and Psychology, Università Roma Tre Rome. Paper on “ Van Inwagen  s Consequence Argument ”.Workshop:  Freedom and Necessity, Università Roma Tre Florence. Paper on “ What we should mean with the Word Person”   (with Maffettone). Conference  Le ragioni del corpo [The Reasons of the Body]. Istituto Gramsci Rome. Paper on “ Davidson on the Conceptual Schemes ”.Workshop: Talking with Donald Davidson, Università Roma Tre (organizer and speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker with D. Donald Davidson at the presentation of the book M. De Caro (ed.),  Interpretations and Causes. New Perspectives on Donald Dav idson’s Philosophy, Università Roma Tre Rome. Paper on “ Against an Alleged Refutation of Kripke  sSkeptical Argument ”. Conference:  Facts and Norms, IV National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Università Roma Tre Palermo. Paper on “ Davidson on Following a Rule ”.Conference: The Linguistic Rule. Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage Rome. Paper on  Is Libertarianism About Free Will Scientifically Acceptable?. Conference:  Determinism and Freedom, Università Roma Tre(organizer and speaker), Bologna. Paper on “ The Roots of Epistemic Skepticism ”.Conference: Science, Philosophy, and Common Sense, III National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Bologna (Rome. Lecture on  Freedom and Necessity. Seminar of theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific Methodology (invited speaker).October 17-19, 1996, Rome. Paper on “ G.H. von Wright on the Mind-Body Proble m”.  Conference The Study of Mankind in George Henrik von Wright , Università RomaTre Rome. Paper on “ Davidson on Holism and SemanticExterna lism”. Conference:  Perspectives on Holism, CNR Roma (organizer andspeaker). Rome. Paper on “ Galileo  s method ”. Conference:  Philosophies of Nature from the Renaissance to the Twentieth Century, Università Roma “ LaSapienza ” Rome. Paper on “ Davidson on skepticism”.   Davidson’s   philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ” Lucca. Paper on  Logic and Philosophy of Science: Problems and Perspectives. Triennal Meeting of Italian Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker). November 30, 1991, Rome. Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof Philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ”Rome. Paper on “W ittgenstein and the Philosophy of Mind ”.Conference: Wittgenstein on Mind and Language, Università Roma Tre (speaker). Grice: “When we taught De Interpretation with Austin, a tutee would ask ‘hermeneias’? Austin thought that Heidegger’s attempt to link hermeneia (to interpret) with Hermes was far fetched, so we left it at that!” Mario De Caro. Caro. Keywords: interpretare, Davidson, Putnam, “derivative Old-World philosopher focusing on New-World philosophers like Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice – Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice derangement of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational implicature theory too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not IMPLICATE it! Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ – Actions and Events --.-  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Caronda: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean, one of those who studied with Pythagoras himself. He achieved a repulation as a legislator. It is said that when he found out he had accidentally broken one of his own laws, he committed suicide. Whether he was ever a Pythagorean at all is now widely questioned. Substantial portions of a work on laws attributed to him survive.

 

Grice e Carravetta: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lappano). Filosofo italiano. Moved to the New World. Note  Peter Carravetta, Del postmoderno., by Alessandro Carrera  iawa-West welcomes Peter Carravetta and Marisa Frasca on Saturday, February 14,  at Sidewalk Cafe NYC  IAWA’s Open Reading Series Featuring Peter Carravetta & Marisa Frasca February 14,  Filosofia Letteratura  Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secolo Poeti italiani del XX secolo Poeti italiani del XXI secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice: “Carravetta has been stealing the Italian voice of Italian philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The Swimming-Pool Library. Tractatus semeiotico-philosophicus – the opus magnum, almost, of Grice – or Speranza. – The Swimming-Pool Library. Caravetta.

 

Grice e Carulli: l’implicatura conversazionale di GIANO -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bari). Filosofo italiano. Grice: “I like Carulli – he philosophises on things we do not philosophy at Oxford, such as menstruation – or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural – ‘delle mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has also philosophised on some anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are negative implicatures – ‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’ della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s “Tractatus semeiotico-philosophicus”. Studia a Bari, una città tradizionalmente soggetta allo storiografismo, all'impegno cattolico e al marxismo. Produce una filosofia aliena ai grandi inganni e refrattaria alla celebrazione dei suoi miti -- la democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo -- con un'inconsueta attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta critica della cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai moralisti. Partito da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un Benjamin schiacciato sulla im-politicità di ritorno della sua filosofia in “Oggettività dell'impolitico: riflessioni negative a partire da Benjamin” (Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa dell'ultimo Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova, Il Melangelo) è giunto ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni” (Genova, Il Melangolo), dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi socio-antropologiche per riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso sul cristianesimo ritorna in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico” (Napoli, La Scuola di Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della democrazia. Il cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e abitudinaria, ma in grado di reggere con la sua apatia allo scontro con l'Islam. Si affaccia la verità ontologica del “ente” in diminuzione che non giungono mai all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia dall'eternità dell’ “essente” come pure dai cultori dell'annientamento.  La sua filosofia, centrata ossessivamente sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice, volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro” (Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano, Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti “tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani, Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide D'Alessandro, Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier Francesco Corvino,  Religio Medici. Andrea Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com. alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore,  in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno, Sgalambro, “impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino, Sgalambro, filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca Farruggio, Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara “Italian Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Alessandro, Uno Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com, Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in La Gazzetta del Mezzogiorno.  Giano (latino: Ianus) è il dio degli inizi, materiali e immateriali, ed è una delle divinità più antiche e più importanti della religione romana, latina e italica. Solitamente è raffigurato con due volti (il cosiddetto Giano Bifronte), poiché il dio può guardare il futuro e il passato. Nel caso del Giano quadrifronte, le quattro facce sono rivolte ai quattro punti cardinali.   Busto di Giano conservato presso i Musei Vaticani. Caratteristiche della divinità Modifica Etimologia Modifica  Quadrigato romano recante l'effigie di Giano. Circa 220 a.C. Già gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento: Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire "andare", perché secondo Macrobio il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna[1]. Gli studiosi moderni hanno confermato questa relazione stabilendo una derivazione dal termine ianua, "porta"[2], ma è con Georges Dumézil che il senso si precisa: il nome Ianus deriverebbe dalla radice indoeuropea *ei-, ampliata in *y-aa- con il significato di "passaggio" che, attraverso una forma *yaa-tu, ha prodotto anche l'irlandese ath, "guado"[3]. In passato non sono mancate tuttavia ipotesi alternative, come quella che voleva il nome derivato da una più antica forma *Dianus, da mettere in relazione con la dea Diana e quindi derivato anch'esso dalla stessa radice del termine latino dies, "giorno"[4]. Dumezil nota anche l'appellativo di 'mattutino' con cui Orazio si rivolge al dio in modo semiserio (Serm.). Tale appellativo tuttavia deporrebbe indifferentemente a favore di entrambe le ipotesi etimologiche esposte. Il suo nome in greco è Ιανός (Ianós).  È il primo a portare il naso con profilo romano (il classico naso a becco d'uccello). La figura del Dio Giano, come appena accennato, è prettamente romana e la sua origine non si può far risalire alla mitologia greca. Nella mitologia etrusca la divinità più prossima a Ianus è Culsans[5], dio delle porte e dei passaggi[6][7], anch’esso bifronte, con un nome simile ("ianua" significa porta in latino, come "culs" in etrusco) e legato al concetto di passato e futuro, ma con caratteristiche non del tutto sovrapponibili. Essendo pochissime le informazioni in nostro possesso sui culti dell'Italia preromana non possiamo far risalire con certezza Giano a qualche divinità italica.  Una possibilità da tenere in considerazione è che la figura di Giano sia stata ispirata da quella di Ušmu, un dio sumero a due facce, altrimenti chiamato Isimud o, in piena età babilonese, Ansar.  Epiteti Modifica  Asse con l'effigie di Giano e la prora di una nave. Circa 240-225 a.C. Come tutte le divinità romane, Giano era chiamato con diversi epiteti, che testimoniano la sua particolare rilevanza all'interno del pantheon:  Divum Deus (Dio degli Dei) Divum Claviger (Dio Clavigero) Divum Pater (Padre degli Dei) Ianus Bifrons (Giano bifronte) Ianus Cerus (Giano creatore) Ianus Consivius (Giano procreatore) Ianus Pater (Giano padre) Pater matutinae (Padre del mattino) Ianus Vicilinus (Giano Vigilante) Natura del dio Modifica Giano è una divinità esclusivamente romano-italica, la più antica tra gli Dei nazionali, gli Di indigetes, invocata spesso insieme a Iuppiter. Fu, insieme a Quirino, l'unico dio romano a non essere assimilato a divinità ellenistiche.  Il suo culto è probabilmente antichissimo e risale ad un'epoca arcaica, in cui i culti dei popoli italici erano in gran parte ancora legati ai cicli naturali della raccolta e della semina. È stato sottolineato da più autori, fin dal secolo XIX (Vedi Il ramo d'oro), come Giano fosse probabilmente la divinità principale del pantheon romano in epoca arcaica ed anche Sant'Agostino nel suo De Civitate Dei (VII, 9) ricorda che “ad Ianum pertinent initia factorum” e come perciò al Dio competa “omnium initiorum potestatem”. In particolare rimarrebbe traccia di questo fatto nell'appellativo Ianus Pater che permase anche in epoca classica.  Giano nell'epoca arcaica era semplicemente il dio legato ai cicli naturali, poi con il passare del tempo il suo mito divenne sempre più complesso.  Nei frammenti superstiti del Carmen Saliare Giano è salutato con particolare enfasi come padre e dio degli dei stessi:  «divum +empta+ cante, divum deo supplicate»  (IT)  «cantate lui, il padre degli dei, supplicate il dio degli dei»  (fragmentum 1) Tale dato è confermato dal fatto che per i romani Giano non era figlio di alcun'altra divinità (ad esempio Giove è figlio di Saturno), ma, proprio per la sua qualità di pater divorum, egli era sempre stato, immanente, fin dall'origine di ogni cosa. Così è che Giano, come lo stesso ci racconta per bocca di Ovidione i Fasti (I, 103 e s.s.), era presente allorché i quattro elementi si separarono tra di loro dando forma ad ogni cosa.  A tal proposito Varrone riporta nel carmen anche l'epiteto di Cerus cioè "creatore", perché come iniziatore del mondo Giano è il creatore per eccellenza[8]. Il console e augure Marco Valerio Messalla Rufo scrive nel libro sugli Auspici che Giano è colui che plasma e governa ogni cosa e unì, circondandole con il cielo, l'essenza dell'acqua e della terra, pesante e tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e dell'aria, leggera e tendente a sfuggire verso l'alto, e che fu l'immane forza del cielo a tenere legate le due forze contrastanti[9]. Settimio Sereno lo chiama "principio degli dèi e acuto seminatore di cose".  Giano presiede infatti a tutti gli inizi e i passaggi e le soglie, materiali e immateriali, come le soglie delle case, le porte, i passaggi coperti e quelli sovrastati da un arco, ma anche l'inizio di una nuova impresa, della vita umana, della vita economica, del tempo storico e di quello mitico, della religione, degli dèi stessi, del mondo, dell'umanità (viene infatti chiamato Consivio, cioè propagatore del genere umano, che viene seminato per opera sua[10]), della civiltà, delle istituzioni.  Nella sua riforma del calendario romano, Numa Pompilio dedicò a Giano il primo mese successivo al solstizio d'inverno, gennaio, che con la riforma giulianadel 46 a.C. passò ad essere il primo dell'anno.  Una delle caratteristiche più singolari di Giano sta nella sua rappresentazione come di un dio bicefalo, da cui l'appellativodi Giano bifronte. Questa particolarità era connessa all'area di influenza divina che Giano assunse in maniera specifica in epoca classica, dopo l'ascesa degli dei romani "canonici": Giano era preposto alle porte (ianuae), ai passaggi (iani) e ai ponti: ne custodiva l'entrata e l'uscita e portava in mano, come i portinai, gli ianitores, una chiave e un bastone, mentre le due facce vegliavano nelle due direzioni, a custodire entrata e uscita.  Anche in quest'epoca, comunque, Giano continuò a rappresentare il custode di ogni forma di passaggio e mutamento, protettore di tutto ciò che riguardava un inizio ed una fine.  Miti Modifica  Paolo Farinati, Giano bifronte con una ninfa, 1590 circa, affresco, Villa Nichesola-Conforti, Ponton di Sant'Ambrogio di Valpolicella (Verona). Nel mito Giano avrebbe regnato come primo Re del Latium, fondando una città sul monte Gianicolo e donando la civiltà agli Aborigeni, suoi originari abitanti. Con la ninfa Camese avrebbe generato inoltre numerosi figli, tra i quali il dio Tiberino, signore del Tevere. È lui ad accogliere il dio dell'agricolturaSaturno, spodestato dal figlio Giove, condividendo con lui la regalità e consentendogli di portare l'età dell'oro. Per l'ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal dio Saturno il dono di vedere sia il passato che il futuro, all'origine della sua rappresentazione bifronte.  Numerose sono le ninfe indicate come mogli o compagne di Giano:  Camese, dalla quale il dio ebbe tre figli: Tiberino, il dio del Tevere; Camasena, Clistene; Venilia, citata da Ovidio, dalla quale avrebbe generato: Canente; Carna, dalla quale avrebbe ricevuto il potere sulle porte; Giuturna, dalla quale sarebbe nato: Fons, dio delle sorgenti, venerato ai piedi del Gianicolo. Culto Modifica Al culto di Giano, a differenza delle altre divinità maggiori, non era preposto uno specifico flamen. Le cerimonie a lui dedicate venivano invece amministrate dallo stesso Rex e, in età repubblicana dal particolare sacerdote che suppliva alle antiche prerogative regie, il Rex Sacrorum. Egli apriva dunque per primo le processioni e le cerimonie religiose, antecedendo anche lo stesso flamen Dialis, sacerdote di Giove.  Nel suo tempio si sacrificava spesso per avere vaticinisulla riuscita delle imprese militari.  Santuari Modifica  Arco di Giano o Ianus Quadrifrons. A Roma i principali luoghi consacrati a Giano erano:  lo Ianus geminus, un passaggio coperto consacrato secondo la tradizione da Numa Pompilio nel Foro e precisamente nella parte più bassa dell'Argileto secondo Tito Livio, o ai piedi del Viminale secondo Macrobio, e che veniva aperto in occasione di guerre e chiuso in tempo di pace[11]; lo Ianus quadrifrons, un arco a quattro aperture situato nel Foro Boario; il Tempio di Giano situato nel Foro Olitorio e consacrato da Gaio Duilio nel 260 a.C. dopo la vittoria di Milazzo. Giano come simbolo di città Modifica  Scultura lignea di Giano ad Avezzano Secondo la leggenda, Giano fondò la città di Gianicola, e fu proprio lui ad accogliere Saturno nel Lazio. Esisteva una frazione della città di Roma denominata Gianicolo e secondo alcuni mitologi Giano sarebbe il fondatore di uno dei villaggi di Roma. Da notare che il Gianicolo affaccia su un lato del Tevere ove è presente un guado naturale, quindi un passaggio.  Giano viene assunto dal Medioevo a simbolo di Genova, in relazione al suo nome antico di Ianua[12]. Come tale viene spesso accostato al Grifone, altro simbolo di questa città. Troviamo effigi di Giano bifronte nel pozzo sacro di piazza Sarzano (l'ermabifronte sulla cupoletta, proveniente da una fontana cinquecentesca opera della bottega in Genova di Giacomo e Guglielmo della Porta); rappresentazioni dei grifoni come ornamento dei pinnacoli delle volte vetrate di Galleria Mazzini e nei lampadari ottocenteschi della stessa. Una rappresentazione indubbiamente più moderna ed essenziale la troviamo nel palazzo azzurro sito in Fiumara. Bisogna considerare Giano come dio adatto a sostituire i riti celtici dediti alla venerazione del torrente, considerato come luogo ove convergono le acque da affluenti che stanno a destra e a sinistra dello stesso corso d'acqua, in quanto Giano aveva due facce ed era il dio dei passaggi, oltre ad avere rapporti con le divinità delle acque.  Oltre a Genova, Giano è il simbolo di Tiggiano(provincia di Lecce), Subbiano (provincia di Arezzo), Selvazzano Dentro (provincia di Padova) e Centro Giano (provincia di Roma), San Giovanni Rotondo(Provincia di Foggia). L'immagine di Giano è presente nel gonfalone di Tiggiano (provincia di Lecce)[13]perché secondo un'etimologia popolare il nome del paese potrebbe derivare dal nome del dio Giano[14] (in realtà il toponimo è un prediale costruito sul gentilizioromano Tidius[15].).  In Basilicata, presso Muro Lucano (PZ) è presente il toponimo Capo di Giano e Varaggiano, mentre presso Melfi c'è Foggiano. A Pescopagano, in una nicchia sotto l'arco di Porta Sibilla vi è una statuetta raffigurante Giano bifronte.  L'immagine di Giano è presente nel gonfalone di Subbiano (provincia di Arezzo)[16] perché secondo un'etimologia popolare il nome del paese deriverebbe dal latino Sub Janum condita ("fondata sotto [il segno di] Giano")[17], ma in realtà il toponimo è un predialecostruito sul gentilizio romano Sevius[18].  Il nome della città di Avezzano in Abruzzo stando ad un'ipotesi giudicata inverosimile da storici ed archeologi deriverebbe da "Ave Jane", un'invocazione posta sul portale di un tempio consacrato al dio Giano. Secondo la leggenda attorno al tempio ebbe origine la borgata formata dai primi agricoltori stanziati nell'area che originariamente circondava il lago del Fucino[19].  Il monte Giano nell'Appennino centrale è situato nel comune di Antrodoco, in provincia di Rieti.  Il toponimo di Selvazzano Dentro di origine romana parrebbe riportare alla presenza di un boschetto sacro al dio Giano (selva di Giano), l'attuale stemma comunale riporta infatti un altare dedicato al dio.  Secondo delle supposizioni i toponimi di Vezzano, come Vezzano Ligure in provincia della Spezia, deriverebbero dalla divinità romana.  Il nome del dio è invece all'origine dei due toponimi Giano dell'Umbria e Giano Vetusto, non direttamente ma attraverso un nome di persona latino Ianus (al quale sarà originariamente appartenuto il fondo sul quale è sorto il centro abitato)[20].  A Reggio Emilia c'è un Giano su uno spigolo di Palazzo Magnani in Corso Garibaldi. Nel comune di Maddaloni, in Provincia di Caserta, esattamente dinanzi l'ospedale cittadino, sono ancora visibili i resti di un tempio con l'iscrizione "Iano Pacifero".  A Trieste vi è una fontana con il volto bifronte del dio, posta all'inizio del Viale XX Settembre. In quanto alla scelta del sito, va notato che nei primi anni dell'Ottocento in quel punto si trovava un recinto con cancello, che segnava l'uscita dalla città.[21].  Il toponimo di Camposano, in provincia di Napoli, tra le tante interpretazioni, parrebbe derivare da un tempio dedicato al dio Giano denominato Campus Iani.  Nel pesarese, a pochi chilometri dalla città di Fano, vi è la frazione di Monte Giano.  Nei pressi del comune di Montieri, tra Siena e Volterra, Alta Maremma, si trova una località chiamata Prategiano, tradizionalmente legata alla divinità. Qui oggi si trova un prato collinare, circondato da boschi. Vi ha sede un centro ippico di rilievo, dal quale partono escursioni per numerose località naturali e storiche. La zona è ricca di vestigia, tra le quali la Rotonda di Montesiepi, con la Spada nella Roccia, ivi conficcata dal misterioso San Galgano nel XII secolo, oggi ancora visibile sotto la cupola della rotonda.  Note Modifica ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 11 ^ ad esempio Herbert Jennings Rose in Dizionario di antichità classiche, s.v. Giano. Milano, Edizioni San Paolo, Dumézil, La religione romana arcaica,  Milano, Rizzoli, Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, s.v. Giano. Torino, UTET, Simon "Culsu, Culsans e Ianus" in: Atti Secondo congresso internazionale - Tomo III - 1985 pag. 1271-81. ^ de Grummond, N.T. & Simon, E. (eds.) (2006). The Religion of the Etruscans. University of Texas, Austin.. ^ Daniele F.Maras, Monografie - La Religione Etrusca p.22, in Archeo Monografie, 27 ottobre/novembre 2018. ^ Marco Terenzio Varrone, Della lingua latina, VII, 26-27 ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 14 ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 16 ^ Tito Livio, Storia di Roma, I, 19, 2 ^ Teofilo Ossian De Negri. Storia di Genova. Firenze, Giunti, 2Stemma Comune di Tiggiano, su comuni-italiani.it. Notizie generali sul Comune di Tiggiano, su japigia.com. URL consultato Marcato. Tiggiano, in AA. VV. Dizionario di toponomastica. Torino, UTET, Subbiano (Tuscany, Italy), su crwflags Subbiano in breve, su comune.subbiano.Marcato. Subbiano, in AA.VV. Dizionario di toponomastica. ^ Giovanni Pagani, Il nome Avezzano, su avezzano.terremarsicane.it, Terre Marsicane. Marcato. Giano dell'Umbria e Giano Vetusto, in AA. VV. Dizionario di toponomastica. ^ In Viale una fontana con due mascheroni - Cronaca - Il Piccolo, in Il Piccolo, 19 novembre Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Mitologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di mitologia. Falacer Saturno (divinità) divinità romanaell'agricoltura  Carna Wikipedia Il contenutoAntonio Carulli. Keywords: Giano, critica della cultura, Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin, menstruazione, Aligheri sulla mestruazione, ente, essente. Giano, e la religione, paganesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carulli” – The Swimming-Pool Library. Carulli.

 

 

Grice e Casalegno: l’implicatura conversazionale -- il concetto d’implicatura nella filosofia linguistica del Novecento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me! Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!”  Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem; “Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi, un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio, Carocci,  Verità e significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci,  (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità: problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e riferimento, in  Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera, Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del linguaggio.  I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e Marco Santambrogio.  I testi antologizzati consentono al lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e i concetti chiave che emergono dalla sua opera.  Apre il classico Senso e significato di Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi  Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Quine, Nomi e riferimento di Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Putnam, Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e conversazione” di Grice, Dispute metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice - è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si attenga a quattro “ massime ” che possono. Introduzione alla filosofia del linguaggio  Paolo Casalegno. Significato e condizioni di verità. Prendiamo in considerazione un’idea del primo Wittgenstein:  “Comprendere una proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus). Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi wittgensteiniana?  Un  modo  può  essere  questo:  usiamo  il  linguaggio  per  descrivere  la  realtà.  Una proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’.  Evitiamo di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere  che  il conoscere  le condizioni di  verità di  una  proposizione equivalga  a  sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera.  La tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci su alcune di queste.  Le obiezioni possono essere, principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità.  Al termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false. La prima obiezione  si basa sull’ovvia  constatazione che esistono  espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attribuibili condizioni  di  verità.  Ci  sono  espressioni  sintatticamente  ben  formate  che  non  sono  frasi complete, parole singole  o espressioni come  ‘valigia  pesante’. Che  queste  espressioni abbiano  un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In  secondo luogo,  ci sono frasi  complete come  le interrogative  e le  imperative. Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte di espressioni deve ricorre a nozioni  diverse  da quella di verità.  Sembra  dunque  impossibile  che  proprio  su  questa  nozione  si fondi tutta quanta una teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale. Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono enunciati ha a che fare con la verità.  Consideriamo il caso delle parole singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla, equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa — e, più in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH). Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra capacità di capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente: queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono in modo ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il rispondere ‘Sì’ alla domanda equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o un’affermazione,  e  delle  frasi  imperative.  La  centralità  della  nozione  di  verità  sembra  così  essere confermata.  Della  seconda  obiezioni  esistono  più  varianti,  potremmo  perciò  formularla  come  segue.  Concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per concentrarsi in modo esclusivo sul  loro ruolo di  veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci tro-viamo,  delle  informazioni  di  cui  i  nostri  interlocutori  già  dispongono,  delle  loro  aspettative  ecc.; inoltre, ci sono regole precise di costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò  che si può comunicare con un dato  enunciato varia enormemente con il variare dei contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio di Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e pragmatica.  Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica feconda.  Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle condi-zioni di  verità degli enunciati  svolga un  ruolo essenziale anche  quando sono  coinvolti fattori  che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo  2 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi.  Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi  sono  “costituenti  psichici”.  Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso comune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingente.  5 stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi sono “costituenti  psichici”. Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagine vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini.  (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingente. Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa,  e quindi che P  ha senso, solo se fossimo sicuri che  C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV) Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.  Devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio.  NB. In questo ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa consta appunto degli oggetti”.  La proposizione (I) non è dunque un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente analizzate.  Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.  Vediamo  ora cosa Wittgenstein  sostiene  riguardo  le  proposizioni complesse. La  sua  idea  è  che  le proposizioni  complesse  siano  funzioni  di  verità  delle  proposizioni  elementari  che  figurano  come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione, disgiunzione, condizionale…).  Per visualizzare il modo in cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti, Wittgenstein propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole di verità’. Tavola di verità della negazione:  P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1). Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione (inclusiva):  Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici. Per Frege ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i connettivi non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi.  A queste considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la concezione wittgensteiniana della logica.  Né Frege né Russell avevano saputo spiegare  che cosa contraddistingue una proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al valore di verità di una pro-posizione  complessa  come  determinato  dai valori di verità dei  suoi  costituenti  elementari,  si  può constare che ci sono due casi limite: quello in cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’.  Ciò che Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni.  Avevamo detto che il senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle  proposizioni complesse questa nozione di  senso non  può essere  applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di  verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP QTTTTFTFTTFFF 7  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO” di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA E’VERA(alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es: l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI  NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morri s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI: studia segni in quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  - conversazione = ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di mezzo   2. QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE = cose pertinenti   4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna + alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE  D. es: Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  -conversazione = ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo   QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE = cose pertinenti    .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato = riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York  *descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione=  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam FREGE, “SENSO E SIGNIFICATO”; ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE e INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K VERBI DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enunciate  quindi non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2. Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA che riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattere che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si avvnga a massime sotto quattro categorie conversazionali (alla funzioni di Kant): CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE: dire cose perttnenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo. parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Casanova: l’implicatura conversazionale del desiderio omoerotico – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “It is fascinating to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural – bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia.  Benché di lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di matematica) e opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato "casanova".  A questa sua fama di grande conquistatore di donne contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre: Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la massima franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e parlata dalle élite d'Europa.  Fra corti e salotti vari, si ritrovò a vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia, alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo, per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia (ora Malipiero) Giacomo Girolamo Casanova nacque a Venezia, in Calle della Commedia (ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte  opere enciclopediche o letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835 Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo Giovanni Giacomo Casanova. Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella voce su C. dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso.  Si può leggere il nome corretto nel documento relativo al battesimo del Casanova.  «Addì 5 aprile 1725  Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe C. del q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina Salvi.»  (Storia della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi, era un'attrice veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior successo del marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai valente". La voce popolare lo considerava frutto di una relazione adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e Casanova stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne, di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie veneziane praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo, avevano servito la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la giustizia della Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli: Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella e Gaetano Alvise.   Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a causa della sua professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo la nonna lo condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale, riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza infantile, l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui stesso era il primo a ridere della credulità che tanti manifestavano nei confronti dell'esoterismo.  All'età di nove anni fu mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; nel 1737 s'iscrisse all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è molto controversa: infatti Casanova descrive nelle Memorie gli anni passati all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti risulta che il Casanova abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse andato a compiere il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a dubitare del titolo conseguito dal Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che dimostravano in modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le successive iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento del titolo accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (Casanova). Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro dottorati 1737 usque ad 1747, non riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò che il Casanova non aveva mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per chiunque.  Terminati gli studi, Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. La nonna Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo, si chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la bella e costosa casa in Calle della Commedia[E 7] e di sistemare i figli in modo economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo, togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di correggerne il carattere.  Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad assumere la diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa della sua condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa.   Targa commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella città era stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera superiore alla sua.[E 9]  Fu però durante il suo secondo soggiorno ad Ancona che C. ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un seducente cantante castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di una donna. Fu solo dopo una corte serrata che Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del padre, avvenuta prematuramente, avevano assunto ufficialmente la tutela del ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei Grimani, Michele, fosse il vero padre di Giacomo.  Nel 1746 avvenne l'incontro con il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu soccorso da Casanova e si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo, finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva Bragadin, Casanova venne in contatto con i due più fraterni amici del senatore, Marco Barbaro[E 11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e, finché vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i nobili attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e Casanova, su consiglio di Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori.  Nel 1749 incontrò Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre identificazioni, i "casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In linea di massima, come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono citate con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po' modificata per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di avventure con donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in generale le persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati corretti e riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali hanno confermato il racconto.  Se qualche errore c'è stato, lo si deve anche al fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie (dal 1789 in poi), erano passati molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con diari o appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro contribuisce a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi, impossibile da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di aver intrattenuto con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi totalmente romanzati e di pura invenzione, basati comunque su personaggi storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della descrizione.  Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una delle parti più valide dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente tentata l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura fantasia e basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier), che effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova romanziere. Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel giugno successivo decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico Antonio Stefano Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, Casanova aderì alla Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili appoggi.  «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene la loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve guardarsi dalle amicizie pericolose.»  (C., Memorie) Ottenne qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre che, in molti casi, epistolare. Ritornato a Venezia dopo il lungo soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755, all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca, al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio.  Sui motivi reali dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto disordinata, ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava, barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia di religione e, quel che è peggio, non ne faceva mistero.   L'arresto di Casanova (illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma, l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto socialmente pericoloso restasse in circolazione.  Tuttavia gli appoggi, di cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi.  Dalla fuga dai Piombi al ritorno a Venezia (17561774)  Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo shock dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il 1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte, attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di allontanarsi fulmineamente con una gondola.  Si diressero velocemente verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e quindi gli appoggi non gli mancavano.   Illustrazione da Storia della mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione, dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione, soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici.  Il 28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV.  Molto fantasioso, come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore" il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una missione segreta nei Paesi Bassi.[26]  Al suo ritorno fu coinvolto in un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese, Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà, la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate.  Casanova si prodigò per darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive, presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio, Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere. L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria, Casanova si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse dall'incomoda situazione.[30]  Gli anni successivi furono un intenso continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera, dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire ed è riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno più felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31] Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte idee di Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito), e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver ragione.[31]»  In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33] Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII.  Nel 1762 ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34]  Nella capitale inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37]  L'anno successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38] anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque. Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi delle capitali.  Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.  Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le pur cospicue sostanze di famiglia.  Si recò quindi in Spagna, ormai alla disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente (gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli, Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il 3 settembre 1774.  Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.   L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra la classe reietta e quella privilegiata.  In questo stesso periodo iniziò una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia, delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52] utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di cambio con discrete somme di denaro.  Il nome della calle deriva dalla presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata 13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione, spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste, Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare fondata e verificabile[54].  Negli anni successivi pubblicò altre opere e cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti, col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano Giustinian.[55]  Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso, era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo, esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita, di Giacomo Casanova".[56]   Ritratto del 1788  Annotazione della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata per sempre.  Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese, alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate. Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina. Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia. Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.  Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie. Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu... Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac.... Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911. 1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10 Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue. 1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara, traduzione Giancarlo BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II (1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani. 1985Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli. Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a Dux), Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée et établie par Francis Lacassin.  2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte, Venezia, Editoria Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo Casanova. Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria,  Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne,  88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Histoire de ma vie, tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Histoire de ma vie, tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi, Milano, Luni Editrice,,  978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera casanoviana  Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da alcuni[62][63], a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità storica dell'opera di Giacomo Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e addirittura matematico, Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna notorietà e nessun successo.[68] Successo che arrise invece all'opera autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte dell'autore.   Disegno di un busto di Giacomo Casanova, ubicato in origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati per ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte durante la detenzione a Barcellona nel 1768, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo stesso si può dire per opere scritte nella speranza di ottenere qualche incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario dell'autore ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto dall'Historia della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e varie edizioni, sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico e di proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal racconto dell'evasione. Sembra quasi che Casanova tollerasse le sue creature autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di Casanova stava tutto nei suoi racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era brillante e trascinante quando parlava della sua vita[71]- osserva de Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di non avere quel riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui ambiva.  Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che costituì per decenni il cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu pubblicata soltanto nel 1787.  Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro irripetibile.  Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto, acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera, sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando anche l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario, opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce, indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]»  Per l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al 1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due secoli dopo, modernità e realismo.  Casanova è già uno scrittore di costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni, attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale. Probabilmente si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non ha incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]  Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana. Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto. Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando dell'Histoire, scrive testualmente:... questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta... perché io possa porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79]  Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi fece riferimento nella prefazione:   «J'ai écrit en français, et non pas en italien parce que la langue française est plus répandue que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la lingua francese è più diffusa della mia.»  Certo dell'immortalità della sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova preferì utilizzare la lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di potenziali lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano, forse perché sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di scrivere la propria autobiografia in francese.  L'autobiografia del Casanova, a parte il valore letterario, è un importante documento per la storia del costume, forse una delle opere letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori, riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo. Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di ogni giorno.  La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler, Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio, altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era protagonista.  Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna, a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito, Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla scrittura[91]  Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi, benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile, lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle vittime della sua seduzione.  L'interpretazione del suo mito sarebbe fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita: Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e Casanova si frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre 1787)è tutto sommato marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto limitata, di Casanova alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è ipotizzato facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel che è certo è che Casanova si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più grande, certamente più positivo e soprattutto reale.  Mostre 1998 Praga, Palazzo Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia). Catalogo: Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico "Il mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo Casanova, un veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998.  88-317-7028-4  Francia "Casanova for ever, 33 expositions Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille (dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France “Casanova, la passion de la liberté” (dal 15 novembre  al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,.  978-2-7177-2496-7 (BnF)  978-2-02-104412-6 (Seuil)  Stati Uniti d'America "Casanova: The seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston.  978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947). Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia, 1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing, Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W. Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro (Italia, 1975). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei personaggi). Il Casanova di Federico Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982). Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A. Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello 1983 per la migliore sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale Le retour de Casanova (Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice Luchini, E Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti, 2005). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort (Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas. Casanova variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io Casanova (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour (Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova), Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo lontanamente ispirati alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia 1942). Regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti 1944). Regia di Sam Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli. Film comici La grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod. Casanova & Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005). Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori 2001,  II pag. 925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi, senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi, Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo dell’opera autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in bibl.).[95]  Note Esplicative   Casanova visse a lungo in Francia e conobbe personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica dominante appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore, reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio, Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr. Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini, Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.)  Il cognome Casanova è attestato appartenere a nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero  Casanova afferma che dalla città spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona, potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, pag. XL, op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la genealogia inserita dal Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che facevano regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare una legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende di cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome, praticamente un toponimo, estremamente comune.  A conferma del fatto che la nascita illegittima di Casanova fosse oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di Casanova che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben fatto della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di franchezza indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici tipici e riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una notevole somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio con Casanova è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda: E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato cit. in bibl. pag. 25.  (Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero 122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20 gennaio, 22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in “Il Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2)  Il 2 aprile 1742 firmò un testamento in qualità di testimone.  Sull'ubicazione esatta della casa natale di Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della morte della nonna materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80 ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27 febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta, Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical distraction, in Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa calle, già Calle della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova" senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la struttura originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e seg.) un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette "Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata, in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era di proprietà Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la residenza indicata sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione, anche perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle della Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova abitavano, per motivi di lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento: Calle della Commedia 324|casa|Giovanna Casanova comica al presente s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di S.Samuele.  Non nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente.  Si è mantenuta la cronologia quale risulta dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal 26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello "Nuovo", pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda: Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno  pag. 711. In tale studio viene ricostruita la situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli edifici adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont,  I, Cronologia, pag. XXX, cit. in bibl.) Il progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817, si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo stato del fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova.  Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola, le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra gli altri Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi derivanti da più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi ispirato, in larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili. La tendenza a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso particolarmente stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti, fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e avendo frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta che rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia cantante o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è una delle eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per la non rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è detto, sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure of the actress in Casanova's Histoire de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes, Genève, Année 2003 XX.  Marco Barbaro (19 luglio 1688-25 novembre 1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato di sei zecchini al mese. (Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont cit. in bibl.  I pag. 997, che rinvia a Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano)  Marco Dandolo, patrizio veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di Marco Dandolo 28 marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario "...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo Casanova, che mi fu in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj. Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio orologio d'oro e le mie quattro possate d'argento"  (Fonte: L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.29 nota 104).  L'identificazione di "Henriette" insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con la centralità sentimentale di questi due personaggi nella vita di Casanova. Il nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie e la sua identità è stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le identificazioni che si sono susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere a: John Rives Childs  (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste Laurent Boyer de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del castello di Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella di residenza di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di Marie d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996), che avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786). Quest'ultima ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione. Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che secondo André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che consenta l'identificazione certa.  Molti studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266.  Sul rapporto tra romanzo e autobiografia nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in.  Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a un passaggio delle Memorie di Goldoni)  Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).  L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14 dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno Mondadori, 2005).  Nel novembre del 1750, Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)  Malgrado la diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia pratica durante la permanenza in Francia, il francese di Casanova non fu mai ritenuto sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli “italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. Casanova riferisce con dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la successiva intensa frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori).  L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755 Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)  Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una commediante; viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si fa profittare della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista Manuzzi, 22 marzo 1755....Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi avea ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta... Giovanni Battista Manuzzi, 12 luglio 1755.  Secondo il casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di Casanova è da ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la scandalosa situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 1065. Bibliografiche    Giacomo Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon, 1960-62.   Giacomo Casanova, Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, 1788-1789127.  Carlo Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.  Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.  G.Casanova,Storia della mia vita, Mondadori 2001,  I, pag. 502 cit. in bibl.  (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani)  (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia)  (Fonte: P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia dell'Padova n°25, 1992)  Aprile, maggio 1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.  (Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)  Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.  Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva occuparsi della questione.  Si veda di Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova, L'Intermédiaire des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti.  Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche: una cultura della mobilità nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49  cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.  cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl,  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl.  Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano. La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl.  Riguardo alla paternità del quadro in questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il fatto che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile di vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami, Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des casanovistes  XI, 1994, pagg. 17-23. Il mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998, cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n° 3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, pag.68-71  Marino Balbi (1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ).  Si trattava di un certo Andreoli, custode del palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone, "in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316.  Sentenza di condanna a carico di Lorenzo Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato, Annotazioni, R. 535 c.83.  Jeanne Camus de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  II pag.1634 nota)  G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2, Volume 5, Capitolo 3  Molti commentatori hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001 cit. in bibl.  II, Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori, pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993 cit. in bibl.  II, pag 21 nota 4 (con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.), pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963, pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des Manuscrit Française 26469, fol. 198).  Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica descritto da Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode (1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal 1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.  Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel 1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e seg.).  La lettera autografa di Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre 1999. Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes anno 2003 pag. 25)  «...siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani, Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...»  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, Edizione 2001,  II, pag. 394, cit. in bibl.  Histoire, volume 15, capitolo XIX  Nous avons ici une espèce de plaisant qui serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres complètes de Voltaire avec des notes... Parigi 1837,  II pag. 91)  Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,, Chronologie, pag. 221.  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  II, pag. 1508 cit. in bibl.  Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta La Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  III pag.117 nota).  Un riscontro del soggiorno di Casanova a Berlino deriva da una annotazione nel diario di James Boswell, datata 1º settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the Private Papers of James Boswell, London 1953,  IV, pag. 67). Il nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus de Farussi, Farussi era il cognome della madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick, Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag 41).  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle Memorie, Casanova incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma senza alcun risultato.  Franciszek Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero e proprio tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia".  Anna Binetti (cognome di nascita Ramon) celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  III pag.1183 nota)  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  III, pag. 285 e seguenti, cit. in bibl.  La vicenda sollevò un clamore notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna, 1878. La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 288.  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26 ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre 1743 al 23 febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il terzo dal 14 maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti, numerosissimi, sono noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un documento che certifica la presenza a Roma del Casanova durante la Quaresima del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri parrocchiali di S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie.anni 40 Margarita figlia zitella anni 16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni 40  Piggionanti  Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni 46  L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era al secondo piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.)   Si è a lungo discusso circa l'esistenza di ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle vicende di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette. Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, Casanova dalla felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le notizie riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono enormemente più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa l'attendibilità e la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la sostanziale veridicità.  Il viaggio da Trieste a Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua il signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana”, Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, pag. 221-223).  È da osservare che la notorietà del personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer, rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik,  Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006).  Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo, Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier.  L'elenco completo dei sottoscrittori è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.)  Delle lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute. A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che coprono il periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono state riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà, Milano, Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è oltremodo toccante.  A.Ravà, Lettere di donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del canone: A.Ravà,  J. Marsan, Sui passi di Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. pag. 347  Fonte: G. Casanova, Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).  Foscarini morì il 23 aprile del 1785.  Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher... (vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le persecuzionia suo diresubite.  Il concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14)...Ma il Casanova è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei sensi.....  Il casanovista Helmut Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII, 2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui riferisce la notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di una testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde (Dresda, 1805  I parte seconda, pag. 172) fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon son propre désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava, una pensione, che lo mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco Casanova, fratello minore di Giacomo e famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo biografico e che era ancora in vita al tempo della redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al momento della morte del Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati per la sepoltura e l'erezione del monumento.  Edizione in tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF, con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente () è l'edizione critica di riferimento.  Archivio Alinari, su alinariarchives.  Archivio GrangerNew York  Opere di LonghiCasanovaUbication: Firenze  Miti e personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte, musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori,: «Nell'arte. Di Casanova esistono alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco Narici)  Il quadro, conservato un tempo nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti. Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su Alessandro Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca' Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende del ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo circa la personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere critiche sulla questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron 1914) pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore di Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il valore storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori, come Ettore Bonora il quale scrisse...fissati i loro limiti. i Mémoires restano un libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco, un libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori del Settecento, pag 717, citato in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in.  Emblematico a questo riguardo è il caso del romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che costituì un tale insuccesso editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria del Casanova. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò una perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e seg.).  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da parte delle autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele influenti, stava compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di essere aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche vicino ad ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di Casanova ed era fautore del perdono si veda Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.25, 26 nota 90. Si veda inoltre la lettera di Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del 1769, Epistolario  di Giacomo Casanova, Piero Chiara, cit. in bibl. pag. 105,106.  Il brano, un ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere consultato qui (Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C. Parigi 1828).  Su come Casanova esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure, vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive:...V'è un certo uomo straordinario per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano: egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del racconto, Alessandro replicava:...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni, ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.  La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340  Alla morte di Casanova, il manoscritto originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda, dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio, il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France.  Molti studiosi hanno analizzato, parola per parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo).  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  I pag. 733, cit. in bibl.  A questo proposito de Ligne scrive...le sue memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio, difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti, pag. 189, cit. in bibl.),  Illuminante, a questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.)  Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in bibl.  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione dell'Histoire (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la scelta sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di Trocchio, cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana; perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un problema di diffusione.  Stendhal fa, nella sua opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari cit. in bibl. pag. 383.  Foscolo, durante il soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani. A proposito dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno), che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate completamente inventate.  Balzac si ispirò largamente alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia, Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs, Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris 1962  Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e scrive al padre:..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di trovare un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella commedia L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la cantante con postfazione di Enrico Groppali, ed. SE).  Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di Casanova (ed. Adelphi).  Hesse scrisse il racconto La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989) che fu pubblicato nel 1906.  Márai scrisse il romanzo La recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come protagonista l'avventuriero veneziano.  Salvatore di Giacomo "Casanova a Napoli" in Nuova antologia 1922.  Benedetto Croce "Aneddoti di varia letteratura", Napoli 1942. "Di un cantastorie del Settecento e di un luogo delle Memorie di Giacomo Casanova" opera il cui autografo di sei pagine è andato all'asta a Milano il 21.5.92.  Piero Chiara curò per Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova, Mursia (1977) e molti articoli sull'argomento.  Scrive Casanova in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il vero Casanova, Mursia 1977, pag.209).  Tra le altre si veda Margherita Sarfatti, Casanova contro Don Giovanni, ed. Mondadori (1950), citata in.  La tesi è esposta in modo articolato da Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert Laffont, I, Préface, pag. X).  Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo di Giacomo Casanova, pag. 187,, ed. Marsilio 1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono probabile la partecipazione (Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki 2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato osservato che Da Ponte e Casanova si conoscevano e frequentavano, che Casanova era certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia lui che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per manifesta insoddisfazione di alcuni cantanti, che Casanova era stato sempre molto vicino per gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie. Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare varianti al testo del libretto per puro passatempo.  Sull’argomento si veda lo studio di Furio Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année XVII 2000, pag. 21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio vaticano.   Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà, Il mondo di Giacomo Casanova, Venezia, Marsilio, Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, Robert Abirached, Casanova o la dissipazione, Palermo, Sellerio, Louis Jean André, Memoires de l'Academie des sciences, agriculture, arts & belles lettres d'Aix. Tome 6. Aspects du XVIIIe siecle aixois, Aix-en-Provence, Ed. Académie d'Aix, Maurice Andrieux, Venise au temps de Casanova, Paris, Hachette, 1969. 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Rivista internazionale di studi casanoviani (), Antonio Trampus, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, Università Ca' Foscari Venezia, Ca' Bembo.  Libertino (personaggio) Storia della mia fuga dai Piombi Manon Balletti Silvia Balletti Matteo Bragadin Francesco Casanova Gaetano Casanova Giovanni Battista Casanova François-Joachim de Pierre de Bernis Zanetta Farussi Michele Grimani Charles Joseph de Ligne Andrea Memmo Louise O'Murphy Giustiniana Wynne Pietro Antonio Zaguri TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Casanova, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Casanova, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Giacomo Casanova, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Giacomo Casanova, su The Encyclopedia of Science Fiction. 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Emergono cosi' nuove testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione del seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e' significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di Casanova: Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Bertolini · FOUND INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di passione e di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica omosessuale che Casanova si... – Grice: “Casanova was what I regard as a philosopher of sex. He fell for Bellino, an alleged castrato. In bed with  him, Bellino tells him that his name was Teresa and that her penis was an artificial phallus. Bellino had died years before but people wanted a castrato, not a girl with a girl’s voice – and she added that working on the side as a harlot, she found that most clients rather she be a ‘he’!” -- Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman; his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he (Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione e conversazione” – The Swimming-Pool Library. Casanova.

 

Grice e Casati: l’implicatura conversazionale d’Eurialo -- ovvero, dell’amicizia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Casati; he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or ‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a typical Renaissance man of a philosopher, as he should!”  Studia a Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza).  Si occupa di fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza).  Buchi e altre superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo.  Tra i suoi principali contributi si annoverano la teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica: la teoria dei suoni come eventi localizzati,  la regione spaziale immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti materiali, la teoria del futuro "strizzato"  nella metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei "micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura normativa, in un contesto di democrazia partecipata.  La sua Prima Lezione di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia, che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia. Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza); Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere, Laterza);  Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia, Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria della somiglianza   Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità. La geometria dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica. Riferimento e generalità.  La teoria che Grice e Casati propongono può chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di Grice e C. sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere d’arte, come per esempio la produzione di gesti che conducono alla disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale non dice che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che le opere d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una conversazione. L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di suscitare una conversazione. È irrilevante per la soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente suscitata 4. Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo presente il fatto che i due competitori diretti della teoria sono la teoria della comunicazione e quella dell’intenzione artistica, laddove la prima compete sull’aspetto sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti artistici non servono per una “comunicazione” semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti utilitari, devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba creare l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in una conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati. La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances artistiche come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli aspetti impliciti di tutte le opere d’arte. La teoria spiega perché i prodotti artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra capacità di inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione. In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere dal novero dell'arte.) Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi da C. Spiega l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La teoria spiega perché gli artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è particolarmente arduo da spiegare in una teoria della comunicazione o dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le etichette e i pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla conversazione scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con svariate strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di ricerca, una antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo? Conclusione La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti artistici e all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una teoria che si situa nella regione della dipendenza della risposta, non non è una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche sono un tipo di risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici. Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19 riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che considera le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione di controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio. L'arte come idea e come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course, various thematic functions and will have resonated in various ways for a roman readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their relationship see Williams, Lyne, and Hardie). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two valourus young Trojans has, of course, various thematic functions and will have resonated in various ways of a Roman readership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticiation of their relation Niso ed Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir. Aen.). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in first place, he slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then deliberately trips the man who was in second place, in order the Euryalus may come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. -- ‘He was not forgetful of his love Euryalus, not he! (The plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to refer to a bull’s mate at Georgics. Indeed, Servius, ad Aen. writing in a different cultural climate, was worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair. Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. Nisus, son of Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior, swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at the beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love, and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard on his fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE and fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and is continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth  For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne,  For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND EURYALUS’S (235-6:  Likewise the question that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, concerning men’s desire TO EJACULATE and muta cupido. Euryyalus, is it the gods who put this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me, me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum infeliciem nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his mind, unable to hid himself any longer in the shadows or to endure such great pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me, Rutulians! The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he could not have done it. I swear by the sky above and the stars who know: the only thing he did was to love his unahappy friend too much. There is, in short, good reason to believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is described in the circumspect terms befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their eromenoi in fourth-century B. C. Greece. Note also that “meme … figis?” seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too Makowski p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene were Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as to that of Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat. Pelop, Athen. and the probable allusion at Pl. Smp. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his companion’s lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth into a celebrated eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen.). Then he hurdled himself, pierced through and through, upon his lifeless friend, and there at last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has any power, no day shall ever remove you from the remembering ages, as long as he house of Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in death ould hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those who wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his wife as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a joint tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO – SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE 491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS.  So too Senece quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist. 21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males – and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS, Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas.  But their relationship is more complex than the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe  an enemy leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI, 376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words, although Euryalus is the junior partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and capable of being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus. There is a further complication in our interpretation of the pair, and indeed all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of his epic. Yet, while the influence of Homer is especially strong in these passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic adventures echoes the Homeric technique of citing some touching details about a warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily killed off), is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck – from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, p. 235, n. 49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself, while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond between the two, does not represent them in terms of the classical pederastic model. See further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96, Sergent, 250-8, and Halperin p. 75-87. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel for these lines. And yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are strictly distinguished din the epic from the Greeks, and who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the weighty dialogue between Jupiter and June where it is agreed that Trojans and Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this would have been unthinkable in a cultural context in which same-se relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her involvement with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the moral framework poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and Euryalus does ot. This distintion revelas something about the relative degrees of problematization of the two types of relationships in the cultural environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an adulterous couple ina Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as the epitome of friendship along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and Oreste e Palade. Luigi Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza, "Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza, "Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo". Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto, segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo – logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Casini: l’implicatura conversazionale de naturismo – il concetto di natura a Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’ rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di natura”.   I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero, non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in tale contesto Kant.  Insegna a Trieste, Bologna, e Roma.  Le sue ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e "antica sapienza italica", le dispute sorte attorno al darwinismo.  Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza); Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana, Laterza); Rousseau, Laterza);  Introduzione all'illuminismo, Laterza -- razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia” (Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino); “Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il concetto di creazione (Il Mulino).    La lista di autorità e l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.   Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni storico-archeologiche  e alle strumentalizzazioni politiche del Sette-Ottocento.  Giuseppe Bottai o delle ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa - La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e instabilità» - «Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia (Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» - Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche - Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be - Anni di prova) - Indice dei nomi Order   Zoogonia e "Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a): 178. 1963. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer  (review) British Journal for the History of Science The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark  10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques Rousseau Like Recommend Bookmark  9 Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark  5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, British Journal for the History of Science 17th/18th Century French Philosophy Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e la "Sacra famiglia" Rivista di Filosofia Lumi e utopie in uno studio di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia The New World and the Intelligent Design Rivista di Filosofia Anti-Darwinist ApproachesDesign Arguments for Theism Like Recommend Bookmark Scienziati italiani del Seicento e del Settecento Rivista di Filosofia Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia Kant: Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica, astronomia, relatività: Boscovich a Roma; « Rivista di Filosofia Introduzione All'illuminismo da Newton a Rousseau Laterza;  Like Recommend Bookmark Newton e i suoi biografi Rivista di Filosofia Diderot e Shaftesbury Giornale Critico Della Filosofia Italiana L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di Storia Della Filosofia;  Like Recommend Bookmark Per Conoscere Rousseau with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques Rousseau Toland e l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia British Philosophy, Misc L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra Studi Filosofici Il mito pitagorico e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia Rivista di Filosofia; Like Recommend Bookmark  13 Francesco Bianchini und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science and Medicine History of Science Like Recommend Bookmark L'antica Sapienza Italica Cronistoria di Un Mito. 1998. Pythagoreans Like Recommend Bookmark  16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de l'Histoire» Rivista di Filosofia La filosofia a Roma Rivista di Filosofia Vico's initiation into the study of Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia Pythagoreans Topic   Order   Teoria e storia delle rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia  Il problema D'Alembert Rivista di Filosofia Semantica dell'Illuminismo Rivista di Filosofia Cheyne e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della Filosofia Italiana  Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal for the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark  1 Diderot and the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie Diderot Like Recommend Bookmark  6 "Magis amica veritas": Newton e Descartes Rivista di Filosofia Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi. 1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la metafisica Rivista di Filosofia Leopardi apprendista: scienza e filosofia Rivista di Filosofia Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi in Italia Rivista di Filosofia  Il metodo di Foucault e le origini della rivoluzione francese Rivista di Filosofia Rousseau e Diderot Rivista di Storia Della Filosofia Diderot « philosophe » Revue Philosophique de la France Et de l'Etranger Continental Philosophy 1 citation of this work Like Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della Filosofia Italiana La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di Filosofia  L'empirismo e la vera filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 8The Newtonian moment in Italy: A post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Classical Mechanics Like Recommend Bookmark  6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista di Filosofia Freud Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A study in enthusiasm (review) Studia Leibnitiana  Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di Filosofia Newton: the classical scholia History of Science; 1 reference in this work 15 citations of this work Diderot et le portrait du philosophe éclectique Revue Internationale de Philosophie Morte e trasfigurazione del testo Rivista di Filosofia L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer (review) British Journal for the History of Science Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science 2Isaac Newton Like Recommend Bookmark  6 The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia  Jean-Jacques Rousseau Topic   Order    5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia saac Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution,  (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy. Grice: “An assumption generally shared by those who wrote and read the tests surveyed in Latin is that male desire can normally and normatively be directed at either male of female objects. If this configuration is held to be NORMAL or NORMATIVE, we might expect that it would also be represented as NAATURAL, and it is thus worthwhile to consider the role played by the discourse of NATURE in ancient representations of sexual behaviour. This question is both hughe and complex.Important discussions include Boswell, 1Foucault, 1986, 150-7, 189-227, and Winkler, 20-1 36-7 114 8. but one thing is clear: the ancient rhetoric of nature, as it relates to sexual practices, displays significant differenct from more recent discourses. Boswell, for example, observes that while “what is supposed to have been the major contribution of Stoicism to Christian sexual morality – the idea that the sole ‘natural’ and hence moral use of sexuality is procreation, is in fact a common belief of amny philosophies of the day’ at the same time, ‘the term UNNATURAL was applied eto everything from POSTNATAL CHILD SUPPORT to legal contracts between friends (Boswell). ‘The objection that homsosexuality is ‘unnatural’ appears, in short, to be neither scientifically nor morally cogent and probably represents mnothing more than a derogatory epithet of unusual emotiona impact due to a confluence of historically sanctioned prejudiced and ill-formed ideas about ‘nature.’”Thus, as Winkler notes, the contrast between nature and non-nature, when deployed in ancient writings simply ‘does not posess the same valence that it does today’ Winkler, p. 20 Moreover, nearly all of the texts that offer opinions on whether specific secual practice is in accordance with nature are works of philosophy. The guestion does NOT seem to have seriously engaged the writers of texts that directly spoke to and reflected popular moral conceptions (e. g. graffiti, comedies, epigram, love poetry, oratory). For this important distinction between the morallyity espoused by a philosopher and what we might call popular morality, see the introduction and chapter 1.  In short, as Richinlin warns us, the question I ‘something of a red herring, since the concept of nature takes a larger and more ominous form in our Christian culture than it did in AAncient Rome, whetere itw as a matter for philosophers’.Richlin, p. 533. But it may nonetheless be worthwhile to attempt a preliminary exploration of how the rhetoric of NATURE was applied by some ROMAN PHILOSOPHERS to sexual practices, particularly those between males.In other words. I would like to go a step or two beyond that ‘nature’ is generally used by Roman moralists to justify what they approve of’ (Edwards 88 n. 87). always bearing in mind, however, that to the extent that it was mostly taken up by philsoeophers, the question of ‘natural’ sexual practice seems not to have played a significant role in most public discourse among Romans. Nonphilosophical texts sometimes do deploy the rhetoric of NATURE in conjunction with sexual practices, at least insofras they as they offer representations of ANIMAL bheaviour, one possible component in arguments about what is natural.2-6, and Win3, on Philo’s description of crocodiles mating. kler, 2See for example Boswell, 137-43, 15 It will come as no surprise that Roman writers images of animals’ sexual practices are transparetntly influenced by their own cultural traditions. Thus in no Roman text do we find an explicit appeal to animal bhehaviour in order to condemn sexual practices between males as unnatural.Such an argument does occasionally appear in Greek texts, such as Plato, Laws 836c (martua parag Omenos en ton therios phusin kai deiknos pros ta toitauta oux aptomenon arena arrenos dia to me phusei touto einai – and Lucian Amores 36. To Be sure, Musonius Ruffus’s condemnation of sexual practices between males as para phusin might imply a reference to animal practices, and it is possible that in some work now lost to us the Roman Stoic followed in Plato’s footsteps in being explicit on the point. A Juvenalian satire does make reference to animal behaviour in orer to condemn cannibalism (claiming that no animas eat member s of their own species Juv. 15 159-68. And in a passage discussed later in this appendix, Ovid has a character argue that NO FEMALE ANIMAL experiences SEXUAL DESIRE for other females. These claims are as unsupportable as the claim that sexual practices between males do not occur anong nonhuman animals.This is obvious to anyone who has spent time with dogs. With regard to the academic-study of the question, the remarks of Wolfe, Evolution and Female Primate Sexual Behaviour, in Understanding behaviour: what primate studies tell us about human behaviour Oxford, p.are as illuminating as they are depressing. ‘I have taked with several (anonymous at their request) primatologists who have told me that they have observed both male and female homosexual bheaviour during field studies. They seemed reluctant t publish their data,  however, either because THEY FEARED HOMOPHOBIC REEACTIONS (‘my ccolleagues might thank that I am gay’) or because they lack a framework for analysis (‘I don’t know what it means’). On the latter point Wolfe insightfully comments that the same problem affects our attempts to understand ANY sexual interactions among primates. ‘Because the alloprimates do not possess language, it is impossible to inquir into their sexual eroticism. In other words, homosexual and heterosexual behaviours can be observed, recorded, and analysed, but we cannot infer either homoeroticism or heteroeroticism from such behaviours (p. 131). But the fact that we do find animal behaviour cited by Roman authors to CONDEMN such phenomena as cannibalism and same-sec desire among females, but not SAME-SEX desire among males, merely proves the point. These rhetorical strategies reveal more about ROMAN cultural concerns than about actual animal behaviour. A poem in the Appendix Vergiliana introduces us to a lover hhappyly separated from his beloved Lydia. In the throes of his grief he cries out that this miserable fate NEVER BEFALLS ANIMALS: A bull is never without his cor, nor a he-goat without his mate. In fact, sighs, the lover: ET MAS QUACUMEQUE EST ILLA SUA FEMINA IUNCAT INTERPELLATOS SUMPAUQM PLORAVIT AMORES CUR NON ET NOBIS FACILIS NAUTRA FUISTI CUR EGO CRUDELEM PATIOR TAM SAEPE DOLOREM? (Lydia 35-8). The lover is melodramatically weepy and that consideration partially accounts of his ridiculous claim that male animals are never to be seen without their mates. Still, amatory hyperbole aside the verses nicely illustrate the tendency to shape both natura and animal bheaviour into whatever form is convenient for the argument at hand. Thus, Ovid,s suggesting that the best way to appease one’s angry mistress is in bed, portrays sexual behaviour among early human beings and animals s as the primary force that effects RECONCILIATION (Ars 2 461-92. The poet offers a lovely panorama in which animal behaviour is invoked as a POSTIIVE paradigm for specific human practices: unting otherwise scattered groups (2. 473-80) and mollifying an angry lover (2. 481-90). Less than two hundred lines later, the same poet invokes animalas as A NEGATIVE PARADIGM, again in support of a characteristically human concern: discretion in sexual matters. IN MEDIO PASSIMQUE COIT PECUS HOC QUOQUE VISO AVETIT VULTUS NEMPE PUELLA SUOUS CONVENIUNS THALAMI FURTIS ET IANUA NOSTRIS PARSQUE SUB INJIECAT VESTE PUDDAN LATET ET SI NON TENEBRAS AT QUIDDAM NUBIS OPACAE QUAERIMUS ATQUE ALIQUID LUCE PATENTE MINUS (Ovid, Ars, 2 615-20). Drawing his objets lesson to a close, Ovid holds up his own behaviour as a pattern to follow. NOS ETIAM VEROS PARCE PROFITEMUR AMORES TECTAQUE SUNT SOLIDA MYSTIFCA FURTA FIDE 639-40. And we are reminded of the strategies of this pasage’s broader context. If you want to keep your girlfriend happy, do not kiss and tell: that is the argument in service of which animal behaviour is invoked as NEGATIVE paradigm. These to Ovidian passages illustrate the utilyt of arguments from the animal world. Just look ant the animals and see how much we resemble them; just look at the51-5.  animals and see how far we have come.An epigram by theGreek poet Strato gives the later poin an dineresting twist. We huam beings, he writes, are SUPERIOR to animals in that, in addition to vaginal intercourse, we have discovered ANAL INTERCOURSE, thus men who are dominated by women are really no better than mere animals (A P 12 245 PAN ALOGON soon bivei monon oi ligkoi de ton allon zoon tout exkomen to pleon pugizein eurotntes hosoi de guanxi kratountai ton alogon zoon ouden exousi kleon. It all depends on the eye – and rhetorical needs – of the beholder. OS it is that Roman writers show how Roman they are through the picture they paint of sexual practices among animals of the same sex. Ovid himself, in his Metamorphoses, imagines the plight of young girl named Iphis who has fallen in love with another girl. In a torrent of self-pity and self-abuse, she expostulates on her passion, making a simultaneous appeal to NATURA and to the animals that is reminiscent of Ovid’s sweeping review of animal bheaviour in the Ars amatorial just cited. But this time the paradigm is an emphatically negative one. SI DI MIHI PARCERE VELLENT PARCERE DEBUERANT SI NON ET PERDERE VELLENT NAUTRALE MALUM SALTEM ET DE MORE DEDISSENT NEC CACCAM VACCA NEC EQUAS AMOR URIT EQUARUM: URIT OVES ARIES SEQUITUR SUA FEMINA CERVUM SIC ET AVES COEUNT INTERQUE ANIMALIA UNCTA FEMINA FEMINEO ONREPTA CUPIDINE NULLA EST (Ov. Met. 9. 728-34) As with Lydia’s lover, so here we have the melodramatic expostulations of an unah[py lover, and similarly her view of animal behaviour does not correspond to the realities of that behaviour. Still, these arguments are pitched in such a way as to invite a Roman reader’s agreement, and the sexual practices invoked as natural and occurring among the animals demonstrate a SUSPICIOUS SIMILARTY to the sexual practices and desired SEMMED ACCEPTABLE BY ROMAN CULTURE (the female never leaves the male, heterosexual intercourse is a convenient and pleasurable way of unting different social groups, and females never lust after females), or to specifically HUMAN EROTIC STRATEGIES: we do not copulate in public, and we should not kiss and tell if we want our to keep our partners happy. It cannot be coincidental that, whereas Ovid invokes animal behaviour in the context of a girl’s tortured rejection of her own passionalte yearnings for another girl, the mythic compendium in which this natrratie is found is peppered with stories involves passion and sexual relations between males. Both Orfeo (after losing his wife Euridice) and the gods themselves (whether married or not) are represented as ‘giving over their love to TENDER MALES, harvesting the BRIEF springtime and its first flowers before maturaity sets in” Ov. Met. 10. 83-5 ORPHEUS ETIAM THRACUM POPULIS FUIT AUCTOR AMORET IN TENEROS TRANSFERRE MARES CITRAQUE IUVENTAM AETATIS BREVE VER ET PRIMOS CARPERE FLORES. The stories that Orfeo proceeds ts to relate include those of the young CYPARISSUS once loved by Apollo Met 10.106-42 and the tales of Zeus and Ganumede, Apollo and Hyacinth (Met 10 155-219 Consider also the beautiful sixteen yer old Indian boy Athis and his Assyrian lover Lycabas (Met. 5 47-72. A passage which echoes of Virgil’s lines on NISUS AND EURIALO discussed in chapter 2. And the remark that the stunning but haughty young Narcissus, also in his sixteenth year, had many admireers of both sexses (Met 3 351-5.None of Ovid’s characters arever questions the NATURAL status of that kind of erotic experience or invokes the animals in order to reject it. Aulus Gellius preserves for us some anecdotes that further demonstrate the manner in which animal bheaviour could be made to conform to human paradigms. Writing of (IMPLICITLY MALE) dolfns who fell in love with beautiful boys (one oft them even died of a broek heart after losing his beloved) Gellius exclaims that they were acing “in amazing human ways” 606C-D and Plin N H 8 25-8 for this and other tales of male dolphins falling in love with human boys. Gell 6 8 3 NEQUE HI AMAVERUNT QUOD SUNT IPSI GENUS SED PUEROS FORMA LIBERALI IN NAVICULIS FORE AUT IN VADIS LITORUM CONSPECTOS MIRIS ET HUMANIS MODIS ARSERUNS. Cf. Athen 13 Once again, the comment tells us more about ‘human ways’ than about dolphins. The elder Plini, who alo relates this story regarding the dolphin, introduces his encyclopeic discussion of elephants by observing that they are nonly the largest land animals but the ones closest to human beings in their intelligence and sense of morality. In particular, they take pleasure in love and pride (AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS), and by way of illustration of the ‘power of love’ (AMORIS VIS) among elephants he cites two examples: ONE MALE FELL IN LOVE WITH A FEMALE FLOWER_SELLER, another with a young Syractusan man named MENANDER who was in Ptolemy’s army. Likehise he tells of a MALE GOOSE who fell in love with a beautiful young Greek MAN, and of another who loved a female musician whose beauty as such that she alstro attracted the attention of a ram. -4. NEC QUIA DESIT ILLIS AMORIS VIS, NAMQUE TRADITUR UNUS AMASSE QUANDAM IN AEGYPTO COROLLAS VENDENTEM ALLUS MENANDRUM SYRACUSANUM INCIPIENTIS IUVENTAE IN EERCITU PTOLEMACI DESIDERIUM EIUS QUOTIENS NON VIDERET INEDIA TESTATUS 10.51 QUIN EST FAMA AMORS AEGII DILECTA FORMA PUERI NOMINE OLENII AMPHILOCHI, ET GLAUCES PTOLOMAEO REGI CITHARA CANENTIS QUAM EODEM TEMPORE ET ARIES AMASSE PRODITUR. Plin N H 8 1. MAXIMUM EST EPLEPHANS PROXIMUMQUE HUMANIS SENSIBUS QUIPPE INTELLECTUS ILLIS SERMONIS PATRII ET IMPERIORUM OBEDIENTIA, OFFICIOURM QUAE DIDICERE MEMORIA, AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS 8 13Turing to the concept of NATURA as it applied to sexual pracyices by ancient writers, we being with basica basic problem. The very term NATURA has various referents in those texts. Sometimes NATURA seems simply to refer to the way things are or to the INHERENT nature OF something, sometimes to the way things SHOULD be according to the intention ordictates of some transcendent imperative. Thus Foucault speaks of ‘the ‘three axes of nature’ in philosophical discourse. The general order of the world, the orgginal state of mankind, and a behaviour that is reasonably adapted to natural ends.Fouctault, p. 215-6. See also the discussions in Boswell, p. 11-5, where he distinguishes between ‘realistic’ and ‘ideal’ notions of nature, Beagon, and Levy, “Le concept de nature a Rome: la physique, Paris). The first two of these axes are evident in a wife-variety of Roman texts. Departures from what is observably the usual PHYSICAL constitution of various thbeings could be called NONNATURAL or UNNATURAL even by nonphilosophical authors. The Minotuar, centaurs, a snake with feet, a bird with four wings, and a sexual union between a woman (the muthis Pasiphae) and a bull.snAnon De Differentiis 520 23 MONSTRUM EST CONTRA NATURAM UT EST MINOTAURUS. Serv. Aen 6. 286 (centaurs) Suet Prata fr. 176.113-5  snakes with feet, birds with four wings. Serv. Aen. 1. 235.11. Pasiphae and the bull. Te elder Plinty claims that breech births are ‘against nature’ since it is ‘nature’s way’ that we should be born head first.n N H 7 45 -6. IN PEDES PROCIDERE NASCENTEM CONTRA NATURAM EST RITUS NATURAE CAPITE HOMINEM GIGNI MOST EST PEDIBUS EFFERRI. PLiQuintilian argues that to push one’s hair back from the forehead in order to achieve some dramatic effect is to act ‘against nature’.Quint I O 11 3 160 CAPILLOS A FRONTE CONTRA NATURAM RETRO AGERE. and Seneca himself opines that being carried about in a litter is ‘contra natural’a, since nature has gives us feet and we should use them.Sen. Epist 55 ` LABOR EST ENIM ET DIU FERI AC NESCIO AN EO MAIOR QUIA CONTRA NATURAM EST QUAE PEDES DEDIT UT PER NOS AMBULAREMUS. Finally, the belief that physical disabilities and disease are UNNAUTARAL, and thus, implicitly, that a healthy body displaying no marked derivations from the form illustrates what nature designed or intended, surfaces in a number of texts, arnign from Celusus’ mdical treatise to Ciceroo’s philosophical works to declamations attributed to Quintilian, to a moral epistle fo Seneca to the, to the Digest.2 1. 60 pr. MOTUS CORPORIS CONTRA NATURAM QUAM FEBREM APPELLANT. Quint. Decld. Min. 298.12 WEAK AND MALFORMED BODIES ARE IMPLICITLY CCONTRA NATURAM. Celsus Medic 3 21 15. On fluids that are retained in the body contra naturam. Cic Off 3 30 MORBUS EST CONTRA NATURAM. Gell. 4 2 3 Labeo defines morbus asHABITUS CUIUSQUE CORPORIS CONTRA NATURAM QUI USUUM ETIUS FACIT DETERIOREM. Cf. D. 21 1 1 7. D. 4Along the same lines, some ancient writers also suggest that to harm a healthy body with poisons and the like is unnatural.Quint Decl. Min. 246.3 the plaintiff refers to a substance as a venenum QUONIAM MEDICAMENTUM SIT ET EFFICIAT ALIQUID CONTRA NATURAM. Sen Epist 5. 4. To torment one’s body and to eat unhealthy food is CONTRA NATURAM. As for the third of the axes described by Foucault, anthropologists and others have long observed that proclamations concerning practices that are in acoordance with nature often turn out to reflect specific cultural traditions. As Winkler puts it, for nature we may often read culture.Winkler p. 17. In the same way Edwards p. 87-8 discusses a passage from Seneca (Epist 95.20=1) discussed in chapter 5, having to do with women who violate their ‘nature.’ She concludes that ‘Seneca was not reacting to naturally anomalous bheaviour. He was taking part in the reproduction of a a cultural system.’ So too Veyne , p. 26. ‘When an ancient says that something is unnatural, he does not mean that it is disgraceful (monstrueuse) that that it does not conform with the rules of society, or that it is perverted OR ARTIFICIAL”. Roman sources of various types certainly support that contention. Thus, for example, violations of traditional PRINCIPLELS OF LANGUAGE AND RHETORIC which are surely among the most intensely cutlrual of human phenomeno are SOMETIMES SAID TO BE UNNATURAL.Serv. Comm. Art Don. 4 4 4 PLINIUS AUTEM DICIT BARBARISMUM ESSE SERMOVEM UNUM IN QUO VIS SUA EST CONTRA NATURAM – Serv Aen. 4. 427. REVELLI NON REVULSI. NAM VELLI ET REVELLI DICIMUS. VULSUS VERO ET REVULSUS USURPATUM EST TANTUM IN PARTICIPIIS CONTRA NATURAM cf. Sen. Contr. 10, pr. 9 – tof the rhetorician Musa. OMNIA USQUE AD ULTIMUM TUMOREM PERDUCTA UT NON EXTRA SANITATEM SED EXTRA NATURAM ESSENT. One legal writer invokes the rhetoric of NATURA to justify the principle of individual ownership (joint possession of a single object is said to be CONTRA NATURAL.D. 41 2 3 5 CONTRA NATURAM QUIPPE EST UT CUM EGO ALIQUID TENEAM TU QUOTE ID TENERE VIDEARIS. Interestingly, another jurist argues that the principle underlying the institution of slavery – that one person can be owned by another – is actually ‘unnatural’ (D. 1. 5. 4. 1. SERVITUS EST CONSTITUTIO IURIS GENTIUM QUA QUIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATURAM SUBICITUR. In a Horatioan satire we read that NATURA sees it that no one is every truly the ‘master’ of the land that he legally owns, and Natura puts a limit on how much one can inherit (Hor. Sat. 2. 2. 129-30, 2.3.178). Sallust describes the violation of the cultural and more specifically philosophical tradition priviliengy the SOUL over the BODY as UNNATRUAL.Sall. Cat. 2. 8. QUIVUS PROFECT CONTRA NATURAM CORPUS VOLUPTATI, ANIMA OVERI FUIT. SALLUST. Likewise, practices violating Roan ideologies of MASCULINITY are represented as INFRACTIONS NOT of cultural tranditions s but of the natural order. Cicero’s philosophical tratise DE FINIBUS includes a discussion of the parts and with some clarity functions of the BODY that illustrates the relation between NATURE and MSASCULINITY with some clarity Our bodily parts, Cicero argues, are PERFECTLY DESIGNED to fulfil their functions, and in doing so they are in conformance with nature. But there are certain bodily movesmesns NOT in accord with nature (NATURAE CONGRUENTES> If a man were to walk on his hand or to walk backwyasds, he would manifestbly be rejecgting his identity as a human and thuswould thus be displayeing a ‘hattred of nature’ (NAUTRAM ODISSE). Cic Fin 5 35. CORPORIS IGITUR NOSTRI PARTES TOTAQUE FIGURA ET FORMA ET STATURA QUAM APTA AD NATURAM SIT APPARET. The claim that walking on one’s hand is unnatural nicely illustrates the gap between ancient and more recent uses of the rhetoric of nature – cfr. Dodgson). The next illustration Cicer o offers of bodily moveents not in accord with natura concerns correctly masculine ways of deporing oneself. QUAMOBREM ETIAM SESSIONES QUAEDAM ET FLEXI FRACTIQUE MOTUS, QQUALES PROTERVORUM HOMINUM AUT MOLLIUM ESSE SOLENT, CONTRA NATURAM SUNT, UT ETIAMSI ANIMI VITIO ID EVENIANT TAMEN IN CORPOMUTRAR MUTARI HOMINIS NATURA VIDEATUR ITAQUE A CONTRARIO MODERATI AEQUABILESQUE HABITUS AFFECTIONS USUSQUE CORPORIS APTI ESSE AD NAUTRAM VIDENTUR (Cic. Fin 5. 35-6. Deemed ‘agaist natture’ are certain ways of carrying oneself that are ‘wanton’ and ‘soft,’ movements lthat, like walking on one’s hand or stepping backwards, clasi the with thvident purporse of the body’s various parts. Implicitly then, nature wills men’s bodies to move and to function in certain ways. Men who violate these principles of masculine comportment are acting BOTH EFFEMINATELY (as we saw in chapter 4, militia is a standard metaphor for effeminacy) AND UNNATURALLLY. Cultural traditions regarding masculinity – here, appropriate bodily gestures – are identified with the natural order.Similar conddemnations of inappropriate bodily comportment, marked as EFFEMINATE, abound: walking daintily, scratching the hair delicately wih onefinger, and so on (see chapter 4 in general and see Gleason for a general discussion of physiognomy and masculinity in antiquity. How, then is the rheotirc of nature applied to same-sex practices? One scholar has recently suggested that the elder Pliny describes men’s desires to be anally penetrated as occurring ‘by crime against nature’ Taylor, p. 325. But that is probably a misinterpretation of Pliny’s language. IN HOMINUM GENERE MARIBUS DEVERTICULA VENERIS EXCOGIGATA OMNIA, SCLERE (or CCCELERE naturae FEMINIS VERO AOBRTUS Plin N H 10 172. The phrase DEVERTICULA VENERIS which one might translate (by-ways of sex’ or ‘sexual deviations’ is vague. There is no reason to think that it refers to specifically, let alone exclusively, to the practice of being anally penetrated. Moreover, the phrase SCELERA NATURA or SCELERE NATURAE, rather than ‘crime against nature,’ is most obviously transated as ‘crime OF NATURE,’ that is, a crime perpetrated BY NATURE.This is indeed the way Plinio uses the phrase elsewhere, noting that we ought to call earthquakes ‘moracles of the eart rather than crimes of nature’ (NH 2 206 – UT TERRAE MIRACULA POTIUS DICAMU QUAM SCLEREA NATURAE. See Beagon, p. 29. In other words (pace Taylor and Rackham Loeb Classical Library translation, I take the genitive NATURAE to be subjective rather than objective. I have not found any parallels for such an objective use of a genitive noun dependent upon scelus. In any case, Pliny is not implying that all sexual desires or practices between males are unnatural: in this same treatise, significantly called the HISTORIA NAUTRALIS or Natural Investigations’ he reports the story of a male elephant who fell passionately in love with a young man from Syractuse as an illustration of the obviously natural power of love of love (amoris vis) among elephants; likewise, he reports the story of a gosse who loved a beautiful young man.Plin N H 8 13-4, 10.51More explicitly referring to those men who take pleasure in being penetrated, the speaker in Juvenal’s second satire riducules menwho have wilfully abandoned their claim on masculine status by weaking makeup, participating in women’s religious festivals, and even taking husbands, and notes with gratitude, that nature does not allow them gto give birth.Juv. 2 139 40. SED MELIUS QUOD NIL ANIMIS IN CORPORI IURIS NATURA INDULGET STERILES MORTUNTUR. For Further discussion see Appendix 2. The orator Labienus decries wealthy men who castrate their male prostitutes (EXOLETI, see chapter 2) in order to render them more suitable for playing the receptice role in intercourse. These men use their rinces in UNNATURAL WAYS (contra natural), and the natural standard they they violate is apparently the principle that mature males both should make use of the PENISES and should be IMPENETRABLE.Sen Contr. 10. 4 17. PRINCIPES VIRI CONTRA NATURAM DIVITIAS SUAS EXERCENT CASTRATORUM GREGES HABENT EXOLETOS SUOS AD LONGIOREM PATIENTIALM IMPUDICITIAE IDONEI SINT AMPUTANT. Firmicus Maternus refers to men’s desires to be penetrated as CONTRA NATURAL (5. 2. 11), and Caelius Aurelianus’s medical wirtings also reveal the assumption that men’s ‘natural’ sexual function is TO PENETRATE and not to be penetrated.9 137. NATURALIA VENERIS OFFICIA. Cael. Aurel. Morb. Chron. 4 In short, nature’s ditactes conveniently accorded with cultural traditions, such as those discouraging men from seeking to be penetrated, or those deterring them from engaging in sexual relations with other men’s wives: in a poem that urges on its male readers the principle that NATURA places a limit of their desires, Horace remocommends, as implicitly being in line with the requirement of nature, that men avoid potentially dangerous affaris with married women and stick to their own slaves, bh male and female.Hor. Sat. 1 2 111. NONNE CUPIDINIBUS STATUAT NATURA MODUM QUEM … Se chapter 1 for further discussion of this poem. Cf. Sat. 1. 4. 113-4: NE SEQUERER MOECHAS CONCESSA CUM VENERE UTI POSEEM. In one of his Episles (122) Seneca provides a lengthy and revealing discussion of ‘unnatural’ behavours that include a reference to sexual practices among males. He beings, however, by despairing of ‘those who have perverted the roles of daytime and nightime, not opening their eyes, weighed down by the preceding day’s hangover, until night begins its approach. Sen Epist 122 2 SUNT QUI OFFICIA LUCIS NOTISQUE PERVERTERINT NEC ANTE DIDUCANT OCULOS HESTERNA GRAVES CRAPULA QUAM ADPETERE NOX COEPIT. These people are objectionably not simply because of their overindulgence in goof and drink but because they do not respect the proper function of night and day.Comparing them to the Antipodes, mythincal beings who live n the opposite side of the globe, he asks. Do you think these people know HOW to live when they don’t even know WHEN to live? 122.3 HOS TU EXISTIMAS SCIRE QUEMADMODUM VIVENDUM SIT QUI NESCIUNT QUANDO?and this pervesion of night and say, is, in the end, ‘unnatural’. INTERROGAS QUOMODO HAEC ANIMAO PRAVITAS FIAT AVERSANDI DIEM ET TOTAM VITAM IN NOCTEM TRANSFERENDI? OMNIA VITA CONTRA NAUTRAM PUGNANT, OMNIA DEBITUM ORDINEM DESERUNT (Sen Epist. 122.5). He then proceeds to tick off a serioes of bheaviour that are similarly CONTRA NATURAM. First, people who drink on an empty stomach ‘live contrary to nature’ Sen. 122 6 NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM VIVERE QUI IEIUNI BIBUNT QUI VINUM RECIPIUNT INANIBUS VENIS ET AD CIBUM EBRII TRANSEUNT. Young men nowadsays, Seneca continues, go to the baths before a meal and work up a sewat by drinking heavily; according to them, only hopelessly philistine hicks (patres familiae rustici … et verae volupatigs ignari) save their drinking for after the meal.Sen Epist 122 6. ATQUI FREQUENS HOC ADULESCENTIUM VITIUM EST QUI VIRES EXCOLUNT UT IN IPSO PAENE BALINEI LIMINE INTER NUDOS BIBANT IMMO POTENT ET SUDOREM QUEM MOVERUNT POTIONIBUS CREBRIS AC FERVENTIBUS SUBINDE DESTRINGAT POST PRANDIUM AUT CENAM BIBERE VULGARE ETS HOC PATRIS FAMILIAE RUSTICI FACIUT ET VERA VOLUPTATIS IGNARI. The latter comment, with its contrast between URBAN AND RUSTIC life, austerity and luxyry , is a valuable reminder of us. The standard violated by those who drank betweofre eating was what we would call a cultural norm. But for Seneca they were violating the dicates of NATURE, abandoning the proper order (debitum ordinem) of things. This important point bust be borne in mind as we turn to the next practices that come under Seneca’s fire: NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM VIVERE QUI OMMUTANT CUM FEMINIS VESTEM? NON VIVUNT CONTRA NAUTRA QUI SPECTANT UT PUERITIA SPENDEAT TEMPORE ALIENO? QUID FIERI CRUDELIS VEL VISERIOUS POTEST? NUMQUAM VIR ERIT, UT DIU VIRUM PATI POSSIT? ET CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERANT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET (Sen. Epist 122. 7). The concept of the proper order is very much in evidence here, and here again the order shows unmistakable signs of cultural influence. Just as those who turn night into day or drink wine before they eat a meal are engaging in unnatural activities, so men who wear women’s clothes live contrary to nature – yet what could be more cultural than the designation of certain kinds of clothing as appropriate only for men and others as appropriate only for women? Moving on to his next point, Senceca continues to focus on extermal appearance. Men who attempt to give the appearance of the boyhood that is in fact no longer theirs also ‘live contrary to nature’. Again the order of things has been disrputed. Boys should be boys, men should be men. But these particular men want to LOOK like boys in order to find older male sexual partners to penetrate them. Such is the thenor of Seneca’s decorous but blunt phrase, ‘so that he may submit to a man for a long time’ (ut diu virum pati possit’). If we filter out Seneca’s moralizing overlay, this detail gives us a fascinating fglimpse oat Roman realities. These MEN scorned by Seneca acted upon the awareness that MEN would be more likely to find them desirable if their bodies seemed like those of BOYS (not men): young, smooth, irless. Moreover, the very fact that these men made the effort suggests that th actual age of the beautiful ‘boys’ we always hear of may not have mattered to their loveers so much as their youthful APPEARANCE.Cf. Boswell, p. 29, 81. All of this is very much a matter of CONVENTION, of CULtURAL traditions concerning the ‘proper order’ of things, but Seneca insistently pays homage to NATURA.Cf. Winkler, p. 21. “Contrary to nature means to Senea not ‘outside the order of the kosmos’ but ‘unwilling to conform to the simplicity of the unadorned life’ and, in the case of sex, ‘going AWOL rom one’s assigned place in the social hierarchy’”. The importance of this order is especially clear in the climactic illustrations of those who live ‘contrary to nature’. These are people who wish to see see roses in winter and employ artificial means to grow lilies in the cold season; who grow orchards at the tops of towers and trees under the roofs of their homes (this latter proving Seneca to a veritable outburst ofm moral indignation)., and those who construct their bathhouses over the waters of the sea Sen. Epist 122 21 NON VIVUNT CONTRA NATURAM QUI FUNDAMENTA THERMARUM IN MARI IACIUNT ET DELICATE NATARE IPSI SIBI NON VIDENTUR NISI CALENTIA STAGNA FLUCT AC TEMPESTATE FERIANTUR.  Finally Seneca returns to the example of unnatural practices that sparked the whole discussion: those who pervert the function of night and day aengage in the ultimate form of unnatural behaviour (Sen Epist 122 9 CUM INSTITUERUNT OMNIA CONTRA NATURAE CONSUETUDINEM VELLE NOVISSIME IN TOTUM AB ILLA DESCISCUNT LUCET SOMNI TEMPUS EST QUIES EST NUNC EXERCEAMUR NUNC GESTEMUR NUNC PRANDEAMUS. That the practice ofs of growing trees indoors, of building bathhouses over the sea, and of sleeping by day and partying by night should be considered unnatural makes some sense in relation to notions of the ‘proper order’ of things. Plants should e outdoors, buldings should be on dray land, and people should sleep at night. But that thes practices should be cited as the most egregious examples of unnatural bheaviour – they constitute the climax of Seneca’s argument – demontrastes just how wide the gap is between ancient moralists and their modern counterparts on the question of what is natural. With regard to mature men who seek to be penetrated by men, the third of Seneca’s examples of unnatural behaviour, Seneca makes in passing a surprising remark. CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERAT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET? 122.7. The clear implication is that a nature man certainly ought to be safe from ‘indignity’ (here a moralizing euphemism for penetration), but ultimately the very fact that he is MALE, REGARDLESS OF HIS AGE, ought to protect him. With with one pointed sentence, then, Seneca is suggesting that MALENESS IN ITSELF IS IDEALLY INCOMPATIBLE WITH BEING PENETRATED, and since sexual acts were almost without exception conceptualized as REQUIRING penetration, this amounts to positing the exclusion of sexual practices BETWEEN MALES from the ‘proper order’. This is a fairly radical suggestion FOR A ROAM MAN TO MAKE, and Seneca was no doubt aware of that fact. He slips the comment quietly into his discussion, makes the point rather subtly (it makight ake a second reading even to REALISE IT IS THERE), and then instantly moves on to other, less controversial arguments. FOR as opposed to Seneca’s suggestion that EVERY MALE, even a boy, should somehow be ‘rescued’ from ‘indignity,’ the usual Roman system of protocols governing men’s sexual behaviour required the understanding that A BOY is different from A MAN precisely because they COULD BE penetrated without necessarily forfeiting EVERY CLAIM to masculine or male status (see especially chapter 5 on this last point). But Seneca, waxing Stoic, here voices a dissenting opinion, as does the first century A. D. Stoic philosopher MUSONIUS RUFUS, in one of twhose treatises we find the remark that sexual practices BETWEEN MALES are ‘against nature’ (‘para-physical’) Muson, Ruf. 86. 10 Lutz para phusin. The remark needs to be be put in the context of Musonius’s philosophy of nature. According to Musonious, every  createure has its own TELOS beyond the goal of simply being aalive En a horse would not b e fully living up to its telos if all it did was to eat, drink, and copulate (106.25-7 Lutz)., while the TELOS or goal of a human being is to live the life or arete or VIRTUS. Thus, “each one’s nature (phusis) leads him to his particular virtuous quality (arete), so that it is is a reasonable conclusion that a human being is living in accordance WITH nature NOT when he lives in pleasure, but rather when he lives in virtue” 108.1-3 Lutz). Elsewhere he opines that human nature (phusis – anthropine phusis, natura humana, Hume, Human Nature) is not aimed at pleasure (hedone, 106.21.3 Lutz). Consequently, luxury (truphe) is to be avoided in EVERY way, as being the cause of INJUSTICE (126.30-1 Lutz). By implication, then, eating, drinking, and aopulating are not in themselves evil, but they can easily become sgns of a life of luxury, and if those activities aconstitute the goals of our existence, we are FAILING TO FULFIL OUR POTENTIAL AS A HUMAN BEING, namely, the practice of virtue, or reason, and consequently, not living IN ACCORDANCE WITH NATURE, but against her (paa phusin). Thus, as part of a regime of SELF-CONTROL (MALENESS OR MASCULINITY AS SELF-CONTROL, not addictive behaviour or weakness of the will) Musonius argues that a man should engage in a sexual practice only within the context of marriage for the purpose of begetting children. Any other sexual relation, even within marriage should be avoided. T”Those who do not live licentiously, or who are not evil, must think that only those sexual practices are justified which are consummated within marriage and for the creation of children, since these pratcttices are licit (NOMIMA). But such people must think that those sexual practices which hunt for mere pleasure are unjust and illicit, even if they take place within marriage. Of Other forms of intercourse, those committed in moikheia (I e. a sexual relation with a freeborn woman under another man;s control) are the most illicit. No more moderate than this is the INTERCOURSE OF MALES WITH MALES, since it is a DARING ACT CONTRARY TO NATURE. As for those forms of intercourse with with females apart from moikheia which are not licit (kaTa nomon) all of these are too shameful, because done on account of a lack of self-control. If one utside  to behave temperately (TEMPERANTIA, CONTINENTIA) one would not dare to have relations with a courtesan, nor with a free woman outside of marriage, nor, by Zeus, with one’s own slave woman (Musonius Rufus, 86.4-14 Lutz). As I argued in chapter 1, Musonius’s final remark reveals the extent to which the sexual morality that he is preaching is at odds with mainstream Roman traditions. Nor is his suggestion that men should keep their hans off prostitutes and their own slaves the only surprising statement to be found in the treatises attributed to Musonius. He elsewhere aargues against the obviously widespread practices of giving up for adoption or even exposing unwanted children (96-97 Lutz), of EATING MEANT (here he explicitly contrasts himself with the many hoi polloi who live to eat rather than the other way around (118-18-20 Lutz) or SHAVING THE BEARD (128.4-6 Lutz), of using wet nurses (42.5-9 Lutz), and most appositely, of allowing husbands sexual freedoms not granted to wives (96-8 Lutz). Thus his condemnation of sexual practices between MALES is issued in the context of a condemnation of ALL SEXUAL PRATICES other than those between husband and wife aimed at procreation (strictly speaking, vaginal intercourse when the wife is ovulating) and also in the context of a a suspicion of all luxury oand of pleasures beyond those relating to the bare necessities of life. Thus he condemns sexual relations between males as contrary to nature (the implication being that the two sexes ARE DESIGNED TO UNITE WICH EACH OTHER IN THE CONTEXT OF MARRIAGE), while sexual relations between malesand female outside of marriage are criticized as ‘illicit (para-noma) and as signs of lack of self-control. Here Musonius is obviously manipulating the ancient contrast between law or convention (nomos) and nature (phusis) and interprestingly procreative relations within marriage are ultimately given his seal of approval not because they are more ‘natural’ than tother sexual practices, but because they are ‘licit’ or ‘conventional’ (nomima), just as adulterious relations are most ‘illicit’ of unconventional (paranomotatai). In other words, Musonius invokes the rhetoric of nature only by way of secondary support.. A male-male relation is no more ‘moderate’ than a adulterious relationa dn anyway, he adds, they are ‘unnatural’. But a relation between a man and another man’s wife, while implicitly ‘natural’,is in the end more ‘illicit’ than a male-male relation. Even for the Stoic Musonious, NATURA may NOT be the ultimate arbiter. Interestingly, when he describes sexual practices between males as being against nature, Musonius does not appeal to animal bheaviour as does Plato in his Laws (836c). Indeed, such an argument sould have ill-suited Musonius’s argument elsewhere that humans are different from other animals and should not takem them as a MODEL FOR BHEAVIOUR. Thus he argues that wise men ill not attack in return if attacked – such revenge is the province of MERE ANIMALS – 78.26-7 Lutz) – and that, while among animals an act of copulation suffices to procude offspring, human beings should aim for the lifelong union that is marriage (88.16-17 Lutz). Finally, there is an important distinction to observe between Musonius’s remark concerning sexual practices between males and later Christian fulminations against ‘the unnatural vice’ which came to be a code term for ‘sodomy’. On the one hand, Musonius did not go so far as to condemn such relations as THE unnatural vice. Indeed, if we think about the implications of his words, relations between MALES do not even constitute the ULTIAMTE sexual crime. He declare that ADULTEROUS relations are ‘the most illicit of all’ (paranomotatai) and thus clearly more ‘illicit’ than relations between males which are howevery ‘equally immoderate’. Furthermore Musonius’s approach to the problem of sexual behaviour differs from later Christian moralists in a fundamental respect. As Foucault puts it, according to Musonius, ‘to withdraw pleasure from this form (sc. Of marriage, to detach pleasure from the conjugal relation in order to propoeseother ends for it, is in fact to debase the ESSENTIAL composition of the human being. The defilement is not in the sexual act itself, but in the ‘debauchery’ that would dissociate it from marriage, where it has its natural form and its rational purpose” Foucault p. 170. Cicero ro in a passage from one of this major philosophical works, the Tusculan disputations, approaches the ascetic stance advocated by Seneca and Musonius Rufus, although he nowhere makes an explicit commitment to the extreme suggested by Seneca and preached by Musonius. Speaking in the Tusculan Disputations of the detrimental effects of erotic passion, Cicero observes that the works of Greek poets are filled with images of love. Focusing on those who describe LOVE FOR BOYS (he mentions Alcaeus, Anacreon, and Ibycus), Cicero notes thain an aside that ‘NATURE HAS GRANTED A GREATER PERMISSIVENESS (maiorem liicnetial)” to men’s affairs with women. Cic. Tusc. 4. 71. ATQUE UT MULIEBRIS AMORES OMITTAM QUIVUS MAIOREM LICENTIAL NATURA CONCESSIT QUIS AUT DE GANYMEDI RAPTU DUBITAT QUID POETAE VELINT AUT NON INTELLEGIT QUID APUD EURIPIDEM ET LOQUATUR ET CUPIAT LAIUS. The comparative (MAIOREM LICENTIAL is noteworthy. NATURE has granted ‘greater’, not exclusive license to affais with women than to affairs with BOYS. The Latter are evidently NOT FORBIDDEN BY NATURE. Discouraged perhaps, but not outlawed. This is a BEGRUDGING ADMISSION, in perfect agreement with the tenor of the whole discussion of sexual passion which had opened thus. ET UT TURPES SUNT QUI ECFERUNT SE LAETITIA TUM CUM FRUUNTUR VENERIIS VOLUPTATIBUS SIC FLAGITIOSI QUI EAS INFLAMAMATO ANIMO CONCPISCUNT TOTUS VERO ISTE QUI VOLGO APPELATUR AMOR – NEC HERCULE INVNEIO QUO NOMINE ALIO POSSIT APPELARI  TANTAE LEVITATIS EST UT NIHIL VIDEAM QUOD PUTEM CONFERENDUM. (Cic. Tusc. 4. 68). These words disparage sexual passion as a whole – particularly a hot, inflamed desire (QUI EAST INFLAMMATO ANIMO CONCUSPICUNT) whether indulged in with women or with boys. NATURA, according to Cicero, makes it easier to indulge in this passion with women, so that when  men DO INDULGE IN IT WITH BOYS, they show just who DEEPLY THEY HAVE FALLEN VICTIM TO LOVE – that treacherous and destructive power, ‘te originator of disgraveful behaviour and inconstanty (FLAGITTI ET LEVITATIS AUCTOREM (4. 68), as G. Williams notes. In fact, remarkably enough, Cicero later claims that love itself is not natural. Cic. Tusc. 4 76. If love were natural, everyone would love, they would always love, and would love the same thing: one person would not be deterred from loving by a sense of shame, another by rational thought, another by his satiety – ETENIM SI NAUTRALIS AMOR ESSET ET AMARENT OMNES ET SEMPER AMARENT ET IDEM AMARENT NEQUE ALIUM PUDOR ALIUM COGITATIO ALIUM SATIETAS DETERRERET. Cicero’s remark on NATURA and sexual relations with women is in fact fact little more than a a passing comment. Still, its implications deserve some consideration. In what whays does NATURE grant ‘greater permisiveness’ to a relation with aa woma than with a boy? Why does Seneca suggest that men’s MALENESS ought to preclude them from being PENETRATED, and why does Musonius Rufus condemn ALL SEXUAL PRACTICES BETWEEN MALES as unnatural? These philosophers’ comments seem to rest on certain assumptions about the function of sexual organs. Certainly Seneca emphasixes the notion of the proper order or debitus ordon, according to which men should not drink wine before eating, grow roses in the winter, build buildings over the sea, or PENETRATE MALES. In short, some kind of ARGUMENT FROM DESIGN seems to lruk in the backgrounf of Cicero’s Seneca’s and Musoniu’s claism. The penis is ‘designed’ to PENETRATE a vagina. TA vagina is deigned to be penetrated by a penis. Similarly the passage from Phaedrus Fables 4 16 discussed in chapter 5 implies, whitout actually using the word NATURA, that males who desire to be penetrated (molles mares) and females who desire to penetrate (tribades) have A FLAWED DESIGN. When Prometheus was assuming these people’s bodies from CLAY, he attached the genial organs of the opposite sex in a drunken slip-up. But his more popularizing account only specifies that those males who DESIRE to be penetrated are anomalous. It does not designate those men who seek to penetrate other males as unnatural. On this model, a sexual act in which a master penetrated his UNWILLING MALE slave  is NOT UNNATURAL. By contrast, according the philosophers discussed here (Musonius most expliclty) this act would be unnatural.  But on the whole very few Roman writers seem to have taken this kind of argument to heart. In general, ROMAN MEN’S BEHAVIOURAL codes reflect an AWARENESS that the PENIS IS SUITED for purposes OTHER than penetrating avagina, and that the vagina is NOT the only organ suited for being penetrated. Such is the implication of a witty comment in an epigram of Martial’s addressed to a man who, instead of doing the USUAL WITHIN with his BOY and analyy penetrating him, has been STIMULATING THIS GENITALS. This is objectionable because it will speed up the process of his maturation and thus hasten THE ADVENT OF HIS BEARD (11.22.1-8). Martial tries to talk some sense into his friend and the epigram ends with an APPEAL TO NATURE. DIVISIT NATURA MAREM PARS UNA PUELLIS UNA VIRIS GENITA EST UTERE PARTE TUA Mart 1 22.9-10. The comment is of course a witticigm. Note the logical contradiction that this playful invocation of nature creates. If the penis is designed by nature for girls and the anus for mmen,how can a man use a boy’s anus in the way nature intended (i. e. to be penetrated by men) and at the same time use his own penis in the way nature intended (i. e. by penetrating a girl? See chapters 1 and 5 for further fsucssion of this epigram together with Martial’s humorous invocation of the paradigm of nature with regard to masturbation. but if the humour was to succeed, the notion that a boy’s anus is designed by nature for a man to penetrate cannot have seemed outrageous to Martial’s readership. After all, the rhetorical goal of the epigram is to steer tha man onto the path of right behaviour, the path which Martial’s won persona, dutifully, even proudly, followed. This sort of comment – rather than the passing remarks of such philosophers as Cicero, Seneca and Musonius Rufus, reflects the mainstreat Roman understanding of what constitutes NORMATIVE and NATURAL sexual beavhiour for a boy and for a man. It is significant, moreover, that neither CCicero nor Seneca nor Musonius Rufus nor any other survinving Roman text, philosophical or not, argues that a MAN’s *DESIRE* to penetrate a boy is ‘contrary to nature’. Musonius, for one, speaks ony of the sexual act (SUMPLOKAI). We return to the Epicurean perspective offered by Lucretius cited in chapter i. SIC IGITUR VENERIS QUI TELIS ACCIPIT ICTUS SIVE PUER MEMBRIS MULIEBRIBUS HUNC IACULATUR SEU MULIEUR TOTO IACTANS E CORPORE AMOREM UNDE FERITUR EO TENDIT GESTITQUE COIR ET IACERE UMOREM IN CORPUS DE CORPRE DUCTUM. Lucr. 4. 1052-6. This are lines from a poem dedicated to teaching its Roman readers about ‘the nature of things’ (de rerum natura 1.25). cf. Boswell p. 149 “Lucretius’s De rerum natura dealt with the whole of ‘natura’ but it was the ‘rerum’ of things – which suggested to Latin readers what modern speakers mean by ‘nature’”. Obviously the SUSCEPTIBILITY OF MEN to THE ALLURE of boys and women is a PART OF THE NATURAL ORDER for Lucretius. The beams of atomic particles that EMANATE from the bodies of boys and women and attract men to them are an integral part of the nature of things. It is the mentalitly evident in such diverse textsa Lucretius’s poetic treatise On the nature of Things, Martial’s epigrams, and graffiti scrawled on ancient walls that we need to keep in mind when we evaluate the comments of Musonius Rufus, Seneca, and Cicero. These are the words of three philosophers. Cicero expounding on the danger s of love, Senceca inveighing against the corrputions of the world around him, and Musonius arguing that men should engage only in certain kind of sexual relations and only with their wives, the goal being the production of legitimate offspring and not the pursuit of pleasure. These pronouncements tell u something about the world in which these three philosophers who made them lived, and about what men and women in that world were actually doing. Seneca for example is hardly fulminating about imaginary fices) but they tells us even more about Cicero, Seneca, and Musoiuns, and their own philosophical allegiances We have every reason to believe that comments like their rpersented a minoriy opinion. Indeed, the men AGAINST whom Musonius argues, who believed that A MASTER has absolute power to do ANYTHING HE WANTS to his slave, is precisel that man shoes VOICE dominated the public discourse on sexual practice. Moreover, as Winkler (p. 21) trenchangly observers, Seneca’s condemnation of such ‘unnatural’ behaviour as growing hothouse flowers or throwing nightime parties, ‘though articulated as universal, is OBVIOUSLY DIRECTED AT A VERY SMALL AND WEALTHY ELITE – THOSE WHO CAN AFFORD THE SORT OF LUXURIES Seneca wants ‘ALL MANKIND’ to do without”, It is telling, too, that Cicero himself never makes this kind of APPEAL TO NATURA in the SEXUAL INVECTIVE sscattered throughout the speeches he delivered in the public arenas of the courtroom, Senate, or popular assembly (see chapter 5), and that the argument appears NOWEHERE ELSE IN the considerable corpus of Seneca’s moral treatises. Likewise, it is worth noting that Musonius Rufus’s who makes the most extreme case, not only wrote his treatise in GREEK rather than Latin, as if to underscore its distance from he everyday beliefs and practices of Romans, but as a philosopher omitted to stoicis in a way that Cicero and and Seneca are not. As Haexter reminds us, Cicero proposes manydifferent rhetorical and philosophical positions in his speeches, letters, and dialogues, and Seneca’s epistles to Lucilius offer a tentative and experimental mixture of Stoicism and other philosophical schools (many of his earlier letters end with quotations from Epicurus, for example). In any case, Boswell, cp. 130 citing ancient sources claiming that the very founder of stoicism, Zeno, engaged in sexual practices with males (perhaps even exclusively) tnote that many ancient stoics actually seem to have considered the question of sexual praticess between males to e ETHICALLY NEUTRAL. Finally, It is worth noting that both Seneca and Cicero were thought not to have practiced what they prached. In a discussion of how Seneca’s behaviour often stood in contracition to his own teachings, the historian DIO CASSIUS observes that although he married well, Seneca also “takes pleasure in older lads, and teachers Nero do to the same thing, too”. Dio 61 10 4. Tas te aselgeias has praton gamon te epiphanestaton egme kai meikarious exorois exaire kai tauto kai ton Nerona poietin edidaxe. The historian goes on to insutate that Seneca fellated his partners, speculating on the reason why refused to kiss Nero. One might imagine, Dio notes, that this was  because he was gisuted by Nero’s penchant for oral sex. But that makes no sense given Seneca’s own relations with his boyfriends (61  10 5 o gar toi monon an tis hupopteuseien hoti ouk ethele toiouto stoma philein elegxketai ek ton paidikon autou pseudos on).  The younger Pliny (Epist. 7.4) informs us that Cicero addresses a love poem to his faithful slave and companion Tiro. Of course neither of these pieces of information tells us anything about Cicero’s or Seneca’s actual experiences. Cicero’s poem could have been a literary game and the stories a out Seneca that constituted Dio’s source may well have been unfounded gossip (For Cicero and Tiro, see McDermott and Richlin. P. 223, Canatarella p. 103 assumes that they actually ENJOYED A sexual relationship)). On the other hand, is it not impossible that Cicero actually DID experience DESIRE for Tiro and that Seneca DID enjoy the company of MATURE MALE SEXUAL PARTNERS. And abovre all it is important to recognize that later generations of Romans (the younger Pliny and Dio) were willing to IMAGINE THOSE THINGS HAPPENING. Dio’s gossipy remarks and Pliny’s comments on Cicero remind  us of the cultural context in which a philosopher’s allusion to NATURA must be placed.  ( Paolo Casini. Keywords: naturismo, naturalismo, natura, nazione, patto sociale, la legge naturale, l’uomo, contra natura. “antica sapienza italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto sociale --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Casotti: l’implicatura conversazionale del volere – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew    would scorn philosophers who use a verb with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning ‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina gentiliana dell'attualismo.  Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana.  Motivazioni personali, unite all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia” dell'aristotelismo aquinista.  Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità, concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita, incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che consente il passaggio dalla potenza all'atto.  Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna, rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare alle difficoltà del contesto.  Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero,  Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani.  Appello per un "Fascio di educazione Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica,  Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea: il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica»,  Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni»,  Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra C. e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di C., «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica»,  Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni»,  Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale, in « L ' Educazione Nazionale », L ' Idea Nazionale. vedere C., Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola », 1920, nn.   1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare...  Casotti Mario, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923. Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola, Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his "anthropological" writings, he defends personalism against idealism and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that later became more widespread among Italian philosophers.  AQUINO Saggi di filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di Aquino, L'educazione naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi  più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano  lavorare dopo di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico  AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San Tommaso d'Aquino.  Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo.  Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano  lavorare dopo di noi.  Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.  Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active!  Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano.  La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico. Da  quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di speranze e di promesse.  A coloro che nel riprendere il pensiero di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino  Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso problema, colle medesime esigenze.  Il problema, infatti, che San Tommaso affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la chiarezza  desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità, della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna, quel posto di prim'ordine che debbono avere.  Questo breve preambolo occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo «De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno studioso.  Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?» domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. * * *  Posto così, il problema dell' educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine «trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II  Ora, di dottrine che potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica.  Il De Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà poi l'indagine di Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente l'espressione didattica.  Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta, tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa, per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco  devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6].  Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro allo scolaro.  Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della reminiscenza.  Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e  scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III  L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a questa domanda.  Comunque, se circa questo problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con intenti nei due  casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi fondamentali dell'averroismo.  L'averroismo, infatti, qualunque possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...» Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo.  Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal difficoltà  della «comunicazione» fra maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico.  Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna.  Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si  sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro di S. Tommaso. IV  Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie metafisico-cosmologiche.  Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come adombrata e annuvolata, di passare a  risplendere in tutta la sua chiarezza.  Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)].  Difficoltà, si noti bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, «immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie, ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che, nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel 1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro: identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza - numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum «...docens non dicitur transfundere  scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in rapporto fra loro. V  Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali.  Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica.  La dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E,  infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica moderna.  E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni.  A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra  «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam  scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per escogitare.  Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa cavarne fuori che, al massimo, una scala.  Giacché proprio questo è, secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De Mag. Art. I (ad XII. mum) «...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando »].  L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI.  Sia concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di S.  Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le «categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' «io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i «principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale.  Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit].  Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così: «Cum  autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera.  Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto?  Per rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica.  E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del maestro.  In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di numero. VII  Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica alla natura.  «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la natura. Similmente avviene pure  nell'acquisizione della scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze].  Dunque, la somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua?  Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi concetti.  Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una «forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione.  Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono.  Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni  tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no.  È questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita, vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles accipit; quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam quam sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle  cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore.  È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.  L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un fatto  evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione precedente.  E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione.  È questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio.  Ma se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei bisogno di cercarla né di impararla.  Sembra un'oziosa questione di parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina) per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di estendere a una  vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma pura.  E questa non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per doctrinam»].  Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente», sia solo una sfumatura:  anzi, c'è sotto una questione di principio, così importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo.  C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima.  Ora, un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa.  Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa.  Ed ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella  delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione.  Taluno, certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata sull'equivoco.  Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione, anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa, colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e, perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così, affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto «medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo scorso, con tanta efficacia denunciato.  Tra gli sforzi di questa pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato? Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze, 1927)  In due sensi può parlarsi di educazione naturale o soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato, soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti, normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e, viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le specie eucaristiche.  Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi scolari.  Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato.  Cito un solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto.  Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II  Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi.  Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo, ma  respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale nell'educazione. III  Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva.  Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta  canzone, e la gioia e la serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate!  Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV  Finora abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,  sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via.  Ebbene, la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata, come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro» che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche, semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo ripetere altro che parole.  Per togliere questi inconvenienti, la pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo» che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole» ascoltare, nessuna  costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non artisti, ricevono una istruzione difettosa.  Ma non facciamo troppo facile la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è, poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo, troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche, nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate: sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in pratica?  Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e favorevoli condizioni. V  Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi verso il prossimo?  E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari.  Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della  finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo, cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare, pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe peggiore del male.  È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica. In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali.  Ma l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre, nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri, tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI  Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato, l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato, quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità.  Eppure, nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto, meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai abusare l'uomo?  In realtà il genere umano quando spende tante fatiche nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono, secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza quell'equazione misteriosa?  È la forza stessa delle cose, l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È  la razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta.  Ma sono nomi oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà.  La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale:  utile nello stesso senso in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione.  Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della pedagogia.  (Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi.)  Domando scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare  nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario. Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti — forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico.  Ma ecco che mi sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie  alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola universitaria?  Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi, per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti, ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita. Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi, un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra cadranno da sé come vestimenti vuoti.  Che cosa sia in sé un Istituto Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico  che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della meditazione,  «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli.  La gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure necessità del suo  lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire.  Come vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura, l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è  parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi, onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale, anche la scuola  neoumanistica?  La ragione? Ma la ragione sta nello stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè, dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia, esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito, ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista, cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista?  No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito  cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice.  Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni moderne.  Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno per  fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli.  Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione della libertà umana,  la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti “divertimenti”?  Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico, nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? — Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i Gesuiti debbano venir giudicati  esclusivamente in base all'opera dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio, l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare,  quando la burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta ascoltare, è altamente significativo.  Ma è tempo ormai ch'io concluda questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e "filosofie" nelle scuole medie  L'introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa.  È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema filosofico che  della questione stessa sta al fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti — questa dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre superato.  E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante spettacolo.  Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze, la moltitudine.  Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto d'incappare. I.  Cominciamo con l'osservare subito che la questione che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda, invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità, diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno di produrre, nel modo stesso di concepire la religione.  Ma quali sono queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire: e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta.  Ecco dunque le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte; verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte, verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra; verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si capisce, per modo di dire poiché,  chi crede tutti i sistemi filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto, colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o “scolastico”, “tomista” e filosofo.  Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove  della sua asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.  Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie.  E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a memoria un libro.  Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo  scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce.  Ma che cosa fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola, l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare.  Accusa alla quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono d'insistere.  Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché colui che esamina la dottrina  proposta non sia in condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o scettica.  Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la libertà del pensiero umano.  Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il pensiero  sarà addirittura quello di non formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere inattuabile. Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica. Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità delle  filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica, qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di libertà colle quali si presentano al pubblico.  Ma con ciò eccoci ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per forza esser false.  Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a “crearne” delle nuove.  E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è un campo o un orto, bensì un atto  immateriale del pensiero, e in quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo: ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza della verità.  Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria?  La risposta a questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e allora la loro famosa tolleranza e larghezza di  vedute è finita, ed essi sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo, cioè, in ultima analisi, in un sistema solo.  La libertà, dunque, che la filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché, però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere.  Così la storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza sia sempre quella.  Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur questa realtà la sola storia) e  mediante essa vi assumete il diritto di giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono, parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano, come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia scolastica?  Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte, la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così via.  Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e  progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe saputo scoprire.  In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare, senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio, dello scetticismo e dell'eclettismo.  La verità di questa proposizione risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e il  cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci.  Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è  libero di seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze stesse.  Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo.  E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a  “storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia, soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale concepiscono tale rivelazione.  Giacché la differenza fra il pensiero della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di “moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano, lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza, volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile, ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare, per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine, niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito.  Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità e  della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia cattolica  Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita. Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti alla congiura del silenzio!  Noi, per conto nostro, diciamo subito di non credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore.  L'esperienza in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa; ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa, talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza, all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti, ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart, bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita, prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente lievito d'una personalità vivissima,  aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei nuovi tempi.  Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia, delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita.  Si direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo, grande importanza a tutto il complesso delle doti  spirituali che, pur non interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è, secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna, dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia cagione e valore» (p. 14).  Ora, in qual modo realizzare siffatto programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della virtù”, definì or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di tutte le umane passioni  e tendenze sulle cui rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro, ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali. Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle minacce di Don  Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p. 49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare, facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù «umane» e perciò già in sé stesse «passionali».  Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui il  rinvigorimento del corpo non è già la formazione del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina» cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana? «Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa diventi superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio, si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà.  Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i  campi della scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio» pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni » (p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale.  Qualcosa di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce (p. 163). Ciò è quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello» (p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.): talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita.  Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui  nel parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti, oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di partenza” da trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le ragioni.  Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere, come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il  pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo, «come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore» (p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività.  Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se, invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione. Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che cristianesimo e modernità bene intesa  sono in ultima analisi concordi nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero, che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis, potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento, innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare  incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte.  Non è ancora spenta l'eco delle discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo, sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi, a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta cortesia - dalla Rivista romana.  Notano, dunque, «I Diritti della Scuola» che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma «poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse  al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve) dalla lettera dei sacri testi».  Noi non vogliamo rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i «dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo «irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i «sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola».  Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo, assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come «canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le  persone di più difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione. Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo «intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là da venire!  Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo montessoriano.  E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene  l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita.  Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo" condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta, costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo, la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani, le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia, e perciò armonica ai  fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino della Chiesa.  Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse "co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si "tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale, non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia «tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade!  XI suo soggiorno in Italia*    Terminata la sua opera, Schopenhauer non si decise a tornare nel  Nirvana, come torse si sarebbe potuto credere; al contrario senza nem¬  meno aspettare le prove di stampa, egli partì pel paese più bello e più  ottimista che vi sia sotto il sole, per la. véna terra promessa, per il  paese dei paesi, per la bella Italia, Con ragione si è detto che ! abitu¬  dine di vedere la vita in nero, sparisce e sembra innaturale sotto il cielo  splendido d’im paese meridionale. Dintorni poco graziosi spesso di¬  ventano Ja causa d’un falso pessimismo; ma de v ? esser genuino il pes¬  simismo che persiste anche in un ambiente bello ed incantevole. Il fatto  che Schopenhauer non ismani il suo pessimismo è una prova convin¬  cente, se prova ci vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo  pessimismo era piuttosto comprensibile nel freddo settentrione; ma é  un altro conto ritenerla in mi paese ove tutto sorride, ove la natura  stessa c* invita a prendere con leggerezza resistenza ed a gettare lon¬  tano da noi ogni cura, ove Paria stessa respira la leggerezza di cuore,  ove il dolce far niente è il programma di vita degPindigeni,   T resoconti del suo viaggio in Italia sono tutt ? altro che blandi.  Schopenhauer, più si faceva vecchio, pili si rinchiudeva in se stesso,  e non vi sono nè giornali nè lettere che possano colmare questa lacuna  nella sua biografia. D’ora innanzi era il suo espresso desiderio di sfug¬  gire alla pubblicità. Non voglio che la mia vita privata formi mPesea  « per la curiosità fredda e maliziosa del pubblico », così rispose molti  anni più tardi a coloro che lo esortavano a fornire maggiori informa’  zioni su se stesso ai dizionari biografici. I suoi notiziari presero il posto  del giornale, ma siccome contengono piuttosto riflessioni suggerite  dagli avvenimenti senza raccontare .questi, non spargono sugl 5 incidenti  del suo viaggio che poca luce.   Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3 avere scritto una gran¬  d'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il risultato. Non era  tanto indifferente in quanto alla accoglienza della sua opera quanto  voleva far credere.   Il trattato sulla Quadruplice Radice era stato ben accolto dai critiei, -ed. aveva chiamato all 5 autore l’attenzione generale più di quanto  sogliono farlo le dissertazioni universitarie; era giustificabile che spe¬  rasse che la sua opera maggiore dovesse suscitare almeno lo stesso in¬  teresse. Egli corresse le prove di stampa che gii furono mandate ed  a petto k pubblicazione, sfogando intanto i suoi sentimenti in linguag¬  gio poetico.   Unv er schami e Vers e.   A us ] anggehegten, tiefgefuhlten Schmerzen  Wand sich’s einpor aus meinetn innern Herzen,   Es festzuhaHen haMch lang gemngen,   I>och weiss ich, dasz zuletzt es mir gelungen.   Mogi Euch drtim irnrner, wie Ilir wollt, gebar cleri,   Des Werkes Le ben kòimt ihr nìcht gefahrden;   Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini ermehr vernichterq  Ein Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten.   Nel frattempo visitava le principali città <MP Italia settentrionale;  frequentava i musei ed il teatro, continuando a studiare la lingua ita¬  liana die egli già sapeva assai bene. E* in Italia die egli s 5 invaghì cosi  profondamente della musica di Rossini, di cui andava spesso a sentire  le opere. Degli autori italiani egli predilìgeva, -— ed è questo un fatto  abbastanza curioso, — il Petrarca, il poeta di Laura e dell 5 amore.   « Fra tutti gli scrittori italiani, preferisco il mio caro Petrarca.  « Non vi e in tutto il mondo un poeta che lo abbia mai superato nella  « profondità e nell’ardore del sentimento; le sue parole vi vanno dritto  a al cuore. Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi trionfi e le sue can-  a zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed alle orrende contorsioni di  « Dante. Trovo il fiume naturale delle parole, che sgorgano dal cuore,  « molto più opportuno del linguaggio ricercato ed affettato di Dante,  a Petrarca è sempre stato e rimarrà per sempre il poeta del mio cuore.  « Quello che concorre a confermarmi nella mia opinione è il tempo  a presente, a quanto pare, tanto perfetto che osa parlare con disprezzo  a di Petrarca. T T na prova sufficiente sarebbe il confronto di Dante e  « Petrarca nel loro costume intimo e non ricercato, cioè in prosa, eon-  K frontando per esempio i bei libri di Petrarca, ricchi di pensieri e di  « verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu mundi, De rimediu ufrius-  z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed asciutta di Dante ».   Dante coi suoi modi didattici non corrispondeva al gusto rii Scho¬  penhauer che considerava tutto Pinfenio come un’apoteosi della cru¬  deltà. ed il penultimo canto come una glorificazione della mancanza del  sentimento d’onore e di coscienza. Non aveva neppure alcun affetto per  Ariosto e Boccaccio; anzi più volte espresse la sua meraviglia in quanto  alla fama europea di quest’ultimo, il quale dopo tutto non aveva scritto  che Delle ehtonique.s scandaleuse*. Gli piacevano PAlfieri ed il Tasso, ma li considerava come autori tli seeoncVordine; egli non riteneva il  Tasso degno d'essere posto come quarto in una linea coi tre grandi poeti  italiani.   Per quanto riguardava Parte, egli si sentiva maggiormente attirato  dalla scultura e dall'arekitettura che dalla pittura. Ciò non potrebbe  sorprendere e non sarebbe in contraddizione coll 1 indole generale della  sua mente* se la sua intimità con Goethe non lo avesse fatto entrare  nello studio dei colori.   Schopenhauer non volle mai ammettere che i due anni possati in  Italia fossero stati per lui due anni felici, sosteneva, che mentre gli altri  viaggiavano per divertimento, egli lo faceva per raccogliere nuovi ma¬  teriali in appoggio del suo sistema, e nel suo notiziario scrisse has-  stoma di Aristotile :   6 TQ aAuTCtfO orò TU fiSìl.   Però ricordava con piacere questi due anni, dico con piacere e s'in¬  tende fin dove Schopenhauer ammetteva il piacere; negli ultimi giorni  della sua vita non poteva mai menzionare Venezia senza che la sua voce  tremasse, il che prova che Pamore che ivi lo tenne stretto, non era inte¬  ramente dimenticato, sebbene fosse morto. Senza dubbio, la seguente  nota scritta a Bologna in data del 19 novembre 1818 tradisce qualche  contentezza.   « Appunto perchè ogni felicità è negativa, accade che non ce ne  « avvertiamo affatto, quando ci troviamo in uno stato di benessere; la¬  ti sciamo tutto passare dinanzi a noi liscio, e con dolcezza fino a che  tf questo stato è passato. La perdita soltanto* che ci si fa sentire con  « chiarezza, pone in rilievo la felicità, svanita; è allora soltanto che ci  a accorgiamo di ciò che abbiamo trascurato di assicurarci, ed il rimorso  « si aggiunge alla privazione, b   Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia- In quel tempo vi  era anche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili. E J strano che essi  non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel genio di Byron la  più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi sarebbero an¬  dati d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè Leopardi. Un  dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il giovane conte era¬  no confrontati, fu pubblicato nella rivista contemporanea del 1858, e  Schopenhauer non si diede pace prima che non sì fosse assicurato di  averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf azione il trovarsi asso¬  ciato col giovane che egli ammirava così profondamente (ed a cui, dicia¬  molo tra parentesi, Io scrittore De Sanctis, non ha reso giustizia); gran  parte della sua soddisfazione, proveniva vinche dal fatto die egli vedeva  elio la sua filosofia si era fatto strada fino in Italia. Non avveniva spes¬  so che egli fosse contento di quanto sì scriveva sulle sue opere, non tro¬  vava mai che lo avessero letto con sufficiente attenzione; ma quest 1 uo¬  mo, così diceva, lo aveva assorbito in sucóurn et tangm nem .Quando -Schopenhauer arrivò a Venezia per la prima Tolta, e pii  scrisse : « chiunque si trova repenti nani ente trasferito in un contrada  « totalmente straniera, ove prevale un modo di vivere e di parlare dif-  « ferente da quello a cui e pii è abituato, ha il sentimento di chi ina-  « spettata mente ha messo il piede nel F acqua fredda. Egli avverte su-  « bito la differenza di tempera tura, sente una forte influenza che agi-  « sce dal di fuori e che lo rende infelice; egli si trova in un elemento  « estraneo in cui non sa muoversi comodamente, A questo si aggiunga  « che egli si accorge come ogni cosa attira la sua attenzione e che teme  « di essere a ne Ir e gl i osservato da tutti. Ma dal momento che si è eal-  « maio, che ha incominciato ad assorbire la. nuova temperatura e ad  « abituarsi al nuovo ambiente, egli si trova bene come difatti si trova  « un uomo nell* a equa fresca. Egli si è assimilato a!1 J elemento, ed averir  « do perciò cessato di occuparsi della propria persona, rivolge la sua  a attenzione esclusivamente a ciò che lo circonda: ed ora, appunto per-  « che lo contempla con oggettività neutrale, egli si sente superiore al  « suo ambiente come prima se ne sentiva schiacciato,   « Viaggiando le impressioni dlogni genere abbondano, ed il nutria  s mento intellettuale ci viene in tale quantità che non ci rimane tempo  c per la digestione. Ci rincresce che le impressioni le quali si succedono  a rapidamente non possano lasciare una impronta permanente. In real-  tà però avviene qui quello che ci accade quando leggiamo. Quante  «* volte ci lamentiamo di non essere capaci di ritenere la millesima par-  «te di quanto abbiamo letto! W confortante però in ognuno dei due  « casi il sapere che ciò che abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra  « mente un'impressione, prima d'essere dimenticato, impressione che  « concorre a formare e nutrire la mente, mentre ciò che riteniamo a  « memoria serve soltanto a riempire i vuoti della testa con materie che  « ci rimangono sempre estranee, perchè non le abbiamo mai assorbite;  « il recipiente dunque potrebbe anche essere rimasto vuoto come prima. »   Schopenhauer era d’opinione elle, viaggiando, possiamo riconosce-  re quanto areno radicate le opinioni pubbliche e nazionali., e quanto  sia difficile di cambiare il modo di pensare d T un popolo,   « Mentre cerchiamo d'evitare uno scoglio, ne incontriamo un altro;  « mentre fuggiamo i pensieri nazionali di un paese, in un secondo ne  « troviamo degli altri, ma non dei migliori. Il cielo ci liberi da questa  « valle di miseria!   « \ i a gg ian do veci i a m o 1 a v ita u ma n a s ot t o ni olle fori n e dive rs e :  « ed è questo appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma, ving-  « g i a n d o, non v e d i a m o c he il lato esteriore del la v if a u ni a n a ; cioè ne  « scorgiamo soltanto quello che se ne vede generalmente. D'altra parte  « non vediamo mai la vita interiore del popolo, il suo cuore ed il suo  « centro, cioè il campo in cui Vazione del popolo si svolge, in cui il  «suo carattere si manifesta,,., quindi,, viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio dipinto con un orizzonte vasto che abbraccia molte  <i cose, ma che non li a personaggi spiccati. Di lì, nasce pure la stan¬  tìi ehezza del viaggio. »   Schopenhauer studiò profondamente gl’Italiani, i loro costumi e  la loro religione. Di quest’ultima dice:   La religione cattolica è un ordine per ottenere il cielo mendicando,  giacche sarebbe troppo disturbo doverlo guadagnare. I preti sono i me¬  diatori di questa transazione.   « Ogni religione positiva dopo tutto non fa che usurpare il trono  « che per diritto spetta alla filosofia ; i filosofi quindi la coniti attera uno  a sempre, anche se dovessero considerarla come un male neccessario ed  « inevitabile, un appoggio per la debolezza morbosa della maggior pur-  « te degli uomini.   a La nuda verità non ha la forza di frenare le menti rozze e di co¬  te stringerle ad astenersi dal male e dalla crudeltà giacche esse non san¬  ti no afferrare queste verità. Di lì il bisogno di storne, di parabole e di  « dottrine positive. «   In dicembre ièlS la sua grande opera vide la luce per la prima  volta. Schopenhauer ne mandò una copia a Goethe. Poi nella prima¬  vera del 1819, egli si trasferì a Napoli; Goethe accusò ricevuta del do¬  no per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle predilette del vecchio  poeta.   « Goethe ha ricevuto il tuo libro con grande piacere, scrive Adele,  a Egli immediata mente divise V opera voluminosa in due parti e cornili-  « ciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi mandò il biglietto qui unito, di-  « eendomi che egli ti ringraziava molto e credeva che tutto il libro .do-  « vesso esser buono, giacche aveva sempre la fortuna di aprire i libri  « nei posti più notevoli; così egli mi disse d'avere letto le pagine indi-  « caie (pag. 22 e pag. 340 della prima edizione,) ed egli spera di po-  « ferii scrivere quanto prima la sua opinione completa. Intanto egli  « desiderava che io ti dicessi questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi dis-  « se che il di lei padre leggeva il tuo libro con un interesse che lessa  « fino allora non aveva mai osservato in lui. Egli le Ka detto che ora ave-  « va. un divertimento per tutto ranno, giacché intendeva leggere il tuo  libro da capo in fondo e credeva che ciò lo avrebbe occupato per un  « anno. Disse a me ch’egli si sentiva proprio felice di saperti sempre  « a lui devoto, nonostante il vostro disaccordo sulla teoria dei colori.  « Disse pure che nel tuo libro gli piaceva sopra tutto la chiarezza della  « rappresentazione e del linguaggio, sebbene la tua lingua differisce  da quella degli altri e che occorresse prima avvezzarsi a chiamare le  « cose come tu lo vuoi.   « ila, continuò, quando una volta si é pervenuto a queste, allora  « la lettura procede con facilità e comodo. Anche la disposizione della  « materia gli piaceva ; solfante la forma immaneggiabile del libro non  a gli dava pace, e si convinse che F opera dovesse consìstere di due vo-  a fumi* Spero di rivederlo solo ed allora egli mi dirà iorse qualche cosa  « di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il solo autore che Goethe  « legga in questo modo e con tanta serietà* »   Nondimeno Schopenhauer ritenne F opinione che Goethe non lo  legasse con sufficiente attenzione ; che il poeta avesse già speso il po~  co interesse che aveva per le questioni filosofiche*   A Napoli Schopenhauer fu principalmente in rapporto con giovani  inglesi. L’elemento inglese aveva per lui, durante tutta la sua vita, un  fascino speciale; credeva che gl"Inglesi erano quasi giunti ad esse)e  il più gran popolo del mondo, e che soltanto alcuni loro pregiudizi si  opponevano, acciocché infatti lo fossero. La sua cognizione della loro  lingua ed il suo accento erano tanto perfetti che anche gl T Inglesi stessi  per- qualche tempo lo prendevano per un loro cOmpatriftta, un errore  die sempre lo esaltava*   Tutto quanto vide, concorse a confermare ed a sviluppare il suo  sistema filosofico * Rimase specialmente colpito dal quadro di un gio¬  vane artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di questo quadro  illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime che, secondo  il nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé stesso* Il  quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse piange alla Cor¬  te di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie sventure, « Questa  « è Fespressione più alta idi e possa avere la compassione di se stesso. »  Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e forza  dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della bellezza  delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo quinto*  & La ventina e la prima parte della trentina sono per Fintelletto quello  « che è il 'uose di maggio per gii alberi, questi durante la stagione prh  <t maverile emettono soltanto dei bottoni che poi diventano frutti* »  L’esteriore, di Schopenhauer doveva essere caratteristico, ma la sua bel¬  lezza stava nell 9 animo e non nella faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti  anche nella vecchiaia, nella gioventù rischiaravano quella testa poten¬  te col loro sguardo acuto e limpido. Verso quel tempo un vecchio si¬  gnore* a lui perfettamente estraneo, gli si accosto in istrada per dirgli  che egli, Schopenhauer, sarebbe stato un giorno un grand’uomo* An¬  che un Italiano, che pure non lo conosceva, venne da lui e gli disse:  € Signore, lei deve aver fatto qualche grande opera; non so cosa sia,  a ma lo vedo nel suo viso* » Un Francese che alla tal)le cVhote, gli sede¬  va dirimpetto, ad un tratto esclamò: « Je ooudrais savori- ce qu il penr-  « se de nous autres j nous devom par altre hien ■ petit s à ses yeiux ! ?> Un  giovane Inglese rifiutò assolutamente di cambiare posto con le parole:  « Yoglio stare qui, perchè mi piace vedere la sua faccia intelligente. »  Nel riposo egli rassomiglia va a Beethoven; entrambi avevano la  stessa testa quadrata, ma il cranio di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la misura elle ne fu presa dopo la sua morie  e che recai un’idea delle prò pozioni straordinarie eli questa testa, E no¬  tevole la distanza che correva tra un occhio e V altro; egli non poteva  portare occhiali ordinari. Era di statura media, tarchiata e muscolosa ,  aveva le spalle larghe ; In sua bella testa era portata da un collo troppo  breve per esser bello* Capelli biondi e ricci Liti circondavano la sua fron¬  te e cadevano sulle sue spalle; quando era giovane, mustacchi biondi  coprivano la sua bocca ben formata, che coll'accrescersi degli anni  perdette la sua bellezza a misura che perdeva i denti. Il suo naso era  di bellezza speciale e cosi pure le sue piccole mani* Egli stesso faceva  una distinzione fra la fisionomia, intelletuale e morale à- un uomo; cer¬  cava la prima nelPocchio e nella fronte, la seconda nelle forme della  bocca e del mento. Era soddisfatto della sua fisionomia intellettuale,  ma non della sua fisionomia morale* Vestiva sempre bene e con elegan¬  za, il.suo contegno era aristocratico e leggermente altero. Portava Seni¬  li re V abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano sempre dello  stesso taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non pareva mai stra¬  no, talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il popolo in istra¬  da spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo esteriore animato  dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu fatto il suo ri¬  tratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto ci parla  dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni virili.   Velia biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline! tro¬  viamo runica menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a Roma.  Allora era un'epoca di misticismo per Parte e per la religione della  Germania, epoca che produsse nella storia un Biniseli, nell’arte un  Cornelius ed un Qverbeck. I giovani artisti tedeschi, chiamati dal loro  console ad ornare la di lui villa sul monte Pine io, avevano l'abitudine  di riunirsi quotidianamente con certi poeti e giornalisti nel caffè Greco,  diventato il punto d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà. Il poeta  Ruekert ed il novelliere L, Schefer, ottimisti per professione, frequentavano allora quella casa. Molti degli uomini più importanti della Ger¬  mania allora viventi, si trovavano nella eterna città. Schopenhauer,  come gli altri, frequentava il caffè Greco, ma pare che il suo spirito  mefistofelico fosse un elemento disturbatore per i visitatori ordinari  che desideravano che egli si allontanasse* Un giorno egli annunciò alla  società che la nazione tedesca era la più stupida di tutte, ma che era  in un punto a tutte superiore, cioè che era arrivata al pùnto di poter  fare a meno della religione. Questa osservazione suscitò una tempesta  ili disapprovazioni, ed alcune voci gridarono: fuori! alla porta met¬  tetelo fuori ! Dà quel giorno in poi il filosofo evitò il caffè Greco, ina  le sue opinioni sui Tedeschi rimasero inalterate. « La patria tedesca  * in me non si è allevato un patriota », disse un giorno ; e spesso anda dicendo ai suoi compatì lotti a francesi ed a inglesi che egli si vergoigmva di essere tedesco, piaceli è questo popolo era tanto stupido, a Se  « io pensassi così della mia nazione », rispose un Francese, « almeno  « non lo direi. »   « Questo Schopenhauer è un sala miste) (N&rr) insopportabile »,  scrive Bòhmer. « Questi filosofi antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero  « essere tutti quanti rinchiusi pei bene comune, »   Schopenhauer non menava una vita santa ed ascetica, uè pretese  die gli altri lo credessero. Egli sprezzava le donne; considerava ibi more  sessuale come una delle manifestazioni più caratteristiche della volon¬  tà; tuttavia non era dissoluto. Sospirava con Byron : «Più che vedo  « gli uomini meno mi piacciono; tutto sarebbe bene se potessi dire lo  « stesso delle donne. » Egli differiva dagli uomini ordinari, parlando  di ciò che gli altri sopprimono. I suoi discepoli troppo zelanti die cre¬  devano vedere qualcosa di divino in tutte le sue azioni, trassero alla  luce del giorno anche questi suoi discorsi e quindi attirarono sul maestro un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le idee di Schopenhaner coincidevano con questa osservazione di Buddha ; « Non v ? è pas-  « sione più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa nessun’ultra  «merita d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di questa forza,  « per la carne non vi sarebbe più salute! » E di lì nacque senza dubbio il timore di Sdì operili auer « di non poter raggiungere il Nirvana »,  come egli disse con rincrescimento al dottor Grwinner.   In mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza femminile gli  giunse ad un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi e a, in cui era  implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di sua madre, era  minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in Germania; ia  perdita del suo avere era il male che Schopenhauer temeva maggior-  mente., il male che egli sapeva di poter sopportare più difficilmente,  tenuto calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a guada'  gnarsi il. pane; la sua intelligenza non era di quelle che si possono dare  in affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva ereditata gli parve  sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché s ! era tutto dedicato a suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on (lem was Einer hai , egli scrive : Non. istimo indegno della mia penna di raccomandare hi cura  « della fortuna che si è acquistata per lavoro o per eredità. E 5 un van-  « faggio inapprezzabile il possedere fin da principio quanto occorre per  « vivere, sia anche solo e senza famiglia, comodamente ed in vera im.1L  « pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; quèsto stato rende huomn esente ed  « immune dalla privazione e quindi dalla servitù universale, sorte caie ninne dei mortali. Colui soltanto che dal destino fu favorito in questo  « modo è veramente nato uomo libero, giacché soltanto egli è vwr j.arix,  « padrone del suo tempo e delle sue facoltà e può dire ogni mattina ; il  « giorno è mio. Per questa ragione la differenza tra colui che hn mille ai    a scudi d’entrata e colui clie ne La centomila- è molto minore di quella  « che corre tra il primo e colui che non La nulla. La fortuna ereditari si  « acquista un sommo valore, quando cade in mano ad un uomo il quale,   « dotato di capacità intellettuali d’ordine elevato, segue tendenze in-  « compatibili col lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo ricevette da!   « destino un doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma egli coni¬  ti pensa cento volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando cosa  « che nessun altro potrebbe effettuare, e producendo qualcosa pel bene  « ed anzi per V onore comuni, TTn altro in questa condizione privile-  « gìata con tendenze filantropi eh e saprà meritarsi la gratitudine d elee l’umanità. D’altra parte sarà un pigro spregevole colui che si tro¬  te va in possesso d’ una fortuna ereditaria e non cerca in nessun modo,   « neppure acquistando a fondo qualche scienza, di rendersi utile all’umanità, »   a Questo ora- è riservato al più alto grado di perfezione iute Ilei-  ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il genio solo si occupa escili-  sivamente dell’esistenza e della natura delle cose, per poi esprimere  a i suoi concetti profondi, secondo la propria inclinazione, per mezzo  <* dell’arte, della poesia e della filosofia. Pei uno spirito di questo ge-  « nere il commercio non interrotto con sé stesso, co’ suoi pensieri e colle  « sue opere è un bisogno urgente. Ad esso è cara la. solitudine, e l’ozio è il suo bene maggiore; il resto non gli è indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di tal uomo soltanto possiamo dire con ragione che  « abbia in sé stesso il suo punto di gravità. Cosi si spiega perchè queste  « persone tanto rare, anche se hanno il miglior carattere del mondo,  « non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel bene comune quella  a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono tanti altri; giacche  « dopo tutto possono consolarsi d’ogin cosa finché hanno sé stessi* In  « loro vive un elemento d'isolazione tanto più attivo quanto meno gli  «altri possano dar loro soddisfazione; questi altri uomini, essi non li  « considerano interamente come loro pan; e dal momento che corniti-  « ciano a vedere che tutto a loro è eterogeneo, prendono l’abitudine di  « camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi fossero esseri da loro  « diversi; nei loro pensieri ne parlano come di terze persone, dicendo:  « essi, loro , e mai noi. « Tln uomo munito di questa ricchezza interiore non chiede al mondo esterno nulla, all* infuori d'un dono negativo, cioè la libertà di svilappare e di migliorare le sue facoltà intellettuali, di godere la sua  « ricchezza interiore, vale a dire di essere interamente a sé in ogni gioì « no. in ogni ora e durante tutta la sua vita. Quando un uomo è desti-  « nato a lasciare l’impronta del suo intelletto all’intera razza umana,  « egli non può conoscere che una sola gioia, cioè quella di vedere le  « sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di compiere l’opera  e sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito. Ogni altra, cosa  « è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i tempi le menti più  *; elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E ozio, ed il valore di  « quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo stesso. Volentieri Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la  libertà è un cordiale più fortificante del Tokay,   Pieno dei più cupi presentimenti egli si portò con fretta in  Germania, (tra zi e alla sua energia e alla siili diffidenza d ogni prò Fessio-  nej riuscì a salvare la maggior parte della propria sostanza. Sua in mire  non volle prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe finale essa  ed Adele rimasero quasi senza un centesimo,   Questo incidente dimostra die Schopenhauer non era filosofo (/truche  e poco pratico; egli certamente non avrebbe inciampalo, guardando cri  ammirando le stelle ; al genio egli univa il senso pratico, una combina¬  zione molto rara, la cui origine egli faceva risalire a suo padre nego¬  ziante. Ed è questa qualità che fa di Schopenhauer il vero filosofo pei  bisogni d’ogrii giorno, lasciando da parte il -suo pessimismo. Egli aveva  vissuto nel mondo e non era uno di quegli studiosi che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni e le richieste del mondo i  suoi aforismi ed assiomi non sono troppo elevati per essere messi in  pratica s oltreché sono esposti in linguaggio chiaro ed intelligibile ed  esprimono spesso le percezioni d’ogni mente che pensa.   Though man a tlilnkmg being is ci e fine d,   Few use thè great prerogative oi minti;   How few thiiik jusUy oì thè tliiriking few;   II ow manv n e ver inmk, who think they do.   Sfortunata incute il loro numero è infinito ed a loro non occorre  nè filosofo, nè poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella vita una  guida sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate si tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die welt as will –volere – filosofia fascista  -- la volonta di potere, un invento della sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Castelli   

 

 

Grice e Castrucci: l’implicatura conversazionale del guerriero indo-germanico -- sul conferimento di valore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monterosso al Mare). Filosofo italiano. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi, laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.  I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo, le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. C. ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso della sua ricerca  ha approfondito in particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”, “forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione, o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi della cultura del primo Novecento.  Accade in questo quadro che il primato classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma. Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro voci, che C. analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del diritto.  Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono infine riconoscere, secondo C., le linee di un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.  L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di C., la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto.  Hanno suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno col quale si riferiva a figure storiche naziste come Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di C. "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena Francesco Frati ha preso le distanze da C., annunciando di aver "dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la sospensione, C. non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso, mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè); Considerazioni epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Schmitt, Torino, Giappichelli); Hume e la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto, Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli 101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo, Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni in Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes, C., Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale, C., Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica, Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento, Milano, Giuffrè);  Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).  HOMO ABSCONDITUS  L’IDEOLOGIA TRI PARTITA  DEGLI INDOEUROPEI  il Cerchio   Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA DEGLI  INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli studi  di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle anti¬  che civiltà euro-asiatiche.   La struttura fondamentale del pensiero religioso e sociale delle popolazioni  uscite dalla comune radice indoeuro¬  pea. dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in Sacerdoti. Guerrieri e  Contadini che è presente nelle origini  di Roma così come nei miti iranici,  germanici e celti, si rivela essere lo  specchio di un'armonia divina, in cui  gli stessi dèi sono così suddivisi, clas¬  sificati e diversamente adorati.   È la dimostrazione di come, nelle ci¬  viltà tradizionali, anche l'aspetto sociale e politico dipenda radicalmente  dalla dimensione mitico-religiosa. e il  mondo del divino diviene l’archetipo  che dà forma a tutta la società degli    uomini.  DUMÉZIL è  una figura fondamentale nel panorama  culturale europeo.   Filologo e storico, nel ‘900 ha riav¬  viato gli studi attorno alla civiltà indoeuropea nelle grandi civiltà precristiane: Roma. l'India. l'Iran, la Grecia,  le popolazioni celtiche e germaniche.  Ha lasciato una bibliografia sterminata,  solo parzialmente tradotta in italiano, fra  cui ricordiamo almeno La religione ro¬  mana arcaica, Gli Dèi dei Germani,  Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli Indoeuropei.  HOMO ABSCONDITUS  Dumézil   L’ideologia tripartita  degli Indoeuropei   Con un saggio introduttivo di  RlES il Cerchio Iniziative editoriali  L'idéologie tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di Mera.  Walters Art Museum, Baltimora.  II Cerchio Srl La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo  L’opera magistrale di Dumézil. Calmette rinvenne i primi due  Li bri dei Veda, u n documento coni p letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella Biblioteca Reale di Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala, Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza  di una lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della riscoperta del pensiero indoeuropeo.  Il primo dossier indoeuropeo   Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di com¬  piere nuove scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti  dell’antica mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione  dei Germani al Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare  alle origini spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolar¬  mente due pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la  celebre opera di  Creuzer Simbolik undMvlhologie  der altea Vòfker , tradotto in francese nel 1825; infine nel 1810 J.J.  Gòrres pubblicò il suo Mythengeschichle der asiatischen Welt, in cui questo precursore del romanticismo religioso cercò di d imostrare che i  miti dell’India, dell’Iran e della Grecia veicolavano una dottrina comune su Dio, l’Anima e l’immortalità.   Sulla scia dei loro maestri i mitografi romantici si lanciarono  alla ricerca delle prime idee religiose dell’infanzia umana. Oltre a ciò  questa corrente si occupò dell’espressione e delle modalità di trasmis¬  sione del messaggio religioso sin dalle origini dell’umanità.   A questa corrente romantica si oppose la ricerca storica e filologica, rappresentata da Miiller, da Bopp, da Chézy e da tutta la linea degli specialisti in filologia comparata che studiarono scientificamente i testi  dei Veda e dell’Avesta per familiarizzarsi col pensiero dell’India e  dell’Iran antichi. Tra questi ricercatori Miiller occupa un posto di primaria importanza. Specializzatosi in sanscrito, in  grammatica comparata ed in filosofia del mito ad Oxford, istituì una  Cattedra divenuta celebre: egli credette che la filologia comparata fos se la chiave che avrebbe permesso di aprire le porte della storia delle  religioni. Ai suoi occhi la lingua è un testimone autentico del pensiero.  Miiller sostenne che in origine l’uomo ha agito, e per descrivere i suoi  atti inventò il linguaggio. Da allora i miti non sono altro che la personi¬  ficazione degli oggetti e delle azioni che 1 ’uomo ha dovuto esprimere e  descrivere.   Continuando le sue ricerche in direzione delle origini, Miiller  tradusse i Veda, testo in cui credeva di trovare il primo pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli antichi Ariani. Così secon¬  do il nostro Autore i poemi vedici sarebbero la fonte del pensiero religioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma tra le ricerche di  Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred Books of thè  Easl (che potè terminare prima della propria morte, la¬  sciando così agli studiosi occidentali una vera summa dei libri sacri  dell’antica Asia.  Il dossier indoeuropeo del XIX secolo è già abbastanza ricco:  scoperta della corrispondenze all’interno del vocabolario delle lingue  indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una cultura arcaica ariana come pure di una civiltà comune alle diverse popolazioni. Frazer tentò d’intraprendere un vasto studio comparato at¬  torno al mito romano della morte rituale ed al mito nordico del dio  Balder. Tutta la sua opera, The Golden Bough cerca di delineare una sintesi di questa mitologia, ma le sue conclusio¬  ni sono deludenti.   Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il metodo frazeriano, Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra per volgersi verso la linguistica e la filologia comparata. Le sue guide furono A.  Meillet e J. Vendryes. In un articolo intitolato Les correspondances de  vocabulaire enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique (in «Mémoires de  la Société Linguistique»), Vendryes ha sottoli¬  neato le corrispondenze esistenti tra parole indo-iraniche da una parte  ed italo-celtiche dall’altra. Si tratta di termini relativi al culto, al sacrificio ed alla religione, c vi sono anche parole mistiche relative all’effi¬  cacia degli atti sacri, alla purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’of¬  ferta fatta agli dèi, all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla  protezione divina ed alla santità. Questa scoperta fu molto importante,  poiché dimostra l’esistenza di una comunanza di termini religiosi  presso i popoli che in seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici,  gli Italici ed i Celti. La permanenza di questo vocabolario religioso  alle due estremità del mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella  Gallia ed in Italia, è un dato molto significativo, benché la scomparsa  di questo vocabolario presso popoli come i Germani e gli Scandinavi  non abbia mancato di incuriosire Vendryes. Riflettendo, egli ha consta¬  tato che questi termini religiosi si sono mantenuti presso quei popoli clic  disponevano di collegi sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi, il Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e  trasmettere questo vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi  sacri ed alle preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa  c di una fonte importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il  mondo indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic  veicolava grazie ad un linguaggio comune.   3. La scoperta dell’eredità indoeuropea   Alla luce delle ricerche dì Vendryes, Dumézil ha compreso  quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al termine di vent’anni di studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di penetrare  gli arcani del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La pubblicazio¬  ne de L'idéologie tripartie des Indo-Européens è il compimento di una lunga marcia ed il punto di partenza per tutte le scoperte  .successive. L’esame del problema flamen-brahman c dei flamini  maggiori a Roma condusse Dumézil ad una conclusione decisiva:   «/ più antichi Romani, gli Umbri, avevano portato con toro in  Italia la stessa concezione conosciuta dagli Indo-Iranici e su cui noto¬  riamente gli Indiani avevano fondato il loro ordine sociale »'   Era la scoperta e la messa a fuoco di un’eredità indoeuropea, di  una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla sommità della quale si  trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita dalla forza fisica che  s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si situa la fecondi-  tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza ma indispensabile al  loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa griglia di lettura lo  studioso francese si c avventurato nello studio di tutta la documenta¬  zione disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui oggetto c il  dato indoeuropeo.   Durante il III c II millennio a.C. delle bande di conquistatori si  spostarono verso l’Atlantico, il Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate  erano fatte di diversi dialetti provenienti da una lingua comune, il che  suppone un fondo intellettuale e morale identico, ed un minimo di civiltà comune. Popoli senza scrittura, gli Indoeuropei hanno lasciato  pochi documenti. Solo gli Hittiti, stabilitisi in Anatolia all’inizio del II  millennio a.C., hanno adottato una scrittura cuneiforme che consentì  loro di conservare degli archivi. Ma ciò che c notevole c la persistenza  del vocabolario religioso legato all’organizzazione sociale, alle prati¬  che cultuali ed ai comportamenti religiosi. Parecchi fatti presuppon¬  gono l’esistenza di una religione che rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo, una concezione dell’origine, del  presente c del futuro. DUMÉZIL, Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les  épopees despeuple indo-européens, Gallimard, Paris 1968, p. 15 (Trad.  italiana, Einaudi, Torino 1982 - NdT)   Volendo spiegare quest’eredità e la sua struttura, Dumézil ha  elaborato il proprio metodo comparativo, che lui stesso chiama «genetico)}. La prima fase del lavoro consiste nel mettere in evidenza delle  corrispondenze precise e sistematiche, che permettano di tracciare  uno schema del rituale: miti, riti, significati logici ed articolazioni essenziali. Questo schema viene proiettato nella preistoria, al fine di  comprendere la curva dell’evoluzione religiosa. Possedendo delle  corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo storico delle civiltà e lo storico delle religioni procedono per induzione in direzione  delle origini. Utilizzando i dati dell’archeologia, della mitologia, della  filologia, della sociologia, della liturgia e della teologia arcaica, lo storico giunge a comprendere le grandi linee del pensiero di questi popoli  e la loro evoluzione, sino alle soglie della storia. Grazie a questo lavoro lungo ed arduo si è riusciti a stabilire un’archeologia del comporta¬  mento e delle rappresentazioni.   Dumézil non ha preteso di resuscitare la religione degli  Indoeuropei come venne vissuta nei tempi preistorici. Si è accontentato  piuttosto di delineare lo schema concettuale delle società collegate tra  loro nello sviluppo della storia, e si è servito di questi schemi per giun¬  gere a spiegare i testi ed i fatti che resistevano ad ogni spiegazione.   Nelle civiltà indoeuropee il nostro autore trova una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono queste i tre varna dell’India: i  brdhmana, sacerdoti incaricati del sacrificio e custodi della scienza  sacra; gli ksatriya, guerrieri incaricati della protezione del popolo; i  vaisya, produttori dei beni materiali, del nutrimento. Secondo il  Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre «caste» sono molto antiche. In Iran  l 'Avesta menziona tre gruppi di uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guer¬  rieri, i radaci.star montatori di carri; gli agricoltori-allevatori, chiamati vàstryò.fsuycmt. Una struttura identica ha lasciato tracce presso gli  Sciti ed i loro discendenti, gli Osseti del Caucaso, e presso i Celti ed i  loro druidi, la loro aristocrazia militare ed i loro boairig, gli allevatori  DUMÉZIL, L ’heritage des indo-curopéens à Rome, Gallimard, Paris  di buoi. L’analisi delle origini di Roma condotta da Dumézil si è riveata particolarmente illuminante.   Queste tre funzioni sono attività fondamentali e indispensabili  per la vita normale della comunità. La prima funzione, quella del sa¬  cro, regola i rapporti degli uomini fra loro e sotto la garanzia degli dèi,  determina il potere del re e traccia i limiti della scienza, inseparabile  dalla manipolazione delle cose sacre. La seconda funzione, quella re¬  lativa alla forza fisica, interviene nella conquista, nell’organizzazione  della società e nella sua difesa. La terza ricopre un vasto ambito, quel¬  lo della sussistenza degli uomini e della conservazione della società:  fecondità animale ed umana, nutrimento, ricchezza e salute. Dumézil  ha dimostrato che la società indoeuropea era governata in profondità  grazie ad una mentalità fondata su una struttura trifunzionale.  La teologia si trova al centro del mondo indoeuropeo. Una delle  grandi prove di ciò è la lista degli dèi ariani di Mitanni trovata su una  tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa, capitale dell’impero hittita.  Scoperta nel 1907, questa tavoletta contiene il testo di un trattato concluso nel 1380 a.C. tra il re hittita Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della loro alleanza ognuno dei re invo¬  ca i propri dèi: il re di Mitanni invoca gli dèi considerati i protettori  della società ariana: Mithra-Varuna, India e i Nasatya. Sono gli dèi  delle tre funzioni che ritroviamo in India ed in Iran. In quest’ultimo  paese è la riforma di Zarathustra e la formulazione delle sei entità divi¬  ne - gli Immortali Benefici - che illustra in maniera illuminante questa  teologia strutturata su tre piani ed articolata in tre funzioni.   Dai Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto all’Ita¬  lia ove ha rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio) in  Umbria ed a Roma la triade precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus.   Questi dati indicano chiaramente che l’ideologia è correlata ad  una teologia delle tre funzioni. Nell’India vedica ciò comporta  un’associazione di tre coppie di dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi Mitra  e Varuna, signori del primo livello, si dividono la sovranità di questo  mondo e dell’altro: Indra, scortato dai Marut, un battaglione di giova¬  ni guerrieri, proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin  sono distributori di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armen¬  ti; si tratta dunque di una teologia tripartita.   Il documento di Hattusadel 1380 a.C. ci mostra che questa teo¬  logia è anteriore alla redazione dei Veda e che fa parte della tradizione  ariana arcaica; d’altra parte, la presenza dello schema trifunzionale  nella teologia di Zarathustra ed il suo riflesso sugli «Arcangeli» raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda conferma l’attacca¬  mento ad una struttura di pensiero ariano sia presso i sacerdoti che i  popoli dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si rinviene anche in  Italia, presso i Celti, i Germani e gli Scandinavi.   Conclusioni   E stato necessario tutto il XIX secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c stato quello di aver consa¬  crato un 'intera vita all’interpretazione di questa documentazione. Egli  ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr c di James Frazer:  una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al dominio del culto  e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del vocabolario del sa¬  cro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli italo-ccltici dall’al¬  tra, hanno fornito allo studioso l’idea di studiare più a fondo i paralleli  attorno alle divinità ed ai sacerdoti, poiché questi popoli sono i soli tra  gli indoeuropei ad aver conservato per molti secoli i loro collegi sacerdotali.   Questa nuova via fu illuminante, poiché ha condotto alla sco¬  perta di un’eredità indoeuropea ancora visibile agli inizi della storia  dei popoli italici, celtici, iranici cd indiani. L’assenza di vestigia ar¬  cheologiche concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un meto¬  do comparativo genetico fondato sull’archeologia delle rappresenta¬  zioni c del comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce  dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio  egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -  della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale  che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei  della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:  classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori.     Mezzo secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa  visione nuova del mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle  vestigia della civiltà e della religione indoeuropea e di far indietreg¬  giare di più d’un millennio i lempora ignota.   Julien Ries  Università di Louvaìn-la-Neuve  Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà menzione  de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni, della  loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo qui im¬  piegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non interessa  molto i problemi qui posti. La «civiltà indoeuropea» che noi conside¬  reremo è quella dello spirito.   Al pari degli Indiani vedici, come ci vengono presentati dai loro  inni, gli Indoeuropei non furono uomini senza riflessione e senza im¬  maginazione, tutt’altro. Esattamente da vent’anni ormai la comparazione delle più antiche tradizioni, dei diversi popoli parlanti lingue in¬  doeuropee, ha rivelato un fondo considerevole di elementi comuni,  elementi non isolati ma organizzati in strutture complesse delle quali  non ci è offerto un equivalente in altri popoli del mondo antico.  L'esposizione, che ci si appresta a leggere, è consacrata alla più importante di queste strutture.   L’obiettivo essenziale è quello di guidare lo studente, tramite  una serie di riassunti ordinati e consequenziali, attraverso una mole di  argomenti poco agevoli a causa della loro eterogeneità e del loro frazionamento.   Nello stesso tempo si vorrebbe fornire ai lettori già informati  una prima e provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo un ordine ma  una messa a fuoco alla correlazione generale che solo uno sguardo  d’insieme può imporre ai risultati parziali.   Un problema che per anni è stato capitale e in primo piano - penso al valore trifunzionale delle tre tribù romane primitive - si trova qui  limitato in un secondo livello; al contrario, le numerose applicazioni ideologiche delle tre funzioni, le cui segnalazioni si trovano disperse  nelle pubblicazioni più svariate, acquisteranno ora, io spero, potenza  grazie ad un parallelismo che farà risaltare il loro semplice riavvicina¬  mento.   Questo doppio disegno non prevederànote a piè di pagina: si è  preferito costruire una sorta di commentario bibliografico distribuito  secondo i paragrafi del libro, indicando i testi affinché ognuno riepilo¬  ghi o perfezioni a proprio piacimento; oppure segnando c datando su  ogni punto importante i progressi o le svolte della ricerca; o ancora,  rinviando ad altri paragrafi per segnalare correlazioni che non avrebbero potuto ingombrare l’esposizione discorsiva iniziale.   Non si è tenuto conto che dell’opera principale dell’autore e di  un certo numero di colleghi francesi e stranieri che, pur senza voler  formare una scuola, si dedicano da più o meno tempo alle stesse mate¬  rie con metodi simili e che si tengono costantemente in contatto tra  loro.   Altre visioni sul pensiero degli indoeuropei, incompatibili con  questa, non saranno qui esaminate, non per disprezzo ma perché le di¬  mensioni del presente libro sono ristrette e l’intento è costruttivo e non  critico.   Tuttavia, nelle note finali si troveranno riferimenti a numerose  discussioni.   Il mio caro collega Renard mi ha permesso di presentare  nella collezione Latomus, poco tempo dopo Les Déesses latines, que¬  sta nuova esposizione in cui il popolo romano non interviene che prò  virili parte. Egli ha così voluto confermare, sensibilmente ai nostri  studi, cd io lo ringrazio, la necessaria alleanza tra studi classici e indoeuropei, tra metodi filologici e comparativi, che ho sempre invocato  con augurio.   Uppsala. Parigi. Le tre funzioni sociali e cosmiche    1. Le classi sociali in India   Uno dei tratti più sorprendenti delle società indiane post-rgve-  diche è la loro divisione sistematica in quattro «classi», dette in san¬  scrito i quattro «colori», varna, le prime tre delle quali benché diverse  sono pure perché propriamente arya, mentre la quarta, formala indub¬  biamente dai vinti della conquista arya, è sottomessa alle altre tre ed è  quindi irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe eterogenea  non si Lralterà qui ulteriormente.   I doveri di ognuna delle tre classi arya servono per definirle: i  brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano la scienza sacra e cele¬  brano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i guerrieri, proteggono il po¬  polo con la loro forza e con le loro armi; ai vaisya è affidato l’alle¬  vamento e l’aratura, il commercio e più in generale la produzione dei  beni materiali.   Si costituisce così una società completa e armonica presieduta  da un personaggio a parte, il re, rdjan, generalmente nato e qualitativa¬  mente estratto dal secondo livello.   Questi gruppi funzionali e gerarchizzati sono conchiusi tutti su  loro stessi in base all’ereditarietà, all’endogamia e a un codice rigoro¬  so d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi è dubbio che il sistema non sia una creazione propriamente indiana posteriore alla maggior parte del Riveda-, i nomi delle classi non sono menzionati  chiaramente che nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale, nel X  libro della raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una tale crea¬  zione non è nata dal nulla, bensì da un irrigidimento di una dottrina e di  una pratica sociale preesistente. Nel 1940 uno studioso indiano, V.M.  Apte, fece una collezione dimostrativa dei lesti dei primi nove libri del  Riveda (principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come sin dai  tempi della redazione di questi inni la società fosse pensata composta  da sacerdoti, guerrieri e allevatori e che se questi gruppi non erano an¬  cora designati dai nomi di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya (sostanti¬  vi astratti, nomi di nozioni di cui i nomi di questi uomini non sono che i  derivati) erano già composti in un sistema gerarchico che definiva di¬  stributivamente i principi delle tre attività. Brc'ihmun (al neutro)  «scienza e utilizzazione delle correlazioni mistiche tra le parti del rea¬  le visibile o invisibile», kyatrei «potenza», vis «contadinanza» o «habi¬  tat organizzalo» (la parola c apparentala al latino vTcus e al greco  (w)oùco<;), al plurale visuh «insieme del popolo nel suo raggruppa¬  mento sociale e locale».   È impossibile determinare in quale misura la pratica si confor¬  masse a questa struttura teorica: vi era forse una parte più o meno con¬  siderevole della società che indifferenziata o altrimenti classificata  sfuggiva a QUESTA TRIPARTIZIONE? L’ereditarietà all’interno di ciascuna  classe non era forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale  più flessibile c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente  ci è accessibile solo la teoria.   2. Le classi sociali avestiche   Da un quarto di secolo, confermando le osservazioni di F. Spie-  gel, di E. Benvenisle e di me stesso, abbiamo sostenuto che almeno  nella sua forma ideologica la tripartizione sociale era una concezione  già acquisita prima della divisione degli «Indo-Iranici» in Indiani da  una parte ed Iranici dall’altra.   In diversi passaggi VA vesta menziona i componenti della socie¬  tà come gruppi di uomini o di classi (designate da una parola che si ri¬  ferisce al colore, pistra): i sacerdoti, àBuurvan o uBravun (cf. uno dei  sacerdoti vedici, Vdtharvan), i guerrieri, luBciè.star («guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto del dio guerriero Indra) e gli agri¬  coltori-allevatori, vàstryó.fsuyant.   Un solo passaggio avestico e più notoriamente i testi palliavi,  pongono come quarto termine alla base di questa gerarchia, gli artigia¬  ni, huiti, altri indizi (come il fatto che raggruppamenti triplici di nozio¬  ni sono talvolta messi maldestramente in rapporto con le quattro clas¬  si, cf. SBE, V, p. 357) ci portano a considerarla una aggiunta a un  antico sistema ternario.   Nel X secolo della nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele  testimone della tradizione, racconta come il favoloso re Jamsed (lo  Yima Xsaéla dell’A vesta) istituì gerarchicamente queste classi: se¬  parò inizialmente dal resto del popolo gli *asravctn «assegnando loro  le montagne per celebrarvi il loro culto, per consacrarsi al servizio di¬  vino e restare nella luminosa dimora »; gli *artesfar, posti dall’altra  parte, «combattono come dei leoni, brillano alla testa delle armate e  delle province, grazie a loro il trono regale è protetto e la gloria del  valore è mantenuta »; quanto ai *vùstryós, la terza classe, « loro stessi  arano, piantano e raccolgono; di ciò che mangiano nessuno li rimpro¬  vera, non sono servi benché vestiti di stracci e il loro orecchio è sordo  alla calunnia».   A differenza dell’India le società iraniche non hanno irrigidito  questa concezione in un regime castale: esso sembra essere rimasto un  modello, un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed enunciare  l’essenzialità dell’argomento sociale. Dal punto di vista della ideolo¬  gia in cui noi ci poniamo, questo è sufficiente. Un ramo aberrante della famiglia iranica, molto importante poi¬  ché si è sviluppato non in Iran ma a nord del Mar Nero, fuori dalla mor¬  sa degli imperi, iranici o altri, che si sono succeduti nel Vicino Orien¬  te, testimonianello stesso senso: sono gli Sciti - i cui costumi insieme a  molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e a qualche altro autore  antico - la cui lingua e tradizione si è mantenuta sino ai nostri giorni  grazie a un piccolo popolo del Caucaso centrale, originale e pieno di  vitalità, gli Osseti.   Secondo Erodoto (IV, 5-6) ecco come gli Sciti raccontano  l’origine della loro nazione:    17     «Il primo uomo che comparve nel loro paese, prima di allora  deserto, si chiamava Targitaos, che si diceva figlio di Zeus e di una fi¬  glia del fiume Boriysthene (il Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre fi¬  gli, Lipoxais (variante Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais.  Quando erano in vita caddero dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti  d’oro: un carro, un giogo, un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi  t/uyòv mi cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa vista il più anziano si af¬  frettò a prenderli ma quando arrivò l ’oro si mise a bruciare. Così si ri¬  tirò e il secondo si fece avanti ma senza migliore successo. Avendo i  primi due rinunciato all 'oro bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro si  spense. Lo prese con sé e i suoi due fratelli, davanti a questo segno,  abbandonarono la regalità interamente all'ultimogenito. Da Lipoxa¬  is sono nati quegli Sciti che sono chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh-  atai; da Arpoxais quelle dette Katiaroi e Traspies (variante: Trapies,  Trapioi) e in ultimo, dal re, quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si  chiamano Skolotoi, dal nome del loro re »   Mi sembra certo che bisogna, al pari di E. Benveniste, rendere  yévoq con «tribù». Gli Sciti contano quattro tribù, una delle quali è la  tribù capo. Ma tutte hanno realmente o idealmente la stessa struttura: è  chiaro infatti che questi quattro oggetti si riferiscono alle tre attività  sociali degli Indiani e degli «Iranici deH’Iran»; il carro e il giogo (E.  Benveniste ha analizzato un composto avestico che associa queste due  parti della meccanica dell’aratura) evocano l’agricoltura; l’ascia era  con l’arco l’arma nazionale degli Sciti; altre tradizioni scitiche conser¬  vate da Erodoto, come pure l’analogia coi dati indo-iranici conosciuti,  incoraggiano a vedere nella coppa lo strumento e il simbolo delle of¬  ferte cultuali e delle bevande sacre.   La forma ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà alla  tradizione, conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli amba¬  sciatori degli Sciti che cercavano di convincere Alessandro Magno a  non attaccarli:   «Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per buoi, un  carro, una lancia, una freccia e una coppa (iugum bovum, aratrum,  hasta, sagitta et patera). Ce ne serviamo con i nostri amici e contro i  nostri nemici. Ai nostri amici doniamo i frutti della terra che ci procu-    18     ra il lavoro dei buoi; con essi offriamo agli dèi libagioni di vino; quan¬  to ai nostri nemici, li attacchiamo da lontano con la freccia e da vicino  con la lancia».   4. La famiglia degli eroi Narti   È interessante vedere sopravvivere questa struttura ideologica  della società nell’epopea popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n  frammenti ma in numerose varianti da circa un secolo e che una gran¬  de impresa folklorica russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistema¬  ticamente raccolto. Gli Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i  Narti, erano divisi essenzialmente in tre famiglie.   «/ Boriatee - dice una tradizione pubblicata da S. Tuganov nel  1925 - erano ricchi in armenti; gli Alcegatce erano forti per intelligen¬  za; gli /Exscertcegkatce si distinguevano per eroismo e vigore ed erano  forti per i loro uomini».   I dettagli del racconto che giustappongono od oppongono a due  a due queste famiglie, soprattutto nella grande collezione degli anni  ’40, confermano pienamente queste definizioni.   II carattere «intellettuale» degli Alaegatae riveste una forma ar¬  caica, non appaiono che in circostanze uniche ma frequenti: c nella  loro casa che hanno luogo le solenni bevute dei Narti in cui si produco¬  no le meraviglie di una Coppa magica detta la «Rivelatrice dei Narti».   Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto, è ri¬  marchevole che il loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t)  «bravura», che è, con le alterazioni fonetiche previste nelle parlate sci¬  tiche, la stessa parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico, come abbia¬  mo visto, del fondamento della classe guerriera.   I Boriala; e il principale tra essi, Burafscrnyg, sono costante-  mente e caricaturalmente i ricchi, con tutti i rischi e i difetti della ric¬  chezza e in più, in opposizione ai poco numerosi vExsaertaegkatae, sono  una moltitudine di uomini.   5. Gli Indoeuropei e la tripartizione sociale   Riconosciuta così come retaggio comune indo-iranico, questa  dottrina tripartita della vita sociale è stata il punto di partenza di  un'inchiesta che prosegue da più di vent’anni e che ha portato a due risultati complementari che possono riassumersi in questi termini: 1) al  di fuori degli Indo-Iranici i popoli indoeuropei conosciuti in età antica  o praticavano realmente una divisione di questo tipo oppure, nelle leg¬  gende in cui spiegano le proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti  «componenti» iniziali fra le tre categorie di questa stessa divisione: 2)  nel mondo antico, dal paese dei Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Li¬  bia e dall’Arabia agli Iper borei, nessun popolo non indoeuropeo ha  esplicitato praticamente o idealmente una tale struttura o se l’ha fatto è  stalo dopo un contatto preciso, localizzabile c databile, che ha avuto  con un popolo indoeuropeo. Ecco qualche esempio a sostegno di que¬  sta proposizione. Il caso più completo è quello dei più occidentali tra gli Indoeu¬  ropei, i Celti e gli Italici, il che non è sorprendente una volta che si c  prestata attenzione (J. Vendryes, 1918) alle numerose corrispondenze  che esistono nel vocabolario della religione, dell’amministrazione e  del diritto, tra le lingue indo-iraniche da una parte e quelle ilalo-celli-  che dall’altra.   Se si ordinano i documenti che descrivono lo stato sociale della  Gallia pagana decadente conquistala da Cesare, insieme ai testi che ci  informano sull’Irlanda pocoprima della sua conversione al cristiane¬  simo, ci appare sotto il *rig (l’esalto equivalente fonetico del sanscrito  rcij- o del latino réf*-), un tipo di società così costituita:   1) Al di sopra di tulli c forte oltre ogni limile, quasi super-nazio¬  nale come la classe dei brahmani, vi c la classe dei clruicli (*dru-uid),  cioè dei sapienti, sacerdoti, giuristi, depositari della tradizione.   2) Segue poi l’aristocrazia militare, unica proprietaria del suo¬  lo, \a flciith irlandese (cf. il gallico vlata- c il tedesco Gewcdt), propria¬  mente la «potenza», esatto equivalente semantico del sanscrito ksatrà,  essenza della funzione guerriera.   3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini liberi ( ciirif.;)  che si definiscono solamente come possessori di vacche ( bó). Non è  sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R. Thurney-  scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che questa ul¬  tima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che designa lutti i  membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono protetti dalla legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle assemblee - airecht - e  ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato in -k di una parola impa¬  rentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito city a, àrya\ antico-persiano  ariya, avestico airya; osseto Iceg «uomo», da *arya-ka-). Ma poco im¬  porta: il quadro tripartito celtico ricopre esattamente lo schema reale o  ideale delle società indo-iraniche. La Roma storica, benché risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali: l’opposizione tra patrizi e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è l’effetto di un’evoluzione precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi benché rivestila di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres, Titienses - e ancora in  qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci suggerisce chiaramente la leggenda delle origini. Secondo la variante più diffusa, Roma si e costituita da  tre elementi etnici: i compagni latini di Romolo e Remo, gli alleati  etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i nemici sabini di Romolo  comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato nascita a la TRIBU I -- Ramnes, i  secondi alla TRIBU II – i Luceres c i terzi alla TRIBU III – i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU II. Lucumone c la sua banda sono i primi  specialisti dell’arte militare arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I: Romolo è  il semi-dio, il rex-augur beneficiario della promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y urbs e il fondatore istituzionale della respublica. Talvolta la componente etnisca è eliminala, ma l’analisi «tri-funzionale» non viene meno poiché Romolo c i suoi Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi sacri e di guerrieri  esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito Livio (1,9; 2-4), “deos  et virtutem” e non gli mancano temporaneamente che opes (e le donne)  che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro, 1,1) i Sabini riconciliati  che si trasferiscono a Roma c cum generis suis a vitas opes prò dote socicint.   Eliminando così gli’etruschi, il dio Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: « La  ricca vicinanza – “viciniadives” -- non voleva questi generi senza ricchezza – “inopes” -- e non aveva riguardo del fatto che io ero (un dio) la fonte  del loro sangue – “sanguinis auctor”. Io ho risentito di questa pena e ho  messo nel tuo cuore, Romolo, una disposizione conforme alla natura  di tuo padre -- “patriam mentem”, cioè marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione, ciò che domandi, saranno le armi a donartelo – “arma dabunt”.   Dionigi di Alicarnasso che segue la tradizione delle tre razze,  ripartisce tra quelli gli stessi tre vantaggi: le città vicine, sabine o altre,  sollecitate da Romolo per mezzo di matrimoni, rifiutano (II, 30) di  unirsi a questi nuovi venuti « Che non sono da considerarsi neper ricchezza (xpTipaoi) né per altre imprese (taupnpòv Èpyov)». A Romolo, relegato così alla sua qualità di figlio di dio e di depositario dei primi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari di professione  come l’etrusco Lucumone di Solone, «Uomo di azione e illustre in  materia di guerra» (xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq).   8. Properzio iv, i, 9-32   Ma è Properzio, nella prima elegia romana che da a  questa dottrina delle origini, e nella forma delle tre razze, l’espressione più complete. Nel momento in cui nomina, con Romolo, le tre tribù primitive mettendo in risalto le loro etimologie tramite le correlazioni tradizionali coi nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere i  caratteri funzionali distintivi, 1’«essenza», potremmo dire, della materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i compagni di Remo e di suo fratello (il nome  di Romolo è riservato per coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon (Lucu-  mo); TRIBU III. Tito Tazio.   Il testo di Properzio merita di essere esaminato più da vicino. L’intenzione di Properzio all’inizio di questa elegia è di opporre (c un  luogo comune dell’epoca) l’umiltà delle origini all’opulenza della  Roma d’Ottaviano. Dopo qualche verso che introduce il tema applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati in tre parti ineguali, seguite da una conclusione:   -- sul pendio dove si elevava un tempo la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo focolare, immenso reame.  La Curia, il cui splendore copre oggi un'assemblea di toghe preteste,  non conteneva che senatori vestiti di pelle e dalle anime rustiche.  Era la tromba che convoca, per i colloqui, gli antichi cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al  culto ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che con  fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno oggi  giorno grazie a un cavallo mutilato.   Vesta era povera e trovava il suo piacere in asinelli coronati di  Fiori. Delle vacche scarnite portavano in processione degli oggetti  senza valore.  Dei maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre in sacrificio le  interiora di una pecora.  Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo campo  e stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del generale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON.  E la ricchezza di TATIUS era essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, originari di Solonio; è da là che Romolo Lancia la sua quadriga di cavalli  Bianchi. Il percorso di questo sviluppo è ben chiaro. Cme una favola verso la sua breve morale, tende verso l’ultimo distico che prima di  menzionare il «radunatore» Romolo, nell’apparato dei suoi trionfi,  enumera sotto i loro nomi le tre tribù riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del verso 30 e i  Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes (v.    23, e 31), conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati simmetricamente alla menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto di comando di questa società composita (v. 31 e 32) ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al verso 9, o insieme a lui in frotres al verso 10.  In altre parole, prima di mostrarli trasformati (hinc...) sotto Romolo, nei tre terzi della città unificata, Properzio comincia col presentare successivamente, sotto i loro eponimi e nella loro esistenza ancora  separata, le tre componenti della futura Roma, nell’ordine. TRIBU I: Le genti di  Remo e di suo fratello. TRIBU II. L’etrusco Lucumone e – TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega  così come le feste dei versi 15-26, appartenenti ai futuri Ramnes, siano  quelle che la tradizione considera anteriori al sinecismo e praticate già, nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma non è tutto. Non è meno lampante che le tre successive presentazioni delle future tribù siano caratterizzate secondo tre funzioni. Dal verso 9 («Remo») al verso 26, Properzio non evoca che il carattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (v. 9-14;  semplicità dei «re», di ciò che rappresentava allora il senato e  l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di solennità e di dèi stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a febbraio - dei Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno  sfarzo).  TRIBU II: Dal verso 27 al verso 29 (« Lygmon») il poeta evoca le forme  primitive della GUERRA che rimangono elementari («un berretto di  pelle») anche col primo tecnico militare.   TRIBU III: Nel solo verso 30 (« Tatius ») Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA primitiva.   La nettezza delle articolazioni del testo e, in conseguenza, delle  intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto nel distico 29-30 di  Lucumo come generale e di Tazio come ricco proprietario di armenti,  mettono in risalto il fatto che, benché concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente.  TRIBU I: I Ramnes, raggruppati intorno ai «fratelli», dediti soprattutto al  governo e al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio e  i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori.  Le divisioni degli Ioni   Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi ateniesi erano stati ini¬  zialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo nell’organizzazione  sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono molto chiari, al pari  della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni o, come dice Plutar¬  co, nei quattro |3ioi «(tipi di) vite», ma questi tipi sono molto probabil¬  mente sacerdoti o funzionari religiosi, guerrieri o «guardiani», agricol¬  tori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1; cf. Platone, Timeo, 24 A). Plutarco  0 Solone 23), per una falsa etimologia del nome ordinario ricollegato ai  sacerdoti, omette i sacerdoti e sdoppia agricoltori e pastori.   È probabile che le tre classi della Repubblica ideale di Platone -  filosofi che governano, guerrieri che difendono e il terzo stato che pro¬  duce ricchezza - con ogni loro armonizzazione morale o filosofica,  così prossima talvolta alle speculazioni indiane, siano state ispirate in  parte dalle tradizioni ioniche, in parte da ciò che si sapeva allora in  GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei pi¬  tagorici che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o pre¬  ellenico.   10. La tripartizione sociale nel mondo antico   A questi schemi concordanti si è cercata invano una replica in¬  dipendente nella pratica o nelle tradizioni delle società ugrofinniche o  siberiane, presso i Cinesi o gli Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo-  tamia sumerica o accadica, o nelle vaste zone continentali adiacenti  agli Indoeuropei o penetrate da essi. Ciò che salta agli occhi sono delle  organizzazioni indifferenziate di nomadi in cui ognuno è sia combat¬  tente che pastore; delle organizzazioni teocratiche di sedentari in cui  un re-sacerdote o un imperatore divino è contrapposto ad una massa  spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua umiltà; oppure ancora  delle società in cui lo stregone non è che uno specialista fra tanti altri  senza preminenza, malgrado il timore che la sua competenza suscita.   Niente di tutto questo ricorda né da vicino né da lontano la strut¬  tura delle tre classi funzionali gerarchizzate e non vi sono delle eccezioni.   Quando un popolo non indoeuropeo del mondo antico, ad  esempio del Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa struttura è perché l’ha acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato vicino a  lui, da una di quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti, Hittiti,  Arya - che nel secondo millennio si sono arditamente sparse lungo diversi percorsi.   E il caso ad esempio dell’Egitto «castale» in cui i Greci del V  secolo credevano di aver trovato il prototipo, l’origine delle più vec¬  chie classi funzionali ateniesi che sono state menzionate poco fa. In re¬  altà questa struttura si è formata sul Nilo grazie al contatto con gli  Indoeuropei, che apparendo in Asia Minore e in Siria nella metà del  secondo millennio prima della nostra èra, rivelarono agli Egiziani il  cavallo e tutti i suoi usi.   Solamente dopo questa data il vecchio impero dei Faraoni si  riorganizza per poter sopravvivere, formandosi ciò che non aveva mai  avuto: un’armata permanente e una classe militare. Il più antico testo  «multifunzionale» del tipo di quello che sarà conosciuto da Erodoto  (Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione in cui Thaneni si vanta di aver fat¬  to un vasto censimento per conto dei suo Faraone Thutmosis IV (J.H.  Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty, 1906, p.  165):   «M uste ring ofthe whole land before his Majesty making an in-  spection ofevery body, knowing thè soldiers, priests, royal serfs and  all thè craftsmen ofthe whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle,  by thè military scribe, beloved of his lord Thaneni »   Ora, Thutmosis IV (1415-1405) è giusto il primo Faraone che  abbia mai sposato una principessa arya dei Mitanni, la figlia di un re  dal nome caratteristico di Artatama. Sembra che la differenziazione di  una classe di guerrieri col suo statuto «morale» particolare, unito ad  una sorta di alleanza flessibile a una classe ugualmente differenziata  di sacerdoti, sia stata la novità degli Indoeuropei e il cavallo e il carro  la ragione e il mezzo della loro espansione. Le iscrizioni geroglifiche e  cuneiformi ci hanno trasmesso il ricordo del terrore che causarono alle  vecchie civiltà questi specialisti della guerra, così arditi e impietosi  come quei conquistadores che tremila anni più tardi nel Nuovo Mon¬  do comparvero ai capi e ai popoli degli imperi che schiacciarono.   Essi li designavano con un nome - marianni - che in effetti gli  Indoeuropei usavano: i mdriya, incuiStig Wikander seppe riconosce-    26     re nel 1938 i membri dei «Mcitinerblinde» dello stesso tipo studiato da  Otto Hofler presso i Germani.   11. Teoria e pratica   La comparazione dei più antichi documenti indoiranici, celtici,  italici e greci, se da una parte permette di affermare che gli Indoeuro¬  pei avevano una concezione della struttura sociale fondata sulla di¬  stinzione e sulla gerarchizzazione delle tre funzioni, dall’altra parte  non può insegnare grandi cose sulla forma concreta - o sulle diverse  forme - in cui si sarebbero realizzate queste concezioni. Bisogna ora  generalizzare ciò che è stato detto più sopra a proposito degli Arya ve¬  dici.   È possibile che la società sia stata interamente ed esausti vamen-  te ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può anche pensare che la  distinzione avesse solamente portato a mettere in risalto qualche clan  o qualche famiglia «specializzata», depositaria nell’un caso dei segreti efficaci del culto, nel secondo delle iniziazioni e delle tecniche guer¬  riere e nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie deH’allevamento,  mentre il grosso della società, indifferenziata o meno differenziata, si  affidava alla direzione degli uni o degli altri, secondo le necessità o le  occasioni.   Si è infine liberi di immaginare moltissime forme intermedie,  ma queste non saranno che punti di vista dello spirito.   Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia rivelare la sopravvi¬  venza di formule molto precise: così, nel Rgveda i «33 dèi» riassumo¬  no una società divina concepita ad immagine della società aryae sono  talvolta scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3 supplementari;  oppure, a Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei quali 30 (cioè  3 per 10) riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei Ramnes, Luce-  res e Titienses, completate da 3 àuguri.   12. Le tre funzioni fondamentali   Così, non è il dettaglio autentico e storico dell’organizzazione  sociale tripartita degli Indoeuropei che interessa di più il comparatista,  ma il principio di classificazione, il tipo di ideologia che essa ha susci¬  tato, realizzato o formulato, e di cui non sembra essere più rimasta che  un’espressione tra tante altre. Diverse volte nell’esposizione che si è letta è stata incontrata  una parola importante: quella di funzione, di tre funzioni, e bisogna  così intendere certamente le tre attività fondamentali assicurate da  gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri, produttori - per il sostentamen¬  to e la prosperità della collettività.   Ma il dominio delle «funzioni» non si limita a questa prospetti¬  va sociale. Alla riflessione filosofica degli Indoeuropei esse avevano  già fornito - come sostantivi astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi  delle tre classi nella riflessione filosofica degli Indiani vedici e  posl-vedici - ciò che può essere considerato, secondo il punto di vista,  come un mezzo per esplorare la realtà materiale e morale o come un  mezzo per mettere ordine nel patrimonio delle nozioni ammesse dalla  società.   L’inventario di queste applicazioni non propriamente sociali  della struttura trifunzionale, è stato intrapreso e continuato, dal 1938,  da E. Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre sulla prima e sulla  seconda «funzione» un’etichetta che copra tutte le sfumature: da una  parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli uo¬  mini tra di loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto, ammi¬  nistrazione), e così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai suoi  delegati in conformità con la volontà o il favore divino e infine, più ge¬  neralmente, la scienza c l’intelligenza, allora inseparabili dalla medi¬  tazione e dalla manipolazione delle cose sacre; dall’altra parte la forza  fisica brutale e l’impiego della forza, uso principalmente ma non uni¬  camente guerriero.   È meno facile delincare in poche parole l’essenza della terza  funzione, che ricopre delle province numerose fra le quali intercorro¬  no dei legami evidenti ma la cui unità non comporta un centro ben de¬  finito: fecondità umana, animale e vegetale, ma, nello stesso tempo,  nutrimento e ricchezza, santità e pace (con le gioie c i vantaggi della  pace) e anche voluttà, bellezza c l’importante idea del «gran numero»,  applicata non solo ai beni (abbondanza) ma anche agli uomini che  compongono il corpo sociale (massa). Non sono queste delle defini¬  zioni a priori ma insegnamenti convergenti di molte applicazioni  dell’ideologia tripartita.   Gli indologi hanno familiarità con questo uso straripante della  classificazione tripartita sin dai tempi vedici: per un impulso che ricorda, nel suo vigore e nei suoi effetti, la tendenza classificatoria del  pensiero cinese - che ha distribuito tra lo yang e lo yin sia coppie di no¬  zioni solidali che antitetiche -1’India ha messo le tre classi della socie¬  tà, coi loro principi, in rapporto con numerose triadi di nozioni preesi¬  stenti o create per la circostanza. Queste armonie, queste correlazioni  importanti per l’azione simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta  un senso molto profondo, talvolta artificiale e altre volte puerile.   Così, ad esempio, le tre «funzioni» sono distributivamente con¬  nesse ai tre guna (propriamente, «figli») o «qualità» - Bontà, Passione,  Oscurità - delle quali la filosofia sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili  formano la trama di tutto ciò che esiste; o ancora, nei tre stadi superiori  dell’universo, le si vede non meno imperiosamente collegate ai diver¬  si metri e melodie dei Veda o ai diversi tipi di bestiame o a comandare  minuziosamente la scelta dei diversi tipi di legno con cui saranno fatte  le scodelle o i bastoni.   Senza arrivare a questi eccessi di sistematizzazione, la maggior  parte degli altri popoli della famiglia presentano aspetti di questo ge¬  nere che, ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del globo,  hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei. Non  si potrà presentare in questa sede che qualche inventario.   13. Triadi di calamità f.triadi di delitti   Da circa vent’anni E. Benveniste ha individualo presso gli Ira¬  nici c gli Indiani delle formule molto simili in cui un dio è pregalo di  allontanare, da una collettività o da un individuo, tre flagelli, ognuno  dei quali si riconnettc a una delle tre funzioni.   Per esempio, in una iscrizione di Pcrscpoli (Persep. d 3) Dario  domanda ad Ahuramazdà di proteggere il suo impero «r/a// ’esercito  nemico, dal cattivo anno e dall'inganno» (quest’ultima parola, drau-  ga, nel vocabolario del Gran Re designava sopralutto la ribellione po¬  litica, il misconoscimento dei suoi diritti sovrani; ma si riferiva anche  al peccalo maggiore delle religioni iraniche, la menzogna). Parallela¬  mente, al momento delle cerimonie vcdichc del plenilunio c del novi¬  lunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule che, diver¬  samente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per esempio  Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo  comune:  «Conservami dalla soggezione, conservami dal cattivo sacrifi¬  cio, conservami dal cattivo nutrimento».   L’enunciato indiano è parallelo a quello iranico, con la riserva  che, al primo livello, il re achemenide parla di inganno e il ritualista  vedico di sacrificio malfatto: questo scarto nei timori corrisponde ad  evoluzioni divergenti - da una parte più moraliste e dall’altra più for-  maliste - delle religioni delle due società.   Mi è stato possibile dimostrare in seguito che i più occidentali  tra gli Indoeuropei, i Celti, i cui usi sono talvolta così sorprendente¬  mente simili a quelli vedici, utilizzavano la stessa classificazione tri¬  partita delle maggiori calamità.   La principale compilazione giuridica dell’Irlanda, il Senchus  Mór, comincia con questa dichiarazione ( Ancient Laws oflreland, IV  1873, p. 12): « Vi sono tre tempi in cui si produce il deperimento del  mondo: il periodo della morte degli uomini (morte per epidemia o per  carestia, precisa la glossa), la produzione accresciuta di guerra e la  dissoluzione dei contratti verbali». I malanni sono così ripartiti fra le  tre zone della salute o del nutrimento, della forza violenta e del diritto.   I Galli non hanno inserito nei loro libri giuridici delle tali for¬  mulazioni astratte, ma un testo che parrebbe essere la trasposizione ro¬  manzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd a Llevelis è consacrato  all’esposizione delle tre «oppressioni» dell’isola di Bretagna e al  modo in cui il re Lludd vi mise fine.   Queste calamità sono: 1) una razza di uomini «saggi» il cui «sa¬  pere» è tale che essi intendono per tutta l’isola ogni conversazione,  fosse anche a bassa voce, e interferiscono così nel governo e nei rap¬  porti umani; 2) ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due  draghi, il drago dell’isola e il drago straniero che viene a «battersi» col  primo, cercando di «vincerlo», e le urla del drago dell’isola sono tali da  paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che il re ac¬  cumula in uno dei suoi palazzi una «provvista di cibarie e di vivande»,  fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte seguente e porta  via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una volta come le tre oppres¬  sioni si sviluppino qui negli ambiti della vita intellettuale, dell’ammi¬  nistrazione della forza e infine del nutrimento; in più, considerate in    30     base ai loro agenti e non in base alle vittime, esse definiscono tre delit¬  ti: abuso di un sapere magico, aggressione violenta e furto di beni.   Sembra che il più antico diritto romano ugualmente consideras¬  se i delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu-  tio), violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto  {furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione  C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,  prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una di¬  stinzione sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in «furto,  violenza fisica e incantesimo» (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha raffrontato la classificazione avestica dei me¬  dicamenti ( Vidèvdàt , VII, 44: medicine del coltello, delle piante e del¬  le formule d’incantesimo) con l’analisi che fa un inno del Riveda sui  poteri medici degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) «.guaritori di chi è  cieco (male misterioso, magico), di chi è smagrito (male alimentare) e  di chi ha una frattura (violenza)».   È lo stesso procedimento che nella III Pythica di Pindaro il cen¬  tauro Chirone insegna ad Asclepio per guarire « le dolorose malattie  degli uomini» (versi 40-55: incantesimi, pozioni o droghe, incisioni)  ed è stato sospettato che dietro questi fatti paralleli si celi l’esistenza di  una «dottrina medica» tripartita ereditata dagli Indoeuropei. Se i vec¬  chi testi germanici non applicano questo schema classificatorio ai ma¬  lanni, ai delitti o ai rimedi, è vero che l’utilizzano in altre circostanze:  il Canto di Skirnir nell 'Edda è un piccolo dramma in cui il servitore  del dio Freyr costringe, malgrado la sua volontà, la gigantessa Gerdr a  cedere ai desideri amorosi del suo maestro.   Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il suo amore con  dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente, minaccia di  decapitarla (str. 23-25) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine al suo terzo ten¬  tativo non gli rimane che minacciarla con gli strumenti della sua ma¬  gia, bacchette ( gambantein ) c rune (str. 26-37).   15. Elogi tripartiti   Quando un poeta indiano vuole fare brevemente l’elogio totale  di un re, passa in rassegna le tre funzioni in tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re Dilàpa merita di essere chiamato padre  dei suoi sudditi « perché assicura loro buona condotta, li protegge e li  nutre». Con delle formule generalmente meno concise, l’epopea irlan¬  dese procede allo stesso modo. In un bel lesto, il Paese dei Viventi,  cioè l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti immortali, è caratte¬  rizzalo dall’assenza di morte in base ai tre aspetti seguenti: «.non vi è  né peccato né errore...] vi si mangiano pasti eterni senza servizio; l'in¬  tesa regna senza lotte ».   L’originalità del paese meraviglioso consiste nel fatto che tutto  è buono e facile, ma questa idea si analizza e si esprime nel pensiero  dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni (virtù, guerra, abbon¬  danza alimentare); la seconda funzione, di tipo violento, considerata  come un male c rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale al massi¬  mo grado (J. POKÒRNY, «Conio’s abcnteucrliche Fahrt» ZCP XVII,  1928, p. 195).   In un a simile analisi, per fare 1 ’ elogio del re Conchobar, u n lesto  del ciclo degli Ulati dice che sotto il suo regno vi erano «pace e tran¬  quillità, saluti cordiali», «ghiande, grasso e prodotti del mare», «con¬  trollo, diritto e buona regalità» (K. MEYER, «Milleil. aus irischen  Handschriflen» ZCP, III, 1901, p. 229): cioè il contrario della guerra,  della carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli contro i quali  il re Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare il suo impero.   16. Le tre funzioni e la «natura delle cose»   Si può obiettare talvolta che queste formule non siano troppo  naturali, così troppo ben modellale sull’uniforme e inevitabile dispo¬  sizione delle cose perché il loro accumulo e la loro somiglianza provi¬  no un’origine comune c resistenza di una dottrina caratteristica degli  Indoeuropei.   Una riflessione anche elementare sulla condizione umana e sul¬  le risorse della vita collettiva non dovrebbe forse mettere in evidenza,  in ogni tempo c in ogni luogo, tre necessità, cioè una religione che ga¬  rantisse un’amministrazione, un diritto c una morale stabile, una forza  protettrice c conquistatrice, infine dei mezzi di produzione, di alimen¬  tazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui pericoli che incontrac  sulle vie che si aprono alla sua azione, non è ancora a una qualche va¬  rietà di questo schema che si riporta? Basta uscire dal mondo indoeuropeo, in cui queste formule sono così numerose, per constatare che,  malgrado il carattere necessario e universale dei tre bisogni ai quali si  riferiscono, esse non hanno la generalità o la spontaneità chesi suppo¬  ne: al pari della di visione sociale corrispondente, non le si ritrova in al¬  cun testo egizio, sumerico, accadico, fenicio e biblico, né nella lettera¬  tura dei popoli siberiani, nè presso i pensatori confuciani o taoisti così  inventivi ed esperti di classificazioni.   La ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per una civiltà,  sentire vivamente e soddisfare dei bisogni impellenti è una cosa; por¬  tarli alla chiarezza della coscienza e riflettere su di essi, farne una  struttura intellettuale e uno schema di pensiero è tutta un’altra. Nel  mondo antico solo gli Indoeuropei hanno fatto questo cammino filo¬  sofico e così si percepisce nelle speculazioni e nelle produzioni lette¬  rarie di tanti popoli di questa famiglia, che la spiegazione più econo¬  mica, come per la divisione sociale propriamente detta, è ammettere  che il percorso non è stato fatto e rifatto indipendentemente in ogni  provincia indoeuropea dopo la dispersione, ma che è anteriore alla di¬  visione ed è opera di pensatori dei quali i brahmani, i druidi e i collegi  sacerdotali romani sono in parte i diretti eredi.   17. Meccanismi giuridici triplici   Una delle applicazioni più interessanti ma più delicate è quella  che in riferimento alla concezione indoeuropea chiarifica presso i di¬  versi popoli (India, Roma, Lacedemoni) i quadri e le regole giuridi¬  che. Lucien Gerschel, ricordando il diritto romano, ha dimostrato che  questo, così originale nei suoi fondamenti e nel suo spirito, conserva  nelle sue forme un gran numero di procedure in tre varianti a effetti  equivalenti (che si spiegano solitamente, ma senza prove, come crea¬  zioni successive dell’ uso e del pretore) che almeno qualcuna di queste  sorprendenti «tripartita» si modella sul sistema delle tre funzioni qui  considerate. Citerò unodei migliori esempi: un testamento può essere  fatto con lo stesso valore sia nell’assemblea strettamente religiosa dei  Comitia Curiata, presieduti dal gran pontefice; sia sul fronte di una  battaglia davanti ai soldati; sia tramite una vendita fittizia a un «emp-  torfamiliae» (Aulo-Gellio, XV, 27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1).  Gerschel non pretende che sia esistito a Roma un «diritto sacerdota¬  le», un «diritto guerriero» e un «diritto economico», o che i tre tipi di testamento abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti differenti,  non più dei tre tipi di affrancamento o delle altre tricotomie giuridiche  che si possono interpretare in questo senso.   Questo quadro così incredibilmente frequente, questa triade di  possibilità a effetti equivalenti e l’omologia delle distinzioni che si di¬  stribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che «i creatori del  diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti della vita  collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto volen¬  tieri tre processi, tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti cia¬  scuno dal principio (religioso; attualmente o potenzialmente milita¬  re; economico) di una delle tre funzioni ».   18. Le tre funzioni e la psicologia   La stessa psicologia non sfugge a questo schema. I sistemi filo¬  sofici indiani dosano nelle anime, come nella società, dei principi  come la legge morale, la passione, l’interesse economico (dharma,  kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle tre classi della sua Repubblica  ideale - filosofi governanti, guerrieri, produttori di ricchezze - delle  formule di virtù che distribuiscono e combinano la Saggezza, il Co¬  raggio e la Temperanza; in un’espressione apparentemente tradizio¬  nale e legala all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la mitica  regina Medb, depositaria e donatrice della Sovranità, pone come tripli¬  ce condizione a chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di «essere  senza gelosia, senza paura, senza avarizia» (Tdin Bó Cualnge ed. Win-  disch, 1905, pp. 6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi brillante-  mente interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo per eccel¬  lenza, Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione  di tre principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale.   Si tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza anti¬  chissima; nei trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17, 9;  Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole concepire  un bambino maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin e a  Indra (quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le va¬  rianti) e a nessun altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo seguen¬  te, alla lista arcaica indo-iranica degli dèi che incarnano e patrocinano  la prima, la terza e la seconda funzione. Un’altra via di sviluppo per il pensiero trifunzionale è stata  quella del simbolismo: tanto i tre gruppi sociali quanto i loro tre princi¬  pi sono stati legati figurativamente e solidalmente a degli oggetti ma¬  teriali semplici, il cui raggruppamento li evocava e li rappresentava.  Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia principalmente  portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani e un venta¬  glio di colori.   Ci si ricordi della leggenda tramite cui gli Sciti, secondo Erodo¬  to, spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro caduti dal cielo - carro e  giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o arco) come arma guerriera,  coppa cultuale - hanno dei valori nettamente classificatori secondo le  tre funzioni.   Ora, questi oggetti non erano solamente mitici: erano conserva¬  ti lutti insieme dal re e ogni anno venivano solennemente portati attra¬  verso le terre scitiche. Anche la leggenda irlandese attribuisce alla pe¬  nultima razza che avrebbe occupato l’isola, e che in realtà è costituita  dagli antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé Danann, «Le tribù della  dea Dana»), un gruppo di oggetti talismani: il «calderone di Dagda»  che conteneva e donava un nutrimento meraviglioso; due armi terribi¬  li, la lancia di Lug che rendeva il suo possessore invincibile e la spada  di Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai infine, sede  della sovranità, il cui grido rivelava quale dei candidati doveva essere  scelto come re (V. HULL«Thefourjewels oftheT.D.D» ZCP, XVIII,  1930, pp. 73-89). Le mitologie vediche e scandinave collegano allo  stesso modo dei gruppi di tre oggetti caratteristici a degli dèi che ve¬  dremo ben presto e che sono distribuiti secondo le tre funzioni.   20. Colori simbolici delle funzioni presso gli Indo-Iranici   Quanto ai colori simbolici, l’importanza e l’antichità sono già  segnalate, per il mondo indo-iranico, dal fatto che i tre (o quattro)  gruppi sociali funzionali sono designati in base alla parola sanscrita  varna e alla parola avestica pìstra (cf. il greco 7touciXoq «screziato»,  russo pisat' «scrivere»), che con sfumature diverse designano il colo¬  re. Di fallo è un insegnamento costante nell’India che brdhmunu,  ksatriya, vaisya e sùclru siano rispettivamente caratterizzati (e le spie¬  gazioni non mancano) dal bianco, il rosso, il giallo e il nero.    35     Di certo che vi è stata un’alterazione in seguilo alla creazione  delle caste inferiori ed eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di  cui rimangono tracce nei rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S.  IV, 2, 6) e senza dubbio anche uno nel Riveda («nero, bianco e rosso è  il suo cammino » dice X, 20,9 di Agni, il più triplice e trifunzionale de¬  gli dèi), sistema formato semplicemente da tre colori senza il giallo e  dove vi era il nero (o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli allevato¬  ri-agricoltori.   In effetti anche l’Iran ha mantenuto questa ripartizione: una tra¬  dizione «mazdeo-zurvanita» che è stata progressivamente stabilita e  interpretata da H. S. Nybcrg (1929), G. Widengren, S. Wikan-  der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955) descrive nella cosmogonia  l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella dei guerrieri come rossa  o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori come blu scura. Altri  Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V. Basanoff ha intelli¬  gentemente i nterpretato in questo senso un rituale hiltita di evocatio in  cui i diversi dèi della città nemica assediata sono pregali di lasciarla e  di giungere presso gli assedianti attraverso tre cammini - il che suppo¬  ne tre diverse categorie di dèi - avvolti uno in una stoffa bianca, il se¬  condo in una stoffa rossa e il terzo in una stoffa blu ( Keilischrifturk aus  Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK, Deralte Orient, XXV, 2,1925, pp.  22-23).   21. Colori simbolici delle funzioni presso Celti e Romani   Tra i Celti della Gallia e dellTrlanda il bianco è il colore dei dm-  idi e il rosso, nell’epopea irlandese, è quello dei guerrieri; a Roma un  Albogalerus caratterizza il più sacerdote tra i sacerdoti, il flamen diu-  lis, mentre il paludumentum militare è rosso come il drappo sulla testa  del generale o come la trabea dei cavalieri o dei sacerdoti armati che  sono i Salii.   Un sistema completo a tre termini del simbolismo coloralo  s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è  quello dei colori delle fazioni del circo che assunsero grande impor¬  tanza sotto l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono si¬  curamente anteriori all’impero c che gli studiosi di antichità romane  ricollegano del resto alle origini stesse di Romolo.    36     Le speculazioni esplicative di questi antichisti sono molteplici  e intrise di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste, conser¬  vata da Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà ro¬  mane e afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica  erano inizialmente tre ( albati , russati, viricles) in rapporto non solo  con le divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparente¬  mente sostituita a Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovrani¬  tà, guerra, fecondità), ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes,  Lucercs e Titienses.   A proposito di questi ultimi si è ricordalo più sopra che erano,  nella leggenda delle origini, sia componenti etnici (Latini, Etruschi,  Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c governanti, da guer¬  rieri professionisti e da ricchi pastori) e che in un altro passaggio {De  magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come paralleli alle tribù  funzionali degli Egiziani e degli antichi Ateniesi.   Nel 1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi anti¬  chi e moderni (religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade di colori:  quasi lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o dai suoi  confini, o dalle regioni che furono esposte all'influenza degli Indoeu¬  ropei e alcuni hanno chiaramente un valore classificatorio del tipo qui  considerato.   22. Le scelti- dei tigli di Feridùn   Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle narrazioni mol¬  to diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone qual¬  che esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui ulti¬  mogenito raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi oggetti d’oro  simboli delle tre Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a una tradi¬  zione dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli del l’eroe che V Ave¬  sta chiama ©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi persiani Feridùn.  Eccola nella traduzione data da M. Molé a un passaggio dell 'Àyàtkar i  JàmcispTk:   «Da Frètòn nacquero tre figli; Salm, Tòz ed Eric erano i loro  nomi. Egli li convocò tutti e tre per dire ad ognuno di essi: «Io sto per  dividere il mondo tra di voi, che ciascuno di voi mi dica ciò che gli  sembra bello affinché io glielo doni». Salm chiese grandi ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la gloria dei Kavi (cioè il segno mira¬  coloso che distingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la religione.  Frètón disse: «Che a ciascuno di voi giunga ciò che ha chiesto». Ed  egli donò infatti la terra di Rum a Salm, il Turkestan e il deserto a Toz  e l’Iran e la sovranità sui suoi fratelli a Eric».   Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la stessa divisio¬  ne geografica con un altro criterio, anche se col medesimo senso.  Esposti a titolo di prova a uno stesso pericolo (un dragone minaccio¬  so), ognuno dei tre fratelli si rivela in accordo con la propria natura e  col proprio «livello funzionale»: Salm fugge, Tòz si precipita cieca¬  mente all’assalto e Iraj evita il pericolo senza combattere, con  l’intelligenza e il nobile sentimento che ha della dignità regale della  sua famiglia.   23. La scelta del pastore Paride   È un tema simile, presente fra i Greci d’Asia Minore e forse in¬  fluenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito la materia del  «giudizio di Paride», piacevole racconto dalle pesanti conseguenze  poiché è destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza e il suo  valore, Troia finisca per soccombere ai Greci.   Paride, il bel principe pastore, vede giungere presso di sé tre dee  (che simboleggiano le tre funzioni) che gli chiedono un giudizio emi¬  nente; secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig. Aul, V. 1300-  1307) ognuna si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della propria  attività: Era, « fiera del letto regale del sovrano Zeus », Atena con  l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che la  «potenza del desiderio». Secondo un’altra variante (Euripide, Troia¬  ne, v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio promettendo  un dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa, Atene la vit¬  toria e Afrodite la donna più bella.   Paride sceglie male e assegna il premio ad Afrodite, scelta che  causerà ben presto il rapimento dell’incomparabile Elena e, malgrado  dieci anni di combattimento, la fine di Troia, distrutta da una coalizio¬  ne di uomini e divinità tra le quali Era ed Atena non saranno le meno  accanite.    38     Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi moderni. L.  Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed austriache  raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla leggen¬  da greca, che presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma ge¬  neralmente «bene») fra tre offerte nettamente funzionali; oppure tre  fratelli che si spartiscono tre doni funzionali dei quali solo uno, quello  della «prima funzione» assicura a chi lo possiede un destino piena¬  mente «buono». Ecco per esempio la forma originale rigorosamente  ricostruita da Gerschel, delle leggende tedesche sull’origine dello  «Jodeln» (Johlen).   «Res, il vaccaro di Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre  esseri sovrannaturali in procinto di fare il formaggio: a un certo pun¬  to il latticello è versato in tre secchi e nel primo è rosso, nel secondo  secchio è verde e nel terzo è bianco. Res apprende che deve scegliere  un secchio e berne il latticello; allora uno dei vaccari fantasmi ag¬  giunge: «Se scegli il rosso sarai talmente forte che nessuno potrà  combattere con te». Il secondo vaccaro disse a sua volta: «Se tu bevi il  latticello di colore verde possiederai molto oro e sarai ricchissimo».  Il terzo infine spiegò: «Bevi il latticello bianco e tu sarai Jodeln mera¬  vigliosamente». Res rifiutò i due primi doni e si decise per il latticello  bianco, diventando un perfetto Jodler ».   Gerschel rileva che questa tecnica vocale ha nelle diverse va¬  rianti un effetto magico (tutte le bestie vengono incontro allo jodler e.  l'accompagnano; tavole e panche danzano nella sua capanna: le vac¬  che si alzano sulle loro zampe posteriori e danzano; la vacca più selva¬  tica si addolcisce e si lascia mungere facilmente, etc.).   24. Talismani di Roma e di Cartagine   Verso la fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio orga¬  nizzato su un tale tipo di schema la garanzia della sua vittoria finale:  una testa di bue, poi una testa di cavallo (trovate dagli scavatori di Di-  done sul sito in cui si ergeva, con Cartagine, il tempio della «sua» Giu¬  none) avevano, a detta di loro, garantito alla città africana l’ opulenza e  la gloria militare. Ma in virtù della testa d’uomo che gli spalatori di  Tarquinio avevano un tempo trovato sul Campidoglio, nel sito del fu-    39     turo tempio di Jupiter O. M, è Roma che detiene la più alta promessa,  quella della sovranità. L. Gerschel, a cui si deve ancora questa sor¬  prendente interpretazione, ha ricordato che presso gli Indiani vedici  uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori delle vittime  ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme alle teste delle  due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno in apparenza,  essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare l’importante altare del  fuoco, in mancanza del santuario permanente che non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico la tripar¬  tizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema di  grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato in India,  in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio o di un  uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III capi¬  tolo) un personaggio della «seconda funzione», un guerriero.   Indra, il dio guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei  Brahmano e nelle epopee la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è lun¬  ga e varia. Ma il quinto canto del Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo  schema delle tre funzioni: Indra uccide prima il mostro Tricefalo,  morte necessaria poiché il Tricefalo c un flagello che minaccia il mon¬  do, ma tuttavia morte sacrilega poiché il Tricefalo ha il rango di brah¬  mano e non vi è crimine peggiore del brahmanicidio e di conseguenza  Indra perde la sua maestà, la sua forza spirituale, tejas (1-2). Poi, es¬  sendo stato generato il mostro Vrtra per vendicare il Tricefalo, Indra  s’impaurisce e contravvenendo alla vocazione propria del guerriero  conclude con Vrtra un patto infido che viola, sostituendo alla forza  l’inganno; di conseguenza perde il suo vigore fisico, baia (3-11). Infi¬  ne, tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la forma del marito,  adesca una donna onesta in adulterio e perde così la sua bellezza, rùpa  (12-13).   L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a rintracciarne  la storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in lingua scandinava  - conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr (Starcatherus),  guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e devoto ai re che  1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli è infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita  prolungata sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in  ognuna di esse egli commetta una penalità.   Ora, il quadro di queste tre penalità si distribuisce chiaramente  secondo le tre funzioni. Essendo al servizio di un re norvegese l’eroe  aiuta criminalmente il dio Othinus (Ódinn) a uccidere il suo signore in  un sacrifìcio umano (VII, V, 1-2).   Trovandosi poi al servizio di un re svedese /ugge vergognosa¬  mente dal campo di battaglia dopo la morte del suo signore abbando¬  nandosi, in quest’unica occasione delle sue tre vite, alla paura panica  (Vili, V). Servendo infine un re danese, assassina il suo signore procu¬  randosi per mediazione centoventi libbre d’oro, cedendo eccezional¬  mente per qualche ora all’appetito di questa ricchezza di cui fece altro¬  ve, in atti e discorsi, professione di disprezzo (VII, VI, 14).   Essendosi così estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che  cercare la morte ed è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili,  Vili). Il carattere e le gesta di Starkadr ricordano in molti punti quelle  di Eracle. Nelle esposizioni sistematiche che sono fatte - relativamen¬  te tarde ma non inventate - la vita intera dell’eroe greco (concepito da  Zeus e Alcmene durante tre notti) è scandita da tre mancanze che han¬  no un effetto grave sull 'essere dell’ eroe e ognuna di questecomporta il  ricorso all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1) Euristeo re di  Argo comanda ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha il diritto in virtù  di una promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di Era: Eracle  commette tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito formale di  Zeus e l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di disubbi¬  dienza agli dèi, Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso dalla  demenza ed uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna penosamente  alla ragione, si sottomette e compie così le Dodici Fatiche, aggravate  da altre fatiche (cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito, Eracle  attira suo figlio Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello ma con  l 'inganno (Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il carattere for¬  temente antieroico di questo sbaglio). Eracle, punito, cade in una ma¬  lattia psichica da cui non si libera: viene così informato dall’oracolo  che deve vendersi come schiavo e rimettere ai figli di Iphitos il prezzo  di questa vendetta (cap. 31). 3) Benché infine legittimamente sposato  aDeianira, Eracle cerca di sposare un’altra principessa, poi ne rapisce una terza e la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva il terribile di¬  sprezzo di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di Nesso e i terri¬  bili e irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può liberarsi, dietro un  terzo ordine di Apollo, che con la propria apoteosi, col rogo (cap.  37-38).   Oltraggio a Zeus e disobbedienza agli dèi; morte vile e perfida di  un nemico senz’ armi; concupiscenza sessuale e oblio della propria don¬  na: i tre errori fatali di questa gloriosa carriera si distribuiscono sulle tre  zone funzionali esattamente come i tre peccali di Indra e con la stessa  specificazione (concupiscenza sessuale) della terza, alterando l’essere  stesso dell’eroe. Ma queste alterazioni, progressive e cumulative nel  caso di Indra, sono invece successive nel caso di Eracle: le prime due  possono essere riparate mentre la terza trascina alla morte.   In una tradizione avestica, senza dubbio ripensala e ri-orientata  dallo zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo, Yima, è punito per un  unico grande peccalo (menzogna o, più lardi, orgoglio c rivolta contro  Dio e usurpazione degli onori divini) e viene privato in tre tempi dello  x' arvnah , di quel segno visibile e miracoloso della sovranità che Ahu-  ra Mazda pone sul capo di coloro destinati ad essere re. I tre terzi di  questo x v arvnah successivamente sfuggono per collocarsi nei tre per¬  sonaggi corrispondenti ai tre tipi sociali dell’ agricoltore-guaritore,  del guerriero e d c\V intelligente ministro di un sovrano (Dènkart , VII,  1, 25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl XIX, 34-38).   26. Il problema del re   Questo rapido excursus è sufficiente per mostrare le direzioni e  i diversi ambili in cui l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha uti¬  lizzato la struttura tripartita; ancora una volta dobbiamo ora volgerci,  come per le altre applicazioni di questa struttura, verso i popoli non  indoeuropei del mondo antico per ricercare se intorno a un eroe si è  prodotto un tema epico o leggendario, la messa in scena di una lezione  morale o politica, la giustificazione colorita immaginifica di una prati¬  ca o di uno stato di fatto.   Al momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da Gilga-  mesh a Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi della  Cina, dalla saggezza araba agli apologhi confuciani, nessun personag¬  gio storico o mitico ha rivestito in alcun modo l’uniforme trifunzionale in cui si trovano al contrario molte figure degli Indoeuropei. È dun¬  que probabile che questa divisa sia solo indoeuropea e che solo in  questa vasta partedel mondo, e prima della loro dislocazione, gli Indo¬  europei abbiano intellettualmente scandagliato, meditato e applicato  all’analisi e all’interpretazione della loro esperienza, e infine utilizza¬  to nei quadri della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità  fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano di soddi¬  sfare.   Terminando quest’esposizione molto generale vorrei sottoline¬  are ancora che il riconoscimento di questo fatto così importante non ci  fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale effetti voo le istitu¬  zioni (senza dubbio variabili da provincia a provincia) degli «Indoeu¬  ropei comuni».   Noi non possediamo che un principio, uno dei princìpi e dei  quadri essenziali. Una delle questioni più oscure rimane ad esempio il  rapporto fra le tre funzioni e il «re», del quale ci è assicurala l'esistenza  antichissima nella parte senza dubbio più conservatrice degli Indoeu¬  ropei, cioè presso gli indiani vedici (/•«/-), i latini (/ <?#-) c i celti (n#-).   Questi rapporti sono diversi sui tre domini c su ognuno vi è stata  una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così qualche fluttuazio¬  ne nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c notoria¬  mente della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla strut¬  tura trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura  amministrazione del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul  sovrano e i suoi ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governato¬  re) è al contrario il più eminente rappresentante di queste funzioni.   Oppure si presenta una mescolanza variabile di clementi presi  dalle tre funzioni e in special modo dalla seconda, dalla funzione e dal¬  la classe guerriera da cui solitamente proviene: il nome differenziale  dei guerrieri indiani, ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di  ràjanya, derivato dalla parola ràjanl   Queste difficoltà, insieme ad altre, potranno essere meglio for¬  mulale, se non risolte, quando avremo indirizzato lo studio su ciò che  fu l’armatura più solida del pensiero di questa società arcaiche: il siste¬  ma divino, la teologia e i suoi prolungamenti mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, «Were castes formulateci in thè age of thè Rig Veda?»,  Bull, of thè Decenti College Research Institute, II, pp. 34-36. Per brahman  vedi L. RENOU, «Sur la nolion de bràhman», JA, CCXXXVII, 1949, pp.  1 -46. Questa interpretazione, facile da conciliare con i fatti iranici segnalali  da W.B. HENNTNG,' «Brahman», TPS, 1944, pp. 108-118, rende caduco il  senso ammesso nel mio Flamen-Brahmnti (1935). Il «Brahman» di P. THIE-  ME, ZDMG, 102, 1952, non ha fatto avanzare l’analisi e non altera il risultato  dello studio di Renou. Circa i rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia  discussione con J. GONDA ( Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII,  1950, pp. 255-258 eCXXXIX 1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente  la questione di questi rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo in  vedico e appartiene per certi impieghi al vocabolario del «primo livello»; ma  la concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito ksatriya per designare  l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome dell’arcangelo sostituito  nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo livello (vedi qui sotto II § 8) e infi¬  ne di /Exscert-ieg come nome della famiglia degli uomini differenzialmente  “forti” nell’epopea degli Osseli (vedi sotto, 4), garantisce che fin dai tempi  indo-iranici questo termine fosse una designazione tecnica dell’essenza del  secondo livello.   § 2. DUMÉZIL, «La préhistoire indo-iranienne des castes», JA, CCXVI,  1930, pp. 109-130. B ENVENISTE, «Les classes sociales dans la tradilion ave-  stique», JA, CCXXI, 1932, pp. 117-134; «Les mages dans l’ancien Iran»,  Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938, pp. 6-13; «Tradilions in-  do-iraniennes su les classes sociales», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-550; H.S.  NYBERG, Die Religione/} cles alteri Iran, 1938, pp. 89-91; DUMÉZIL, JMQ,  pp. 41-68 (= JMQ it. pp. 24-45).   § 3. L’interpretazione è stata progressivamente costituita negli articoli e  nei libri citati al § 2, partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le pre¬  mier homme... I, 1918, pp. 137-140.   § 4. JMQ, pp. 55-56 (= JMQ il., p. 35). Sulle tradizioni degli Osseti vedi il  mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il risultato delle grandi inchieste degli  anni ‘40 pubblicale in Osetinskije Nartskije Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in  osseto: Narty kailcliitce ibid. 1946). Il testo citalo di Turganov è nell’articolo  «Klo takie Narty?»,/zv. Oset. histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak), 1925, p.  373.   § 5. Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de Franco (1949), pp.  15-19 e BGDSL, 78, 1956, p. 175-178.   § 6. JMQ, pp. 110-123 (=JMQ il. pp. 77-87). Sette anni più tardi, dopo la  guerra, T.G.E. POWELL ha ripreso la mia dimostrazione, «Ccltic Origins; a  Stage in thè Hnquiry», J. ofthe R. Anthropol. Institute, 78, 1948, pp. 71-79:   « Of greatest interest is thè recognition of a three folci clivision o f society    44     among thepeoples concerned [Indiani, Italici, Celti ],providing in thehighest  rank a class oflearned and sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo-  west thè ordinary people » etc. Circa il nome di aire apparentato ad aiya, io  credo che bisogna rinunciare all’etimologia che accosta il nome dell’eroe ir¬  landese Eremon al dio indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in conse¬  guenza sopprimere l’ultimo capitolo del mio Troisième Souverain, 1949.   § 7-8. Questa analisi è stata fatta progressivamente in JMQ, pp. 129-1 54  (= JMQ it., pp. 90-107); NR, pp. 86-127 (= JMQ it. pp. 230-263); JMQ IV,  pp. I 13-134. In parte qui riproduco il riassuntode L'heritage... pp. 127-130 e  190-209. Gli Umbri distinguevano nella società i rappresentanti delle tre fun¬  zioni: «Ner - et uiro - dans les sociétés italiques», REL, XXXI, 1953, pp.  183-189.   § 8. Delle obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in  NR, cap. II (= JMQ it. pp. 230-262), riassunto in L’heritage... pp. 196-201 e  229-23 1. Ho anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - «superbum  Rhamnetem» -come nomeproprioda Virgilio (Aen., IX. 327) è perdesignare  un re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome della  gens Lucretia, una delle più militari delle leggende dei primi tempi della Re¬  pubblica (e proprietaria del cognome Tricipitinus, che senza dubbio allude a  un mito del Tricefalo); che il radicale di Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir.,  Ili, 1930, pp. 75-80) si trova in altre parole in rapporti diversi ma convergenti  con la fecondità, l’amore, la voluttà: questo conferma l’orientamento diffe¬  renziale di ognuna delle tribù verso una delle tre funzioni. Ho infine ricercato  delle allusioni letterarie alle «tre funzioni» e ai loro rappresentanti, come  componenti di Roma o di altre società concepite a sua immagine: JMQ IV,  pp. 121-136; REL, XXIX, 1951, pp. 3 18-329; ma i testi degli storici e quello  di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità della fusione dei  Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a questa ma differente,  vedi sotto, II i? 17, nota.   § 9. JMQ, pp. 252-253 (=JMQ it., pp. 269-270); in compenso le classi do¬  riche sono di un altro tipo, malgrado JMQ, pp. 254-257 (soppresso in JMQ  it.). Un recente studio di MARTIN P. NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults,  myths, oracles andpolitics in ancient Greece, 1951, pp. 143-149) presenta  delle difficoltà che esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente pro¬  posto di riconoscere la tripartizione sociale indoeuropea nei testi micenei:  TPS, 1954, pp. 18-53; Acliaeans and Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture,  Oxford 1954, pp. 1 -22. Quanto ai «tre stati» della Repubblica di Platone, vedi  JMQ, pp. 257-261 (= JMQ it. pp. 170-171 ): « Se le più antiche tradizioni degli  Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale quadripartita della so¬  cietà (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), la città ideale di Platone  non potrebbe forse essere, nel senso più stretto, una reminiscenza indoeuro¬  pea? Essa è costituita dalla concatenazione armoniosa di tre funzioni, tò  (pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ XpimOtTlCTTUCÓV «CUStO-    45     dum genus, uuxiliarii, questuarti», come traduce Marsilio Ficino, cioè i filo¬  sofi che governano, i guerrieri che combattono e il terzo-stato, agricoltori e  artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La solidarietà dei primi due gruppi al  di sopra del terzo è fortemente marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno: ogni stato agisce conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia,  evita la confusione , 7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della vita  politica, è assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una «formula  di virtù» particolare: il terzo stato deve essere temperante, acótppcov; alla  temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio, àvSpeia; i «guardia¬  ni» saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa immaginare, per quel po ’  che li si è praticati, i trattati politico-religiosi dell’India: stessa definizione  dei tre stati sociali; stessa solidarietà dei primi due, ubhe vlrye; stesso anate¬  ma contro la confusione, varnanàm samkaram,- stessa esortazione ad atte¬  nersi al modo di azione a cui si appartiene, stessa distribuzione dei doveri e  delle virtù dello stato. I legislatori indiani e la Repubblica si fanno eco: none  forse perché essi recitano la medesima canzone ancestrale?... Che si pensi a  tutte le vie per le quali questa «filosofia indoeuropea» tripartita ha potuto di¬  scendere fino a Platone: non solo le tradizioni sulle origini degli Ioni, ma i  contatti molteplici con quel conservatore di dottrine, non ariane, ma anche  ariane, che fu l'impero degli Ac he me nidi; l'orfismo, in cui deiframmenti del¬  la scienza dei sacerdoti traci e frigi si sono depositati e in cui non mancavano  le triadi; il pitagorismo, su cui Henri Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a  non trascurare le componenti «iperboree»; infine il folklore...» Cf. qui sotto  § 18, per le applicazioni psicologiche della divisione tripartita nell’India e in  Platone.   § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano ma-ra-ya-na\ cunei¬  forme mar-ya-an-nu ; forse come l’ha proposto Albrighl, dall’accusativo plu¬  rale arya mdrycin + la terminazione hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN,  «New light on thè Maryannu as chariot-warrior», Jb. f kleinas. Forschung,  1951, pp. 308-324. I libri fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der arische  Mannerbund, 1938 e H. LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da confron¬  tare con O. HÒFLER, Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934. Una  delle grosse differenze tra il «Mannerbund» degli Indiani e quello dei Germa¬  ni consiste nel fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna), mentre il  secondo a Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della «funzione guer¬  riera» presso i Germani (cf. II § 22); vedi MDG, p. 92, n. 1 e più specificata-  mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch., II, 1957, §§ 405-412.   § 11. Un’interpretazione delle corrispondenze del tipo «33» fra Roma e  l’India vedica è proposta in JMQ IV, pp. 156-170 (= JMQ it., pp. 389-405),  L'heritage..., pp. 213-227.1 «33 dèi» vedici sono ripartiti frai tre piani del  mondo (JMQ IV, pp. 30-33; riassunto in DIE, pp. 7-9) essi stessi in rapporto  con le tre funzioni (JMQ, p. 65 = JMQ it. pp. 42-43 ). Il carattere indo-iranico  dei «33 dèi» è garantito dalla concezione avestica dei «33 ratu» (spiriti pro-    46     tettori o prototipi delle diverse specie di esseri): JMQIV, pp. 158-159(=JMQ  it., pp. 294-395), secondo J. Darmesteter e S. Wikander.   § 12. È nel suo articolo «Traditions indo-iraniennes sur les classes socia -  les», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-549, che E. BENVENISTE ha per la prima  volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in cui il fatto era ben cono¬  sciuto, che l’ideologia tripartita supera largamente l’organizzazione sociale  che finalmente non appare più se non come un’applicazione particolare.  Come disse all’inizio di un altro articolo, per riassumere l’insegnamento di  questo («Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques» RHR,  CXXXIX, 1945, p. 5): «La elivisione della societe'i in tre classi, sacerdoti,  guerrieri, agricoltori, è un principio di cui gli Indo-Iranici avevano piena co¬  scienza e che presentava ai loro occhi l’autorità e la necessità di un fatto na¬  turale. Questa classificazione regge così profondamente l’universo  indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le enunciazioni  esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA, 1938, p. 529 e  segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate e che sono fuori dal¬  la sfera propria del sociale, al punto che ogni de finizione di una totalità con¬  cettuale tende inconsciamente a riflettere il quadro tripartito che organizza  la società degli uomini. Da parte sua, G. Dumézil, in una serie di brillanti stu¬  di ha riportato sino alla comunità indoeuropea l’origine di questa classifica¬  zione, scoprendola nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale antica e  principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella reli¬  gione romana». Le posizioni variabili della «tecnica» in rapporto alla tripar¬  tizione sociale sono esaminate in «Les métiers et les classes fonclionnelles  chez divers peuples indoeuropéens» che sarà pubblicato quest’anno in Anna-  les. Economies, Sociétés, Civilisations.   § 13. BENVENISTE, «Traditions indo-iran. sur les classes sociales», JA  CCXXX, 1938, pp. 543-545; DUMÉZIL, «Triades de calamités et triades de  délits à valeur trifonclionnelle chez divers peuples indoeuropéens», Ltito-  mus, XIV, 1955, pp. 173-185.   § 14. BENVENISTE, «La doctrine médical des Indo-Européens», RHR,  CXXX, 1945, pp. 5-12; Dumézil, art. cit. al paragrafo precedente, p. 184, n.2.   § 15. JMQ, pp. 114-115 (= JMQ it., p. 80)   § 17. «Les trois fonctions et le droit romain selon L. Gerschel», frammenti  di una memoria inedita di L. G., pubblicata in appendice a JMQ IV, pp.  170-176.   § 18. Per Platone e l’India vedi JMQ, pp. 259-260 (=JMQ it., pp. 171 -172)   «Dopo aver scoperto la formula tripartita della società, Platone si volge  sull’individuo, sull'«Uno umano» e in questo microcosmo ritrova gli stessi  elementi in una stessa gerarchia, le stesse condizioni di armonia comandano  le medesime virtù. L'uomo giusto, dal punto di vista della giustizia, non diffe¬  risce in niente dallo Stato giusto; ha in sé l'equivalente dei saggi, dei guerrie¬  ri, degli uomini ricchi: questi sono i principi della conoscenza, della  flussione e dell ’appetito , xò à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,-  che effli subordina in modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i  due primi dominino insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte  più considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze; poi¬  ché apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi spirituali che  convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo stesso modo l’India,  con l’instabilità delle rappresentazioni e delle formulazioni che le è propria,  compone l’anima o meglio l'involucro dell’anima, di tre guna al pari della  società e dell'universo: queste qualità, che furono inizialmente luce, crepu¬  scolo e tenebra, sattva, rajas e tamas, sia perla loro presenza isolata che per  la loro combinazione, costituiscono gli individui e lo Stato: talvolta il senso  della legge morale, della passione e dell’interesse, dharma, kama e artha, si  uniscono in una triade equivalente a quella dei guna e il loro equilibrio lode¬  vole o biasimevole definisce i tipi umani; talvolta, seguendo uno schema  prettamente indiano, è la conoscenza serena, l’attività inquieta o l’ignoran¬  za fonte di errori, che si disputano il nostro effimero edificio e questa sempli¬  ce enumerazione disegna una terapeutica...» Per l’Irlanda e la regina Medb  vedi JMQ, pp. 115 -116 (= JMQ it., pp. 80-82); è la stessa Medb che commen¬  ta chiaramente la sua seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valo¬  roso in guerra e anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in  questi termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché «non sono mai  stata senza un uomo nell’ombra di un altro » - allusione alle costanti competi¬  zioni intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e conferisce. Nella lon¬  tana posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul. Hon., espone  magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima (o delle tre anime) c ritro¬  va, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di Medb (ma col «timore» al  primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris ira; seruitiipaliere iugum...   - Per «Zoroastro tripartito» vedi K. Barr, «Irans profet som xéXeioq  avOptonoq», Festkr. tilL.L. Hammerich, 1952, pp. 26-36.   § 19. Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi JMQ, cap. VII (soppri¬  mendo le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici (la Vacca magica per il  dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai pcrlndra, ilearro a tre ruote che ser¬  ve agli Aévin per portare la loro benevolenza al mondo: p. es. RV, I, 161, 6) e  scandinavi (P anello magico per Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle  setole d’oro per Freyr) vedi Tarpeia, IV («Mamurius Veturius»), pp.  205-246.   § 20. Nei rituali vedici vi sono tracce di un’antica assegnazione del nero ai  vaiéya: per costruire la sua casa un indiano sceglie un suolo diversamente co¬  lorato, bianco per un brahmano, rosso per uno ksatrya e per un vaiéya, giallo  secondo certi trattati ( Àsvalàyana G.S., II, 8, 8) e nero secondo altri ( Gobhila  G.S., 7, 7; Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per la tradizione iranica vedi in ultimo  luogo ZaEHNER, Zurvan, 1955, pp. 118-125 (testo del Grande Bundahisn c  del Denkart, pp. 321-336 e 374-378). Per il rituale hittita vedi BasaNOFF,  Euocatio, 1947, pp. 141-150.    48     § 21. DUMÉZIL, Rituels cap. Ili («Albati, russati, virides») e IV («Ve-  xillum caeruleum»); J. DE VRIES, «Rood, wit, zwart», Volkskimde, II, 1942,   pp. 1-10.   § 22. MOLE, «Le partage du monde dans la tradition des Iraniens», JA,  CCXL, 1952, pp. 456-458.   § 23. DUMÉZIL, «Les trois fonctions dans quelques traditions grecques»  Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L. Febvre ), I, 1954, pp. 25-32, dove  sono studiate in questo senso il «Kroisos-Logos» di Erodoto e certe forme  dell’apologo di Mida e del Sileno; L. GERSCHEL, «Sur un schème trifon-  ctionnel dans une famille de légendes germaniques», RHR, CL, 1956, pp.  55-92, in cui sono esaminati due tipi imparentati di leggende, una che com¬  porta l’opzione proposta a un individuo fra tre «offerte funzionali» (es.  l’origine di «Jodeln» citata nel testo) e l’altra che presenta tre fratelli che si  spartiscono tre doni funzionali il cui valore si rivela disuguale a vantaggio del  dono della prima funzione (es. il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT  D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III, 1842, pp. 268-291 ha pubblicato un buon  esempio).   § 24. L. GERSCHEL, «Structures augurales et tripartition fonctionnelle  dans la pensée del’ancienneRome», JP, 1952, pp. 47-77. L’estrema antichità  e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e pratiche augurali di Roma (la  parola augur è indoeuropea) sono state stabilite in diversi articoli:  «L’inscription archaique du Forum et Cicéron, De divin., Il, 36», RSR,  XXXIX-XL ( =Mél. J. Lebreton. I), 1951, pp. 17-29, prolungata da «Le iuges  auspicium et les incongruités du taureau attelé de Mugdala», NC, V, 1953,  pp. 249-266; Rituels..., cap. II («Aedes rotunda Vestae»); «Les trois premiè-  res regiones caeli de Martianus Capei la», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A  M. Niedermamì), 1956, pp. 102-107. Sulla parola augur e la sua preistoria in¬  doeuropea, vedi «Remarques sur augur, augustus», REL, XXXV, 1957, pp.  126-151.   § 25. Aspects..., p. 63-101 («Les trois péchésdu guerrier»). Citiamo anco¬  ra L. GERSCHEL, «Coriolan», Eventail de l’Histoire vivante (=Mél. L. Feb¬  vre), II, 1954, pp. 33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma, resiste alle  ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto il corpo sacerdo¬  tale rivestito delle sue insegne sacre e con gli strumenti di culto, ma cede alla  terza, a quella di tutte le donne di Roma che portano i loro bambini - la «parte  germinativa» di Roma - condotte dalla sua propria madre e da sua moglie.   § 26. Sulla diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre funzioni,  vedi la mia comunicazione al Vili Congresso Internazionale di Storia delle  Religioni (Roma 1956), «Le rex et les flamines maiores», riassunta negli  Atti..., 1956, pp. 118-120. Sul re germanico nella prospettiva trifunzionale  vedi J. DE VRIES, «Das Kònigtum bei den Germanen», Saeculum, VII, 1956,  pp. 289-309.    49      Capitolo secondo    Le teologie tripartite    1. Espressione teologica dell’ideologia delle tre funzioni   Le teologie dei diversi popoli indoeuropei non sono essenzial¬  mente degli accumuli incoerenti di dèi stratificati dai flussi e riflussi  fortuiti della storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente infor¬  mati è facile riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si  definiscono le une con le altre e che si spartiscono le province del sa¬  cro, secondo il piano spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi  sono stati per lungo tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal  compresi.   Il loro riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo itali¬  co e mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a  partire dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi;  all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta  penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei  diversi ambiti.   2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli inni e nei   RITUALI VEDICI   I sacerdoti dell’India vedica, in un certo numero di circostanze  rituali importanti, associano (per delle invocazioni, delle offerte o del¬  le enumerazioni classificatorie) i due sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio guerriero per eccellenza, lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi  sempre designati al duale con un nome collettivo, i Ncisatya o Asvin,  guaritori, datori di discendenza e di ogni sorta di bene. Talvolta al se¬  condo livello, evidentemente per analogia col raggruppamento bina¬  rio del primo e terzo livello, Indra compare associato a un altro dio,  spesso variabile (Vàyu, Agni, Surya, Visnu). Abbiamo già visto (I §  18) questo insieme divino (Mitra-Varuna, i due ASvin, Indra con Agni  o Sùrya), invocati per ottenere la formazione di un feto maschio, obiet¬  tivo più importante in questi tempi arcaici che non oggi.   L’ordine di numerazione mette gli ASvin al secondo posto, pri¬  ma di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un avvenimento che è  propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione differente dell’ordi¬  ne che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce  la lista dei principali «dèi in coppia» invocali al momento culminante  della spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico); sono  Indra-Vàyu, Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1,  3-5) ed è lui che comanda il piano di un certo numero di inni del Rive¬  da ispirati da questo rituale.   Il contesto di questi inni è sovente istruttivo, garantisce e illu¬  stra il valore funzionale di ogni livello divino: per esempio in I, 139  Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c nella  stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine tecnico che designa il  battaglione dei giovani guerrieri divini: la strofa di Mitra-Varuna (2) è  riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè dell’Ordine cosmico e mo¬  rale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono invece presentati come i si¬  gnori delle due varietà di «vitalità», srlyah e prksah.   Nei due inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualifi¬  cati come nani, «Mànner, eroi» (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è  detto che «con l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto  un’elevata efficienza »; quanto agli Asvin, « donano gioia a molti» (3,  slr. 1).    3. Lis ti-: ascendenti e discenden ti   Più spesso l’ordine canonico sia ascendente che discendente è  rispettato. Ecco inizialmente due casi molto «puri» in cui Indra è solo  al suo livello.    52      Nel rituale arcaico e minuzioso d’erezione dell’importante alta¬  re del fuoco, al momento in cui si tracciano i sacri solchi che devono li¬  mitare l’area, viene fatta un’invocazione alla vacca mitica, Kàmadhuk  («quella che quando la si munge dona ciò che si desidera»).  L’invocazione contiene la sequenza divina che ci riguarda, nel senso  discendente, con un prolungamento che ne garantisce i valori funzio¬  nali: «Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a  Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra),  alle creature, alle piante!» (cf. Éat. Brdhm., VII, 2, 2, 12). In una tale  numerazione ordinata, al di sopra delle piante, degli animali ed even¬  tualmente degli uomini non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non  possono patrocinare che tre varietà di uomini arya, quelli che corri¬  spondono rispettivamente e gerarchicamente alle loro tre nature.   In un sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli stessi  dèi sono invocati nell’ordine ascendente con un complimento colletti¬  vo ed esauriente (Taittir. Sarnh. , II, 3, 10, 1 b): «tu sei il soffio degli dèi  Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il soffio di Mitra-Varuna... tusei  il soffio di Tutti gli Dèi!».   Con Agni associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osser¬  va la stessa sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interes¬  sante ( RV , X, 125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine  delle strofe): è il famoso inno panteista, messo nella bocca di un perso¬  naggio che è senza dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta  come il supporto e l’essenza comune di tutto ciò che esiste.   La prima strofa è questa: «Io vado con i Rudra, con i Vasu, con  gli Àditya e con Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due Mi¬  tra-Varuna; sono io che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due  Asvin!». È degno di nota che nelle strofe seguenti, analizzando la pro¬  pria polivalenza o, come ella dice, i « diversi luoghi » c «soggiorni» in  cui «glidèi l’hanno introdotta » (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in ri¬  salto, come parti della sua opera in rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6  =AV str. 4, 3, 5) il nutrimento e la vita, poi la parola «assaporata dagli  dèi e dagli uomini» e il bene che concede ai personaggi sacri (bruh-  man, rsi), infine l’arco «la freccia che uccide il nemico del brahmàn» c  il combattimento.   È chiaro che, qualunque sia l’intenzione dottrinale (si è parlato  in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo poema utilizza nelle sue espressioni il più antico sistema concettuale degli Arya: con la  sua esposizione di nozioni parallele (dèi, azioni) conferma che la se¬  quenza Mitra-Varuna, Indra (solo o accompagnato) e i due Asvin riu¬  nisce i patroni e le espressioni teologiche delle tre funzioni.   4. Gli dei arya dei Mitanni   Talvolta leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è  spesso possibile comprendere, questa stessa sequenza si ritrova in di¬  versi testi dell’India arcaica, ma ora voglio giungere senza indugio a  un documento molto importante.   È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo parlante sia il futuro  «indiano-vedico», che un dialetto molto vicino a quelli che si possono  chiamare «para-indiani», invece di emigrare verso Est, verso l’Indo e  il Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino alla Palestina, in¬  correndo in un destino brillante ma effimero e lasciando sue tracce in  molti scritti cuneiformi.   Mentrei loro fratelli orientali, autori degli inni vedici, sfuggono  alla storia, questi, circondali da popoli archivisti e armati di una scrit¬  tura, sono localizzabili e databili con una grande precisione. Sono loro  che hanno fatto tremare e talvolta crollare antichi reami del Vicino  Oriente con le loro bande di guerrieri specialisti, di cui si c parlato più  sopra, quelli che i testi babilonesi ed egiziani chiamano marianni.   Il gruppo più interessante di questi «Para-Indiani» è quello che,  inquadrando e dirigendo un popolo di altra origine, ha fondato nella  metà del secondo millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero hurri-  ta dei Mitanni, che per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto  trattare da pari a pari.   Nel 1907, a Bogazkòy, negli archivi di un re hittita, gli scavi  hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un trattato concluso da  questo principe, verso il 1380, col suo vicino dei Mitanni, il re Mati-  waza. Restaurato sul suo trono dall 'Hittita che gli aveva inoltre donato  sua figlia, il Mitan no stabilì un’alleanza col suo benefattore nella debi¬  ta forma.   Il testo enumera le maledizioni celesti in cui egli accetta di in¬  correre se mancherà alla parola. Secondo l’uso, i due contraenti con¬  vocano come garanti tutti gli dèi che i loro due imperi riconoscono.  Fra gli dèi mitanni, vicino a un gran numero di dei sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità locali o babilonesi, s’incontra una sequen¬  za che è stata immediatamente identificata dagli indianisti e su cui i fi¬  lologi hanno lungamente lavorato, esaminando le particolarità grafi¬  che e grammaticali del testo. Oggi renumerazione si può rendere con  sicurezza nel modo seguente:   «Gli dèi Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il dio  Indura [var. Inclar], i due dèi Nàsatyu ...».   Per più di trentanni, senza aver preso in visione i documenti ve¬  dici principali citati, si sono proposte per questa riunione di dèi delle  spiegazioni strane (W. Schulz, 1916-17) o insufficienti (S. Konow,  1921 ). Il danese A. Christensen ( 1926) con un’analisi serrata si è avvi¬  cinato alla verità, riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya  non compaiono a Bogazkòy come tecnici di atti diplomatici, né come  interessali di questa o quella clausola particolare, ad esempio matri¬  moniale, del trattalo, ma poiché erano «dèi principali» della società  arya. Sfortunatamente egli ha «pensato» questo stato maggiore solo  nel quadro dualista dell’opposizione *asura-daiva preminente nell’I¬  ran, reale ma meno importante nell’India vedica, c l’ha ripartito artifi¬  cialmente, contrariamente alle indicazioni del testo, in due gruppi,  Mitra-Varuna da una parte e Indra-Nàsatya dall'altra.   E solo nel 1940, grazie a un dossierve dico delle tre funzioni e ai  testi vedici che associano gli stessi dèi presenti nel trattalo di Bogaz¬  kòy, che è apparsa l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in  questi termini nel 1945:   «A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che pa¬  trocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della regalità coi suoi  necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i Nàsatyu, rappre¬  sentanti duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo stesso piano: a  un secondo livello vi è Indura, dio della funzione guerriera e dell’ari¬  stocrazia militare dei marianni; poi, a un livello ancora inferiore vi  sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi dèi insie¬  me e in quest’ordine, il re fa due operazioni precise: vincola con se  stesso tutta la società del suo reame, presentata nella sua forma rego¬  lare, ed evoca le tre grandi province del destino e della provvidenza.  Questo corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni che accettu di attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla sua  persona al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e oblio,  odio generale da parte degli dèi ».   5. Connotati degli dèi caratteristici delle tre funzioni   NELLA RELIGIONE VEDICA   Non sarà inutile, per agevolare il lettore nelle analisi particolari  che seguiranno, precisare ora in qualche parola, nella prospettiva delle  tre funzioni, gli orientamenti e i limiti di questi diversi dèi che gli ar¬  chivi di Bogazkòy, confermando le formule degli inni e dei rituali in¬  diani, comprovano essere un raggruppamento formulare pre-vedico.  Ecco come questi valori sono stati riassunti nel mio piccolo libro Les  dieux des Indo-Européens (1952).   «Non è un caso se il primo livello è spesso rappresentato da due  dèi: nella sovranità che questi antichi indiani concepivano vi erano  due facce, due metà antitetiche ma complementari e ugualmente ne¬  cessarie, incarnate e patrocinate da due «re», Mitra e Varuna. Se dal  punto di vista dell'uomo Varuna è un signore inquietante, terribile,  possessore della màyà, cioè della magia creatrice delle forme, armato  di nodi e di reti, che opera cioè avvinghiameli immediati e  irresistibili, Mitra, il cui nome significa Contratto, e anche Amico, è  rassicurante e benevolo, protettore degli atti e dei rapporti onesti e  stabiliti, estraneo alla violenza. L'uno, Varuna, dice un testo celebre,  è l’altro mondo; questo mondo è invece Mitra. Varuna è più despota,  più dio stesso se così si può dire; Mitra è quasi un sacerdote divino.  Più che della prima funzione, Varuna sembra avere maggiori affinità  con la seconda, violenta e guerriera; Mitra, per la tranquilla prospe¬  rità che dischiude grazie, alla terza. L'opposizione è così netta che da  tempo si sono potuti sottolineare i tratti quasi demoniaci di Varuna:  non è forse l’àsura per eccellenza ? E nelle forme post-vediche della  religione, come già in molte strofe del Rgveda, gli usura non sono for¬  se dei misteriosi demoni? In Ind(a)ra si riassumono tutte altre cose: i  movimenti, i seni zi, le necessità della forza brutale che applicate alla  battaglia producono vittoria, bottino e potenza. Questo campione vo¬  race, armato di folgore, uccide i demoni e salva l’universo, per com¬  piere le sue imprese si inebria di soma che dona vigore e furore. Egli è il danzatore, nrtti; il suo splendido e ardente seguito è formato dai  Marut, trasposizione atmosferica del battaglione dei giovani guerrie¬  ri, màrya. Per lui e per essi si esprime una morale dell'exploit e  dell'esuberanza che si oppone all'onnipotenza immediata e rigorosa,  come alla benevolente moderazione che si riunisce nel primo livello.  Gli dèi canonici dell'ultimo livello, i Ndsatya o Asvin, non esprimono  che una parte del dominio complesso tipico della terz.a funzione. Sono  soprattutto datori di salute, giovinezza e fecondità, dèi taumaturghi  soccorritori degli infermi, degli amanti, dei figli senza fidanzata o del  bestiame sterile. Ma la terza funzione è molto più di tutto questo, non  solo salute e giovinezza ma nutrimento, abbondanza in uomini e in beni,  cioè massa sociale e ricchezza economica, attaccamento al suolo, a  questa gioia tranquilla e stabile dei beni, che si esprime in sanscrito  con l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono spesso rinforzati al  loro livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono altri aspetti della  terza funzione, come la vita animale, l’opulenza, la maternità ( Pùsan,  Puramdhi, Dravinodà, il «Signore dei Campi», SarusvatT ed altre dee  madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale, collettivo, tota¬  le («Tutti-gli-Dèi», paradossalmente concepiti come una classe parti¬  colare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che Rgveda Vili, 35  oppone come etichetta della terza funzione ai singolari neutri bràh-  man e ksatrà, caratteristici delle due funzioni supreme».   Abbiamo qui un buon esempio di struttura, una teologia artico¬  lata difficile da pensare come formata da un assemblaggio di pezzi e  frammenti: l’insieme c il piano condizionano i dettagli; ogni tipo divi¬  no nel suo orientamento proprio esige la presenza di tutti gli altri e non  si definisce che per rapporto agli altri, con la vivacità che solo  l’antitesi produce. Il riconoscimento di questa sequenza divina e del  suo carattere prc-vcdico ha permesso di compiere, nel 1945, un passo  decisivo nell'interpretazione delle religioni iraniche c di rendere con¬  to di un tratto importante della teologia aveslica da tempo osservalo.   6. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni nella riforma   ZOROASTRIANA   Sotto il nome di Zoroastro si è avuta una profonda riforma che  ha notevolmente alteralo il paganesimo ancestrale, somma di una serie  di riforme progressive nello stesso senso. Tuttavia, considerando il ri¬  sultato storicamente attestato di questo processo riformatoree il punto  di partenza preistorico, determinabile poiché era sicuramente vicino  allo schema vedico e pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee direttri¬  ci del movimento appaiono immediatamente.   Nell’Ave.vra nongàthico, dove è mitigato l’intransigente mono¬  teismo delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura Mazda - senza dub¬  bio anche lui sublimazione dell’Asura supremo, quello che l’India  chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche di alto rango che  portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy (MiGra, Indra,  Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra (al  pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto differen¬  te, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya - enunciati ancora  sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in cui i Nàsatya se¬  guono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di una riforma che  (operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e destinata a im¬  porre uniformemente a tutta la società mazdaica la morale elevata del  primo livello purificalo) ha rigettato, anatemizzato, demonizzato i pa¬  troni divini che tradizionalmente rappresentavano e giustificavano al¬  tri comportamenti come lo scatenamento guerriero c l’orgia, meno  sanguinante ma certo non meno libera, dei culti della fecondità.   7. Le Entità zoroastriane   Quanto alla nuova teologia monoteista allo stato puro, quella  delle Gùthà, essa riposa, in un’altra maniera, sullo stesso schema. Il  tratto saliente è 1’esistenza di un gruppo di Entità astratte associate al  Gran Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un nome collettivo,  ma sono quelle che si vedranno in seguilo costantemente raggruppate  in un ordine fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli Immortali Bene¬  fìci (o Efficaci). Si è discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste  Entità siano già delle creature o delle emanazioni separate da Dio - una  sorta di arcangeli - o semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo  non cambia niente quanto al problema delle loro origini che qui ci inte¬  ressa. La lingua e lo stile delle Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità  volontaria e raffinata, ma fortunatamente per orientarsi si dispone di  talune considerazioni che non dipendono dalle incertezze di parola per  parola. 1) Il senso e la struttura grammaticale dei nomi che designano  le Entità forniscono qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengo¬  no quasi tutti i nomi di una o più Entità sono assai numerose per per¬  mettere delle osservazioni statistiche - frequenza relativa di ogni Enti¬  tà, frequenza delle loro associazioni diverse - che rivelano dei tratti  molto importanti del sistema. Per esempio, se l’intenzione, la forma e  lo stile di questi inni lirici non costringono il poeta a presentare le Enti¬  tà in lista nel loro ordine razionale, come faranno più tardi i testi rituali  in prosa, tuttavia la tavola delle frequenze di menzione delle Entità,  prese separatamente e in conseguenza delle importanze relative che i  poeti le attribuiscono, riproduce esattamente l’ordine gerarchico che  esse avranno in seguito sotto il nome di Amaste Spanta: questa gerar¬  chia dunque esisteva già. 3) Un altro elemento d’interpretazione è for¬  nito dalla lista degli «elementi materiali» che la tradizione associerà,  parola per parola, alla lista delle Entità, gemellaggio a cui gli inni stes¬  si fanno allusioni certe e precise. 4) Infine, nell’À vesta non gàthico, ad  ognuna delle Entità è opposto un arcidemone che in molti casi le chia¬  rifica. Il quadro è il seguente:   Entità astratte Elementi materiali arcidemoni opposti   PATROCINATI   1) VohuManah bue   (Il Buon Pensiero)   2) Asa (l’Ordine) fuoco   3) XsaGra (la Potenza) metallo   4) Àrmaiti (il Pensiero terra   Pio)   5) Haurvatà( acque   (l’Integrità, la Salute)   6) AmarstàJ (la piante   Non-Morte,  l’Immortalità)   8. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni, trasposti nelle   ENTITÀ   Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si interpretino le  Entità, questo quadro suscita delle domande: perché questi gli eletti e    Il Cattivo Pensiero   Indra   Saurva   NàqaiOya   La Sete   La Fame   non altri che sarebbero più facilmente concepibili? Perché, non dispo¬  nendo che di così poco posto, gli autori del sistema ne hanno in qual¬  che modo sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute con  rimmortalità, che quasi senza eccezioni è nominata insieme ad essa?  Perché questi posti precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni che  sono antichi dèi funzionali condannati dalla riforma?   Un confronto delle Entità zoroastrianc con la lista vedica e mi¬  tannica degli dèi funzionali, mostra dove bisogna cercare la soluzione  d’insieme.   1 ) Le ultime due, fra i cui nomi vi è assonanza e che sono presso  a poco inseparabili, ricordano per le nozioni così simili che esprimo¬  no, per gli elementi materiali associali c per il loro posto gerarchico, i  gemelli Nàsatya, indissociabili, donatori di salute e di vita, ringiovani-  tori dei vecchi, tecnici delle virtù medicali contenute nelle acque c nel¬  le piante.   2) Prima di queste, la terza Entità è la Terra in quanto madre, nu¬  trice e modello della padrona di casa iranica: ricorda così la dea varia¬  bile (Sarasvatl, notoriamente) che si vede talvolta unita ai Nàsatya nel¬  le enumerazioni vedichc che segnalano la terza l’unzione. Così il  dominio delle tre ultime Entità zoroastrianc, designate tutte da sostan¬  tivi femminili, mentre quelle superiori sono nominale da neutri (cf. in  vcdico vis, femminile, contro brahman c ksutriì, neutri), è quello della  terza l’unzione. In più, nella persona di Àrmaili, è a una Entità della ter¬  za funzione che il sistema oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazio¬  ne (ridotta a un unico personaggio) delle due divinità canoniche della  stessa funzione, i Nàsatya.   3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè la stessa pa¬  rola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya c che lin da  Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda l'unzione,  come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta , }> fornisce diffe¬  renzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il «metallo» che  gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma dei lesti espliciti  lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc a lui opposto,  Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra, personaggio  complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua qualità  di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda funzione.   4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o men¬  zionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi signi-    60     ficativi: ASa è la parola avestica (cf. antico-persiano aria-) che corri¬  sponde al vedico ria, l’Ordine cosmico, rituale, sociale, morale,  patrocinato dagli dei sovrani ma principalmente (e negli epiteti che gli  sono propri) dall’inflessibile e terribile Varuna. Vohu Manah, il  «Buon Pensiero», in una serie di passaggi gàthici e in tutta la letteratu¬  ra non gàlhica, è presentato, al contrario, come vicino all’ uomo, al pari  del benevolo e amichevole Mitra, vicino all’uomo e a «questo mon¬  do», in opposizione a Varuna che è «l’altro mondo».   Yasna XLIV contiene a questo proposito due strofe rivelatrici,  le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo lontano e il nostro scenario più  vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo così netto come fa Rgveda IV,  3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli ausiliari di cui si parlerà nel  capitolo seguente). L’elemento materiale associalo a Vohu Manah c il  bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c da tempo riconosciuto (A.  Christensen) che il bue era sotto la protezione particolare del sovrano  Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e dell’arcidemone Indra ricor¬  da che molti inni del Rgveda inscenano delle tenzoni tra i 1 sovrano Va¬  runa e il guerriero Indra, depositari di due morali, la cui divergenza  sfocia facilmente in un conflitto.   9. Intenzione di questa riforma zoroastriana   Altri particolari dello stesso genere arricchiscono e sfumano il  confronto, ma questi sono sufficienti per fondare la soluzione del pro¬  blema delle origini degli Amasa Spanta che io ho estesamente svilup¬  pato nel 1945 nel mio libro Naissance d’Archanges: la lista delle sei  Entità dello zoroastrismo monoteista c stata ricalcala, copiata, dalla li¬  sta degli dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico; più esatta¬  mente, da una variante di questa lista, come si trova in India, che ai cin¬  que dèi maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella  terza funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copia¬  tura? Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non  hanno semplicemente e puramente soppresso questi «falsi dèi»?   Senza dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quel¬  la struttura trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia  come mezzo di analisi c come quadro di riflessione sulla vita; senza  dubbio perché gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro  predicazione e che volevano persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa forma di pensiero e bisognava dunque fornire un  sostituto esatto di ciò che si toglieva loro. Infine, senza dubbio perché  così presentata la lezione era più eloquente: uno degli oggetti pratici  della riforma, come si è visto, era distruggere la morale particolare dei  gruppi di guerrieri e allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e  purificata dalle funzioni sacerdotali.   Elevando, ad esempio, al posto in cui infieriva sino allora l’au¬  tonomo Indra, l’esemplare figura di una «Potenza», XSaGra, devota  alla santa religione, si portava ai sostenitori dell’antico sistema un col¬  po più rude della semplice negazione del dio pagano o della semplice  soppressione di questa provincia della teologia. In un certo senso si  può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo delle Entità, sia con¬  sistita nella sostituzione di ogni divinità della lista trifunzionale con  una equivalente, che conservava il suo rango ma che essenzialmente  era privata della propria natura e animalo da un nuovo spirito, dallo  spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio unico.   Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli stu¬  diosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi,  questa Entità che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili.  Si spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il  dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino  uniformemente a pensare, circa il loro comportamento, al gruppo in¬  diano dei due primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra  e Varuna sono i principali.   Questa analogia, che è un fatto incontestabile e che B. Geiger e  K. Barr hanno avuto ragione di mettere in risalto ampiamente, non ha  comunque risolto il problema delle origini delle Entità: esse non sono  gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani vedici, ma gli equi¬  valenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli energicamente ri¬  portati al tipo unico di una «santità» esigente: dèi sovrani certo, ma an¬  che, sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi vivificanti che li  completano.   10. Gli dèi indo-iranici delle tre eunzioni e le spiegazioni   CRONOLOGICHE   Questa spiegazione degli Amasa Spanta, immediatamente am¬  messa da molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli ampiamenti e alcuni li ritroveremo al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui limitarmi e  sottolineare la principale conseguenza del punto di vista comparativo.  Riportando ai tempi indo-iranici la lista canonica mitannica e vedica  degli dèi delle tre funzioni con la loro gerarchia, ci è precluso ogni ten¬  tativo di spiegare questa lista e questa gerarchia con avvenimenti sto¬  rici o della preistoria recente dei tempi vedici.   Indra non è, non può più essere considerato come un «gran dio»  che, ad esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conqui¬  sta sarebbero «in procinto» di sostituire a un più antico «gran dio» Va¬  runa che in seguito avrebbe sviluppato il suo prestigio alle spalle di un  più vecchio dio Mitra.   Se così fosse, come comprendere che questa situazione, effime¬  ra per natura, questi rapporti instabili di dèi in crescita e di dèi che re¬  trocedono si siano fissati e cristallizzati allo stesso stadio di evoluzio¬  ne, disegnando lo stesso quadro d’insieme (arrestando per secoli allo  stesso massimo il progresso di uno dei termini e allo stesso minimo la  soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani dei Mitanni, negli inni e  nei rituali propriamente vedici e ancora, nel politeismo iranico che si  lascia leggere in filigrana sotto la teologia di Zoroastro?   La «storia» non può essere stata in questo punto tre volte identi¬  ca, aver avuto degli effetti intellettuali così simili in queste tre società  precocemente separate.   La sola interpretazione plausibile è che egli Indo-Iranici ancora  indivisi, qualunque fosse il loro punto di partenza, erano arrivati ai li¬  miti delle loro Terre Promesse in possesso di una teologia in cui i rap¬  porti di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano già come li  ritroviamo negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il raggruppa¬  mento degli dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato fortuito di  avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico, un’analisi e una  sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così fortemente come  la «destra» presuppone e chiama la «sinistra», in breve, presuppone  una struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è pensato di  ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di Varuna rispetto  a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in cui questi dèi  si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno stesso in cui Indra  si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che messe in scena del¬  la tensione che esiste tra 1’«aspetto Varuna» della funzione sovrana e la funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne risenta  pienamente i benefici.   I miti collegati ai signori divini delle funzioni devono, almeno  in parte, illustrare con chiarezza la divergenza delle funzioni e devono  farlo senza i riguardi e i compromessi che la pratica sociale impone: è  chiaro, ad esempio, che se la sovranità magica assoluta e la pura forza  guerriera fossero portate agli estremi sfocerebbero in dei conflitti e di  fatto in certi momenti della vita della società a causa di tali conflitti si  producono usurpazioni, anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la  teologia dei rapporti tra Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella  grande maggioranza dei casi essi collaborano, ma in qualche testo dia¬  logato i poeti sono portati a questo estremo, che i politici evitano sag¬  giamente e per meglio definirli, per «vederli» e «farli vedere», li han¬  no opposti come rivali. Stando così le cose, si tratta di un esercizio  retorico sicuramente antico, poiché come si è visto lo zoroastrismo ha  scelto Indra scomunicato, demonizzato, per farne l’avversario parti-  col are di Asa, cioè dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna.   11. Comunicazione tra gli dèi delle tre funzioni   Questa osservazione deve essere completata da un’altra inver¬  sa. La definizione funzionale dei tre livelli divini è statisticamente ri¬  gorosa (la letteratura vedica è assai abbondante perché la statistica vi  possa trovare un appiglio certo), precisa non solo nei testi dove tali  funzioni sono intenzionalmente classificate o perlomeno raggruppate,  ma anchenella maggior parte dei testi in cui un poeta considerao invo¬  ca gli dèi di un solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni religio¬  ne le effusioni della pietà, della speranza e della confidenza talvolta  debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è soprattutto  vero per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso dei tempi stori¬  camente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli inni), han¬  no così spesso portato a riconoscere l’identità profonda dell’essere  sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per esprimere con¬  cretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli attributi  degli altri.   In più, nella pratica, ciò che interessa l’uomo pio è sicuramente  la diversità dei soccorsi che può ricevere e delle porte mistiche a cui può bussare, ma è anche e soprattutto la solidarietà e la collaborazione  di tutti gli dèi che gli rispondono.   Infine, nelle opere stesse per le quali gli uomini chiamano gli  dèi, capita che la totalità o più parti deH’insiemc funzionale si trovino  interpellati da degli specialisti che gli sono estranei. L’esempio mag¬  giore è quello della pioggia che gonfia le acque del suolo, che fornisce  direttamente o indirettamente il tipo di ricchezza pastorale e agricola,  la salute stessa, di cui si occupano gli dèi della terza funzione; ma essa  c ottenuta grazie alla battaglia celeste, strappata sotto forma di fiume o  di vacche celesti agli avari demoni della siccità, e questo è il compito,  il gran compito di Indra c dei suoi aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei Marut.   Congiungere il cielo e la terra e assicurare la sopravvivenza del  mondo è anche l’interesse degli dèi sovrani c l’operazione tecnica si  svolge infine grazie allo specialista Parjanya.   Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a lare sempre questa  giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c comune c quindi  la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande guerriero Indra sia  così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma della sua azione,  in quanto donatore di fecondità e di ricchezza.   Ma il lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare  il modo violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per li¬  berare le acque: egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cer¬  chia dei Pfisan o dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente esistita tra gli  Indo-Iranici prima della loro divisione, come l’ideologia tripartita,  l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica ancora c deve es¬  sere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c necessario ri¬  cercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei antichi, c suffi¬  cientemente conosciuti, se delle équipes analoghe sono attestate dagli  usi rituali o da formulari.   Questa ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha immediatamente  portalo a risultati nei domini italici e germanici. Ma allo stesso tempo,  in questi domini in cui gli specialisti, nella loro autonomia, avevano da  lungo tempo costruito delle maestose c dotte spiegazioni di ogni cosa.la nuova interpretazione ha dovuto rimettere i n questione molti pseu¬  do-fatti, dimostrando la fragilità di molte pseudo-dimostrazioni, in  modo tale che spesso non è stata considerata la benvenuta.   In sintesi, le opposizioni sono soprattutto nate dal fatto che le  «filologie separate», sia scandinava che latina, si erano abituate a pen¬  sare cronologicamente - secondo una cronologia ipotetica e soggettiva  - la preistoria, la «formazione» dei quadri teologici complessi, presen¬  tati dai documenti antichi, mentre questi quadri, guardati in base alla  prospettiva comparativa che a grandi linee viene qui ricordata,  s’interpretano immediatamente, per l’essenziale, come strutture con¬  cettuali che esprimono la distinzione e la collaborazione delle tre fun¬  zioni esplicitate dagli Indoeuropei.   13. Jupiter, Mars, Quirinus e Juu-,Mart-, VOFION(O)-   Le due società italiche di Iguvium e Roma - l’una umbra e  l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci informano, presenta¬  no due varianti di una triade in cui i due primi termini sono identici:  Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus nella più  antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo incoraggia a non cer¬  care per la triade romana, com’è d’uso, una spiegazione fondata sul  caso, sugli apporti successivi o sui compromessi di una storia locale:  com’è possibile infatti che due serie di avvenimenti indipendenti pos¬  sano suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili?   14. La triade precapitolina   L’esistenza della triade romana, che si è anche voluto contesta¬  re ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal fatto che questi dèi  sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti da tre sacerdoti senza  omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo sacerdotum: Festo, p.   198, Lindsay) che sono, al di sotto del rex sacro rum, erede ridotto e sa¬  cerdotale degli antichi re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7 amines  maiores, cioè il dialis, il martialist il quirinalis. Questa triade capito¬  lina, vero fossile nell’epoca storica, respinto dall’attualità di una tria¬  de differente formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è rima¬  sta legata a molti rituali e a rappresentazioni evidentemente arcaiche.    66     Una volta all’anno, in una cerimonia la cui fondazione era attri¬  buita a Numa (Tito Livio I, 21, 4), i treflciminesMciiores attraversava¬  no solennemente la città in uno stesso carro e facevano congiuntamen¬  te un sacrificio alla dea Fides. I sacerdoti Salii che conservavano tra i  dodici ancilici indiscernibili il talismano caduto dal cielo cui era stata  attribuita la fortuna di Roma, erano in tutela Jovis, Martis et Quirini  (Servio, ad Aen., Vili, 663).   Il tragico rituale della devotio, con il quale il generale romano,  per salvare il proprio esercito, si immolava agli dèi sotterranei  contemporaneamente all’esercito nemico, era introdotto da una for¬  mula, da un’enumerazione di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di certo  trascritto esattamente e che dopo Janus, dio di ogni inizio, nominava  innanzitutto l’antica triade: Giano, Jupiter, Mars Pater , Quirinus, poi  Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la conclusione di un trattato, secondo Po¬  libio (III, 25, 6), i sacerdoti feziali prendevano come testimoni prima  Jupiter, poi Mars e infine Quirinus.   Il carattere comune di queste circostanze, in cui la triade preca¬  pitolina è presentata come tale, è che il corpo sociale di Roma è inte¬  ressato nel suo insieme e nella sua forma normale: mantenimento del¬  la fides pubblica, senza cui la coesione sociale è impossibile;  protezione continua o urgente; impegno diplomatico. Il sacrificio a Fides è particolarmente rivelatore poiché è la sola  circostanza conosciuta in cui i tre flamines maiores agiscono insieme;  ma lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro, l’unità  dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la garanzia  di Fides l’unità delle tre «cose» che Jupiter, Mars e Quirinus patroci¬  nano distributivamente; tre «cose» la cui sintesi o aggiustamento sono  essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste «cose»?   15. Valore di Jupiter e di Mars nella triade precapitolina   La risposta non necessita di grandi sforzi, sempre che si preferi¬  sca il sentimento dichiarato dai Romani stessi contro le ricostruzioni  ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli epigoni di W. Mannhardt o da  archeologi poco coscienti dei limiti della loro arte; sempre che non si  dimentichi che questi dèi sono stati associati e gerarchizzati a Iguvium  e a Roma poiché rendevano dei servizi differenziati e complementari;  e infine, a condizione che si attribuisca un valore particolare, trattandosi di divinità dei tre flamines maìores, a ciò che insegna l’ufficio di  questi sacerdoti. Se si osserva questa regola, e queste precauzioni, si  riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello stesso tempo il Dius  (nel capitolo seguente si mostrerà il senso di questa sfumatura), onora¬  to dagli atti del flamen dialis , e dal suo comportamento pieno di innu¬  merevoli precetti positivi e negativi, è il dio che dall’alto del cielo pre¬  siede all’ordine e all ’osservazione più esigente del sacro, garante della  vita, della continuità e della potenza romana.   Quanto a Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegna¬  mento dei migliori testi epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio com¬  battente di Roma, patrono della forza fisica, di quella forza che può, al  pari del vedico Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non  di più) dal contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno biso¬  gno di essere forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o  invisibili, possono minacciare.   Questa forza è sempre rimasta la forza che dona la vittoria, sin  dai tempi favolosi delle origini e fino al declino dell’impero, nella  schiacciante maggioranza degli impieghi conosciuti.   16. QuiRINUS   Per Quirino, l’unico «invecchiato» fra i tre dèi in epoca storica,  gli eruditi antichi hanno generosamente costruito, su dei pressapochi-  smi etimologici allora correnti, delle teorie contraddittorie che com¬  plicano il lavoro; ma fortunatamente disponiamo degli uffici adem¬  piuti dal suo flamen e di molti altri fatti cultuali, del suo nome e di  qualche indicazione oggettiva degli antichi.   Queste diverse fonti informative forniscono un quadro com¬  plesso ma coerente.   I ) Siamo a conoscenza di tre circostanze in cui officia il flamen  quirinalis. Ai Robigalia del 25 aprile sacrifica un cane in un campo nei  pressi di Roma e allontana così (verso le armi da guerra, aggiunge  Ovidio) la ruggine che minaccia le spighe. Ai Consualia del 21 agosto  sacrifica sull’altare sotterraneo di Consus, dio del grano messo in  provvista ( condere ); il 23 dicembre sacrifica sulla «tomba» di Laren-  tia, la cortigiana che incarna in una celebre storia la voluttà, la ricchez¬  za e la generosità e che ha meritato di ricevere un culto, legando la sua  fortuna a quella del popolo romano. La festa propria di Quirino, i Quirinatici del 17 febbraio, coincide con (e probabilmente è) l’ultimo atto  dei Fornacalia, cioè delle feste curiali della torrefazione del grano.   Nelle altre due circostanze rituali in cui appare, Quirino è asso¬  ciato alla dea Ops, cioè all’Abbondanza rurale personificata: una iscri¬  zione ci insegna che il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figura¬  no tra le divinità onorate senza dubbio contro gli incendi (C/L I 2 , p.  326). La leggenda che giustifica l’esistenzadei Salii di Quirino, dimo¬  stra che il voto fondante questo collegio è stato fatto per la stessa ra¬  gione del voto che istituiva la festa di Ops e di Saturno.   Tutti questi dati, che costituiscono l’intero dossier cultuale del  dio, attestano che la sua attività è uniformemente e unicamente in rap¬  porto con le sementi (tre feste, tra cui la sua), con le divinità agricole  Consus e Ops, con la ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso senso si  spiega il fatto che nel 390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando bisognava  seppellire gli oggetti sacri di Roma, questo compito non spettasse al  rex o al flamen dialis, primi sacerdoti dello stato, come ci si sarebbe  aspettato, ma al flamen quirinalis.   2) Il nome di Quirino è sicuramente inseparabile da quello dei  Quirites, cioè dall’insieme dei Romani considerati nelle loro attività  civili in opposizione totale a ciò che essi sono in quanto milites (un  aneddoto ben noto di Cesare lo prova).   P. Kretschmer aveva proposto di spiegare Quirites con curia  (volscio couehriu), come «gli uomini riuniti nei loro quadri sociali»,  essendo QuTrinus (cf. dominus da domus) il patrono di questa entità  della «massa sociale organizzata» ( *co-uir-io/a -). L’etimologia, in sé e  prsé soddisfacente, è stata resa molto probabile da V. Pisani ( 1939) e in¬  dipendentemente da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato come  il nome dell’omologo di Quirinus nella triade umbra di «Jupiter, Mars,  Vofionus» possa essere il compimento fonetico rigoroso di un *Le-  udh-yo-no «patrono della massa» (cf. il tedesco Leute, latino liberi,  «massa di uomini liberi, bambino di nascita libera» etc.), esatto paralle¬  lo e sinonimo dal latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al pari  della coltivazione del suolo, aspetti considerati dalla terza funzione.   3) Ma lo stile di questa pace è marcato dall’impronta romana e  contribuisce al sorprendente meccanismo che in qualche secolo ha  conquistato e romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico e  stabilisce il pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si è mai trattato di una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi erano  deposte ma conservate; in cui i civili Quirites erano anche mobilitabi¬  li, i milites del domani; in cui i comitia legiferanti non erano che  l’ exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto nei suoi  quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla guerra.   È questo regime, questo stato di spirito che Quirino governa e  che esprime eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei flamines  minores, il Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle porte ( por¬  tele ) delle città, prima di essere quello dei porti (j)ortus ) - ha l’incarico  di ungere le «.armidi Quirino» (Festo s .v.persillum, p. 238, Lindsay),  cioè di compiere il gesto di ogni mobilitazione alle armi: le quali pos¬  sono anche non essere utilizzate, al momento, ma verso le quali può  sopraggiungere improvvisamente l’esigenza di ricorrervi.   Questa ambivalenza Quirites-milites dei Romani, questa con¬  cezione militare della pax romana , spiegano sufficientemente come  Quirino possa essere stato considerato una varietà di Marte e come i  Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi, abbiano scelto per tradur¬  re il suo nome quello di un vecchio dio guerriero, differente da Ares,  ’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo contesto su  due note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un tempo  «assurde», ma alle quali la nuova prospettiva «trifunzionale» ha con¬  ferito pieno valore (ad Aen. I, 292; VI, 859):   «... Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum saevit)  quando è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A Roma possiede  due templi: uno all’interno della città, in qualità di Quirino, cioè di  guardiano e di dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),' l'altro sul¬  la via Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio guerrie¬  ro o Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte che  presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro Roma  mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio fuori  Roma ».   17. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti leggendari di  Roma   Questa rapida esposizione, spogliata dalle innumerevoli di¬  scussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i punti, basterà a dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade precapitolina,  l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni termine. Cielo ed  essenza stessa della religione come supporto di Roma; forza fisica e  guerra; agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace vigilante: queste  etichette definiscono tre ambiti complementari che disegnano una  struttura sicuramente anteriore a Roma e a Iguvium, dunque italica, e  quindi così vicina alla struttura indo-iranica da dirsi risalente ai tempi  indoeuropei.   Non sarà inutile ricordare qui i valori funzionali di cui appaiono  rivestite, nei racconti sulle origini di Roma, le tre componenti etniche,  base leggendaria delle tre tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi com¬  pagni sono i depositari del potere sovrano e degli auspici; i suoi alleati  etruschi, sotto il comando di Lucumone, sono gli specialisti dell’arte  militare; i suoi nemici, Tito Tazio e i Sabini, sono provvisti di donne,  ricchi in bestiame e in più detestano la guerra e fanno di tutto per evi¬  tarla. Una variante frequentemente attestata (l’abbiamo ricordata in I §  7) minimizza la componente etrusca e concentra le due prime caratte¬  ristiche su Romolo e i suoi compagni.   Sotto questa forma la triade precapitolina si divide molto ade¬  guatamente tra i due gruppi di avversari e futuri associati: Romolo è  costantemente il protetto di Jupiter (gli auspici iniziali; Jupiter Fere-  trius e Jupiter Stator in battaglia) ma è figlio di Mars e trova riuniti in  sé i favori dei due primi dèi della triade; Quirino (in questo insieme  leggendario soltanto) è considerato come un dio sabino, il «Marte sa¬  bino» portato in dote da Tito Tazio a Roma nella riconciliazione fina¬  le, allo stesso modo del nome collettivo dei «Quirites» (ma questa pse-  udo-sabinità dei Qui riti e di Quirino, benché conf orme al carattere dei  Sabini della leggenda, portatori della terza funzione, si spiega col gio¬  co di parole, popolare tra gli eruditi di Roma, «Quirites-Cures»),   Si sa che un’altra forma della leggenda, incompatibile con que¬  sta, fa di Quirino il nome postumo di Romolo, riunendo così sul solo  fondatore i tre termini della triade divina in base agli auspici, alla filia¬  zione e all’apoteosi.   18. Varianti della triade Jupiter, Mars, Quirinus   Della leggenda delle origini, Varrone (De ling. lat., V, 74) e  Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato un aspetto importante: all’epoca della riconciliazione di Romolo con Tito Tazio e  dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella comunità, ormai completa e  in via di sviluppo, ognuno dei due re istituisce dei culti e mentre Ro¬  molo fonda solo il culto di Jupiter, Tito Tazio instaura Quirinus e un  gran numero di dèi e dee che hanno rapporto con la vita rurale, la fe¬  condità e il mondo sotterraneo.   Questa tradizione è molto interessante perché sottolinea ciò che  è stato già segnalato a proposito dell’India (II, § 5); la molteplicità de¬  gli aspetti, l’inevitabile frazionamento di questa «terza funzione» che  Tito Tazio incarna, ma soprattutto perché tra gli «dèi di Tito Tazio»  (che non sono certamente sabini ma romani, a dispetto della colorazio¬  ne etnica della leggenda) molti f igurano in terza posizione, nelle triadi  che non sono altro che varianti della triade canonica «Jupiter, Mars,  Quirinus», come Ops (abbiamo già segnalato i suoi rapporti con Quiri¬  no) o Flora.   1 tre gruppi di culto della Regia, della «casa del re», che corri¬  spondono senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano giustap¬  poste nelle rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi sacri del più  alto rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del flamen  dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium Marti.?, 3) cul¬  ti del sacrarium Opis Consivae, la dea dell’abbondanza.   Questa collocazione dei tre livelli funzionali manifestava sensi¬  bilmente che la stessa forma di religione che si analizzava e che si dis¬  sociava nelle persone dei tre grandi flamines, creava al contrario una  sua sintesi quando passava nelle mani del rex, quando era il rex che  l’amministrava, non più in quanto incarnazione ma, nel nome di Ro¬  ma, come gestore delle forze sacre.   Quanto alla triade «Jupiter, Mars, Flora» (rimpiazzata più tardi  da Venere) sembra essere stata lei a patrocinare i tre carri delle corse  primitive (in relazione con le tre tribù funzionali e i tre colori bianco,  rosso, verde; vedi sopra I, § 21 ). Flora meritava due e tre volte questo  posto, per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di  lei un doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a  Roma stessa, senza dubbio più alla massa romana che all’entità politi¬  ca patrocinata da Quirino.   Un’altra variante della triade - «Jupiter, Mars, Romulus, Re-  mus» - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla fondazione di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica in¬  do-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la  protezione del terzo livello.   19. Gli dèi delle tre funzioni in Scandinavia   Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello stes¬  so tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente, come ul¬  timo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di quella  precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile - se¬  condo schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e sin¬  cretismi tra culti successivamente comparsi.   Lacritica a questo tipo di spiegazioni facili e seducenti, che cre¬  dono di basarsi logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrap¬  pongono arlifi cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora esse¬  re fatta poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia volentieri.  Nel piano ridotto del presente libro dovremo semplicemente prescin¬  derne ma dichi arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm (1925,1946,  1953), da E. Wessén ( 1924) a E. A. Philippson (1953), i numerosi ten¬  tativi fatti per dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa re¬  cente (sostituito a *Tiuz) o che in Scandinavia il più antico «gran dio»  è Pórr (sempre che non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto  dell’intelligenza, dell’erudizione e del talento dei loro autori.   Ci limiteremo dunque ai fatti e quindi all’esistenza stessa della  triade in quanto tale. E questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo  di Brema ha vi sto regnare nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la de¬  scrizione del meccanismo trifunzionale (Gesta Hammaburgensis  eccl. Pontificium, IV, 26-27); è lei che appare dalle formule di maledi¬  zione come dai poemi eddici o dagli scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr,  Njòrdr: Egilssaga, 56); è lei che si sprigiona dal racconto della batta¬  glia escatologica ( Vòluspà , 53-56) in cui ognuno dei tre dèi lotta con¬  tro uno dei maggiori avversari che soccombe sotto i suoi colpi; è lei  che si spartisce i gioielli divini (Skaldskaparmal, cap. 44) ed è lei che  rappresenta l’intera mitologia in cui le altre divinità - salvo la dea  Freyja, strettamente associata a Freyr e Njòrdr e che li completa - sono  come comparse che circondano questi «primi ruoli» e che si definisco¬  no in rapporto ad essi. Ci si ricorderà che nella leggenda delle sue origini Roma si è ri¬  dotta spesso a due componenti, benché comprendesse tre tribù che  rappresentavano tre funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi compagni,  detentori di cleos et virtutem, la potenza del sacro e i talenti guerrieri, il  dominio di Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i suoi Sabini erano  quelli che apportavano delle specialità loro connesse, cioè le donne e  le ricchezze, opes.   Il quadro scandinavo della formazione della società divina  completa è dello stesso tipo: i componenti riuniti per una riconcilia¬  zione ed una fusione conseguente a una guerra terribile, sono due, gli  Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il capo, mentre Pórr è il più eccelso  dopo di lui; trai Vani sono invece Njòrdr, FreyreFreyjaipiù eminenti  e i soli nominati individualmente.   La distinzione funzionale degli Asi c dei Vani è chiara e costan¬  te. I Vani, specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano al massimo  la tipologia, anche se capita loro di essere o di fare altre cose, sono in¬  nanzitutto dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di ricchezze e  patroni del piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa, della fecon¬  dità e della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente ed  economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o al  mare in quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr).   A questi tratti dominanti si oppongono quelli dei principali Asi.  Né Ódinn né Pórr certamente si disinteressano delle ricchezze del su¬  olo, ecc., ma da quando la mitologia scandinava ci è conosciuta i loro  centri sono altrove: l’uno è un mago potente, signore delle rune, capo  della società divina; l’altro è il dio col martello, nemico dei giganti ai  quali peraltro assomiglia (si pensi al suo «furore»); è il dio tuonante  (nel suo stesso nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia e  anche nel folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellico¬  sità in maniera atmosferica e violenta, non terrena c progressiva.   Il senso da attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il pro¬  blema centrale che domina tutte le interpretazioni delle religioni scan¬  dinave c di quelle germaniche, anche laddove le spiegazioni cronolo¬  giche c storiche (di storia immaginaria) affrontano con vivacità le  spiegazioni strutturali e concettuali. I fatti riuniti dall’inizio di questo libro apportano un grande so¬  stegno agli strutturalisti: il parallelismo delle teologie indo-iraniche e  italiche ci fa precisamente attendere, presso i popoli imparentati, una  teologiaed unamitologiadel tipo presentato dagli Scandinavi, che op¬  pone per meglio definirli e che ricompone per creare un insieme vitale:  1 ) delle figure divine che patrocinano ciò che è sotto il magistero degli  Asi, Ódinn e Pórr, l’alta magia e la sovranità da una parte, e la forza  brutale dall’altra; 2) delle figure divine del tutto differenti che patroci¬  nano ciò che è sotto il magistero dei tre grandi Vani, la fecondità, la  ricchezza, il piacere, la pace, etc. etc.   21. La guerra degli Asi e dei Vani e la guerra dei  Protoromani e dei Sabine formazione di una società   TRIFUNZIONALE COMPLETA   La frattura iniziale, che separa i rappresentanti delle due prime  funzioni e quelli della terza, è un dato indoeuropeo comune: lo stesso  sviluppo mitico (separazione iniziale, guerra e poi indissolubile unio¬  ne nella struttura tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a Roma,  sul piano umanoenei racconto delle origini dell’Urbe(guerrasabinae  sinecismo), ma in India, dove è detto che gli dèi canonici del terzo li¬  vello, gli Asvin, non erano inizialmente degli dèi, ma entrarono nella  società divina come terzo termine al di sotto delle «due forze» (ubhe  virye) solamente in seguito a un conflitto violento conclusosi con una  riconciliazione e un’alleanza.   Come si potrà prevedere, i dettagli di queste leggende sono stati  scelti e raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le «funzioni» ri¬  spettive delle diverse componenti della società e i procedimenti speci¬  fici che queste «funzioni» attribuiscono ai loro rappresentanti. L’ana¬  lisi comparata della leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani  e Sabini e della leggenda scandinava sulla «prima guerra nel mondo»  degli Asi e dei Vani (a cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le  strofe 21-24 della Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e  conferito un senso sia all’una che all’altra.   Ambedue sono formate da un dittico, da due scene in cui ciascu¬  no dei due campi nemici ha il vantaggio (vantaggio limitato e provvi¬  sorio poiché è necessario che il conflitto finisca senza vittoria e con un patto liberamente consentito) ed è debitore di questo vantaggio alla  sua specificità funzionale. Da una parte i ricchi e voluttuosi Vani che  corrompono daH’interno la società (le donne!) degli Asi, inviando  loro la donna chiamata «Ebbrezza dell’Oro»; dall’altra parte Ódinn  che lancia il suo famoso giavellotto di cui è noto l’irresistibile effetto  magico e di panico.   Allo stesso modo i ricchi Sabini, da una parte, ottengono quasi  la vittoria occupando la posizione-chiave dell’avversario, non col  combattimento, ma acquistando con l’oro Tarpeia (in una variante,  grazie all’amore cieco di Tarpeia per il capo sabino); dall’altra parte  Romolo, grazie a un’invocazione a Jupiter (Stator) ottiene dal dio che  l’armata nemica vittoriosa venga improvvisamente, e senza motivo,  invasa dal panico.   22. Sviluppo della funzione guerriera presso gli antichi  Germani   Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi conseguenze  che ha determinato ben presto, e non solamente presso gli Scandinavi  ma fra tutti i Germani, una deformazione della struttura delle tre fun¬  zioni e della teologia corrispondente.   Da nessuna parte, certamente né a Roma né in India, gli dèi del  primo livello, Varuna e Jupiter, si disinteressavano della guerra: se è  vero che non combattono propriamente come Indra o Marte è anche  vero che mettono le loro magie al servizio della parte che favoriscono  e sono loro, in definitiva, che attribuiscono la vittoria, la quale, se è in  effetti conquistata con la Forza, interessa soprattutto l’Ordine per le  sue conseguenze.   Non ci si sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire nelle  battaglie, senza combattere molto, ma gettando sull’armata che ha  condannato un panico paralizzante, il «legame dell’esercito» herfjò-  \)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è certo che la parte della  «guerra» nella sua definizione è di gran lunga piu considerevole che  nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in lui - e anche  nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel prossimo ca¬  pitolo e che è interpretato da Tacito come Marte - si constata più di una  osmosi, un vero e proprio ribaltamento e straripamento della guerra  nell’ideologia del primo livello. All’epoca in cui si sono formate le loro epopee, gli «eroi odinici» - Sigurdr, Helgi e Haraldr Den-  te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e nell’aldilà  sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie guerriere, che  Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in certi luo¬  ghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario, ad averperso  il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli uomini) ed è  sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici contro i giganti  e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha giustificato e popo¬  lari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato Freyr dal la parte agri¬  cola della sua provincia. Questa doppia evoluzione sembra essere sta¬  ta spinta all’estremo tra gli Scandinavi più orientali, presso i quali così  Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i tre dèi della triade di Uppsala.   «Thor presici et in aere, qui tonitrus et fulmina, ventos ymbre-  sque, serena et fruges gubernat. Alter Woclan, id est furor, bella gerit  hominique ministrai virtutem contro inimicos. Tercius est Fritto  (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens mortalibus...   Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur, sibellum, Woda-  ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi».   Anche se si ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi  di Uppsala fosse più ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle  brevi osservazioni di Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio  principale poiché figura nel mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un  martello che ha scambiato per uno scettro e perché, tuonante, lo ha as-  similato a Giove), non vi è ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo  scivolamento della guerra nel dominio di «Wodan» e lo scivolamento  inverso di «Thor» al servizio dei contadini sono dei fatti. Ma se ne  comprende l’origine (come su altri punti relativi alla Scandinavia) e  dove lo stesso fenomeno si osserva, i valori dei tre dèi restano essen¬  zialmente vicini a quelli dei loro omologhi indiani e romani.  Stato del problema presso i Celti, i Greci e gli Slavi   Sulle altre parti del dominio indoeuropeo, a causa di diverse ra¬  gioni - cronologia troppo recente, imprestiti massicci da sistemi reli¬  giosi non indoeuropei - è difficile constatare immediatamente le strut¬  ture teologiche corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi dei ragionamenti e di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato  di cose è particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui  l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna rassegnarsi.   In Grecia, dove la religione non è essenzialmente indoeuropea,  il raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore Paride resta ad  esempio un gioco letterario e non forma evidentemente un’autentica  combinazione religiosa.   In Gallia, dove la classificazione degli dèi riportata da Cesare (e  confermata dai testi irlandesi sui Tuatha Dé Danann) ricorda per molti  versi la struttura delle tre funzioni, quest’analogia con la filiazione, e i  ritocchi che suggerisce, suscitano più problemi invece che risolverli.  Quanto al paganesimo degli Slavi, questi sono così poco conosciuti  perché i tentativi di spiegazione tripartitapossano essere altra cosa che  brillanti ipotesi.   Ma la concordanza delle testimonianze sui tre domini, in¬  do-iranico, italico e germanico, in cui le antiche religioni sono state de¬  scritte in maniera sistematica dai loro stessi rappresentanti, è sufficiente  a garantire che sin dai tempi indoeuropei l’ideologia tripartita aveva  dato luogo a una teologia della stessa forma; a un gruppo di divinità ge-  rarchizzate che esprimevano i tre livelli; e ad una «mitologia eziologi¬  ca» che giustificava la differenza e la collaborazione di queste divinità.   24. Divinità che sintetizzano le tre funzioni   Ci limiteremo a segnalare nella teologia un altro utilizzo fre¬  quente della struttura tripartita, non analitico ma sintetico. Vi sono in¬  fatti divinità che sia i saggi che i fedeli tengono a definire, in opposi¬  zione agli dèi specialisti delle tre funzioni, come onnivalenti,  domiciliate ed efficienti sui tre livelli. Questo tipo di espressione si è  prodotta indipendentemente in diversi luoghi, per esempio nelle civil¬  tà mediterranee, quando una divinità patrona o eponima di una città ha  assunto un’importanza a svantaggio di altri dèi o di équipes divine:  così, presso gli Ioni di Atene, dove sembra che una teologia tripartita  (Zeus, Athena, Poseidone, Efesto) concernesse innanzitutto le quattro  tribù funzionali (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena  che in epoca storica domina la religione.   Così, seguendo la felice osservazione di F. Vian, durante le pic¬  cole Panatenee, ella riceveva successivamente degli omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e Niké, vocaboli che evocano le funzioni di sa¬  lute, sovranità politica e vittoria. Allo stesso modo, nello zoroastrismo  si è prodotta la tripla titolatura Buone, Forti, Sunte dei geni tutelari, le  FravaSi, che sono in effetti trivalenti.   25. Dee trivalenti   Tuttavia, tra queste figure sembra che bisogni far risalire alla  comunità indoeuropea un tipo di dea la cui trivalenza è così messa in  evidenza e che è intenzionalmente congiunta agli dèi funzionali: que¬  sta dea, che per il suo stesso sesso e per il suo punto d’inserimento nel¬  le liste è connessa alla terza funzione, è tuttavia attiva in tutti e tre i li¬  velli e sembra che la sua presenza nelle liste esprima il teologhema di  una multi valenza femminile che raddoppia la molteplicità degli spe¬  cialisti mascolini.   Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle liste trifunzio¬  nali vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli epi¬  teti di SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono  chiaramente come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno  dall’altro, sia io (1947) che H. Lommel (1953) abbiamo proposto di  interpretare come un’omologa di SarasvatT e come l’erede della stessa  dea indo-iranica, la più importante delle dee del \'Avestu non-gàthico,  anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il nome completo e triplice di  Anàhità, fa evidentemente riferimento alle tre funzioni: «l’umida, la  forte, l’immacolata», AradvT, Suri, Anàhità. Ed è ancora per sublima¬  zione dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo puro ab¬  bia creato la sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente al  terzo livello (dopo XsaSra, «Potenza» e prima di Haurvatà(-Amar,?là(,  «Salute» e «Immortalità») e benché non in possesso di una tripla tito¬  latura, porta un nome che significa «Pensiero-Pio», aiuta Dio nella sua  lolla contro il Male ed ha come elemento materiale la terra nutrice dif¬  ferenzialmente associata.   Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone era onorata sotto il triplice  epiteto di Seispes Mater Regina, i due ultimi epiteti riportano alla teo¬  logia della Giunone romana (Lucina, etc.; Regina) patrona della fe¬  condità regolata c dea sovrana; ma a Roma la specificazione guerriera  manca, mentre era in evidenza nella figura di Giunone lanuvia e certa¬  mente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro Seispet- (rom. sospit-,  da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati, eie.).  Infine, nel mondo germanico, considerando i Germani conti¬  nentali, sembra che una dea unica e polivalente (se non onnivalente),  *Friyyò fosse congiunta ai multipli dèi funzionali di cui abbiamo par¬  lato più sopra; se la specificazione guerriera non è attestata, il poco che  si sa di essa la mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano il  nome dei Lombardi) e «Venus» ( *Friyya-dcigaz , «Freitag»), Presso  gli Scandinavi questa multi valenza è esplosa: la dea si è raddoppiata in  Frigg (esito regolare di *Friyyó in nordico), sposa sovrana del signore  magico Ódinn, e in Freyja (nome rifatto su Freyr), dea tipicamente  Vani, ricca e voluttuosa.   In Irlanda un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea epo¬  nima del luogo più importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re  pagani del 1 ’ Ulster con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti-  vamente questo carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni,  poiché è sfociata in tre personaggi, in un «trio di Macha» ordinato nei  tempi. Una Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne-  med, «il Sacro», che muore per un’emozione profonda in seguito a una  visione; poi una Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il  suo generalissimo e che muore uccisa; infine una Madre che accresce  meravigliosamente la fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e  che muore durante l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possi¬  bile determinare quali rapporti avesse nella religione con gli dèi ma¬  schi della stessa funzione.   26. Le teologie tripartite e i loro elementi   Dopo aver preso una visione globale dei sistemi teologici in¬  do-iranici, italici e germanici che esprimono l’ideologia delle tre fun¬  zioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza paralleli per giustifi¬  carne la spiegazione nei termini di un’eredità indoeuropea comune.  Non è che l’inizio: senza perdere di vista la struttura d’insieme,  l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su ognuno dei tre  termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa in se stessa,  poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram ite la comparazio¬  ne tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di determinare come gli  Indoeuropei concepivano, suddividevano e utilizzavano ciascuna di  esse.    80     Note ai paragrafi   § 1. Sulla necessità, per lo storico delle religioni, di non perdere mai di vi¬  sta e di riconoscere le strutture teologiche di cui studia i frammenti, vedi prin¬  cipalmente L’heritage..., cap. I («Matièrc, objet et moyens de étude») - al  quale rimando una volta per tutte circa le questioni di metodo - e DIE, cap. II  («Structure et cronologie»),   § 2-3. Il riconoscimento del raggruppamento arcaico «Milra-Varuna  Indra e i Nàsatya», l’inventario delle circostanze in cui appaiono, sono state  fatte progressivamente in: JMQ, pp. 59-60 (= JMQ it, pp. 38-39); NA pp.  41-52; Tarpeia, 1947, pp. 45-56 (dove sono studiati in dettaglio sei inni del  Riveda fondali su questa struttura); «Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com-  me palrons des trois fonclions cosmiqucs et sociales», Studia Linguistica, II,  1948 pp. 121-129; JMQ IV, pp. 13 - 35 ( «Les dieux palrons des trois f onctions  dans le Rg Veda et dans le AlharvaVeda»); in queste due ultime esposizioni  la divisione degli dèi in tre gruppi «Aditya, Rudra, Vasu», è interpretata nello  stesso senso (cf. DIE pp.7-9).   § 4. La discussione delle spiegazioni anteriori e l’interpretazione nuova  formano il primo capitolo di NA, pp. 15-55 («les dieux Arya de Mitani»), Il  carattere indiano degli Arya di Mitani è reso probabile dalla forma del nume¬  ro «uno» (aika: sanscrito eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT  ha interpretato senza difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al vcdi-  co (JAOS, 67, 1947, pp: 251-253). In seguilo G. Widengren ha sottolineato in  questi nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del nome di Varuna (nel  trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che rinforza questo parlare di  iranico: Numen, II, 1955, pp. 80-81 e note 167, 170.   § 5. DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una faretra cassila c  stata interpretata come rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo  Indra (o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una scena di medicazione mira¬  colosa conosciuta dal Rg Veda : «Dieux cassiles et dieux vediques, à propos  d’un bronze du Lourislan» RHA, 52, 1950, pp. 18-37. Riprenderò prossima¬  mente il problema a partire da una migliore fotografia (la scena c le insegne di  «Mitra e Varuna» devono essere spiegate altrimenti: non vi sono degli altari  ma un vaso raffigurante una lesta di leone) e con degli altri documenti sui  «gemelli»   § 6-9. La spiegazione degli Amai a Spanta costituisce la materia di NA,  cap. II-V; la quarta Entità, Àrmaiti, che sembrava creare allora difficoltà, è  stala spiegata in seguito in Tarpeia , cap. I (=JMQ il.pp. 305-313). Questa in¬  terpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE, «Une legende  indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos de  Hàrut-Màrut», Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947, pp. 10-18; J. DUCHE-  SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 1948 pp. 47-80; Onnazd et Ah rimati, 1953, p.  23; The Western Response to Zoroaster, 1958 pp. 38-51 (vedi specialmente  pp. 45-46 contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER (vedi sotto, nota    81     al III cap. § 13); J.C. TAVADIA «From Aryan Mythology to Zoroastrian The-  ology, aReviewofDumézil’sResearches», ZDMG, 103, 1953, pp. 344-353;  K. Barr, Avesta, 1954, pp. 52-59 e 197; G. WlDENGREN , «Stand und Aufga-  ben deriranischenReligionsgeschichte», Numen, I, 1954, pp. 22-26; S. Har-  TMAN in molti articoli specialmente «Ladisposition de l’Avesta», Orientatili  Suecana, V, 1956, pp. 30-78; e inoltre da altri importanti iranisti. È stata inve¬  ce rigettata senza discussione da I. Gerschevitch e W. Lentz e non è menzio¬  nala nei libri di W.B. Henning e R.C. Zaehner.   § 10. Questo tipo di spiegazione è stata estesa alle Entità già gathiche  come SraoSa e ASi (considerale come sublimazioni degli dèi prezoroastriani  equivalenti agli dèi vedici Aryaman e Bhaga): vedi qui sotto, III, § 8; poi al  non gathico Rasnu e alla Fravasi (considerate come figure purificate corri¬  spondenti a Visnu e ai Maj'ut): «Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa-  striennc», JA, CCXLII, 1953, pp. 1-25; infine a Busyastà (considerata come  una demonizzazione della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques,  1956, pp. 34-37.   § 11. DIE, pp. 22-23.   § 12. Gli attacchi più vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi-  sta; vedi a proposito di H.J. ROSE, RHR, CXXXIII, 1948, pp. 241-243 e D鬠 esses latines..., 1956, pp. 118-123. I germanisti ostili hanno in generale  preferito “ignorare”; tuttavia ho recentemente avuto una gradevole discus¬  sione - la prima - con K. HELM, BGDSL, 77, 1955, pp. 347- 365; 78, 1956,  pp. 173- 180. Un grande numero di «risposte alle obiezioni» si trovano dis¬  seminate nelle prefazioni, note e appendici dei miei libri. Le ultime in ordine  di tempo che hanno un valore generale sono; «Examen de criliques réccnles;  John Brough, Angelo Brelich», RHR, CLII, 1957, pp. 8-30.   § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano solitamente Vo-  fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi. Perla triade umbra vedi  «Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium», RP, XXVIII, 1954, pp.  225-234 e «Notes sur le début du riluel d’Iguvium», RHR, CXLVII, 1955,  pp. 265-267. La triade romana è comparsa proprio a fornire il titolo comune  degli studi sulle tecnologie trifunzionali indoeuropee, pubblicati dal 1941 al  1948.   § 14. L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un articolo  che conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: «La préhisloirc des flami-  nes majeurs», RHR, CXVIII, 1938, pp. 188-200. Sono comparsi in seguito  JMQ, cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage... pp. 72-101.   § 15. Contro il «Marte agrario» vedi NR, pp. 38-71 (=JMQ it., pp.  191-217) e Rituels... pp. 78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR., pp. 71-76 (=  JMQ it. pp. 218-222); è importante non vedere in Giano (dio dei prima, di tut¬  ti i prima) un «predecessore» né un doppio di Jupiter (dio dei summit): DIE,  pp. 91-102 e«Jupiler-Mars-Quirinus et Janus», RHR, CXXXVIII, 1951, pp.  209-210; sugli «dèi dei prima» indo-iranici, Tarpeia, pp. 66-96.    82     § 16. La spiegazione del complesso Quirino è stata formata in tre tempi:  1) JMQ, pp. 72-77, 84-94, 143-148, 182-187 (=JMQ it„ pp. 49-53, 58-66,  101-104); 2°), NR, pp. 194-221 (=JMQ it., pp. 264-285) e Tarpeia, pp.  176-179; 3°) JMQ, pp. 155-170 (specialmente pp. 167, 169 e n. 2, 170). Vedi  anche L. GERSCHEL, «Saliens de Mars et Saliens de Quirinus», RHR,  CXXXVIII, 1950, p. 145-151. Ho sostenuto numerose discussioni, special-  mente: «La triade Jupiter-Mars-Janus?», RHR, CXXXII, 1946, pp. 115-123  (con V. Basanoff); REL, XXXI 1953, pp. 189-190 (con C. Koch);«A propos  de Quirinus», REL, XXXIII, 1955, pp. 105-108 (con J. Paoli); «Remarques  sur les armes des dieux de troisième fonction», SMSR, XXVIII, 1957, pp.  1-10 (con A. Brelich). Generalmente ogni nuovo avversario non tiene alcun  conto delle risposte fatte ai precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire  psychotogique et historique de la religìon roinaine, 1958, p. 118 (che tratta  anche della triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di Jupiter  Mars Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le considerazioni  nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso più profondo e una  data più antica di quanto non si facesse generalmente (vedi «La bataille de  Sentinum, remarques sur la fabrication de l’histoire romaine» Annales, Eco¬  nomie, Sociétés, Civilisations.VU, 1952, pp. 145-154). Sulle etimologie pro¬  poste per Vofionus, vedi RP, XXVIII, 1954, p. 225, n. 4 e p. 226, n. 1; la  spiegazione con *leudhyono- sitrova in Pisani «Mytho-etymologica», Rev.  desEtudes Indo-Européennes (Bucarest), I; 1938, p. 230-233 e in BENVENI-  STE, «Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques», RHR, CXXIX,  1945, pp. 7-9.   § 17. Una questione connessa è quella della realtà o della non realtà di una  componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto al no¬  stro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti storici, e in più,  una risposta affermativa non genererebbe affatto l’interpretazione funzionale  delle leggende sulle origini, di cui bisognerebbe solamente ammettere (la  qual cosa è ordinaria) che presentano l’avvenimento «ripensato» in un qua¬  dro ideologico ed epico preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che que¬  sta interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la tesi  dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra diverse difficol¬  tà. In L’heritage .... pp. 179-181, si troverà riassunta la lunga discussione del  capitolo III di NR («Latins et Sabins, histoire et myhte» non tradotta in JMQ  it.: vedi p. 263), condotta principalmente in funzione della tesi di A. PlGA-  NIOL, Essai surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli studi. Da  quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho letto molte affer¬  mazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina lontana dalla fon¬  dazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto archeologico che non  fosse già stato prima esaminato e che facesse pendere decisamente la bilan¬  cia; cf. JMQ IV, p. 182 (sugli argomenti che si sono voluti demandare alla  strana disciplina della «geopolitica») e RE XXXIII, 1955, pp. 105-107 (su un  curioso argomento che J. Paoli ha creduto di poter ricavare dalla triade um¬  bra). Quanto a me, continuo a trovare soddisfacente nel suo principio la spie-    83     gazione data nel 1886 della leggenda del sinecismo latino-sabino da T.  MOMMSEN, «Die Tatiuslegende», ripreso in Gemmiti. Schr. IV, pp. 22-35. In  una memoria intitolata «Céramiques des premiers siècles de Rome, VIII-V  siècles», manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus de  l’Académie des Inscriptions , 1950, p. 287-295, F. Villard si è pronuncialo per  l’omogeneità della popolazione romana dell'ottavo secolo.   § 18. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi JMQ, pp.  144-146 (= JMQ it., pp. 101-012) (dove bisogna correggere nella citazione di  Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de Hadingus, 1953, pp. 109-110.   Per la triade «Jupiter, Mars, Ops» vedi «Lcs cultes de la Regia, les trois  fonclions et la triade JMQ», Latomus, XIII, 1954, pp. 129-139. Per la triade  «Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus)», vedi Rituels..., p. 54 e p. 60, note 37-40. Per  Romolo-Remo come corrispondenti dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, §  24. Inoltre l’utilizzazione delle tre funzioni c della triade «JMQ» da parte di  Martianus Capella è stata esaminala in «Remarques sur Ics trois premières re¬  gione s erteli de Mart. Cap.», Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder-  memn) 1956, pp. 102-107.   § 19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue ricerche a una visione  strutturale delle religioni germaniche. Quando è uscito MDG, 1939, egli av¬  vertì la parentela della mia concezione e della sua e la complementarietà dei  nostri argomenti. Da allora, benché divisi su qualche dettaglio, siamo  d’accordo, credo, su tutte le maggiori questioni: che ci si riporti alle sue chia¬  re, obiettive c generose esposizioni del suo Altgermanische Relìgionsge¬  stiti cht e. 2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai suoi articoli: «Dcr heutige Stand der  gcrmanischen Rcligionsforschung», Gemi. - Roman. Monatsschrift , N.F., II,   1951, pp. 1-11 ; e «L’élat acluel dcséludes sur la rcligion germanique», Dio¬  gene, 18, aprile 1957, pp. 1-16; altri articoli che toccano le questioni qui trat¬  tale: «La valeur religicuse du mot irmin», Cahiers du Sud, n. 314, 1952, pp.  18-27; «Die Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl», Atta Philol. Stand.,   1952, pp. 172-180; «La loponymiect l’hisloire des religions»,RHR, CXLVI,  1954, pp. 207-230; «Uber das Wort Jarl und seine Vcrwandlen», NC, VI,  1954, pp. 461-469. Nell’opera collettiva Deutsche Philologie ini Aufriss,  Miinchen, 1957, la sezione «Die altgermanische Religion» (col. 2467-2556),  redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo germanico, e specialmente scan¬  dinavo, un’eccellente interpretazione, originale c ripensata, nel quadro che io  ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in questo stesso schema: «L’élymologic  du terme germanique *ansuz, dieu souverain», Études Germuniques, 1953,  pp. 36-44 e «La religion germanique primitive, rcflccl d’une slruclurc socia¬  le», Le Flamheau, 1954,4, pp. 437-463.1 miei MDG, oggi felicemente esau¬  riti, hanno sofferto di essere stali pubblicati agli esordi delle ricerche sulla  tripartizione indoeuropea: non era che una prima vista d’insieme e un pro¬  gramma carico d'ipotesi di lavoro, alcune delle quali si sono verificate c altre  no; presto pubblicherò una seconda edizione interamente rimaneggiata. Non  ho qui ancora il posto per esaminare la teologia dei Germani continentali  (specialmente Tacito, Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio c    84     Marte, Ercole, «Iside»): vedi DIE, pp. 23-26. PerÓdinn bisogna aggiungere  l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R. Otto, 1932): vedi  J. De Vries, op. cit., II, § 405.   § 21. Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella dei Latini di  Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia, pp. 247-291 (= JMQ it.,pp.  108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione in «giganto-  machia» della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8, 1924, e la pre¬  sentazione generale in L’heritane..., pp. 125-142.   § 23. Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23. PerglidèigallidiCesaree  i loro corrispondenti irlandesi nei loro rapporti (in ogni caso molto alterati)  con la tripartizione, vedi MDG, p. 9, NR, pp. 22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux  de la Gaule, 1957, pp. 4, 19-21, 31-33, 94. R. JAKOBSON ha tentato di inter¬  pretare nel quadro delle tre funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art.  «Slavic Mythology» in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore,  II, 1950, pp. 1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un  giorno favorevole alla nostra inchiesta.   § 24. Sulla tripla titolatura di Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La  guerre dea géants, le mytheavant l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258.   § 25. Su SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tar¬  peia, pp. 55-66; H. Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa-  rasvatl-Anàhità c l’ha pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954, pp. 405-413.  Per i dati latini, irlandesi e germanici vedi «Iuno, S.M.R.», Eranos, LII, 1954,  pp. 105-119 e «Le trio des Macha» RHR. L’esplorazione di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo  indoeuropeo implica tre compiti molto considerevoli, a tult’oggi pro¬  grediti in maniera assai discontinua. Non è stalo possibile giungere ra¬  pidamente a risultati sistematici che al primo livello. Se importanti  aspetti del secondo e del terzo sono stati determinati in breve tempo,  essi non sono tuttavia che un insieme strutturalo ancora in fase di ap¬  profondimento. Non si è potuto dunque fare altro che dare per essi de¬  gli orientamenti generali e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di  lavoro.   Varuna e Mitra, ASa e Vohu Manah   Il principio fondamentale intorno a cui si organizzavapresso gli  Indo-Iranici la teologia della prima funzione è già stato segnalato; nel  trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che sono state confronta¬  te, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e Varuna, che la rappresenta¬  no, ed c ancora questa coppia che presuppone la coesistenza di due figure, il «Buon Pensiero» e 1’«Ordine», che gli corrispondono in testa  alla lista delle entità sostituite da Zoroastro agli dèi funzionali.   Questa dualità è stata spiegata in molte maniere dai commenta¬  tori indiani e dalle diverse scuole mitologiche degli ultimi cento anni.  Attualmente è stata fatta luce su ciò che in parte si può dedurre dai loro  stessi nomi: se la parola Veruna, apparentata o no al greco oùpavóq,  wpavoq, resta oscura (la si è interpretata con radici che significano  «coprire», «legare», «dichiarare»), al contrario, Mitra è sicuramente,  come ha spiegato Meillet in un celebre articolo (1907), per la sua eti¬  mologia, il Contratto personificato. Nella grande maggioranza dei  casi, tra questi dèi i cui nomi appaiono spesso al duale doppio, cioè con  una forma grammaticale che esprime il più stretto legame, i poeti non  fanno differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari soli¬  dali del più grande potere, e quando non nominano che uno dei due,  non si fanno scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attri¬  buti di questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia  della funzione sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, co¬  stituisce per gli uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo  piano nella credenza e nell’espressione. Ma capita spesso felicemente,  anche nel lirismo degli inni ma soprattutto nei libri rituali, che il poeta  o il liturgista travalichi questo primo piano e voglia distinguere i due  dèi per meglio spiegare o utilizzare la loro solidarietà.   In tale caso le diverse immagini che appaiono sono tutte dello  stesso senso: Mitra e Varuna sono i due termini di un gran numero di  coppie concettuali e di antitesi, la cui sovrapposizione definisce due  piani, ogni punto del piano potremmo dire, richiamando sull’altro un  punto omologo; e queste coppie tanto diverse possiedono tuttavia  un’aria di parentela così netta che di ogni nuova coppia assegnata al¬  l’insieme si può provare a colpo sicuro quale sarà il termine «mitria-  co» e quello «varunjco».   Fra le specificazioni così diverse dell’antitesi sarà difficile  estrarne una da cui il resto può essere derivato e senza dubbio questo  tentativo, una volta fatto, non avrebbe gran senso. Sarà molto meglio  procedere a un breve inventario, osservando e definendo l’antitesi in  rapporto alle principali categorie dell’essere divino (cf. II § 5). Quanto  ai loro domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a ciò che è vicino  all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che si ri-    88     trova nettamente fra le Entità zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°);  passando al limile, dei testi affermano che Mitra è questo mondo mentre  Varuna Valtro mondo, come è certo che ben presto Mitra rappresentò il  giorno e Varuna la notte. Mitra è assimilato alle forme visibili e usuali  del soma e del fuoco, mentre Varuna alle loro forme invisibili e mitiche.   Nelle modalità d'azione, se Mitra è propriamente il «contratto»  e stabilisce tra gli uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande  mago, signore della màyà, la magia creatrice delle forme, e in posses¬  so dei «nodi» con cui «afferra» i colpevoli con una presa irresistibile.   Nondimeno essi si oppongono per il foro carattere : l’ami¬  chevole Mitra è benevolo, dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna  è impietoso, violento, a volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applica¬  zioni illustrano questo teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che  è cotto a vapore, a Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il  soma inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò  che è ben sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc..   Tra le funzioni diverse da quelle che gli sono proprie, Mitra ha  più affinità per la prosperità, la fecondità e la pace, Varuna per la guer¬  ra e la conquista, tra le province stesse della sovranità, Mitra è piutto¬  sto - come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy - il  potere spirituale, mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i casi ri¬  spettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.  II, 1956, p. 110) ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente,  di Varuna per l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovra¬  ni Mitra e Varuna, di diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno  che l’altro. Se gli inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò  non avviene perché egli è «in procinto» di prendere un’importanza  maggiore rispetto a un «più vecchio» dio Mitra, ma perché, semplice¬  mente, la specificazione magica e inquietante della sua azione solleci¬  ta all’uomo più preoccupazioni cultuali del rassicurante e chiaro do¬  minio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c  mai conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una co¬  stante collaborazione. Questo schema indiano, e prima ancora indo-iranico, ha fornito  la chiave per qualche difficoltà o enigma delle mitologie occidentali.  A Roma, dove tutto il pensiero è concreto e patriottico, in cui il cosmo  e le sue diverse parti richiedono attenzione e riflessione solo nella misura in cui possono essere utili o nocive all’ Urbe, non ci si può aspettare di osservare la bipartizione nelle sue generalità. La lontananza del cielo, l’ordine dell’universo, cose di Varuna, lasciano i Romani totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna delle sue specificazioni, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma storica “dius”, “dius fidius” -- il dio luminoso e garante della fides, della lealtà e dei giuramenti -- non è più che un  aspetto di Jupiter, è vero che sembra esservi stata tutt’altra situazione  nei primordi. Certo, i due dèi erano strettamente associati e il nome del primo flamine e più vicino a “dius” che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che “dius” si accolla, nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici su cui Roma vive, la direzione mistica della politica romana, i miracoli salvifici della storia romana -- come più  propriamente caratteristici del suo grande socio. Allo stesso modo,  nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una specificazione nettamente  mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli appartengono, mentre  quelli della notte rivelano una varietà oscura e varunica di “jupiter”,  “summanus”.   È probabile che questa teologia complessa abbia risentito, prima dei nostri testi più antichi, della promozione e, nello stesso tempo,  della riforma teologica di “jupiter” che ha coinciso con la creazione del  suo culto capitolino e con la sostituzione di una triade «Jupiter O.M,  Giunone Regina, Minerva» all’antica triade «Jupiter, Mars, Quirinus». Lo “jupiter” del Campidoglio sembra essere stato quasi subito imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé tutta la sovranità; ma  forse i due piani tradizionali complementari sono ancora segnalati nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” --  cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E   Tyr   Ma è nel mondo germanico che l’analogia indiana è particolar¬  mente illuminante. Né «Mercurio» (cioè *Wópanaz ) nella Germania    90     di Tacito, né Ódinn nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino a  loro vi è quello che Tacito, per delle ragioni comprensibili e interes¬  santi, chiama Marte (cioè *Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr. Que¬  sto dio, omonimo del vedico Dyauh e del greco Zeus, e che al pari di  questi due o del Dius Fidius latino evoca l’idea del cielo luminoso, è  generalmente considerato nei suoi rapporti con *Wópanaz come un  dio «più antico», impallidito di fronte a un nuovo venuto. Benché sia  strano che, a otto o dieci secoli di distanza, Tacito da una parte e i poeti  scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e registrato, proprio allo  stesso stadio, l’avanzamento di uno e l’arretramento dell’altro, le con¬  siderazioni comparative ci incoraggiano a dare un senso strutturale a  questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio eclissato a causa  dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per cui Mitra, teori¬  camente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei poeti e  come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini hanno  più attenzione per la sovranità magica che per quella giuridica.   La grande originalità del mondo germanico è quella segnalata  da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte. Essa per¬  viene a delle considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in cui  abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della funzione guer¬  riera. La stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo de¬  finisce (Gylfaginning cap. 25).   «Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È molto intrepido e co¬  raggioso, ha un grande potere sulla vittoria in battaglia. Perciò è  bene che i guerrieri valorosi lo invochino. Di alcuni, che sono più co¬  raggiosi degli altri e che non hanno paura di niente, si dice prover¬  bialmente che sono figli di Tyr »   Questa «marzializzazione» del sovrano giurista dei Germani  non è senza analogia con quella che a Roma ha fatto di Quirino, dio ca¬  nonico della terza funzione, patrono dei Romani nella pace e nelle  opere di pace, una varietà di Marte. Nei due casi l’evoluzione sociale  ha reagito sugli dèi: dal giorno in cui - forse con la riforma di Servio - i  Quiriti hanno coinciso coi milites e sono diventati «i militi in congedo  tra due appelli», era naturale che Quirino si volgesse verso il Mars  tranquillus, il Mars qui praeest paci aspettando di saevire.    91     In altre condizioni, meno formali e più violente, le società ger¬  maniche antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi di pace i  quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello spirito guer¬  riero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva l’assemblea legisla¬  tiva, si riuniva al Campo di Marte ma senza armi. Che si rileggano, al  contrario, i passi coloriti in cui Tacito (Germania , 11 -13) descrive il  Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro bande, le armi brandite  o battute in segno di voto, le forme tutte militari del prestigio e  deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si formulava il diritto e si  regolavano i processi. Qualche secolo più tardi l’antichità scandinava  non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci si riunisce in armi, si  approva alzando la spada o l’ascia o battendo la spada sullo scudo.  Non è dunque sorprendente che il dio al centro di queste riunioni giuri-  dico-gueiTiere, erede del dio giurista indoeuropeo, rivestisse l’uni¬  forme dei suoi ministri e li accompagnasse nel loro passaggio, facile e  costante, dalla giustizia alla battaglia e che gli osservatori romani lo  avessero considerato come un Marte. Alcune dediche trovate in Frisia  sono rivolte a un Mars Thincsus che compie l’esatto legame tra lo stato  indoeuropeo probabile e il risultato scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel  Tyr di cui è stato notato che il nome segnala, nella toponimia, gli anti¬  chi luoghi del Ping.   Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri popol i, gli antichi Ger¬  mani abbiano così riconosciuto, a parte ogni questione dell’apparalo  guerriero, l’analogia profonda tra la procedura del diritto - con le sue  manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie senza appello - e il  combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è un mezzo per essere  il più forte e per ottenere vittorie che spesso eliminano l’avversario  così radicalmente come in un duello. Quando si dice che Tyr, in segui¬  to a un’astuzia giuridica, per aver rischiato la sua mano destra come  pegno di un’affermazione utile ma falsa, « è divenuto monco e non è  chiamato pacificatore di uomini», non si tratta che della controparte,  del completamento morale di un fatto materiale: la riunione del Ping in  armi, con intenzioni di potenza (più che di equità) che vede la guerra in  ogni luogo.   Queste indicazioni molto generali aiuteranno a comprendere  come un  Tiuz-Mars abbia potuto formarsi a partire da un dio indoeu-    92     ropeo il cui dominio specifico era il diritto e il cui carattere si è purifi¬  cato e moralizzato, aiutato dalla civilizzazione progressiva.   5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e Bhaga  vicino a Mitra   Ma negli inni del Rgveda il giurista Mitra e il magico Varuna,  benché sembrino dividersi equamente il dominio della sovranità, non  sono isolati. Essi non sono che quelli più frequentemente nominati dal  gruppo degli Àditya, o figli della dea Aditi, la Non-Legata, cioè la Li¬  bera, l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e delle funzioni de¬  gli Àditya in tutti i contesti, lo studio delle frequenze di menzione di  ognuno, frequenze dei loro diversi raggruppamenti parziali e del loro  legame con altri dèi, hanno permesso di interpretare la struttura che di¬  segnano.   Non è qui possibile beninteso riassumere molto brevemente  queste analisi e questi calcoli, i cui dettagli sono stati pubblicati in due  tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla letteratura epica è conservato il  ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i due principali tra loro, van¬  no a coppie e in seguito arriveranno sino a dodici. Nel Rgveda sembra  che vi sia già stata un’oscillazione tra un’antica cifra di seie una prima  estensione a otto, per addizione di due dèi eterogenei.   Di questi sei, Mitra e Varuna formano la prima coppia; di ognu¬  na delle altre due coppie è facile vedere che un termine agisce sul pia¬  no e secondo lo spirito di Mitra, mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agi¬  sce sul piano e secondo lo spirito di Varuna, di modo che è legittimo e  comodo chiamare queste figure complementari «sovrani minori». Ma  questa cifra di sei sembra essere stata estratta, per ragioni di simme¬  tria, da un sistema più breve di quattro dèi sovrani, in cui il sovrano  «vicino agli uomini» Mitra, aveva solo due assistenti, mentre Varuna  rimaneva solitario nelle sue lontananze. I nomi e le distribuzioni di  questi Àditya primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman + Bhaga; 2) Varuna.  Il principio della stretta associazione di Aryaman, Bhaga, Mitra, pro¬  vato dalle statistiche delle menzioni simultanee, è semplice: ognuno  di questi dèi esprime e precisa lo spirito di Mitra su ognuna delle due  province che i nteressano 1 ’ uomo, quelle che il diritto romano ritroverà  con un altro orientamento, più individualista, distinguendo le perso-  nae e le res.    93     Sotto Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il tono e il  modo generale d’azione che si conosce (giuridico, benevolo, regolare,  orientato verso l’uomo), Aryaman si occupa di preservare la società  degli uomini ari a cui deve il suo nome, mentre Bhaga, il cui nome si¬  gnifica propriamente parte, assicura la distribuzione e il godimento  regolare dei beni degli Arya.   6. Aryaman   Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no politi¬  camente, si riconoscono Arya in opposizione ai barbari, e li protegge  non in quanto individui ma come elementi di un insieme: gli aspetti  principali del suo servizio multiforme sono i tre seguenti:   1 ) Favorisce le principali forme di rapporti materiali o contrat¬  tuali tra Arya. È il «donatore», protegge il «dono» (il che lo obbliga a  interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme  complesso delle prestazioni che formano l’ospitalità. P. Thieme (Der  Frenullinx im Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto  di farne il centro di ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il  resto. Infatti Aryaman non c meno primariamente interessato ai matri¬  moni: c pregato come dio delle buone alleanze, scopritore di mariti  (subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un marito per la fanciul¬  la giovane o una donna per il celibe (A V, VI, 60,1 ). La sua preoccupa¬  zione per i cammini e per la libera circolazione (c àtùrtapanthà, «colui  il cui cammino non può essere interrotto»; RV, X, 64,5) non deve esse¬  re negata o minimizzata come è stato fatto da B. Geiger, H. Giintert c  P. Thieme: tutto ciò risalta da un gran numero di strofe di inni e da un  lesto liturgico che lo definisce come il dio che permette al sacrificante  «di andare ove e^li desidera» e di « circolare felicemente » ( Tait-  tir.Samh., II-, 3, 4, 2).   2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha anche un aspetto litur¬  gico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la prima volta la Vacca  mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si tiene a fianco  dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV, 1,139,7, col  commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9) di  espellere sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle libagioni  (uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano di  un’altra forma di servizio che è, al contrario, la sola di cui l’epopea con¬  servi un ricordo molto vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro mondo  Aryaman presiede il gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome chiari¬  sce abbastanza l’origine: sono infatti una rappresentazione degli ante¬  nati morti, e Aryaman è il loro re, che prolungano così nel posl-mortem la  felice promiscuità e la comunità degli Arya viventi. Il cammino che  porta presso i Padri, riservato a quelli che durante la propria vita hanno  praticato esattamente i riti (in opposizione agli asceti e agli yogin), è  chiamato «il cammino di Aryaman » (Mahàbhdrata , XII, 776 etc.).   7. Bhaga   Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a lui  che ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una par¬  te (RV , VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo no¬  minano o che impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha per¬  messo di constatare che questa parte è dotata di qualità richieste alla  metà dell’amministrazione sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare,  prevedibile, senza sorprese, giunge a scadenza perlina sorta di gesta¬  zione (il bambino pronto perla nascita «rut> giunge Usuo bhd^a»: RV,  V, 7, 8); essa è il risultalo di un’attribuzione senza rivalità, implicante  un sistema di distribuzione (verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day, cf. il greco  Sou|.iov); infine è acquisita e conservata nella calma, è la retribuzione  degli uomini maturi, assennali, seniores, opposti agli iuvenes (RV, I,  91,7 ; V, 41,11 ; IX, 97, 44). L’altra varietà della parte, imprevedibile,  violenta, «varunica», che si conquista con la battaglia o con la corsa, è  designata da un’altra parola che sin dai tempi indo-iranici aveva una  risonanza combattiva e che ha giustamente fornito ai teologi vedici il  nome del «sovrano minore varunico» simmetrico di Bhaga, Amsa.   8. Trasposizione zoroastriane di Aryaman e Bhaga: SraoSa  e A$i   Abbiamo la certezza che questa struttura era già indo-iranica:  come in Iran la lista degli dèi canonici delle tre funzioni è stala subli¬  mata dallo zoroastrismo puro in una lista di Entità che gli corrispondo¬  no termine per termine (vedi II § 8); così gli dèi sovrani minori asso-    95     ciati a Mitra hanno prodotto due figure complementari non comprese  nella lista canonica delle Entità, ma vicine, le cui statistiche dei ruoli  mostrano l’affinità esclusiva dell’una rispetto all’altra, e di tutte e due  rispetto a Vohu Manah (sostituito di *Mitra); e anche nei testi in cui  questo dio ricompare, in relazione a MiGra, mentre niente lo lega ad  Asa (sostituto di *Varuna). In più, per il loro nome come per la loro  funzione, queste due Entità - Sraosa, VObbedienza e la Disciplina , e  Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si può attendere da un Aryaman o  da un Bhaga ripensati dai riformatori. E facile vedere punto per punto  che Sraosa è per la comunità dei credenti ciò che Aryaman era per la  comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza la nazionalità.   1) H. S. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la personificazione  «derfrommen Gemeinde», il termine «genio protettore» sarebbe più  esatto ma i 1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è «capo nel mon¬  do materiale come Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e materiale»  {Greater Bundahisn, ed. e trad. B. T. Anklesaria, 1957, XXVI, 45, p.  219) presiede all’ospitalità come già faceva l’Aryaman vedico (e già  indo-iranico; cf. persiano èrmdn, «ospite», da *airyaman), quando è  concessa, si sa, all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII, 14 e  34).   Se non lo si vede più occupato, specialmente delle alleanze ma¬  trimoniali e della libera circolazione sui sentieri, nondimeno la sua  azione sociale sulle anime è precisata: egli è il patrono della grande  virtù della vita in comune, di quella che assicura la coesione, cioè la  giusta misura, la moderazione ( Zdtspram , XXXIV, 44); è anche il me¬  diatore e il garante del famoso patto concluso tra il Bene e il Male  (Vasi XI, 14) e il demone che gli è personalmente opposto è il terribile  Aesma, il Furore, distruttore della società ( Bundahisn XXXIV, 27).   Rimane una precisa traccia mitica della sostituzione di Sraosa a  un dio protettore degli Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35 è  lui il signore e il re del paese chiamato Eràn vèz. (avestico Airyanam  vaèjò), quel soggiorno degli Arya da cui, dice l’A vesta, sono venuti gli  Iranici ( Vidèvdat , I, 3).   2)11 ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente amplificato in  Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a sacrificare e cantare  gli inni e tutto l’inizio del suo Yast (XI, 1-7), unicamente consacrato    96     all’elogio della preghiera e all’ esaltazione della loro potenza, si giusti-  fica per questo ricordo.   Simmetricamente, alla fine dei tempi, al tempo del supremo  combattimento contro il Male, è Sraosa che sarà il sacerdote assistente  nel sacrificio in cui Ahura Mazda stesso sarà l’officiante principale  (.Bunclcihisn , XXXIV, 29).   3) Infine, come l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della  dimora in cui vanno - attraverso «il cammino di Aryaman» - i morti  che hanno correttamente praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruo¬  lo decisivo nelle notti che seguono immediatamente la morte: egli ac¬  compagna e protegge l’anima del giusto sui sentieri pericolosi che la  conducono al tribunale dei suoi giudici, di cui egli stesso è parte  {Dùuistun-TDénTk XIV, XXVIII, etc.). Asi è sempre una «distribuzio¬  ne» come lo era Bhaga ma la nuova religione, che conferisce più im¬  portanza all’aldilà che al mondo dei viventi, gli domanda soprattutto  di vegliare sulla giusta «retribuzione» post-mortem degli atti buoni o  cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle Gàthà, c palesemente nei testi  post-gathici, pur badando in avvenire al tesoro dei suoi meriti, non di¬  mentica nella vita terrestre di arricchire l’uomo pio c di riempire la sua  casa di beni.  L’analisi di questa concezione, già indo-iranica, della sovranità  che non altera la grande bipartizione ricoperta dai nomi di Mitra e Va-  runa, ma dona solamente a Mitra due assistenti che l’aiutano a favorire  il popolo arya, illumina una particolarità della religione romana di Ju-  pitcr che sfortunatamente è conosciuta solo nella forma capitolina di  questa religione. Jupiler O.M, in cui si concentra tutta la sovranità, sia  quella «diale» che quella propriamente «gioviana» (vedi sopra § 3),  ospitava in due cappelle del suo tempio due divinità minori, Juvenlas e  Terminus.   Una leggenda giustificava la coabilazione singolare di questi  tre dèi facendola risalire alla fondazione del tempio capitolino, ma  questa leggenda (che utilizzava del resto un vecchio tema legalo al  concetto di Juvenlas) non prova evidentemente che l’associ azione  fosse più antica. L’analogia indo-iranica ci incoraggia a considerarla  come preromana.    97     Infatti, secondo degli slittamenti tipici della società romana, Ju-  ventas e Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli compara¬  bili a quelli di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice  la leggenda eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la sta¬  bilità sul suo dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la du¬  rata e Bhaga la stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da  questa leggenda, le due divinità romane sono molto di più di tutto que¬  sto: Juventas è la dea protettrice degli «uomini romani» più interes¬  santi per Roma, gli iuvenes, parte essenziale e germinati va della socie¬  tà; Terminus garantisce la spartizione regolare dei beni, dei beni  sopratutto immobili, catastali, appezzamenti di terreno, non delle  greggi erranti che presso i nomadi indo-iranici o tra gli indiani vedici  costituivano la ricchezza essenziale. Nel mondo scandinavo un tale schema di sovrani minori non si  è ancora lasciato identificare, al momento. Non è che intorno a Ódinn  non vi fossero degli dèi che, secondo il poco che si sa di loro, non aves¬  sero avuto l’incarico di esercitare dei frammenti specializzati della so¬  vranità, ma queste specificazioni e l’analisi della funzione sovrana  che suppongono sono originali e i loro rappresentanti non hanno omo¬  loghi indo-iranici e neppure romani. Vi è Hoenir, riflessivo e prudente  e che secondo la fine della Vòluspó è proiezione mitica di una sorta di  sacerdote; vi è Mimir, consigliere di Ódinn, ridotto a una testa che ri¬  mane pensante e parlante anche dopo la sua decapitazione; oppure  Bragi patrono della poesia e dell’eloquenza.   Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili e Vé, sicura¬  mente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si allittera in scandi¬  navo che con una forma preistorica del suo nome (*Wòt>anaz), ma si  conoscono troppo pochi dati per interpretare questa triade e tutt’altra  soluzione sarà proposta più avanti.   11. Condizioni dello studio teologico della seconda e   TERZA FUNZIONE   I procedimenti di analisi e di statistica che hanno permesso di  dispiegare e di esplorare la sovranità - nell’India vedica inizialmente e    98     poi progressivamente nell’organizzazione intema della teologia della  prima funzione - non sono applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e  al momento non si è riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dub¬  bio questa differenza è propria della natura delle cose; per i suoi stessi  concetti (i nomi dei personaggi divini sono in gran parte etimologica¬  mente chiari e molti sono delle astrazioni animate) la prima funzione  si prestava facilmente alla riflessione psicologica e non bisogna di¬  menticare che i primi filosofi, appartenenti al personale di questa fun¬  zione, erano dei sacerdoti e non potevano evitare di applicarvi con pre¬  dilezione la loro analisi. La controparte è che nel Rgveda questa  teologia così ben sviluppata non si raddoppia in una mitologia ricca in  proporzione: di Mitra non è quasi «raccontato» niente; di Varuna si  dice molto di più, ma la lista delle scene in cui interviene è ridotta e in  generale si tratta di potenze e qualità degli dèi sovrani più che della  loro storia, del loro tipo d’azione piuttosto che di azioni precise com¬  piute da loro.   Al contrario, la funzione guerriera e la funzione di fecondità e  prosperità si basano in gran parte su immagini: più che grazie a dichia¬  razioni di principio, è il ricordo inesauribile delle imprese o dei famosi  benefici che provano l’efficacia di un dio forte o dei buoni dèi tauma¬  turghi. Così queste due province divine sono più adatte a degli svilup¬  pi mitologici che a una messa a fuoco teologica; o forse è meglio dire  che la dottrina si abbellisce, si dissimula e si altera sotto il rigoglio dei  racconti.   Per il comparatista questa differenza comporta grandi conse¬  guenze. Senza che questo fatto capitale sia stato ancora pienamente  enunciato, il lettore ha già potuto osservare che è il confronto delle re¬  ligioni vedica e romana il più adatto a stabilire o suggerire, grazie al  conservatorismo della seconda, dei fatti indoeuropei comuni, mentre  la religione scandinava non interviene che a titolo di conferma dopo  che il percorso comune è già stato riconosciuto e assicurato.   Ora, allo stato delle nostre conoscenze, la religione romana pre¬  senta ancora una teologia ben costituita: nel raggruppamento «Jupiter  Mars, Quirinus» o nel raggruppamento trasversale di «Jupiter, Juven-  tas, Terminus», essa ha registrato coscientemente delle articolazioni  concettuali molto chiare. Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere  che la religione romana non è più che una teologia: per un processo radicale che caratterizza Roma, i suoi dèi - e questa volta non solo gli dèi  sovrani, ma anche Marte, Quirino, Ops, eie. - sono stati spogliati di  ogni racconto e limitati asceticamente alle loro essenze, alla loro pro¬  pria funzione. Se dunque (per la determinazione del quadro generale  tripartito e per l’esplorazione dei primo livello) il confronto di una teo¬  logia vedica facilmente determinabile, e di una teologia romana im¬  mediatamente conosciuta, ha permesso i risultali netti coerenti, c sem¬  pre più completi che si sono appena letti, la stessa cosa non avviene  quando si passa ai due livelli seguenti.   India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della pro¬  pria natura che mediante delle avventure alle quali Marte e Quirino  non corrispondono, se non per mezzo della loro scarna definizione c  per ciò che è possibile intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro sa¬  cerdoti: i documenti e i linguaggi delle due religioni che sono i princi¬  pali sostegni del comparatista non si combinano più.   12. Mitologia ed epopea   La difficoltà sarebbe probabilmente irriducibile senza un altro  fallo, ancora più importante per i nostri studi, di cui i precedenti capi¬  toli del presente libro hanno già discretamente fornito qualche esem¬  pio. Le idee di cui vive una società non danno luogo solamente a delle  speculazioni o a immaginazioni relative agli uomini. La teologia e la  mitologia sono raddoppiate dalle «storie antiche», dall’epopea in cui  degli uomini prestigiosi applicano c dimostrano dei principi che gli  dèi incarnano e dei comportamenti che dipendono da loro.   Certo, ben altri fattori contribuiscono alla formazione dell’epo¬  pea di un popolo, ma è raro che questa non abbia avuto, in alcuni dei  suoi grandi temi c dei suoi primi moli, un rapporto essenziale con  l’ideologia che dirige le rappresentazioni divine dello stesso popolo.  Per i nostri studi comparativi indoeuropei questa felice circostanza  gioca a nostro favore in due maniere: la seconda è stata da me ricono¬  sciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta nel 1947 dal mio col¬  lega svedese Stig Wikander.   Da una parte, la più grande epopea indiana, il Mahàbhcirata,  sviluppa le avventure di un insieme di eroi che corrispondono parola  per parola ai grandi dèi delle tre funzioni della religione vedica e pre¬  vedrà, di modo che l’India presenta, con questo enorme poema c col   Riveda, lina doppia edizione rispondente, a due differenti bisogni e  con sensibili varianti, alla sua «ideologia in immagini». Dall’ altra par¬  te, se Roma ha perduto tutta la sua mitologia e ha ridotto i suoi esseri  teologici alla loro scarna essenza, ha conservato al contrario, per costi¬  tuirla in seguito, la storia meravigliosa e ragionevole delle proprie ori¬  gini, un antico repertorio di racconti umani, colorati e molteplici, pa¬  ralleli a quelli che avrebbero dovuto essere in tempi meno austeri le  raccolte mitiche degli dèi.   Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in storia  da Roma stessa? Oppure essa prolunga direttamente un’epopea prero¬  mana e italica, coesistente con una mitologia che Roma avrebbe per¬  duto senza traslazione e senza compensazione? L’una e l’altra tesi  possono trovare argomenti nel dettaglio dei fatti, ma per il comparati¬  sta questa discussione non incide: in ogni caso, il primo libro di Tito  Livio contiene una materia ideologicamente conforme al sistema de¬  gli dèi romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla mito¬  logia dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui  dettagli delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza fun¬  zione è dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro  comparativo.   13. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S. Wikander   Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il Mahàbhdra-  ta, i personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo di cinque  fratelli, i Panda va o «figli di Pàndu», che fra i molli tratti notevoli pre¬  sentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti c cinque,  Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo regime di  poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya ma attribuito  qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito per più di un se¬  colo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha fornito la soluzione  soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave di tutto l’intrigo  del poema.   In realtà i «figli di Pàndu» non sono i suoi figli. Sotto il peso di  una maledizione che lo condanna a morte nel momento in cui compirà  l’alto sessuale, Pàndu si assicura una posterità con un procedimento  eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in seguilo ad un’avventura  giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito: le era sufficiente in-    101     vocare un dio perché questo sorgesse immediatamente davanti a lei e  le donasse un figlio.   Dietro preghiera di suo marito invoca dunque in successione di¬  versi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono Dharma, «la  Legge, la Giustizia» (entità in cui si ritrova il vecchio concetto del giu¬  rista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra.   I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna.  Suo marito la prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie,  di questa fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri  prende dalla situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati  i due inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ulti¬  mi dei cinque «figli di Pàndu», Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò  ben presto che la lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin  - riproduceva nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi  dei tre livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che  rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al  secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora  più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri  doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni  epiche dei figli, come in effetti accade.   Yudhisthira è il re, mentre gli altri Pàndava sono solamente de¬  gli ausiliari; un re giusto, virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza  specialità o virtù guerriere, come si conviene a un rappresentante della  «metà di Mitra» della sovranità.   Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme. Quanto  ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori dei  loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la grande vir¬  tù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente le due classi  superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve immediatamente  in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza aberrante ma  della trasposizione epica della concezione vedica, indo-iranica e pri¬  ma ancora indoeuropea, che completa la lista degli dèi maschi, tra i  quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni, con una dea unica  ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la vedica Sarasvatl  che comprende in se stessa la sintesi delle tre funzioni.   Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due gemelli  servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125 formulava quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl): «Sono  io che sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che sosten¬  go i due Asvin», o che ancora si ritrova nella triplice titolatura (con  un’ulteriore specificazione della terza funzione) della principale dea  dell’Iran, «l’Umida, la Forte, l’Immacolata». Questa scoperta è stala il punto di partenza di un’ esplorazione  di tutto il poema, soprattutto dei primi libri (che precedono la grande  battaglia) ed è stata certamente chiamata a rinnovare i nostri studi: per  la sua abbondanza, la sua coesione e la sua varietà, la trasposizione  epica permette, partendo dal sistema trifunzionale, da ogni funzione e  dalle molte rappresentazioni connesse, uno studio più profondo e più  avanzato di quanto non lo permettesse l’originale mitologico cono¬  sciuto sopralutto dalle allusioni dei testi lirici. D’altra parte, sin dal suo  articolo del 1947, Wikander ha stabilito un punto molto importante: la  struttura mitologica trasposta nel Mahàbhdruta è sotto molti aspetti  più arcaica di quella del Rgveda poiché conserva dei tratti sfumali in  questo innario ma che le analogie iraniche provano come fosse in¬  do-iranica. Per tale ragione uno dei primi servigi apportati da questo  nuovo studio è stato quello di rivelare nella funzione guerriera una di¬  cotomia che il Rgveda ha quasi completamente dimenticato a tutto  vantaggio di Indra.   Infatti, come è già stato dimostrato da lavori anteriori della scu¬  ola di Uppsala, Vàyu c Indra erano i patroni, nei tempi prevedici, di  due tipi molto differenti di combattenti i cui figli epici, BhTma e Arju-  na, rendono possibile un’osservazione dettagliala e certamente una  parte dei caratteri fisici dell’Indra vedico devono essere restituiti a  Vàyu per un periodo più antico. Questi due tipi sono facilmente defini¬  bili in qualche parola.   L’eroe del tipo Vàyu è una sorta di bestia umana dotato di un vi¬  gore fisico mostruoso, le sue armi principali sono le sue braccia, pro¬  lungale talvolta da un’arma che gli è propria: la clava. Non è bello né  brillante, non è molto intelligente c si abbandona facilmente a disa¬  strosi eccessi di furore cieco. Infine, opera spesso da solo, fuori  da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore designato, per cercare  l’avventura e per uccidere principalmente dei demoni e dei geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un uomo  compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia delle  armi perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno spe¬  cialista delle armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e soprat¬  tutto socievole, guerriero da battaglia più che cercatore di avventura e  generalissimo naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa distinzione è conosciuta anche dall’epopea iranica, nel¬  la persona del brutale Kó>rasàspa armato di mazza e legato al culto di  Vàyu, oppure nel tipo dell’eroe più seducente come ©raètaona.   In Grecia ricorda l’opposizione tipologica di Ercole e Achille,  ma soprattutto permette di dare una formulazione più precisa, in Scan¬  dinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr e più in generale a quelli della pri¬  ma e seconda funzione. E stato segnalato, nel secondo capitolo, che  Ódinn si era annesso una parte importante della funzione guerriera.  Vediamo ora che si tratta principalmente (senza che la discriminazio¬  ne sia rigorosa: è Pórr che al pari di Indra rimane il dio tuonante dello  sconvolgimento atmosferico) della parte che presso gli Indo-Iranici  era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte di *Vàyu era piuttosto  quella di Pórr, il brutale picchiatore e l’avventuriero delle spedizioni  solitarie contro i giganti. Tuttociò appare ancora più chiaramente se si  considerano nell’ epopea gli eroi che corrispondono a ciascuno di que¬  sti dèi: gli eroi odinici come Sigurdr, Helgi e Haraldr sono belli, lumi¬  nosi, socievoli, amati e aristocratici, mentre l’unico «eroe di Pórr» co¬  nosciuto dall’epopea, Starkadr, appartiene alla razza dei giganti, un  gigante ridotto da Pórr a forma umana, arcigno, brutale, errante e soli¬  tario, vera replica scandinava di Bhlma o Ercole.   16. Caratterizzazione funzionale dei Pàndava   Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti, sicuramente consape¬  voli di questa struttura, si sono cimentati nel dare delle rappresentazio¬  ni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro diverse maniere di  reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due. Nel momento in  cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto esilio che avrà  fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno la loro rivincita,  il pio e giusto re Yudhisthira avanza « Velandosi il volto col suo abito  per non rischiare eli bruciare il mondo col suo sguardo corrucciato».  Bhlma «guardale sue enormi braccia» e pensa: «Non vi è uomo ugua¬  le a me per la forza delle braccia »; egli « mostra le sue braccia, inor¬  goglito dalla forza delle sue braccia desidera fare contro i nemici  un 'azione pari alla forza delle sue braccia ». Arjuna sparge la sabbia  «raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro i  nemici». Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra: Nakula,  il più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di cenere dicen¬  do: « Che io non possa mai trascinare sulla mia strada il cuore di una  donna!» e suo fratello Sahadeva allo stesso modo si imbratta il viso  (II, 2623-2636).  All’inizio dei libro IV (23-71 e 226-253), i cinque fratelli scel¬  gono un mascheramento per soggiornare in incognito alla corte del re  Virata: Yudhisthira, eroe della prima funzione, si presenta come un  brahmano; il brutale Bhlma come un cuoco-macellaio e un lottatore;  Arjuna, coperto di braccialetti e orecchini, come un maestro di danza;  Nakula come un palafreniere esperto nella cura dei cavalli malati,  mentre Sahadeva come un bovaro, informato di lutto ciò che riguarda  la salute e la fecondità delle vacche.   Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono  interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzio¬  ne nella coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato  l’importanza del criterio qui rivelato.   Sempre restando prima di tutto degli abili medici che ignorano  l’agricoltura (il che ci porta a far risalire indietro di molto questa con¬  cezione), Nakula e Sahadeva si dividono le due principali province  deH’allevamento, riservandosi rispettivamente l’uno la protezione  delle vacche e l’altro quella dei cavalli, che nel Rgvedu forniscono  loro il loro secondo nome collettivo, Aévin, un derivato di àsva, «ca¬  vallo».   Abbiamo così il primo modello delle formule che si osservano  anche altrove a proposito degli omologhi funzionali dei Nàsatya  -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad esempio, entità zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie all’interno del genere «sa¬  lubrità», sotto le acque e le piante; così pure, almeno parzialmente, tra  il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la distinzione nell’uniforme be¬  neficio dell’«arricchimento» si compie secondo le due fonti della ric¬  chezza, il mare e la terra.   Si nota qui chiaramente come la considerazione dell’epopea  metta in risalto dei tratti strutturali e suggerisca inchieste feconde. Il  travestimento di Arjuna non è strano a un primo approccio, poiché è  arcaico e di un arcaismo che è conosciuto dal Riveda, in cui Indra è il  «danzatore» e i suoi giovani compagni la banda guerriera dei Marut  che si adorna il corpo di ornamenti d’oro, braccialetti e anelli da cavi¬  glia che li fanno apparire come dei ricchi pretendenti. Comune alle più  vecchie mitologie c alla sua trasposizione epica, questo tratto è certa¬  mente da riconnetlerc all’insieme del «Mànnerbund» indo-iranico. E  forse, nello stesso ordine di idee, la trasposizione epica lascia intrave¬  dere un aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e che riguarda la  morale particolare di questi gruppi di giovani, quando essa insiste sul  carattere «effeminato» del travestimento scelto da Arjuna.   18. Pàndu e Varuna   Progressivamente sono stale individuate altre corrispondenze  tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c prevedica, sem¬  pre con lo stesso vantaggio che l’epopea, narrazione ampia e continua,  facilita in ogni caso l’analisi che, al contrario, c infastidita dal lirismo  degli inni c dalla loro retorica dell’allusione.   Ho così potuto dimostrare come Varuna non sia assente dalla  trasposizione; solo si trova nella generazione anteriore, inattuale,  morta, quando il corrispettivo di Mitra, il figlio di Dharina, diviene re.  Pàndu, il padre putativo dei Pàndava, anche lui re prima del suo figlio  maggiore Yudhisthira, presenta in effetti due caratteri originali e im¬  probabili che i libri liturgici e un inno attribuiscono anche a Varuna; a  uno di questi caratteri deve il suo nome: pàndu significa «pallido, gial¬  lo chiaro, bianco», e infatti un incidente di nascita, o meglio, del con¬  cepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la pelle insanamente pallida  o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi rituali come sukla «bian¬  chissimo» e atigaura «eccessivamente bianco». L’altro aspetto c di  più ampia portata: Pàndu c condannalo all’equivalente dell’impotenza sessuale, condannato a perire (e così in effetti perirà) se compie  l’atto d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze diverse ( AV , IV, 4,  1 : rituale della consacrazione regale) è presentato come uno divenuto  momentaneamente impotente, devirilizzato (evirazione che si fa a  vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il mito importante del greco  Urano castrato dai suoi figli).   Il lavoro insomma è appena cominciato. Sia io che Wikander  speriamo di estrarre da questa riserva importante del materiale abbon¬  dante e abbastanza chiaro per delucidare molte incertezze e difficoltà  che sono ancora irrisolvibili sul piano degli inni e per fornire alla rico¬  struzione indoeuropea degli elementi privi di ambiguità.L’epopea romana ha utilizzato in altra maniera l’ideologia delle  tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano non  sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente gerarchizzati;  essi si succedevano nel tempo e progressivamente costituiscono  Roma. Non si succedono però nell’ordine canonico ma in un altro or¬  dine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano «gioviano» se¬  mi-dio, creatore ed eccessi vo (pri ma funzione del tipo di Varuna) e poi  sovrano «diale», umano, pio, regolatore (prima funzione del tipo Mi¬  tra); 3) infine, un re strettamente guerriero (seconda funzione). In più,  il sovrano gioviano non è altro che uno dei due gemelli sopravvissuto  alla coppia ma profondamente trasformato. Questa doppia singolarità  schiude nuove prospettive all’inchiesta comparativa ma inizialmente  considereremo i rappresentanti delle due prime funzioni che non  implicano problemi inediti.   20. Romolo e Numa e i due aspetti della prima funzione   Nella tradizione annalistica i due fondatori di Roma, Romolo e  Numa, formano un’antitesi abbastanza regolare, sviluppata nello stes¬  so senso di quella di Varuna eMitra nella letteratura vedica. Ogni cosa  si oppone nel loro carattere, nei loro fondamenti e nella loro storia, ma  in un’opposizione senza ostilità: Numa completa l’opera di Romolo  donando all’ ideologia regale di Roma il suo secondo polo, necessario  quanto il primo. Quando nel VI canto d t\VEneide, negli Inferi, Anchise li pre¬  senta tutti e due in qualche verso al suo figlio Enea (vv. 777-784 e  808-812), definisce Romolo come il bellicoso semidio creatore di  Roma e, grazie ai suoi auspici, l’autore della potenza romana e della  sua Crescita continua (et huius, nate, auspiciis illa inclita Roma impe-  rium terris, animos aequabit Olympo)\ poi Numa come il re-sacerdote  portatore di oggetti sacri, sacra ferens, coronato di olivo che fonda  Roma donandogli delle leggi, legibus.   Tutto si ordina intorno a questa differenza - «l’altro mondo e  questo qui» - in cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha l’iniziativa, equili¬  brano eccellentemente gli auspicio, in cui l’uomo non fa che decifrare  il linguaggio miracoloso di Giove.   Si verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi di  sovrani ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna e  Mitra (vedi III, § 2). Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella  genesi di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa  metà del mondo.   Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo, quando  spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del regno,  una osservazione molto giusta (Numa, 5,4-5): «Si attribuisce a Romo¬  lo la gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è stato  nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione particola¬  re della divinità; io, al contrario, sono di una razza mortale, sono sta¬  to nutrito e allevato da uomini che voi conoscete».   I loro modi di azione non differiscono di molto e la differenza si  esprime in maniera sorprendente in ciò che si possono chiamare i loro  dèi prediletti.   Romolo stabilisce solo due culti che sono due specificazioni di  Jupiter - quel Jupiter che gli ha donato la promessa degli auspici - Jupi-  ter Feretrius e Jupiter Stator che si accordano nel fatto che Giove è il  dio protettore del regnum, ma relativamente ai combattimenti e alle  vittorie; e la seconda vittoria è dovuta a una prestidigitazione sovrana  di Giove, a «un cambiamento di vista» contro il quale nessuna forza  può niente e che capovolge l’ordine normale e consueto degli avveni¬  menti. Al contrario, tutti gli autori insistono sulla devozione particola¬  re che Numa rivolge a Fides. Dionigi di Alicamasso scrive (II, 75): « Non vi è sentimento più  elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato che nei  rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità Numa,  il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides Publica e  istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli delle altre divi¬  nità». Plutarco {Numa, 16,1) dice similmente che fu il primo a costrui¬  re un tempio a Fides e insegnò ai Romani il loro più grande giuramen¬  to, il giuramento di Fides. Si vede bene come questa distribuzione sia  conforme all’essenza delle due divinità sovrane antitetiche, Varuna e  Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due dèi si oppone allo stes¬  so modo: Romolo è un violento, descritto dagli annalisti come un ti¬  ranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con dei tratti sicura¬  mente antichi: « Vi erano sempre vicino a lui - dice Plutarco ( Romolo ,  26, 3-4) - quei giovani chiamati Celeres a causa della loro prontezza  nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in pubblico che preceduto  dai littori armati di verghe, con le quali respingevano la folla, cinti di  corregge con cui legavano sul posto quello che lui ordinava di arre¬  stare». A questo sovrano, così materialmente «legatore» come Varu¬  na, si oppone il buono e calmo Numa, la cui prima iniziativa una volta  di venuto re fu quella di sciogliere il corpo dei Celeres e come seconda  di organizzare ( ibidem) o creare (Tito Livio, I, 20) i tre flamines maio-  res. Numa è privo di ogni passione, anche di quelle sti mate dai barbari,  come la violenza e l’ambizione (Plut. Numa, 3, 6).   Di conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte per la funzione  guerriera, quelle dell’altro per la funzione di prosperità.   Anche nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre trionfi,  prescrive ai Romani: rem militarem colant (Tito Livio, I, 16, 7).   Numa si assegna il compito di disabituare i Romani alla guerra  (PI ut. Numa, 8, 14) e la pace non è rotta in alcun momento del suo re¬  gno (ibidem, 20, 6); offre un buon accordo ai Fidenates che compiono  razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo una va¬  riante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle forme che im¬  pediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso, II, 72; Plu¬  tarco, Numa, 12, 4).   Distribuisce ai cittadini indigenti i territori occupati da Romolo  «per sottrarli alla miseria, causa quasi necessaria della perversità, e  per spingere verso l ’ag ricoltura lo spirito del popolo, che domando la terra si addolcirà»-, divide tutto il territorio in vici, con ispettori e com¬  missari che lui stesso controlla « giudicando i costumi dei cittadini in  base al lavoro, premiando con onori e poteri coloro che si distinguono  perla loro attività, biasimando i pigri e correggendo le loro negligen¬  ze» (Plut. ibid. 16,3-7). Limitiamo a ciò la comparazione che potrebbe  comunque proseguire dettagliatamente, poiché è evidente che gli an¬  nalisti si sono ingegnati a spingere in ogni direzione l’opposizione tra i  due re, l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da que¬  sti) senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis, sepolto  piamente dai senatori, antenato di numerose genti.   Delle pretese gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno  potuto introdurre più di un dettaglio e in di verse epoche in queste «vite  parallele inverse» e sicuramente in quella di Numa.   Ma è chiaro che queste stesse innovazioni si sono uniformate a  un dato tradizionale, la cui intenzione era di illustrare due tipi di re,  due modelli di sovranità, quelli stessi conosciuti dall’India sotto i  nomi di Varuna e Mitra.   21. Tullo Ostilio e la funzione guerriera   Dopo la funzione sovrana la funzione guerriera, dopo Romolo e  Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise presenta ad Enea ( En . VI, 815)  come colui «che riporterà alle armi, in arme, i cittadini divenuti casa¬  linghi e disabituati ai trionfi». Arma, come auspicia e sacra per i suoi  predecessori, segnala qui l’essenza del suo carattere e della sua opera:  militaris rei institutor dirà Orosio e prima di lui Floro: «La regalità gli  fu conferita in base al suo coraggio: è lui che ha fondato tutto il siste¬  ma militare e l'arte della guerra; di conseguenza dopo aver esercitato  in maniera sorprendente la iuventas romana osò provocare gli Alba¬  ni».   22.1 miti di Indra e la leggenda di Tullo Ostilio   È in questo caso che il confronto tra l’epopea romana e la mito¬  logia ha dato ( 1956) i risultati più inattesi e ha permesso di ampliare lo  studio dettagliato della funzione guerriera indoeuropea, il cui solo  confronto della teologia esplicita non lasciava intravedere che i mag¬  giori aspetti: nelle loro «lezioni» ma anche nelle loro affabulazioni, i due episodi solidali che costituiscono la «storia» di Tulio - la vittoria  del terzo Orazio sui treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salva¬  no Roma del pericolo che correva il suo nascente imperium, uno per la  subordinazione di Alba, l’altro per la sua distruzione - rispecchiano da  vicino i due principali miti di Indra che la tradizione epica presenta  spesso come conseguenti e solidali, cioè la vittoria di Indra e di Trita  sul Tricefalo e la morte di Namuci. Non è possibile qui che mettere in  un quadro schematico le omologie, pregando il lettore interessato di  riportarsi al libro in cui gli argomenti e le conseguenze sono lunga¬  mente esposti.   A, a) (India). Nell’ambito della loro rivalità generale coi demo¬  ni, gli dèi sono minacciati dall’imbattibile mostro a tre teste che è tut¬  tavia il «figlio dell’amico » (nel Riveda) o il cugino germano degli dèi  (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e cappellano degli  dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita «il terzo» dei tre fratelli Àptya, a  uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide, salvando gli dèi. Ma  quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di un brahmano, com¬  porta un’impurità che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che la liqui¬  dano ritualmente. Da allora gli Àptya sono specializzati nell’eli¬  minazione delle diverse impurità e in particolare, in ogni sacrificio, di  quella che comporla l’inevitabile messa a morte della vittima.   b) (Roma). Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e Alba si  disputano Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli  Orazi e i tre gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella  degli Orazi e che, anche nella versione seguita da Dionigi di Alicar-  nasso, sono cugini germani degli Orazi).   Nel combattimento ben presto non rimane che un Orazio, ma  questo «terzo» uccide i suoi tre avversari dando Vimperium a Roma.  Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini rischia di produrre  un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché i Curiazi hanno  accettato per primi l’idea del combattimento, la responsabilità cade su  di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue famigliare è ripartita subito,  trasferita, su un episodio che non ha paralleli nel racconto indiano: il  terzo Orazio uccide sua sorella che lo ha maledetto per la morte del suo  fidanzato. La gens Oratia deve dunque liquidare quest’impurità e  ogni anno continua a offrire un sacrificio espiatorio: la data di questo  sacrificio, all’inizio del mese che pone fine alle campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste espiazioni riguardavano (da là  la leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a Roma, macchiati  dalle inevitabili morti della battaglia.   B, a) (India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità conclude  un patto di amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo «né di  giorno né di notte, né col secco né con l'umido ». Un giorno, approfit¬  tando a tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è stato  messo dal padre del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi at¬  tributi: forza, virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo soccorso  gli dèi canonici della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli ren¬  dono la sua forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola data  pur violandola: egli non deve che assalire Namuci all’alba (quando  non è né giorno né notte) e con della schiuma (che non è né secca né  umida). Indra sorprende così Namuci che non sospetta c lo decapita in  maniera bizzarra, «burrificando» la sua testa nella schiuma.   b) (Roma). Dopo la disfatta dei tre Curiazi, il capo degli Albani,  Mezio Fufezio, si pone in Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù della  convenzione. Ma segretamente tradisce il suo alleato e durante la bat¬  taglia contro i Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scopren¬  do il fianco dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti  alla divinità della terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché  al corrente del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e  convoca al pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là  sorprende Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a una pena unica nella  storia di Roma, lo squartamento.   23. Rapporti della funzione guerriera con le altre due  Attraverso questi miti e queste leggende è tutta una filosofia  della necessità, dell’impeto cdei rischi della funzione guerriera, che si  esprime, come pure una concezione coerente dei rapporti di questa  l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio; e con  l’aspetto «Mitra-Fides» della prima che tuttavia non rispetta affatto e  che non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei pericoli,  come potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi questa  azione disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i rapporti di Indra e  Tulio Ostilio con l’aspetto «Varuna-Jupiler» della funzione sovrana  non procedono senza scontri: abbiamo già ricordato gli inni vedici in     cui Indra sfida Varuna, vantandosi di sconfiggere la sua potenza (e gli  Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo oppongono Ódinn e Pórr in  un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a Roma uno scandalo vi¬  vente, il re empio e la fi ne della sua storia non è che la ten ibile vendet¬  ta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si prende contro questo re  troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo tempo.   Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate tuttavia a  continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso contrae una lunga  malattia; dice allora Tito Livio (I, 31,6-8):   «lui, che fino a questi tempi aveva creduto che niente è meno  degno di un re che applicare il proprio spirito alle cose sacre, improv¬  visamente si abbandonò a tutte le superstizioni, grandi e piccole, e  propagò anche fra il popolo delle vane pratiche... Si dice che il re stes¬  so consultando i libri di Numa vi trovò la ricetta di certi sacrifìci se¬  greti in onore di Jupiter Elicius. Egli si appartò per celebrarli. Ma sia  all’inizio che nel corso della cerimonia commise un errore rituale, di  modo che, invece di veder comparire una figura divina, irritò Jupiter  con un'evocazione mal condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la  sua casa»   Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il  grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è per¬  ché egli è un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che  più interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era l’unica a onora¬  re, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei tempi delle  sue origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella persona di  Romolo e Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re, che abbia¬  mo visto opposto a Numa nella seconda ed ultima parte della sua car¬  riera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre Quirinus. Questa  differenza risalta in effetti a proposito della stessa fondazione, nella  disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo cessa allora di es¬  sere «uno dei due gemelli», il socio fedele e senza contesa di suo fra-    113     tello, per diventare il re prestigioso, creatore, terribile, tirannico e isti¬  tutore di quegli uomini che portano davanti a lui delle corde, pronte a  «legare» nel senso letterale del termine, al pari del suo omologo del  pantheon vedico, Varuna, armato di lacci.   La corrispondenza tipologica dei gemelli dell’epopea romana e  degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la lista trifunzionale  indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da Alba, e alla fondazio¬  ne dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori allevati da un pastore,  vivono una vita esemplare da pastori messa in risalto solo da un gusto  marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In questa definizione pastorale  l’evoluzione della proto-civilizzazione romana (scomparsa del carro  da guerra) ha eliminato la «parte del cavallo» (in evidenza nella parola  ASvin), non rimane quindi che la «parte del bue e del montone», per si¬  tuare maggiormente Romolo e Remo nell’economia rurale.   I Nàsatya, come si ricorderà, sono inizialmente tenuti a distanza  dagli dèi perché troppo «mescolati agli uomini» ( Éat. Brùhm ., IV, 1,5,  14, etc.) e nella letteratura posteriore saranno considerati come degli  dèi Sfldra, dèi di ciò che vi è di più basso e fuori-casta, in rapporto alla  società ordinata.   Così vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non vi  è in essi niente di «sovrano», nessun rispetto per 1 ’ ordine. Devoti ai più  umili, disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del bestiame del  re (Plutarco, Romolo, 6, 7). Il gruppo che li seguirà nella loro rivolta  sarà un gruppo di pastori (Tito Livio, 1, 5, 7) o un’assemblea di indi¬  genti o schiavi (Plutarco, Romolo , 7, 2) prefiguranti l’eterogenea po¬  polazione dell’Asilo ( ibidem , 9, 5).   Sono raddrizzatori di torti: come i Nàsatya passano il loro tem¬  po a riparare le ingiustizie degli uomini o della sorte. Essendo sempli¬  cemente degli dèi i Nàsatya compiono le loro liberazioni, restaurazio¬  ni e guarigioni per mezzo di miracoli, mentre Romolo e Remo non  possono ricorrere che a mezzi umani per proteggere i loro amici contro  i briganti, ristabilire nei loro diritti i pastori di Numitore maltrattati da  quelli di Amulio e, finalmente, punire Amulio. Uno dei più celebri ser¬  vigi dei Nàsatya, origine della loro fortuna divina, è stato quello di  aver ringiovanito il vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa di  Romolo e Remo, origine della fortuna del primo, fu allo stesso modo quella di aver riabilitato il loro vecchio nonno che era stato privato del¬  la regalità di Alba.   I due Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono in¬  sieme ma tuttavia un testo segnala una grave disuguaglianza che ricor¬  da quella dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è fi¬  glio di un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è differente ma  considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi proseguirà la sua  carriera diventando un dio - il dio canonico della terza funzione, Quiri¬  no -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i soli onori abi¬  tuali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro {Fasti, II  395-6): « ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen  ex illis iste vigoris habet ...»   Certe azioni estranee ai Nàsatya - mal conosciute come tutta la  loro mitologia - sembrano ricordare dei tratti della leggenda di Romo¬  lo e Remo, talvolta solo con una inversione (protettori e non protetti)  che testimonia come essi siano degli dèi e i gemelli romani degli uomi¬  ni. Uno dei servigi frequenti dei Nàsatya è di fare cessare la sterilità  delle donne e delle femmine; ora, Romolo e Remo sono i primi capi  dei Luperci, un compito dei quali è di rendere madri le donne romane  con la flagellazione (una leggenda eziologica, che pone l’origine di  questo rito dopo la fondazione di Roma c il ratto delle Sabine, dice che  è stato destinato inizialmente a far cessare una sterilità generale).   In tutto il Rgveda il lupo è un essere mal visto, è il nemico;  l’unica eccezione si trova nel ciclo dei Nàsatya: un giovane uomo ave¬  va sgozzato cento c un montoni per nutrire una lupa e per punizione  suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera della lupa i gemelli divi¬  ni resero la vista allo sfortunato. Nella storia di Romolo e Remo, c solo  in essa a Roma, non è più in quanto nutrita ma come nutrice che la lupa  occupa il posto eminente che ben si conosce. Nei riti e nelle leggende  dei Luperci (Ovidio, Fasti, II, 361-379), nel racconto sulla giovinezza  di Romolo e Remo (Plutarco, Romolo, 6, 8) le corse giocano un ruolo  considerevole; ugualmente le corse in carro ncl4 mitologia degli  ASvin.   Un aspetto sfortunatamente oscuro della festa rustica di Palcs  (il «cavallo mutilato», curtus equos), come pure il concetto stesso del¬  la dea «Pales», così strettamente legato a Romolo e Remo e alla fonda¬  zione di Roma, ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in for-     ze la giumenta detta «Pula del w.f» (vis, principio della terza funzione  e anche «clan») che durante una corsa si era spezzata le gambe. Questo  confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro carriera  «preromana», Romolo e Remo corrispondono così precisamente ai  Nàsatya come Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corri¬  spondono a Varuna e Mitra e Tulio a Indra. Quando Romolo muore  verrà deificato sotto il nome del dio canonico della terza funzione,  Quirino, ritornando quindi al suo valore primigenio e, sia dello di  sfuggita, questa notevole convergenza spinge a rivedere l’idea gene¬  ralmente ammessa che l’assimilazione di Romolo a Quirino sia secon¬  daria e tardiva.   25. La terza funzione, fondamento delle altre due   Riguardo l’ordine di apparizione delle tre funzioni nell’epopea  delle origini romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello stesso Romolo  da «Nàsatya» in «Varuna», queste non sono senza paralleli c rivelano  un aspetto della struttura trifunzionale che ancora non abbiamo avuto  occasione di segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto cer¬  to che, se è vero che la terza funzione è la più umile, nondimeno essa è  il fondamento e la condizione della altre due. Come vivrebbero maghi  e guerrieri se i pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella leggenda  iranica, Yima al pari di Romolo diviene un re prestigioso e eccessivo  sfidando Ahura Mazda - dopo essere stato differenzialmente, nella  primaparte della sua vita, un buon «eroe della terza funzione» dai ric¬  chi pascoli, sotto cui la malattia c la morte non affliggevano ne l’uomo  né la bestia né le piante ( Yust , XIX, 30-34). Nell’epopea osscla (vedi  sopra I § 4), i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei quali il secondo uc¬  cide il primo in un eccesso di gelosia, genera poi la famiglia degli  i£xsaertaegkalae (la famiglia dei Forti, dei Guerrieri) che sono usciti se¬  condo certe varianti dalla razza di «Bora», cioè dai Boratae (una fami¬  glia di ricchi).   È la stessa filosofia che si esprime nei rituali indiani sulla stessa  area sacrificale: devono essere riuniti tre fuochi corrispondenti alle tre  funzioni; un fuoco che trasmette le offerte agli dèi, un fuoco che difen¬  de contro i demoni e un fuoco padrone della casa; ora, quest’ultimo  presenta i caratteri di un «fuoco vatéya» che è il fuoco fondamentale  acceso per primo e che serve per accendere gli altri.     26. Sviluppo della ricerca   Il lettore è stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui  sono classificati i risultati ma, per la teologia e la mitologia di ognuna  delle tre funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo si è l'at¬  to penetrare nel campo degli stessi scavi in cui il comparatista si batte  ancora con la sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure or¬  dinarie che non sono solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzio¬  ni, delle reinterpretazioni dei dettagli alla luce dell’insieme meglio  compreso e generalmente delle riflessioni critiche sui bilanci anterio¬  ri. Prima di prendere congedo la guida deve ricordare che, per impor¬  tante o centrale che sia l’ideologia delle tre funzioni, essa è ben lungi  dal costituire tutta l’eredità indoeuropea comune che l’analisi compa¬  rativa può intravedere o ricostruire. Un gran numero di altri cantieri  più o meno indipendenti sono aperti : sugli «dèi iniziali», sulla dea Au¬  rora e su qualche altro, sulla mitologia delle crisi del sole, sulle varietà  del sacerdozio, sui meccanismi rituali e sui concetti fondamentali del  pensiero religioso, la comparazione, e specialmente la comparazione  dei fatti indo-iranici e romani, ha già permesso c permetterà di ricono¬  scere delle coincidenze che è difficile attribuire al caso.    Note ai paragrafi    § 2. La struttura bipolare della sovranità è l’argomento di MV; il capitolo  III di NA studia i fatti iranici (Vohu Manah c Asa). A proposito di questi ulti¬  mi la critica di W. LENTZ, «Yasna 2<f», Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz.., 1954, p.  963, non regge; non più dei poeti del Riveda per Mitra e Varuna, quelli delle  Gàthà avevano la preoccupazione, in tutte le circostanze o in molte circostan¬  ze, di caratterizzare differenzialmente Vohu Manah c Asa; questo è vero per  lo Yasna 28 in cui ogni strofa nomina contemporaneamente le due Entità  esattamente come RV, V, 69, in cui ogni strofa nomina simultaneamente i due  dèi senza cercare di distinguerli. Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The  f>reai Vohu Manah and thè Apostle ofGod, 1945. Per Mi9ra e Ahura Mazda  nella nuova prospettiva vedi MV, cap. V, § v (da correggere dopo WlDEN¬  GREN, Numen, I, 1954, p. 46, n. 148); J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Zoroastre ,  1948, pp. 87-93; da S. WlKANDER, Orientalia Suecana, I, 1952, pp. 66-68  (sul Mesoromazdés di Plutarco). L’importante affinità del Varuna vcdicocon     F oceano, f ortemente marcata da H. LUDERS, Varuna , I ( Varuna linci die Was-  ser), 1951, sarà esaminata ulteriormente i n un quadro comparativo.   § 3. MV, cap. IV.   § 4. MV, cap. VII: si hanno ora le esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm.  Rei. -Gesch., Ir, 1957, §§ 409-412 e di W. BETZ (vedi sopra, nota a II, §§  19-20) «Die altgerm. Religion», col. 2485-2498.   § 5. Le troisième souverain, essai sur le_ clieu indo-ircuiien Aryaman,  1949; DIE, pp. 40-59. Su Aditi, madre degli Aditya, in quanto «madre e fi¬  glia» di uno di essi, vedi Déesses latines et mythes védique , 1956, cap. III. Ri¬  fiutando e caricaturando in ZDMG, 117, 1957, pp. 96-104 la rettifica che  avevo proposto alla sua interpretazione (1938) di ari (non importa quale  «Fremdling», ma già con una nota di nazionalità, l’insieme o un membro del  mondo arya - alleato o avversario), P. THIEME compie il tour de force di di¬  scutere senza menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto naturale  di questa rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo sintetico, intuitivo,  etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una analisi completa e detta¬  gliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò successivamente questa  curiosa risposta nel JA e spero che P. Thieme userà più fair play nello studio  che sta preparando, mi dicono, su «Mithra e Aryaman», (vedi l’Appendice).   § 6. DIE, pp. 50-51, riassumendo Le troisième souverain.   § 7. DIE, pp. 51-52. Sugli Àditya Daksa e Amsa, ihid., pp. 55-58.   § 8. DIE, pp. 59-67; K. Barr, Àvesta, 1954, pp. 184-185, 193, 215.   § 9. DIE, pp.68-75. Per Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro  nel mondo celtico: come Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favo¬  re di Jupiter O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio,  così l'irlandese Mac Oc («il Giovane Figlio»), antico dio protettore della gio¬  ventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda e si fa  concedere «un giorno e una notte », poi arguendo che il giorno e la notte fanno  la totalità del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro del luogo («Jeunessc,  éternité, aube», Annales d’histoire économique et sociale , 1928, pp.  289-301.   § 10. DIE, pp. 76-77.   § 11. Vedi la prefazione di Aspects...   § 12-24.1 servigi che bisogna richiedere alla pseudo-storia delle origini  romane comparata con la mitologia indiana o scandinava, sono stati ben pre¬  sto riconosciuti: JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces, 1942, pp. 65-70; Ser-  vius et la Fortune , 1943, pp. 112-119; riassunto in L’hérìtage..., cap. Ili e in  «Mythes romains», Revue de Paris, die. 1951, pp. 105-118. Sull’epoca in cui  I’affabulazione definitiva degli antichi miti si è prodotta (senza dubbio tra il  350 e il 280 a giudicare dagli anacronismi che vi sono inseriti), vedi  L’héritage..., p. 181, n. 49.   § 13. L’interpretazione dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S.  WlKANDER in un suo articolo fondamentale, «Pandava-sagan och     Mahàbhàratas myliska fòrutsattningar», Religion neh Bibel, VI, 1947 pp.  27-39, in gran parte tradotto e commentato nel niio JMQ IV, pp. 37-85; cf.  WlKANDER, «Sur le fonds commun indo-iranien des épopées de la Perse et de  l’Inde», NC, VII, 1950, pp. 310-329. Nel dominio germanico un caso paralle¬  lo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di Njordr) è stato studialo in  La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I, V-VIII), du mythe au roman,  1953. Mentre il presente libro era in stampa, in Orientalia Sue vana, sotto il ti¬  tolo «Nakula e Sahadeva». WlKANDER faceva considerevolmente avanzare  l’analisi dei gemelli epici e divini (vedi sotto § 24).   § 14. Su Vàyu-Indra, vedi «Pàndava sagan...», pp. 33-36; è il risultalo dei  lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des altea Iran, 1938, pp. 75, 300, 317;  di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini alten Iran, 1938, pp. 188-215; di S.  WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV ha riconosciuto il dio indo-iranico  * Vayu nel nome generico dei «giganti» (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse-  ti, weijug (da *Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, VI, 1956, pp.  450-457, che io ho commentato in «Noms mythiqucs indo-iraniens dans le  folklore des Osses», JA, CCXLIV, 1957, pp. 349-352.   § 15. Aspects..., pp. 9, 70, 80.   § 16. JMQ IV, p. 56.   § 17. «Pàndava-sagan...», p. 36; JMQ IV, pp. 59+60, 67-68.   § 18. Pandu come trasposizione di Vanina, vedi JMQ, IV, pp. 77-80. La  trasposizione di un mito vedico (duello di Indra c del Sole, la ruota del carro  del Sole «infossata») è stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna,  fratello uterino e nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono degli  dèi delle tre funzioni: «Karna et Ics Pàndava», Orientalia Suecana, III ( =Do-  num natal. H.S. Nyberg), 1954, pp. 60-66. Una trasposizione (dei passi di  Visnu al servizio di Indra) è segnalata in «Les pas de Krsna et l’exploit  d’Arjuna», Orientalia Suecana, V, 1956, pp. 183-188; e altri due (i sovrani  minori Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una conferen¬  za fatta all’Università di Copenhagen nel nov. 1956, pubblicala quest’anno  nell’ Inclo-1 ninian Journal («La transposilion des dieux souverains dans le  Mahàbhàrata»), Il personaggio di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella  stessa prospettiva.   § 19. Le leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due croi  che ricordano, per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio cieco monco  della mitologia scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e Tyr: questi sono  Orazio Coclite («il Ciclope») c Muzio Scevola («il Mancino»), i due salvatori  di Roma nella guerra contro Porsenna; la comparazione è stata sviluppata in  MV cap. IX e ripresa diverse volle, specialmente ne L’heritage..., pp.  159-169 c Loki, 1948, pp. 91-97. Sui primi redi Roma vedi il riassunto degli  studi anteriori in L’heritage..., pp. 143-159; un notevole «ritocco» parallelo  al «ritocco» zoroastriano degli dèi trasporti in Entità della tradizione romana  nel De Republica di Cicerone, è stato studiato in «Les archanges de Zoroastrc  et Ics rois romains de Ciceron», JP, XLIII, 1950, pp. 449-463.    119     § 20. Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane..., pp. 146-154.   §21. Horate et les Curiaces, 1943, pp. 79-88; L ’héritage..., pp. 154-156.   § 22. Aspetta ..., pp. 15-61: «La geste deTullus Hostilius et les mythes de  Indra»; cf. pp. 3-14 dello stesso libro, studio dell’Indra vedico come «solita¬  rio» a dispetto dei suoi associati ( ekci -) e come «autonomo» (sva-). La biblio¬  grafia degli studi comparativi sullasecondafunzioneèdatain DIE, pp. 38-39  e completala in Aspetta..., p. 1.   § 24. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli Nàsa-  tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, «Harlekintracht...», Orientalia Sueca-  na , II, 1953, pp. 96-97; Aspetta..., pp. 20-21. Non ho ancora pubblicato su  questa interpretazione dei gemelli romani il libro preparato nel 1951-1952; è  comparso solo un frammento: «Le turtus equos de la fète de Pales et la muti-  lationde lajument ViSpala», Ercinos, LIV (=G. Bjiirck meni. Saturni), 1956,  pp. 232-245. Altre corrispondenze tra dèi ed eroi gemelli dei diversi popoli  indoeuropei sono state segnalale in La saga de Hadinf>us, 1953, pp. 114-130,  151-154.1 Dioscuri greci sono solo parzialmente comparabili. Sembra che  altri aspetti della terza funzione (massa popolare; sviluppo della ricchezza e  del commercio; piacere) abbiano ispirato i racconti sul quarto re di Roma,  Anco Marzio, successore del guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III («Jactanlior  Ancus») e la discussione con J. Bayet in JMQ IV, pp. 185-186 (dove impor¬  tanti questioni di metodo sono toccate).   § 26. DIVINITÀ: sugli «dèi iniziali», vedi «De Janus à Vesta», Tarpeia,  pp. 31-113 (=JMQ it., pp. 287-353), DIE, pp. 84-105; in Rituels..., pp. 33-39,  sono state rilevate delle concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di Vi-  vasvat; in Déesses latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani hanno  chiarificaio e giustificaio le rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas; vedi  anche RENOU, Études védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les Hymnes à  l'Aurore du Riveda, pp. 1-104, specialmente pp. 8-9,10, 65), della silenziosa  Diva Angerona, dea degli angusti dies del solstizio d’inverno (cf. Atri opero¬  sa con la preghiera silenziosa nella crisi del sole), della Fortuna Primigenia  prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf. Aditi, madre e figlia del sovrano  Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti). RITUALI in «Suouetaurilia», Tarpeia, pp.  115-158 (= JMQ it., pp. 355-388) si è stabilito lo stretto parallelismo di que¬  sto sacrifico triplice, offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di  un loro, di un montone c di un capro a Indra «Buon Protettore»); in Rituels in-  doeuropéeus à Rome (oltre a qui sopra, I, § 21), i Fordicidia sono stali resi  chiari, nei dettagli dei riti, dal sacrificio vedico della «Vacca dagli otto pie¬  di»; l’opposizione del santuario rotondo di Vesta c di templi quadrati, orien¬  tali, è stala riavvicinata all’opposizione tra il fuoco rotondo (di riserva e di  accensione, «fuoco del padrone di casa», attaccalo alla terra) e il fuoco qua¬  drato (che dirige verso gli dèi le offerte degli uomini) sull’ara sacrificale ve-  dica; i rapporti rituali degli equidi, c in special modo del cavallo, con  ciascuno dei tre livelli funzionali, sono stati riconosciuti come idèntici sia a  Roma che nell’India vedica; in «Quacstiunculac indo-italicac, 1-3» (da pub¬  blicarsi in REL, XXXVI, 1958) il tulmen inane fabae della fumigazione dei    120      Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco durante i Volcanalia e la prescrizione  bigarum victricum clexterior del Cavallo di Ottobre sono chiarificati dai dati  vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a I, § 1, per Jlamen-brahman ):  «Meretrices et virgines dans quelques légendes politiquesde Rome et des pe-  uples celtiques», Ogcnn, VI, 1954, pp. 3-8; «Remarques sur le ius feriale »,  REL, XXXIV, 1956, pp. 93-111; REL, XXXV, 1957, pp. 126-151, contiene  uno studio su augur, inaugurare, augustus. NOZIONI: «A propos de latin  ius». RHR, CXXXIV, 1947-48, pp. 95-112; «Ordre, fantasie, changemente  dan les pensées archaiques de l’Inde et de Rome, à propos de latin mos»,  REL, XXXII, 1954, pp. 139-160; in «Maiestas elgravitas, de quelques diffé-  rences entre les Romains et les Austronésiens», RP, XXVI, 1952, pp. 7-28 e  XXVIII, 1954, pp. 9-18; queste sono invece due nozioni prettamente romane  che sono state analizzate contro la scuola primitivista; su gratus, gratin emi¬  nentemente spiegate con un usovedico della radicegurC^V, Vili, 70,5), vedi  L.R. PALMER, «The Concept of Social Obligation in Indo-European», Coll.  Latomus, XXIII ( =Homm. M. Niedennann), 1956, pp. 258-269. E. BENVENI-  STE ha delucidato comparativamente un gran numero di nozioni religiose e  sociali, vedi in special modo «Symbolisme social dans les cultes gré-  co-italiques» RHR, CXXIX, 1945, pp. 5-16 (vedi una conferma di un dato  importante nel mio Rituels...)', «Don et échange dans le vocabulaire in-  do-éuropéen», L'Année Sociologique, 1951, pp. 7-20 e «Formes et sens de  pvaopai», Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A. Debrun¬  ner), 1954, pp. 13-18.      Storia degli Studi e bibliografìa    Dopo lo scacco del saggio intelligente ma prematuro fatto dalla  scuola di Adalbert Kuhn (1812-1881) c di Friederich Max Miiller  ( 1823-1900) teso a ricostruire la mitologia comune degli Indoeuropei,  l’impresa fu per un certo tempo dichiarata illusoria. Daunaparte, sotto  l’influenza di Wilhelm Mannhardt (1831-1880), gli studi si spostaro¬  no sui rituali e le credenze agricole, popolari, di un tipo abbastanza  uniforme per tutta l’Europa e ci si applicò a ridurvi, senza pretendere  di stabilire filiazioni né parentele particolari, un gran numero di culti e  miti delle diverse religioni e in special modo quelle dei popoli classici.  Da un’altra parte, per effetto della crescente settorializzazione delle  specialità, gli studiosi dei diversi domini, indiano, greco, latino, ger¬  manico, etc., rifiutando ogni considerazione comparativa, costruirono  per spiegare la genesi e lo sviluppo delle religioni da loro studiate delle  ipotesi che presero sovente per dati di fatto e che non si accordavano  che per un punto: la riduzione a poche cose, per non dire a niente,  dell’eredità conservata dal passato comune indoeuropeo. Rari autori  continuavano a parlare di «religione indoeuropea» come ad esempio  A. CARNOY, Les Indoeuropéens (1921) p. 154-240.   Tuttavia nel secondo quarto di questo secolo si produssero delle  reazioni. In Germania bisogna citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der  Arische Weltkonig und Heiland (1923); R. OTTO, Gotlheit und Got-  theilen derArier (1932); F. CORNELIUS, Indogermanische Religion-  sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che prosegue brillantemente, degli  articoli c dei libri di F.R. Schroder.   A partire dal 1924 e nel corso di dodici anni io stesso ho fatto un  primo sforzo di revisione della «mitologia comparata», ma con dei    123     mezzi filologici insufficienti e rimanendo prigioniero, per la spiega¬  zione, delle concezioni mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im-  morIalite 1924, Le crime des Lemniennes 1924 e qualche articolo di  cui non vi sono grandi cose da ritenere; il Leproblème des Centaures,  1929 e Flamen-Brahman, 1935, i cui frammenti rimangono utilizzabi¬  li). Non è che a partire dal 1938 che, inizialmente solo e poi, dopo il  1945, raggiunto e spesso superato da altri ricercatori, spero di essere  riuscito a delineare dei tratti importanti della struttura dell’eredità in¬  doeuropea comune, in una coscienza più chiara delle condizioni c dei  mezzi deH’inchiesta. Quest’inchiesta non si riporta ad alcun sistema  preconcetto di spiegazione, ma utilizza gli insegnamenti della socio¬  logia e dell’etnografia, come pure il ricorso all’analisi linguistica dei  concetti.   Essa ha due postulati: ammette che tutto il sistema teologico e  mitologico significa qualcosa, aiuta la società che lo pratica a com¬  prendersi, ad accettarsi, ad essere fiera del suo passato, confidante nel  presente e nell’avvenire; ammette anche che la comunità di lingua,  presso gli Indoeuropei, implica una misura sostanziale dell’ideologia  comune alla quale deve essere possibile accedere grazie a una varietà  adeguata del metodo comparativo.   Una circostanza, sulla quale un articolo di J. Vcndryes aveva at¬  tirato l’attenzione sin dal 1918, ha dato il via all 'inizio di molte ricer¬  che: il vocabolario religioso degli Indo-Iranici da una palle c quello  dei Celti e degli Italioti dall’altra presentano un gran numero di con¬  cordanze precise e che sono loro proprie. Un articolo-programma del  1938 «La préhistoire des flamines majeurs», RHR, CVIII, pp.   1 88-200 ha dimostrato che questa parentela prossima non si riduce al  vocabolario ma si estende alla struttura della religione. E dal 1938, in  ogni tipo di materia, è in effetti la comparazione dei dati vedici o in¬  do-iranici e dei dati romani che ha fornito i primi risultati precisi sui  quali è stato possibile fondare delle comparazione più vaste.   Così illuminati, i fatti germanici (benché il vocabolario religio¬  so sia interamente differente) si sono ben presto rivelati anch’essi no¬  tevolmente fedeli al passato indoeuropeo.   Benché conformandosi ai grandi quadri indoeuropei, il domi¬  nio celtico pone ancora, in seguito allo stato della documentazione, un  gran numero di problemi irrisolti. La Grecia - per effetto senza dubbio    124     del «miracolo greco» e anche perché le più antiche civiltà del Mare  Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti dal Nord -  contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più conside¬  revoli dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto agli  altri popoli del mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli Slavi,  non si è ancora riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali lavori in  cui è stata progressivamente analizzata l’ideologia tripartita degli  Indoeuropei che il presente libro espone sono i seguenti':    Mythes etdieuxdes Gennains, essaid’interprétation compara¬  tive 1939 (citato MDG)   Mitra-Vurunu, essai sur deux représentations indoeuropéen-  nes de la souveraineté 1940, II ed. 1948 (citato MV)   Jupiter Mars Quirimis, essai sur laconception indoeuropéenne  de la société et sur Ics origines de Rome, 1941 (citato JMQ)  Naissance de Rome (=JMQ II) 1944 (citato NR)   Naissance d'Archanges, essai sur la formation de la théologie  zoroastrienne (=JMQ III), 1945 (citato NA)   Jupiter Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ IV)   L ’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux séries  «JMQ» et «Mythes Romains», 1949   Le troisième Souverain, essai sur le dieu Aryaman, 1949  Les dieux des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE)   Rituels Indoeuropéens à Rome, 1954   Aspects de lafonction guerrière chez les Indoeuropéens, 1956  Déesses latine set mythes védiques. Coll. Latomus, XXV, 1956    Una traduzione italiana di una versione migliorata in diverse  parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia (1947) e di JMQ IV, è  stata pubbl icata nel 1955 a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars Quiri-   I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di JMQ. NR. NA ehc  sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard. Aspettando, l’edizione  italiana dei primi due Corniscc un’idea delle correzioni giudicale necessarie: le  parli che non sono state tradotte sono da eliminare.    125     ìtus (citato JMQ it.) 2 . Delle questioni di metodo, che io qui non affron¬  to, si trovano discusse nelle prefazioni della maggior parte di questi li¬  bri e, più sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage ...  («Materia, oggetto e metodi di studio»).    2 AUre abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL = Beitrage zur Geschichte der  Deutschen Sprache und Literatur: FFC = Folklore Fellows Communications; J A  = Journal Asiati que; JAOS = Journal of thè American Orientai Society; JP =  Journal de Psichologie: NC = la Nouvelle Clio; REL = Revtte des Etudes Lalines;  RHA = Revtte Hittite et Asianique; RHR = Revtte de l ’Histoire des Religions; RV  = Riveda; RP = Revtte de Philologie. RSR = Recherches de Science Religieuse;  SBE = Sacred Books of thè East; SMSR = Studi e Materiali di Storia delle  Religioni ; TPS = Transaction of thè Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir  Celti sche Philologie; ZDMG = Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen  Gesellschafl.    126     Appendice    Aryaman e Paul Thieme    Mentre correggo le seconde bozze di questo libro (maggio  1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra (nota al  cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue speranze che  esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti dell’articolo del JA,  concernenti Aryaman e il metodo di Thieme, menzionato nello stesso  paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione provvisoria su Mitra  and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle note di I e II i nu¬  meri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. = P. Thieme, Der Frem-  dling im Rig Feda, 1938; S = il mio Troisième Sauveraine, 1949; Z =  P. Thieme, Ari, «Fremder», ZDMG, 117, 1957. pp. 96-104.   I   Ma è soprattutto nei confronti del dio vedico, e prima ancora in¬  do-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme rivela la sua debolezza.  In virtù dell’ipotesi {ari = «lo straniero», qualunque sia) c del senso  che ne risulta per aryó («l’ospitale»), Aryaman non può essere che il  «dio dell’ospitalità)). È così?   E ancora, sarebbe necessario che negli inni o nei rituali questa  definizione si verificasse sul suo centro, intendo dire, in occasione del  ricevimento di un ospite designato come tale. Ora, non soltanto non vi  è un testo rgvedico che riunisca il nome dell’ospite, àtithi e quello di    127     Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia, Aryaman non è né invo¬  cato né menzionato ritualmente all’arrivo di un visitatore. Non biso¬  gna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia curioso, se il concet¬  to di ospitalità è stato sentito tanto importante da essere personificato  in uno dei due dèi sovrani, e nel più considerevole dopo Varuna e Mi¬  tra, che questa origine non abbia avuto nessuna occasione per espri¬  mersi chiaramente. Mitra, il contratto personificato, è certo come dio  molto più del contratto, ma si trovano dei testi in cui questo legame è  manifestato e sottolineato con delle parole senza ambiguità.   Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo corrispondente avesti-  co Airyaman, intervengono in circostanze che, salvo violenza, sono  irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo due.   Prima di Thieme molti vedisti avevano notato, con delle con¬  clusioni talvolta eccessive o errate, i rapporti tra Aryaman e il matri¬  monio. 1 testi allegati sono abbastanza numerosi". Per piegarli alla sua  tesi, Thieme è stato indotto a far loro subire dei trattamenti poco racco¬  mandabili. In tutto il dossier vedico vi sono dei documenti più chiari e  più netti, altri più oscuri o più indeterminati. Il metodo ordinario è  d’informarsi all’inizio sui primi e con questi chiarificare o precisare in  seguito i secondi. Per il caso di Aryaman si ha, chiara e netta in A V, 1,  60, la formula destinata a procurare un coniuge, la descrizione che fa  di Aryaman la prima strofa:   tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah   asyci icchcinn agruvai pettini utd jàyàm ajànuye   «Ecco arrivare Aryaman con i riccioli sciolti, cercando per  questa fanciulla un marito e una moglie per chi non è sposato».   Non meno esplicito vi è in/l V, XIV, 1, inno rituale del matrimo¬  nio, la strofa 17 che riguarda la giovane donna:   aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam   urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah    11 I lesti sono riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, II 2 ,1927, pp. 74-76,  seguiti da un'interpretazione di Aryaman come «Feier», sicuramente errata. «Noi sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze, il  trovatore dei mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da qui  (= dalla tua casa di ragazza), non da laggiù (= dalla casa coniugale)».   V icino a questi testi ve ne sono altri che riguardano ancora siala  «ricerca della sposa» che diversi episodi precisi del rituale delle noz¬  ze, nei quali Aryaman interviene sempre, ma associato ad altri dèi e di  conseguenza con un ruolo non immediatamente identificabile. Ciò  che in questi casi incerti può orientare l’interpretazione è evidente¬  mente la descrizione e la definizione che su di lui hanno dato i testi  espliciti del dossier: egli cerca da ambedue le parti gli elementi delle  coppie coniugali e fa delle buone alleanze matrimoniali.   Thieme procede all’ inverso cominciando dalla seconda cate¬  goria di documenti. Consacra cinque pagine per citarli in esteso e per  tradurli inserendo tra parentesi, a favore della loro indeterminazione,  la sua concezione di Aryaman («die Gastlichkeit», «der Gott der Ga-  stlichkeit», «der Gott gastlicher Aufnahme») e in seguito, in dieci ri¬  ghe che conclude allusivamente, pretende che ciò che dice sui testi  meno determinati permetta-infine! - di ridurre alla loro «vera» porta¬  ta questi testi la cui precisione lo imbarazza 13 :   «Von hier aus wirdes nun erst mòglich, die Verse A V. 6.60. 1,  14.1.17, Mp. 1.5.7, die H1LLEBRANDTan die Spitze seiner Untersu-  chungdes Verhàltnisses zwischen Aryaman und E he gestellt hat, in ih-  rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen. Als einer der Genien des Hau-  shalts, der auch bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman als  «Gattenfìnder» (A V. 14, 1.17) und Ehevermittler (A V. 6.60.1)  schlechthin in Zauberspriichen genannt, die anscheinend durch die  Erwàhnung eines so vornehmen Gottes, der im R Vin der Gesellschaft  des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt, wirken wollten.»   Al di fuori dello stesso procedimento che consiste nel masche¬  rare ciò che è chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è ten¬  denzioso: questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale  del matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono sicuramente    12 F„ §§ 118-124; S. pp. 73-79.   13 F„ § 124.  adatti a chiarire la funzione del dio che essi mobilitano. Pretendere che  Aryaman non vi figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un « gran  nome» della mitologia, è una spiegazione che generalizzata permette¬  rebbe all’esegeta di sopprimere in ogni maniera le testimonianze im¬  barazzanti. Infine, la definizione di Aryaman come «einer derGenien  des Haushalts», è stata utilizzata, pefitio principii, usando la libertà  fornita dai testi meno determinati. Bisogna aggiungere che alcuni di  questi testi resistono al senso che si vuole loro dare. Quando Aryaman  ad esempio è pregato, ancora in un inno di matrimonio, «di ungere  (forse la novella sposa) fino alla vecchiaia» (o «affinché ella non in¬  vecchi»)' 4 , Thieme, ricordando che «in ogni paese del mezzogiorno» 15  il bagno di ospitalità comporta un’unzione d’olio, traduce intrepida¬  mente: «Mòge Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme) [Dich=  die Braut ] inir der Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht altseist ( =  inJugendschònheitglànzest)». Le giustificazioni di questa traduzione  sono leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale d’ospitalità  e il dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso inattendibile;  come si può mai dire alla giovane sposa: « Che il dio dell 'ospitalità ti  unga con olio affinché tu non abbia l'aria invecchiata »? Viceversa se  si vede in Aryaman il protettore del rapporto che si forma, è naturale  che egli sia pregato di garantire alla sposa lunga vita o vigorosa vec¬  chiaia.   E non è tutto. Thieme assimila costantemente l’ospitalità e il  matrimonio, l’accoglienza che riceve l’ospite e quella che riceve la fi¬  danzata. Ora, le due cose sono differenti: a dispetto del riferimento a  Mrs. Stevenson 16 , l’atto della donna che entra in casa di suo marito per  rimanervi, può identificarsi, nei riti, con l’atto del visitatore che dopo  essere entrato straniero se ne andrà, benché incaricato del dovere di  contraccambiare, ma sempre straniero? L’accoglienza fatta alla futura  madre può forse essere più ospitale, nello spirito e nei riti, delle ceri-   14 RV, X, 85, 43:   a nati prajath janayatu prujàpatir   àjarasàya sùm anaktv aryamù...   Geldner: «Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis zurhohcn Alicr soli nns Arya¬  man verschinelzcn».   15 Nell'India vedica?   16 F., p. 125, n. 1.    130     monie che in seguito legalizzeranno il neonato come membro della  stessa famiglia? Se bisognasse avvicinare ad altre cose questa proce¬  dura sui generis del matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto  all’adozione che all’ospitalità?   Le nostre parole «accoglienza, Aufnahme», creano un’ambi¬  guità che senza dubbio un Indiano, non più di un Romano, non rischia¬  va di sentire vivamente. Io resisto particolarmente all’interpretazione  datadaThiemead AV, 14,1,39-sempre riguardo il rituale nuziale 17 :   aryamnó agnini pàryetu pùsan [var. ksiprdm]   prdtiksante svasuro devaras cu.   «Sie umschreite das Feuer des Aryaman (der Gastlichkeit), o  Pùsan'*, es sehen entgegen Schwàher und Schwager.»   Sono certamente meno ben informato di Thieme sui rituali ve¬  dici: quando un ospite entrava in una casa gli si faceva fare anche que¬  sta circumambulazione del focolare, che trova il suo esatto corrispon¬  dente, come molti altri tratti, nel matrimonio romano (dove ha valore  di rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità romana? Se è così  m ’ inchino. Altrimenti, messa in luce dai testi precisi sul ruolo di Arya-   17 F„ § 122.   18 Piuttosto, secondo la variante «schnell». In S., p. 78, vi è una cantonata nella tra¬  duzione che dopo dieci anni non so ancora se la devo attribuire a un’ inavvertenza  del mio manoscritto o delle mie correzioni delle bozze: ,f vósuro devàsra.ica è reso  con «i suoceri e i cognati» invece de «i7 suocero c i cognati» il plurale della secon¬  da parola avendo determinato meccanicamente, da me o dal tipografo, il plurale  della prima. Questo testoche sotto la protezione di Aryaman f a intervenire dopo la  giovane sposa il padree i fratelli dello sposo, prova che nel matrimonio Aryaman  si interessa a ben di piti che l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è interessata  da questo nuovo membro che le procura un’alleanza con un’altra famiglia (cf.  Aryaman qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello stesso inno). Alla pagina 119  di S. ho commesso una svista più umiliante ma senza conseguenze per i miei pro¬  positi, considerando svasurah di RV, X, 28, 1 come padre della moglie (possibile  nel sanscrito classico ma non nel vedico) emettendo la strofa in bocca al marito. E  l’inverso. La moglie parla e si sorprende che il padre di suo marito non sia venuto  al festino preparalo, mentre vi.ivo... anyó arlh «ogni altro ari, tutto il resto  dell'insieme ari » (e non facendo sparire la parola essenziale «altro», « jederunde-  re, niimlichjeder ari», Thieme) è pervenuto. Il commento che ho fatto di questo  testo, per i rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste interamente a condizione che si  rimpiazzi «genero» con «nuora» (e co.si « prendere moglie» con « prendere mari¬  to » e «ha scelto la jigliadel suocero» con «è stato scelto dai figli del suocero»).  man nel matrimonio, l’espressione «fuoco di Aryaman» per designare  eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si forma il legame mi  sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo ruolo. Sono  queste le principali ragioni per le quali non mi è possibile dedurre il  ruolo di Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione che esige  l’ipotesi di Thieme.   L’Airyaman avestico è invocato ( Yasna 54, 1) per sostenere  «gli uomini e le donne di Zoroaslro» e il Buon Pensiero; è detto dotato  di forza offensiva, distruttore di ogni resistenza, vincitore dei nemici  (ibid. , 2); la preghiera che è invocata dopo di lui è onnipotente e guari¬  trice (Yast III, 5); Aryaman stesso è l’eroe di una scena mitica in cui  questa preoccupazione di guarigione è al primo posto: quando Angra  Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le 99.999 malattie,  il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la «Formula  Efficace»: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina) si av¬  vicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che doveva  divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo 19 .  Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non tenta  la scommessa ma lascia intendere che tutto questo è un’innovazione,  un uso fuori dal dominio di un dio sentito come importante: «Man hai  also von Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der AV von  A/yaman», dice lui facendo allusione alla fine del § 124 che ho cita¬  to 20 Temo che questa sia una maniera troppo rapida per eliminare un  elemento preciso del dossier. La stessa cosa avviene per altri aspetti di  Aryaman e per i suoi rapporti con le strade, ad esempio, strumento  utile di comunicazione sociale 21 : ci si riferisca all’analisi del mio Troi-  sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente per far capire che  Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità. Infatti  nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei matrimo¬  ni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di un  gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche il  matrimonio siano possibili.    19 F. § 126-128; S„ 81-83.   20 V. qui sopra n. 13.   21 S., p. 141-149. Per il trattamento insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F.,  vedi S., p. 137-139.    132     L’Airyaman iranico protegge in una maniera più ampia e fino  alla sanità l’insieme di uomini e donne della «buona società», definita  dopo la riforma zoroastriana solamente in base alla religione e non alla  nazionalità.   Bisogna dunque che il concetto di arya - nel nome di Aryaman  sia altra cosa rispetto a quello detto da Thieme: minore in estensione,  poiché il matrimonio non è possibile con alcun ospite, ma più ricco in  comprensione, poiché oltre all’ospitalità comporta altre forme di lega¬  mi e in special modo l’attitudine a contrarre il matrimonio. Si è così  costretti a introdurre in questo arya-e quindi in ari, un valore di nazio¬  nalità.    II   Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto [in S p.  113-127] (Icariano», collettivamente o genericamente), rende conto  di tutti i derivati e si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi ai quali si  adattava il valore generale («der Fremde, der Fremdling») di Thieme,  rende inoltre conto di un testo che resisteva a quest’ultimo. Il dossier  di ari contiene in effetti almeno un testo che direttamente impone una  traduzione limitata e mi sorprende che Thieme non l’abbia riconside¬  rato nella difesa che mi oppone. Questo è RV, IX, 79, 3:   uta svàsyd ardtyd arir hi sa   utdnydsyd ardtyd vrko hi sah   La costruzione e il senso sono limpidi:   «[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.   [Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo.»   Questi versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti  equivalenti, quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono  di conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita,  ari : vi è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è  proprio, imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, este¬  riore, straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo che merita di essere chiamato lupo poiché il suo comporta¬  mento è selvatico. Così ariè. precisato negativamente come un tipo di  nemico distinto da questo nemico selvaggio ed esterno che è posto al  di fuori del gruppo i cui membri sono degli svà\ positivamente ari è  definito come intemo a questo gruppo. La traduzione e il commentario  fatto da Thieme a questo passaggio devono essere citati per intero 12 :   «/ Schutze] vor eigener, voranderer (i.e. vorjeglicher) arati; sie  (oder: das, was die arati ist) istjaderFremdling (der den Frieden be-  droht), sie istja der Wolf... ».   Ich habe in der Ubersetzung vonab au/Nachahmung der Spre-  izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja sehr wohl nurstili-  stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in Abrede stel-  len, dass wir zu sagen hdtten: «vor eigener arati- sie ist ja ein  Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor an-  derer drdti-sie istja ein Wolf».   La prima interpretazione, quella che l’autore preferisce poiché  sopprime le difficoltà, fa una violenza inammissibile all’ordine e al  rapporto delle parole: mantiene come tale una delle due opposizioni  equivalenti ma sopprime l’altra volgendola in solidarietà; riducear/e  vrka a un’unità (non essendo vrka che un rinforzo del «cattivo» ari) di  cui svà e anyà sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali diritti.   La seconda interpretazione orienta l'opposizione tra svà e anyà  in un senso che non è il suo: svà non si applica a ciò che è presso me  temporalmente e accidentalmente senza essere a me, ma segna un le¬  game permanente ed essenziale con me. In più, questa traduzione sup¬  pone, dalla parte àeW'ari nemico, un comportamento speciale, quello  dell’ospite che una volta ricevuto in casa si comporta male e « minaccia la pace » come dice Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma  questi rischi si realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del  RV vi fa allusione: sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di  una preghiera e che, in questa preghiera, fossero messi sullo stesso    32 P. 27, già II, 1956, p. 109. Se, come io penso, ari ha già il valore etnico («ariano»),  si concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella di¬  rezione «élite», «capo», etc.    134     piano, in contrapposizione, i rischi costanti che fa correre il vrka bar¬  baro e brigante.   Questo testo è dunque decisivo contro il senso troppo esteso di  ari e impone un senso ristretto. Nei suoi Etudes védiques et pàninéen-  nes. III (1957), L. Renou mi sembra abbia ben riassunto l’insegna¬  mento del testo nella formula: «.vrka il nemico straniero, ari il nemico  interno». Questo delimita ari, sia il buono che il cattivo: amico, ospite,  sposabile, correligionario, rivale, nemico, Vari porta alla considera¬  zione di chi lo menziona, la nota svà, che esclude la nota anyà n .   Ili   Mitra and Aryaman è in gran parte un pamphlet contro di me:  fornisco perfino il titolo di un capitolo. Mi limiterò qui ad alcune os¬  servazioni che faranno vedere a quale livello si situa il dibattito.   Prima di entrare nella materia, e per togliere ogni credito ai miei  argomenti, Thieme incomincia a dimostrare, secondo tre punti, che io  commetto molteplici e grossolani errori di grammatica utilizzando gli  inni vedici. Lo credo volentieri, ma vediamo che cosa mi rimprovera   (pp. 12-16):   a) Io tratto dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in cui  si incontra la sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi sovra¬  ni, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a causa di un verbo o un aggettivo  che sono appunto al duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman in  un solo personaggio mitico che chiama «Freund, Gasljreund» (nel  1938) e che ora preferisce chiamare «The contract (God Contract)  which is hospitality (God Hospitality )». È nel riconoscere questo mo¬  stro, di cui non vi sono altre tracce nella letteratura vedica, che mi sono  rifiutato, nel 1949 (S., pp. 42-47). Non ho cambiato parere: è inverosi-    33 Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono altre ragioni) per fare scar¬  tare il paragone etimologico con diana (l'opposto di svà) che è stato portato in ap¬  poggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, «Zur Bedeutung des Ariernamens», KZ,  68, 1941, pp. 42-52. D’altra parte, il fatto che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere  ùryi'ih pùrasyàntarasya lùrusah, «il vincitore dell'un lontano e vicino» dimostra  che lo svà di IX, 79, 3 non deve essere compreso in un senso stretto né senza dub¬  bio locale. Il concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia con¬  dizione: Vari per «un» ariano è sia svà che para.    135     mile che in questi due soli passaggi la triade ceda il posto a una coppia  «Varuna e Varyamàn Mitra» o a «Varuna e il mitra Aryaman».   Uno di questi testi è RV, V, 67, 1: varuna mitrdryaman  vdrsistham ksatrdm àsiithe, «o Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi avete ot¬  tenuto la più alta sovranità». Perché si dice che il verbo è al duale? Il  poeta vuole sottolineare la stretta affinità di Mitra e Aryaman (che è  fondamentale come spesso ho detto) nei confronti di Varuna, di modo  che si debba tradurre «o Varuna, o Mitra e Aryaman»? Non lo so, ma  la soluzione meno accettabile è di fondere in un solo essere Mitra e  Aryaman, poiché la strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente i  tre dèi al nominativo e questa volta con due aggettivi e due verbi che  sono correttamente al plurale. Noto che K. Geldner comprende come  me: «ihr habt die hòchste Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A rya-  man» - i tre vocativi essendo esattamente paralleli, come Thieme mi  rimprovera di avere detto.   L'altro testo è RV, Vili, 26, 11 : vaiyasvdsya srutam narotó me  asya vedathah/sajósasd varuna mitrò aryamd. La prima parte non è  ambigua: «Ascoltate, o voi due eroi (= gli Asvin) [la parola] di Vai-  yasva e conoscete questa [parola] mia». La seconda è meno chiara,  un aggettivo al duale (sajósusà, «in accordo») precede i tre nomi di¬  vini.   Geldner risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a ciò  che segue, ma come attributo a ciò che precede, ai due Asvin: « Horet  aufden Vyasvasohn, ihrHerren, und seid meiner hier ein^edenk, ein-  miitig, (und mit euch) Varuna Mitra Aryaman». Non so se ha ragione o  se si può trovare una giustificazione più sottile, ma come lui penso che  gli dèi dell’ultimo verso, qui come altrove, siano ire.   b) Tratto dei plurali come dei duali. Si tratta di RV, III, 54, 18,  aryamd no dditir yajmydsah, «Aryaman, Aditi [sono] degni (plurale e  non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo sacrificare ad Aryaman, ad  Aditi». Thieme consentirà forse a credere che ho consultato la tradu¬  zione di Geldner: «.Aryaman, Aditi sind uns anbetun^swert», con la  nota corrispondente: « Den Plur. yajnfyàsah, weil der Dichter an die  iibriffen Àditya ’sdenkt». Ma ciò che più m’interessava perii mio argo¬  mento (S., p. 68) è che in questo lesto della «terza funzione» (la fine  della strofa domanda abbondanza di bestiame e di bambini), il gruppo  degli dèi sovrani distacca, in qualche modo come i suoi soli delegati  espliciti, la loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme non ho  preso la precauzione di ripetere in termini di grammatica una precisa¬  zione che ogni vedista conosce. Il mio commento si è limitato a dire:  «Sembrerebbe che ancora qui sia l’iniziativa di Aryaman che orienta  l'azione collettiva degli Àditya verso questa grazia speciale». Non è  abbastanza chiaro?   c) Tratto un singolare come un duale. Si tratta del lapsus segna¬  lato più sopra (n. 18) che, in A V, XIV, 1, 39 (S, p. 78, 1.8 e 11 ) mi ha  fatto scrivere e non mi ha fatto correggere «i suoceri» invece del «suo¬  cero», come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io  abbia pensato ai «due suoceri». Mi reputa così ignorante da poter cre¬  dere che io abbia preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o,  per un nominativo duale? La stessa parola, sotto la stessa forma non è  forse correttamente tradotta la seconda volta che la si incontra (S, v.   1 19)? La spiegazione che mi parrebbe più plausibile è che, essendo  poco leggibile il mio manoscritto, il compositore abbia congetturato i  «suoceri» secondo i «cognati» che seguono immediatamente, o che  meccanicamente abbia messo allo stesso numero queste due parole  così analoghe [pères e frères nel testo. N.d.T.]. Può anche darsi che il  lapsus risalga al mio manoscritto. Mi dispiace molto ad ogni modo che  nella sovrabbondanza di correzioni che ho dovuto fare sulle bozze  quello mi sia scappato e che l’errore mi sia saltato agli occhi solamente  qualche mese dopo la pubblicazione. È in maniera sleale che Thieme  orchestra questo scandalo in due pagine e anche il mio errore su  svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito. Nondimeno  Thieme dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio argomento  la menzione del suocero e dei cognati (della moglie) in A V, XIV, 1,39  e quella del suocero {della moglie) opposti al «resto dell’ari» in X, 28,   1 conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è stato mostrato  qui sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel matrimo¬  nio, non si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti per  l’alleanza che la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa ammessa  da Thieme nel 1957; Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si com¬  piono all’interno dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida «all’in¬  terpretazione errata!» per mascherare il gioco di prestigio altrimenti  grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi che stabilisco-    137     no il vero ruolo di Aryaman nel matrimonio (vedi sopra 1 )'. Il libro è in  seguito infiorito di notae censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste  ed utili e ne terrò conto, senza che nessuna cambi niente alle figure e ai  rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna dirlo, un puro bluff poiché  Thieme denuncia come antigrammaticale, errata o sprovvista di sen¬  so, una traduzione possibile ma che non ha il suo favore 2 , caricaturan¬  do le mie esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni peravere un  motivo di risentimento in più 4 , etc. etc.    1 L’obiettivo di questo triplo assalto grammaticale si scopre a pagina 17: «IJ'eel il  my duty to warn especially Lutinists, who cannai be expecled lo judge on thè me¬  riti of Dumez.il' s indological araumenti, agama trusting hispresentation oflhe  Jacts oJ'Vedic religion loo confidently, andagainst believing ihal only his "expla-  naiions" need be discussed». Non ho questa pretesa. Domando solo senza grandi  speranze che latinisti o indologi, di St. Andrews o di Yale, che vogliano discuter¬  mi lo facciano lealmente.   2 P.es.,pp. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV, X, 89,9; ctc. p. 67, in  RV VII, 82, 5, Thieme rende correttamente duvasyatil Ha sicuramente ragione,  ad ogni modo, a rimproverarmi la riga di S., p. 40 («Mitra offre dei sacrifici a Va¬  nirla), in cui ho esagerato la frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La religion  védique, III, p. 138: «In un passaggio in cui né Mitra né Varuna sono del resto  esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al secondo come il sacer¬  dote al dio che onora»): duvasyati significa sempl icementc «rendere gli onori do¬  vuti»; bisogna correggere in que.slo senso Les dieux des Indoeuropéens, p. 42,  1.27: in RV, VII, 82, 5, Mitra non è come un sacerdote di Varuna.   3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che ho detto dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra-  Varuna', 1948, pp. 79-83, non è compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho  semplicemente utilizzato i progressi che, dal suo articolo del 1907, i sociologi  hanno fatto compiere alla teoria del contratto presso i popoli semi-civilizzati. Allo  stesso modo, p. 82, la mia concezione dei rapporti tra i diversi dèi sovrani si è de¬  formata: che si confronti il capitolo II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia  dei nomi divini (Varuna, Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo  quando è evidente (Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses latineset  mythes védiques, 1956, p. 117): qualunque sia quella di Varuna (e non credo mol¬  to a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente, l’insieme  del suo comportamento e il suo rapporto con le altre figure divine: un dio non c  prigioniero del suo nome.   4 P. es., p. 74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e 136,  a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà facilmente che essa non  esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo così futilmente in contraddizione.  P. 86, n. 60, sono accusato per due parole di «mislranslations, wich might have  been avoided by looking up thè PW or any other good dictionary » ; Thieme vorrà  rifarsi a A.B. Keith, HOS XVIII, p. 167-168, di cui ho adottato la traduzione (e vi  sono ragioni per preferire questa interpretazione a quella di Thieme). P. 9; Thieme non tiene conto della differenza d’intenzione tra  Mitra-Varuna e Le Troisième Souverain. A dispetto del suo titolo in¬  diano il primo libro non tratta un soggetto indiano 1 ; si propone di di¬  mostrare che presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e fra i Germa¬  ni in special modo, esistevano delle coppie di dèi o di eroi della prima  funzione la cui articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne ha  scoperto per Mitra e Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano con  una campionatura abbondante. Non avevo dunqueintenzione di stabi¬  lire «gli insegnamenti degli inni stessi» e dei Bràhmana - che altri  (dopo Bergaigne e H. Glintert) avevano sufficientemente stabilito. In  Le Troisième Souverain, al contrario, con Aryaman abbordavo un pro¬  blema specificatamente indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovu¬  to riprendere tutti i testi, discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da  scrivere sul mio libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di  essere e di rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei  soggetti, a dei bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della  materia hanno corrisposto dei procedimenti differenti.   Quanto alle tesi stesse di Thieme, le esaminerò nella Revue de  l'Histoire des Religions e mi sforzerò di rispondere con un’argomen¬  tazione serena a questa scherma da gladiatore. Enumererò gli apporti  positivi poiché ve ne sono. E dimostrerò come sotto le apparenze del  rigore filologico Thieme misconosca costantemente le prospettive,  ignori i dati statistici più evidenti e distrugga i rapporti più probabili e  sulla via così sgombra si avanzi con una sovrana fantasia verso le pagi¬  ne sorprendenti che terminano il suo libro.   In attesa, a coloro che sarebbero impressionati da questo mec¬  canismo, non posso che consigliare di rileggere, circa i grandi Àditya,  l’ammirevole esposizione di Abel Bergaigne, certamente vecchia su  molti punti, ma attenta sia al dettaglio dei testi che alle strutture del  pensiero, onesta e intelligente.    I J.C. Tavadia si era inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più leale riparazione.   L’editoria italiana ha accolto con favori e fortune alterne l’opera di un  autore tanto discusso, controverso e innovativo, quale fu Georges Dumézil,  persona acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non di rado pungente  ma sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano che l’inchiesta  scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre che ai colleghi che  accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore nostrano troverà di piacevo¬  le lettura la traduzione della intervista francese: Un banchetto dì immortalità.  Conversazioni con Didier Eribon , Guanda, Milano 1992.   Spetta alle Einaudi l’esordio di Georges Dumézil nel panorama edito¬  riale del nostro dopoguerra, all’intemo di quella “collana viola” che non sen¬  za travaglio di intelletti e di coscienze (si legga il carteggio C. Pavese - E. de  Martino, La collana viola. Lettere Bollati Boringhieri, Torino a c. di P. Angelini) ha contribuito a diffondere autori importanti come  C.G. Jung, K. Kerény,L. Frobenius, G. van derLeeuw, M. Eliade. Il libro Ju-  piter, Mars, Quirinus, Torino 1955, è una traduzione di parti dell’originale,  più capitoli di altri volumi come Naissance de Rome, Naissance  d'Archanges, e Jupiter, Mars, Quirinus IV, 1948. Il catalogo della Ei¬  naudi ritornerà solo tardivamente, nel decennio degli ’80, a rioccuparsi di  Dumézil, traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata, 1982 (= Mythe et  epopee f) e Gli dei sovrani degli Indoeuropei, 1986.   Spetta alla Adelphi (Milano) la maggiore percentuale di libri tradotti,  a cominciare dalla raccolta di storie e leggende del Caucaso: // libro degli  Eroi. Leggende sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili economici della  Bompiani, Milano 1976), fino a Gli dèi dei Germani, 1974; Matrimoni Indo¬  europei, 1984; Le sortì del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso  gli Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di questo libro, condotta sulla  precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier, 1969, si deve ai tipi della  Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura del guerriero,Tonno 1974). E infi¬  ne bisogna ricordare anche «...Il monaco nero in grigio dentro Varennes»,    141     1987 che è però un divertissement enigmistico-letterario sulle profezie di  Nostradamus.   Il catalogo della Rizzoli (Milano) si è arricchito di due opere importanti e poderose, oggi purtroppo introvabili, come La religione romana arca¬  ica, 1977 eStorie degli Sciti, 1980; mentre II Melangolo (Genova) ha tradotto  due volumi quali Idee romane, 1987 e Feste romane, 1989. Recentemente le  edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto La saga di Hadingus. Dal mito  al romanzo. Fra le poche opere italiane su questo autore ricordiamo Rivière,   Dumézil egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per una bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil  cf. la rivista Futuro presente 2/1993 diretta da Alessandro Campi (numero  monografico “Georges Dumézil e l’eredità indo-europea”): oltre a un dibatti¬  to su Dumézil in base alle aree storico-geografiche consuete nella sua ricerca  (Roma, Indo-Iranici, Caucaso, Germani), vi è un interessante articolo di Grisward sulle persistenze del modello trifunzionale nella società medioeva¬  le - suddivisione in oratores, bellatores, laboralores - e la traduzione di un ar¬  ticolo di Dumézil in risposta alle critiche di una versione francese di un saggio di Ginzburg (“Mitologia germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni  Storici, ristampato in Id., Miti, emblemi, spie, Einaudi,  Torino) su un argomento, le presunte simpatie per la cultura nazista, già  affrontato da A. Momigliano, Rivista storica italiana. Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi indoeuropei cf.  A. Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni  di Ava/lon e “Indoeuropeistica e cultura europea”, in  L 'Europa di fronte all'Occidente, Il Cerchio, Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni sociali, religiose, economi¬  che, amministrative, giuridiche, delle diverse culture parlanti idiomi indoeu¬  ropei, cf. E. Benveniste, // vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I-II, Ei¬  naudi, Torino 1979 (e più edizioni); si veda anche E. Campanile, “Antichità  indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue indoeu¬  ropee, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 19-43 e J. Ries (a c. di), L 'uomo indoeu¬  ropeo e il sacro, Jaca Book-Massimo, Milano 1991.   Un argomento dibattuto da decenni come la nozione di “lingua poe¬  tica indoeuropea” (che consente di rintracciare nelle diverse letterature -  Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda, Avesta - elementi di una fraseologia co¬  mune ed ereditaria) è stato di recente affrontato in un libro eccellente di G.  Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea, Leo Olschki, Firenze. Ries   La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo  L’opera magistrale di  Dumézil. Le tre funzioni sociali e cosmiche. Le teologie tripartite.  Le diverse funzioni nella teologia, nella mitologia  e nell 'epopea   Storia degli Studi. Aryaman e Paul Thieme  Bibliografia italiana di Dumézil. Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords: sul conferimento di valore,  il guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica.; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Catalfamo: all’isola -- l’implicatura conversazionale e la metafisica della libertà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’! Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della corrente del "personalismo storico o critico".  Si laurea in Pedagogia e in Scienze Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di Pedagogia all'Messina.  Il suo pensiero si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi", fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico, concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue fenomenologie", " il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come «storico»; la persona assume una significanza fenomenologica di unità... in costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e stimolazione di questa verso quella e della trasformazione della realtà oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto agente impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è una realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel mondo".  Catalfamo è stato fondatore e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta; fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche". Prorettore dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. La Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato intitolato un Istituto Comprensivo.  Altre opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia, "Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio, Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa, Messina Personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia contemporanea e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente, Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione co Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento (in collaborazione con Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS, Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella, Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento, Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Di qui ap-  punto si può anticipatamente scorgere, che le dif-  ficoltà più profonde incluse nel concetto di liberta,  si potranno risolvere coll’ idealismo in sè preso,  tanto poco quanto con qualunque altro sistema  parziale. L’ idealismo invero porge, della libertà,  da un lato il concetto più generale, dall’altro  quello meramente formale. Ma il concetto reale ’e  vivente è, che essa consista in una facoltà del  bene e del male.   Questo è il punto della difficoltà più grave, che,  in tutta la dottrina della libertà, è stata da lungo  tempo avvertita, e che tocca, non solo questo o  quel sistema, bensì, più o meno, tutti 1 : nel modo  più spiccato di cerio il concetto dell’immanenza;  poiché, o si ammette un male reale, e allora è  inevitabile collocare il male nell’ infinita sostanza o  nell’ originario volere stesso, con che si distrugge  interamente il concetto di un essere perfettissimo;  o bisogna negare in qualche maniera la realtà del  male, e con ciò svanisce insieme il concetto reale  di libertà. Non minore è l’intoppo, anche se inten-  diamo nel modo più esteso la relazione tra Dio e  gli esseri mondani; poiché, dato pure che essa  venga limitata al cosiddetto concursus, o a quella  necessaria cooperazione di Dio all’ agire delle crea-  ture, che dev’ esser accettata grazie alla essenziale  dipendenza loro da Dio, anche se vuoisi del resto  affermare la libertà: in tal caso però Dio apparirà  innegabilmente come cooperatore del male, giac-  ché il permetterlo in un essere in tutto e per tutto  dipendente non vai meglio che il contribuire a  produrlo; o anche qui, in un modo o nell’altro,  dovrà esser negata la realtà del male. La propo-  sizione, che tutto il positivo della creatura venga  da Dio, anche in questo sistema dev’essere affer-  mata. Ora, se si ammette che nel male vi sia al- Schlegel ha il merito di aver fatto valere  questa difficoltà specialmente contro il panteismo nel suo  scritto sugl’ Indiani e in parecchi luoghi; ma è a deplorare  soltanto che quest’ acuto erudito non abbia creduto oppor-  tuno comunicare la sua propria veduta sull’ origine del  male c sul suo rapporto col bene. cunchè di positivo, anche questo positivo deriverà  da Dio. Qui si potrà opporre: il positivo del male,  in quanto positivo, è bene. Con ciò il male non  viene a sparire, benché non venga neppure spie-  gato Infatti, se ciò che nel male sussiste' è bene,  donde mai nasce ciò, in cui questo sussistente è,  la base, che forma propriamente il male? Tutta  diversa da quest’affermazione (sebbene spesso,  anche di recente, confusa con la prima) è 1’ altra,  che nel male, in ogni caso, non vi sia nulla di  positivo, o, per usare un’espressione diversa, che  esso non esista affatto ( neppure con e in un altro  elemento positivo), ma che tutte le azioni siano  più o meno positive, e che la differenza tra loro  consista in un semplice plus o minus di perfezione,  con che non si stabilisce alcuna opposizione, e  però il male svanisce interamente. Sarebbe questa  la seconda possibile ipotesi in rapporto alla propo-  sizione, che tutto il positivo scaturisca da Dio.  Allora la forza, che si mostra nel male, sarebbe  sì, al paragone, più imperfetta di quella che appare  nel bene, ma, considerata in sé, o fuori del para-  gone, sarebbe una perfezione pur sempre, la quale  dunque, come ogni altra, dev’ esser derivata da  Dio. Ciò che noi in tal caso chiamiamo un male,  è solo il minor grado di perfezione, il quale però  solo per il nostro bisogno di comparazione appare  come difetto, mentre nella natura non è punto. Che  questa sia la vera opinione di Spinoza, non è  possibile negare. Qualcuno potrebbe tentare di  sfuggire a quel dilemma, rispondendo: che il  positivo derivante da Dio sarebbe la libertà, la  quale è in se stessa indifferente verso il male e  il bene. Ma, se egli concepisce questa indifferenza,  non in modo puramente negativo, bensì come una    1 Nel testo: « Seietide. »    vivente e positiva facoltà di determinarsi al bene  e al male, non si vede come da Dio, che vien  considerato come pura bontà, possa mai seguire  una facoltà di eleggere il male. È evidente da ciò,  per dirla di passaggio, che, se la libertà è real-  mente quel che in conformità di questo concetto  deve essere (ed è immancabilmente), non si può  essa giustificare con la già tentata derivazione  della libertà da Dio; poiché, se la libertà è un  potere di far il male, essa dovrà avere una radice  indipendente da Dio. Così incalzati, si può esser  tentati di gettarsi in braccio al dualismo. Ma questo  sistema, se dev’ esser concepito effettivamente come  la dottrina di due principii opposti e tra loro indi-  pendenti, non è se non un sistema del suicidio e  dello sconforto della ragione. Se poi il principio  cattivo è pensato come dipendente in un certo  senso dal buono, tutta la difficoltà della deriva-  zione del male dal bene è certo concentrata in  un solo essere, ma viene così ad essere accresciuta  anziché diminuita. Anche supponendo che questo  secondo essere fu dapprincipio creato buono e per  propria colpa si staccò dall'essere originario, resta  sempre inesplicabile in tutti i sistemi, che si son  avuti finora, la prima facoltà di un atto di ribel-  lione a Dio. Perciò, anche se noi finiamo col  sopprimere, non solamente l’identità, ma ogni le-  game degli esseri mondani con Dio, considerando  la loro esistenza attuale e quella del mondo con  essa come un allontanamento da Dio, la diffi-  coltà è solo spostata di un punto, ma non tolta.  Infatti, per potere scaturire da Dio, essi dovevano  già esistere in un certo modo, e non si potrebbe  menomamente opporre al panteismo la dottrina  dell’emanazione, presupponendo essa un’originaria  esistenza delle cose in Dio e quindi naturalmente  il panteismo. A spiegare quell’ allontanamento, si  potrebbe solo addurre quanto segue. O esso è    involontario da parte delle cose, ma non da parte  di Dio: e allora, siccome esse da Dio furono get-  tate nello stato d’ infelicità e di malizia, Dio è  1’ autore di un tale stato. O è involontario da ambe  le parti, cagionato forse da esuberanza dell’ essere,  come alcuni affermano: rappresentazione insoste-  nibile affatto. O è volontario da parte delle cose,  uno svellersi da Dio, dunque la conseguenza di  una colpa, alla quale segue una sempre pivi pro-  fonda caduta: e allora questa prima colpa è già  per se stessa il male, e non dà alcuna spiega-  zione dell’ origine di esso. Senza un tale espe-  diente poi, che, se spiega il male nel mondo,  estingue viceversa, e interamente, il bene, e invece  del panteismo introduce un pandenionismo, sva-  nisce precisamente nel sistema dell’ emanazione  ogni proprio contrasto di bene e male; il Primo,  si perde per infiniti gradi intermedii, mediante un  graduale attenuarsi, in ciò che non ha più alcuna  parvenza di bene, suppergiù allo stesso modo in  cui Plotino, 1 con sottigliezza bensì, ma senza  lasciar appagati, descrive il transito del bene ori-  ginario nella materia e nel male. Invero, da un  costante processo di subordinazione e di allonta-  namento, vien fuori un Ultimo, di là dal quale il  divenire è impossibile, e questo appunto (ciò che  è incapace di produrre ulteriormente) è il male.  Ovvero: se qualche cosa è dopo il Primo, dev’ es-  serci anche un Ultimo, che del Primo non ha più  nulla in sè, e questo è la materia e la necessità  del male.   Dopo tali considerazioni, non sembra giusto  rovesciare tutto il peso di questa difficoltà su di  un solo sistema, specialmente se ciò che di più  alto si pretende di opporgli, è così poco soddi-    1 Ennead. I. L. Vili, c. 8.    sfacente. Anche le generalità dell’ idealismo non  ci possono dare qui alcun aiuto. Con dei concetti  lambiccati di Dio, come /’ actus purissimùs, del  genere di quelli che stabiliva la filosofia antica, o  di quelli, che la moderna cava fuori pur sempre,  con la preoccupazione di tenere Dio a gran di-  stanza dall’ intiera natura, non si riesce a nulla  di nulla. Dio è qualcosa di più reale che un sem-  plice ordinamento morale del cosmo, ed ha in sè  ben altre e ben più vive forze motrici di quelle  che P arida sottigliezza degl’ idealisti astratti gli  attribuisce. L’orrore per ogni realtà, quasi che lo  spirituale possa contaminarsi in ogni contatto con  essa, deve naturalmente produrre anche la cecità  per l’origine del male. L’idealismo, se non ha per  base un realismo vivente, diviene un sistema altret-  tanto vuoto e lambiccato, quanto il leibniziano, lo  spinoziano, o qualunque altro sistema dogmatico.  Tutta la nuova filosofia europea dal suo principio  (con Descartes) ha questo comune difetto, che la  natura non esiste per essa, e che le manca un  vivo fondamento. Il realismo dello Spinoza è per-  tanto così astratto, come l’idealismo del Leibniz.  L’idealismo è l’anima della filosofia; il realismo  n’ è il corpo; solo tutti e due insieme fanno un  tutto vivente. Il secondo non può mai offrire il  principio, ma bisogna che sia la base ed il mezzo,  in cui quello si realizza, prendendo carne esangue.  Se ad una filosofia manca questo fondamento vivo,  il che d’ ordinario è segno che anche il principio  idea'e aveva originariamente in essa una debole  efficacia: essa verrà a perdersi in quei sistemi, i  cui distillati concetti di aseità, modificazioni ecc.  stanno nel più acuto contrasto con la forza vitale  e la pienezza della realtà. Dove poi il principio  ideale è fornito davvero e in alta misura di forza  operativa, ma non può trovare una base di conci-  liazione e di mediazione, produrrà un torbido e selvaggio entusiasmo, che finirà nella macerazione  di se stessi, o, come accadeva ai sacerdoti della  dea Frigia, nell’ evirazione, la quale in filosofia si  compie abbandonando la ragione e la scienza.   È parso necessario incominciare questo trattato  con la giustificazione di concetti essenziali, che  da lungo tempo, ma in particolare ultimamente,  sono stati ingarbugliati. Le osservazioni fatte si-  nora debbono perciò considerarsi come semplice  introduzione alla nostra indagine vera e propria.  Noi l’abbiamo già dichiarato: solo con i prin-  cipii d: una vera filosofia della natura si può  svolgere quella veduta, che dà completa soddisfa  zione al tema che ci proponiamo. Noi non ne-  ghiamo perciò che una tale esatta veduta sia stata  già da lungo tempo anticipata da alcuni intelletti.  Ma erano anch’ essi appunto quelli, che senza te-  mere gli epiteti ingiuriosi di materialismo, pantei-  smo ecc., usuali da un pezzo contro ogni filosofia  realistica, cercavano il principio vivente della na-  tura, e, in contrapposto ai dogmatici ed agl’idea-  listi astratti, che li respingevano come mistici,  erano filosofi naturali (nell’ uno e nell’altro senso).   La filosofia naturale dei nostri tempi ha per la pri-  ma volta introdotta nella scienza la distinzione tra  l’essere, in quanto esiste, e l’essere, in quanto  è semplice fondamento di esistenza. Tale distin-  zione è vecchia quanto la prima esposizione scien-  tifica di essa. 1 Nonostante che proprio in questo  punto essa diverga nel modo più reciso dalla via  di Spinoza, pure in Oermania si è poiuto fin adesso  affermare che i suoi principii metafisici siano tut-  t’uno con quelli di Spinoza; e sebbene quella distin-  zione appunto porti nello stesso tempo la più recisa    1 Si veda nella Zeitschrift tur spekul. Physik Bd. II,  Heft 2, § 54 nota, [IV, S. 146], inoltre nota 1 al § 93 e la  spiegaz. a p. 114 [S. 203).  distinzione della natura da Dio, ciò non ha im-  pedito che la si accusasse di confondere Dio con  la natura. Poiché sulla medesima distinzione si  fonda la presente ricerca, sia detto quanto segue  a fine d’ illustrarla.   Non esistendo nulla prima o fuori di Dio, con-  viene che egli abbia in se stesso il fondamento della  sua esistenza. Cosi dicono tutti i filosofi; ma  essi parlano di questo fondamento come di un  puro concetto, senza farne alcunché di reale e di  effettivo. Questo fondamento della sua esistenza,  che Dio ha in sé, non è Dio assolutamente con-  siderato, cioè in quanto esiste; poiché esso non  è se non il fondamento della sua esistenza, esso  è la natura in Dio; un essere inseparabile, è  vero, ma pur distinto da lui. Questo rapporto si  può chiarire analogicamente con quello tra la  forza di gravità e la luce nella natura. La forza  di gravità precede la luce, come suo eternamente  oscuro fondamento, il quale per se stesso non è  actu e si dilegua nella notte, mentre la luce  (l’esistente) sorge. 11 suggello, sotto cui essa è  chiusa, non è sciolto interamente neppur dalla  luce. ' Appunto perciò essa non è nè l’ essenza  pura nè l’essere attuale dell’ assoluta identità, ma  non fa se non seguire dalla sua natura;* * o essa  è, considerata in altri termini nella potenza deter-  minata: poiché del resto, anche ciò, che relati-  vamente alla forza di gravità appare come esistente,  in se stesso poi appartiene al fondamento, e la  natura in genere è pertanto ciò che rimane di là  dall’essere assoluto dall’identità assoluta. 3 Per  quanto del resto concerne quella precedenza, essa  non è a concepirsi nè come precedenza di tempo,  nè come priorità di essenza. Nel circolo, da cui  ogni cosa deriva, non v’ è alcuna contradizione  ad ammettere che ciò, da cui 1’ Uno è prodotto,  sia alla sua volta prodotto da esso. Non v'è qui  un primo ed un ultimo, perchè tutto si presuppone  a vicenda, nessuna cosa è 1’ altra e tuttavia non è  senza l’altra. Dio ha in sè un intimo fondamento  della sua esistenza, che in questo senso precede  lui come esistente; ma Dio a sua volta è del pari il  Prius del fondamento, giacché questo, anche come  tale, non potrebbe essere, se Dio non esistesse actu.   Alla medesima distinzione porta la riflessione  scaturiente dalle cose. Primieramente è da lasciare  affatto in disparte il concetto dell’ immanenza, in  quanto esprima per avventura una morta compren-  sione delle cose in Dio. Noi riconosciamo piut-  tosto, che il concetto del divenire sia l’unico ap-  propriato alla natura delle cose. Ma queste non  possono divenire in Dio, assolutamente conside-  rato, mentre sono tato genere , o per parlare più  giusto, infinitamente diverse da lui. Per essere  staccate da Dio, occorre che divengano in una  base differente da lui. Ma nulla potendo essere  fuori di Dio, la contradizione si scioglie solo am-  mettendo, che le cose abbiano la loro base in ciò  che in Dio non è Egli stesso ', ovvero in ciò che  è base della sua esistenza.   Se vogliamo accostare maggiormente quest’ es-  sere all’ intelletto umano, possiamo dire : che egli  sia il desiderio, che sente l’Eterno Uno, di generare    1 È questo l’unico vero dualismo, cioè quello che nello  stesso tempo concede un’unità. Più su era in questione il  dualismo modificato, secondo cui il principio malvagio è, non  coordinato, ma subordinato al buono. C’e appena datemere  che qualcuno confonda il rapporto stabilito qui con quel  dualismo, in cui il subordinato è sempre un principio es-  senzialmente cattivo, e appunto perciò rimane totalmente  incomprensibile nella sua origine da Dio.  se stesso. Non è l’Uno stesso, ma pure è coeterno  con lui. Vuol generare Dio, cioè l’impenetrabile  unità, ma in questo senso non è in se stess’o an  cora V unità. È dunque, considerato per sè, anche  volere; ma volere in cui non c’è intelligenza, e però  anche, non autonomo e perfetto volere, perchè l’in-  telletto propriamente è il volere nel volere. Tuttavia  esso è un volere che si dirige all’ intelletto, cioè  desiderio e brama di esso; non un conscio, ma  un presago volere, il cui presagio è l’intelletto.  Noi parliamo dell’essenza del desiderio in sè e  per sè considerata, che dev’essere ben tenuta  d’occhio quantunque sia stata da gran tempo sop-  piantata dal principio superiore, che si è elevato  da essa, e quantunque non possiamo afferrarla  sensibilmente, ma solo con lo spirito e col pen-  siero. Secondo l’eterno atto dell' auto- rivelazione,  tutto invero nel mondo, come lo scorgiamo adesso,  è regola, ordine e forma; ma nel fondo c’è pur  sempre l’irregolare, come se una volta dovesse  ricomparire alla luce, e non sembra mai che l’ or-  dine e la forma siano l’originario, ma che qual-  cosa di originariamente irregolare sia stata solle-  vata ad ordine. Questo è nelle cose l’inafferrabile  base della realtà, il residuo non mai appariscente,  ciò, che, per quanti sforzi si facciano, non si può  risolvere in elemento intellettuale, ma resta nel  fondo eternamente. Da questo Irrazionale è,- nel  senso proprio, nato l’ intelletto. Senza il precedere  di questa oscurità, non v’è alcuna realtà della  creatura; la tenebra è il suo retaggio necessario.  Dio solo — egli medesimo l’Esistente — abita  nella pura luce, poiché egli solo è da se stesso.  La presunzione dell’ uomo si ribella assolutamente  a quest’origine, e anzi va in cerca di principi!  morali. Tuttavia non sapremmo che cos'altro po-  tesse maggiormente spinger l’ uomo a tendere con  tutte le sue forze verso la luce, che la coscienza  della profonda notte, da cui egli è stato tratto al-  l’esistenza. I lamenti feminei, che in tal modo si  ponga F inintelligente come radice dell’intelletto, la  notte come principio della luce, si fondano in  parte su di un’equivoca interpretazione della cosa  (in quanto non si capisce, come con questa ve-  duta la priorità dell’intelletto e dell’essenza secon-  do il concetto possa tuttavia sussistere); ma essi  esprimono il vero sistema degli odierni filosofi,  che volentieri produrrebbero fumum ex fulgore, al  che non basta la potentissima precipitazione fich-  tiana. Ogni nascita è nascita dall’ oscurità alla  luce; il seme dev’essere profondato nella terra e  morire nelle tenebre, affinchè la bella e luminosa  forma vegetale si aderga e si spieghi ai raggi del  sole. L’uomo vien formato nel corpo della madre;  e dal buio dell’irrazionale (dal sentimento, dalla  brama , 1 splendida madre della conoscenza) germo-  gliano i luminosi pensieri. Noi pertanto dobbia-  mo rappresentarci la brama originaria, come diri-  gentesi verso l’intelletto, che essa non ancora  conosce, così come noi nell’aspirazione aneliamo  ad un bene ignoto e senza nome, e agitantesi pre-  saga, come un mare che ondeggia e ribolle, simile  alla materia di Platone, secondo una legge oscura  ed incerta, senza la capacità di formare qualcosa  che duri. Ma, rispondendo alla brama, che, quale  fondamento ancora oscuro, è il primo segno di  vita dell’essere divino, si genera in Dio stesso  un’ intima riflessiva rappresentazione, mercè la  quale, poiché non può avere altro oggetto che  Dio, Dio contempla in una immagine se stesso.  Tale rappresentazione è la prima forma in cui si  realizza Dio, assolutamente considerato, benché  solo in lui stesso ; è in Dio inizialmente, ed è Dio    1 Nel testo: « Sehnsucht ». stesso generato in Dio. Tale rappresentazione è  ad un tempo l’ intelletto — il verbo di quell’ aspi-,  razione,* e l’eterno spirito, che sente in ih il  verbo e insieme l’infinita aspirazione, mosso dal-  l’amore, che è egli medesimo, esprime il verbo,  che oramai, accoppiandosi l’intelletto all’aspira-  zione, diviene volontà liberamente creativa e onni-  potente, e nella natura, dapprincipio sregolata, pro-  duce come in un suo elemento o strumento. 11  primo effetto dell’ intelligenza in essa è la separa-  zione delle forze, potendo egli solo così dispie-  gare l’unità che vi è contenuta inconsciamente,  quasi in un seme, eppur necessariamente, a quel  modo stesso che nell’ uomo la luce s’ insinua nel-  l’oscuro desiderio di cercare qualcosa, per il fatto,  che nel caotico tumulto dei pensieri, che tutti  s’intrecciano, ma ognuno impedisce all’altro di sor-  gere, i pensieri si scindono e sorge l’unità, che è  nascosta nel fondo e che tutti li comprende sotto di  sè; o come nella pianta, solo nel rapporto del di-  spiegarsi e propagarsi delle forze, si scioglie l’o-  scuro vincolo della gravità e viene a svilupparsi  l’unità nascosta nella materia distinta. Poiché in-  vero quest’essere (della natura primordiale) non  è altro che l’eterno fondamento dell’esistenza di  Dio, perciò deve contenere in se stesso, benché  chiara, l’essenza di Dio, quasi un lume di vita  risplendente nell’oscurità. II desiderio poi, eccitato  dall’ intelligenza, tende ormai a conservare quel  lume di vita che ha accolto in sè, e a rinchiudersi  in se stesso, per rimanere pur sempre come fon-  damento. Quando perciò l’intelletto, o il lume  posto nella natura primordiale, spinge alla sepa-  razione delle forze (all’abbandono dell’oscurità) il  desiderio che si ritira in se stesso, facendo sor-    1 Nel senso in cui si dice: la parola dell’enigma.    gere, appunto in questa separazione, l’unità in-  clusa nel distinto, il nascosto lume di vita, nasce  in tal modo per la prima volta alcunché di com-  prensibile o di singolo, e in verità, non per via  di rappresentazione esterna, bensì di vera imma-  ginazione , ' poiché quel che sorge nella natura è  figurato di dentro; o, più esattamente ancora, per  via di un risveglio, in quanto che l’intelletto fa  sorgere l’unità o l’idea occultata nel fondamen-  tale distinto . 1 2 Le forze separate (ma non comple-  tamente staccate) in tale distinzione son la materia,  onde poi è configurato il corpo; invece il legame  vivente che nasce nella distinzione, e però dall’imo  fondo naturale, come centro delle forze, è l’ani-  ma. Siccome l’intelletto originario trae l’anima,  come elemento interiore, da un fondo indipen-  den e da esso, rimane perciò anch’essa indipen-  dente, come un’essenza speciale e sussistente di  per sé.   È facile vedere, che nella resistenza del desi-  derio, necessaria alla perfetta nascita, il legame  strettissimo delle forze si scioglie in uno svolgi-  mento che avviene per gradi e, ad ogni grado  della separazione delle forze, sorge dalla natura un  nuovo essere, la cui anima sarà tanto più perfet-  ta, quanto più contiene distinto ciò, che negli  altri è ancora indistinto. Mostrare come ogni suc-  cessivo processo venga ad avvicinarsi sempre  più all’essenza della natura, finché nella massima  separazione delle forze si schiude il più intimo  centro, è ufficio di una perfetta filosofia della  natura. Per lo scopo presente è essenziale quanto  segue. Ognuno degli esseri, sorti nella natura    1 Nel testo ; Ein-Bildilng, onde un gioco di parole intra-  ducibile nella nostra lingua. Alla lettera; « nel fondamento distinto »; in dcm geschie-  denen Grande. (N. d. T).  secondo la maniera indicata, ha in sè un doppio  principio, che è uno e identico in fondo, ma si-  può considerare sotto due aspetti. Il primo prin-  cipio è quello, per cui essi son distinti da Dio,  o per cui sono nel solo fondamento; ma, siccome  tra ciò, che è esemplato nel fondamento, e ciò,  che è esemplato nell’intelletto, ha pur luogo una  originaria unità, e il processo della creazione tende  solo a trasmutare internamente o a rischiarare  nella luce il principio originariamente oscuro  (perchè l’intelletto, o la luce introdotta nella na-  tura, cerca in fondo propriamente la luce affine,  rivolta a loro): così il principio tenebroso per sua  natura è appunto quello, che è insieme rischia-  rato nella luce, ed entrambi, sebbene in determi-  nato grado, son uno in ogni essere naturale. Il  principio, in quanto nasce dal fondo ed è oscuro,  è il volere individuale della creatura, il quale però,  in quanto non è ancora assurto (non comprende)  a perfetta unità con la luce (come principio del-  l’intelletto), è mera passione o brama, ossia vo-  lere cieco. A questo volere individuale della crea-  tura si contrappone l’intelletto come volere univer-  sale, che si serve del primo, subordinandolo a  sè come semplice strumento. Se infine, proce-  dendo la trasformazione e separazione di tutte le  forze, è messo in piena luce il punto più interno  e profondo della primordiale oscurità in un es-  sere, allora il volere di quest’essere è bensì, in  quanto esso è un individuo, egualmente un vo-  lere particolare, ma in sè, o come centro di tutti  gli altri voleri particolari, è uno col volere origi-  nario o coll’intelletto, cosicché di entrambi si fa  ora un unico insieme. Quest’elevazione del più  profondo centro alla luce non accade in nes-  suna delle creature a noi visibili fuorché nel-  l’uomo. Nell’uomo è tutta la potenza del principio  tenebroso e ad un tempo tutta la potenza della luce. In lui è il più profondo abisso e il più alto  cielo, o entrambi i centri. Il volere dell’uomo è  il germe occultato nell’ eterna brama di un Dio  esistente ancora nel fondamento; il divino lume  di vita chiuso nel profondo e che Dio vide, quando  concepì il volere di crear la natura. In lui soltanto  (nell’ uomo) Dio ha amato il mondo; e la brama  accolse nel suo centro appunto quest’immagine  di Dio, quando entrò in conflitto con la luce.  L’uomo per ciò, che egli scaturisce dall’ imo fondo  (è una creatura), ha in sè un principio indipen-  dente per rapporto a Dio; ma per ciò, che sif-  fatto principio — senza cessare tuttavia di essere  tenebroso nel suo fondo — è chiarificato nella  luce, si schiude insieme in lui qualcosa di più  alto, lo spirito. Infatti l’eterno spirito esprime  l’unità o il verbo nella natura. 11 verbo espresso  (reale) poi è solo nell’unità di luce e tenebre  (vocale e consonante). Ora in tutte le cose vi  sono bensì i due principii, ma senza piena conso-  nanza, a causa della manchevolezza di ciò che è  elevato dal fondo. Solo nell’uomo dunque è piena-  mente espresso il verbo, che in tutte le altre cose  è ancora arrestato e incompiuto. Ma nel verbo  espresso viene a rivelarsi lo spirito, cioè Dio, esi-  stente come actu. Essendo poi l’ anima identità  vivente dei due principii, essa è spirito; e lo spi-  rito è in Dio. Ora, se nello spirito dell’ uomo  l’identità dei due principii fosse altrettanto indis-  solubile che in Dio, non vi sarebbe alcuna diffe-  renza, cioè Dio, come spirito, non si rivelerebbe.  Quella medesima unità, che in Dio è inseparabile,  deve essere adunque separabile nell’ uomo, — ed  ecco la possibilità del bene e del male.  libertà Capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza costrizioni o impedimenti esterni, e di autodeterminarsi scegliendo autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli. La l. può essere definita in riferimento a tre elementi: il soggetto o i soggetti di l. (chi è libero), i campi entro cui essi sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni socialmente riconosciuti che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di fare). Come vi sono vari tipi di agenti che possono essere liberi (persone, associazioni, Stati), così vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e innumerevoli generi di cose che essi sono liberi o non liberi di fare. In questo senso esistono molte l. diverse (morale, giuridica, politica, religiosa, economica, ecc.). Di conseguenza, quando cerchiamo di definire stati di l., abbiamo a che fare con questioni relative all’identificazione di chi, sotto quale descrizione pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare che cosa, rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato sociale. La riflessione sul tema della l. accompagna tutta lo storia del pensiero filosofico, dall’antichità all’epoca contemporanea, con accenti e approcci diversi.   Il tema della libertà nella filosofia antica. Nel pensiero di Socrate hanno un grande rilievo i due motivi, strettamente connessi tra loro, della involontarietà del male e dell’attraenza del bene. Socrate è convinto che nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il male, e che ognuno agisce sempre in vista di quello che egli crede sia il bene e il meglio per lui. Se per questo verso Socrate resta all’interno del cosiddetto soggettivismo dei sofisti, nel senso che anche per lui non è mai possibile uscire dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze individuali, tuttavia questi vengono continuamente giudicati, criticati e discussi attraverso il διαλέγεσϑαι («il disputare») e ciò permette di ritrovare criteri comuni e validi universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire seguire un bene apparente invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il bene, lo farebbe anche, perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è preferibile. Di qui l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui, implicitamente, una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di una prospettiva escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica,X), il guerriero che ha passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha visto. L’anima, che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i peccati che ha commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può scegliere fra vari «modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della propria scelta, «la divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la decisione, non ci sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e conoscenza. Secondo l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1), involontarie sono quelle operazioni «che avvengono per costrizione» o «per ignoranza»; la costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore, di modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per nulla». Quanto alle azioni commesse per ignoranza, l’involontarietà deriva dal fatto che «ogni malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere». Pare dunque, conclude Aristotele, che «sia volontario ciò il cui principio si trova nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». In questo modo Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta volontaria. Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà ci dà Plotino nelle Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa rimessa alla nostra libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci trascinano, «noi ci domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per avventura, altro che nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino riconduce la l. del volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza»; è necessar io, insomma, che «la ragione e la conoscenza si rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano». Perciò esse devono rifarsi a un principio non-sensibile, a una non-sensibile tendenza al bene. Coloro che sono guidati da impulsi sensibili, non potremo considerarli, sostiene quindi Plotino, «compresi sotto un principio di l., perché anche agli incapaci, che agiscono per lo più in quel modo, non riconosceremo mai l. del volere: a chi, invece, per la virtù operosa del suo intelletto, è immune dalla passionalità del corpo, attribuiremo veramente la libera indipendenza». Cristianesimo e Riforma. Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del cristianesimo. Hegel osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non avevano mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è realmente libero in virtù della nascita (come cittadino spartano, ateniese, ecc.) o in virtù della forza del carattere e della cultura, in virtù della filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova idea di l. si afferma per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e a far sì che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà. Se il concetto di l. del volere diventa centrale per il cristianesimo, perché senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe senso alcuno la redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana e insieme un prestabilito disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che certamente «può»; ma la maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene che «può» volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino, l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso, a sua volta, sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto, non da una sua perfezione: «che il libero arbitrio possa scegliere oggetti diversi rispettando l’ordine delle finalità, appartiene alla perfezione della l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale ordine – ciò che è peccare – questo appartiene a un difetto di libertà» (Summa theologiae). Dopo il Medioevo, nel quale la soluzione agostiniana è accolta da taluni con più intensa accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo nel quale la questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i rifor- matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con decisione la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero, tornando a un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della l. cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme dei privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o secolare, e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua sovraordinazione all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla concezione moderna della l. e al dibattito sul suo significato politico-giuridico.   Il dibattito su libertà e necessità. Nel Seicento, Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e nell’accettazione della necessità universale stessa. Nel secolo seguente abbiamo la concezione di Kant, con la sua distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni dell’Universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per «l. morale» si deve intendere, secondo Kant, la facoltà di adeguarsi alle leggi che la nostra ragione dà a noi stessi. Noi possiamo dunque scegliere tra il seguire la causalità empirica, che rende il nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla legge morale che, esprimendo l’essenza più profonda del nostro Io, rende il nostro volere autonomo e, così, libero. E come l’essenza profonda del nostro essere è la l., così all’origine dell’intero Universo che alla scienza si presenta determinato, è il libero volere di un Essere intelligente, che ordina teleologicamente ciò che alla conoscenza scientifica appare invece meccanicamente causato. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il grande concetto che Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto, elaborato da alcuni scolastici, di «l. o arbitrio d’indifferenza» (facoltà di volere, immotivatamente o indifferentemente, l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle due), che, non sapendo o non potendo risolvere la propria indifferenza, resta in fondo un’inerte possibilità d’azione, Hegel oppone un concetto più concreto della l., quello della l. come autodeterminazione e intima spirituale necessità. Al determinismo positivistico reagiscono tutte le filosofie del «ritorno a Kant», intese a salvare la l. della condotta morale. E, nel quadro del ritorno all’idealismo classico dei primi decenni dell’Ottocento, i movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza. Il rifiuto della concezione hegeliana della l. come processo speculativo della ragione universale distingue invece il pensiero di Marx, che identifica la l. con un processo di liberazione economica, politica e sociale volto ad affrancare l’uomo dal bisogno e dalla lotta di classe e a creare le condizioni per una concreta autorealizzazione materiale e spirituale. Per tutt’altra via passa l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal contingentismo, per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la filosofia dello «slancio vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a coincidere con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nella «esistenza inautentica», come in Heidegger. In L’essere e il nulla Sartre sostiene che l’uomo è «essenzialmente» libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la «mancanza», il «nulla» di essere, ed è perciò continuamente teso alla scelta di possibilità esistenziali. L’equivalenza, di qui derivante, di tutte le scelte viene tuttavia eliminata nelle opere successive.   Il dibattito contemporaneo. Il significato politico-giuridico del concetto di l. è al centro del dibattito contemporaneo. Particolarmente influente è stata a questo riguardo la distinzione espressa da Berlin fra l. negativa e l. positiva, fra l. da e l. di: la prima concerne l’area entro la quale una persona è o dovrebbe essere lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza interferenze da parte di altre persone. La seconda riguarda l’area in cui si situa la fonte del controllo e dell’interferenza che può determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che un’altra. La l. negativa corrisponde alla l. dei ‘moderni’ di Constant, che ne definisce appunto il senso e il valore nella celebre contrapposizione con la l. degli ‘antichi’; essa è l’indipendenza individuale difesa da J.S. Mill: il soggetto della l. negativa è l’individuo, e l’arena della l. negativa è circoscritta da un confine che, per quanto mobile e variamente tracciato, separa la sfera ‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la sfera individuale da quella collettiva. L’assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata principalmente come assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità legittima, che è tale se e solo se non viola o viola il meno possibile l’autonomia individuale. Contro la distinzione analitica dei due concetti di l. si è espresso Rawls nella sua teoria della giustizia come equità. La l. o, meglio, il sistema delle l. è oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive che il sistema delle l. sia per ciascuno il più ampio possibile, compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun altro. Nella prospettiva di Rawls, la massimizzazione del sistema delle l. individuali è prioritaria rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto principio di differenza, che deve modellare le istituzioni responsabili della distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Accettare la priorità dell’eguale sistema delle l. implica accettare un principio di equità nella distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di l. non ha, di regola, eguale valore per individui diversamente dotati. Proponendo un ordinamento fra l. ed equità, espresso dalla priorità del principio di l. sul principio di differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la l. e un altro valore sociale quale l’uguaglianza. A questa prospettiva, e ai suoi importanti sviluppi ad opera di Sen e di Dworkin, si contrappone radicalmente la tesi sui diritti negativi propria della teoria libertaria. In partic., Nozick ha confutato la pretesa di teorie della giustizia distributiva di proporre criteri o modelli di distribuzione giusta. Se ci si basa sull’assegnazione di valore intrinseco alla l. individuale, qualsiasi precetto distributivo è inaccettabile perché non può che violare la l. individuale stessa. Nella più recente controversia nell’ambito della teoria normativa, il conflitto distributivo ha finito per lasciare spazio ad altro tipo di conflitto, il conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento. E questioni relative all’assegnazione di valore alle l. si sono così connesse a questioni di riconoscimento di nuove identità o di identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione da comunità di ‘pari’ dai differenti confini.Elzeviro Catalfamo. Il personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: metafisica della libertà, il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo” – The Swimming-Pool Library.

 

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