Grice e Carlini: l’implicatura
conversazionale della filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even
more, but then he is Italian! My
favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da
Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto –
“Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.”
Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi,
Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile,
trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro
dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una
collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi
di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza è GENTILE,
conosciuto qualche anno prima, e CROCE, all'epoca ancora in rapporti col
filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo
divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che
collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al C., anche Saitta
e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di
direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà raccolte
aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fa seguito uno studio
su BOVIO che desta l'interesse di non pochi studiosi e l'approvazione di GENTILE,
considerato da C. suo tutore indiscusso. Pubblica due corposi volumi che
gli assicurarono un posto di assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un
esaustivo studio sul sense e l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”. In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente
a delineare il proprio pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come
sintesi fra il pensiero immanentista gentiliano (GENTILE è, fino alla propria
scomparsa, suo amico, oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto
attraversa un costante irto di dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad
instaurare con noi stessi, in un percorso critico dialettico, una conquista
realizzabile solo attraverso gli strumenti di una metafisica critica. La
centralità della teoria della conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una
concezione realistica dello spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”,
“alla ricerca di tu”. Comprensibile appare pertanto l'interesse che nutre per
l'esistenzialismo, che però si espresse con una singolare preferenza verso Heidegger,
nelle cui speculazioni trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto
che nei confronti di Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la
propria filosofofia. Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la
metafisica? (“La nulla anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i
suoi Studi gentiliani, raccolta di scritti in massima parte già pubblicati
precedentemente, tesi a ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un
tempo lo avevano legato al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari,
Laterza); “Senso ed esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze,
Vallecchi); “Note a la metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma,
Quaderni dell'Ist. Naz. di Cultura); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni);
“Lo spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura); Il
problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni);
“La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le
ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna,
Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4
ala I ai Mi L. LL a cura di alberto schiavo Gy
giovanni volpe editore FUTURISMO E FASCISMO. Una fotografia inedita di
Marinetti mentre si esercita al poligona di tiro di Gorizia nel 1915.
Marinetti e Russolo si erano arruolati volontari nel « Battaglione
Lombardo Volontari Ciclisti » il 3 agosto 1914 per poi combattere da alpini
sul Monte Altissimo. In seguito Marinetti verrà assegnato ad un reparto
di autoblindate e poi servirà nei bombardieri. Sarà tre volte ferito e
tre volte decorato al valore.
Tutti i diritti riservati. Giovanni Volpe Editore in Roma, Via
Michele Mercati. FUTURISMO E FASCISMO a cure di ALBERTO SCHIAVO GIOVANNI
VOLPE EDITORE FUTURISMO CON E SENZA FASCISMO «A
Giacinto Menotti Serrati allora direitore del- l’Avanti, che si era
recato in Russia per respirare aria comunista. Lenin affermò: “Voi
socialisti non siete dei rivoluzionari. In Italia ci sono soltanto
tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini, Annunzio,
Marinetti”. Il povero Menotti, inotridito, ritornò a Milano precipitosamente.
E. quando, paco dapo, un capo scarico con un magistrale colpo di forbice
gli tagliò di netto, per beffario, Ia veneranda barba, reagì in questo
modo: facendo proclamare nella grande città lombarda lo sciopero
generale. I milanesi orripilarono, è il caso di dirlo, perché si
sentirono da quel giorno appesi ai peli del direttore dell'Avarti »
EmiLio SErTIMELLI, Mille giudizi di statisti, scrit- tori, giornalisti,
scienziati, industriali di Cinquanta Stati sulla personalità e misstone di
Mussolini, Erre, Milano). Quale futurismo? Il futurismo è ormai un
fatto d’esportazione: italiano d'origine pur se si è cercato di farlo
passare per francese e russo poi di acquisizione e di affermazione, è
ormai alla ribalta dell’esperimentazione artistica americana. Segno
questo che il fenomeno è vitale e ancora carico di prospettive,
nonostante la « storicizzazione » di un avvenimento che fu d'avanguardia. Ma
quale avvenimento? Il manitesto del futurismo fu pubblicato sul parigino
Le Figaro. Si tratta di un manifesto letterario di rinnovamento e di
rivoluzione, se vogliamo, della tradizione classicista e « passatista »
{secondo un termine caro ai futuristi) dominante. Gli aspetti politici
non furono tuttavia estranei alla sua volontà di rivolgimento letterario
ed artistico. Ci sembra quindi giusto prenderli in considerazione,
eftet tuarne un esame. Anzi, è proprio di questi che ci vogliamo occupare,
del loro svolgersi, articolarsi 0, comun- que, manifestarsi nel corso del
tempo e della vita del futurismo. Che, in fondo, ancora oggi è accettato o
respinta, condiviso o negletto, « approvato » o denigrato a seconda
delle posizioni o degli intendimenti politici del momento. Ma anche è
ticonsiderato, tivisto e « rivisitato » nel suo complesso, da tutte le
parti, vicine e lontane, amiche ed avverse, per la carica vitale e
rinnovatrice che lo anima, suscitatrice di nuovi spiriti e ancòra, in
fondo, moderna. « La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità
pen- sosa, l'estasi e il sonno », scriveva Marinetti in quel Mani
festo di settanta e più anni fa. « Noi vogliamo esaltare il movimento
aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di cor- sa, il salto mortale,
lo schiaffo ed il pugno». E non è già atteggiamento letterario «
aggressivo », ma anche di rinnovamento, questo? Non è, come si suol dire
ancora, « fare politica »? Al settimo punto del Manifesto, Marinetti così
continuava: «Non c'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che
non abbia un carattere ag- gressivo può essere un capolavoro. La poesia
deve essere concepita come un violento assalto contro le forze
ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo ». Per conclu-
dere poi con l'undicesimo: « Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro,
dal piacere o dalla sommossa; can- teremo le maree multicolori e
polifoniche delle rivolu- zioni nelle capitali moderne; canteremo il
vibrante fer- vore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati
da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di
serpi che fumano; le officine appese alle nuvole. E tutto questo cantava e
diffondeva da Parigi, da uno dei più gloriosi quotidiani della capitale
francese; ma cio- nonostante « ...è dall'Italia, che noi lanciamo pel
mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incen-
diaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché vogliamo liberare
questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di
ciceroni e di antiquari. Un grido così coinvolgente e totale non può, in
fon- do, non trascinare ancora gli osservatori della cultura,
A non invitarli almeno a prendere posizione,
poco importa se favorevole o contraria. Non si può rimanere
indiffe- renti ancora negli Anni Ottanta, non sentirlo tutt'ora
pre- sente nei suoi contenuti « prospettici » e attuali. Ecco
perché tutti lo hanno ripreso, riconsiderato o « riabilita- to» alla loro
dimensione storica: liberali e comunisti, socialisti e conservatori,
cattolici e radicali, fino alla nuova destra. Anche noi, vorremmo quindi
riesaminarlo a distanza non però per riappropriarcene, ma solo per
ve- dere la sua origine, il muoversi storico e la collocazione
politica nel corso della sua esistenza, che in fondo, è ancora incerta e anche,
in parte, controversa. Si è parlato d’irrazionalismo filosofico,
di decadenti- smo o di romanticismo letterario, di surrealismo con
evi- dente errore di collocazione, di nietschianesimo natural
mente, o di bergsonismo ecc. ecc. Ma non sta a noi que- sto compito,
perché siamo convinti che rutto si potrebbe dite, o comunque tutto si
potrebbe adattare in buona combinazione di purpurie filosofica, o di
pensiero. E in- vece è il futurismo che vorremmo considerare nella
sua realtà storica, nella sua entità e valenza « politica », di
fianco o a distanza di quel fascismo con cui bene o male si è
accompagnato. Anche se ciò non basta certamente per avere un'idea chiara
e precisa della sua effettiva por- tata e del suo valore « storico ».
Perché il futurismo va visto sì nel suo tempo, che non è poi tanto
passato, pur se non è più momento dell’oggi; ma va visto anche
nella sua prosecuzione e nella sua proiezione al tempo presen- te,
sia pure per quel che riguarda la « dimensione d’arte ». Il
futurismo oggi non è più un fatto politico, ma è tuttora fatto culturale,
e diverse manifestazioni e pubbli cazioni lo dimostrano ancora. Quando
nacque, fu espres- sione rivoluzionaria di un paese giovane e « nuovo »
mos- so dalla felice conclusione dei fermenti unitari, i quali — è
ovvio — comportano sempre semi di sconvolgimen- to e di rinnovazione. L’«
Italia di Vittorio Veneto » sancità definitivamente ed epicamente il
ciclo dell’unità e segnerà così anche, nel l'immediato dopoguetra, il
momento di temperatura massima del « futurismo politico », che vedremo poi
ricadere in seguito completamente a zero. Oggi, in tempi di
riflusso dopo una guerra perduta anche se ormai lontana, il futurismo
risulta meno com- prensibile e meno « attuale » alla nostra capacità
d'in- tendimento storico. Ma a ben osservare possiamo ancora
intravvederlo, per intendere poi anche meglio il futurismo artistico e
letterario, che del tutto estraneo a quello « po- litico » proprio non
è. La cultura è un fatto del presente, ma anche dell’av-
venire. Come tale è o dovrebbe essere giovane, perché vissuta, voluta, «
creduta » e quindi guardata in prospet- tiva nella visione dell’oltre,
nell'ottica di uno sguardo lon- tano. Il futurismo si pone in questo
«taglio » di visuale sull'inizio del secolo, e si focalizza in tale
dimensione. Vuole aprire una nuova strada e vuole porgere un'indi-
cazione, una proposta. Erano i tempi del progresso, dello sviluppo
della scien- za e dell'industria, del nascere della velocità dei
nuovi suoni e dei nuovi rumori, quelli delle scoperte e delle invenzioni,
del cinema e dell'aviazione. Marinetti percepì tutto questo e lo
espresse. E fondò il futurismo, pose le sue basi e cantò la sua prima
voce. Nessuno forse s’aspettava o s'immaginava che potesse riuscire a
trovare ascolto. Marinetti però viveva a Parigi a quel tempo, e
seppe approfittare dei contatti che aveva con la cultura rancese per
lanciare il Manifesto: fu un'occasione, e fu anche un lancio
sicuro. 2. Futurismo e « passatismo » Esiste ancora
oggi il « passatismo », quello di mari- nettiana memoria. E se è pet
questo c'è ancora il futu- rismo. Proprio per tale suo aspetto, dunque,
il futurismo è ancora attuale: la decadenza della cultura o il suo
in- vecchiamento, e la sua inadeguatezza ai tempi; il preva- lere
per contro dell'accademia, della pedanteria, del vec- chiume cattedratico
sono sempre all'ordine del giorno. ® Il futurismo,
quindi, non ha esaurito il suo compito, ov- vero non è riuscito nel suo
intento. E allora dovremo dire che non è morto ed è tuttora attuale. Ma
prima di aprire un'ipotesi di «nuovo futurismo », dovremmo
esaminare quello passato, fattosi movimento d'avanguardia, e ormai
da ridefinirsi vera e propria avanguardia storica, solo ed
esclusivamente. Il « passatismo » può essere oggi solo un « fatto
di ritorno », o esser rientrato ad occupare il suo campo d'’ori-
gine, ma il futurismo settanta anni fa aveva già conosciu- to quello di
allora, tanto da indicarlo e da definirlo, con una sua caratteristica
espressione: passatismo, appunto. E non si trattava anche allora di una
cultura ripetitiva e monocorde, puntualizzatrice e pedante, noiosa e
inat- tuale? Allora come oggi: una cultura fuori dal tempo, sterile
e ferma. E il futurismo aveva voluto muoversi a rinnovarla, a darle nuova
spinta vitale. Ecco allora le sue invettive contro l’accademismo o il
professorume, i suoi appelli alla distruzione di musei, archivi,
biblioteche. Si trattava di appelli squisitamente letterari, ma
sono stati presi il più delle volte alla lettera o in senso lette-
rale, per farne atto d'accusa al futurismo e alla sua anti- cultura.
Leggendo al di là delle righe, invece, dovremmo capire la portata o la
dimensione del messaggio, rivolto agli uomini più che ai musei e alle
accademie, o almeno a certi uomini capaci di rappresentare solo ed
esclusiva- mente cultura da museo. Sulla spinta di questo
stimolo « ideologico », era fatale che il movimento trovasse più facili
accoglienze 0 acco- stamenti con le parti politiche d’azione, quelle
dell'inter vento prima della Grande Guerra, e dell’arditismo prima
durante e dopo il conflitto. La guerra veniva ormai intesa sola ed unica
«igiene del mondo », ed era logico che i futuristi si accostassero a lei,
come ad una forza capace di debellare ed estirpare il tanto inviso «
passatismo ». I futuristi quindi furono interventisti accanto ai
naziona- listi (D'Annunzio) ed ai socialisti di Corridoni e di Mus-
solini. La ineluttabilità della storia accosta spesso e vo- lentieri i «
differenti ». Furono vicini nei comizi, nelle manifestazioni, nella
propaganda per l’intervento. E poi partirono, praticamente tutti 1
futuristi, volontari per il fronte di una guerta che avevano inteso e
visto aggressiva, purificatrice e moderna. Una guerra al passo coi
tempi, si direbbe oggi, una guerra insomma « futu- rista ». Partì
Martinetti e partì Boccioni, partirono Funi e Sitoni, partì Sant'Elia,
che lasciò i suoi 23 anni in trin- cea sulle colline del Carso. Erano
entrati tutti e cinque « compatti » in quel glorioso battaglione ciclisti,
che tan- to fece patlare di sé, e che Funi rittasse in un famoso
quadro. Anche Boccioni morirà in ospedale a Verona. La vita fu forse la
massima offerta all’« igiene » di una guetra tanto desiderata.
Il futurismo in quanto fermento rinnovatore di una lotta nazionale
che concluse il Risorgimento, potrebbe es- sere inteso come un epigono
del Romanticismo. Fu in- vece di più e di meglio, visto in altra
dimensione o in altro significato. Perché fu avanguardia, anzi il primo
ve- to e proprio movimento d’avanguardia culturale del nuo- vo
secolo. E l'avvento del fascismo in senso politico, di- mostra in fondo
che lo sbocco di tutto quel rivolgimento innovativo 0 avanguardistico che
tutti sentivano e « avevano nel sangue », era diventato una ineluttabile
necessità del momento. L’irreggimentazione del fascismo è un
fatto successiva, indipendente dal futurismo. Il fascismo-regime, per
dirla con De Felice, è un'esito autonomo e « solitario » di Mus-
solini e del potere. Il fascismo-movimento invece, sempre per dirla alla
De Felice, no. I) fascismo-movimento è una realtà più complessa,
articolata e multiforme, più sentita e partecipata. Ed in essa entra il
futurismo, che « vive » il fa- scismo ma anche lo anima, che Jo vuole in
parte, ma anche lo informa. Il « passatismo » doveva essere
stroncato: e in un primo momento, con l'avvento di Mussolini, languì.
La cultura subì uno svecchiamento non indifferente ed il fer- mento
del nuovo portò sulla scena uomini « giovani » ac- cantonando | «
vecchioni » dell'accademia libera!socialista. Balla, Carrà, Soffici,
Funi, Sironi, Prampolini si afferma- rono col vento futurista che stava
soffiando. Ed ebbero spazio nelle mostre, almeno in un primo momento,
aper- tura nei musei, apprezzamento all’estero, dove vennero
accolti, ammirati, imitati. Il futurismo ebbe una grande forza vitale
sua, autonoma e individuale. Senza per que- sto imporsi e schiacciare la
« concorrenza », anzi. I fu- turisti accettatono nuove esperienze ed
accolsero scambi con avanguardie straniere (come l'astrattismo), che
vol. lero mutuare in reciprocità l’influenze. Il fascismo fu
l’avan- guatdia collaterale politica del futurismo, che tuttavia
que- st'ultimo cronologicamente precedette e « ideologicamente »,
almeno in parte, ispirò. La lotta al « passatismo » diven- ne così quasi
simbolo del fascismo, che si fece portaban- diera del rinnovamento e
della nuova rivoluzione nazio- nale. I « professori », non
avendo messaggi originali da con- trapporre, rimasero in disparte.
Marinetti divenne acca- demico d’Italia a fascismo avanzato e, forse, suo
malgra- do. Tuttavia « usò » l'Accademia per promuovere ed ap-
poggiare i « suoi » futuristi, per dar loro spazio nelle di- verse manifestazioni
d’arte e di cultura. Il filosofo Croce, « professore ad honorem », era
stato proposto alla presi- denza dell’Accademia, ed era stato proposto da
parte fa- scista, quando ancora da Napoli applaudiva a Mussolini:
ebbe invece più consensi la presidenza Marconi, lo scien- ziato, e Croce
si ritirò nell’antifascismo, forse mi litante, della sua incensurata
e liberissima Critica. Croce fu « pas- satista », 0 tortò ad essere tale
dopo una parentesi {od un tentativo di rivolgimento innovativo), che non
lo sot- trasse tuttavia dalle « carte » della sua più o meno im-
mobile filosofia. 3. Futurismo e politica La comparsa
« politica » del futurismo fu praticamente contemporanea alla sua nascita
«artistica: infatti avvenne in occasione delle elezioni del 1909, quando
Marinetti lanciò il suo Primo Manifesto Politico, che così si
rivol- ge agli « Elettori Futuristi »: « Noi Futuristi invochiamo da
tutti i giovani ingegni d’Italia una lotta ad oltranza contro i candidati
che patteggiano coi vecchi e coi preti ». Posizione confermata nel marzo
dello stesso anno in un famoso Discorso ai Triestini tenuto al Politeama
Rosset- ti, della città giuliana, dove così sottolinea: « In
politica, stamo tanto lontani da] socialismo internazionalista e
an- tipatriottico — ignobile esaltazione dei diritti del ven- tre —
quanto dal conservatorismo pauroso e clericale, simboleggiato dalle
pantofole e dallo scaldaletto ». Sono le premesse del famoso
anticlericalismo marinettiano, che sfocerà poco dopo nello « svaticanamento
» tanto predi- cato per la salvezza nazionale. Nel 1910,
dopo la nascita del futurismo politico, vie- ne fondato il Partito
Nazionalista Italiano, antidemocra- tico ed antiborghese. Nel 1913 nasce
Lacerba, cui diede- ro vita a Firenze Soffici e Papini, la rivista che in
pra- tica divenne ben presto organo ufficiale del futurismo /ato
sensu. Sempre nel 1913 sorgeva a Napoli un’altra rivista futurista,
diretta da Ferdinando Russo e intitolata Vele Latina, che si ergeva in un
primo tempo a voce di pa- sizioni morigerate e tranquille, e poi dal 1915
più spinte nella mischia dell'intervento. Ancora del ’13, e
dell'11 ottobre per l'esattezza, è la pubblicazione del Programma
politico futurista a firma di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, per
le elezioni dello stesso anno. « Questo programma vincerà », s'in-
dica al margine inferiore del foglio, «il programma cle-
rico-moderato-liberale » e «il programma democratico-re-
pubblicana-socialista ». Cosa che poi in realtà non avvenne. Il 12
dicembre dello stesso anno Marinetti pronun- ciava un discorso al Teatro
Verdi di Firenze, dove sao- stiene la volontà di appoggiare l'impresa
libica ed il suo felice compimento. Il discorso viene immediatamente
ri- preso e pubblicato da Lacerba, nel numero del 15 dicem- bre (n.
24, anno I): « Si convincano i socialisti che noi rappresentanti della
nuova gioventù artistica italiana com- batteremo con tutti i mezzi e
senza tregua i loto vigliac- chissimi tentativi... » iniziava il discorso;
e così concludeva, a rafforzamento delle sue inconciliabili posizioni: «
Noi siamo dei nazionalisti futuristi e perciò ferocemen- te avversi
all’altro grande pericolo imminente: il clerica- lismo con tutte le sue
propaggini di moralismo reaziona- sio, di repressione poliziesca, di
professoralismo archeo- logico e di quetismo rammollito o affatismo di
partito ». Ormai la collocazione del movimento è quanto mai chia-
ra e inequivocabile. 4. Futuristi e « fiorentini. Che i futuristi
fossero « milanesi » è problema tutto da vedere, anche se è vero che
Marinetti abitava a Mi- lano e che dopo la fondazione del movimento a
Parigi fu a Milano il suo centro di spinta e di irradiazione. Ma i
legami con Firenze furono ben presto agganciati, e determinanti. Scrive
Luciano De Matia: « Fsiste un fu- turismo milanese (con Marinetti e
Boccioni in simbio- si); esiste un primo futurismo fiorentino lacerbiano,
che assimila, elabora in modo nuovo, creativo, le istanze mi-
lanesi; esiste un secondo futurismo fiorentino (la « pattu- glia azzurra
»; i giovani de L'Italia futurista) psicologico, occultista, predadaista
e presurrealista. E potremmo con- tinuate nelle differenziazioni
»”. Ma non è tanto per questo tipo di differenziazioni che ci
interessa il futurismo fiorentino, quanto per la dimen- sione « politica
» dei personaggi che vi aderirono, diversa da quella di Marinetti e degli
altri futuristi milanesi o degli altri politici che a Milano operavano e
si muove- vano (Boccioni, Sant'Elia, Balla; più tardi poi, Vecchi e
Mussolini). Milano era già città d'avanguardia e alla guida
dell’industrializzazione settentrionale: questo non va dimenticato.
Firenze era ancora « passatista », accademica e salot- tiera;
legata comunque ad una cultura d’indagine e di ! Tuciano De Maria,
Palazzeschi e l'avanguardia, Mondadori, Milano, 1968, pag.
31. riesumazione di un passato ricco e glorioso, ma ormai ri-
petitivo e sclerotizzato. Firenze tuttavia era anche la terra feconda del
primo Novecento, delle nuove riviste, dei tentativi di rivisitazione di
una cultura pur sempre na- zionale, e di lancio dell'avanguardia sullo
scorcio del nuo- vo secolo, che andava creato e costituito, Il Leonardo
apre le sue tirature il 4 gennaio 1903, per chiuderle poi nel-
l'agosto del 1907. Era stato Papini a fondarlo, ma c’era già anche
presente Prezzolini (Giuliano il Sofista). Che poi mise in piedi La voce
nel 1908: uno dei migliori ten- tativi di collegamento delle forze
intellettuali e di fon- dazione di un minimo denominatore comune,
letterario e politica {idealismo e sindacalismo socialistico di tipo
so- reliano). Papini continuò la « collaborazione ». Ma vi fu- rono
anche, sulle pagine de La Voce, Amendola e Sal vemini, Soffici e De
Robertis, oltre che il futuro fonda- tore de Il Popolo d’Italia e del
Fascismo. La Voce chiudeva però i battenti nel 1912 senza
ec- cessiva eco politica immediata. Papini non aveva condi- viso
certe alleanze del suo amico Giuliano il Sofista, come non condivideva
l'intento didascalico e divulgativo della Voce su qualsiasi argomento
artistico e sociale, come an- che « idealistico ». Si unì a Soffici di
cui condivideva gli atteggiamenti, ed insieme fondarono Lacerba (il 1°
gen- naio del 1913, sempre a Firenze). « Non si volge chi a stella
è fisso! », portava come motto il Leonardo sotto la testata. Volendo dare
tono battagliero a Lacerbae, Pa- pini forse ancora seguiva le prospettive
d’arte e di cul- tura del Leonardo. Anche se in una dimensione « attiva
» che già i « leonardiani » avevano inteso fondare nell’uti-
lizzazione del pragmatismo come « strumento di poten- za ». (« In quegli
anni tutti vollero sapere che cosa fosse il pragmatismo »). Lacerba
riprende l’impostazione di battaglia, tipica di Papini, e ritotna
all’orientamento spe- cifico dell’arte. ? Vedi
anche Giovanni Papini, Pragmatismo, Firenze, Vallec- chi, 1927.
14 In questo contesto è evidente che non poteva man-
care l’incontro col futurismo. La scazzottatura dei futuristi con
Soffici e i vociani nel 1911° non poteva aver contribuito all'incontro?
Potrebbe darsi, anche se Papini non vi aveva partecipato, come Marinetti
stesso asserisce in una sua lettera a Pra- tella. Sta di fatto che col 15
marzo del 1913, cioè col suo sesto numero, Lacerba diventa futurista. Con
un articolo proprio di Papini dal titolo Contro il futurismo che dal
famosa attacco iniziava così: « Il futurismo italiano ha fatto ridere,
urlare e sputare. Vediamo se potesse far pen- sare». Segue un passo di
Boccioni sul «fondamento plastico della scultura e pittura futurista».
Proprio Boccioni che ave- va investito Soffici col suo celebre pugno,
poco più di un anno prima a Firenze. E che continuerà a pubblicare
articoli sul numero del 1° di aprile e su quello del 1° di agosto e poi
sul primo numero del 1914, ecc. Per non parlare di Carrà, Marinetti,
Russolo, Sant'Elia, Auro d'Al- ba, ecc., che porteranno continuamente i
loro contributi. Il 15 ottobre del ’13 Lacerba pubblicherà
addirittura il citato Programma politico futurista in occasione
delle elezioni generali. Il manifesto politico compare in prima
pagina con tutti i crismi d'appoggio o di affiancamento della rivista.
Papini ne dà un commento più che « sod- disfacente ». E lo stesso Papini
il 1° dicembre dello stes- so anno uscirà poi con un lungo articolo
intitolato Perché son futurista. Sarà l’atto di accettazione definitiva
del fu- turismo, od il suo accoglimento più completo, e « globale
». 1 Su La Voce Soffici pubblica la sua Ri- cetta di Ribi
Buffone. Vi si elencano gli ingredienti del neonato futurismo: « Un chilo
di Verhaeren, 200 gr. di Alfred Jarry, cento di Laforgue, trenta di
Laurent Tailhade, cinque di Viélé Griffin, un pugno di Morasso..., una
presa di Pascoli », aggiungendovi poi « una pila di undici automobili,
sette aetoplani, quattro treni, due carghi, due biciclette, diverse
batterie elettriche e qualche candela arden- te». Sempre su La Voce
Soffici pubblicherà poi nel ‘10 e nell’11 dei rendiconti negativi sulle
opere futuriste esposte a Venezia e a Milano, per cui sarà decisa la
spedizione punitiva a Firenze da par- te dei fuiuristi, Non
molti giorni dopo, il 12 dicembre (lo ab- biamo già visto), si tenne al
Teatro Verdi a Firenze una « grande serata futurista », di cui riporta il
« reso- conto sintetico » il numero 24 della rivista (del 15 di-
cembre 1913). Non molto tempo dopo, però, il 15 febbraio del
’14, appare sul quarto numeto del nuovo anno I! cerchio si chiude,
che avvia inesorabilmente al declino della colla- borazione. Autore ne è
ancora una volta Giovanni Papini, che chiuderà definitivamente il «
colloquio » sull'ultimo numero dell’anno insieme a Soffici, cofirmatario
de Il Fu- turismo e Lacerba. E’ l'atto di chiusura di un « perio-
do »: quello, appunto, del futurismo lacerbiano. Rispon- derà Boccioni il
1° di marzo sul numero 5 con Il cerchio non si chiude; ma sono solo
sussulti, e anche sugli ultimi numeri dell'anno della rivista
compariranno solamente i cosidetti « canti del cigno ». Il
cerchio era ormai già chiuso. E non molto dopo chiudeva anche Lacerba,
nonostante i suoi ultimi tenta- tivi interventisti di rivivificazione
(1915) e le sue discri- minazioni tta futurismo c marinettismo, che ne
sarebbe stata la versione deteriore‘. 1l marinettismo sarebbe pra
ticamente già morto secondo «i fiorentini », mentre il futurismo avrebbe
potuto tendere a mete migliori. Dopo pochi mesi in realtà morirà
definitivamente anche Lacerba. 5. Il futurismo e la guerra
Nel 1929 Marinetti ricordava così l’inizio della sua « carriera
interventista »: « Nel settembre 1914 dutante la battaglia della Marna e
in piena neutralità italiana, noi futuristi organizzammo le due prime
dimostrazioni contro l’Austria e per l'intervento. Bruciammo il 15
settembre nel Teatro Dal Verme e il 16 settembre in Piazza del
4 Cfr. Palazzeschi, Papini, Soffici, Futurismo e
Marmnettismo, in Lacerba, anno III, n. 7, 14 febbraio 1915, pp.
49-50. Duomo e in Galleria undici bandiere austriache ». Poco prima
di quegli avvenimenti, Mussolini aveva fondato il suo nuovo quotidiano,
I{ Popolo d’Italia. Contemporanea- mente, sotto l'auspicio e il favore di
Corridoni, i gruppi rivoluzionari di sinistra, già pronunciatisi a favore
della guerra, si stavano organizzando per sostenere anch’essi
l'intervento. Come ricorda De Felice, «il 5 ottobre il Fascio
Rivoluzionario d'Azione Internazionalista avreb- be lanciato il suo primo
appello ai lavoratori italiani in questo senso » * L'incontro tra
futuristi e rivoluzionari di estrema sinistra si stava verificando e «
stringendo », anche se già confortato da reciproche simpatie per le
uni. voche posizioni anticlericali ed antiborghesi. Mussolini
scriveva dalla direzione de Il Fopolo d'Italia una lettera a Buzzi, che
riportiamo interamente: « Caro Buzzi, Boccioni vi avrà detto — se mai vi
avrà parlato di me — che tutte le mie simpatie sono — anche nel dominio
dell’arte — per i novatori e i demolitori: per i “futuristi”. Inattesa,
e perciò gradita, mi giunge la vostra lettera riboccante di
simpatia. E’ questo uno dei momenti più amari della mia vita. Ma vincerò.
Vincerò. Lo sento. F' necessario. Ho messo nel gioco tutta me stesso.
Credetemi. Vostro Mus- solini ». L’amarezza gli è data
probabilmente dall’espulsione dal Partito socialista proprio per la
posizione da lui assun- ta a favore dell'intervento. La conoscenza da
parte di Mussolini, di Boccioni e del movimento d’arte d’avanguar-
dia di Marinetti, risultava sino a poco tempo fa inesistente. La lettera,
unica del genere, conferma la precedenza del futurismo politico rispetto
al fascismo ancora da sorgere, che poi mutuerà da esso idee, elementi e
programmi. Le simpatie si manifestano per il dominio
dell'arte, al dire di Mussolini, ma non solo; c'è un « anche », che
indica chiaramente dell'altro e un'apertura, forse politi ca, possibile
nei confronti degli innovatori e dei « demo- Renzo De Felice,
Mussolini il Rivoluzionario, Einaudi, Tori. litori », vale a dire per i
futuristi. Che ancora il 9 dicembre di quell’anno organizzano le prime
manifesta- zioni interventiste all’Università di Roma, sotto la
guida di Marinetti, Balla, Cangiullo e Depero. Qualche mese dopo,
nel ’15, le autorità di governo fermano Marinetti, Cangiullo, Balla e
Depero che avevano indetto una manifestazione interventista un’altra volta a
Roma, in Piazza Venezia. E' il primo « fermo politico » di Marinetti.
Sia- mo quasi alla vigilia della guerra. Il 12 aprile 1915
si mette in piedi la « terza grande dimostrazione interventista » davanti
alla Camera dei De- putati. E' presente anche Mussolini e si verifica uno
dei maggiori « momenti d’incontro » tra futuristi e Mussolini sul
terreno dell’intervento. Balla, Corra, Settimelli, Ma- rinetti e lo
stesso Mussolini vengono attestati. Tutti gli sforzi ormai, tutte le
volontà e tutte le energie sono con- centrate verso un'unica e suprema
meta: quella della guer- ra. A Messina esce il nuovo periodico La Balze,
e Ma- rinetti pubblica il manifesto Guerra sole igiene del mon- do,
mentre il poeta futurista Auro d'Alba « lancia » a Mi- lano per le
Edizioni Futuriste di « Poesia » (« sostenute » da Marinetti) il volume
Baionette. Con l’entrata in guerra nel maggio, a Fitenze
Lacerba interrompe — come si è visto — le pubblicazioni. Una guerra
che avevano tutti quanti, in un certo senso, pre- parato con interventi,
discorsi, giornali, manifestazioni e pubblicazioni. Fra questi non va
dimenticato il manifesto del Teatro futurista sintetico, firmato da
Martinetti, Corra e Settimelli, nel quale, fra l’altro, così si legge: «
Aspettan- do la nostra grande guerra tanto invocata noi Futuristi
al- terniamo la nostra violentissima azione artistica sulla sen-
sibilità italiana, che vogliamo preparate alla grande ora del massimo
pericolo ». E più avanti: « Perché I’Italia impari a decidersi
fulmineamente a slanciarsi, a sostenere ogni sforzo e ogni possibile
sventura non occorrono libri e riviste... La guerta, futurismo
intensificato, ci impone di marciare e di non marcire nelle biblioteche e
nelle sale di lettura. No: crediamo dunque che non si possa oggi
influenzare guerrescamente l'anima italiana, se non median-
18 te il teatro ». E in effetti, a partire dal gennaio del
'15, i futuristi avevano iniziato una serie di « Tournées di tea-
tro futurista interventista » per sostenere la necessità del-
l’intervento con un mezzo di comunicazione ben più po- polare e «
circolante » della letteratura. Anche la «serata futurista », per
esempio, è un al tro canale o strumento di « incoraggiamento »
dell'inter- vento. Si tratta di una sorta di riunione o ritrovo di
arti- sti futuristi, uno dei quali sollecita gli intervenuti
(pubbli- co) danda uno spunto, e proponendo un tema, o aggre- dendo
qualche aspetto dell'arte del passato, da cui nasce lo stimolo alla
creazione e alla lotta del nuovo 0 del futu- ro, e anche lo stimolo alla
guerra che lo conduce sino alle ultime conseguenze. Ma sentiamo Marinetti
come la defi- nisce quando si rivolge agli studenti in un altro
manifesto, di poco precedente a quello « teatrale », intitolato Im
que- st'anno futurista, rivelto agli « studenti italiani » e datato
29 novembre 1914. Laddove si esortano i giovani alla guerra così si
afferma: «... il futurismo segnò appunto l’irrompere della guerra nell’arte,
col creare quel fenome- no che è la Serata futurista (efficacissima
propaganda di coraggio). Il futurismo fu la militarizzazione degli
artisti novatori ». E la guerra arrivò, come A biamo visto, e
per molti versi fu vera e propria « guerra futurista ». In luglio
par- tiva il gruppo più consistente di « volontari »: Marinetti,
Boccioni, Russolo, Sant'Elia, Bucci, Carlo Erba e Funi. Ma ci saranno al
fronte anche Carrà e Sironi, fattosi futu- rista nello stesso anno, e
Piatti e Fortunato Depero. Alla fine dello stesso anno Boccioni,
Russolo, Sant’E- lia, Sironi e Piatti, sempre sotto l'egida di Marinetti,
firmano un altro manifesto futurista, quello dell’Orgoglio italiano, con
cui si promettono pugni, schiaffi e fucilate a quelli degli italiani che
avessero manifestato in sé «la più piccola traccia del vecchio pessimismo
imbecille, deni- gratore e straccione che ha caratterizzato la vecchia
Italia di mediocristi antimilitaristi (tipo Giolitti), di
professori pacifisti (tipo Benedetto Croce, Claudio Treves, Enrico
Ferri, Filippo Turati), di archeologi, di eruditi, di poeti nostalgici. Sant'Elia
muore al fronte, e Boccioni, una settimana dopo, per una caduta da cavallo
durante un'esercitazione militare a Orte. Nasce a Firenze la nuova
rivista L'Italia futurista. Prampolini fonda con Fol- gore il foglio
d'avanguardia Awvenscoperta. Nel ’17 nasce il periodico Deda, che tanto
dovrà nell’ispirazione al no- stro futurismo. I) 18 è ormai l'anno della
vittoria. Depe- ro realizza i suoi nuovi «balli plastici ». Bruno
Corra pubblica a Milano con i tipi dello Studio Editoriale Lom-
bardo Per l'arte della nuova Italia. Siamo infatti nell’Ita- lia della
vittoria. 6. Il Partito politico futurista Nella
nuova realtà del dopoguerra il futurismo cerca una sua nuova collocazione
politica più « pacifista », se il termine non è nella fattispecie una
contraddizione. Ai fasti dell'intervento e della militarizzazione,
succede un nuovo intento programmatico di realizzazione. La prima
espressione di questa volontà è ancora una volta dovuta a Marinetti che
pubblica nel febbraio del ’18 un Manifesto del Partito politico
futurista, l'adesione al quale era libera ed aperta a tutti coloro che
avessero accettato i principî del suo programma, indipendentemente dalle
concezioni dell’arte o dal consenso all’« estetica futurista ». E
questo indica una presa di posizione più ponderata e meno « di
rottura », almeno in senso sociale. Il documento esprime, negli
intenti, il desiderio di rinnovamento di quelle fasce del combattentismo
inter. ventista, comprese fra i mussoliniani, i sindacalisti tivo-
luzionari, i socialisti e i repubblicani di sinistra, che avreb- bero poi
dato vita alla formazione dei Fasci di Combatti- mento, quelli cui
futuristi ed arditi avrebbero infuso la prima linfa vitale. Si possono
considerare punti essenziali del nuovo programma l'estensione del
suffragio universa- le, comprendente anche le donne, la socializzazione
della terra con assegnazione ai reduci, la tassazione progressi-
va, l'abolizione dell'esercito e la sua
professionalizzazione (volontariato), la giustizia gratuita, la
libertà di sciopero e stampa, le otto ore lavorative e Î contratti
collettivi di lavoro, l'assistenza e la previdenza sociale, la «
tecnicizzazione » clel parlamento e l’introduzione del divorzio. A
diffondere le idee del nuovo partito era destinato il perio- dico Roma
futurista, fondato a Roma da Marinetti, Mario Carli ed Emilio Settimelli,
che vedeva la luce il 20 set- tembre 1918 e portava come sottotitolo «
Giornale del Partito politico futurista ». . « Roma futurista
», racconta Marinetti nel suo libro Futurismo e Fascismo (1924) « nacque
un mese e mezzo prima dell’armistizio, cioè il 20 settembre 1918, e
porta- va nel suo primo numero tre scritti importantissimi dei suoi
tre direttori: Mario Carli, Marinetti, Settimelli. Scri- veva Settimelli:
“Il Futurismo che fino ad oggi esplicò un programma specialmente
artistico, si propone una inte- grale azione politica per collaborare a
risolvere gli urgen- ti problemi nazionali. Coloro che ci accusarono di
squili- brio dovranno ricredersi. I] preconcetto di serietà pedan-
tesca e quietista imposto alla vecchia Italia dai profes- sori
rammolliti, dai preti anti-italiani e dagli affaristi gio- littiani,
cercò di svalutare la nostra genialità di giovani audaci e novatori. Ma
la vera Italia non può rimanere e non rimarrà neppure parzialmente nelle
loro mani inca- paci. La guerra ha rivelato le vere forze italiane. Sono
for- ze giovani, violente, antitradizionali e ultra-italiane” ».
Il primo numero di Roma futurista (decadario, poi settimanale)
pubblicava il programma del giornale mede- simo ed anche il manifesto di
quel Partito Politico Futu- rista che si doveva ancora fondare. Partito
che, nell’inten- dimento di Settimelli, doveva essere « più che altro
una tendenza psicologica », una « fusione di realtà e di scon-
(inamento, di praticità e di lirismo », che avrebbe contri- buito a
creare un nuovo tipo d'italiano. Ma ecco ancora come si esprime «la
volontà» di fondazione del movimento: « Il Partito politico futurista che
noi fondiamo e che or- xanizzeremo dopo la guerra, sarà nettamente
distinto dal movimento artistico futurista. Questo continuerà nella
sua opera di svecchiamento e rafforzamento del genio creatore italiano...
Potranno aderire al partito politico futu- rista tutti gli Italiani,
uomini e donne d’ogni classe e di ogni età... Questo programma politico
segna la nascita del partito politico futurista invocato da tutti gli
italiani, che si battono oggi per una più giovane Italia, liberata
dal peso del passato... ». La firma è di Roma futurista, cioè, come si
presume, del direttore, o anzi di tutti i tre direttori. Ecco
alcuni punti del manifesto-programma del par- tito: « 4) Trasformazione
del Parlamento mediante un'equa partecipazione di industriali, di
agricoltori, di ingegneri e di commetcianti al Governo del Paese. Il
limite minimo di età per la deputazione sarà ridotfò a 22 anni. Un mi-
nimo di deputati avvocati {sempre opportunisti) e un mi- nimo di deputati
professori (sempre retrogradi)... Aboli- zione del Senato... Unica
religione, l'Italia di domani... 10) ...Svalutazione della pericolosa e
aleatoria industria del forestiero... Difesa dei consumatori...
Svalutazione dei diplomi accademici e incoraggiamento con premi
della iniziativa commerciale e industriale... ». Le adesioni
all'iniziativa si fecero subito sentire da diverse parti: ci furono
vecchi futuristi come Auro d'Alba, Rosai e Rocca, reduci dalla guerra
come Bolzon e Bottai (che avrebbe poi rivestito un ruolo di primo piano
nel- l'ambito del nuovo regime fascista) e Massimo Bontempel- li,
secondo il quale il programma fondamentale del futu- rismo politico
sarebbe stato quello di sostituire «la gio- vinezza alla vecchiaia nelle
funzioni direttive ». E non sarebbe stato poco. Sarebbe stato uno dei
tentativi, anche se non del tutto riuscito, dell’insorgente
fascismo. Nel dicembre dello stesso anno 1918, quasi ad
esito naturale della formazione del nuovo partito, poco orga-
nizzato e poco «costituito », s'istituirono invece i « Fasci politici
futuristi », più attivi e vitali particolarmente in diverse città
dell'Italia centrale e settentrionale, la prima ossatura su cui si sarebbero
appoggiati e sarebbero cre- sciuti i muovi « Fasci di combattimento »,
voluti e pro- mossi da Mussolini quattro mesi dopo. Nel febbraio
del '19 i Fasci futuristi erano già una ventina, tra quelli di Roma
(Balla, Carli, Bottai, d'Alba e Chiti), Milano (Mari- netti, Buzzi,
Somenzi e Bontempelli), Firenze (Settimel- li, Rosai, Marasco), Perugia
(Dottori), Genova (Depero), Torino (Azari), e poi ancora Bologna,
Palermo, Napoli, Fiume, Messina, Ferrara, Piacenza, Venezia, Taranto,
Mo- dena, Stradella, ecc. I futuristi avevano quindi accolto con
entusiasmo l'iniziativa e vi si erano immersi fino a determinare una
prima ossatura: l’organizzazione. E Mus- solini a sua volta aveva visto
di buon occhio e seguìto la formazione dei Fasci politici futuristi, sino
a « scopri re » in essi un punto d'appoggio per la sua campagna
combattentistica ed antisocialista che si concretizzerà nei suoi Fasci di
combattimento (quelli di Piazza San Sepolcro). Carli, come condirettore
di Rowza futurista e dietro spinta di Marinetti stesso, caldeggiava da
tempo, anche dalle colonne del suo nuovo periodico, l’avvicen-
damento e l'annessione degli arditi al partito politico, di cui sul primo
numero del giornale si pubblicava il rivolu- zionario programma: era il
20 settembre 1918. Dieci giorni dopo, il 30 settembre 1918, le
proposte politiche si fanno più tecniche, più « specializzate »,
più particolari. Volt firmerà un testo « dinamico » per dichia-
rare: « Sostituiremo il Parlamento con le tappresentan- ze dei sindacati
agricolo-industriali ed operai. La rappre- sentenza sindacale sarà la
base dello “Stato tecnico” futu- rista ». Ma allora di quale
rappresentanza sindacale si ttat- rerà e quale sarà riconosciuta dallo
Stato nella sua veste di personalità giuridica? Sono tutti problemi che
già Volt si pone e così, a suo modo, « risolve », e continua: «To
credo non si debba tener conto del numero degli iscritti al sindacato, ma
della importanza della funzione economica che esso esercita nel Paese ».
Ed ancora, prosegue ad in- terrogatsi: « Quali saranno i limiti posti
all'esercizio del potere dell'assemblea eletta mediante la
rappresentanza sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere
li- mitata alle questioni prevalentemente economiche, che so- no
del resto le più importanti in politica. Le questioni di famiglia, di
politica estera, ecc. dovranno esser risolte II! 'EUE vu SS it:
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in parte mediante il referendum popolare diretto ed in parte
attribuito alla competenza del potere esecutivo ». Gli arditi
venivano poi sciolti nel gennaio del ’19 dai loro reparti di ufficiali,
sottufficiali e truppa, perché considerati provocatori di disordini e di incidenti
nella vita civile. L'iniziativa era stata ovviamente criticata dai
diretti interessati come manovta socialista-giolittiana atta a
disconoscere i loro meriti di guerra. Ed anche Marinetti aveva appoggiato
dalle colonne di Roma futurista 1’« uni- ficazione » (ira futuristi ed
arditi), Alla fine di novembre del ’18 Mario Carli fondava, a
conclusione di questa « campagna », l’« Associazione fra gli Arditi
d’Italia », che fu un po’ l’altra faccia del Partito politico futurista.
In breve, l'associazione atrivò a racco- gliere circa diecimila iscritti,
la maggior parte, forse, degli ex «reparti militarizzati
». Futurismo e arditismo Ormai anche gli arditi, nonostante
lo scioglimento del- la loro organizzazione paramilitare, hanno una
consistenza civile ed in certo modo un loro peso politico. Tanto da
poter fondare un loro organo di stampa che prende a uscire a Milano
dall’11 di maggio 1919: il settimanale L’Ardito, edito dall’Associazione
nazionale, e condiretto da Ferruccio Vecchi e, non a caso, da Mario
Carli. Nello stesso periodo altre furono le voci di stampa allineate
su analoghe posizioni: Armando Mazza, per esempio, fondò a Milano I
remici d'Italia, settimanale « antibolscevico »; il più importante di
questi giornali « minori » fu però L’Assalto, pubblicato a Bologna come
voce dell’arditismo, e diretto da Nanni Leone Castelli. Marinetti ed i
futuri- sti non potevano a questo punto non vedere negli arditi dei
nuovi futuristi politici, così come Mussolini non po- teva non vedere in
loro dei potenziali simpatizzanti e allea- ti. La pronta adesione di
molti di essi ai Fasci di combat- timento lo dimostrerà
definitivamente. Arditismo e futurismo furono dunque componenti
es- dd senziali del nuovo insorgente fascismo. Almeno
dal punto di vista ideologico, o formativo del suo nascere.
Mussoli- ni aveva, per così dire, « abiuraro » il suo vecchio
socia- lismo e aveva bisogno di una forza nuova, una forza idea- le
o di pensiero che gli permettesse il suo «slancio in avanti ». Il
futurismo gliela porgeva già bell'e pronta, o quasi, mentre il precedente
socialismo gli alimentava certi spunti sociali, in parte, almeno, già
presenti nel futurismo. L'arditismo, ancora, gli comunicava una spinta,
una forza di aggressività e di « assalto », che forse gli sarebbe
man- cata, o non sarebbe stata, senza di esso, tanto irruente.
L'11 gennaio il futuro « duce » partecipava a Milano ad una «
serata futurista » contro Bissolati, alla Scala, con- tribuendo in parte
al suo « siluramento ». C'era anche Marinetti e, forse, non fu un caso, e
si trattò di un incon- tro importante. II 23 marzo dello
stesso anno in una riunione milanese a Piazza San Sepolcro, presieduta da
Ferruccio Vecchi, Ma- rinetti tenne un discorso alla presenza di Dessy e
di altri arditi e futuristi, per la fondazione dei Fasci di
combatti- mento, decisa da Mussolini. Questi propose come pro-
gramma ai nuovi raggruppamenti l'abolizione del Senato, il suffragio
universale, il sindacalismo nazionale, ricona- scendo «le rivendicazioni
d'ordine materiale e morale » agli ex-combattenti e rimproverando al
partito socialista di essere stato « nettamente reazionario,
assolutamente conservatore », col negargli così qualsiasi possibilità
di « mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di
ricostruzione ». La conclusione del discorso, antimassima- lista ed
antitotalitaria, era in fondo quanto mai « futu- rista ». Così terminava
il Mussolini: « Noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà
e dell’intelligenza ». Al termine della riunione si nominava un comitato
centrale dei Fasci di combattimento di cui facevano parte anche
Vecchi e Marinetti. Il 1° di aprile Marinetti venne nominato
insieme a Mussolini membro della commissione di lavoro nazionale
per Ia propaganda e la stampa. Ancora in aprile a Milano nuclei di
futuristi, arditi e « principianti » fascisti assali- tu
rono la sede del quotidiano socialista Avanti! Il giorno dopo i «
fattacci » del 15 aprile, visto il mancato inter vento delle forze
dell’ordine nel prender provvedimenti contro i promotori dell'azione,
Vecchi e Marinetti emise- ro un « proclama agli italiani » a nome dei
futuristi, degli arditi e dei fasci: « Nella giornata del 15 aprile
avevamo assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna
controdimostrazione perché prevedevamo il conflitto e ab- biamo orrore di
versare sangue italiano. La nostra con- trodimostrazione si formò,
spontanea, per invincibile vo- lontà popolare. Fummo costretti a reagire
contro la pro- vocazione premeditata degli imboscati. Col nostro
inter- vento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quat-
tro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono diri- gere e
dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia ». La « controdimostrazione »
si riferisce ad una manifestazione socialista all'Arena, cui seguì la «
battaglia di Via Mer- canti », dove furono chiari, secondo i reduci,
alcuni mo- menti di provocazione nei confronti del combattentismo
{da qui, l'assalto all’Avanti!). Sempre nell'aprile del *19 esce a
Milano per i tipi del- l’Editore Facchi un volume politico di Marinetti,
forse il suo più importante: si tratta di Democrazia futurista, che
porta come sottotitolo « dinamismo politico ». E' una rac- colta di
articoli apparsi su Roma futurista e che appari ranno sul nuovo giornale
di Vecchi, L’Ardito, generoso sempre di spazio per Marinetti. Questi
definisce il suo « concetto democratico » in un altro articolo edito in
apri- le sempre dall’Ardito: « Vogliamo dunque creare una vera
democrazia cosciente e audace che sia la valutazione e l'esaltazione del
numero poiché avrà il maggior numero di individui geniali. L'Italia
rappresenta nel mondo una specie di minoranza genialissima tutta costituita
di indivi- dui superiori alla media umana per forza creatrice,
inno- vatrice, improvvisatrice. Questa democrazia entrerà natu-
ralmente in competizione con la maggioranza formata dal- le altre
Nazioni, per le quali il numero significa invece massa più o meno cieca,
cioè democrazia incosciente ». Certo, si tratta di una nuova cancezione
di democrazia, 26 che con quella tradizionale, anche
attuale, non ha niente a che vedere. E' una lotta di democtazie, o una
demo- crazia di lotta, il che alla fin fine non è poi molto
diverso. E’ una vera e propria concezione dinamica. Che, tanto per
tener conto del suo opposto si mette a confronto, a dire di Marinetti,
così: « Arturo Labriola definisce la de- mocrazia "come sentimento
dei diritti concreti della mas- sa sullo Stato e sulla Economia“... Noi
intendiamo la de- mocrazia italiana come massa di individui geniali,
divenu- ta petciò facilmente cosciente del suo diritto e natural
mente plasmatrice del suo divenire statale. La sua forza è fatta di
questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità valore, meno il
peso delle cellule morte (tradi. zione), meno il peso delle cellule
malate (incoscienti, anal- fabeti). La democtazia italiana è per noi un
corpo umano che bisogna liberare, scatenare, alleggerire per
accelerar- ne la velocità e centuplicarne il rendimento... ». Come
potrebbe essere più futurista e avanzata questa nuova con- cezione
democratica « progressiva »? Che così, giustamen- te, si conclude e si
definisce: «La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente
vibrare tutte le sue cellule vive ». E’ il punto d'arrivo,
logico e conseguenziale, di una concezione « d’assalto ». E per la
definizione ulteriore del- le posizioni e dei concetti, il 27 aprile 1919
ancora, sulle pagine di Roma futurista, un testo di Mario Carli
(Non chiamatela reazione) afferma: «Non è per l’ordine, non è in
difesa dell’autorità costituita o della borghesia vile, non è in appoggio
alla così detta “benemerita” che noi ci siamo battuti a Milano, e ci
batteremo altrove, se se ne presenterà l’occasione. Ma è per un'idea, per
un princi- pio: è per l’idea di patria, è per il principio di
progresso, che noi crediamo realizzabile con mezzi e con metodi op-
posti a muelli dei rivoluzionari russi ». Ciò nonostante Gramsci e
Lunaciarsky, al TI Congres- so dell'Internazionale comunista, difendono i
futuristi ita- liani e li considerano veri e propri « rivoluzionari ».
E Lenin medesimo dità a Giacinto Menotti Serrati, che, co-
DI A me direttore dell’Avanti!, si era
recato a Mosca a respi- rare il nuovo comunismo: «In Italia ci sono
soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,
D'Annunzio e Marinetti ». Mentre a proposito di questo ultimo, cioè di
Marinetti e del suo movimento futurista, Gramsci così annotava in un suo
articolo pubblicato su Ordine nuovo nel 1921: « Distruggere, in questo
campo, non ha lo stesso significato che nel campo economico...
significa non avere paura della vanità e delle audacie, non avere paura
dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di
grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un
cartellone... I futu- risti hanno svolto questo compito nel campo della
cultura borghese... hanno avuto cioè una concezione nettamente
rivoluzionaria ». E continuava a migliore definizione del concetto: «
...Quando i socialisti si sarebbero spaventati al pensiero che bisognava
spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica, i
futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari:
in que- sto campo, come opera creativa, è probabile che la classe
operaia non riuscirà per molto tempo a far di più di quan- to hanno fatto
i futuristi! » L'11 luglio del '19 Marinetti otteneva un biglietto
d'’in- vito alla Tribuna di Montecitorio. Andò con Ferruccio
Vecchi, gran capitano, ad aspettare un momento opportu- no per l’«
intervento ». L'occasione fu data alla fine del discorso di un deputato socialista
(Lucci). Martinetti si sporse e, rivolto a Nitti, gridò: « A nome dei
Fasci di Combattimento, dei futuristi, e degli intellettuali,
prote- sto per la vostra politica e vi urlo: Abbasso Nitti! Morte
al Giolittismo! Dichiaro che non può sussistere il Mini- stero dei sabotatori
della Vittoria, degli schiaffeggiatori de- gli ufficiali, un ministero
che si difende coi carabinieri e coi poliziotti!.. Vergognatevi! La
gioventù italiana, per bocca mia, vi urla: Fate schifo! Fate schifo! ».
Vecchi an- cora inveisce a voce alta contro Nitti, mentre Marinetti
lotta con usceri e carabinieri, come descrive egli stesso nel suo
Futurismo e Fascismo di cinque anni dopo. L’indoma- ni avrebbe ricevuto
da D'Annunzio la presente missiva: 2R « Mio caro
Marinetti, bravo per il grido di ieri, coraggioso come ogni vostro atto.
Vorrei vedervi. Se potete, venite. Il vostro Gabriele D'Annunzio ».
In settembre Mario Carli, con Mino Somenzi ed altri futuristi,
partecipano con D'Annunzio alla presa di Fiume (11 del mese): vi si
recheranno anche Vecchi e Marinetti a tenere discorsi ai legionari. Anzi,
i due personaggi sembra fossero considerati, a dire di De Felice «
facinorosi sovver- sivi » o addirittura in qualche caso « bolscevici »,
per il loro atteggiamento intransigente ed estremistico.° Tanto che
si era detto fossero stati espulsi da Fiume, mentre erano stati solo
richiamati da Paselia, segretario politico dei Fasci, che aveva bisogno
di loro per l'organizzazione, forse, del primo congresso fascista.
All'inizio di ottobre, infatti, Marinetti partecipa a Firenze al I
Congresso dei Fasci di Combattimento dove, dopo l'intervento di
Mus- soltni, parla a futuristi, arditi e fascisti sostenendo la ne-
cessità dello « svaticanamento »: « Noi dobbiamo doman- dare. volere,
imporre », dice fra l’altro il capo del futu- rismo, « l’espulsione del
papato, o meglio ancora, per usa- re un'espressione più precisa, lo
“svaticanamento” ». Nel novembre le elezioni generali vengono
condotte a Milano all'insegna del « blocco fascista » con lista autono-
ma di Mussolini, Marinetti (secondo), Toscanini, Podrec- ca e Bolzon.
Comizi elettorali si tennero a Milano in Piaz- za Belgioioso (10
novembre) e in Piazza S. Alessandro e a Monza, dove parlarono sempre «
accoppiati » Marinetti e Mussolini. Dopo il 16 novembre, giorno delle
votazioni, in seguito ad incidenti coi socialisti, Marinetti, Vecchi
e Mussolini furono atrestati sotto l'accusa di attentato alla
sicurezza dello Stato ed organizzazione di bande armate, come afferma
ancora il De Felice. Breton e Aragon, direttori della rivista
Littersture, or- ganizzano a Parisi una manifestazione di solidarietà a
Ma- tinetti: sono i momenti di affermazione del dadaismo e del
muoversi, lento, verso il surrealismo. Renzo De Felice, Mussolini
i! Rivoluzionario, Gli incontri e gli scontri, oltre che gli incidenti,
tra socialisti e futuristi non etano cosa nuova. E la « battaglia
di Via Mercanti » del 15 aprile fu solamente il punto di arrivo di una
vecchia e lunga polemica. Già negli anni prebellici il futurismo si
era scontrato col socialismo neutralista (Turati), che non poteva
andar d’accordo con un movimento intrinsecamente interventista.
Lacerba, per esempio, entrava nella polemica affiancandosi al futurismo e
pubblicando, il 15 ottobre del ’13, quel famoso Programma politico
futurista, esaminato in pre- cedenza. La postilla di Giovanni Papini non
fa altro che convalidare, sia pure con riserva, la sostanza del
pro- gramma. A proposito di socialismo interviene poi nel '14
sempre sv Lacerba, Ardengo Soffici, affermando nel suo articolo Per
la guerra che « l’idea che i socialisti si fanno del mon- do è questa: un
capitalista borghese e sfruttatore alle prese con un magro popolano
sfruttato. La cultura, le scienze, le arti, la bellezza, i sentimenti,
gli amori, le passioni — tutto ciò insomma che fa la vita così
terribilmente com- plessa, così colorita, così varia, multiforme,
incoetcibile — non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l'universo intero
una specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,
eterna, in mezzo alla quale un ragno cetca di succhiare una mosca alla
quale Karl Marx ha insegnato che non deve lasciarsi succhiare ». Sicché,
conclude Soffici, i socia- listi nemmeno capiscono che si combatte una
guerra per difendere anche, magari, le loro stesse idee, o il mondo
dove l’idea socialista è nata e cresciuta, contro i nemici medesimi del
socialismo e dei socialisti: i tedeschi. Ma questo non ha nessuna
importanza, « giacché, ed eccoci alla mentalità di codesto partito, ogni
buon socialista non vede nella guerra, qualunque essa sia, se non una
lotta di capitalisti e banchieri contro capitalisti e banchieri i
quali si servono del proletariato per liquidare le loro partite ».
La polemica continua com'è logico, dopo la guerra. Il primo ad
accenderla è Mario Carli su Roma futurista con un articolo del 13 luglio
1919, che ha un titolo signi- ficativo: Partiti d'avanguardia: se
tentassimo di collabora- re? Laddove si considera « partito d'avanguardia
», ovvia- mente, anche quello socialista, che tanta parte ha
esercita- to nella storia d'Italia. « Ho esaminato seriamente
l'ipo- tesi », esordisce Carli, « di una collaborazione fra noi
{futu- risti, arditi, fascisti, combattenti, ecc.) e i Partiti
cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti,
re- pubblicani... Il terreno comune c’è... E' la lotta contro le
attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chia. mino
borghesia e plutoctazia o pescecanismo o parlamen.- tarismo... sono una
casta che deve cadere e cadrà », E cad- de infatti, come sappiamo, però
non certo per merito di quei socialisti con cui Carli stava cercando di
trovate un punto di contatto, sia pur rendendosi conto che la collabo-
razione sarebbe stata difficile per non dire impossibile o, peggio,
inutile. Ciò nonostante Giuseppe Bottai farà eco alla sua
tesi con un paio di lunghi articoli: uno del 9 novembre e l'al. tro
del 21 dicembre 1919 entrambi col titolo Futurismo contro socialismo, il
cui succo riesce già evidente. « Noi siamo contro il socialismo »,
afferma Bottai, « perché astra- zione filosofica senza possibilità di
contatti vitali. Simbolo che si agifa nel mondo da secoli, e di cui mai
si è trovato, e mai si troverà la formula di traduzione in positivi
sviluppi di masse sociali... Noi siamo contro l’idea socialista
perché sosteniamo la necessità della diseguaglianza... Siamo con-
tro il socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria ». Ii 14
dicembre sempre del 1919, tuttavia, certo Man- narese, avversario,
pubblica un articolo per espotre l’impos- sibile intesa fra le due
avanguardie, o l'impossibilità di ac- cordo in unione d’intenti e di
lavoro. Il Mannarese sotto- linea l'identità di socialismo e masse
proletarie con loro relative e legittime aspirazioni. Romza futurista non
gli ne. sa spazio, ospitandolo apertamente e liberamente. Ci
pensa Bottai a rispondere e confutare Mannarese col suo secondo articolo
preciso ed aggressivo. Il titolo: Insisto: futurismo contro socialismo;
la data, 21 dicembre dello stesso anno. La posizione polemica si
specifica e si SAI puntualizza: « Prima
caratteristica del futurismo è questa, libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza:
e se il salumaio ci crede oggi difensore dei suoi salami, delle sue
salsicce, poco male! ciò potrà darci la prova della sua minchioneria,
non già infirmare l'esattezza del grido “futurismo contro socialismo”
». L’intonazione antibotghese è evidente e forse si spo- sa,
per così dire, con quella antisocialista, essendo l'una complementare
all'altra, e viceversa. Non si può essere antisocialisti senza essere
antiborghesi, e viceversa non si può essere antiborghesi senza essere
antisocialisti, sembra quasi che dica Giuseppe Bottai, e l’invettiva
contro il sa- lumaio non ha nient'altro che questo sapote...
L'equazione « socialismo-proletariato », sostenuta dal Mannarese, è vacua
e falsa, dice Bottai, e bisogna distin- guere, perché va da sé, afferma,
che «il socialismo è uno dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo è
mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni delle classi ».
Lo esempio dato poi, del fenomeno dell’arditismo, è quanto meno
sufficiente e significativo a smentire una tesi tanto inutile. Infatti, «
in parecchi mesi di convivenza con le fiamme nere mi son trovato attorno
solo contadini, ope- rai, lavoratori-proletari! »; e gli arditi non erano
certo so- cialisti, anzi. Tuttavia l’autore è ben consapevole della
« portata economica » del socialismo e nello stesso tempo delle esigenze
dei ceti umili o dei proletari, e degli scompen- si derivanti da queste
esigenze anche per la loro « cattura » da parte di un socialismo
ignorante e incapace. L'individuazione dell'errore di dimensione
del sociali smo è evidente, nonostante i successi già conseguiti.
Tanto che, concludeva il Botrai, nel cogliere le possibilità della
formazione di un letale assolutismo, con la postulazione del- la
differenziazione futuristica da esso, intesa nella diffusione di programmi
e di rimedi economici: « Noi siamo per la elevazione del popolo, e non
per l'assolutismo di esso ». Dove « il nai », è evidente, si riferisce ai
futuristi ed al loro movimento. « Tirando le somme », alla
fine, si postula petsino un programma, quasi, nei rapporti col
socialismo, di cui i 32 punti più interessanti sono
il secondo ed il quarto, cioè l'ultimo. Il secondo postilla una «
possibile comunanza di vedute economiche: il che non implica nessuna
fusione »; l'ultimo sostiene e ribadisce, sottolineandolo tutto in
maiu- scolo: « CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOLE DI- RE CONTRO IL
PROLETARIATO ». La miopia del socialismo nella considerazione dei
futu- risti appare evidente e inequivocabile. E si parla del so-
cialismo dei primi del secolo, quello storicamente più « ca- pace » di
quanto non lo sia l'attuale, e consono ad una realtà « epocale » ad esso,
tutto sommato, più favorevole. L’esito del socialismo italiano, confluito
in massima parte nel fascismo, non fa che confermare l'opinione o
l’ipotesi dei futuristi, che avevano saputo vedere la sua « minima
portata » da inserire, eventualmente, nel panorama di una prospettiva ben
più vasta e diversificata. A Fiume Gabriele D'Annunzio dà alla luce la
sua « Carta del Carnaro ». Siamo agli inizi del ’20 e la nuova
proclamazione statutaria sarà base fondamentale per la suc- cessiva
politica sindacale fascista (si veda la Carta del La- voro ad esempio).
Sempre a Fiume Mario Carli dirige il nuovo foglio di vita istriama La
Testa di Ferro, sulle cui colonne (la seconda, per l'esattezza, della
prima pagina) ;l 12 settembre esce un riquadro firmato da Marinetti.
Che così commenta la Prima vittoria della quindicesima batta- glia,
come dice il titolo della pagina: « Nell’applaudite oggi D'Annunzio,
liberatore di Fiume, penso che questo mera- viglioso genio riassuntivo
della nostra razza, uscito dalle alcove del Pizcere... dopo aver
esplorato le profondità del la lussuria... ha logicamente... strappato
Fiume all’imperia- lismo europeo e americano, ed ora deve, seguendo la
linea della sua fortuna inesauribile, logicamente, con genio sem-
pre più rivoluzionario e futurista, liberare Roma dal Pa- pato e dalla
Monarchia, e creare la grande Repubblica Ita- liana ». Siamo di fronte
aul'« ittedentismo integrale » che i futnristi sostenevano contro l’«
irredentismo mutilato » di Bissolati, favorevole al Patto di Londra. Di
cui il movimento per contro chiedeva un’« estensione », oltre che una
modi- ficazione del Patto di Roma in modo che si potesse favo- rire
l’inserimento italiano sulla costa dalmata e garantire all'Italia
l'egemonia sull’Adriatico. Il Trattato di Rapallo, poco dopo, dichiarerà
Fiume «città libera » ed assegnerà Zara all'Italia. 11 24 e
25 maggio dello stesso anno si tiene a Milano il IX Congresso dei Fasci
di Combattimento, che segna una svolta del movimento o anche — si
potrebbe dire — una sua conversione in senso « conservatore ». Si assiste
ad un parziale ma consistente ricambio del nucleo dirigente fa- scista.
Solo 10 membri su 19 del comitato centrale eletto a Fitenze vengono
riconfermati: tra essi Marinetti e Ferruc- cio Vecchi.
Mussolini sostiene un nuovo indirizzo: l'accordo fra proletariato e
borghesia produttiva, tipico di quel fascismo « provinciale » che stava
prendendo il sopravvento. Mari- netti reagisce confermando la sua
intransigenza antimonar- chica ed antipontificia. I Fasci di
Combattimento, come riporta ancora il De Felice, avrebbero dovuto,
secondo Marinetti, iniziare « una politica decisa in difesa delle
ri- vendicazioni proletarie, appoggiando e scioperi e agitazio- ni
che siano fondati o formulati su un principio di giu- stizia ». Mussolini
aveva cercato di replicare che i Fasci « hanno anzi aiutato gli scioperi
che avevano un chiaro contenuto economico », ma aveva sottolineato di non
po- ter accettare la pregiudiziale antimonarchica e: « Quanto al
Papato, bisogna intendersi: il Vaticano rappresenta 400 milioni di uomini
sparsi... Io sono, oggi, completamente al di fuori di ogni religione, ma
i problemi politici sono problemi politici. Racconta lo stesso capo
del futurismo nel suo volume Futurismo e Fascismo pubbli cato
quattro anni dopo, « Marinetti e alcuni capi futuri- sti escono dai Fasci
di Combattimento, non avendo potuto imporre alla maggioranza fascista la loro
tendenza antimonarchica e anticlericale ». Gli altri «capi futuristi»
sono Mario Carli e Neri Nannetti, appena eletto a Milano come membro del
comitato centrale per Firenze. Ferruccio Vecchi si allontanò dai Fasci
poco dopo, anche per la crisi interna che stava attanagliando l’«
Associa- zione fra gli Arditi d’Italia ». La spaccatura
risulta evidente all'uscita dell’opuscalo Al di là del comunismo,
pubblicato in agosto da Marinetti, per giustificazione alle sue
dimissioni ed in risposta allo svuotamento della portata rivoluzionaria,
o futurista, dei Fasci di Combattimento. Al di lè del Comunismo
sarà la sua seconda opeta politica (dopo Democrazia futurista, del
’19), quella più ricca di spunti e di idee: quella, in- somma, sua
fondamentale. L'opera è dedicata sul colophox « Ai futuristi
francesi, inglesi, spagnoli, russi, ungheresi, rumeni, giapponesi
»: it che esprime già tutto un programma. Fra le sue tesi, dd
esempio queste: « Noi futuristi abbiamo stroncato tut- te le ideologie
imponendo dovunque la nostra nuova con- cezione della vita, le nostre
formule d’igiene spirituale, il nostto dinamismo estetico, sociale,
espressione sincera dei nostri temperamenti d’italiani creatori e rivoluzionari...
L'umanità cammina verso l'individualismo anarchico, me- ta e sogno di
ogni spirito forte. Il Comunismo invece è una vecchia formula
mediocrista, che la stanchezza e la paura della guerra riverniciano oggi
e trasformano in mo- da spirituale... La storia, la vita e la terra
appartengono agli improvvisatori. Odiamo la caserma militarista
quanto la caserma comunista. Il genio anarchico deride e spacca il
catcere comunista ». Fu questo passo a provocare la reazione
dell’Ardito? Che ben presto si fece sentire, a più riprese, per
deni- grare il volumetto marinettiano, mentre al contrario La Testa
di Ferro ad opera di un gruppo di futuristi fiumani (e di Mario Carli,
ardito a sua volta) elogiava pubblica- mente ed ardentemente il nuovo
testo. Bottai, già futu- tista, interverrà ben presto (sul n. 35
dell’Ardito) con una «lettera aperta a F.T. Marinetti » per mettere in
ri- salto la sua posizione critica all’atteggiamento anarchicheg-
piante dello scritto, inconciliabile con qualunque espressione di potere, sia
pur di tipo « tecnico », come quello a suo tempo proposto dallo stesso «
padre » del futuri smo. L'attacco di Bottai è senz'altro il più
autorevole e i] più significativo. L'ideologia del fascismo-regime
(da parte di un mini stro in pectore come Bottai) cominciava già a farsi
sen- tire. E si chiudeva, ovviamente, almeno sul terreno sto- rico
della prassi politica, l'ideologia del fascismo-movi- mento, quello
dell’intransigenza e del fervore mistico, del libertarismo e
dell'avanguardia, dell'anarchismo e dell’an- tiautoritarismo verso la
monarchia ed il papato. Il pos- sibilismo politico e il realismo tattico
per la conquista del potere subentrano e il fascismo-regime si muove
or- mai, anche se lentamente, sotto la guida del suo abile e «
compromesso condottiero ». A Marinetti non restano che le
dimissioni, e dopo il suo « canto del cigno » politico (Al di là del
comunismo), il ritorno alla letteratura. 10. La dimensione
futurista Nel 1921 esce a Piacenza per i tipi dell'Editore
Porta il volume di Francesco Flora Dal Romanticismo al Fu- turismo.
Il giudizio più interessante è senz’altro quello di Luigi Russo, che così
si esprime al proposito: «Il Flora, mentre vi grida il superamento
sillogistico dell’ar- te decadente, la guarigione del suo spirito dal
generale futurismo, passa poi egli stesso a fare troppo rumorosa e
compiaciuta mescolanza con quell'arte e con quel futu- rismo ».
Pirandello pubblica nello stesso anno I sei per- sonaggi in cerca d'autore.
Marinetti sostiene che sono ispirati al futurismo e al suo spirito
creatore. Il con- gresso socialista di Livorno si spacca, e dalla
scissione si forma il neonato partito comunista. A Catania vede la
luce la nuova rivista futurista Heschisch. Nel 1922 il fascismo
salirà definitivamente al potete. Marinetti fonda una nuova rivista, I{
Futurismo, che di- rige in prima persona. A Berlino sarà poi tradotta
in edizione tedesca (Der Futurismus), a cura di Ruggero Va- sari.
Bragaglia fonda a Roma il Teatro Sperimentale de- gli Indipendenti, primo
teatro stabile italiano, da Ivi di retto fino al ’36: metterà in scena
duecento opere d'’avan- guardia fra quelle di autori italiani e
stranieri. A_ Monza si crea l’Istituto Superiore delle Arti decorative,
trasfor- mato poi in Biennale e dal ’30 definitivamente in Trien-
nale, con sede nel palazzo di Milano (al parco, arch. Mu- zio).
Mussolini, dopo la marcia su Roma del 28 ottobre, forma il governo con radicali
e liberali, e istituisce il Gran Consiglio del Fascismo.
Giuseppe Prezzolini, come sempre lucidamente, poco prima del « grande
ritorno » del futurismo al fascismo, metteva ancora una volta in risalto
«come possa l'arte futurista andare d'accordo con il Fascismo italiano,
non si vede. C'è un equivoco, nato da una vicinanza di per. sone,
da un’accidentalità d’incontri, da un ribollire di forze, che ha portato
Marinetti accanto a Mussolini. Ciò andava bene durante il periodo della
rivoluzione. Ciò stona in un periodo di governo. Il Fascismo
italiano non può accettare il programma distruttivo del Futuri smo,
anzi, deve, per la sua logica italiana, restaurare | valori che
contrastano al Futurismo. La disciplina e la gerarchia politica sono
gerarchia e disciplina anche lette- raria. Le parole vanno all’aria
quando vanno all'aria le gerarchie politiche. Il Fascismo, se vuole
veramente vin- cere la sua battaglia, deve ormai considerare come
as- sotbito il Futurismo in quello che il Futurismo poteva avere di
eccitante, e di reprimerlo in tutto quello che esso consetva ancora di
rivoluzionario, di anticlassico, di indisciplinato dal punto di vista
dell’arte » (da I/ Secolo, 3 luglio 1923). Nel marzo dello
stesso 1923 s'inaugura alla Galleria Pesaro di Milano una mostra dell'«
Arte del Novecento ». Si trattava di un gruppo formatosi alla fine del
’22 in- torno alla medesima galleria milanese, che affiancava la
nuova tendenza del regime in senso conservatote, già san- cita dal 2°
Congresso Fascista (Milano, maggio 1920). L'animatrice del nuovo
movimento « Arte del Novecen- 37 to» era Margherita
Sarfatti. Il gruppo fu accolto, nean- che due anni dopo dalla sua
costituzione, alla Biennale veneziana del ’24, e si affermò
definitivamente attraverso due ulteriori mostre: una del '26 al Palazzo
della Perma- nente a Milano, e l'altra del ’29 alla Galleria
Pesaro, sempre a Milano. I futuristi invece, rimasti esterni al
regime e aderenti ancora, in fondo, all'avanguardia, fu- rono ammessi
alla Biennale solo nel ’26, e fuori dal pa- diglione italiano
additittura. All'inaugurazione della Biennale, Marinetti si rivolge al
Re, a Venezia in visita ufficiale, e gli de- nuncia gridando
«l’incapacità senile e antitaliana della Direzione, che massacra i
giovani artisti italiani ». L’in- tervento di Marinetti suscita scandalo.
Tuttavia nello stes- so anno 1924 si verifica anche un cetto
riavvicinamen- to tra futurismo e fascismo, e forse anche tra
Marinetti e Mussolini. L’occasione viene data dall’edizione della
terza ed ultima opera politica del capo futurista, che, co- me già detto,
s'intitola Futurismo e Fascismo, ed esce a Foligno per i tipi
dell'Editore Campitelli. Ancora nello stesso anno escono diverse
altre signifi- cative testate, futuriste ma anche fasciste. Mino
Maccari fonda I! Selvaggio (organo del fascismo strapaesano) ed
Enzo Benedetto a Reggio Calabria pubblica il foglio fu- turista
Originalità, da lui stesso direrto: compaiono fra i suoi collaboratori
Marinetti, Jannelli, Nicastro e Sanzin, Quest'ultimo scrive un saggio su
Marinetti e il futurismo. Gerardo Dottori, altra collaboratore di
Originalità, crea le prime aeropitture, che si affermeranno in seguito
come espressioni del « secondo futurismo ». A Milano si
tiene il Primo congresso futurista e So- menzi vi organizza le onoranze
nazionali a Marinetti. Siamo al 23 di novembre 1924, ore 10, al Teatro
Dal Verme di Milano. Mino Somenzi legge il telegramma di Mussolini:
« Considerami presente adunata futurista che sintetizza 20 anni di grandi
battaglie artistiche politiche spesso consacrate col sangue. Congresso
deve essere punto di partenza, non punto di arrivo. Credi mia cordiale
ami- cizia e ammirazione ». Alle 16 parla Marinetti, che conclude i
lavori del congresso, così rivolgendosi all’indirizzo del « duce »: «I
futuristi italiani, primi fra i primi in- terventisti nelle piazze e sui
campi di battaglia, e primi fra i primi diciannovisti più che mai devoti
alle idee ed all'arte, lontani dal politicantismo, dicono al loro
vecchio compagno Benito Mussolini: Con un gesto di forza ormai
indispensabile liberati dal parlamento. Restituisci al Fa- scismo ed
all'Italia Ia meravigliosa anima diciannovista, disinteressata, ardita,
antisocialista, anticlericale, antimo. narchica. Concedi alla Monarchia
soltanto la sua provvi- sotia funzione unitaria, rifiutale quella di
soffcare o mor. finizzare la più grande, la più geniale e la più giusta
Italia di domani. Non imitare l’inimitabile Giolitti, imita il
Grande Mussolini del diciannove. Pensa sempre all’Italia immortale ed al
Carso divino. Schiaccia l'opposizione cle. ricale antitaliana di Don
Sturzo, l'opposizione socialista antitaliana di Turati e l'opposizione
mediocrista di A’ bertini con una ferrea dinamica aristocrazia di
pensiero armato che soppianti l’attuale demagogia d’armi senza
pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo volerlo e lo vogliamo ».
Lo vollero, ma non lo realizzarono. La volontà può essere bella, ardita,
ispira ai più alti sensi di giustizia, anche se non sempre la
realizzazione le tiene dietro. Come in questo caso. Mussolini
telegrafa ancora il 1° marzo del ’25 ad un banchetto « romano » offerto
da Carli e Settimelli a Ma: rinetti: « Sono dolente di non poter
intervenire al ban: chetto ofterto a F.T. Marinetti. Ma desidero che vi
giun- ga la mia fervida adesione che non è espressione formale ma
vivo segno di grandissima simpatia per l’infaticabile e geniale assertore
di Italianità, per il poeta innovatore che mi ha dato la sensazione
dell'oceano e della macchi- na, per il mio caro vecchio amico delle prime
battaglie fasciste, per il saldato intrepido che ha offerto alla Pa
tria una passione indomita consacrata dal sangue ». Ma. rinetti si era
già trasferito a Roma con Benedetta. La capitale diveniva così anche
centro del futurismo. In que. sta stessa occasione Marinetti dichiarava,
un'altra volta inascoltato: « Vi sono in Italia forze che osteggiano
la nostra idea imperiale, combattiamole, non dimenticando però fra
queste la più segreta e la più antitaliana: il Vaticano! ».
Un discorso di Mussolini alla Camera (3 gennaio 1925) dà inizio al
vero fascismo-regime. A Tortino si tiene a Palazzo Madama un'esposizione
nazionale futurista. La tendenza al riavvicinamento ira i due movimenti è
già indicata nella dedica di Futurismo e Fascismo: « Al mio caro e
grande amico Benito Mussolini ». Il che dimostra, in fondo, una certa
volontà di non troncare i contatti: ma anche gli scritti raccolti, gli
articoli e le tesi sostenute sono di tipo più che altro conciliativo.
Mussolini vi è definito « meraviglioso temperamento futurista »: e
non risuoni però ad adulazione, perché il tentativo di recu- pero
del futurismo in senso artistico e letterario (o cul turale in senso lato)
è evidente, nonostante l'occasionale « dimensione » del movimento
nell'attività e nell'impegno politico. Non senza motivo, il volume prende
inizio con queste parole: «Il Futurismo è un grande movimento
antiflosofico e anticulturale di idee, intuiti, istinti, pu- gni... ». E
subito dopo: « Fra le tante definizioni io predi- ligo quella data dai
teosofi: “I futuristi sono i mistici dell’azione”. Infatti i futuristi
hanno combattuto e com- battono il passatismo... ». Il nuovo regime e la
portata storica di realizzazione di quello che si considera il
patri- monio del futurismo è così giudicato: « Vittorio Ve- neto e
l'avvento del Fascismo al potere costituirono la realizzazione del
programma minimo futurista ». Dove si dimostra in fondo la connessione
inscindibile tra futuri. smo e fascismo, ma nello stesso tempo il
distacco, in questa realizzazione « minimale »; comunque la
mancanza di coincidenza totale delle entità ideali dei due blocchi.
« Questo programma minimo », specifica ancora Ma- rinetti, «
propugnava l'orgoglio italiano... la distruzione dell'impero
austro-ungarico, l’eroismo quotidiano, l'amore del pericolo... ». Ma,
alla fine, quello che più conta è che «il Futurismo italiano, tipicamente
patriottico, che ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha
nulla a che fare coi loro atteggiamenti politici, come
quello bolscevico del Futurismo russo, divenuto arte di Stato ». Il
futurismo italiano fu sempre italiano, non mai italiano di Stato.
« Il futurismo », afferma ancora il nostro, «è un mo- vimento
artistico e ideologico. Interviene nelle lotte po- litiche soltanto nelle
ore di grave pericolo per la Nazio- ne », E un'altra volta a migliore
definizione della posi- zione concettuale o della sua immagine: « Il
Fascismo nato dall'interventismo e dal Futurismo si nutrì di prin-
cipî futuristi... Il Fascismo opera politicamente... Il Fu- turismo opera
invece nei domini infiniti della pura fan- tasia, può dunque e deve osare
osare osare sempre più temerariamente. Avanguardia della sensibilità
artistica ita- liana, è necessariamente sempre in anticipo sulla
lenta sensibilità delle masse ». La consapevolezza della
difficoltà del consenso è più che sentita, ed è convinzione al tempo
stesso che il fa- scismo sia più capace di farsi accogliere o di
comunicare certe necessità, e certi principî. E la convinzione
implica la coscienza che sia il fascismo ad aver raccolto © mutuato
idee e « posizioni » dal futurismo, solo ed esclusivamente. Senza che mai
sia avvenuto il contrario. Ed appare evi- dente, perché non viene mai
fatto cenno a questa secon- da ipotesi: che cioè sia stato il futurismo
ad attingere al fascismo. Anche se affiora l’« autocritica »,
l’interroga- zione, il domandarsi sotterraneo della coscienza...
« Il lettore domanderà: “Ci sono idee futuriste su- perate o da
scartarsi, oggi?” Nulla da scartare. Le idee vittoriose tengano
fermamente le posizioni conquistate. Per esempio questo principio: “Noi
vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo... le belle idee
per cui si muore e il disprezzo della donna”, fu una pietrata fe-
roce ma necessaria nel pantano letterario di sentimenta- lismo
dannunziano sulle cui rive singhiozzavano i gio- vani malati di luna e di
donne fatali ». La condanna della decadenza di un romanticismo
fiac- co e sdolcinato che ha irretito la realtà della Penisola è
quanto mai chiara ed evidente. E la volontà di scuoterla per una
necessità di spirito, per una volontà di resurrezione, per una coscienza ancora
viva di grandezza e di capacità creativa e rinnovatrice, porta
inevitabilmente allo scontro e alla conflagrazione, quella della guerra,
che è guerra di sentimento e di volontà, prima ancora che di
occasione politica. « Oggi », continua Marinetti, « l'Italia è
piena di gio- vani forti e sportivi. Ma molti purtroppo sacrificano
ad una donna la loro volontà di conquista e l'avventura... Dopo
Vittorio Veneto io predicai la necessità per ogni combattente di
diventare un cittadino eroico... Oggi esi- ste uno Stato fascista che
tutela il diritto individuale. Ma bisogna alimentare ancora lo spirito
del cittadino eroi- co, amico del pericolo e capace di lotta, poiché
occorretà improvvisare domani gli indispensabili volontari della
nuo- va guerra. Questa, lo ripeto, è certa, forse vicina. Perciò è
sempre vivo il grido futurista: glorifichiamo la guerra sola igiene del
mondo! Il Futurismo interprete delle for- ze telluriche, il Futurismo,
manometro della nostra pe- nisola (caldaia bollente!), odia i macchinisti
incapaci. Si palesano tali i culturali d’Italia che verniciati di
patriot- tismo parlano oggi d’Impero, con un'anima pacifista pron-
ti ad imboscarsi al minimo pericolo. Essi ignorano che Impero significa
guerra. Votrebbeto conquistarlo con una lezione sulla Roma Imperiale! ».
Ecco, ancora, la coscien- za di cui parlavamo prima: quella della
curiosità anti- quaria di una cultura d’accatto non più in grado di
te- nere il passo della storia e di muovere lo spirito della
giovinezza vittoriosa. Marinetti lo coglie e lo esptime in una
testimonianza, ancora una volta, di vita e di speran- za, che è vita
perché è speranza del futuro. « Noi futuristi parliamo d’Impero
convinti e lieti di batterci domani... Parliamo d’Impero perché è venuto
per l’Italia il momento di prendere le tetre indispensabili... IÎ
programma politico futurista lanciato l’11 ottobre 1913 che propugnava
una politica estera cinica astuta e aggres- siva è più che mai di
attualità. Le idee vittoriose tengano fermamente le posizioni
conquistate. Le nuove idee si slancino all'assalto. Marciare non matcite!
». Firmato: F.T. Marinetti. 42 Il futurismo ha
dimostrato di voler procedere sulla strada del nuovo: il fascismo lo ha
accolto ed ha accon- disceso, almeno fino a un certo punto, al suo
messaggio. Oltre è stato frenato, forse, non solo dal « borghesismo
», ma anche da quel socialismo, che avanti non è mai stato capace
di andare e che di nuovo ha portato solamente vuote formule e fantasmi.
Non così il futurismo, ben ade- rente al reale, e capace di ritirarvisi
anche, nel caso di inadempienza (o di mancanza di corrispondenza)
della realtà ai suoi messaggi. Marinetti docet, proprio con
quel fascino che aveva voluto, o con cui aveva marciato, e in cui aveva
creduto senza marcire mai, nemmeno nell’auge del regime, quan- do
avrebbe potuto sedersi sulle comode poltrone di un otmai «arrivato »
futurismo di «destra ». Ma il futuri- smo per Marinetti era e rimaneva
comunque movimento d'avanguardia artistica e culturale, nonostante gli
agganci più 0 meno politici, più o meno di regime, e nonostante
l'amicizia con Mussolini, che poteva anche essere un « fu- turista », ma
era e doveva essere prima di tutto il capo dello Stato e il « duce del
Fascismo ». E il fascismo ave- va preso e doveva tenete ormai una certa
linea, molte volte non gradita, o valida, per il futurismo, ed anzi
pro- prio al contrario. La gloria di Roma rievocata nel
monumentalismo classicheggiante, il novecentismo ricalcante vuoti modelli
di un fasullo rinnovamento filotradizionale, la riesumazio- ne del mito
della storia come copia di grandezza e no- vella misura di falsa gloria,
erano tutti temi aborriti da Marinetti proprio perché segni ed indici di
« passatismo », messaggi sterili di una mentalità ferma e statica,
incapace di dare alcunché di vitale all'Italia in movimento. Ma-
rinetti era invece, e rimaneva, anche nel fascismo e no- nostante il
fascismo, « futurista », come lui amava defi- nirsi, e come lo rimanevano
anche altri, non tutti però, anzi forse troppo pochi. Marinetti,
quindi, futurista, e futurista nonostante tut- to, fu forse fascista solo
ed esclusivamente per quel che il futurismo poteva consentirgli di
essere. Ma fu anche grande oratore Marinetti, e fu oratore d’arte,
oratore di genio letterario e improvvisatore della parola, più 0
me- no libera o in libertà che fosse. Mussolini fu oratore
politico e parlava, anche, nella ricerca del consenso. Marinetti invece
fu poeta, e parlava per stimolare la curiosità, per muovere
l'incanto del- l'espressione. La sua oratoria fu essenzialmente
artistica, il suo discorso fu culturale e poetico. Mussolini forse
in parte la imitò, sempre attenendosi all’oratoria politica e trasformando
il messaggio letterario in presenza ideo- logica e in colloquio «
popolare ». Forse qui sta inoltre la differenza fra i due movimenti: il
futurismo avanguar- dia di rottura e il fascismo sistema di potere. Anche
se il primo l’aveva spinto e sorretto nella sua azione di con- quista.
Il fascismo è allora per un suo aspetto futurista, e non invece il
contrario. E' la realizzazione di quel « pio- gramma minimo futurista »
che abbiamo già esaminato. E Mussolini si può dire fosse stato anche
futurista, o comunque molto vicino al movimento di Marinetti. E gli
era stato anche amico, o c’era stata una reciproca comunanza di
sentimenti, che non esula dall’amicizia. Ma Mussolini era stato
anche socialista, anzi lo era sta- to davvero e « fino in fondo ». Che
fosse anche per que- sto che i futuristi non potevano essere
completamente fascisti? O non si potevano identificare
completamente nel regime? Almeno i futuristi autentici, quelli più «
idea- listi ». Il futurismo era stato sempre e comunque
antisocia- lista, in modo integrale, totale come si è visto. E lo
era stato dall’inizio antisocialista, per la sua posizione cultu-
rale, per il suo intendimento antimilitaristico ed antiegua- litario, per
il suo slancio antipassatista di svecchiamento. Lo schiaffo ed il
pugno, la velocità e l’aggressione, la lotta e la vittoria erano tutti
temi o motivi antisocia 44 listi. Il
fascismo, nonostante tutto, era meno antisocia- lista. In primo luogo per
le origini del suo capo, per la sua formazione-estrazione, per i suoi
intendimenti di visuale che non si erano spenti del tutto, ma si
erano solo attenuati e modificati: e si erano travasati, anche,
nella novità del futurismo. Comunque, e malgrado questo, il
fascismo rimase e resta agli atti della storia un «movimento di massa
», una « realtà sociale », un fenomeno popolare, un sistema del
numero in scala comunitaria e nazionale: questo è acquisito, ed è
incontestabile. E non può essere confutato dagli storici seri. Mussolini
lo volle e lo promosse que. sto « popolarismo » e, se vogliamo anche,
riuscì lenta. mente e gradatamente ad «imporlo ». Ma non volle mai
l'uguaglianza o il livellamento, e cercò sempre di favo. rire la
distinzione dell’individualismo. Lo stimolo stesso alla competizione nel
campo dell’arte e l’amicizia con l’amico-nemico Marinetti ne sono
garanti. L’amicizia fra i due personaggi non fu esclusivamente un fatto
episo- dico o della prima ora; fu un fatto profondo e vitale, forse
inalienabile ed « assoluto ». E durò, a controprova del vero, fino alla
morte. Quando Marinetti, reduce dalla guerra di Russia per
cui si era arruolato volontario (malgrado i suoi 64 anni), aderiva alla
Repubblica Sociale Italiana dopo i tragici fatti dell’armistizio,
dimostrava sino all'ultimo fede ad un’ami- cizia e ad un'idea, comunque e
nonostante tutto. Mari- netti era partito per la Russia all’insegna della
coerenza, non potendo contraddire il suo messaggio della guerra «
sola igiene del mondo ». Messaggio che anche il « duce » aveva sentito,
forse tragicamente e forse fuori tempo. Ma lo aveva comunque sentito, e
l’amicizia con Marinetti e la sua nomina ad Accademico d'Italia lo
dimostra. Quan- do avrebbe benissimo potuto « bruciarlo ». E aveva
an- che sentito che il nuovo secolo richiedeva un cambiamen- to,
che si doveva in qualche modo maturare. Volle promuoverlo e
accelerarlo (da « futurista »?), in- tervenite e spingere l'avanzata fino
all'assurdo. Ne rimase coinvolto e definitivamente « inghiottito ».
Marinetti si era salvato, e con se stesso aveva salvato la poesia.
La guerra (leggi: politica) non poteva averla distrutta. In età
avanzata era rientrato a vivere brevemente, a lot- tare fino all’ultimo
per consegnare a Venezia un messag- gio, quello vitale e ineliminabile «
verso il futuro ». I suoi discepoli lo accolsero come un testamento e
qualcuno lo trasmette ancora per testimonianza. Nonostante la
trasmu- tazione dei tempi e le difficoltà del presente. Lo docu-
menta ancora per la verità storica e per la risonanza del- l'oggi. E,
forse, per un nuovo futuro di domani. 12. Sindacalismo
futurista II fascismo aveva creato la « Carta del Lavoro »,
che ricalcava a sua volta quella ptima espressione originale di
emissione statutaria d’impronta sociale, che era stata la dannunziana «
Carta del Carnaro ». Ma già prima i futuristi avevano inteso una «loro »
sindacalizzazione in senso artistico, ed avevano ancora una volta
concepito un manifesto. Si tratta del manifesto al governo fascista del
1° maggio 1923 intitolato I diritti ertistici propugnati dat futuristi
italiani. I diritti rimasero in gran parte sulla carta, ma
l’in- tenzione era evidente: quella di creare una specie di « car-
ta sindacale » per la costituzione dei « sindacati artistici futuristi »,
atti alla difesa ed all'assistenza degli artisti eventualmente bisognosi.
Oggi quel poco che offre il sin- dacalismo dell’arte è dovuto per lo più
al sindacalismo futurista e, in parte, a quello fascista. Ma l'idea del
mu- tuo soccorso e della solidarietà del lavoro era già pre- sente
nella mentalità futurista, orientata sempre verso giustizia (in questo
caso, giustizia dell’arte). Il proleta- riato delle rappresentanze
artistiche è fatto ben noto, e non da oggi: non ne furono esenti i
futuristi, che anche in questo senso furono rivoluzionari veri e propri,
e cercatono comunque il rinnovamento. E vollero un’istituzio- ne che li
garantisse dalla loro precarietà, dalle loro dif- ficoltà e dalla loro
miseria. La «Banca di Credito» per artisti fu iniziativa di
Marinetti, in seguito approvata e patrocinata dal « duce ». Che così
rispose per l’occasione all'amico futurista: « Mio caro Marinetti,
approvo cordialmente la tua iniziativa per la costituzione di una Banca
di Credito specialmente per gli Artisti. Credo che saprai sormontare gli
eventuali osta- coli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo questa
lettera può servirti di viatico. Ciao, con amicizia. Mussolini ».
Si trattava di una vera € propria forma di « assicu- razione del
denaro » che doveva favorire gli artisti, o sod- disfare le loro
necessità. Ma non solo Îa costituzione della Banca di Credito chiedeva il
manifesto del ’23, firmato da Martinetti « per la direzione del
movimento-futurista e per tutti i gruppi futuristi italiani ». Si volevano
anche realizzare: 1) Difesa dei giovani artisti italiani novatori
in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato, dai Comuni e
private... 2) Istituti di credito artistico ad esclusivo beneficio degli
artisti creatori italiani [dove si propone l’apertura d’istituti di
credito per la sovvenzio- ne di artisti, manifestazioni artistiche ed
Istituti d'arte. Tali istituti si manterrebbero con la buona volontà
degli aderenti, se privati, o con imposte sui redditi di guerra,
pet esempio, se statali. Le opere d'arte depositate co- stituirebbero
valorizzazione fruttifera per l’artista medesi- mo, ecc., n.d.r.]... 8)
Agevolazioni agli artisti [tramite il riconoscimento legale dei diritti
d’autore, la riduzione del 75% della tariffa per i viaggi degli artisti e
il tra- sporto delle loto opere, l'abolizione delle tasse doganali
nell’importazione ed esportazione delle opere d’atte, il catico
sull’assicuratore delle spese per lettere di cambio o assicurazioni delle
opere d’arte, ecc..., n.d.r.]. Come si vede i futuristi guardavano sì al
futuro, ma stavano ben calati nel presente e cercavano di opetare e di
agire di; presente pet migliorare e per rendete più giusto il
uturo. Col « ritorno all’ordine », come si definisce dagli sto- rici
l'affermazione del fascismo e la sua lenta istituziona- lizzazione in
regime, si parla anche di modifica del futu- rismo 0 di suo adeguamento
ad una nuova realtà siste- matica e organizzativa, conseguita al periodo
rivoluziona- rio; e si chiacchiera ancora di «secondo futurismo ».
Anche se il futurismo, primo o secondo che fosse, non ha mai avuto a che
fare con l'istituzionalizzazione del l'arte nell’« ordine fascista ».
Dice il critico Enrico Cri- spolti in un suo saggio, e lo asserisce in
modo catego- rico e definitivo: « In questo senso è politicamente
inam- missibile e culturalmente scorretta una liquidazione del
Secondo Futurismo in quanto collusivo out court con il fascismo »’.
Ma come si atriva a questa seconda definizione del movimento? E poi
eventualmente alla sua « demonizzazio- ne » 0 « fascistizzazione » in
senso politico? Avevamo già visto nel ’24 Gerardo Dottori «
prova- re» le sue prime aeropitture. Nel frattempo i futuristi
continuano a scambiarsi esperienze ed a lavorare intensa- mente. È ad esporre
spesso e volentieri, anzi velocemen- te e freneticamente, « alla
futurista ». Nel 1926 vengono invitati diversi futuristi italiani alla
International Exhibi- tion of Modern Art di New York. Nello stesso
anno alla IX Biennale d'Arte di Reggio Calabria espongono Depero,
Tato, Benedetto, Rizzo, Fillia e Dottori. A_Mi- lano intanto al Palazzo
della Permanente si allestisce la seconda mostra, che abbiamo già visto,
del Novecento, ormai in auge e prossimo ad assurgere ai fasti della
glo. ria del potere. C'è anche la dichiarazione ufficiale del neo-
costituito « Gruppo 7» di architettura, composto da Ter- ragni, Libera,
Frette, Figini, Pollini, Rava e Larco. Nel 1928 i futuristi
partecipano finalmente alla XVI Biennale di Venezia. A Torino,
all'Esposizione Nazionale, ? Enrico Crispolti,
Appunti riguardanti i rapporti fra futurismo e fascismo, in Arte e
Fascismo in Italia e Gertania, Feltrinelli, Mi- lano 1974, pag.
54. si allestisce un padiglione di architettura futurista, con opere
di Sant'Elia, Sartoris, Balla, Fillia, Prampolini e Chiattone.
Nel 1929, 33 futuristi espongono ancora alla « Pesa: ro » di Milano
(Balla, Farfa, Benedetto, Lepore, Dottori, Marasco, Tato e Prampolini).
Azari pubblica il suo Primo dizionario aereo; Balla, Fillia, Depero,
Marinetti, Tato, Somenzi, Benedetto, Rosso, Prampolini e Dottori
lancia- no il famoso Manifesto dell’Aeropittura. Terragni termi. na
2 Como la costruzione di Novocomum, nuovo edificio residenziale
periferico. Marinetti è ‘accolto il 18 matzo nell'Accademia d’Italia,
insieme a Fermi e Pirandello, su istanza personale di Mussolini.
Esce per le Edizioni di Augustea, Roma-Milano, il volume Marinetti
e il Futurismo, quarta ed ultima espres- sione di letteratura politica
del capo futurista. L’opera ricalea in termini ancor più encomiastici e
«di suppor- to» il già « conciliante » Futuriszzo e fascismo
(1924). Il volume esce ancora dedicato « Al grande e caro Benito
Mussolini », definito questa volta già nella prima pagina « temperamento
esuberante, strapotente, veloce. Non è un ideologo. Se fosse un ideologo,
sarebbe incatenato dalle idee che sono spesso lente, e dai libri che
sono sempre morti. Egli è invece libero, scatenatissimo. Fu
socialista e internazionalista, ma soltanto in teoria. Rivolu- zionario
sì, ma pacifista mai ». Il che equivale a dire « futurista ».
Del socialismo di Mussolini abbiamo già parlato, e della sua
portata teorica, a questo punto effettivamente e « praticamente »
confermata. Del futurismo « fascista » di Marinetti si sono scritti fiumi
d’inchiostro e sproloqui di parole. La dimostrazione più lampante della
sua parte- cipazione estetna al fascismo e della sua continua
difesa del futurismo e delle avanguardie è data dal rifiuto di
onorari e prebende: unica « accettazione » per contto, quella
dell'Accademia d’Italia, che gli servì poi per di- fendere il fututismo e
per «lanciarlo » meglio in Italia ed all’estero. Nel 1930
Terragni realizza un monumento a Como su un disegno di Sant'Elia (che era
stato totalmente rie- laborato da Prampolini) in occasione delle «
Onoranze Nazionali all'architetto futurista Sant'Elia », che viene
commentato anche alla « Pesaro » di Milano. Marinetti pubblica Futurismo
e Novecentismo. Molti futuristi par- tecipano alla IV Mostra delle Arti
Decorative di Monza ed alla XVII Biennale di Venezia. Nello stesso anno
Ma. rinetti pubblica a Torino sulla Gazzetta del Popolo i) Ma-
nifesto dell’Aeropoesia, che fa eco a quello dell'Aeropit- tura del *29.
E’ il « momento» dello sviluppo aereo e dell’aeronautica: è giusto che il
futurismo si muova nella direzione del progresso e senta, ritragga e
proietti la nuo- va dimensione aerea dello spazio verso il futuro.
Nel 1931 esce a Roma il nuovo quotidiano L’'Impe- to. Nel 1932 la
Galleria « Pesaro » allestisce una mostra vera e proptia, ed esclusiva,
di « aeropittura ». Fortunato Depero ottiene che gli venga concessa una
sala « perso- nale » alla XVII Biennale veneziana. Prampolini erige
un plastico a ricordo di Marconi a Roma per la Mostra della
Rivoluzione Fascista. La partecipazione futurista è segno della nuova
collaborazione politica. Ciò non toglie che le realizzazioni esprimano
intenti d'avanguardia. L’Istitu- io Editoriale Italiano pubblica per la
prima volta i Ma- nifesti del Futurismo, in quattro volumi.
Fillia fa uscire il periodico Le Città Nuova e Sartoris il volume sugli
Elementi dell’Architettura funzionale; Terragni comincia la costruzione
della Casa del Fascio di Como. Mino Somenzi fonda il nuovo periodico
Futurismo, definito «settimanale dell’artecrazia italiana ».
Cambierà poi titolo in Atfecrazia. Nel 1933 Hitler sale al
potere e sconfessa l’arte mo- derna (l'espressionismo, nella
fattispecie). Vasari organiz- za con Marinetti una mostra futurista a
Berlino nel ten- tativo di promuovere, e di far recepire le avanguardie
al nuovo regime. Nel settembre dello stesso anno il Congres- so
nazista di Norimberga condannerà « al rogo » l’« arte degenerata ». Esce
la rivista Diamo futurista, diretta da Depero; il periodico di
architettura Casebella è invece di- retto da Pagano, mentre Bardi e
Bontempelli pubblicano Quadrante. Prampolini progetta una stazione per
aero- porto civile al padiglione futurista della V Triennale di
Milano, mentre al Castello Sforzesco si organizzano le onoranze nazionali
a Boccioni, con la presenza di Paul Klee, Piet Mondrian, Pablo Picasso,
Vassily Kandinsky ed Ezra Pound. Nel 1934 Depero lancia un
nuovo manifesto dell’Aero- plastica, sempre sulla falsariga di quello
dell’Aeropittu- ra. Fillia e Prampolini pubblicano a Torino la nuova
ri- vista Stile futurista, dalle cui colonne Prampolini attacca
Hitler per le posizioni naziste sull’arte espresse a Norim- berga. I futuristi
partecipano ancora alla XIX Biennale di Venezia. Ad Amburgo Ruggero
Vasari e Marinetti di- fendono l'avanguardia in occasione della mostra «
Aero- pittura futurista italiana », organizzata appositamente in
polemica alle censure naziste. A Lipsia ancora Vasari pub- blica
Aeropittura, arte moderna e reazione, che dimostra la voce della nuova
avanguatdia italiama improntata ai progressi aeronautici ed in polemica
contro i soliti passa- tisti « censoti ». Marinetti nel ’35
parte volontario per la guerra di Etiopia. A Parigi viene organizzata una
mostra futurista. A Roma i futuristi partecipano alla II Quadriennale.
Ma- rinetti pubblica l’Aeropoema del Golfo della Spezia, che
ispirerà poi ancora molti aeropittori. Nel 1936 Prampalini realizza un salone
da riunioni per municipio alla VI Triennale di Milano. I futuristi
partecipano alla XX Biennale di Venezia. Muore Fillia esponente del «
primo futurismo ». Mussolini proclama l’Impero. Nel giugno
1937 la mostra di Monaco attacca e de- nuncia l’« arte degenerata » con
esemplificazioni e « di- mostrazioni ». Viene messa in luce per contro, o
in risal- to, l'arte « sana » nazista. Cominciano le polemiche e le
divisioni di fronti. Il fascismo ufficiale e « d'ordine » at- tacca, e
nuove violente polemiche scuotono l'avanguardia. Il Popolo d'Italia e IL
Perseo, diretto da A.F. Della Porta, muovono guerra al futurismo.
Quest'ultima rivista aveva già polemizzato, insieme a Il regime fascista
di Farinacci, con l’architettura razionalista di Bardi e Terragni: «
Noi siamo dell’opinione », si legge su Il Perseo del 15 giugno 1937,
« che il Fascismo ha tutto da perdere da un’allean- za col Futurismo e
sia pure da una semplice connivenza ». Risponde il periodico Artecrazia
di Somenzi che contrattac- ca in prima persona a sostenere l'avanguardia
e il futu- rismo. Difendo il Futurismo è la raccolta dei testi di
So- menzi pubblicati sulla rivista. Editi nel '37, sono l’opera più
coraggiosa e significativa della polemica per la lotta dell’avanguardia.
14. Futurismo di destra e futurismo di sinistra
L’avanguardia, del resto, è sempre eterogenea e sfac- cettata. Ecco
perché si parla di « destra » e di « sinistra » all'interno del futurismo
nella fase della « maturità » (il cosiddetto « secondo futurismo »). Destra
e sinistra sono termini abusati e « inflazionati », buoni per tutto. Se
ne fa spesso uso eccessivo ed improprio, semplicistico e gra-
tuito. D'altra parte, poiché avviene ancora e soprattutto oggi, non si
vede perché non dovesse avvenire allora, quando anche si parlava, al
tempo, di fascismo di « de- stra » e di fascismo di « sinistra ».
Il « centro », almeno nelle avanguardie, non ha ten- denze, o ne ha
molto pache e solo per qualche momento. Il « centro» ha poche tensioni,
pochi impulsi vitali, di rinnovamento. Il « centro », quindi,
risulterebbe amorfo, inutile, privo di idee 0 spirito di
catatterizzazione. L’avan- guardia allora sta a « destra » 0 a « sinistra
»: non è mai al « centro », o almeno è difficile che lo sia. Il
futurismo fu forse un’avanguardia di « destra » se intendiamo per «
destra » una certa qual spinta ideale d'impronta bergso- niana o
nietzschiana: poteva però essere anche di « sini- stra » per le sue
istanze sociali. O poteva essere al di là della « destra » e della
«sinistra », per ricalcare una espressione del pensatore tedesco.
Sta di fatto che il futurismo non fu mai di « centro ». Ma se si
vuole dar credito a quello che comunemente si intende otmai per « destra
», si deve anche accogliere un 52 futurismo di «
destra », o rivolto verso « destra »: se è vero che a «destra » sta la
conservazione, lo spirito borghese, il richiamo all’ordine ecc. ecc. E se
è vero per contro che a « sinistra » sta la spontaneità o lo
spontanei- smo, la sincerità, la schiettezza, l'onestà e quindi
anche la miseria e la « rivoluzione »: ecco, allora, esiste anche
il futurismo di « sinistra ». Com'è possibile? La polemica, anche
se non sembra vero, fu proprio di quegli anni. Comincia Bruno Corra con
un « fondo » di prima pagina su Futurismo, diretto dal Somenzi, n.
27 del 12 marzo del 1932, anno I e X dell’« Era Fascista ». Il
titolo è già sintomatico: No: futuristi di destra. Anche se Corra aveva
usato il termine « destra » con le attenua- zioni del caso, affermava che
«l'essenza del Futurismo è e non può non essere rivoluzionaria ». E
ancora, a spe- cificare meglio il concetto: « ... Bisogna dire che nel
no- stro movimento i termini di sinistra e destra non si op-
pongono, perdono cioè il loto significato convenzionale. La mentalità
futurista supera il contrasto fra il sovvetti- mento e la conservazione,
in quanto si libera di continuo in uno slancio creativo », tanto per la
precisione dei ter- mini e la puntualizzazione del linguaggio. E siccome
il linguaggio ci investe di una « sua » moralità, ecco che è bene
tenerne conto quando ancora il Corra così sottoli nea: « Mi pare che qui
si tratti, prima di tutto, di una questione di moralità. Dare al
Fututismo quel che al Fu- tutismo appartiene: e non truccare il proprio
ingegno con un'etichetta di convenienza. Chi si dichiara
avanguardi- sta ma non futurista, sputa nel piatto dove ha man-
giato ». E fin qui è tutto chiaro e conseguenziale. Ma ve- diamo come
ancora il Corra continua: « Poi, lo stabilirci questo principio; che il
privilegio di poter restare nella sfera magnetica del Futurismo pure
affermando, nella pro- pria opera un temperamento realizzatore di destra,
debba accordarsi soltanto a coloro che han dimostrato di sapere
essere — integralmente — futuristi. E reclamerei il diritto di sedermi a
destra, per mio conto, in nome della mia effettiva collaborazione al
Futurismo più rivoluzionario... ». Insomma, essere stati di « sinistra »
per poter essere poi di « destra », o aver fatto i rivoluzionari in
gioventù, per poter pai sedere tranquillamente sugli « scanni » del
concreto o nella comodità del reale (di quando, cioè, x
si è « arrivati »). Può darsi sia vero, pur se non proprio
giusto 0 cor- retto il ragionamento, ma concreto sì ed anche, che
ci piaccia o meno, realistico. La polemica inizia ed. è un
susseguirsi di botte e risposte. Fra tutte vediamo come « replica » Paolo
Buzzi su un altro «fondo» di prima pagina dello stesso Futuriswo n. 30,
anno II, del 2 aprile 1933. Il titolo è anche questa volta
emblematico, Estrema sinistra, puntualizzato poi meglio nell’« occhiello
»: Non c'è che un futurismo: quello di estrema sinistra. Dove si
sancisce la necessità dell'avanguardia a « sinistra », e la «sinistra »
del futurismo, l’unica possibile. « Questo, e non altro, è il vero
futurismo. Perché dovrei sedermi a destra, proprio io? Mi sembrerebbe di
tradire la causa di Aeroplani, di Ellisse e la Spirale, di Cavalcata
delle verti. gini... ». E ancora: « Questo è futurismo: e di ultra
estre- ma sinistra. Le mie autonomie sintetiche di anime e di
sensi, le mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei co- smopolitismi
spaziali e i miei intimismi votticosi, stanno per una intransigenza
etico-estetica che costituisce, or- mai, la gioia (ed, un pochino, anche
la gloria) della mia lunga carriera di vomo che ha sempre fatto dell'Arte
come il sacerdote celebra messa. Aviatore sempre, adunque: fan- te
o stradino, non mai ». E conclude poi, con patole un po’ altisonanti e
troppo, forse, di effetto: «I giovani, quelli veramente degni di questo
nome primaverile, sanno che al di fuori e al di sopra d'ogni inevitabile
chiasso letterario, la parola “futurismo” risponde alla sola unica
vera “idea forza” che oggi esista nella sfera ideale del mondo: e che è
in grazia di essa, unicamente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa
Italia fascista vive e vi- vrà ». Dove si dimostta ancota una volta, come
se non ba- stasse, il collegamento tra futurismo e fascismo, almeno
nella loro spinta « spontaneistica » e rivoluzionaria. Dobbiamo
comunque tenere conto del tempo della pubblicazione di questi articoli,
nel °32 e '33, in pieno ed affermato regime. Ecco, quindi, anche, il senso
di una « destra » e di una «sinistra », di un futurismo ancora
giovane ed esuberante, e di un altro futurismo per contro già assiso
sugli allori della gloria o sul comodo giaciglio della meta raggiunta e
della calma del riposo. Quando cioè il fascismo, movimento politico
rivoluzionario, eta di- ventato « regime », ed aveva, per così dire,
assunto le sue caratteristiche sembianze (almeno fino a un certo
punto). Perché il futurismo, così come era sotto, in fondo si era
voluto mantenere. AI di là dei tentativi di conglobamento o di «cattura »
della sua entità esercitati dal regime o da singole personalità fasciste,
alcune delle quali, magari, erano state futuriste o vicine al futurismo.
Tuttavia era e restava, il futurismo, in fondo, quello di sempre:
solo ed esclusivamente un movimento d'avanguardia. 15.
Futurismo ed ebraismo « Innumerevoli differenze separano il popolo
russo dal popolo italiano, oltre a quella tipica che distingue un
po- polo vinto e un popolo vincitore. I loro bisogni sono di- vetsi
e opposti. Un popolo vinto sente morire in sé il suo patriottismo, si
rovescia rivoluzionariamente e plagia la rivoluzione del popolo vicino.
Un popolo vincitore co- me il nostro vuol fare la sua rivoluzione, come
un aera- nauta getta la zavorra per salire più in alto... Non esiste
in Italia antisemitismo. Non abbiamo dunque ebrei da re- dimere, valutare
o seguire », sosteneva Marinetti nel 1920: e lo diceva nella sua opera
già esaminata A! di là del Co- munismo. Lo riportiamo non tanto per
rilevare le diffe renze fra rivoluzione futurista e rivoluzione
bolscevica 0 spirito comunista, quanto per far rilevare quale era
la posizione di Marinetti nei confronti degli ebrei già nel 1920.
Gli ebrei da « redimere, valutare o seguire » sono evidenti: Marx ed
Engels. Il problema invece si affaccia, come tutti sappiamo, sul volgere
del '38 e all'alba del °39. Il Manifesto del Razzismo italiano, quello
degli scien- ziati del 14 luglio ’38, e la Carta della Razza del 6-7
ottabre dello stesso anno, cui fanno seguito le leggi razziali del
novembre sulla falsariga dell’antisemitismo tedesco, danno buon gioco
alla cultura dell’« ordine », quella più direttamente sostenitrice o
affiancatrice del regime. Secondo Crispolti «il tentativo della
cultura legata alla destra reazionaria fascista di profittare della
campa- gna antisemita per promuovere un'edizione italiana della
operazione nazista dell’“arte degenerata” è un aspetto no- tevole
dell’azione pubblicistica che precedette e accompa- gnò quei provvedimenti
» ®. L'azione pubblicistica era con- dotta da Telesio Interlandi in prima
persona, che attacca- va spesso e volentieri Marinetti, il futurismo e le
avan- guardie attraverso il suo periodico: dal Quadrivio, setti
manale romano ad impronta razzista, al quotidiano roma- no Il Tevere, a
La difesa della razza. Oltre a Interlandi si distinguevano Giovanni
Preziosi con il mensile La wite italiana, e Roberto Farinacci con Il
regimze fascista, quoti- diano di Cremona. « L'arte moderna
è un tumore che deve essere tagliato non che si debba esibire come una
gloria nazionale sol perché piace a Marinetti », aveva affermato I/
Tevere del 24-25 novembre 1938, pubblicando un’antologia di esempi
d’« arte degenerata » italiana. Quadrivio aveva a sua volta proposto un
referendum contro l'arte moderna considerata in blocco « bolscevizzante e
giudaica », ma senza alcun successo. Marinetti rispondeva
con una manifestazione indetta il 3 dicembre 1938 da lui e Somenzi al
Teatro delle Atti di Roma. E Somenzi stesso lo accompagnava con un «
fon- do » polemico su Arfecrazia, n. 117 del 3 dicembre, dal titolo
Razzismo. Ad esso facevano seguito sul n. 118 del- l'11 gennaio 1939 due
articoli (Arte e... razzia, e Italianità dell’arte moderna), ancora in
posizione di attacco, aspro e violento. Quest'ultimo, firmato «
Artecrazia » pottò a determinare la chiusura stessa del giornale.
Non è escluso * Enrico Crispolti, Appunti riguardanti
1 rapporti fra futurismo e fascismo, cit., pag. 58. 56
che lo avesse scritto proprio lo stesso Marinetti (con Somen- zi).
Il pretesto di voler colpire con l’antigiudaismo l’arte moderna era messo
all'indice dell'accusa. Si dimostra così ancora una volta lo spirito
d'avanguardia con cui il futu- rismo e i futuristi operavano, sia pur
sotto le bandiere del regime, ma in fondo in opposizione a una cultura
d’or- dine e di conservazione, priva di spunti nuovi e originali, o
addirittura chiusa ai contatti e alle avanguardie europei sotto il
pretesto dell'antigiudaismo, che non poteva certo essere aperto a nuove
esperienze. Nel 1940 entta in guerra l’Italia. Marinetti parla «
Per l’italianità dell’arte » e tiene un discorso al Teatro delle
Arti a Roma sulla « bellezza aeropoetica della guerra mec- canizzata ».
Intervengono Radice e Terragni a difendere l’arte moderna. Declatmano
Marinetti, Farfa, Scrivo, Mo- nachesi e Berardi. La rivista Autori e
Scrittori pubblica il manifesto Nuova estetica della guerra. A Genova
Mari. netti parla su «La poesia e la guerra » nel Salone dei
Professionisti e degli Artisti, dove si declamano poesie di Mazzotti e
Balestreri. Nel 1941 Renato Di Bosso lancia il nuovo
Manifesto dell’Aerosilografia. Nel 1942 Marinetti pubblica
Carto eroi e macchine della guerra mussoliniana. Poi parte vo-
lontario a raggiungere le truppe italiane in Russia. Rien- trerà nel ’43
malato, e già intaccato nella salute. Mussolini cade il 25 luglio e
Marinetti si trasferisce a Venezia, dopo l'8 settembre. Il fascismo è
finito, ma il futurismo an- cora continua. 16. Il futurismo
tra ieri e oggi Dopo la morte di Terragni a Como (1943) per
ma- lattia contratta sul fronte russo, Marinetti aderisce nel 44
alla neo-costituita Repubblica Sociale Italiana. A_Ve- nezia riceverà gli
ultimi futuristi, rimastigli fedeli nono- stante il « declino »: Crali
(ancora vivente) e Andreoni (recentemente scomparso). A loro vorrà
consegnare il fu- turismo perché non muoia con lui. Si trasferisce poi
a Cadenabbia sul lago di Como e muore a Bellagio nella notte fra il
2 e il 3 di dicembre, per crisi cardiaca (i fu- nerali di Stato
porteranno le spoglie a Milano, al Cimitero Monumentale). Postuma a lui e
alla fine del fascismo (repubblicano) si pubblicherà la sua ultima opera,
che così inizia: « Salite in autocarro aeropoeti... » Si tratta del
Quarto d'ora di poesia della X Mas, in cui l’invoca- zione
all'avanguardia alita uno strano ed inevitabile sen- so di morte,
violento ed inesorabile. Ma l'avanguardia è, pare, ineliminabile,
tant'è che il futurismo continua come espressione artistica almeno,
an- che se ormai non più politica. I suoi epigoni lo sosten- gono
ancora, «con le parole e con le opere». Crali Primo Conti a Milano e a
Firenze, Sartoris a Losanna, Di Bosso ed Anselmi a Verona, Enzo Benedetto
a Roma portano ancora avanti il suo programma d'avanguardia. Con
parole e con scritti, con opere e con progetti, col messag- gio dell’arte
sempre e comunque. I seguaci di Marinetti si rifanno a lui e sostengono
con vivacità e con brio la vitalità di una prospettiva che si vuole
sempre rinnovare. Questo è ancora, malgrado tutto, il valore
attuale del futurismo. Quello di un'avanguardia italiana aperta
alle avanguardie europee, ma avanguardia comunque e valo- rizzatrice
in ogni caso dell'arte. Che dev'essere libera e moderna, nuova ed
attuale, viva e presente ai suoi tempi. Per questo deve ancora
schiacciare le pastoie dei vecchiu- mi « passatisti », deve smuovere il
conservativo e assa- lire i fantasmi di prolungamento di polverosi e sclerotici
retaggi. Deve insomma comunque essere avanguardia. Il messaggio
futurista, in questo senso, è ancora attuale. Ce lo dicono Crali e
Benedetto, fra gli altri, con le loto testimonianze. Che ci aiutano a
tivedere la « dimensio- ne » del futurismo: una dimensione « presente »
in tanta odierna penuria di originalità nel moderno, presente al-
meno come forza dinamica nella prospettiva di migliori, più aperti, e più
geniali futuri. ALBERTO SCHIAVO 58
SOFFICI, MARINETTI, BOCCIONI, RUSSOLO SANT'ELIA, SIRONI, PIATTI
FUTURISMO E « GUERRA SOLA IGIENE DEL MONDO. Ben presto si
manifesta l'interesse dei futuristi per la politica. Nel 1911 Marinetti
pubblica giò un mani festo « politica », che sarà la sua prima
espressione di intervento nelle cose pubbliche. «Tyripoli Italiana
» vuol dire presenza dell’Italia e primato dell’Italia; vuol dire
guerra ed espansione, allargamento del vita- lismo italiano, e vittoria.
Il « panitalianismo » si espri- me e si dichiara apertamente, per la
prima volta. L'avanguardia politica deve accompagnare
l'avanguar- dia artistica. E il primato italiano in arte st deve
ma- nifestare anche in politica, nella forza dell'espansione del
genio (al tempo, di arbizione coloniale). Poco dopo la Libia, è la
volta dell'Austria. L’amo- re della guerra non può che portare a voler
V'inter- vento. Ci sembra significativa la penna di Soffici su
Lacerba del ‘14, dove si osa dire la verità e mettere in luce la finzione
del moderatismo neutralista (cat- tolico o socialista che sia).
Il manifesto della fine del 1915, dedicato all'« or- goglio
italiano », è già un manifesto di guerra. Per questo lo riportiamo
interamente, a dimostrazione del- la fiducia e dell’ottimismo degli
artisti combattenti, la loro convinzione della forza attiva e dello
funzione battagliera dell’arte PER LA GUERRA
Valvola Essere italiano (mi piace ripeter qui che adoro il
popolo italiano) non è in generale gran fatto entusia- smante, in questa
nostra epoca. Ìn questi ultimissimi tem- pi, confesserò che per conto mio
mi vergogno un poco di portar questo nome. E’ un sentimento che si è
andato sviluppando leggendo i giornali, e posso anche ammettere che
una tale causa non meriterebbe di produrre un tale ef- fetto; ma i
giornali son tutta la nostra vita ormai e pur- troppo. E. dai giornali
italiani si alza e si propaga un tal lezzo d'abbiezione e d’imbecillità
che chi ha un po' di cuore e di spirito non può fare a meno di sentirsene
sof. focato. E' una gara in cui corrispondenti, redattori ordina-
nati e straordinari, politicanti e governo fanno del loro meglio per
sorpassarsi a vicenda. Non che siano espliciti nei loro articoli e nei
loro comunicati, ma la bassezza tra spare e offende. Sono reticenze abbiette,
raccomandazioni infami, voltafaccia vergognosi, silenzi più vergognosi
anco: ra. Si sente che il calcolo idiota comanda e regola tutti
questi spiriti subalterni. La guerra? Le mani in mano? Questo enimma
terribile non è affrontato a viso aperto, ma una battaglia vinta o persa
lontano detta il tono ed il catattere (anche tipografico) della notizia,
del commento o della nota ufficiosa. Dà il là all’elucubrazione insulsa
del machiavello rimbastardito. La stampa italiana è opgi come oggi
l’indizio della più ripugnante psicologia e mentalità che possa avere una
nazione. Davanti al mondo che com- Tralasciamo i paragrafi:
Toccami il naso, Grandezzate, e Subli- mità, che ci sembrano poco
significativi dal punto di vista politico, per riprendere con Socialismo,
molta più denso e pregnante. 61 batte e soffre,
accanto a una civiltà che difende le sue — le nostre — ricchezze dal
sacrilegio di un'orda senza stotia, noi siamo il leguleio diseredato di
viscere, solle- cito della sua trippa mediocre che occhieggia le
fortune dei popoli, e risponde di sbieco o tace aspettando dietro
lo schermo della sua neutralità. Non hanno il coraggio questi figuri di
dirla una buona volta ta verità. Ditelo che siete i più ignobili
rappresentanti di un paese che è mise- rabile perché non vi calpesta come
cimici. Ditelo che vi mancano il cuore e i testicoli. Ditelo che avete
paura. O confessate almeno che dietro la vostta prudenza c'è la
vostra impotenza, la verità che ci buttano in faccia i nostri alleati
quando fra una batosta e l'altra voglion levarsi il gusto di pigliarci
per il bavero. Che cioè l’Italia non ha quattrini, non ha armi, non ha
munizioni e che i suci magazzini son vuoti come la badia di
Spazzavento. E ci sono infine i socialisti. Io non ho un'esagerata
antipatia pet i socialisti. Trovo che la loro cravatta rossa, il loro sol
dell’avvenir, i loro discorsi in piazza, e gene- ralmente tutto ciò che
li caratterizza, così a occhio e croce, sono un tantino ridicoli; ma le
case popolari, l'au- mento delle mercedi operaie e tutto ciò che il
proleta- riato deve loro di miglioramenti per la vita di tutti i
giorni sono cose ottime e sante. Ciò non toglie che una cosa mi stupisce
straordinariamente ogni volta l'intravedo e mi stupirà in eterno: la loro
mentalità. Si rivela spes- sissimo in questi giorni, e sempre a proposito
della neutra- lità italiana. I socialisti l'’ammettono, non solo, ma la
vo- gliono perpetua. « Io sono e resto un fautore ogni giorno più
convinto della neutralità per la pace » ha dichiarato in un referendum
uno di loro. E voleva forse dire (giac- ché è difficile immaginare una
neutralità per la guerra) che lui e il suo partito sono per la pace a
ogni costo. Giacché, ed eccoci alla mentalità di codesto partito,
ogni buon socialista non vede nella guerra, qualunque essa sia,
62 se non una lotta di capitalisti e banchieri contro
capita- listi e banchieri i quali si servono del proletariato per
li- quidare le loro partite. Ammettiamo che in ogni guerra ci sia
un sostrato d'interessi; ma non c'è altro? Per i so- cialisti non c'è
altro. L'idea che i socialisti si fanno del mondo è questa: un
capitalista borghese e sfruttatore alle prese con un magro popolano
sfruttato. La cultura, le scienze, le arti, le delicatezze, l’eleganze, i
raffinamenti, le filosofie, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le
passioni -— tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente
com- plessa, così colorita, così varia, multiforme, incoercibile
non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l’universo intero una
specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti, eterna, in
mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare una mosca alla quale Karl
Marx ha insegnato che non deve lasciarsi succhiare. Così,
nella guerra presente, che cosa importa se intere nazioni difendono una
civiltà che è la nostra, le libertà conquistate — le idee stesse dei
socialisti — contro i nemici che sono gli stessi nemici dei socialisti?
Per i compagni di Filippo Turati non si tratta che della solita altalena
dei capitali sulle povere spalle del popolano e bisogna aste-
nersi. E parlo espressamente degli « ufficiali » ex cattedra, giacché
agli altri, a quelli del colloquio coll’emissario tede- sco, dobbiamo
l’atto forse più nobile e generoso che si sia compiuto in Italia in
quest'ora di straordinaria bassezza. Il trionfo della merda
La cieca incoscienza dei socialisti ufficiali e l’untuosa malafede
dei cattolici alla Meda (ecco un uomo cui manca indicibilmente l’erre!)
si possono anche capire in un mo- mento come questo, chi consideri la
speciale mentalità di codesti gruppi e la messa in giuoco violenta dei
prin- cipî e degli interessi di tutti. I primi, i socialisti,
non d'altro solleciti che di vuote teoriche malamente idealistiche, non
possono vedere nella guerra se non un fatto inquietante, uno di quei
fatti che afferrando tutto l’uomo ne mettono in mato ogni energia
vitale il che è sempre a scapito certo delle ideologie uni- laterali, e
credono l’'opporvisi con tutte le loro energie una coerente difesa dell’«
idea » mentre non si tratta in fondo che di un semplice istinto di
conservazione. I se- condi, i cattolici, sanno benissimo che un nostro
interven- to nel conflitto attuale favorendo il trionfo di popoli
tut- t'altro che asserviti alla secolare imbecillaggine papale, si-
gnificherebbe un indebolimento considerevole della loro compagine, e
maschetano di prudenza pattiottica il loro desiderio di vedere ancora
l’Italia ribadir con la sua neu- tralità incondizionata i vincoli che la
fanno setva e com- plice del bigottismo e dell’inciviltà eutopea.
Contro gli uni e gli altri, se si può usar del disprezzo, non
sarebbe dunque logico indignarsi. Ma c’è una massa dei nostri
connazionali che nessuna collera, nessuna abo- minazione potrà mai
bollate con l’infamia che merita la sua straordinaria abbiezione. E' Ja
massa oscura, anemica informe degli irresponsabili, dei disamorati, degli
abulici: dei parassiti della società e della vita. Non vedendo
nulla più di là della lora piccola tranquillità presente, del loro
affare meschino, del loro affetto senza energia; rincantuc- ciati nel
loro buco momentaneo al sicuro dalla burrasca che gli sgomenta soltanto a
intravederla nelle corrispon- denze del loro mediocre giornale, essi
credono che nulla possa essere più profittevole del prolungare, sia pure
a co- sto di ogni mortificazione, questo stato d’incolumità rumi-
nativa nell'ombra e in margine alla storia. Chè se domani la
preponderanza in Europa di una razza di pachidermi violenti, chiusi a
ogni luce di vera intelligenza, conculcherà ogni espressione geniale di
vita; se i popoli cui si lega una comunanza di cultura, di ricordi e di
tradizioni, saranno mortificati e asserviti a un’etica da ingegnere
belligero e spia; se le nostre stesse fortune intellettuali, morali e
ma- teriali saranno manomesse e asservite, che cosa importa a
questi miopi sdraiati nella loro flaccidezza quietoviven- te? A costoro
importa che l’oggi sia senza strepiti e senza pericoli, che il tran tran
dell’esistenza seguiti: felici se l'Ita- lia potrà uscire dal rotto della
cuffia — e sia magari verso 64 l'abisso. Così nessuno
si affida con più sicurezza di loro alle decisioni del nostro governo. Il
govetno italiano che fino ad oggi s'è dimostrato come la quintessenza di
questa materia fiscale, perché non d -*ebbe divenirne anche la
stella fatale? L’ospizio degl lidi della Consulta è il faro naturale di
questa marea ».ercoraria che monta. Poi ché essa monta, trionfando. Ogni
giorno che passa nella passività, ogni occasione perduta, ogni ambizione
abdi- cata, ogni nuova difficoltà creata servono ottimamente al suo
incremento e alla sua propagazione. Siamo già a buon punto. Dopo aver
impedito con tutto il suo peso ri- pugnante ogni movimento, questa massa
pestifera ha già una voce per dire che muoversi ora è troppo tardi.
An- cora poche settimane e sarà forse vero, e tutti saremo sommersi
per sempre. Amici! Noi abbiamo parlato e scritto: abbiamo
propu- gnato tutto il calore delle nostre anime per oppotci alla
vigliaccheria inaudita di una bella parte dei nostri con- cittadini.
Credo che il momento di una lotta più diretta e dura stia per giungere.
Le armi della mente e del cuore stanno per esaurirsi. Bisognerà ricorrere
alle altre, se non vogliamo che l’Italia piombi al livello della più
vergognosa fra le nazioni. Un paese che abbia per scrittori dei
Pao- lieri e la Nazione come giornale ufficiale. Arvenco
SOFFICI [da: Lacerba, n. 18, 15, settembre 1914; e n. 19, 1° ottobre
1914] L'ORGOGLIO ITALIANO Il 13 Ottobre, nella prima
perlustrazione fatta da me agli ordini del capitano Monticelli e del
sergente Visconti in terreno nemico, a 6 Km. dalle nostre trincee, fra
le alte roccie a picco, nelle boscaglie e nelle pietraie dell'A]
tissimo, dopo esserci incontrati con una pattuglia austria
65 ca che ci voltò le spalle e fuggì, constatammo con gioia
la superiorità enorme della nostra artiglieria, i cui tiri meravigliosi,
passando su di noi e sul lago, sostenevano la nostra avanzata in Val di
Ledro. Nella seconda perlustrazione fatta da me, dai miei amici
futuristi Boccioni e Sant'Elia e dal pittot Recci, esplorando e
occupando la trincea delle Tre Piante, constatammo con quale gioconda
disinvoltura dei giovani pittori e poeti italiani possano trasformarsi
in audaci, rudi, instacabili alpini. Durante l'avanzata,
l'assalto e la presa di Dosso Ca- sina, compiuta dai Volontari ciclisti
lombardi e da un battaglione di alpini, vedemmo le truppe austriache
sgo- minate dalla baldanza di pochi italiani diciassettenni e
cinquantenni, non allenati alla guerra in montagna. Dopo aver matciato
per 7 giorni in un foltissimo nebbione, con vestiti quasi estivi malgrado
la temperatura di 15 gradi sotto zero, i Volontari ciclisti
pernacchiavano allegramen- te alle migliaia di sbrapne!s prodigati loro
da 5 forti austria- ci. I nuovi raccoglitori di bossoli e di schegge
micidiali facevano finalmente dimenticare gli stupidissimi e senti-
mentali raccoglitori di edelweiss. Constatammo che degl'italiani,
già operai, impiegati o borghesi sedentarii, sapevano vincere in astuzia
qualsiasi pattuglia di Kazserjigers. Constatammo che un corpo di
300 valontati ciclisti improvvisati alpini sapeva strategi- camente
manovrare su per montagne ignote, con tale abi lità che il nemico si
credette accerchiato da migliaia d’uo- mini. Constatammo che uno studente
italiano, trasforma- to in ufficiale, può comandare tutta l'artiglieria
d'una zona e sfondare coi suoi tiri 6 o 7 forti austriaci,
scientificamen- te preparati alla difesa in 20 o 30 anni.
Constatammo come il popolo italiano, sotto la direzione geniale di
Ca- dorna, abbia saputo improvvisare in pochi mesi la prima
artiglieria dei mondo e vincere di continuo nella più spa- ventosa e
difficile guerra che sia mai stata combattuta. Singhiozzammo di gioia
all’udire dalla viva voce di 20 o 30 giornalisti esteri, quali Jean
Carrère e Serge Basset, che l'esercito capace di vincere e di avanzare sul
Carso è si- curamente il primo esercito del mondo. Dopo aver
visto il popolo italiano, « il più mobile di tutti i popoli », liberarsi
futuristicamente, con una scrol- lata di spalle, dalla lurida vecchia
camicia di forza giolit- tiana, vediamo ora nelle vie milanesi fervide di
lavoro, come il popolo italiano, che sembrava avvelenato di paci-
fismo, sa guardare con fierezza questa nobile, utile e igie- nica
profusione di sangue italiano. Tutto questo ci conferma una volta
di più che nessun popolo può uguagliare: 1. - il genio
creatore del popolo italiano; 2. - l'elasticità improvvisatrice di
cui sempre danno prova gl’italiani; 3. - la forza, l’agilità
e la resistenza fisica degl'’italiani; 4. - l'impeto, la violenza e
l’accanimento con cui gli italiani sanno combattere: la pazienza, il metodo e il calcolo
degl'italiani nel fare una guetra; 6. - il firismo e la
nobiltà morale della nazione italiana nel nutrirla di sangue o denaro. ITALIANI!
Voi dovete costruire l'Orgoglio italiano sulla indiscutibile superiorità
del popolo italiano în tutto. Questo orgoglio fu uno dei principii
essenziali dei nostri manifesti futuristi dall’origine del nostto
Movimento, cioè da 6 anni fa, quando primi e soli (mentre
l’irredentismo agonizzava e il partito Nazionalista non era ancora
nato) invocammo violentemente, nei teatri e sulle piazze, la guer-
ra come unica igiene, unica morale educatrice, unico velo- ce motore di
progresso. Eravamo allora sicuri di vincere l’Austria e di
centu- plicare il nostro valote e il nostro prestigio vincendola. Eravamo
soli convinti della prossima conflagrazione gene- rale, che tutti
giudicavano impossibile in nome di due pseudo-fatalità: lo sciopero delle
Banche e lo sciopero dei proletariati. Eravamo convinti che
coll’Inghilterra, la Fran- cia, la Russia, noi dovevamo utilizzare le
nostre inesauribili forze di razza e il nostro genio improvvisatare,
collabo- 67 rando allo strangolamento del teutonismo,
fatto di balor- daggine medioevale, di preparazione meticolosa e
d’ogni pedanteria professorale. Apparve allora il mio
Monoplan du Pape, visione pro- fetica della nostra vittoriosa guerra
contro l’Austria. Infat- ti noi soli fummo profetici ed ispirati, perché,
più giovani di tutti, più poeti, più imprudenti, più lontani dalla poli-
tica opporttunistica e quietista, traemmo la visione del fu- turo dal
nostro temperamento formidabile, e pur consta- tando intorno a noi la
vecchia mediocrità italiana, credem- mo fermamente nell’avvenite grande
dell’Italia, semplice- mente perché noi futuristi eravamo Italiani.
ITALIANI! Voi dovete manifestare dovunque questo orgoglio italiano
e imporlo in Italia e all'estero colla pa- rola e colla violenza, come
facemmo noi in Francia, nel Belgio, in Russia, nelle nostre numerose conferenze
bat- tagliere. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella
schiena l'italiano che non si manifesta spavaldamente orgoglioso
d’essere italiano e convinto che l'Italia è destinata a dominare il
mondo col genio creatore della sua arte e la potenza del suo esercito
impareggiabile. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena
l'italiano che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio
pes- simismo imbecille, denigratore e straccione che bha carat-
terizzata la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia di
mediocristi antimilitari (tipo Giolitti), di professori pa- cifisti (tipa
Benedetto Croce, Claudio Treves, Entico Ferti, Filippo Turati), di
archeologhi, di eruditi, di poeti nostal- gici, di conservatori di musei,
di albergatori, di topi di biblioteche e di città morte, tutti
neutralisti e vigliacchi, che noi, primi e soli in Italia, abbiamo
denunciati, vilipesi come nemici della patria, e veramente frustati con
abbon- danti e continue doccie di sputi. Merita schiaffi, calci
e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che si
nasconde sotto il suo inge- gno come fa lo struzzo sotto le sue penne di
lusso e non sa identificare il proprio cotgoglio coll’orgoglio
militare della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena
l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la sua viltà,
dimenticando che creazione artistica è sinonimo di eroismo morale e
fisico. Merita schiaffi, calci e fucila- re nella schiena l'artista o il
pensatore italiano che, fisica- mente valido, dimostrando la più assoluta
assenza di va- lore umano, si chiude nell’arte come in un sanatorio o
in un lazzaretto di colerosi e non offre la sua vita per ingi-
gantire l’Orgoglio italiano. Mentre altri futuristi fanno il loro
dovere nell’esercito regolate, noi futuristi volontari del Battaglione
lombardo, dopo essere stati semplici soldati in 6 mesi di guerra,
ed aver preso cogli alpini la posizione austriaca di Dosso Casina,
aspettiamo ansiosamente il piacere di ritornare al fuoco in altri corpi,
poiché siamo più che mai convinti che alle brevi parole devono subito
seguire i pronti, fulminei e decisivi fatti. La sensibilità e l'acume
politico « d'avanguardia » dei futuristi non potevano rimanere
indifferenti di fron- te ai loro avversari 0 alla «controparte »
dell'avanguar- dia, quella socialista. La reciprocità dell'opposizione
al potere liberalborghese, a « passatista» per dirla alla
Marinetti, era motivo di accostamento, forse, 0 per lo meno di attenzione
da ambo le parti. E sappiamo dal De Felice che molti « proletari » o
esponenti dei ceti umili osservavano con attenzione e seguivano il
movi mento di Martinetti con calore di simpatia. Marîo
Carli, fra i più sensibili esponenti certo del futurismo «d'assalto », si
accorge della presenza di ele- menti comuni nelle avanguardie, e lancia
un appello da Roma futurista # 13 /uglio del ’19 nel tentativo
forse di un avvicinamento. L'avvertimento della necessità di
rovesciare la classe dirigente corrotta e impreparata of- fre una base
comune all'intento di collaborazione per il sostegno del proletariato,
operaio od ex combattente che sia. La polemica continua sulla stessa
testata, nel numero del 92 novembre dello stesso anno con un arti
colo di Giuseppe Bottai dal titolo Futurismo contro Socialismo.
L'immpossibilità di collaborazione è già vista dal Bottai con tutta la
sua evidenza, ed è vista per ragioni squisitamente ideologiche,
rifacentesi gi presup- posti filosofici del socialismo e del socialismo
italiano, in particolare. Il 14 dicembre ancora del ’19, entra
nella polemica un socialista, certo Moannarese, cui ven- gono aperte le
colonne di Roma futurista @ fargli so- stenere più o meno la stessa tesi
di Bottai, anche se vista da angolazione marxista, dogmatica e
inequivoca bile. L’impossibilità della collaborazione è data dalla
ostrattezza del futurismo secondo Manmarese, e dal suo scarso od
insufficientemente risaltante contenuto sociale, che esula dall'unico e
imprescindibile metodo possibile: quello della lotta di classe. L'ultima
battuta è ancora del Bottai ed esce la settimana dopo, sul numero
del 21 dicembre ‘19 dello stesso periodico. La puntualizza zione
degli argomenti e la precisazione dei temi e delle tesi di pensiero son
lutte protese a dimostrare lo sin- cerità filo-popolare del futurismo e
la falsità democra- tica del socialismo per cui è quasi necessario
essere contro il socialismo, ed indispensabile, se si ama il po-
polo italiano, quello dei proletari arditi con cui anche Bottai aveva
combattuto nelle trincee al fronte della prima guerra. « Noi siamo per
l'elevazione del popolo, e non per l'assolutismo demagogico di esto»,
sottoli neava l'autore, concludendo a grandi caratteri « Contro il
socialismo non vuol dire contro il proletariato ». Ho esaminato seriamente
l'ipotesi di una collaborazione fra noi (futuristi, arditi, fascisti,
combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti
ufficiali, rifor- misti, sindacalisti, repubblicani. A parte
il fatto che, in realtà, essi siano assai meno precursori ed audaci di
quanto a parale vogliano far cre- dere, io mi sono preoccupato
esclusivamente di cercare il terreno comune nel quale si possa, noi e
loro, associa- re gli sforzi e marciare d'intesa verso lo stesso obiettivo.
Il terreno comune c'è. Ed è quanto di più nobile e attraente possa
offrirsi a degli spiriti sinceramente aman- ti del progresso e della
libertà. E' la lotta contro le at- tuali classi dirigenti, grette,
incapaci e disoneste, si chia- mino borghesia o plutocrazia o
pescecanismo o parlamen- tarismo. Non è possibile lasciar loro più oltre
la potenza del denaro e il potere governativo e amministrativo;
sono una casta che deve cadere e cadrà. E’ questa caduta che noi
dobbiamo affrettare, con tutti i mezzi e con tutte le fotze
disponibili. Or ora, l'esperimento del « caro-viveri » in tante
città d’Italia, ci ammonisce che di fronte a problemi gravi e
pressanti, non c’è odio di parte né antipatia sentimentale che tenga. Noi
possiamo ben dare (e l'abbiamo data) una valida mano ai pussisti per
impedire che il popolo sia affamato. Non pottebbero i socialisti vedere
nel nostro gesto disinteressato e leale una prova della nostra sim-
patia per il popolo, si chiami combattente o si chiami operaio, e
riconoscere che la nostra azione tende, quanto e più forse della loro, ad
equiparare le classi sociali? Esiste un Marifesto del Partito
Futurista, ed un libro di Marinetti dal titolo « Democrazia futurista »,
dove è condensato quanto di più moderno, di più progredito, di più
spregiudicato, di più audace e rivoluzionario si può oggi pensare nel
campo politico. Ma i partiti pseudo- 75 avanguardisti
e pseudo-rivoluzionari ostentano di ignora. re e manifesto e libro, né
mai hanno fatto il più timido gesto di simpatia o d'interesse verso idee
o remperamenti ai quali dovrebbero sentirsi attratti per istinto!
Perché? Eppure noi siamo libertari quanto gli anarchici, demo-
cratici quanto i socialisti, repubblicani quanto i repubbli- cani più
accesi. Si tratta dunque di mala fede? Pare di sì, perché, se
non fossero in mala fede, costoro dovrebbero inginoc- chiarsi davanti a
noi e chiamarci come loro capi. Se la loro lotta politica fosse sincera e
convinta (parlo special mente dei pussisti), dovrebbero ammirate senza
riserve il nostro spirito rivoluzionario che, dopo aver schiantato
quella fetida cancrena del passatismo europeo che si chia- mava Impero
d’Asburgo e contribuito a umiliare il tra- cotante militarismo tedesco,
vuole oggi demolire a colpi di bomba i vecchi sistemi, i regimi
decrepiti, i focolai di putredine che costituiscono la grande cloaca
politica ita- liana. Se fossero in buona fede, dovrebbero
riconoscere che noi soli, uomini di guerra che non ignoriamo il
piombo e l’acciaio laceratore di carni, sapremo, a tempo debito,
scatenare e condurre una rivoluzione, non già dal Quartier Generale di
una qualsiasi Camera del Lavoro, ma alla testa delle moltitudini in
marcia. Se fossero in buona fede, sapete che cosa dovrebbero
dire questi organizzatori di masse a scopi elettorali? Ci direbbero —
Venite qua, futuristi, arditi, fascisti, com- battenti tutti: voi che
siete più rivoluzionati di noi, più audaci di noi, più liberi di noi, voi
che amate il popolo più sinceramente di noi! Venite qua, uomini d'azione
e di comando: a voi il guidare le masse verso la libertà e la
ricchezza! a voi il rovesciare i vecchi sistemi, i vecchi dogmi e le
vecchie tirannidi! noi ci ritiriamo nei ranghi. Perché non lo
fanno? Perché questi falsi socialisti che scrivono in
giornali luridamente borghesi come Il! Tempo e La Stampa, per ché
pagano bene, si sfiatano a chiamarci reazionari della borghesia,
carabinieri più dei carabinieri, a diffamarci imbecillescamente? Perché hanno respirato
di soddisfazione al- l'avvento del reazionarissimo gabinetto Nitti e
complici? Perché hanno lanciato dalle colonne dell’Avanti
pochi giorni fa, un grido d'amote alla censura che se n’andava,
promettendole di richiamarla con tutti gli onori non ap- pena il
socialismo ufficiale fosse salito al potere? Perché tentano di far
credere ai soldati che gli uf- ficiali combattenti costituiscono una «
casta » borghese, quando i soldati ricordano ancora il loro tenentino
che in trincea si adagiava nello stessa fango, mangiava nella
stessa gavetta, correva gli stessi rischi, buscava le stesse ferite, come
ciascuno di loto? Perché non si decidono a riconoscere che la
guerra ha liberato il mondo dall'incubo dell'imperialismo germa-
nico e ha impresso alle conquiste ideali e materiali dei popoli un ritmo
di fantastica velocità, che, senza di essa, non si sarebbe neppure
sognato? Perché seguitano a confondere guerra rivoluzionaria
con militarismo, socialismo con bolscevismo, popolo con pagliacci
tesserati? Perché combattono gli Arditi, che pure sono usciti
dal popolo, e del popolo rappresentano la parte più vi- gorosa e
combattiva? Perché si ostinano a ripetere con tediosa
monotonia che la guerra è stata voluta dalla borghesia, attribuendo
dunque a questa classe un vanto che certo non le spetta? Ho
lanciato l’invito. Ho mostrato ai nostti avversari il terreno sul
quale potremmo intenderci, e le pregiudiziali antipatiche che
c’'impediscono un avvicinamento. Sapranno essi spogliarsi di queste
pregiudiziali che sono altrettanti errori gravissimi?
Sapranno a loro volta dirci una patola onesta e schiet- ta di
simpatia disinteressata? Se capiranno che è assurdo e bestiale continuare
una campagna diffamatoria contro una guerra che si è chiusa
vittoriosamente e che, malgrado tutto, ha giovato enormemente al
proletariato, se capi- ranno che noi pur amando fieramente l'Italia, non
abbia- mo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari, codini
Fb) e clericali, essi ci tenderanno la mano e
ci aiuteranno a spezzare tutte le schiavitù che ancora ci
sovrastano. Dopo, potremo tornare a divorarci, se sarà necessario.
Marro CARLI {da: Roma futurista, 13 luglio 1919) Bisogno, ad
ogni sosta, di guardare attorno. Vedere un po' come va la vita, la cui
visione precisa, a volte, si perde nel martellamento sanguigno della
lotta. Misu- rare i compagni e gli avversari. Riprendere le
distanze. Ci teniamo molto, via via che più si ingarbuglia il
fascio di forze e di tendenze del mondo politico italiano, a rittovare i
nostri contorni. Pulirli. Indurirli sì che si rimbalzi sopra qualunque
tentativo di penetrazione im- pura. La lotta di partiti, nel
suo svolgimento poco netto, si traduce rispetto a noi futuristi,
assertori del predomi. nio della genialità italiana, in un lavoro di
isolamento. Le scorie cadono. La marcia viene schizzata via dalle
contrazioni atletiche della nostra carne sana. Solitudine
splendida. Nella costituzione organica dei vari aggregati di
parte noi siamo il cetvello possente che domina, e comanda alle tre
membra funzioni del tutto subordinate. In questa immagine somatica, il
partito socialista ufficiale rappre- senta, rispetto a noi, l'intestino
retto, maceratore e scari- catore d'ogni feccia. Un compito
troppo importante, come bene ha detto l’amico Settimelli, per poterlo
disprezzare. Ci vuole. Solamente è bene che non si dimentichi mai
la sua posizione assolutamente accessoria. La nostra
antipatia per il socialismo in genere, pet 76
il socialismo italiano in particolare, ha delle ragioni pro- fonde
balzanti dall'istinto della nostra razza di cui noi siamo i
rappresentanti più interiori, con tutti i suoi di- fetti se si vuole, ma
anche con tutte, t44te, le sue doti di energia, di intelligenza, di
ardimento. E distinguiamo ciò che sempre si può giustificare nel quadro
infinito della vita, l'idea, da ciò che, appunto perché nella vita, si
ha il dovere di discutere e di espellere, quando ne arresti il
libero svolgimento. Idee e uomini. Socialismo e
socialisti italiani. Noi siamo contro il socialismo perché
astrazione fi- losofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo
che si agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovata, e mai
si troverà la formula di traduzione in positivi svi- luppi di masse
sociali. Meditazioni di uomini respinti dalla vita calda e vibrante, per
un ingranaggio disgraziato della loro mente incapace di aderire alla
bellezza appas sionante del mondo. La riforma che l'idee
socialiste propugnano, non na- sce da noi, dalla nostra maniera di
essere, dalla nostra natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e
dividerci. Cala dall'alto, da cieli metafisici. Ha l’impotenza
caratte- ristica di tutte le religioni meditate, ragionate,
logiche, e non create dallo slancio lirico di un'anima d'uomo.
Marx ed Engels hanno costituito delle sopra realtà gigantesche che
tutti hanno dichiarato magnifiche, ma che nessuno ha avuto il coraggio di
criticare, appunto perché la critica umana non si può esercitare su delle
con- cezioni prive di umanità. Boris d’Ysckull, uno di quei
mistici slavi capaci di bere ogni miscela più insipida, ha confessato di
non aver mai compreso quasi niente di simili esposizioni domma-
tiche, e di essere stato attirato solo per la loro oscurità affascinante.
Chi, italiano, può così rinunziare alla vulca- nica e solate natura da
itrigidirsi in questi mondi sen- z'aria, non può che trovarsi
nell’identica posizione del- l’illustre imbecille surricordato. Le
prime utopie della Città, mantenentesi allo studio di immaginose e
dilettose 15; invenzioni nei primitivi —
Platone, Tommaso Moro Campanella — passando a peggior vita nelle scatole
cra. niche dei tedeschi, si sono meccanizzate in modo da di venire
delle cose perfettamente anti-geniali, anti-latine e, soprattutto
anti-italiane. Noi fututisti, che abbiamo violentato il vuoto e
so- gnante torpore italiano riempiendolo di idealità fatte di vita,
intessute di nervi sensibili, calde di sangue rossis- simo, vogliamo una
penetrazione a fondo nel blocco psi- cologico della nazione: ivi è la
direttiva unica delle tra- sformazioni che il nostro destino esige.
Noi siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo la necessità
della diseduguaglianza. Diseduguaglianza di valori, che bisogna esaltate,
lievitare, mantenere ad ogni costo. Un piano uguale di esistenza, una
distribuzione ar- monica dei beni, una soppressione assoluta di
privilegi — ma su questo livellamento di condizioni materiali
l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole capacità. II
socialismo, pretendendo distruggere la molteplicità innata di un popolo
non può, in via logica, che discen- dere dalla nazione alla città alla
famiglia, dalla famiglia all'individuo, e quindi alla creazione di tanti
individui identici, a stampo, senza differenze di tipi. Il
comunismo, ch'è la forma più in voga, non può tradursi, a meno di
negatsi, che in un monismo esasperante, monotono e inerte. La
Russia ce ne dà la prova: la massa oppone al ten- tativo di numerazione,
che offre appena una pallida idea, per il carattere più pacato e passivo
di quel popolo, di ciò che avverrebbe da noi. L'Italia è
tutta un magnifico inno di incoerenza, dal l'Alpi alla Sicilia.
Follemente varia. Ogni provincia un mondo. Popolazioni dolci come le sue
pianure, laboriose come i suoi fiumi, divampanti come i suoi
vulcani. Noi non possiamo pensare che tutto ciò si riduca a
un uniforme impasto. Noi futuristi opponiamo la neces- sità assoluta di
un decentramento che mantenga, esalti, vivifichi fino al culmine ogni
caratteristica, ogni genialità, ogni attitudine delle singole regioni:
l’unità italiana sarà allora una valorizzazione completa di sufta
i'Ttalia. 78 Siamo contto il socialismo perché idea
generatrice di vigliaccheria. Della gente che riuscisse davvero ad
attuare la distribuzione economica dello Stato socialista, dovreb-
be basarsi su un concetto di mutualità cooperativistica.
Cooperativa a mutuo soccorso vuol dire la sicurezza matematica di
non rimaner mai al verde quindi abolita ogni situazione di Jotta, reso
campletamente inutile lo sviluppo e il gusto del rischio. Spatizione di
coraggio. Se ciò è immaginabile su piccola scala, perché gli
ef- fetti malefici sarebbero ridotti così al minimo da essere
cancellati dai vantaggi, non si può pensare cosa sarebbe mai una nazione
sottoposta a tale regime, soppressa ogni difficoltà di cartiera,
butocratizzata Ja conquista della vita, scomparso ogni pericolo, ogni
ansia, ogni tensione. Non trovando nulla di vario nei suoi sirzili,
non tro- vando nulla di divertente nella sua esistenza logica, a
ore, a mansioni fisse, l'uomo socialista finirebbe col rientrare in
sé stesso. Cercare in sé l'interesse che il mondo non gli offre. Alla
forza di diffusione dei popoli geniali, si sostituirebbe quella di
egoismo egocentrico dei popoli cal colatori. Da simili mondi
la generosità fugge taccapricciata, non può distribuire i suoi
insegnamenti di grandezza: è come andare a vendere ombrelli in un paese
dove non piove mai — a che serve esser generosi con della gente che
è tutto misurato, tutto il necessario?... La morale che tali
ambienti possono produtre è ma- rale di egoismo e di vigliaccheria.
Noi opponiamo la morale della generosità, lucidamen- te affermata
da Balilla Pratella, quotidianamente da noi vissuta in una dedizione
senza calcolo, in una aderenza spontanea e intellipente alle tramutanti
necessità della Patria. Queste le tre ragioni fondamentali
che ci dividono dal socialismo — idea —: la astrazione filosofica e
inu- mana della formula, la sua azione di parificazione moni-
stica, la derivazione logica di antigenerosità = vigliac- cheria,
egoismo. Altre ragioni particolari ci sono, che ci porterebbero ad
una disanima troppo lunga — ragioni, del resto, che non sono specifiche
della nostra differenza dal socialismo, ma che possono essere anche di
altri partiti. Esempi: l'assurdità della soppressione dello Stato come potere
cen- trale, la sciocca concezione di una pace eterna, ecc. ecc.
* o * I socialisti italiani. Sono,
indubbiamente, dei buoni socialisti perché han- no già, in pieno regime
borghese lo stadio mentale senza calore e senza colore del socialista di
domani. Non sen- tiamo il bisogno di spenderci molte parole, né di
pas- sarli in rivista uno ad uno. Dirigenti: dittatura di
vomini che hanno la mira pre- cisa di diventare qualche cosa,
un'autorità, una persona importante. Non c'è tra loro neppure un mistico
esaltato che interessi. Calcolatori. Cinici. Seguaci: massa
la cuì concezione più alta è questa: bisogna distruggere il caroviveri.
Gente che cerca di met- tersi a posto. Invidia il horghese, quindi ha
desiderio di divenire il borghese. Le loto qualità principali
sono: inintelligenza: non hanno ancora capito che il sociali
smo è diverso da popolo a popolo: commerciale nel- l'America del
Nord, conservatore in Inghilterra, filosofico in Germania, mistico in
Russia. Non hanno capito che il socialismo in Italia può, caso mai,
balzare dalle nostre istituzioni rurali; inattualità: sano
coerenti in una maniera fantastica, tant'è vero che le idee invecchiano e
loto seguitano ad usarle. Credono d’essere all'avanguardia, e lo sono
come il gambero, il cui traguardo è sempre alle spalle, dietro:
vigliaccheria: oltre la vigliaccheria propria della idea hanno una
viltà tutta propria, personalissima, originale: inutile parlarne: chi
interviene ai comizi elettorali ne sa qualcosa. Il futurismo
è il mondo più lontano dal socialismo. 80 Il
futurismo è veramente il senso di una religione nuova, che si dirige alle
anime, agli spiriti, ai cervelli, e non si interessa del corpo che per
fortificarne i muscoli, farne strumento di agilità audacissime e di
voluttà sane. Generato dal cervello di un attista ha tutta
l'umanità di una idea italiana, sempre profumata di buona terra
fer- tile anche quando si esalti fino ai più puri orizzonti.
Attività poliedrica, il futurismo è lo sfruttamento com- pleto di
tutte le penialità italiane, manuali e cerebrali. Ridarà all'Italia i
suoi magnifici artieri, maestri d'ogni sotta di lavoro, come lo à dato e
lo darà ai suoi artisti più grandi. I suoi vomini non hanno deficienza:
danno la loro vita in una proteiforme attività prodigiosa. Poeti e
soldati, sogno e vigilanza, idea e azione. Non c’è possibilità di
contatto tra la nostra morale e quella socialista, tra i nostri uomini e
i loro. E’ assurdo ogni pensiero di collaborazione.
FUTURISMO CONTRO SOCIALISMO. SEMPRE A QUALUNQUE COSTO!
GiusePPE BOTTAI {[da: Roma futurista.Noi e i borghesi
Non una polemica, ma una discussione calma e pa- cata. Polemica no, per
non arrivare fino a quella anima- zione un po’ acre e impetuosa, che annebbia
le idee e deforma la realtà. Ci tengo, a questa dichiarazione
preliminare, perché l'amico Mannarese, nel suo lucido articolo, pur
mante- nendosi in una linea di cortese serenità, devia in punta-
tine ironiche, che non èànno ragione di essere, se vera- 81
mente egli ci vuole aiutare, nella demarcazione esatta
della nostra individualità politica. Trovo ad esempio molto
strano, per un futurista, l'os- servarsi che la mia formula (adopto la
parola formula, per attenermi alla dizione dell'amico, per quanto essa
ab- bia un senso storico, che mi ripugna) abbia potuto rin-
galluzzir di saverchio, con la sua violenza: “futurismo con- tro
sociglismo, sempre, a qualungue costo” qualche buon borghesetto. Questo
non mi preoccupa, e direi, anzi non ci preoccupa. Noi esprimiamo
liberamente le nostre idee, le gettiamo nel mondo, tta la gente; e i casi
sono due, come sempre: o la gente non le capisce e allora non c’è
nulla da fare: o le capisce, le approva, ci si interessa, c le apprezza
nel giusto valore, e allora poco ci importa che tale gente sia proletaria
o borghese, destra o sinistra, e, anche, ambidestra. Noi non
sosterremo mai, com'un certo avvocatino di nostra conoscenza fece in una
recente seduta del Fascio di Combattimento romano, che la guerra ha
distrutto agni distinzione tra destra e sinistra; ma non vogliamo di
tali logiche e necessarie e salutari differenziazioni (?) fare il
nostro spaventacchio. Chè, pet questa via, si giunge alla grossolana
affermazione di Adriano Tilgher (Tempo, 7 dic., pag. 3, Piccoli borghesi
al bivio): essere il furore antisocialista degli atditi originato
dall’appartenere costo- ro, quasi tutti alle classi medie; e pensare che
in parec- chi mesi di convivenza con le fiamme nere mi son trovati
attorno solo contadini, operai, lavoratori-proletari! Prima
caratteristica del futurismo, è questa, libera, sciolta sfrenata
spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede oggi difensori dei suoi
salami, delle sue salsicce, poco ma- le! ciò potrà darci la prova della
sua minchioneria, non già infirmate l’esattezza del grido « futurismo
contro so- cialismo ». Socialismo non è proletariato
L’amico Mannarese fa un’identificazione pericolosissi- ma, e
non rispondente alla realtà positiva dei fatti. Egli 82
pone sullo stesso piano socialismo e proletariato,
stabili- sce senz'altro questa identità matematica: socialismo =
pro- letariato. Ciò spiega perché tanto si accanisca contto
la finale del mio articolo. Alle parole « contro socialismo, sempre
a qualunque costo » è dato il valore di un'affermazione di questo genere:
« contro le aspirazioni del popolo, contro i diritti dei poveri, ecc.,
ecc... ». Orta, mi ribello assolutamente. Non in nome mio sol
tanto, ma di tutti i futnristi, e anche, di tutti i nostri amici fascisti.
Distinguere bisogna. Una cosa è quello che l'amico chiama:
«/o sforzo vio- lento, l’oscura irresistibile aspirazione della massa
verso un regime di maggior giustizia economica » e un'altra cosa è
il socialismo. Le aspirazioni proletatie sono fatto imma- nente,
istintivo, fatale, non pensato ma sorto da sé, il so- cialismo è uno dei
tanti sistemi, i quali, da che il mondo è mondo, si accaniscono sulla
disparità di condizioni delle classi. Se io mi pongo contro
il socialismo o contro i socia- listi, mi dichiaro contrario ad un
sistema filosofico, giu- ridico, economico, morale ed ai suoi sostenitori
(filosofi, demagoghi e procaccianti che siano), ma non è detto
ch’io voglia attaccare l’oggetto di tale sistema che è il prole-
tariato. Non debbo, quindi, rettificare in nulla la mia
incri- minata frase, ch'era un grido, un appello conclusivo del mio
articolo, limitatosi ad una valutazione di idee, e non aveva la pretesa
d’essere un caposaldo, un domma, un punto cardinale, ed altri simili
paroloni che noi lasciamo agli oratori da comizio.
L'affermazione: « Noi non siamo contro il socialismo, ma contro gli
uomini, i metodi e la filosofia socialista » del Mannarese è un
non-senso, perché appunto: socialismo è flosofia sostenuta da wormini con
determinati metodi. Quella che il Mannarese chiama sostanza (eh!
queste parole che otribili titi giuocavano, a volte) ossia: «la
guerra per l'indipendenza economica dei poveri contro i R3
ricchi » non è privativa assoluta del socialismo, è
solo l'obiettivo dei suoi studi, dei suoi tentativi, come essa fu
obbietto della favola di Menenio Agrippa, e delle teorie di Fenelon, e
della scuola di Saint Simon, e del sistema di Grace Baboeuf e Roberto
Qwen, e così pure della filosofia di Marx ed Engels. Anche il
nazionalismo, anche il partito popolare, tutti anno affermazioni
solenni: « qui è l'unico infallibile specifico per il dolore del
po- palo » e io posso essere contro questi modi da cerratani senza
mai essere né contro il popolo né contro le sue sacre e legittime
aspirazioni economiche I programmi economici
All'amico Mannarese è forse sfuggito nel mio articolo questo periodo: «
Un piano eguale di esistenza, una di- stribuzione armonica di beni, una
soppressione assoluta di privilegi ma su questo livellamento di
condizioni mate- viali l’esplicarsi diverso, individualissimo delle
singole ca- pacità ». Qui, evidentemente, si dice: «
noi passiamo essere d'accordo nelle finalità economiche del socialismo ».
Quelle tre proposizioni del programma politico futurista di Ma-
tinetti, Carli e Sertimelli, che il Mannarese dice troppo generiche, anno
il merito di poter domani assorbire in sé, senza contrasto, qualunque
ardimento consono allo spi- rito dei tempi. Hanno
un’intenzione pragmatista, che non deve sfug- gite. Il
programma di riforme economiche, lanciato ai po- poli come panacèa, è
cosa vecchia di tutti i tempi e di tutte le genti. Ogni scuola politica è
per prima cosa inal- berata questa insegna molto attraente. Tutti i
programmi ben definiti, schematizzati, rigidi, anno sempre atteso,
con grande pazienza, che le cose del mando si incanalas- sero ne’
fossati, canali e zenelle da loro tracciati, ma le cose del mondo anno
dimostrato, a lume di storia, di procedere per via di approssimazioni
successive, le quali avvengono non già pet magnetizzazione esetcitata cai
suddetti programmi, ma per madificazioni addotte, nel blocco
fisiopsicologico di una collettività, dal sistema di educa- zione, dalle
idee di morale circolanti, dalla rinnovatasi coscienza
giuridico-sociale. Se oggi, per ragioni ovvie, il problema
economico è venuto in primo piano, non bisogna dimenticare che la
parte veramente essenziale di un sistema politico non è già il disegno di
un futura assestamento economico, ma è il metodo con cui saprà,
attraverso uno studio positivo dello stato presente e dei caratteri
permanenti della so- cietà in genere (meglio ancora di una data parte di
so- cietà) creare tutt'un’atmosfera spirituale intellettuale psi-
cologica, che renda possibile l’attuazione di quel dato or- dinamento
economico, che nel momento è bene limitarsi a definire
desiderabile. I socialisti italiani sanno che il popolo italiano
non à neppure iniziata l'evoluzione sociale che permetta l’av-
vento, ad esempio, del comunismo. Ora essi, scavalcando completamente
ogni lavoro di educazione, sventagliano i loro proclami di rivendicazioni
economiche. Il popolo risponde, è naturale: è Bengodi con i suoi
meravigliosi panorami. Ma ciò non significa aver creata una società
comunista, come non è fare un signore aristocratico d'un villanzone
qualsiasi il riempirgli le tasche di denaro. Sotto il punto di
vista della potenzialità vera di un partito il valore di tali programmi è
nullo. Hanno un valore pratico di specchietto per gli allocchi, e se
l'amico Mannarese ci avesse detto che, abbondando gli allocchi, è
bene ch’anche noi abbiamo il nostro specchietto, gli avremmo dato piena
ragione. Il nuovo imperialismo Non ci deve, quindi,
affligere di soverchio, la man- canza di formulazioni teoriche, di
programmi economici. Noi futuristi non siamo mai stati assenti quando
questio- ni positive siano in tal senso nate. Né il trionfo
socialista deve farci perder la resta così da correr subito ai
ripari. No. La nostra posizione è netta, e possiamo guardarci
85 tranquillamente intorno: il germe della morte del
socia- lismo è appunto localizzato nel suo sistema di rivendica-
zioni economiche, aggravato dal fatto di essete così iso- lato da ogni
altra considerazione d'ordine superiore da divenire il segno folle di un
nuovo imperialismo. Non è possibile nessun contatto tra due
sistemi così opposti come sono quello socialista e quello futurista.
E’ l’anima differente. E' il cervello diverso.
Se anche noi potessimo conglobare per intero nel no- stro ordine di idee
ogni aspirazione economica del socia- lismo, rimarrebbe la differenza
profonda, incancellabile di indole, di origine e di finalità.
Noi siamo per l'elevazione del popolo, e non pet l’as- solutismo
demagogico di essa. Tirando le somme E riassumiamo,
perché la discussione non rimanga uno sterile battibecco. L'amico
Mannarese m’à offerto il modo di delineare meglio la nostra situazione
innanzi al socia. lismo: 1) posizione di ostilità per indole
spirituale diversa; 2) possibile comunanza di vedute economiche:
il che non implica nessuna fusione; 3) condivisione di
alcune idee (come ad esempio il divorzio ecc. ecc.) che non sono prerogativa
socialista, € che non possono, quindi, render omogenee due sostanze
diverse. CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOL DIRE CONTRO IL
PROLETARIATO. GiusePPE BOTTAI [da: Roma futurista, 21
dicembre 1919] La lentezza delle democrazie, le pastoie
burocrati che dei procedimenti parlamentari. il vecchiume paro-
laio dei barbuti senatori non possono essere ben visti dai futuristi. La
velocità, il dinamismo, la lotta, la competizione, l’azione mal si
addicono agli organismi pingui e sclerotici delle democrazie, quella
italiana in particolare. Già nel 1910 Marinetti lo mette in rilie-
vo ed indica nel suo manifesto «Contro l'amore e 3 parlamentarismo »,
sintomo ed espressione di questa sua antipatia e di guesta sua avversione
Persino l'amo- re e le donne in senso romantico sono indici e stru
menti di « rallentamento », e come tali da evitare tran- ne che per una
loro ben precisa ed organica funzione vitale. Le donne andrebbero invece
bene pei parlamen ti, dove dovrebbero entrare con le loro chiacchiere
e la loro prodigiosa e altisonante facoltà di falsificazione.
Ma non è solo Marinetti a inveire contro il parla mentarismo: c'è
Tavolato che uddirittura « bestemmia contro la democrazia » in un suo
articolo apparso con questo titolo su Lacerba del 1° febbraio 1914, ricco
di espressione e carico di colore linguistico e letterario. I 30
dicembre dello stesso anno un altro futurista, Volt, tuona dalle colonne
di Roma fututista: Abolia- mo il parlamento! In sua sostituzione si
propongonna le rappresentanze dei sindacati per la formazione dello
«Stato tecnico » futurista. E si entra nel merito della personalità
giuridica dei sindacati e della loro forza rap- presentativa in base
all'importanza della loro funzione economica. Non in base numerica, per
cui si rientrereb- be nella concezione democratico-parlamentare. Non
più onorevoli quindi sulle assise delle due camere, ma la-
voratori. E sono tutti concetti che ritroveremo nella concezione corporativa
fascista e nella suu Carta del Lavoro Dopo la guerra
Marinetti intervtene su Roma futu- rista mel maggio del '19 per ribadire
la sua.« concezione futurista della democrazia », come s'intitola il suo
scrit- to, che era già apparso um mese prima, più 0 mena analogo,
su L'Ardito. Vi si sostiene la democrazia tipi camente italiana dei geni:
una sorta di minoranze di individui superiori alla media, destinati a
entrare. in competizione con le altre, definite democrazie
incoscien- li, come prodotta numerico « d’inetti e di sconclusiona-
ti». La forza della nuova democrazia dovrà essere na- turdimente
violentissima data l'accelerazione e il ren dimento degli individui
geniali. La sua « conclusione » sarà logica e conseguenziale: « La
democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte
le sue cellule vive ». L'azione sarà condotta da Mussolini,
ma il presupposto è già comunque e totalmente presente. BESTEMMIA
CONTRO LA DEMOCRAZIA Tre spanne sotto il cervello io nutto un
odio, un odio contro la presunzione del lavoro, un odio contro il
puzzo cosciente, un odio contro l’imbecillita evoluta. Tre spanne sotto
il cervello si spenge ogni polemica. I de- mocretini rinunzino alla
discussione. I democretini s’ada- gino sopra i loro luoghi comuni, perché
il mio piede pos- sa calpestarli. Via, batbe comiziesche che
mi nascondete il sole. Via, mani a ventola e cravatte a bandiera.
Fermati, passo de- mocratico sotto cui trema la terra offesa.
Arrestatevi, la- mentele filamentose, voci incristianare, zuccherose
o pe- pate. Via, spade di legno, trombe sfiatate, via,
inesistenti barricate. Smontate, uomini di paglia, uomini di stoppa
uomini di cartastraccia. Nascondetevi, ceffi di cera, ma- scheratevi,
faccie rinfisecchite, sparite, ghigne insolenti. Sgonfiate, protobischeri
pastori di popolo. Aria ci vuole, e luce e calore e solidità, o anima
mia. Abbasso la de- mocrazia! Fumano d'orgoglio, le gran fave. Fumano,
questi strac- cioni e stronzoni, questi mangiasputi e fiutarutti,
questi tinconi, questi turabuchi, questi scotticapidocchi, questi
merdaioli, questi caconi, questi galoppini, questi pagnot- tisti, questi
biasciconi, questi lumaconi, questi minchioni, questi balordi gonzi e
gralli, questi coglioni appuzzoni e cittulli, questi sussurroni
caccoloni, questi satraponi vir- tuosoni. Già tutto il paese fuma,
smerdata com'è da que- ste pecore matte. Pulizia, pulizia, pulizia!
Abbasso la de- mocrazia! Bischeri sollevatissimi, bischeri
smargiassi, bischeri ventosi, bischeri girandoloni, bischeri soppiattoni,
bische- ri politicanti, bischeri economicizzanti, bischeri vani,
bi- scheri solenni, bischeri tronfi, bischeri crespi, bischeri cal.
losi, bischeri pensosi, bischeti pacifisti, bischeri leghisti, bischeri
classisti, bischeri marxisti, bischeti riformisti, bi- scheri
collettivisti, bischeri revisionisti, bischeti comunisti, bischeri
credenti, bischeri fetenti, bischeri ufficiali, bische- ri legali,
bischeri di cartapecora, bischeri del braccio, bi- scheri del cervello,
bischeri antilibici, bischeri internazio- nalisti, bischeri democratici —
BISCHERI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI! La vostra individualità non ha
importanza. Unitevi! Amalgamatevi! Confondetevi in mel- ma! Anche la
melma dei bischeri, come ogni melma, s'in- crosterà. E sotto le croste ci
sarà il gelo della morte. Così sia. Abbasso la democrazia!
Accidenti alla democrazia, impero delle bestie da so- ma, regno degli
schiavi, padronanza dei servi, supremazia degli impiegati! Democrazia,
sostegno degli sfiaccolati, trionfo dei cimiciosi, glotia dei piattolosi,
arma dei bro- dolosi; democrazia, orchestra di miasmi, concerto di
sputi, convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vitto- ria
dei muscoli e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte e imposizione
del mestiere, vita del debole e agonia del forte; lurida, sudicia, tetra
democrazia, cloaca dove affo- gano fantasia, ingegno, energia, e tutte le
soavità; pro- terva asineria, fessa stivaletia: abbasso la
democrazia! E rovini Ia mediocrità! Fuoco al tugurio dei
democretini! I democretini è la lanterne! La libertà
soltanto a chi sa cosa farsene, a chi sa vi- verla. Agli
altri il giogo, la sferza e la schiavitù. EVVIVA LA FORCA, o
amici, per la libertà vostra e per la libertà mia! ABBASSO
LA DEMOCRAZIA. TAVOLATO [da: Lacerba,Firenze] Aboliamo
pure il Parlamento — si domandano mol- îi — ma cosa metteremo al suo
posto? La risposta è pronta. Soszituiremo til Parlamento con
le rappresentanze dei sindacati agricoli industriali ed ope- rai. La
rappresentanza sindacale sarà la base dello « Stato tecnico »
futurista. AI « collegio » elettorale, circoscrizione fittizia ed
ar- bitraria, entità che sembra creata apposta per l'esercizio del
broglio, sostituiremo il sindacato, espressione organica delle forze
economiche che danno effettivamente forma alla società. AI posto dell’«
onorevole » deputato, dema- gogo costretto all’accattonaggio sistematico
del voto e feu- datario di una nuova feudalità peggiore dell'antica,
man- deremo a governare il paese ingegneri, commercianti ed operai,
gente che sa il suo mestiere e conosce i bisogni reali della propria
classe. Invece di un’Assemblea di in- ttiganti, di chiacchieroni e di
incompetenti, avremo un corpo tecnico adatto allo scopo di dirigere, con
conoscen- za di causa, la grande azienda dello Stato. In
pratica l'idea della rappresentanza sindacale si tro- va di fronte a
difficoltà serie ma non insopportabili. Vati problemi ci si presentano.
1) A quali sindacati concederà lo Stato la personalità politica?
Si tratterà di determinare le categorie di pto- duttori che avranno
diritto a una rappresentanza nel corpo legislativo. L'iscrizione ai
sindacati sarà obbligatoria per tutti i cittadini? A me sembta che sia
più logico lasciare che esercitino i diritti politici coloro che ne hanno
la volontà e coscienza. Coloro che resteranno
volontariamente fuori dei sin. dacati cortisponderanno in parte alle
masse degli astenuti nelle odierne elezioni a suffragio
universale. In base a quale criterio si misurerà il numero di voti da
attribuirsi a ciascuna categoria di sindacati? E’ la questione più
scottante. Il criterio più semplice è quello numerico. Ma così si ricade
nell'atomismo individualistico del suffragio universale. Io
credo che non si debba tener conto del numero degli iscritti al
sindacato, ma della importanza della fun- zione economica che esso
esercita nel Paese. Quindi un sindacato di industriali metallurgici avrà
una rappresen- tanza eguale a quella di un sindacato di lavoratori
del ferro benché questi ultimi siano molto più numerosi. E
ciò perché l’importanza delle due funzioni si con- trobilancerà
nell'economia nazionale. L'amico Settimelli dirà che questo è un
criterio poco democratico. Me ne infischio. 4) Quali saranno
i limiti posti all'esercizio del potere dell'assemblea eletta mediante la
rappresentanza sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere
limitata alle questioni prevalentemente economiche, che sono del
resto le più importanti in politica. Le questioni di
famiglia, di politica estera ecc. dovran- no esser risolte in parte
mediante il « referendum » popo- lare diretto ed in parte
attribuite alla competenza del po- rere esecutivo. Non ho
fatro che accennare le principali questioni. In- vito tutti i giovani
futuristi ad inviarmi le loro soluzioni ai quattro problemi che ho posta,
senza avere la pretesa di risolverli definitivamente. Ma mi sembra che la
que- stione sia matura per lo studio. E poi per noi futuristi « studio
» deve significare già un principio di esecuzione. E’ l’ora di finirla
col Parlamento. Abbiamo fatto la guerra senza bisogno del Parlamento.
Senza il Parlamento sapre- mo fare la pace. E' ora di sbarazzare l’Italia
dalle 508 incompetenze che spadroneggiano a Montecitorio.
VOLT [da: Roma futurista, DEMOCRAZIA FUTURISTA L’orgoglio
italiano non deve essere, non è imperialismo che spera imporre industrie,
accaparrare commerci, inon- dare di prodotti agricoli. Nai difettiamo di
materie prime, e siamo una potenza di ricchezza agricola mediocre.
Il nostro orgoglio italiano è basato sulla superiorità nostta come
quantità enorme di individui geniali. Voglia- mo dunque creare una vera
democrazia cosciente e audace che sia la valutazione e Ja esaltazione del
numero poiché avrà il maggior numero di individui geniali. L’Italia
rappresenta nel mondo una specie di minoran- za genialissima tutta
costruita di individui superioti alla media umana per forza creatrice
innovatrice improvvisatri- ce. Questa democrazia entrerà naturalmente in
competizio- ne con la maggioranza formata dalle altre nazioni, per
le quali il numero significa invece massa più o meno cieca, cioè
democrazia incosciente. Su 1000 slavi vi sono due o tre
individui. L'ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che
non vi è gruppo di italiani (20, 30 o 40) che non contenga al- meno
10 o 15 individui capaci di iniziativa e di direttiva personale
Abbiamo ancora da sgombrare e da bonificare le zone morte
dell’analfabetismo. Questo compito molto arduo con un nemico minaccio- so
alle porte è oggi compito facile e senza pericoli per la unità e
indipendenza nazionale. Nazione ricca di individui geniali,
democrazia intelli- gentissima. Quantità di personalità tipiche, massa di
tipi unici, democrazia che non vuole imporsi bancariamente,
industrialmente, colonialmente, ma può e deve dominare il mondo e
dirigerlo con la sua maggiore potenzialità ed altezza di luce.
Noi crediamo che l'ora è venuta di tentare tutte le ri- voluzioni per
liberare il popolo italiano da tutti i pesi morti e da tutti i ceppi
(matrimonio e famiglia Cattolica soffocatrice, pedantismo professorale,
elettoralismo, menta- lità pessimistica, provinciale mediocrista e
quietista). Liberata dal giogo della vecchia famiglia
tradizionale, dal dogma dell'anzianità, l'Italia manifesterà finalmente
la sua potenza di 40 milioni d’individui italiani tutti intelli-
genti e capaci di autonomia. Concezione assolutamente apposta alla
cretinissima concezione germanofila che voleva svalutare i 40 milioni di
individui italiani per organizzarli meccanicamente. Su]
palcoscenico della razza italiana dobbiamo mette- re in luce 40 milioni
di ruoli diversi perché in questa luce possa perfettamente svolgersi il
valore tipico d'ognuno.(Censura) Noi non abbiamo la nevrastenica pigrizia,
la neghittosi- tà, il misticismo, il boiantismo ideologico, l’ossessione
teo- rificatrice della Russia. Siamo pieni di senso pratico, di
tenacia costruttrice, di ingeniosità inesauribile, di eroismo bene
impiegato. Possiamo dunque dare tutti i diritti di fare c disfare al
numero, alla quantità, alla massa poiché da noi numero quantità e massa
non saranno mai come in Germa- nia e in Russia numero quantità o massa
d’inetti e di sconclu- sionati, Arturo Labriola definisce la
democrazia « come senti. mento dei diritti concreti della massa sullo
Stato e sulla Economia ». Noi futuristi consideriamo la
democrazia non in astrat- to ma bensì la « democrazia italiana ».
Parlare di democrazia in astratto è fare della retorica. Vi sono
numerose democrazie, ogni razza ha la sua de- mocrazia, come ogni razza
ba il suo femminismo. Noi intendiamo la democrazia italiana come
massa di individui geniali, divenuta perciò facilmente cosciente
del suo diritto e naturalmente plasmatrice del suo divenire
statale.La sua forza è fatta di questo diritto acquisito, molti- plicata
dalla sua quantità valore, meno il peso delle cellule malate
(incoscienti, analfabeti). La democrazia italiana è per noi un corpo umano
che bisognerà liberare, scatenare, alleggerire, per accelerarne la
velocità e centuplicarne il rendimento. La democrazia italiana si
trova oggi nell'ambiente più favorevole al suo sviluppo. Ambiente di
rivoluzione-guerra nel quale è costretta a risolvere tutti i suoi
casi-problemi insoluti, le cui soluzioni possono esercitare una
influenza sul suo avvenire. Necessità igienica di continua
ginnastica trasformattice, improvvisatrice. Il governo si
allarma oggi nel vedere formarsi innume- revoli associazioni di
combattenti. Se non fosse un governo di miopi reazionari tremanti di
paura accaglierebbe favo. revolmente questo nuovo ritorno di vitalità
italiana. La guerra ha semplicemente svegliate le coscienze di
4 o 5 milioni di italiani che tornano oggi dalla guerra, atric-
chiti di una personalità politica. E’ la prima volta nella storia
che più di quattro mi. ltoni di cittadini di una nazione hanno Ja fortuna
di subire in soli 4 anni un'educazione intensiva e completa con le-
zioni di fuoco, di eroismo e di morte. Spettacolo meraviglioso di
tutto un esercito partito per la guetra quasi incosciente e
ritornato politico e degno di governare. La democrazia futurista
è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le sue cellule
vive. Naturalmente ha un bisogno urgente di spalancare le
porte e di uscire all’aperto. I) governo si allarma, reprime e trema,
come la nonna leggendaria teme che il nipotino pigli un
raffreddore. Fuori l’aria è frizzante e salubre. Il sole,
spalancato, be- ve il mare di liquido quasi solido saporito azzurro,
tutto spumante di raggi, tutto da bere fino all'ultimo sotso.
F.T. MARINETTI fda: Roma futurista, un EMILIO SETTIMELLI
F. T. MARINETTI FUTURISMO E PRIMO FASCISMO Emilio
Settimelli commenta il Congresso di Firenze su 1 nemici d'Italia («
settimanale antibolscevico diret to da Armando Mazza ») del 10 ottobre
del 1919. I discorso di Meorinetti al congresso apparirà su
L'Ardito del 26 ottobre dello stesso anno, ma era già apparso tre
giorni prima su I nemici d’Italia (23 ottobre). Del discorso e della
«necessità dello svaticanamento » ab- biamo già parlato. Ma si
postula anche l'ipotesi di un eccilatorio di giovanissimi capaci di
sostituire il semato dei vecchi, ormai da abolire. Al suo posto un
«consi glio tecnico » andrebbe sollecitato e stimolato da gio vani
sotto i trent'anni, a moto continuo Si parla poi di un
proletariato dei geniali, quello degli artisti d’Italia, più o meno a nascosti
od esclusi », che andrebbero favoriti o promossi da iniziative pub.
bliche atte all'aiuto della loro espressione. L'origine della proposta da
parte di una «mente d'artista » ri. sulta evidente. Marinetti è definito,
al caso, « ardito della poesia». La definizione è sempre di
Settimeth, che sostiene inoltre Marinetti sia «uscito » dal Con
gresso in «trinonmio» con Mussolini e D'Annunzio. quello del « dopo Fiume
»: un'alleanza politica mei fino ad allora verificatasi. Ed
è ancora Settimelli, a questo proposito, a inneg- giare ai due personaggi
(Marinetti e Mussolini) in un suo scritto, già pubblicato su I nemici
d'Italia # 4 set tembre 1919. Lo riportiamo perché ci sembra
significa tivo di un legame e di un rapporto. Non è vero che l'arte
debba essere estranea alla politica, vi si sostiene. Anzi, è proprio
l'artista a darle una sua interpretazione od un suo connotato, un suo
«travestimento », od usa sua immagine fanto più nuova, quanto più ardimentose
ed « ardita». Mussolini è stato capace di recepirlo, e il fascismo è un
fenomeno nuovo praprin per questo, e d'avanguardia. La tesi
di Settimelli è tipica del «futurismo delle origini » o classica di un
momento rivoluzionario, 0 di rinnovamento. Ma anche Armando Mazza
pubblica un «fondo » il 30 Ottobre dello stesso anno sulla mede-
sima testata (I nemici d'Italia). L'articolo non è fir- mato, ma è
inserito sotto il titolo a quattro colonne: Fascisti, a noi!, con un
commento alle prospettive elet- torali, un trafiletto in commemorazione
della vittoria nella’ ricorrenza annuale, e una colonna intestata:
Ciò che ci divide. Vi si spiegano 1 motivi di disaccordo e distacco
da tutte le altre forze politiche, quelle ew-neu traliste e quelle del
passatisma MUSSOLINI E IL FASCISMO Pensare col
proprio cervello originale, liberare comple- tamente il proprio
temperamento, essere gli annunciatori e i fondatori di una nuova
mentalità: sofferenza di tutti i momenti. Mantenere la
provria posizione di avanguardia, è cosa da giganti.
Parteciparvi per qualche tempo è da tutti. À un certo momento
rimani quasi solo: la gran parte degli amici si arrende, brutta e
spregevole nella sua viltà mascherata di scetticismo, oppure non crede
più, sopraf- fatta dalla vecchia e comoda mentalità. Disertano,
perdono ogni ritegno, ti attaccano. Si vendicano di averli resi —
sia pure per un anno — intelligenti, credono di poter me- nomare la
saldezza del tuo accizio, ti fanno recedere con i loro atteggiamenti di
commendatoria superiorità: cafoni ad- domesticati, provinciali
inguaribili. Vivi in un ambiente pericoloso e stancante perché
sen- ti che è creato per l’« altra gente »1 mediocre, podagrosa.
Ti urti della continua ostilità. Ti trovi dinanzi ad un
avversario senza spirito, mono- tono, insistente. Un
avversario indegno che ha la bruttezza goffa del rinoceronte e il
rompiscatolismo della zanzara. Hai delle donne. Tentano di tutto
per convincerle a rinsavire e ti denigrano in mille modi cercando di
portarle a qualche mediocre ronzino o a qualche nobilissimo eunuco
lucroso 0 decorativo. Lavori. Il tuo lavoro ba sempre qualche parte
che esorbita. Mai delle amicizie, ti seguono fino ad nn certo
punto. Non possono capirti a fondo. Sei fatto per un mondo di
eroismo, di forza, di bellez- za, di temerità. Le tue grandi ali
t’impediscono di cammi- nare come il gabbiano di Baudelaire.
(eTe) Tutto questo è atroce, ma di colpo una vittoria ti ripaga
di tutto. Aver avuto ragione, aver visto lontano, aver
costruito un nuovo pezzo della vita, sia pure un piccolo pezzo,
avere anche per un attimo e per un millimetro contribuito allo
allargamento del mondo ti fa vibrare per la gioia dei ver- tici.
Oggi ho questa gioia e la divido con quei pochi che da dieci anni
lavorano con me alla formazione di un am- biente intellettuale italiano
libero dai professori, dai tradi. zionali, dai gottosi (non alludo ai
seguaci del romanziere Salvator!). E Ia nostra gioia diviene
frenetica quando constatiamo che da un'altra parte, dalla politica ci
veniva incontro un uomo formidabile, nuovo come noi, libero come noi.
E' la gioia dei minatori che s'incontrano finalmente dopo aver
forata la montagna. Un «evviva », una manata di terra sulle facce ebbre,
sopra i sudori riganti e una stretia di mano che è una prova del cuore e
dei garretti. Mentre con Marinetti e con gli altri amici
lavoravamo il campo artistico, dall'altro si muoveva Mussolini
lavo- rando il campo politico. Ci dovevamo incontrare. Un gi- gante
questo magnifico Mussolini! Con la forza ma anche col peso di un grande
ingegno, di un'anima vasta, di un temperamento spaccafore, figlio di un
fabbro ferraio si tira su a suon di muscoli, di ingegno e di fegato.
Supera la più massacrante battaglia: quella contro la miseria,
quella che non potrà mai esser capita da chi non l’ha provata. Chi
è nato ricco non potrà mai essere completamente den- tro la realtà e non
avrà mai il collaudo delle sue energie. Domina le folle, organizza,
sbaraglia Turati, Treves, Rai- mondo. Galvanizza il partito socialista.
Scoppia la guerra, capisce che la neutralità sarebbe contro il socialismo
€ per il medioevo autocratico. Tenta di persuadere. I mediocri ne
approfittano per liberarsi della sua grandezza. Si forma la
imbecillocrazia dell’Avanzi! Mussolini lascia il partito che rimane
acefalo e si divincola in movimenti balordi e vili. Intanto i piedi
ridono soddisfatti per essersi liberati della 100
testa. Nasce così il Popolo d'Italia. Il primo quotidiano veramente
moderno e veramente italiano. Un ritrovo di energie vive, spregiudicate,
temerarie. Il lievito di questo buon pane italiano nato dalla guerra. In
esso tutti i vivi si incontrano: Futurismo, Arditismo, D'Annunzio. E'
una punta sensibile e perforante, è l'effervescenza della grande
coppia italica, è il primo nucleo per una Italia nuova. Ma il
quotidiano non basta a Mussolini. Uomo d'azio- ne ha bisogno di
concretare, vuol raccogliere ciò che semi- na giornalmente. Nasce il
fascismo. Fenomeno degno della più grande ammirazione e del più
appassionante esame. Più che un partito è una mentalità. Non si basa
sulla promessa di un certo paradiso futuro, si muove
problematicamente passo per passo alternando transigenza a
intransigenza, idealismo a realtà, arte a pratica concreta. Gli avversari
del Fascismo sono le vecchie anime che marciano solo dietro
promesse iperboliche e utopistiche, che scambiano incoe- renza con
duttilità, che non vivono dentro la vita vera e vibrante, ma fra gli
schemi arrugginiti di una mentalità libera. TI Fascismo
raccoglie gli italiani più intelligenti e più moderni con la sua ferrea
ossatura di concretamento fa- sciato da una atmosfera di sensibilità, di
cordialità idea- listica, di eleganza e di colore. Rende possibile la
politica anche per i temperamenti più contrari ad essa. Per esem-
pio gli artisti e gli ironici. L'Italia abbonda di artisti e di ironici,
anzi essi formano la sua parte migliore, intellettual. mente.
Mussolini ha avuto il grande pregio di creare un’atmo- sfera
politica che non ripugna a questi scelti, a questi « mi. gliori ».
L'intelligenza disinteressata si allontana dalla politica quando
essa s'imperna sulla falsa promessa di un paradiso certo, sul settarismo,
sulla gretteria animale. Si sta preparando in Italia quella
rinascita totale, ba- sata sull’arte che tra le più feroci ironie e gli
scetticismi più assoluti amnnunciai nella « Inchiesta sulla vita italiana
». SETTIMELLI (da: 1 nemici d'Italia, Milano, SOGNO UN
GOVERNO DI TECNICI, ECCITATO DA UN'ASSEMBLEA » Cari
Fascisti! Cari Arditi! V'invito ad acclamare un valoroso fascista
assente, che sarebbe qui con noi se il Governo anti-italiano di
Nitti non l’avesse condannato a tre mesi di fortezza Mario
Carli, (Grida unanimi di: Viva Mario Carli! e applausi). Il
futurista Mario Carli è sfuggito alla polizia di Al- bricci e gode
l'atmosfera igienica di Fiume italiana. Ha brillato così una volta di più
l'elasticità veramente futu- rista di questo poeta che sa tutti i viaggi più
pericolosi dello spirito, le esplorazioni più sottili della psicologia,
i razzi più colorati ed anche la strategia delle strade in tumulto
e il governo delle assemblee popolari. A Mario Carli, poeta delle Notti
filtrate, si deve la fondazione del Fascio di combattimento romano, e,
insieme con Setti- melli, del Partito politico futurista, e del giornale
Rome futurista. Egli capeggiò tutte le dimostrazioni violente per
Fiume italiana, per la Dalmazia italiana e per la difesa della vittoria,
contro il bolscevismo rosso e nero, rinun- ciatario e nittiano. V'invito
a gridare ancora: Viva il fu- turista Mario Carli! (Quazione,
applausi). Lo «svaticanamento ». Io approvo
incondizionatamente, in nome del futuri smo e dei futuristi italiani,
tutto il programma dei Fasci di combattimento, che vi è stato esposto dal
mio amico Fabbri. Trovo però in questo programma delle lacune
gravi, sulle quali richiamo tutta la vostra attenzione. Fascisti!
Non c'è maggior pericolo, per l’Italia, del pe- ricolo nero. Il popolo
italiano, che ha saputo osare, vo- lere e compiere l’immane sforzo eroico
e vittorioso della 102 grande guerra, decidendo, con
la sua vittoria, la vittoria del futurismo elastico, geniale, sul passatismo
teutonico, cubico e professorale, fallirebbe alla sua missione se
non sapesse energicamente liberare la bella penisola, agile e
palpitante di vita, dalla lue mortale del papato. Noi dob- biamo
domandare, volere, imporre, l'espulsione del papato, o meglio ancora, per
usare una espressione più precisa, lo « svaticanamento ». (Applausi,
ovazione) L'« Eccitatorio ». Continuando nell'analisi
del Programma dei Fasci di combattimento, trovo l'abolizione del Senato,
al quale si sostituirebbe un Consiglio nazionale tecnico. Ebbene:
io vi dichiaro che il concetto di tecnicità è importantissimo, ma
non basta. Il Senato rappresenta nella storia dei po- poli un costante
ossequio alla saggezza dei vecchi, chiama- ti intorno al potere per
frenarlo, maturarne i propositi, dirigerne le decisioni. La concezione
del Senato, simile a quella del coro nella tragedia greca, ha
singolarmente appesantito, imbrogliato, buroctatizzato e ritardato il
pro- gresso spirituale e materiale delle razze. I legislatori
hanno sempre sognato di frenare il pote- re del Governo. Essi ignoravano
dunque che potere si- gnifica frenare. Essi ignaravano che un Governo è
sem- pre più o meno un carabiniere. Nulla di più assurdo che il
porre un carabiniere a sorvegliarne un altro. Mettiamo: gli al fianco,
piuttosto, un sovversivo, un rivoltoso, un eccitante. Ed ecco nata la
concezione dell’Eccitatorio, or- gano animatore, semplificatore e
acceleratore, che in una razza come la nostta, piena di precoci geniali,
sarà Ja mi- glior difesa della gioventù e la migliore garanzia del
pro- gresso e di alta spiritualità. Io sogno in Italia un Gover- no
di tecnici eccitato da un’assemblea di giovanissimi, al posto
dell’attuale Parlamento di oratori incompetenti € di dotti invalidi, che
si fa moderare da un Senato di mo- ribondi. Il Consiglio
tecnico che rimpiazzerà il Senato dovrà dunque essere composto di
giovanissimi, non ancora tren. 103 tenni. Insisto su
ciò, poiché in Italia si usa invitare i gio- vani al potere e si
considera poi virile e giovanissimo un uomo di 55 anni. Salandra grida:
Avanti i giovani! Ma tutti con lui temono i giovani, mettono in
quarantena un quarantenne come un coleroso, un cinquantenne come un
dinamitardo, e considerano un sessantenne come un au- dace quasi maturo
per il governo d’Italia!.. Occorre un Eccitatorio di giovanissimi,
per evitare un Consiglio tecnico di vecchi, che dopo aver tenuto
inuti- lizzato per molto rempo il loro ingegno tecnico non san- no
più che tecnicamente morire. La vita italiana si riduce ancora ad
una convivenza cretina di quadri d'antenati senza autorità e senza
presti- gio, che spandono intorno, in una penombra tediosa, pes-
simisino, pedantismo, austerità professorale, verbalismo pa- triottico e
polvere di Roma antica, e in mezzo ai quali si aggira sporca, taccagna,
provinciale, brindellona, la ser- vaccia che fa tutto male, tiene
malissimo la casa, non vuo! migliorare nulla, perde la giornata a
verificare i con- ti di cucina, ha sempre paura di spendere e di
rovinarsi, ed è tronfia perché sa fare una minestra non troppo sa-
lata che costa poco. T quadri d’antenati si chiamano Boselli e
Salandra: la servaccia si chiama Giolitti o Nitti. (Quazione)
Contro i quadri d'antenati e la servaccia, poi propo siamo un
eccitatorio di studenti e di Arditi futuristi. Arditismo. — Scuole
di coraggio fisico e patriottismo. Una terza lacuna io trovo nel
programma dei Fasci di combattimento, e riguarda la scuola. L'amico
futuri sta Fabbri ha precisato genialmente la grande e necessa ria
riforma completa della scuola. To credo petò che tutto si potrebbe
ottenere, e forse anche un al di là meraviglioso che superi il tutto
sogna. ta, mediante un'imposizione assolutamente ferrea, dirò
meglio feroce, della ginnastica nelle scuole. Si deve giungere
anche presto, oltre che a tutte le for- me d'insegnamento pratico e
tecnico, nelle officine e nei 104 campi, alle scuole
viaggianti, 0, per meglio dire, viaggi d'istruzione, e a dei veri corsi o
scuole di coraggio fisico e di patriottismo. Bisogna ogni
giorno, nella giocondità di una vita al- l'aria aperta, con un predominio
assoluto del giuoco sul- la lettura, parlare dell'Italia divina ai
ragazzi italiani, in- segnare loro, accanitamente, il coraggio fisico e
il disprez- zo del pericolo, e premiare dovunque l'audacia
temeraria e l'eroismo. Le scuole di coraggio fisico e di
patriottismo devono rimpiazzare nelle scuole gli oramai preistorici e
troglodi. tici corsi di greco e di latino. Noi futuristi
siamo convinti di preparare così quel tipo di cittadino eroico che saprà
difendersi da sè, vera- mente capace di libero pensiero e di libero
cazzotto, e che renderà assolutamente inutile l'esistenza delle polizie,
delle questure. dei carabinieri e dei preti. Ferruccio
Vecchi. Il mio amico futurista Mario Carli, capitano degli
Ar- diti, e il capitano Vecchi, capi dell'Associazione degli Ar-
diti, hanno sentito come me, nascere dal futurismo e dal- la guerra,
l'Arditiswo, nuova sensibilità di patriottismo e- roico e rivoluzionario.
]l giornale L'Ardito, diretto dal capitano Vecchi, il celebre sfasciatore
dell’Avanti! è un forte giornale che si deve consigliare ai giovani
italiani. {Qvazioni) Verrà forse un giorno in cui avremo in
Italia quelle scuole di pericoli che io proponevo dieci anni fa nei
pri- mi manifesti futuristi e che furopo realizzate durante la
guerra nelle esercitazioni quotidiane degli Arditi (avanza- ta carponi
sotto un tiro radente di mitragliatrici; aspetta- re senza chiudere gli
occhi il passaggio radente di una trave sospesa sulla testa, ecc.). Il
proletariato der geniali Ed ora voglio colmare un'altra lacuna dei
program- ma, parlandovi del solo proletariato veramente dimenticato ed
oppresso: l'importantissimo proletariato dei ge- niali. E’
indiscutibile che Ia nostra razza supera tutte Je raz- ze per il numero
stragrande di geniali che produce. Nel più piccolo nucleo italiano, nel
più piccolo villaggio, vi sono sempre sette, otto giovani ventenni che,
fremono d’ansia creatrice, pieni di un orgoglio ambizioso che si
manifesta in volumi inediti di versi e in scoppi di elo- quenza sulle
piazze, nei comizi politici. Alcuni sono dei veri illusi, ma sono pochi.
Non potrebbero giungere al vero ingegno. Sono però sempre dei
temperamenti a fon- do geniale, cioè suscettibili di sviluppo e
utilizzabili per accrescere l’intellettualità geniale di un paese.
Il movimento artistico futurista, da noi iniziato 11 anni fa,
aveva precisamente per scopo di svecchiare bru- talmente l'ambiente
artistico-letterario, esautorarne e di- struggerne la gerontocrazia,
svalutare i criteri e i profes- sori pedanti, incoraggiare tutti gli
slanci temerari dell’in- gegno giovanile, per preparare una atmosfera
veramente ossigenata di salute, incoraggiamento ed aiuto a tutti i
giovani geniali d'Italia. Incoraggiarli tutti, centuplicarne l'orgoglio,
aprire davanti a loro tutti i varchi, diminuire al più presto, così, il
numero dei geniali italiani falliti e stroncati. Il
futurismo radunò molti di questi giovani geniali. Fra di loro, nella
vampa futurista, ingigantirono e brilla rono: Boccioni, Russolo, Buzzi,
Balla, Mazza, Sant'Elia, Pratella, Folgore, Cangiullo, Mario Carli, Funi,
Sironi, Chiti, Jannelli, Nannetti, Cantarelli, Rosai, Baldassari,
Gal- li, Depero, Dudreville, Primo Conti, i geniali creatori del
Teatro Sintetico: Bruno Corra e Settimelli, e i valorosi scrittori
futuristi di Roma futurista, Rocca, Bottai, Fede- rico Pinna, Volt e
Rolzon, altissima bandiera d'’italianità in America. Con
meravigliosa elasticità passando dall'arte all’azio- ne politica, questi
giovani furono con me dovunque nelle nostre primissime dimostrazioni contro
l’Austria durante la battaglia della Marna, in prigione per interventismo
e sui campi di battaglia. Propongo che in ogni città siano
costtuiti dei palazzi che avranno una denominazione sul genere di
questa: Mostra libera dell'ingegno creatore. Tn tali palazzi:
1° Verrà esposta per un mese un’opera di pittura, scultura,
plastica in genere, disegni di architettura, dise- gni di macchine,
progetti di invenzioni. Verrà eseguita un’opera musicale, piccola o
gran- de, orchestrale o pianistica di qualsiasi genere, di qual: siasi
forma, di qualsiasi dimensione. 3" Verranno letti, esposti,
declamati poemi, prose, scritti di scienza di ogni genere, d'ogni forma,
d'ogni di- mensione. 4° Tutti i cittadini avranno diritto di
esporre gratui- tamente. Le opere di qualsiasi genere o valore
apparente anche se apparentemente giudicate assurde, cretine,
pazze, immorali, saranno esposte o lette senza giuria. Con
queste mostre libere e gratuite del genio creatore, noi futuristi ci
opponiamo a un pericolo gravissimo: quel lo di vedere nella marea delle
ideologie che rissano intor- ne alle formole del comunismo e della
dittatura del pro- lerariato, il naufragio dello spirito.
Difendiamo il cervello! Vi sono fenomeni dovuti alla stanchezza
prodotta dal la guerra, alla manîa plagiaria, alla miopia
provinciale, alla verbosità giornalistica e alla vigliaccheria
conservatrice. Si tenta dovunque di divinizzare il lavoratore manuale
e d'innalzarlo al di sopra del lavoratore intellettuale, No,
italiani: il futurismo politico si opporrà accanita. mente ad ogni
volontà di livellamento. Tutto, tutto sia 107
concesso al proletariato manuale, salvo il sacrificio dello spirito, del
genio, della gran luce che guida. Alle classi oppresse, ai lavoratori che
stentano, sia sacrificata tutta la plutocrazia parassitaria del
mondo. Voi fascisti interventisti sapete che la nostra
grande guerra rivoluzionaria è stata osata, voluta, imposta e te-
nacemente portata alla vittoria finale da una minoranza di intellettuali.
Erano i migliori, i meno tradizionali, i più futuristi. Mentre tutto il
popolo era ancora immerso nella quiete pacifista, essi videro la
necessità di guerra, si separarono brutalmente da altri intellettuali, da
quelli che dello spirito altro non hanno che le qualità negative,
pedantesche, culturali, reazionatie, quietiste. Contro e so: pra il
piombo del vecchio intelletrualismo professorale e vigliacco dei
Benedetto Croce e dei Barzellotti, contro l’in- tellettualismo cavilloso
e avvocatesco dei Treves e dei Tu- rati, si scagliarono gli spiriti
veramente puri, lirici e crea- tori, per segnare la via da seguire.
Fra questi, Gabriele D'Annunzio, che volò su Vienna e regalò Fiume
all'Italia. Fra questi Benito Mussolini, il grande Fututista italiano,
che impavido nel campo trince- rato del suo Popolo d’Italia ha difeso
alle spalle noi com- battenti al fronte contro le ondate dei nemici
interni, por- tando le città italiane dal lurido episodio di
Caporetto alla storia ideale di Vittorio Veneto (Applausi).
Gli artisti faranno finalmente del governo un’arie di- sinteressata, al
posto di quello che è ora, cioè una pedan- tesca scienza del furto e
della vigliaccheria. eri Io credo che le istituzioni
parlamentari siano fatalmen- re destinate a perire. Credo anche che la
politica italiana sia destinata a un inevitabile fallimento, se non si
nutrirà di questa forza viva: gl’ingegneri creatori d’Italia,
sbaraz- zandosi di queste due malattie italiane: l'avvocato e il
professore. Genio creatore, elasticità artistica, praticità
sintetica, velocità improvvisatrice ed entusiasmo fulmineo: ecco le
belle forze che spiegano la vittoria del 15 giugno sul Pia- ve e quella
di Vittorio Veneto (Applausi). Artisticamente improvvisando tutto,
e con genio crea- tore, la mia bella autoblindata dell'ottava Squadriglia
al comando del capitano Raby guadava come una torpedi- niera i
torrenti gontiati. Poi si slanciava giù dalle monta. gne carniche col
tuffo frenetico fulmineo di un pugnale d'Ardito nella smisurata pancia
idropica dell'esercito au- striaco disfatto, e schizzava fuori dalla
schiera contro Vienna. Artisticamente, il genio creatore di
D'Annunzio con- quistò Fiume italiana. In Fiume italiana, io
provai recentemente il più acu- to spasimo di guida della mia vita, nel
gualcire un pacco di corone austriache deprezzate a pochi centesimi dalla
no- stra vittoria. Gioia forsennata di stritolare così
finalmente il cuore finanziario, militare, passatista del nemico
ereditario, fra le mie mani ancora frementi della vibrazione della
mia mitragliatrice di Vittorio Veneto! (Ovazione). MARINETTI
[da: L’Ardito, MARINETTI MARIO CARLI MINO SOMENZI «
SECONDO FUTURISMO » E FASCISMO-REGIME ll 1923 è un po'
l'anno di apertura del futurismo — dopo la ritirata e il distacco dal
fascismo del II Congresso di Milano — al nascente fascismo-regime
(se- condo la definizione di De Felice), quello dell’assesta- mento
o dell'e ordine» (che si consoliderà il 3 gen naio 1925). Marinetti si
accosta in un certo senso al nuovo governo con una richiesta in forma di
« mani festo al Governo Fascista» del 1° maggio 1923. Col
manifesto e con l'affermazione di un certo qual futurismo «mussoliniano
», 0 nel sottolineare la rea- lizzazione di un « programma minimo »
futurista da par- te del fascismo, Marinetti cerca di porsi in
buona luce e di far accettare le sue proposte al governo fascista.
ll programma fu in linea di massima approvato da Mussolini. Quel
Mussolini che comincerà a venir illu- strato e celebrato anche dai
futuristi, forse molte volte in buona fede per l'effettiva sua vicinanza
alle tesi ed al dinamismo tipico di Marinetti e delle sue teorie.
Tuttavia Mario Carli nel '26 pubblica nel suo li bro Fascisma
intransigente wn articolo a suo tempo se questrato e che risuona echi di
« sinistri miraggi ». S'in- titola Natale senza luce e si riferisce
probabilmente al Natale del ‘21, dopo l'impresa di Fiume cui Carli
aveva ben ardentemente partecipato: si augurava inutilmente il
Carli che l'impresa di Mussolini (la marcia su Roma) continuasse quella
breve esplosione innovatrice della nuova Italia della Vittoria (la marcia
su Ronchi). Ma le «vecchie pance» e le «vecchie barbe» tengono
invece «il canzpo della vita nazionale » e «la manovra parla
mentare domina ancora tutto il congegno di governo ». Marinetti sul
numero 9 del 2-11-1932 del « nuo- vo » Futurismo, esprime aminirazione ed
esalta lo spirito rivoluzionario della Mostra nel decennale della
Rivolu- zione (svoltasi a Roma). Intitola Varticolo Stile futuri-
sta e vuole commemorare in certo senso uno stile degli anni d'oro dello
spirito interventista e rivaluzionario da cui è nato il fascismo, quello
così detta « antemarcia ». Nel 1934 al 1° di febbraio, sul terzo numero
di SunWElia, che è secondo titolo di Futurismo, generoso tuttavia
di perticolare spazio cd attenzione at problemi dell'architettura, Mino
Somenzi intitola un suo pezzo a IT Duce e il futurismo, e vi sostiene la
necessità di Mussolini, come capo del governo, di non essere né
futurista né passatista. Per il superiore equilibrio sulle parti che la
sua posizione richiede. Tuttavia le simpatie di Mussolini non possono non
andare ai futuristi, dice Somenzi, quali novatori e sostenitori dell'arte
d'avan- guardia italiana. In questo sensa i futuristi non possono
non guardure a lui come ad un appoggio e ad un so- stegno, come del resto
egli medesima più volte si è di- mostrato. E qui forse, in questa tesi,
vediamo tutta la posizione ed il carattere del « secondo futurismo
». Ancora sulla stessa testata del 4 aprile ’34, n. 64. un grande
intervento centrale di prima pagina su Ven- titre marzo futurfascista,
mette in rilievo i caratteri co- muni di futurismo e fascismo, anche
quelli per cui molti fascisti non st identificano con i futuristi ed
anzi simmedesimano nel loro contrario essendo dei « rimor- chiati »
che non hanno assorbito lo spirito diciannovi sta e rivoluzionario delle
« origini ». I DIRITTI ARTISTICI PROPUGNATI DAI FUTURISTI
ITALIANI Manifesto al governo fascista Mio caro
Marinetti, approvo cordialmente la tuu iniziativa per la costituzione di
una Banca di Credito specialmente per gli Artisti. Credo che saprai
sor- montare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad
ogni modo questa lettera può servirti di via- tico. Ciao, con
amicizia, MUSSOLINI Vittorio Veneto e l’avvento del
Fascismo al potere co- stituiscono la realizzazione del programma minimo
futuri- sta lanciato (con un programma massimo non ancora rag-
giunto) 14 anni or sono da un gruppo di giovani audaci che si opposero
con argomenti persuasivi all'intera Nazione avvilita da un senilismo e da
un mediocrismo paurosi dello straniero. Questo programma
minimo propugnava l’orgoglio ita- liano, la fiducia illimitata
nell’avvenire degli italiani, la di- struzione dell'impero
austroungarico, l’eroismo quotidiano, l’amore del pericolo, la violenza
riabilitata come argomento decisivo, la glorificazione della guerra sola
igiene del mon- do, la religione della velocità, della novità,
dell’ottimismo e dell’originalità, l'avvento dei giovani al potere contro
lo spi- rito parlamentare, burocratico, accademico e pessimista.
La nostra influenza in Italia e nel mondo è stata ed è enorme. Il
Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che ha generato innumerevoli
futurismi esteri, non ha nulla a che fare coi loro atteggiamenti
politici, come quello bolsce- vico del Futurismo russo divenuto arte di
Stato. Il Futurismo è un movimento schiettamente artistico e
ideologico. Interviene nelle lotte politiche soltanto nelle ore di grave
pericolo per la Nazione. Fummo primi fra i primi interventisti; in
carcere per interventismo a Milano durante la Battaglia della Marna;
in carcere con Mussolini nel 1919 a Milano per attentato fascista alla
sicurezza dello Stato e organizzazione di bande armate.
Abbiamo creato le prime associazioni degli Arditi e molti tra i
primi Fasci di combattimento. Divinatori e lontani preparatori
della grande Italia di oggi. Noi futuristi siamo lieti di
salutare nel non ancora qua- rantenne Presidente del Consiglio un
meraviglioso rempera- mento futurista. Da futurista,
Mussolini ha parlato così ai giornalisti esteri: « Noi siamo
un popolo giovane che vuole e deve crea re e rifiuta d'essere un
Sindacato di albergatori e di quar- diani di museo. Il nostro passato
artistico è ammirevole. Ma, quanto a me, sarò entrato tutt'al più due
volte in un MIUSCO ». Recentemente Mussolini ha pronunciato
questo discor- so tipicamente futurista: « Il Governo che ho
l'onore di presiedere è Governo di velocità, nel senso che noi abbreviamo
tutto ciò che significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la
buro- crazia si addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tut-
to deve procedere con la massima rapidità. Se tutti proce- deremo con
questo ritmo di forza e di volontà e di alle- grezza, supereremo la
crisi, la quale, del resto, è già in parte superata. lo sono lieto di
vedere il risveglio anche di questa Roma che offre lo spettacolo di
officine come questa. lo atfermo che Roma può diventare centro
indu- striale. 1 romani devono essere i primi a disdegnare di
vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro romano sono
glorie del passato: ma noi dobbiamo costrui- re le glorie del presente e
del domani Noi siamo la gene- razione dei costruttori che col lavoro e
con la disciplina del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il
punto estremo, la meta agognata della grandezza della Nazione di
domani, la quale sarà la Nazione di tutti i produttori e non dei
parassiti ». Con Mussolini il Fascismo ha ringiovanito l'Italia.
Spetta a Lui l'aiutarci nel rinnovamento dell’ambiente artistico
ove permangono uomini e cose nefaste. La rivoluzione politica deve
sostenere la rivoluzione artistica, cioè il futurismo e tutte le
avanguardie. DOMANDIAMO: 1° DIFESA DEI GIOVANI
ARTISTI ITALIANI NOVATORI in tutte le manifestazioni artistiche
promos- se dallo Stato, dai Comuni e private. Esempi: a)
Alla Biennale di Venezia furono invitati avanguar- disti e futuristi
stranieri {Archipenko, Kokoschka, Campen- donk), mentre non furono mai
invitati i futuristi italiani (creatori di tutti i futurismi). Bisogna
sradicare questa igno- bile antitalianità sistematica! c) Al
Teatro della Scala {che ha la funzione di rive- lare, glorificandoli, i
nuovi musicisti italiani) si danno ogni anno due opere di Wagner e
nessuna (o quasi nessuna) di giovani italiani. Si preferiscono cantanti
stranieri infe- riori ai nostri, Bisogna sradicare questa ignobile
antitalia- nità sistematica! d) Il Teatro di Siracusa non
può essere riservato alla gloria dei classici greci! Domandiamo che,
alternativamente alle rappresentazioni delle opere classiche, si svolga
un con- corso per un dramma moderno pittoresco adatto all'aria
aperta di un giovane siciliano da premiarsi e incoronarsi so- lennemente
nel teatro stesso. (Proposte Marinetti, Prampo- lini, Jannelli, Nicastro,
Carrozza, Russolo, Mario Carli, De- pero, Cangiullo, Giuseppe Steiner,
Volt, Somenzi, Azari, Matasco, Dottori, Pannaggi, Tato, Caviglioni,
Paladini Ra- citi, Mario Shrapnel, Raimondi, G. Etna,
Sportino-Bona, Cimino, Soggetti, Rognoni, Masnata, Mortari, Piero
Illari, Rizzo, Soldi, Leskovic, Buzzi, Casavola, Clerici, Caprile,
Scirocco), ISTITUTI DI CREDITO ARTISTICO ad esclu- sivo beneficio
degli artisti creatori italiani. Come si aprono delle Banche di
credito a favore delia industria e del commercio, similmente si dovranno
creare 115 appositi Istituti che sovvenzionino
manifestazioni artistiche o Istituti d'arte industriale o anticipino
denaro agli artisti per il loro lavoro (manoscritti, quadri, statue,
ecc.) i loto viaggi di isttuzione o di propaganda. Tali
Istituti di credito potranno avere carattere pri- vato (Società anonime
per azioni) o governativo (enti e fondazioni). Nel primo caso la nascita
di tale Istituto è legata alla maggiore o minore buona volontà e
mumero degli aderenti. Nel secondo caso il capitale necessario sa-
tebbe sicuramente e prontamente realizzabile solo che lo Stato decretasse
un'imposta od una ritenuta anche minima, ma estesissima, sui redditi di
guerra, sui patrimoni, ecc., o mediante una sottoscrizione nazionale ad
iniziativa sta- tale. L'Istituto agirebbe poi come una Banca
per gli artisti, accetterebbe depositi di opere d'arte, e in base alla
valuta- zione reale darebbe sovvenzioni od aprirebbe crediti.
L’opera d’arte giacente costituirebbe un deposito frut- tifero per
il depositante e per l’Istituto stesso che promuo- verebbe iniziative
artistiche, vendite, ecc. Così l'artista e l'opera d’arte sarebbero
valorizzati. Questi Istituti potrebbero intraprendere concessioni
di mutui a favore d’'industrie artistiche e ottenere l’uso di
palazzi per adibirli ad abitazioni di artisti, d’istituzioni arti- stiche
od aprirvi periodiche mostre. (Proposta Prampolini, Marinetti, Russolo,
Cangiullo, Depero, Settimelli, Mario Carli, Buzzi, Matasco). DIFESA
DELL’ITALIANITA'. Italianizzazione obbligatoria immediata degli alberghi
(tutte le diciture, insegne, liste delle vivande, conti, ecc., in lingua
italiana), dei negozi e della corrispondenza commerciale. Mezzi automatici per
propagare la lingua italiana senza spese. (Proposta Marinetti, Russolo,
Buzzi, Folgore, Mario Carli, Settimelli, Depero, Cangiullo, Somenzi,
Mara- sco, Rognoni). B) Italianizzazione della nuova
architettura contro l'uso sistematico di plagiare le architetture
straniere. Cominciare questa italianizzazione in tutti gli edifici
statali, specialmen- te nei paesi redenti. (Proposte Virgilio Marchi,
Depeto, 116 Russolo, Buzzi, Somenzi, Azari, Marasco,
Prampolini, Fol- gore, Volt). C) Italianizzazione
obbligatoria delle edizioni e dei ca- ratteri tipografici. (Proposta
Frassinelli, Rampa-Rossi). ABOLIZIONE DELLE ACCADEMIE (Istituti di
Atte e Scuole professionali). Gli attuali sistemi
d'insegnamento nan corrispondono al- le esigenze estetiche
dell'evoluzione dell’arte attraverso i tempi. L'arte non si insegna. Gli
attuali diplomati non sono né tecnici competenti né artisti.
Abolizione delle Accademie di Belle Arti e Professio- nali senz’altre
sostituzioni. (Proposta Marasco). PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA
ALL'ESTERO mediante un Istituto Nazionale di propaganda ar- tistica
all’estero che tuteli glì interessi artistici ed econo- mici degli
artisti italiani. Questo Istituto dovrà essere diretto da giovani
artisti stimati all’estero e che propugnino con italianità il genio
novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda ti le varie arti e
uffici di corrispondenza nei principali centri artistici esteri. Agirà
mediante conferenze, concerti, esposizioni e pubblicazioni periodiche di
propaganda. (Pro- posta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt,
Marasco). CONCORSI LIBERI D'ARTE. Utilizzare una parte del
denaro che lo Stato spende attualmente per l'arte in concorsi di poesia,
plastica, ar- chitettura, musica, riservati ai giovani non ancora
venti- cinquenni, da premiarsi mediante un referendum popo- lare.
(Proposta Balla, Marinetti, Marasco). AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE
FE. STE NAZIONALI E COMUNALI (cortei, gare sportive, ecc.) ai
gruppi d’artisti d'avanguardia italiani, i quali han- no ormai provato in
modo incontestabile la loro genialità innovatrice, fonte di quell’ottimismo
che è indispensabi- le alla salute della Patria. (Proposta Depero, Azari,
Mari- netti, Marasco). AGEVOLAZIONI AGLI
ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo dei diritti
d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul mag- gior prezzo
raggiunto dalle opere loro, attraverso le ven- dite successive, mediante
una istituzione simile alla « So- cietà degli Autori ». d)
Abolizione delle tariffe doganali internazionali sia riguardo le
importazioni che le esportazioni delle opere d’arte moderna. (Proposta
Prampolini, Depero, Azari, Ma- rasco, Marinetti, Volt). 9°
CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati da artisti ed eletti fra artisti con
una rappresentanza propor- zionale delle tendenze d'avanguardia. Questi
Consigli Tec- nici consultivi avranno lo scopo di tutelare gl’interessi
de- gli artisti nei rapporti con le istituzioni statali, comunali,
private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini, Mara- sco, Marinetti,
Volt) RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE. Le avanguardie artistiche
italiane dovranno essere in- vitate a partecipare con una rappresentanza
proporzionale a tutte le manifestazioni e cariche artistiche statali,
co- munali e private. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinet- ti,
Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute. la degli interessi artistici
ed economici degli artisti d'avan- guardia. Questo Consorzio dovrebbe
proporsi l’accentra- mento delle migliori istituzioni artistiche di
avanguardia, per la solidarietà, la difesa e la propaganda artistica
ed economica. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti,
Volt). Per la Direzione del Movimento Futurista e per tutti i
Gruppi Futuristi ltaliani MARINETTI NATALE SENZA
LUCE sequestrato). Chi fu legionario di Fiume non potrà mai
dimenti- care le rosse giornate natalizie di quattro anni fa, con
le quali si conchiudeva tragicamente e desolatamente una breve ma non
ingloriosa epopea. Il ricordo ha poi un valore particolare per chi lo
avvicini al pensiero della situazione politica odierna, che ha qualche
vaga analogia con quella che segnò la fine di un generoso sforzo
della nuova Italia. Il sangue fraterno di quelle Cinque
Giornate non è stato ben vendicato. Pareva a molti di noi che la
Marcia su Roma dovesse continuare quella di Ronchi per dare alla
nostra grande Patria una nuova fisionomia di po- tenza e per vivificarla
di un nuovo afflusso di giovi- nezza. Ma la spinta rinnovatrice della
generazione di Vit- torio Veneto si è, ahimé, fiaccata nel labirinto
delle vec- chie pance e vecchie barbe che tengono tuttora il campo
della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa segnare il passo
alle orgogliose avanguardie d'impero, la sagoma «immortale » del cavalier
Giolitti si profila — come quattro anni fa — a rassicurare il mondo che
l’Ita- lia è ancora quella mediocre, umile nazioncella di molte
chiacchiere innacue ma di pochi fatti pericolosi, e che agni tentativo di
virilizzarsi e impennarsi in alati eroismi, è destinato al più pietaso
insuccesso. Sembra — a ben considerare i più recenti
avvenimen- ti — che il sogno di una politica più alta, più
rettilinea, più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati;
e che una sola specie di politica sia possibile: quella che ha nome
Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo, sul compromesso, sulla
pattuizione, sull’arte di farsi ricat- tare. La manovra
parlamentare domina ancora tutto il con- gegno di governo. E’ pacifico
che non si governa coi parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno
per eccellenza: ma è altrettanto pacifico che questo popolo
italiano 119 rabbiosamente ingovernabile non vuol
rinunciare al suo bravo Parlamento, fonte di ogni male, serbatoio di
ogni decadenza. Contro questa massima cloaca nazionale
(parlo, s’in- tende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è
an- dato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha com- messo
questo gravissimo errote iniziale: di non saltare a pié pari il
Parlamento. Viceversa vi si è sentito attratto, ha voluto saggiarne le
delizie, ha voluto conquistare que- sta quota a colpi di scheda —
mortificando la sua anima guerriera — quando avrebbe dovuto farla saltare
a colpi di bomba. E certi errori sono troppo gravi perché non si
debbano scontare. Tuttavia, non si potrà negare a noi irriducibili
anti- parlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per volontà pre-
meditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù elettorali, it
diritto di tener fede ai principi per quali s'ini- ziò la battaglia, e
soprattutto alla nostra accesa spiritua- lità di italiani #4ovi: nuovi
nella mente, nel tempera- mento, nell’educazione, nella passione. Anche
se tutto crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre,
perse- guita con appassionata tensione di nervi e di cervello, do-
vesse ridursi in polvere di macerie, noi non rinunzierem- mo ad essere
quelli che fummo e che siamo: cittadini di una Patria più grande, più
eroica, più possente, più do- minatrice. Mai non rinunceremo
— lo sappiano bene i nostri nemici — alla nostra sete d’impero, alla
nostra fiamma di grandezza, che odia la vita democratica,
l’egualitarismo ipocrita, il pietismo umanitario, l’eunuco calamento di
bra- che. A noi conviene la formula maschia di Silla, che per
disciplinare la repubblica in dissoluzione e prepararla all'impero,
chiedeva tutti i poteri, il controllo sui tribu- nali civili e militari,
la giurisdizione eccezionale, la legi- siazione di gabinetto da
sovrapporre a tutte le leggi ante- riori, il diritto di battere moneta,
di convocare il popolo, di sospendere e punire i funzionari dello Stato,
e infine, di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi
piace infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-mo
120 dello, che, mentre il Senato discute se conferirgli o
no la potestà dittatoria, fa giungere nell'aula il fiero ululato
dei seimila prigionieri di Porta Collina, sgozzati al suo segnale, e che
incide sulla tabella i nomi dei Senatori vetanti contro di lui, per
ricordarsene a tempo e luogo. Il Fascismo è venuto al potere più
attraverso la spa da di Silla che l’oratoria di Cicerone. Perché
dimenti- carsene? II Fascismo non ha nulla da sperare da una sua
politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici lo vogliono
polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si continuerà a ceder loro
in ogni occasione. Dal 10 giugno in poi, si può dire che l’Italia è stata
governata dall'om- bra dell’Aventino. Tutto questo è contro natura,
contro storia, contro giustizia. Non sono le ombre che possano aver
diritto al comando, bensì le energie luminose. Quan- do ci scrolleremo di
dosso tutte le ombre importune che ci soffocano come ali di corvacci e di
vampiri? Mario CARLI [da: Fascismo intransigente, Bemporad,
Firenze 1926, pag. 253-256] Con la Mostra della Rivoluzione si
risolve finalmente, e in modo favorevole, il grave problema della
militariz- zazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da
im- porre agli artisti. Molti fra i pittori, scultori e
architetti, invitati a rea- lizzare questa Mostra grandiosa, furono indubbiamente
turbati dal prestigio di queste gloriose parole che domi- nano ormai
nella nuova storia d’Italia: interventismo, Vit- torio Veneto, Mussolini,
e Popolo d'Italia, Diciannove, battaglia di via Mercanti e incendio
dell’Avanti!, covo di via Paolo da Cannobio, Casa Rossa, Lodi, Palazzo
Accur- sio, Marcia su Roma. Legati tradizionalmente ai noti motivi
idilliaci cittadi- nì o rurali, tramonti melanconici e ritratti statici,
que- sti artisti sentirono subito la necessità di capovolgere il
loro spirito per disegnare nell'aria un tuffo perfetto nel mare della
novità. Da tempo il Futurismo italiano, con il suo seguito di
avanguardie estere più o meno originali, gridava per in- segnare
l'invenzione a ogni costo. Quattro mesi fa il Du- ce, con la sua bella
parola imperiosa e veloce, ordinò che si evitasse il passatismo della
palandrana di Giolitti. Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo
colorato e tragico della Rivoluzione, essi abbandonarono la loro
sta- ticità e la classicità placida. Gli architetti incaricati di
dare una faccia nuova al vecchio e brutto Palazzo dell’Esposi-
zione, sentirono l’assurdità di qualsiasi decorativismo sim- bolico,
floreale, mitologico o grazioso. Le loro prime linee gettate sulla
carta, rizzandosi ascen- sionalmente, presero lo slancio aggressivo,
guerriero e mi- naccioso di altissime torri di acciaio o ciminiere
naviganti. A me ricordano simpaticamente i geniali fasci di
ascen- sori dell'architettura di Antonio Sant'Elia, il grande e
com- pianto padre futurista dell’architettura moderna.
Logicamente andò determinandosi lo stile della Mostra per virtù della
Rivoluzione e del suo ritmo mobile ag- gressivo. Si ricorda l’intero
profilo d’uno squadrista. Un dettaglio basta. Di quell’autocarro
schiacciato dal peso dei fascisti come un tino stracarico di giganteschi
grappo- li neri io ricordo soltanto il mosto rosso a terra e l’acu-
tissimo odore di benzina. Quindi sintesi, dinamismo e in- tersecazioni di
piani. Visibilità aggressività giocondità. Questa Mostra della
Rivoluzione, che tutti gli squadristi augurano non effimera ma duratura,
stabilisce la gloria del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano
che ha avuto pet primi maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo le
parole di Edmondo Rossoni dettemi questa mattina, il trionfo dell’arte
futurista. F.T MARINETTI [du: Fuiuriszo, Nel fervore della
polemica pro e contro il Futurismo molti si chiedono: come la pensa il
Duce? A questo in terrogativo i nostri avversari rispondono
arbitrariamente come saremmo ugualmente arbitrari noi volendo
asserire l'opposto di ciò che loro affermano. Per la verità il Duce
non può essere dall’una o dall’altra parte (passatismo © futurismo) ma
nella sua specifica qualità di Capo della Nazione non può essere
passatista e futurista nello stesso tempo. Che Egli prediliga come
certuni pretendono cor- renti intermedie lo esclude il suo temperamento
nemico di tutti gli oscillamenti e di ogni mezzo termine. Prefe-
risce le posizioni diritte anche le più azzardate e non è detto quindi
che si compiaccia trattenersi ad ammirare le varie denominazioni che si
dànno alla strada nel corso di così lungo e complicato cammino com'è
quello dell'arte. Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa.
Passatismo e Futurismo: due colossi che se non esistessero Musso-
lini li avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a gioia patriottica
di vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità opposte, nuove faville
di luminosa genialità italiana. I piccoli mondi che rotolano ai margini
di questa battaglia sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal
corpo dei titani: hanno una vita effimera e quelli che precipitan-
do come valanghe trascinano nella loro scia deboli detriti superficiali,
se sopravvivono, sono sempre alimentati dal- l'atmosfera incandescente
generosa che emana il corpo che li ha creati. Passatismo e Futurismo
rimangono inamo- vibili l'uno di fronte all'altro: impossibile conciliare
il concetto conservatore tradizionale del primo col principio
rivoluzionario rinnovatore del secondo. Chi sia il più forte non è facile
stabilite: dipende da determinate condizioni intellettuali e spirituali
di tempo. Oggi però — in que- sto secolo fascista — più che le
biblioteche e i musei si moltiplicano scuole avanguardiste, impressioniste,
raziona- liste, novecentisie, moderniste in genere, tutte volenti o
nolenti generate dal futurismo. Volenti o nolenti: non ha
123 valore il fatto che molti sconfessano la loto origine.
E' fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cin-
quant’anni il mondo fascistizzato considererà Mussolini un utopista e
ogni nazione vanterà il merito di avere instau- rato per prima il nuovo
regime politico. Di queste infa- mie la storia è... maestra; solo dopo
qualche secolo si rende giustizia alla verità. Tornando al nostro
argomento, è fuori dubbio che Mussolini, valotizzatore delle
gloriose conquiste del passato, sprona i capaci a superarle sul
tra- guardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo rap- presenta
infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto che trascina l’esercito
degli artisti alla conquista del nuo- vo. Questo fatto in sé eloquente e
inconfondibile, unico nella storia dell’arte, ha rapporti precisi in
campo poli- tico con la gloriosa epopea mussoliniana.
L'inesauribile ottimismo futurista si identifica così con il concetto
gene- roso originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare
fatti e particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi per- sonali, in
tema « Mussolini e il futurismo » basterà ri- cordare giacché l'occasione
è opportuna queste tre date significative: Boccioni vi avrà detto
che tutte le mie simpatie sono, anche nel dominio dell’arte, per i
novatori e i distruttori e per i futuristi... » Mussolini. 1924: «...
presente adunata futu- rista che sintetizza vent'anni di grandi battaglie
artistiche politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve
essere punto di partenza non punto d'artivo... » Mussolini. ...Dopo di avere
concesso il suo alto patronato per le onoranze nazionali al futurista Boccioni, Mussolini offre il PRIMO generoso
contributo ma- teriale per il trionfo della grande rassegna dell’arte
futu- rista italiana. A questo punto, dopo quanto abbiamo
detto, ulteriori considerazioni sono superflue come sarebbe superfluo
ri- cordare ancora una volta l'influenza patriottica esercitata dal
futurismo sulla gioventù italiana prima durante e dopo la guerra e il
fattivo isolato contributo dei futuristi al fascismo nel 1919
(...). Mino SOMENZ2I (da: Sant'Elia, n. 3, anno II, 1°
febbraio 1934] Allorché quindici anni or sono, nel palazzo di
Piazza San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di quello
edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel manipolo degli
intervenuti individuò degli artisti, questi erano soltanto ed
esclusivamente artisti futuristi. Appena creati i Fasci di
combattimento, i primi gruppi che cotseto ad ingrossare le schiere che
cominciavano a formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e gli
arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per me- rito
esclusivo dei futuristi. Il nostro Movimento diede quindi al
Fascismo un apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre
die- de alla creazione mussoliniana un conttibuto gigantesco di
fede cieca, di entusiasmo eroico. Vogliamo indagare il perché di
questa spontanea sim- patia, di questo irresistibile trasporto del
Futurismo verso il Fascismo; il perché della meravigliosa, totalitaria
cor- rispondenza fra una cemcezione eminentemente politica ed una
concezione eminentemente artistica? Prima di tutto, troviamo che
il Fascismo e il Futu- rismo hanno alla loro origine dei germi comuni:
l’amore disperato alla propria terra, la necessità di moto e di
azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il punto di partenza
per la sognata rivalorizzazione della patria; l’altro, lo sbocco
conclusivo di quei fatti e di quel- le idee che possono riassumersi nei
tre principii futuristi: « Tutti 1 diritti, meno quello di esser vigliacchi
». « La parola Italia deve prevalere sulla parola libertà ». « La
puerta, sola igiene del mondo », Dalle piazze affollate d'Italia si
passò alle trincee in- sanguinate d'Italia: interventisti intervenuti:
identico en- tusiasmo: identici sacrifici: identica volontà di far
ger- mogliare il bene della Patria dal martirio e dalla morte dei
suoi figli. E questa è già molto per dimostrare la
straordinaria 125 affinità sentimentale, di origine e
di scopi esistente tra Fascismo e Futurismo. Ma v'è di più.
Infatti, passando dal campo delle con- cezioni teoretiche a quello delle
espressioni pratiche, noi vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei
ricordi del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del
presente, protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla
conqui- sta del domani. Avanti, avanti sempre, incita il Duce;
raggiunta una mèta, mille altre se ne profilano: occorre raggiungere
anche queste: ogni sosta è un tradimento: ogni indugio è un
delitto. Non sona questi i principii stessi cui s’informa il
Futurismo? E il Futurismo è tutto azione e vita: nelle sue
schie- re accoglie la più bella e sana gioventù d'Italia: gioven-
tù d'anni, ma anche di spiriti. I suoi artisti creano con la stessa
generosità, con lo stesso dispregio di ogni premio e di ogni
riconoscimento, con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro
uni- co orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire a
che il nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre niù in estensione
squilli nel mondo. E non è Fascismo, questa? Ma non è
soltanto ciò quello che ci spiega come, fatto mai verificatosi nella
storia dell'umanità, una concezione esclusivamente morale ed artistica
abbia potuto così bene assorbire ed assorbirsi in una concezione esclusivamente
politica e sociale Il fatto straordinario che oggi non può non
riempirci di legittima se pur meravigliata soddisfazione, è questo:
un colosso della politica che pensa, agisce, crea, con la ispirazione e
la chiaroveggenza luminosa di un poeta: un poeta che vive la sua arte
come una battaglia politica per la gloria della Patria sua. Né le due
espressioni, fino ad oggi antitetiche, politica e arte, s'urtano o si
contrastano: anzi si può ben dire che esse hanno così informato di
sé medesime le due personalità che concepirle in diversi at-
teggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile. Come spiegare
questo fatto così nuovo e così fuori 126 del comune,
se non riferendoci ad una forza incoerci- bile, misteriosa, ma che
tuttavia sussiste, a quella for- za cioè che crea in alcuni privilegiati
quegli speciali stati d'animo per cui il Genio, attraverso l'adamantina
lumi- nosità di un pensiero superiore, giganteggia e s’infutura?
E’ indubbiamente questa forza contro la quale noi nulla possiamo
che fa di Mussolini un futurista della stessa tempra di Marinetti e di
Marinetti un fascista, de- gno seguace di Mussolini. E'
sempre questa forza che avvicinando i due crea- tori, avvicina
conseguentemente le loro due creature: è perciò che come non potrebbe
comprendersi un futurismo non fascista così non si potrebbe concepire un
fascismo conservatore e passatista. E’ perciò ancora che i
futuristi e i fascisti, se veri ambedue, s’intende, non possono
distinguersi: l’italiano nuovo è un miscuglio — nel valore che la chimica
dì a questa parola — di fascismo e di futurismo: essi costi-
tuiscono i due elementi inscindibili e insostituibili di un tutto
organico. Chi ha detto ai nostri giovani di chiamarsi /uturfasci-
sti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così amano de- finirsi.
Inconscio, spontaneo riconoscimento di una gran- de verità che non può
discutersi e non si distrugge. Come altrettanto vero è che i
fascisti autentici sono ottimi futuristi. e non potrebbe essere diversamente
data l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista nella quale
il Duce vuole plasmati i nuovi italiani. Ma come avviene, allora,
che anche tra i fascisti sono molti i contrati al Futurismo?
Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo in camicia nera e
ostentando il distintivo, parlando (e pur- troppo parlando solo)
fascisticamente e mettendosi sem- pre in prima fila nei cortei, han
tuttavia conservato l’ani- ma italiana di anteguerra, pavida, gretta,
piccina. Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo tutto
ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un sen- so invincibile
di borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio di essere
tenuti e rispettati quali persone serie, dicono e non dicono, ammettono e
smen- tiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti, bor-
ghesi, vigliacchi. Ma ciò che prima o poi capiterà a costoro, che
noi sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto di più dei nemici
nostri aperti e leali, che almeno rispet- tiamo, lo ha detto chiaramente
il Duce nel suo recente magnifico discorso all'Assemblea quinquennale.
Per essi non si tratta né di Fascismo né di Futurismo: si tratta di
vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a chiamarsi italiani.
Né escludiamo da questa ignominiosa schiera quei gio- vani d'anni
che han conservato intatta l’anima dei bisa- voli: che gridano doversi
l’arte rinnovare e si impuntano come muli riottosi dinanzi al futurismo:
che accettano e sì prosternano ad ogni novità che ci proviene
d'oltre confine, anche se figlia di genitori futuristi italiani, e
fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i superuomini verso il nostro
movimento che gli stranieri stessi ammirano co- me un’altra delle tante
glorie italiane. Anche questi così detti giovani non possono e non
po- tranno mai essere fascisti sul serio, giacché essi non hanno
del Fascismo né compreso né assimilato quelle ca- ratteristiche di
spiccato futurismo che sono il rinnovamen- to, la velocità, il dinamismo,
il continuo superarsi, la mat cia ininterrotta verso la perenne
conquista. E lo stesso diciamo di quei critici che si fermano
a vivisezionare un'opera d’arte, isolandola dal vasto am- biente
donde essa ttae la sua ragione di vita; che fanno l'anatomia di un nostro
artista senza riflettere che esso è soltanto un membro di un corpo
gigantesco. Essi dimo- strano di aver perduto o di non aver mai posseduto
quella somma virtù latina, fascista e futurista insieme, che è la
virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda pesantez- za
anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i compri- matii, le comparse
della nostra vita e abbiamo di già concesso loro troppo onore di
discussione. Su tutto e su tutti restano le idee: nel campo politi
128 co-sociale, l'idea fascista; nel campo
artistico-spirituale. l’idea futurista. Ambedue han detto al
loro mondo una parola non an- corta udita; ambedue hanno tracciato,
ognuna nei propri confini, la via nuova da seguire per giungere alla
salvezza: tanto l’una che l’altra si sono dimostrate possenti dina-
mo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì ottimi- smo. di
passione, di entusiasmo. L'una, nel campo politico, ha raccolto
infiniti proseliti ovunque, e ciò in relazione ai numerosi problemi
d’indole contingente di cui ha trovato o propone le soluzioni;
l'al- tra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente susci-
tato energie, ridestato gli addormentati, incitato i pigri, rincuorato i
pavidi, persuaso i dubbiosi. Se qui dovesse attestarsi l’opera
vitale sia dell'una che dell'altra idea, già tutti i diritti esse
avrebbero acqui- stati per l'imperitura riconoscenza della civiltà.
Ma ambedue continuano nella loro marcia ascensio- nale: e i critici
che affermano essere il Futurismo supe- rato ci fan lo stesso effetto di
quei pochi e sparuti anti. fascisti che affermano aver il Fascismo
esaurito il suo compito. Idee come queste nostre non possono
né sostare, né esaurirsi, né esser superate: la loro essenza stessa di
con- tinua marcia, di continua ascesa, di continua conquista non lo
permette. Un uomo, a idea, una opera potranno esser supe-
rati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera. Ed ora che
conclusione trarremo dalla dimostrata iden- tica struttura spirituale del
Fascismo e del Futurismo, dal- la dimostrata perfetta corresponsione fra
loro di scopi e d’intenti? La conclusione è la solita:
ripetiamo ancora una volta e confermiamo che il solo artista capace di
riprodurre in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in tutta
la sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è l'artista
futurista e che il Futurismo è la sola espressione d'arte degna e capace
di tramandare ai posteti la vitalità, la po- tenza, la dinamicità
dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da
quel- l'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del
Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che nessuna scuola,
nessuna tendenza, nessun'altra forma di arte può vantare E
noi teniama al riconoscimento di questo nostro di- ritto: non perché ci
spingano meschini interessi o poco nobili ambizioni ma perché, forti di
un infinito amore per la patria nostra e di una dedizione cosciente e
completa di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di
un'idea, al fascino gigantesco di un Genio universale, vo. gliamo che non
abbia soste il cammino trionfale che l’Ita- lia rinnovata sta compiendo
verso le sue più alte mète, sotto il comando romano di Benito
Mussolini. FuTURISMO [da Sant'Elia, n 64, anna III 4 aprile
1934] La polemica accesasi negli Anni Trenta tra futuristi
rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già espressione di
quel «secondo futurismo», che abbia mo visto e detto essere momento collaterale
del fa- scismo-regime. O tentativo piuttosto di conservare la
avanguardia nell'ambito di un sistema che come tale era più propenso ad
un suo ordine intrinseco e im- prescindibile da mantenere 0 da
continuare. In questo senso il futurismo «di destra», come lo definisce
il sansepolcrista Bruno Corra nel marzo del ‘32 su Fu- turismo,
vorrebbe un po’ essere quello degli « arri. vati », di chi si asside
sulle comode poltrone della fine della carriera, pur cercando di
mantenere uno Spirito 4 precedente », giovanile e innovatore, che
non può essere venuto meno in chi ha giù combattuto e si è esposto
per una causa di rinnovamento. Gli fa eco Corrado Gawvoni riprendendo il
discorso e pun- tualizzando il concetto stesso di futurismo, senza
che gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è staio fatto
da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua portata e i suoi
risultati. Solo una settimana dopo ribatte Paolo Buzzi sul
numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un violento attacco ai
«futuristi di destra » e il sostegno 4 un ritorno alle estrema sinistra
», come già dice nel titolo. L'’avanguardia, in quanto avanguardia e se
vuol rimanere avanguardia, non può che esercitare una funzione di
vottura per il rinnovamento ed il rivolgi- meuto del vecchio e del
passato. Come tale l'aver guardia non può che essere e rimanere di «
estrema sinistra », sC il futurisito si ritiene ancora uvangaar dia
0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una voce isolata quella del
Buzzi, rincalzato ancora il 2 aprile, sul numero della settimana dopo, da
Remo Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui tutto si
annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in cuni tt futurismo
diviene ercativo e vu libera dvi con- formismi e delle convenzioni.
Ancora «all'Avanguardia » dedicava un quinto ed ultimo articolo
Luciano Folgore, sempre su Futurismo dello stesso anno (1933). Il
futurismo di destra e quello di sinistra st superano oramai
nell'avanguardia che ancora continua e sì muove nell'avanzata
dell'en- tusiasnio. E l'ottintismo continua in effetti fino al’ul-
timo, anche con la fine del fascismo, anche con la morte di Marinetti,
anche con la sconfitta nella guerra « sola igiene del mondo », continua
ancora nelle ulti me gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo
manifesto, quello del «futurismo-oggi », che vive e crea nel pre
sente. NOI FUTURISTI DI DESTRA Quando si riunirà in
Roma il primo grande congresso dei futuristi di tutto il mondo, io andrò
a sedermi — vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni — ad un
banco dell’estrema destra. Ma esiste dunque, può esiste- te un Futurismo
di destra? I due termini non fanno a pugni? Un movimento rivoluzionario
può contenere in sé tendenze conservative? E, infine, l’espressione «
futuri- sta di destra» non val quanto « futurista annacquato e
prudente » non s'identifica con l’ambigua parola « nove- centista
»? Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una que-
stione di moralità. Dare al Futurismo quel che al Futuri smo appartiene:
e non truccare il proprio ingegno con una etichetta di convenienza. Chi
si dichiara avanguardista ma non futurista, sputa nel piatto dove ha
mangiato. Poi, io stabilirei questo principio: che il privilegio di poter
restare nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nel-
la propria opera matura un remperamento realizzatore di destra debba
accordarsi soltanto a coloro che han dimo- strato di saper essere «
integralmente » futuristi. E recla- merei il diritto di sedermi a destra,
per mio conto, in no- me della mia effettiva collaborazione al Futurismo
più ri- voluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due
opete di audacissima narrazione fututista (La donna ce duta dal cieln —
Sam Dunn è morto). In realtà, fermo restando che l’essenza del
Futurismo è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che
nel nostro movimento i termini sinistra e destra non si oppongono,
perdono ciaè il loro significato convenzionale. La mentalità futurista
supera il contrasto fra il sovverti- mento e la conservazione, in quanto
si libera di continuo in uno slancio creativa. Perciò un eventuale
Congresso fu- turista dovrebbe assumere una configurazione non
oriz- zontale ma verticale: fututisti di cima e futuristi di base,
133 aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di comodo,
io qui mi son servito della parola destra. Ma diciamo pure i
fanti, i pontieri, i costruttori di stra- de del Futurismo, e avremo
indicato il carattere e spiega- to la necessità di questo settore nel
nostro movimento: l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura,
come la decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in
gran parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equili- brarsi tra il
dovere del rinnovamento artistico e l’impe- rativo degli scopi vitali ai
quali la sua natura la destina. Un romanzo illeggibile equivale a una
casa senza finestre per vederci o a una stazione dove i treni non possono
cir- colare. Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tem- po
attuale anche nel senso della praticità. Le case futuriste vogliono
essere le più comode: la struttura delle città futu- riste mira ad
assicurare i massimi vantaggi alle moltitudi- ni che devono abitarle.
Allo stesso modo il narratore fu- turista ambisce di garbare alle folle
dei giovani, traendone e in esse trasfondendo gli ideali tipici del
nostro tempo, per via di una tecnica intonata alla sensibilità
moderna, tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon
narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna terrestre,
per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un volo lirico la propria
tempra di novatore. Questa nota velo- ce non intende di risolvere
l'importante problema al qua- le si riferisce: ma soltanto di proporre lo
studio ai came- rati futuristi. Bruno CorRrA
Sansepolcrista [da: Futurismo -- Con il suo articolo « Noi futuristi di
destra » uscito nell'ultimo numero di Futurismo, Bruno Corra ha
oppor- tunamente aperto una tempestiva discussione intorno al
movimento futurista che, secondo me, va allargata e approfondita da una serie
di perentorie domande — argo- menti che, investendone in pieno la vita e
la vitalità, ri- chiedono altrettante risposte urgenti e
risolutive, Quali sono le origini e le funzioni del movimento
fu- turista in Italia. Quanti e quali sono i movimenti
artistici e letterari succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa,
che accusano sinceramente una netta derivazione dal Futu-
rismo. Individuazione dei movimenti artistici e letterari che
rappresentano una deviazione e una contraffazione del Futurismo e dei
movimenti che, o fingendo d’ignorarlo, o ammettendolo furbescamente solo
attraverso la propria attenuazione, continuano a pompargli generoso
sangue e a servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda
simbiosi di Bernardo l’Eremita. Quali sono Je vere umane ragioni
per cui elementi di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono
dal movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo aver- ne
attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi e Carrà; Soffici
e Papini). In che cosa consista e came vada intesa il
cosidetto « contenuto polemico » che, seconda certa critica nostra-
na, costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del Fututismo.
Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fu- tutismo di
essere un movimento difettoso e caduco per- ché nato senza una dottrina
estetica che lo giustifichi. Espansione influenza e fortune del
Futurismo in tut- to il mondo e suo riconoscimento in Italia.
Sono tutte domande che hanno bisogno per una con- veniente
risposta, di lunghe e minuziose trattazioni. Ed è più che naturale
e logica la irresistibile tendenza dei nostri connazionali a sbarazzarsene
con una sola pa- rola. Questa parola la conosciamo troppo
bene: Marinetti! Ma conosciamo troppo bene anche il
grossolano trucco, Si accarezza Marinetti (fino ad un certo
punto, e il più nascostamente che sia possibile: è bene non compro-
mettersi troppo!), per negare poi il Futurismo e massacra- re i
futuristi. Da troppo tempo si pratica ormai l'iniquo inganno
per non sperare che abbia finalmente a fruttare un ri- sultato vittorioso
e definitivo! E’ il trucco indegno tentato dagli antifascisti
contro il fascismo quando si cercava di mettere in mora il fa-
scismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda cana- gliesca mira di
dividerli, per batterli poi con più comada separatamente.
Mussolini anche a quei tempi era trappo Duce per non avvertire la
subdola insidia e sventarla. Marinetti! Chi più di noi l’ha più
fedelmente amato ed ammirato? Per conoscere quali prodigiosi
tesori di amore e di energia egli possieda, bisogna vederlo all'estero.
Bisogna sentire allora con che fuoco egli è capace di affrontare i
pubblici più paurosi per numero e distinzione, più ostili ad ogni cosa
che abbia la nostra impronta di quanto non st creda, e per mentalità, per
gelosia e furore d'inferiorità; bisogna sentirlo dominare a poco a poco
col suo impeto irresistibile gli spiriti o avversi o diffidenti, e,
mentre fa giganteggiare nelle assemblee stipate l’ombra magnani- ma
del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e co- stringerle a
riconoscere la poesia italiana come una cosa caduta dal cielo: bisogna,
dico, vedere quest'Uomo straor- dinario all’estero, per capire che
instancabile affascinante ambasciatore d'italianità nel mondo noi abbiamo
in lui. Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza,
que- sto avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che è
forse il suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sul-
l'argomento. Ma approfitrarsene come troppi fanno, è un
mostruo- so delitto. Che cosa volete allora?, ci domanderà
qualche impru- dente con un sorriso allusivo. No, no, non
invidiamo il puzzo di benzina, state tran- quilli: a questo volevate
alludere. Ma troppe volte ricevia- 136 mo in faccia
la cenciata dell'insolente puzzo di benzina per non sentirci offesi e
disgustati nella nostra rassegnata povertà. La ragione del
nostro malcontento è che da troppo tempo noi andiamo seminando e
falciando per quelli che ci seguono e allegramente raccolgono senza
nemmeno ri- volgerci un pensiero di ringraziamento. Amici
cari, se ci fermassimo un po’, se ci voltassimo un pochino indietro anche
noi? Se pensassimo anche noi di raccogliere un pugno di quelle spighe, da
portarcele a casa se non altro per ricordo e testimonianza della
lunga fatica compiuta? Ma se lasciamo ancora correre un poco,
ho paura che ci negheranno anche questo piccolo premio di
consolazio- ne; e se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo
non sarà che per il museo, tra le mummie di coloro che st prodigarono e
sactificarono per una fede e un ideale e che Alfredo Panzini già propose
di raggruppate in una sola classifica con la denominazione di collezione
di fessi... CorRrADO GovonI [da: Futwrismo, ESTREMA SINISTRA E non vorrei
altro aggiungere. Le distinzioni, «i pun- ti fermi», Îe categorie anagrafiche
non contano. Si sa che, per taluni, l'età del « destino » futurista è
passata da un pezzo. Pure, quando la febbre della creazione non è
discesa e, soprattutto, quando il traguardo tremendamente astrale della
proptia Opera non è raggiunto, ci si sente, ogni mattina, l'età — magari
— di Vittoria, di Ala e di Luce Marinetti...! Questo, e non altro, è il
vero futurismo. Perché dovrei sedermi a destra, proprio io? Mi
sembre- rebbe di tradire la causa di « Aeroplani », di « Ellisse €
la Spirale », di « Cavalcata delle vertigini », di « Popolo canta così! »
di « Dannazioni » e di tutto il mio Teatro inedito, ma ultra violetto,
che ha forse, a suo tempo, spa- ventato anche i genii scenici sovversivi
di Petrolini e di Bragaglia. Soprattutto, mi sembrerebbe di
tradite le mie Opere fantasticamente audaci di domani: « Beatitudini
» (affret- tati mio caro Campitelli: perché l'aeroplano-razzo
deve partire per le stelle!). « Canto quotidiano », dove vedrete il
Poema attimistico del 1932 (la « Prora », lo sta stam- pando); e «Nostra
Signora degli Abissi »: dove, fina] mente, la Motte sarà vinta e le onde
cosmiche impaste- ranno da pari loro la nuova genesi delle radiazioni
inter- planetari. Questo è futurismo: e di ultra estrema
sinistra. Le mie anatomie sintetiche di anime e di sensi, le
mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmapolitismi spa-
ziali e i miei intimismi vorticosi stanno per una intransi- genza etico
estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed, un pochino, anche la
gloria) della mia lunga carriera di uomo che ha sempre fatto dell'Arte
come il sacerdote celebra messa. Aviatore sempre, adunque: fante e
stradino, non mai. Lo so che i miei romanzi (appunto perché sempre
ed esclusivamente poemi) non hanno trovato che editori san- ti,
martiri ed eroi. Ma anche questo è un segno nobile del- le cose e degli
uomini e degli eventi. In quanto alle mie opere di Poesia pura, ho avuto
la soddisfazione recente di trovarmele analizzate e comprese e discusse
ed evidente- mente — quindi — amate da una Rivista di giovanissime
menti e di ardentissimi cuori: dico, la « Penna dei Ragaz- zi » diretta
da Vittorio Mussolini, edita in Roma. I giovani, quelli veramente
degni di questo nome pri- maverile, sanno che, al di fuori e al di sopra
d’ogni inevi- tabile chiasso letterario, la parola « futurismo »
risponde alla solo unica vera «idea forza» che oggi esista nella
sfera ideale del Mondo: e che è in grazia di essa, unica- mente di essa,
se oggi la Poesia della miracolosa Italia fascista vive e vivrà.
Naturalmente io dico ai giovani, anche e specie se 138
coronati dal casco d'alluminio in pieno cielo: « lavorate » non
accontentatevi di quattro parole intonate all’onoma- topea del motore: la
Poesia italiana ha ben altri diritti ed impone ben altri doveri! guardate
dalle finestre di Palazzo Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi
« Carmi de- gli Augusti e dei Consolari », se ne siete capaci! Il
Duce vi premierà. PaoLo BUZZI [da: Futurismo, FUTURISMO SOSTANZIALE « Non c’è
che un futurismo: quello di estrema si- nistra », ha affermato Paolo
Buzzi. Ma questa generosa intransigenza che parrebbe volere ammettere un
unico modo di manifestarsi — contro la premessa di Bruno Cor- ra
circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di destra « aderente al
terreno pratico » — rimane una questione poetica e individuale di fronte
agli argomenti che le ter- ranno dappresso: 1) Il futurismo
non è formalista; non si crea né si lascia creare barriere dalle
definizioni; pago della pro- pria influenza, lontano da ripulse
d’ortodossia vendicati- va, riconosce per suo anche quello che è tale
sull’altro name. Del resto Corra aveva scritto: « fermo
restando che l’essenza del futurismo è e non può non essere rivolu-
zionaria, bisogna dire che nel nostro Movimento i termi- ni sinistra e
destra non sì oppongono, perdono cioè il loro significato convenzionale.
La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovvertimento e la
conservazione, in quanto si libera di continuo in uno slancio creativo
». Le centinaia di migliaia di aderenti al Movimen- to non si
compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione può essere unica;
ma l'ispirazione e i tem- peramenti saranno naturalmente diversi. Così
uno stesso tema, di sentimento futurista, verrà espresso in stili
di- versi. Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel
pun- to? E come negarne la sostanza futurista? 3) La varietà
di tipi, che documenta l’importanza sociale del fenomeno futurista, è
assoluta; e va dai poeti ai militari, dai pittori agli industriali,
ecc. Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.
zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si. tuazioni
ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non si tratta qui di
temperamento o di mentalità più o meno ardenti. Si tratta di concezione e
di azione che devono spesso basarsi sul comune « campo pratico » dove
s'in- contrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali
negli scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,
gl'ingegneri). Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni
e alle inaugurazioni, faccia — con istintiva attenuazione del- la
sua anima inquieta — del futurismo di destra. Perché allora è sul terreno
« pratico ». E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi
stes- so, uomo ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente,
che pure fu l'organizzatore, modesto e alacre del I. Con- gresso
futurista a Milano, 1924, riuscendo con l'intelli- gente accoglienza a
dare alla manifestazione una luce di concordia, rara nelle ancor più rare
grandi adunate di artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso
che fon- dò questo giornale indispensabile alle rivendicazioni di
con- quiste artistiche e ideali misconosciute ed alla continua-
zione della tenace opera di ringiovanimento, ed accolse dopo, con
larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e d'ogni fama purché attratto
da poli positivi. Dunque, se si dovesse affermare l'essenza d’un
solo futurismo bisognerebbe dire: « futurismo sostanziale », che è
poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano, illi- mitato,
ascendente. Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini
che le divinano e le dettano. Esse formano il « tempo », mi.
racolosamente, quasi contro tutte le volontà. Corrado Govoni, a
seguito della discussione aperta da Bruno Corra, proponeva di riesaminare
la posizione del tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette
que- siti presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mos-
sa dal culturalismo circa una pretesa assenza di dottrina giustificante
l'estetica futurista. Anche il Fascismo fu accusato di assenza di
dottrina: - e non dai soli avversari. Quale dottrina, quando
la critica ufficiale vede attra- verso la cultura, divenuta una seconda
natura? Remo CHITI (da: Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile
1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni propendeva per un movimento chiuso
e voleva che i giovani artisti, i quali si dichiatavano futuristi e
aspitavano ad entrare nel nostro gruppo, subissero un lungo periodo di
quarantena. Secondo Boccioni non bastava proclamarsi novatore
per esserlo, in realtà; non era sufficiente una adesione più o meno
entusiastica per avere ingresso libero in un mo- vimento che si proponeva
di attuare nell'arte e nella vita un nuovo ordine di cose.
Dal suo punto di vista, puramente artistico, il crea- tore del «
dinamismo plastico » non aveva torto. Il dono della originalità non è
largito che a pochi. Per superare il già fatto, mettersi in armonia coi
propri tempi e pre- vedere i lineamenti estetici del futuro occorre
un’intelli- genza ardita, geniale e di largo respiro. Ma
contro l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vi 141
brante liberalità di Marinetti, che più futurista di ogni altro intuiva
la necessità di creare un clima, di generaliz- zare una tendenza, di
suscitare una vasta atmosfera spiri- tuale in cui si dovessero respirare
continuamente il senso e il desiderio della novità. Ecco la
ragione profonda del suo proselitismo, della sua accettazione, quasi
incondizionata nel movimento, di tutti quei giovani e giovanissimi che
avessero fede nel futurismo. Tale generosità non fu e non
sarà mai faciloneria. Nel fervore del diciottenne c'è sempre
qualcosa di vivo e di sacro che è impossibile trascurare. Ognuno di
noi sa per esperienza che è la primavera, anche con le sue
intemperanze, la stagione che prepara i germi e i frutti di domani. E non
bisogna aver paura che gli entusiasmi sbol- liscano presto. Basta che la
fiaccola timanga accesa e che trascorra di mano in mano agitata e
sollevata continua- mente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna
giovinezza della nostra arte e della nostra vita. Futurismo
di destra? Futurismo di sinistra? Non cre- do che sia il caso di
parlarne. In quanto alle benemerenze e al sacrifici, talvolta eroici, dei
primi banditori del futu- tismo essi appartengono ormai alla
storia. L'amico Govoni vorrebbe che i futuristi della vigilia
fossero promossi al grado di santoni e avessero quel tribu- to di applausi
e di ricompense che essi giustamente meri- tano. Ma ciò equivarrebbe a
una giubilazione e noi ri- schieremmo di diventare dei
sopravvissuti. Il piedistallo e l’altare non sono il nostro posto
di combattimento. In prima linea sempre e all'avanguardia ad
ogni co- sto! Anche a costo di essere eternamente in contrasto con
il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e accetta
soltanto il futurismo di seconda mano, addomesti- cato dagli abili
profittatori del nostro movimento. Questo disprezzo del rendiconto
e del caso personale, questa ferma volontà di essere più giovani dei
giovani è un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di
quell’otti- mismo che molti pseudo-avanguardisti aborrono perché
so- 142 no nati con la barba nel cervello, non hanno
avuto mai vent'anni e non arrivano a comprendere che soltanto nel-
l'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza mez- zi termini c'è
il lievito di ogni grandezza futura e d’ogni poesia nuova. Chi ha il
torcicollo nostalgico non può guar- dare dititto innanzi a sé e andare
oltre speditamente. Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che
si per- petua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze
istintive e fornito da madre natura del vero e genvino senso
dell'immortalità. Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il
clima fu- turista dev’essere sopratttuto un clima primaverile e
acerbo. Luciano FOLGORE [da: Futurismo, -- Abbiamo raccolto
quattro testimonianze futuriste, è sul futurismo. Una è di Alberto
Sartoris, architetto, una di Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli,
eri- tico d'arte, e una di Enzo Benedetto, pittore e giorna- lista.
Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo Bel. loli) è un esperto,
studioso ed interprete del futurismo. Ci sono sembrati interventi significativi
e ittdispensa- bili alla puntualizzazione dell'argomento, visto che
si tratta di personaggi viventi, che hanno partecipato al futurismo
e che ancora oggi lo sostengono e cercano di dargli alito o di vivere
futuristicamente a tutt'oggi in un mondo, forse, ricaduto nel «
passatismo ». Crali con l'aeropittura e la sassintesi ha continuato
l'avan- guardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre l'aveva
sostenuta, al di qua e al di là del fascismo. Benedetto con un manifesto
{Futurismo oggi) e poi con un foglio periodico «operativo »,
capace di pro porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi.
Sar toris con un'ottività artistica professionale volta 4 con-
timuare, anche se in oltre direzioni n con altri strumen- ti di vicerca,
la prima avanguardia cui aveva aderito entusiasta. Belloli puntualizza e
sancisce criticamente con la profondità dell’evperto certi. rapporti e
certe « colleganze », troppo spesso volutamente dimenticate 0
accantonate. La critica deve essere seria e intellettual. mente, n
«ideologicamente », corretta. E° quello che abbiamo cercato di fare.
Anche con la pubblicazione di questo testimonianze Carlo
Belloli, critico, poeza « visuale » di sperimen tazione futurista, e
docente nelle università svizzere di estetica {Basilca) e storia della
critica d'arte (Strasbur- go) Nato nel 1922, vive a Milano e Basilea. E'
colla boratore de La Martinella di Milano, già del Roma di Napoli,
e della rivista Les Arts di Parigi Organizza come consulente le mostre di
numerose gallerie d'arte di Milano. Enzo Benedetto,
pittore e scrittore, futurista « da sempre » (1923). E' nato a Reggio
Calabria nel 1905, vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica
Futurismo aggi, che esce dal ‘69, bimestralmente, con saggi e ri
produzioni di opere futuriste. Fu anche autore del l'omonimo manifesto
nel dopoguerra (1967). ‘Tullio Crali, pittore futurista e
aeropittore. E' nato nel 1910 a Igalo, in Dalmazia. Vive a Milano dove
ha lo studio e il più importante archivio del futurismo attualmente
esistente. Futurista dal '29 e creatore della camicia anticravatta e
della giacca antibavero (nel '33), é firmatario nel ‘58 del manifesto
futurista sulla « Sas- sintesi ». Sarà uno degli ultimi a vedere Marinetti
nel ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare can lui la
continuità del futurismo dapo la guerra Alberto Sartoris,
architeito e professore dll'Univer sità di Losanna. Futurista e amico di
Terragm e di Le Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a Cossonay
Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e nel ‘28 sarà con
Prampolini e Fillia nel gruppo torinese. Nel ’36 fonda il gruppo degli
astrattisti a Como, dove collabora con Terragni nel progetto della città
operaia di Rebbio. ('39-40). Sua opera fondamentale è il li bro Gli
elementi dell’architettura funzionale (1932), pilastro teorico del
razionalismo architettonico italiano (introdotto da Le Corbusier)
FUTURISMO-FASCISMO: OSMOSI DI DUE MOVIMENTI DELL'ITALIA
CONTEMPORANEA Dal futurismo confluirono al fascismo, o viceversa,
al- cuni letterati e pittori, qualche pensatore, di singolare auto-
nomia espressiva. E' il caso di Mario Carli, Emilio Settimelli ed
Arman- do Mazza letterati e giornalisti di non trascurabile inci-
denza che dalla originaria militanza futurista estrassero dialettica,
argomentazioni autonome e maturazione spiri- tuale, per assumere nel
giornalismo fascista più avanzato ruoli protagonisti. Mario
Carli, ufficiale degli Arditi nella prima guerra mondiale e poi
legionario fiumano, fondò con F.T. Ma- rinetti l'Associazione degli
Arditi d’Italia e il periodico Roma Futurista dalle cui colonne trovarono
sistematica divulgazione il teatro sintetico, le pratiche parolibere
dei poeti futuristi e le prime prove versoliberiste di Giuseppe
Bottai che ne fu redattore. In quel 1919 anche il generale Luigi
Capello si avvi- cinerà ai futuristi per esporre alcune tavole parolibere
di accertata ingegnosità, alla « Grande Esposizione Naziona- le
Futurista » nella galleria centrale d'arte di Palazzo Co- va a Milano,
mostra successivamente presentata a Firenze e a Genova. Mario
Carli con la raccolta di versi liberi e parole in libertà Caproni,
pubblicata a Milano nel 1925, precorse l’aeropoesia futurista degli Anni
Trenta. Alla prosa poetica, Carli, aveva dedicato Le notti
fil- trate, singolare repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ri-
stampato a Roma, nel 1923 per i tipi di Giorgio Berlutti che dirigerà
quella Libreria del Littorio, editrice di mo: numenti e documenti
dell'era fascista. Il suo debutto di prosatore era avvenuto nel 1909 con
un seguito di novel- le, Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo
romanzo, Retroscena. All’attività letteraria e giornalistica Mario Carli alternerà
quella politica e diplomatica. Nel 1926 pubblicherà a Firenze
Fascismo Intransigente, con prefazione di Roberto Farinacci, che
inaugurerà la ten- denza più oltranzista del fascismo. Nel
1925 Carli era stato nominato Console d’Italia in Brasile, per essere in
seguito trasferito a Porto Alegre nel 1927, anno in cui Bernardo Attolico
assumerà la reg- genza dell'Ambasciata d’Italia a Rio de Janeiro.
La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a Rio de Janeiro,
Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel maggio del 1926, troverà Mario
Carli a fianco di Mari- netti per arginare le polemiche causate in
Brasile dalla aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in
li bertà. Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà
la parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futu- risti
non aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle arti e nell'estetica
alle quali la poetica futurista aveva aperto liberi orizzonti
precisamente influenzando il « mo- dernismo » sudamericano.
Emilio Settimelli, poeta, scrittore di teatro e giorna- lista,
aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel 1915 e con F.T.
Marinetti e Bruno Corra aveva curato la prima antologia del Teatro
Sintetico Futurista, edita da Umberto Notati, a Milano in quel medesimo
anno, nella collezione dei « Breviari Intellettuali » del suo
Istituto Editoriale Italiano. Nel 1917 Settimelli pubblicherà
a Firenze Maschera- te e, nel 1918, I capricci della Duchessa Pallore,
edito a Milano dalle Messaggerie Italiane. Settimelli risulta pre-
cursote di un periodare scarno e telegrafico, serrato e dia- lettico,
inttoducendo la pratica di neologismi sociopolitici che avranno fortuna
nel linguaggio governativo e giorna- listico italiano degli Anni Venti e
Trenta. Il teatro sin- tetico di Settimelli si differenzia da quello
degli altri auto- ri futuristi per lucida imprevedibilità di azioni-stati
d’ani- mo simultanei. Nel fascismo anche Settimelli appartenne alla
corrente più revisionista e le sue Sassate, pubblicate 148
a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col: piranno
più di un gerarca in posizione moderata e con- formista.
Filippo Tommaso Marinetti redigerà nel 1921 con Emi- lio Settimelli
e Mario Carli il manifesto Che cos'è il Futu- rismo | Nozioni elementari,
dove vengono considerati « fu- turisti nella politica » coloro che amano
il progresso del- l'Italia più di loro stessi, quelli che vorranno
liberare l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal parla-
mento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, pro- positi del
fascismo. Così la volontà di perseguire un governo tecnico di
giovani, senza parlamento, « vivificato da un consiglio ec- citatorio di
giovanissimi », la determinazione di « espro- priare gradualmente tutte
le terre incolte e malcoltivate, preparando la distribuzione della terra
ai suoi lavoratori » e l'abolizione di ogni forma di parassitisma
burocratico, industriale e capitalistico, diventeranno tipicamente
na- zionalfasciste e fasciorepubblicane. Il manifesto
considera, poi, « futurista nella vita » chi « sa dare a tempo un
cazzotto e uno schiaffo decisivo », chi « agisce con energia pronta e non
esita per vigliacche- ria », come chi « fra due decisioni da prendere
preferisce la più generosa e la più audace, sempre che sia legata
al maggiore perfezionamento e sviluppo dell'individuo e del- la
razza... »: medesima l'etica fascista di alcuni anni dopo. Nel 1922
Emilio Settimelli aveva dedicato un saggio critico all'opera di
Marinetti, edito a Milano con | tipi di Gaetano Facchi, che può essere
considerato il primo ten- tativo di analizzare la letteratura
marinettiana al di sopra del clamore scandalistico e della propaganda
futurista. Nel 1927 Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni
d'Arte e di Critica, Come combatto che raccoglie i suoi più polemici
scritti apparsi sul quotidiano romano L’Irm- pero, diretto con Mario
Carli. Verso la fine degli Anni Trenta, Settimelli, subirà
al. cuni anni di confino di polizia causati dalla sua intransi-
genza critica verso alcuni personaggi-chiave del regime. Di Armando
Mazza, che ci fu dato di personalmente 149 conoscere
e frequentare, il futurismo si avvaleva per pre- sentare le prime,
contestate, serate propagandistiche nei teatri della Penisola.
Eccellente declamatore di versi, tonante dicitore di manifesti
tecnici futuristi, Mazza possedeva un fisico atle- tico di lottatore
greco-romano. Marinetti affidava, quindi, a Mazza la protezione della ribalta
dagli attacchi passatisti, mentre Îa sua voce tonante sovrastava i fischi
e il vociare degli oppositori. Singolare poeta parolibero,
Mazza, sarà il primo ad organizzate un movimento anticomunista, fondando
nel 1919 a Milano, il settimanale politico I wmemzici d'Italia,
organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Nel 1918 Mazza aveva
pubblicato dall'editore Gaetano Facchi di Milano 10 Liriche d'Amore,
seguito di altrettanti poemi in versi liberi stampati come cartoline
postali raccolte in contenitore di carta crespata. Queste cartoline
poetiche so- no il primo esempio rilevabile e significativo di quella
che negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, « Arte po- stale
», assegnando alla comunicazione poetica il canale inabituale della
spedizione a domicilio del messaggio este- tico. Già nel 1917, Armando
Mazza, aveva introdotto l’uso delle « Cartoline Postali di Guerra »,
edite dallo Stabi- limento Tipografico Taveggia di Milano, di cui
Vedetta (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa ed esteticamente de-
terminante. Ai poemi postali faranno seguito Due morti. liriche
pubblicate nel 1919. Nel 1920 Mazza pubblica Firmamento / con una
spie gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in Libertà, edito a
Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta di una pregevole
sequenza di parole in libertà dove la com- ponente tipovisuale
dialettizza le scelte semantiche, tal- volta enfatiche ed irruenti con
frequenti ricorsi ad ana- logie non sempre depurate. Poi Mazza verrà
totalmente assorbito dal giornalismo e dall’attività politica
Sarà direttore di importanti periodici come La grande Italia e di
quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di Genova, Il Resto del
Carlino di Bologna. Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando
Mazza 150 farsi ancora più liquidi e trasparenti
quando ci parlava del Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe
del qua- le Apollinaire gli inviava, nel 1913, fiori, « rose »,
riser- vando « merde » ai conservatori e ai romantici. Mazza aveva
frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e Grasa Aranba a Rio de
Janeiro, Benedetto Croce a Napoli, ai tempi de La Diana e Giovanni
Gentile a Milano, proprio mentre il filosofo stava orientandosi verso il
fascismo. Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva aiutato nei
primi anni del soggiorno milanese, Mazza, era stato di- pinto dal maestro
futurista in un esemplare pastello di rara fattura e di deflagrante
cromaticità, che pubblicam- mo nel 1977 fra le opere inedite di
Boccioni. Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per
la critica d'arte, presentandolo ad Umberto Notari, editore del
quotidiano, poi settimanale, Gli Avvenimenti dove il pittore reggerà per
qualche tempo la rubrica d'arte. Il fascismo di Armando Mazza restò
sempre moderato e la sua coerenza politica gli causerà nel dopoguerra
1940-1945 il più completo ostracismo, impedendogli di continuare la
attività giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia sino agli ultimi
giorni di vita. Il forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza
alla poesia alla quale apporterà non trascurabili contributi in
versi liberi pubblicati, fra il 1948 e il 1959, presso editori
inadeguati. Fra i più importanti poeti del futurismo con- fluiranno al
fascismo, assumendovi incarichi di alta re- sponsabilità, anche Auro
d'Alba (Umberto Bottone) che, a Roma, diventerà capo dell'ufficio stampa
della M.V.S.N. (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e
Paolo Buzzi che, a Milano, assumerà la carica di Segretario Ge-
nerale della Deputazione Provinciale. Altri futuristi di minore rilievo,
come il poeta Federico Pinna-Berchet, au- tore delle Liriche d’Assalto,
pubblicate a Roma nel 1930, il poeta parolibero giuliano Bruno Sambo e
Ferruccio Vecchi, prosatore e capitano degli Arditi, aderiranno al
fascismo svolgendovi ruoli anche decisivi. Sambo diventerà federale di
Addis Abeba, mentre Pinna-Berchet e Vecchi ricopriranno alte cariche
corporative. Così il genovese Bolzon, poeta-pittore futurista dal 1919 e
battagliero giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel 1928,
poi Consigliere di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di saggi
di critica sociale e di teoria fascista pubblicati dalle edizioni Alpes
di Milano. Anche il grande invalido di guerra Giuseppe
Steiner, piacentino, poeta parolibero e autore di quei fondamentali
Stati d'Animo disegnati, editi nel 1923, che precorsero la « poesia
grafica » di Pino Masnata e la « poesia visiva » dei giovani fiorentini
negli Anni Sessanta, sarà nominato Consigliere Nazionale fascista. Dal
futurismo si oriente- ranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore
Guido Kel- ler, legionario fiumano e autore del lancio aereo di un
pitale su Montecitorio a monito di Francesco Saverio Nitti, il « cagoia »
del « Natale di sangue » fiumano; e la Me- daglia d'Oro ferrarese Olao
Gaggioli, poeta parolibero fu- turista e pluridecorato ufficiale del
XXIII Battaglione di Assalto dei Bersaglieri sul Podgora.
Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Da- quanno, poeta
parolibero e cofondatore a Milano del pe- riodico I Principe, organo
fascista difensore della « Mo- narchia integrale ». Daquanno, che nel
1925 aveva pub- blicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio
dell’artigianato italiano, diventerà nel 1927 capo ufficio stampa
della Federazione Fascista delle Comunità Artigiane. Un
riferimento, poi, al poeta parolibero e autore di teatro sintetico
Guglielmo Jannelli, messinese, che dai «Fa- sci Futuristi », di cui era
stato promotore nel 1918 con Marinetti, passerà ai « Fasci di
Combattimento Siciliani » assumendovi compiti determinanti. Nel 1924
Jannelli pub- blichetà a Messina, per i tipi delle Edizioni della
Balza Futurista un polemico saggio dedicato a La crisi del Fa-
scismo in Sicilia, dedicato in frontespizio « A Emilio Set- timelli e
Mario Carli, miei fratelli nella avanguardia arti- stica e politica della
nuova Italia e anime capaci di ren- dere pienamente la sincerità che mi
ha mosso a compiere queste franche pagine obbiettive ». Questo
scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una autocritica nell’ambito
del fascismo, di una volontà revt-
con 1acusaro adagio. «.., oDbDedienza pronta, cieca, aSS0- luta...
». Così Jannelli vede il fascismo nel 1924: «... il fascismo si è rotto
in due pezzi: molta della parte più buona è rimasta bloccata, impedita di
agire; e l’altra par- te trionfa esteriormente unita ma intimamente
diversa, po- co moderna, niente affatto veloce e qualche volta
insi- gnificante... ». Anche Corrado Pavolini, poeta,
autore teatrale, regi- sta, critico d’arte e letterario, che si era
avvicinato al mo- vimento di Marinetti attraverso l’opera del pittore
futuri- sta fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924 un
saggio monografico al fondatore del futurismo pet, infine, pubblicare nel
1927, a Bologna per i tipi dello Zanichelli, quel fondamentale Cubismo
Futurismo Impressionisnio, ade- rirà al fascismo assumendo importanti
incarichi nel diret. torio del partito e al Ministero della Cultura
Popolare. Dal fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo
Fran- cesco Orestano, Accademico d’Italia, che negli Anni Tren- ta
dedica al movimento di Marinetti saggi di teoria este- tica e di critica
letteraria. Orestano aveva pubblicato nel 1907 quegli importanti Valori
Umani la cui struttura teo- retica aveva particolarmente influenzato il
giovane Ma- rinetti.” Anche Paolo Orano, scrittore, storico
della filosofia e sindacalista sorelliano, che fu Deputato fascista per
la Sardegna alla XXVI legislatura e per la Toscana alla XXVII e al
quale venne affidata nel 1926 la prima cattedra di storia del giornalismo
nella facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia, si
orienterà verso il futurismo. Nella raccolta di saggi critici I
Contemporanei, pubblicata a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà
a Ma- rinetti una esegesi determinante, del tutta favorevole al
futurismo considerato estetica nuova di apertura inter- nazionale. Dalla
pittura futurista si muove, invece, verso il fascismo Antonio Marasco,
senz'altro il più impegnato e coerente politico fra tutti gli operatori
plastici del futu- rismo. Calabrese di nascita, Marasco, ebbe parte
rilevante nelle squadre d'azione fasciste di Firenze dove si era
tra- sferito prima ancora di arruolarsi volontario per la guerra
1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di ipri- te sul Piave e
dopo essere stato promotore con Marinetti dei « Fasci Futuristi ».
Nel 1914 Marasco aveva accompagnato Marinetti nel suo secondo
viaggio in Russia, a Mosca e a Pietroburgo, dove avrà modo di conoscere
Velimir Klebnikow e Wla- dimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di
estrema inventività grafica al medico-pittore Nicolaj Kulbin,
al pittore Nikolaj Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poe-
ta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore B. Livshits, al mu- sicista A.
V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di Ma. rasco presenterà sempre
componenti sperimentali, non con- dizionata da temi fascisti o da enfasi
dell'aviazione mili- tare e civile che, purtroppo, sviliranno molta parte
della neropittura futurista degli Anni Trenta. Antonia Matasco
precorre il cosiddetto « astrattismo » delineatosi nell’am- bito della
milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghi- ringhelli e può essere
considerato uno dei pionieri del costruttivismo e del concretismo
internazionali. Particolarmente affezionati a Marasco avevamo
avuto modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima mostra
personale a Milano, di carattere antologico, attra- verso la quale il più
vasto pubblico riuscì a scoprire le sue ricerche preastratte e
protoconcretiste realizzate a Fi- renze fra il 1923 e il 1930
Marasco restò sempre legato al futurismo e il suo fa- scismo ebbe
coerenza di adesione alla Repubblica Sociale Italiana dove ricoprì
importanti incarichi nella rinnovata Direzione Generale delle Belle Arti
e dei Beni Culturali del Ministero della Cultura Popolare. Questo
magistrale pittore svolse anche attività di scrittore e di critico
d’arte e un suo libro, pubblicato a Firenze nel 1935, Parrorami
allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale science-fiction.
Nell'ambito del movimento futurista, Marasco, pro- mosse i « Gruppi
Futuristi Indipendenti », attivi a Firen- ze fra il 1925 e il 1958, che
rivelarono personaggi della importanza di Cesare Augusto Poggi,
architetto razionalista, tecnologo del cemento armato e ideatore di
singolari costruzioni civili per la difesa bellica. Quando, nella
se- conda metà degli Anni Trenta, s'inasprirà la campagna fa- scista
contro il futurismo, accusato di difendere l'arte « astratta »
considerata « giudea e massonica », Matasco sarà a fianco di Marinetti
per chiarire i termini di indi- pendenza dell’« astrattismo » plastico da
ogni motivazio- ne di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o
mura- toria. Se disponessimo di maggiore spazio per analizzare
compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti fu- turismo-fascismo
ne risulterebbe la conferma di una pre- cisa interdipendenza di propositi
e di azione fra i due movimenti. Il futurismo non condizionò mai le
proprie libertà espressive, i propositi di rinnovamento, di costan-
te evoluzione spirituale, alle esigenze agiografiche del fa- scismo che,
del resto, non considerò il futurismo come arte di Stato, riservando
questo pericoloso privilegio al movimento del Novecento, celebrarore di
miti romanistici e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo,
pur mascherato da un malcompreso funzionalismo. Antonio
Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla so- glia degli
ottant'anni. Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto,
sino all'ultimo, cromostrutture dinamiche e inoggettive di auto-
noma soluzione cinevisuale. Puntualmente ci inviava let- tere di accorata
italianità, preziosi appunti di teoria pla- stica che, un giorno, dovremo
pur raccogliere e pubblicare come contributi fondamentali alla storia del
costruttivismo e del concretismo internazionali. Noi giovanissimi non
era- vamo disposti ad anteporre la dogmatica della mistica fa- scista
alle libertà espressive promosse e favorite dal futu- rismo, né ci si
potrà accusare di aver posto le nostre pri- me ricerche futuriste al
servizio dell'apologia di regime. Così le nostre Parole per la
Guerra, pubblicate nel mar- zo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi in
Armi, sovven- zionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai
canoni conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli
an- ni ma anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta
e visuale, come è stato ampiamente rilevato dalla critica
internazionale più obiettiva e attenta. Il nostro poema Bimba /
bomba, del 1943, può essere, infatti, considerato il primo esempio
esistente di poesia concreta a struttura semantica reversibile e a
susseguenza ottica alternata, dove l'uso della parola-chiave è già
seria- listico. Il nostro fascismo eta quindi disarticolato
dalle pra- tiche dell’estetica futurista, proprio come si era
verificato per gli iniziatori del futurismo: F.T. Marinetti, Paolo
Buz- zi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. In- fatti
anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944 dalle Edizioni
Etre (Repubblica) con un «collaudo » di Martinetti, piuttosto di
risolversi nell'abituale apologia guetresca di quel periodo, introducono
un modo nuovo di poetare inaugurando le problematiche di quella «
poesia visuale » che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi
internazionali sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideo- logia
politica di Marinetti, le teorie del suo particolare na- zionalismo «
prefascista » sono raccolte in due volumi pub- blicati in tempi diversi.
Democrazia Futurista, edita a Mi- lano nel 1919 da Gaetano Facchi, è la
sintesi delle posi- zioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato
dopo- guerra 1915-1918. Vi si ripercorre l'atmosfera in cui
nel 1918, dopo Ca- poretto, Marinetti fonda i « Fasci Politici Fututisti
» con Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Mario Carli, Gugliel- mo
Jannelli, Antonio Marasco, i pittori Gino Galli, Gia- como Balla, Ottone
Rosai, Fattunato Depero, il poeta-pit- tore cremonese Enzo Mainardi, lo
scrittore Remo Chiti, il poeta Luciano Nicastro, Massimo Bontempelli, il
chirur- go Giovanni Masnata, poi Senatore del Regno, padre del
poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali aderi- Sta settanta
intellettuali e uomini di varia estrazione cul- turale. I
«Fasci Politici Futuristi » si trasformeranno, poi, gradualmente in «
Fasci di Combattimento » confluendo nel. lo squadrismo fascista. Così,
quando i fascisti partecipe- ranno per Ja prima volta alle elezioni
politiche del 1919, 156 rinetti, Piero Bolzon, il
poeta-aviatore Giacomo Macchi, Baseggio e Podrecca. Futurismo
e Fascismo, pubblicato da Franco Campi. telli, editore in Foligno, nel
1924, indica, invece, la per- sonale interpretazione della dottrina
fascista praticata da Marinetti e da molti artisti futuristi, come dai
numerosi affiancatori e propagandisti del movimento futurista. Con
il manifesto L'Impero Italiano / A Benito Mussolini - Ca- po della Nuova
Italia redatto nel 1922 da F.T. Marinetti, Mario Carli ed Emilio
Settimelli, il futurismo, già in que- gli anni, istigherà il fascismo
alla fondazione dell'Impero, precorrendo una realtà che, negli Anni Trenta
si concluderà con la conquista dell'Etiopia. Marinetti
scriverà nel 1924: «... il Fascismo, naro dall’interventismo e dal
futurismo si nutrì di principi fu. turisti... » Una storia
parallela dei due movimenti, ancora da scri- vere, dovrà tener conto della
mai rinunciata indipendenza futurista che non condizionò le esigenze di
libera ricerca espressiva alla necessità della politica
dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato alla vita sociale
prima come fascista e dopo come futurista. Avevo sedici anni quando
nel 1921, proprio in corti. spondenza del mio compleanno, sottoscrissi
una domanda di ammissione ai « Fasci di Combattimento ». La doman-
da fu avvallata da due miei amici di maggiore età, come soci
presentatori, i quali compirono coscientemente un pic- colo falso
alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia
ammissione come socio ad ogni effetto. Così diventai a pieno titolo uno
dei pochi iscritti della Sezione di Reggio Calabria dei « Fasci di Combat-
timento », che aveva allora sede in una baracchetta per i bagni di mare,
in disuso. Perché questo sedicenne studente del Liceo aveva
ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente pericoloso? A mio
avviso, furono determinanti, l’amore per la Patria, nato dentro durante
fa guerra sull’esempio di un avo materno che ne aveva avuto, forse, di
troppo; l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente indignazione
per quanto accadde subito dopo con l’attività dei cosid- detti progressisti
del momento, ostili ai reduci, in con- trasto con la spavalderia ed
intraprendenza di questi ul- timi. Il mio apptoccio con il
Futurismo avvenne, invece, due anni dopo, con la scoperta di Zang iumb
tuumm e l’incontro con F.T. Marinetti Questo essere prima fascista
e poi futurista, mi sem- brò una particolarità personale e la confessai
un giotno — dopo tantissimi anni -— a Mario Dessy, e lui mi disse
che gli era accaduto lo stesso benché avesse cinque anni più di me.
Comunque è chiaro che nel periodo fra il 1919 ed il 1922 vi fu un
rapporto di identità ideale fra queste due forze, anche se vi furono
dissensi spesso di carattere costruttivo, E’ difficile — infatti — che
possano andare in tandem per lungo tempo movimenti di carattere
poli- tico e movimenti di carattere intellettuale o culturale. Le
ragioni mi sembrano evidenti: un movimento culturale, anche se basa la
propria forza nelle realtà della vita (come il futurismo), ha il suo
fulcro nella idea-base che difende con ortodossia e non è disponibile per
transazioni ideolo- giche. Il movimento politico, invece, pet propria
natura, specie quando atrivi alla gestione del potere, diviene dut-
tile e transigente al fine di mantenere è consolidare la proptia forza
concreta, allargando la base dei consensi. Il Futurismo prima
della guerra mondiale si caratteriz- za artisticamente con l'invenzione
dei grandi temi di rin- novamento nei settori di tutte le arti e, in
veste politico-sociale, nell’esaltazione dell’Italia, fantasticando per que-
sta, una nuova organizzazione anti-demo-liberale ed anti- clericale. Un
nuovo mado di vivere. Uno Stato industriale ed agricolo tecnicamente
progredito, che si progettava astrattamente, certamente irrealizzabile.
Qui i tentativi di un’azione politica che non aveva, però, un valido
autonoma sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da poeti ed ar-
tisti? Nel tempo in cui Marinetti iniziò il « Movimento », le
forze che affermavano di voler realizzare un nuovo svi- luppo sociale al
fine di un miglioramento della situazione economica delle classi più
disagiate e trascurate, trovava- no una sede formalmente appropriata
nelle spinte del sa- cialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe
durata bre- ve perché questo socialismo si sviluppò in senso
interna- zionalista apatriottico collettivista antindividualista e
fu sconfitto dagli eventi della prima guetra mondiale. Tanto è vero
che dal suo seno, a guerra conclusa, prosperarono il comunismo ed altre
scissioni e nacque il fascismo. Sono noti e possono essere
facilmente consultati i do- cumenti delle manifestazioni spiccatamente
politiche del movimento futurista che precedettero la Fondazione
dei « Fasci di Combattimento ». Intendo rifetirmi al « Pro- gramma
Politico Futurista » dell'11 ottobre 1913, firma- to da Marinetti
Boccioni Carrà Russolo, all'azione politi- ca svolta da La Balza
Futurista fondata da Di Giacomo Jannelli e Nicastro del 1915, e dei
«Fasci Interventisti Siciliani », di Roma Futurista e dei relativi
gruppi, nati nel 1917-18, del Partito Politico Futurista sempre del
1918 che concretizzava un suo programma nel libro Democrazia
Futurista di Marinetti, eccetera eccetera. Tutte queste for- ze si
concentrarono nel movimento fascista nel 1919, sia aderendo direttamente
all'assemblea di fondazione di Piaz- za San Sepolcro in Milano, sia
successivamente anche per forza d'inerzia. Il fatto è che —
di solito — quando si parla di par- tecipazione politica dei futuristi,
ci si richiama soltanto al ricordo dell’attività degli artisti che
militarono con la qualificazione di « futuristi ». Vale a dire dei poeti,
scrittori, pittori, limitandosi ovviamente ad esaminare il con- tributo
di coloro che hanno raggiunto maggiore notorietà, trascurando i « minori
». Ma questi ultimi erano in nu- mero stragrande e molto attivi. Senza
tenere inoltre conto che i maggiori spesso presi del tutto da altre
attività, non erano altrettanto validi e disponibili in campo politico.
In verità, il « Futurismo » di quel tempo è stato un movi- mento a
larga partecipazione di giovani, di tantissimi gio- vani. Non tutti
poterono — ovviamente militare nel campo dell'Arte e maturare tanta
notorietà da essere ri- cordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente
attivi e furono a migliaia i militanti di futurismo che partecipa-
rono ad episodi fascisti negli anni precedenti, o appena suc- cessivi,
alla marcia su Roma. Non credo di sbagliare se affermo che nelle
cosiddet- te schiere dello « squadrismo » molte furono le
partecipa- zioni futuriste. Azione lotta e coraggio erano proposizioni
futuriste. Basta ricordare la prima azione di Marinetti e Ferruccio
Vecchi nel 1919 (16 aprile: Piazza Mercanti Mi- lano) e ricordare i tanti
nomi dei militanti futuristi che ebbero più spicco in campo politico che
in quello dell’arte. Alla fondazione dei Fasci, confluirono nel
fiume che diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come
ho già accennato) movimenti di ogni genere che avevano un minimo
comune denominatore nella volontà di rinnovare in qualche modo l’Italia
che, pur vittoriosa nella guerra, si dimenava in serie difficoltà ed era
incapace ad affron- tare la svolta storica che la vittoria aveva aperto.
Anche i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso
forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con capacità ed
intendimenti politici ed il secondo come lette- rato e poeta), ma dei
quali non si è ancora scritta la storia, né accertato la reale
efficienza, vi aderirono. Come aderì Marinetti con tanti altri futuristi
che risultano elen- cati nella schiera dei cosiddetti « sansepolcristi
». In seguito, quando il fascismo andò al potere, ai futu-
risti sembrò che finalmente sarebbero stati realizzati nel- l’arte gran
parte dei propositi del futurismo. In questa illusione fummo cullati da
alcuni elementi: la impostazio- 160 ne
altamente patriottica dei propositi, la valorizzazione del combattentismo
e del volontarismo, l'amore per il nuovo ed il rischio, il pragmatismo
attivo dimostrato immedia- tamente con i primi atti di governo, eccetera.
Va anche rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni
non rispondenti alla realtà di allora, che la personalità di Mussolini
era molto al di sopra non solo di quella dei suoi collaboratori politici,
ma sovrastava la media dei cer- velli politici di quel periodo. Tanto è
vero che furono ap- punto gli avversari a votargli subito i « pieni
poteri » che gli consentirono l'avvio della prima gestione
governativa. Questo fatto rilevante, gli consentì di attrarre
dapprima le simpatie collettive ed — in seguito — a conquistare una
enorme fiducia, non solo da parte dei suoi sostenitori di un tempo, ma
anche da parte di ex avversari e simpa. tizzanti e — nei periodi più
floridi — perfino dai nemici del sistema politico che egli cercava di
sviluppare. Quando il fascismo s’insediò al governo per
realizzare la rivoluzione {a dire dei fascisti), o perché chiamato
dalla debole monarchia (come dicono gli altri), subì dapprima una
sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) pro- blemi immediati dalla
cui soluzione dipendeva il recupe- ro dell'ordine econamico e politico.
Per questo, Mussolini non si sbarazzò immediatamente degli avversari che
erano troppi e in gran parte si erano dichiarati disponibili a collaborare
per il meglio, pur costituendo nello stessa tempo zone di resistenza alle
innovazioni Così anche nei fatti dell’Arte ovviamente meno
pres- santi, ove non comparvero personalità « nuove » che aves-
sero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivolu- zionare
tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari. netti e nella quasi
totalità si convinsero che la « rivolu- zione » potesse realizzarsi per
pradi anche in Arte. Che la forza del nuovo potesse penetrare per gradi
nelle isti- tuzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione. Illusione
giu- stificata sul momento non solo dal fascino personale di
Mussolini al quale ho già accennato, ma anche da certe sue
caratteristiche gestuali (come la particolare sintetica e precisa
oratotia che andava direttamente allo scopo in 161
modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale capo futurista. Se
si aggiunge inoltre l'amicizia personale fra Mussolini e Marinetti,
vicini anche in altre precedenti azioni politiche, si comprende come il
movimento rivolu- zionario rappresentato in arte dal Futurismo, rimase a
fian- co del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla ba-
sel, anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze immediate
dell'esercizio del potere su una nazione che di rivoluzionari di
qualsiasi tipo ne ha avuto — per la veri- tà — sempre pochi, anche se
gonfiati ad oltranza quando occorre, in tutti i testi di storia antica e
recente. I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila
del fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i]
messaggio che concluse il Congresso futurista di Milano (L'Impero, 27
novembre 1924): « L'ultima riunione del congresso futurista è
stata de- dicata all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti
espose alla numerosa assemblea una dichiarazione prece- dentemente
elaborata in accordo con i maggiori futuristi politici, la lettura della
dichiarazione fu entusiasticamente approvata ed acclamata in ogni suo
punto. Ecco Ja dichia razione: «“I futuristi italiani, primi
fra i primi interventisti nella piazza e sui campi di battaglia e primi
fra i primi dician- novisti più che mai devoti alle idee ed all'arte
lontani dal politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito
Mussolini: Primo: con un gesto di forza ormai indispen- sabile liberati
del parlamento. Secondo: restituisci al fa- scismo ed all'Italia la
meravigliosa anima diciannovista di- sinteressata ardita antisocialista
anticlericale antimonar- chica. Tetzo: Concedi alla monarchia
soltanto la sua prov- visoria funzione unitaria, rifiutale quella di
soffocare e morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta
Italia di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imi-
ta il grande Mussolini del ’19. Quinto: Pensa sempre al- l'Italia immortale
ed al Carso divino. Sesto: Schiaccia la opposizione socialista
antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di Albertini con una
ferrea dinamica aristocra- zia di pensiero.«“Tu puoi e devi far ciò. Noi
dobbiamo volerlo e lo vo- gliamo. F.T. Marinetti - Capo del Movimento
Futurista Italiano”». Sono inoltre innumerevoli le
manifestazioni dei futu- risti in tanie occasioni, con opere scritti ed
anche con la partecipazione concreta alle guerre di quel periodo.
Vo- glio ricordare, però, un solo scritto di Fillia (morto nel 1930
e che adesso cercano di passare per antifascista) il quale nel 19527 in
occasione della Quadriennale di Tori- no, così scriveva sulla sua rivista
Vetrina Futurista: «... Bisogna, però, giungere a “convincere” il
grosso pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter
pretazioni. Perché il favore organizzativo che oggi ci cir- conda, non
basta: è assurdo riconoscere il futurismo come manifestazione d'Arte ed
ammettere contemporaneamente le antiche manifestazioni. La vita può avere
individual mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere
in- quadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente alla
vita stessa. Non voglio con questo negare il diritto di esistenza a intere
categorie di pittori rimasti spititualmen- te arretrati: ma è necessario
preparare il pubblico alla loro graduale eliminazione dalla vita
artistica ufficiale, fino al riconoscimento del Futurismo “arte di Stato”
massimo ri- conascimento che lo caratterizzerà nella sua importanza...
». Purtroppo però le autorità artistiche avevano il so-
pravvento favorendo a vele spiegate l’architettura di Pia- centini e gli
enormi pupazzi della scultura e pittura no- vecentista, effettivamente
arte del regime. E noi futuristi interpretavamo le isianze di
rinnovamento dell’arte senza alcun riconoscimento dal Regime che
ritrovava sé stesso nelle manifestazioni novecentiste.
Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni Venti. E poi?
Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali, gli entu- siasmi e
le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la mag- giore maturità.
Ma non creda di sbagliare se affermo che noi futuristi vivemmo quel tempo
con spirito indipendente e piena libertà fiduciosi che in fondo avremmo
avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle autorità
artistiche e subiti obiorto collo quando necessario. Poi andammo
all'ultima guerra, che fu sconvolgente per tutti. To ne vissi
scrupolosamente la mia parte con coeren- za. Fui costretto fuori a lungo.
Pet un anno di guerra, ne subii sei di prigionia e non conosco nei
particolari ciò che è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie
esperienze. AI ritorno, nel Natale del 1946, mi sembrò di
sbarcare in un altro mondo al quale non mi sono ancora completa-
mente assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero e nell’aprile del ‘47
cominciai la mia nuova personale battaglia per il futurismo con la mostra
alla « Galleria di Roma » inaugu- rata da Benedetta c dedicata a F.T.
Marinetti. Continuai ancora e vado avanti con i futuristi
soprav- vissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e non
disdegnano l’idea del futurismo che continua e si rinnova attraverso le
spiccate personalità dei suoi artisti. Crali, lei è pittore ed è futurista
Uno dei pochis. simi, oggi. Crede che il futurismo sia ancora
attuale? SÌ, ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua
attualità perché si è espresso, si è mosso, e ci parla ancora. Ma non
certo per chi ci ha mangiato sopra, per chi non è mai stato futurista, ed
ha espresso solamente « necrofilia », vera e propria « necrofilia ».Il
futurismo di prima, quello per cui lei aderì al movimento, o vi st
convertì, come la investì per così dire, o come la ispirò?
R. — Non mi sono affatto « convertito », perché non c'era niente da
convertite. Mi sono trovato di fronte al 164
futurismo come un’anima candida, che non sa e non è con- sapevole di
nulla. Mi sono ritrovato una simpatia incon- scia per alcuni quadri
riprodotti su Il Mazzino illustrato di Napoli. Mi sono piaciuti, mentre
ad un amico mio, che la pensava diversamente da me, non piacevano.
Cominciam- mo a litigare, e per litigare ad approfondite
l’argomenta ecc. ecc. Così ho cominciato ad essere interessata al
futu- rismo. E sono partito senza avere una preparazione di me-
stiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a dipingere o disegnare,
anche se poi una specie di grillo della coscienza mi ha suggerito che
dovevo imparare a dipingere, sia pure da solo (anatomia, prospettive, ecc
). L’astratto e il figu- rativo erano | temi o le prospettive dominanti.
Ho cercato una « terza via », che fosse tutta mia, tutta personale:
una ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi ho lasciato il
figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di dover dire ciò che
altri non avevano detto. Così mi sono accostata a Marinetti nel '29,
quando gli scrissi per aderire al movi. mento. L'aeroplano era una
macchina nuova, un congegno del futuro, o, per allora, del « futuribile
». E fu una delle realtà che mi diedero più spunti, più ispirazione
(l'Idrovo- lante italiano, D’'Annunzia e il volo su Vienna, e il
campo di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato, ecc.). Così
sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora oggi. Marinetti,
invece, per quello che lo frequentò o poté essergli vicino, come lo
considera? Forse l’unico vero futurista, © forse solo un grande « maestro
»? R. — No, non lo considero un maestra, perché non ha mai
voluto essere un « maestro ». Ci ha sempre stimolato e spinto a lare,
senza mai dire però come dovevamo fare Era contrario ad ogni gerarchia
nel movimento del futuri. smo. E si opponeva sempre a Boccioni e
Prampolini, che volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno di
noi fosse libero e indipendente. Prampolini invece voleva fare il
caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno fosse se stesso e non ha
creato nessuna scuola. Amava la sua libertà e la sua indipendenza a tal
punto che non poteva imporre insegnamenti. Fotse D'Annunzio lo aveva
influen- zato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane
e spregiudicata. Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con rico-
noscenza. Quasi come un padre. O come un fratello map- giore. E come
l’unico vero futurista, come ho sempre de! resto pensato. Gli altri hanno
tutti « mollato ». Lui è an- dato avanti fino all'ultimo. L'unico che può
personificare il futurismo è fui, l’unico che non ha rivestito patine di
cul: turame intellettvalistico, come hanno fatto invece molti al-
tri (Soffici, Conti, Palazzeschi, Papini, ecc.). Amava essere futurista
sempre e comunque, anche nel gusto del contra- sto. Amava la luna, e
scrisse un manifesto « contro il chia- ro di Juna ». « Uccidiamo il
chiaro di luna », vi si diceva, forse contro i poeti. Ma non era poeta?
Predicava la guer- ra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno. Amava
la madre e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté la donna
sul piano ideologico. In questo è veramente futu- rista. E lo è solo lui.
Gli altri non lo sono mai stati. Il futurismo di Marinetti che accento o
che an- golazione aveva particolarmente: letteraria, artistica,
filoso- fica 0 piuttosto politica? R. — Politica no,
assolutamente e mai. Filosofica nean- che, se non forse in senso attivo,
ma allora « senza pen- siero ». « Il futurismo entra in politica soltanto
quando la patria entra in pericolo », aveva detto Marinetti in un
momento cruciale della nostra storia nazionale. Il manifesto politico del
fuuttismo è conseguenza del fatto che esso sta movimento d'arte e di
vita, e come tale anche di vita poli- tica, tout court. Il manifesto
politico è del ’13. Dopo Ja fine della guerra l'accostamento agli arditi
o al fenomeno dell’« arditismo » era inevitabile, e Marinetti si unisce in
vincolo d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esem- pio
(ardito) e con Mussolini. All’avvento del fascismo e allo accostamento di
Mussolini alla monarchia e alla chiesa Ma- rinetti si stacca. Abbandona
il partito e si ritrova pressoché in miseria, con moglie e figli. Aveva
grande ammirazione ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse
ricambiata per una certa forma di invidia-gelosia mussoliniana nei
con- fronti di Marinetti. Il regime gli offriva incarichi 0 preben-
de, che continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad offrirgli la presidenza
dell’Associazione dei grandi alberghi italiani, pro- 166
prio a lui che disprezzava l’industria del forestiero. Accer- tò
solamente, e sollecitato, la segreteria dell'Associazione Italiana Autori
ed Editori, altrimenti forse destinata al solito « arraffone » di turno.
Tuttavia si tenne sempre in disparte e non fece mai politica attiva, non
partecipò mai direttamente al regime, che anzi forse osservava
contrariato, a parte solo qualche onesta e sincera manifestazione di
sim- patia per Mussolini. Nel ’35 si oppose alla presa di
posizione politica di Hit- ler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che
si manifestò e sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E
nella stesso momento organizzò a Berlino una mostra di aero-
pittura futurista che creò non pochi problemi e suscitò non poche
difficoltà anche diplomatiche fra i due governi ira liano e tedesco.
Oltre che produrre una situazione difficile e imbarazzante per le posizioni
o i movimenti artistici e in- tellettuali della Germania dell’epoca. In
Italia fu l’unico in questa occasione a prendere posizione ed esprimersi
con- tra l’ingerenza politica e l'intervento del regime di Hitler
nella cultura e nell'arte. Nel ‘43 ero da Marinetti a Roma:
arrivava Marinotui (presidente della Snia Viscosa) che era stato da
Mussolini insieme ad altri « consiglieri regionali » del regime.
Ma- rinotti si era accinto a raccontate a Marinetti che tutti i
consiglieri avevano « relazionato » Mussolini e che nessu- no aveva avuto
il coraggio di dirgli che le cose andavano male, tranne uno, il
consigliere sardo, che aveva sostenuto la stanchezza della gente, la
maldicenza, il tradimento... Marinetti osservava che non era possibile
che non si sa- pesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che
non era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da
lui e mi comunicò che il consigliere sardo era stato nomi- nato da
Mussolini ispettore generale per tutta l'Italia. Nel ‘44 poi si
mosse da Venezia e risalì verso la Lam- bardia, perché non se la sentiva
di starsene in disparte a « far l’antifascista »... L'ultimo suo poemetto
in versi, l'ul- tima sua espressione letteraria s'intitola appunto:
Musica di sentimenti per la X Mas. E vi si dice: « Io sono fato
167 di aeropoesia fuori tempo e spazio ». E' già
definizione sintomatica e totale dell'opera. D. — Ailora,
Marinetti fu fascista? E se lo fu, lo fu fino a che punto? O non lo fu, e
fino a che punto non lo fu per essere futurista? Marinetti è stato
sempre e comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché
ha se- guito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futu-
rista non è mai entrata la faziosità di un genere che « entra in politica
». Non fu mai fazioso. Una volta eravamo a casa sua, in un gruppo di
amici, a parlar di Majakowski e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: «
Ma Majakowski è un comunista ». Ed egli allora ribatté
immediatamente: « Non ha nessuna importanza. Perché Majakowski è
prima di tutto un grande poeta ». Nei suoi rapporti cal fasci- smo
si può considerare forse il fatto che fosse nato al l’estero, che fosse
educato in Egitto alla cultura francese, spesso pesantemente sprezzante
verso l'Italia. Sentì quindi una specie di aspirazione all’Italia 0, più
ancora, di nostal- gia della patria. Poi, volle rivendicare il futurismo
come fatto classicamente e squisitamente italiano. Così s'inimicò
tutta la cricca culturale parigina, ma volle sprovincializzare e dare un
certo orgoglio e una certa autonomia alla cultu- ra italiana. E pensò o
vide che Mussolini potesse essere l'uomo adatto per rifarla, l’Italia, e
per darle una sua nuo- va base, culturale ed artistica. Senza sapere, alle
origini o senza conoscere, quando era all’estero, ed anche a
Parigi, la furbizia, anche culturale degli Italiani. Lui fu in
buona fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia (con appan-
naggio onorario in un momento in cui era anche in disagi economici), ed
ebbe la Biennale di Venezia {come « una riserva indiana »). Il suo è un
fascismo di speranza o di desiderio, nella speranza di poter vedere
realizzato il suo futurismo. E' contrario al « Novecento » e al
classicismo « romano » alla Piacentini, che Mussolini invece
appoggia- va. Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di
eliminare le avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, men- tre il
nazismo e il comunismo le stroncarono. Sta di fatto che Marinetti
appoggiava Terragni a Como, e non appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a
Venezia, il futurismo è stato accettato sì, ma mon con la considerazione
che Marinetti si sarebbe aspettato, e che sarebbe davuta spet- tare
all'unico movimento d'avanguardia esistente allora in Italia. E invece è
stato accolto sì il futurismo, ma quasi messo in disparte.
Nel ’26, all'inaugurazione della mostra, durante il di- scorso di
presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad alta voce, presente il
Ministro dell'Educazione Nazionale, lamentando l'ingiustizia per
l'esclusione dell'unico movi- mento d'avanguardia dell'arte
italiana. L'anno dopo Mus- solini stesso gli concesse un padiglione di
riserva, che do- veva rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi
(la « riserva indiana », già summenzionata). D. — Mussolini
invece, secondo lei, fu futurista? R. — E' stato un politico ed ha
appoggiato Marinetti per avere il futurismo dalla sua parte. Anche se il
futu- rismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione. Che
avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma nei suoi simboli
e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che era rimasto fuori dal
futurismo. D.— E allora il fascismo di Mussolini ed il
futurismo di Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si
possono, secondo lei, mettere in relazione o in collega mento, e fino a
che punto ciò è possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per
Mari- netti il futurismo è poesia. Sono due posizioni completa-
mente diverse. D. — Non si può quindi parlare di futurismo
fascista, nemmeno del primo, quello delle origini? R. —
Finché un movimento politico è in fase rivo- luzionaria, le posizioni
della « rivoluzione » culturale con quelle politiche coincidono; poi però
quando il movimento politico diventa regime si burocratizza, e allora non
può non scontrarsi con la cultura che rimane sempre rivoluzio-
naria e che non può assimilare come tale le esigenze politi- che di un
«partito». Ecco perché esistono punti di contatro 169
o momenti di simbiosi tra affermazioni marinettiane e fa- scismo politico
dei primi anni, poi rallentati o rilasciati quando si afferma l’« ordine
romano », utile al regime, ma speculare di un passatismo senza mezzi
termini, e totale. Marinetti tollera questa esigenza politica di
Mussolini, ma non la condivide od ammette in campo artistico e
cultu- rale. Tuttavia Marinetti era uomo che non confondeva ami-
cizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per principi
ideologici, anche violentemente, senza però in- taccare l'amicizia, che
rimaneva sempre e comunque. D. — Resta oggi il futurismo? E resta
come realtà artistica solamente, o anche politica, nella sua
dimensione d’espressione artistica? Senza fascismo, che è finito
ovvia- mente, e da tempo. Forse resta il futurismo, come ten- sione
di rinnovamento? R. — Sì, il futurismo resta, credo, nella sua
posizione di rinnovamento, o di indicazione nella creazione di
nuove forme, e di nuove idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta
per distruggere senza dire quello che si vuole proporre in sostituzione.
Il futurismo aveva invece dato i suoi mani- festi. Volle distruggere, ma
propose ciò che voleva rico- struire. Anche oggi, per quel che resta, il
futurismo cerca un suo rinnovamento che si superi continuamente.
Oggi c'è molta saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca
l’entusiasmo, nonostante la grinta. Penso che esista an- cora futurismo
oggi, perché esiste ancora temperamento di novità, e di rinnovamento.
Perché esiste ancora una spinta vitale di « ossigeno ». E l'opera deve
avere un suo sangue, se si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve
vivere, o un sangue per cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore
assoluto che resta, non si toglie, perché è ineliminabile. Anche in
bottiglia, nella plastica, rarefatto 0 alla luce del sole. Il futurismo è
un po’ come l'ossigeno, o l'anima o lo spirito del lavoro e dell’opera, o
della vita: è un po' il suo « entusiasmo ». [Intervista u cura di
Alberto Schiavo] Per quanto riguarda lo svisceramento dei
collegamenti fra Je correnti del futurismo indipendente come
movimen- ro artistico e culturale ed il fascismo come movimento po-
litico e sociale, particolarmente per quel che si riferisce al carattere
autonomo del futurismo torinese e al fascismo delle origini, è ovvio che
i tapporti intercotsi fra di loro furono lungi dall’essere quelli di un
matrimonio d'amore. Consistettero specificamente in taciti e necessari
accordi immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che
abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una vera
rivoluzione (quella artistica e spirituale scatenata dal futurismo), in
un clima fascista che di rivoluzionario non ebbe in seguito che la sola
etichetta. Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in
pie- na italianità, condivise nelia sua giusta misura taluni prin
cipî che il primo fascismo stabili quando provò a inte- grarsi nel campo
difficile della moderna civiltà europea. Alla stessa stregua e per
raggiungere gli stessi fini il futu- rismo piemontese trattò anche con
l’anarchismo e il co- munismo idealitario di Gramsci, sui quali ebbe una
consi- derevole influenza negli sviluppi dell’architettura.
Il senso altamente novatore di Fillia e la sua molte. plice
attività (stupefacente in una esistenza così breve) per: sonificano le
forme coerenti e concrete dei concetti più originali e più saldi delle
imprese del futurismo torinese. Figura rappresentativa dell’essere
istantaneo, Fillia non temporeggiava mai, viveva come una ruota, partiva
come una freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico che per
ordinarie ragioni razionali ed estetiche militava in margine della Chiesa
cattolica apostolica e romana di quel l'epoca, egli affermava con rigare
di logica e con argomen- tazioni arditissime che la religione ha relazione
di somi- glianza con la geometria interna dell’arte. Misteri
dottri. nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta ai
nuovi concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità,
171 la Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia
s'imme- desimava con quello del futurismo in cui si cercava una
forza di liberazione, e la trovava in quel movimento, cie- camente.
Originati da una geometria astratta superiore, i suoi dipinti
possiedono quella qualità rara di non essere visà, e perciò non ricavati
dal vero, ma di sorgere senza sha- vatura alcuna dal proprio io, e come
se l'artista non vi fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni sua
scoperta con un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non ces-
sava di inventare e di portare sempre più avanti i perfe- zionamenti
pittorici del futurismo. Tuttavia, una continui- tà è discernibile nella
sua arte che è, innanzitutto, di una grande purezza, di una grande
acconcezza, di una grande serenità. T colori si oppongono l'uno
all'altro e si sovrappon- gono con curve e frangie di corallo, macchie di
cielo, fan- tasticherie metafisiche, sogni astrusi. Opera di
contempla- tivo che accomuna sempre iutto e sempre con estrema
dolcezza, e dalla quale si spande una pace angelica che sembra
invalidare, apparentemente, taluni assiomi violen- ti della dottrina
futurista. Ma è invece la prova Iampante che il dinamismo di questa
scuola italiana non esclude quello stato di grazia dove i conflitti
diventano preghiere. Si tratta di fermare il nemico per ritrovare Ja
quiete, di combattere ferocemente per amare di un più grande amo-
re. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi del sentimenta- lismo
romantico, dell’ebetismo della debolezza: esso con- voglia l’arte verso
quell'alta sfera mitica e visionaria che invade la mistica
futurista. Gli errori di pensiero che possono insinuarsi nella
men- te di un poeta come Fillia, che non può sempre ridurre tutto
al controllo della logica, non vanno interpretati nel lo stretto senso letterale.
Il movimento è irrefrenabile, talvolta irresistibile, porta oltre la
matura e si perde in un mondo di realtà fantasmagoriche.
Nessuna amarezza, nessuna amarezza siatene cetti si nascondeva in questa
libertà concettuale e della riflessione: vi era troppa gentilezza in
questo cuore di pittore e di poeta, troppa felicità per i suoi amici,
perché si possa at- tribuire un significato ironico alle sue composizioni
sacre come non hanno mancato di fare borghesi indirozzabili e bolsi
dalle maniche troppo lunghe, dalla mente inceppata. Ho buona
speranza per Fillia, per questo artista pen- satore che fu anche un
provetto artigiano; non mi rat- trista la sua morte prematura. Un suo
misterioso paesag- gio dell'ex raccolta Ferrari di Ginevra mi scopre un
ci- mitero e la scala rossa che lo vincolò in eterno con gli eroi:
quello stesso cimitero e quella stessa scala di Sant'E- lia. Distinguo la
luna bianca della sua grande dolcezza, e le cose della terra non reggono,
sono rovesciate su loro stesse. Le pitture religiose di Fillia sono
un richiamo allo spirituale puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende
che un tentativo di tal fatta non deve giungere al disprezzo della
cosa creata, dell’Incarmazione: ma non è il caso di Fillia le cui forme
della sua arte si disegnano, si creano e si distaccano dalla loro causa
prima. Tutto il lavoro dell’opera si riporta ad una giornata
ben definita della creazione dove gli uomini non sono ancora che allo
stato di abbozzo, ma dove la macchina respira già, dove i fantasmi girano
secondo una traietto- ria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la
riconciliazione. Una siffatta pittura è infinitamente rispettosa,
il suo pudore è un perpetuo tremita davanti alla bellezza; essa sprigiona
cdelicatezze insospettate, scrupoli inauditi e non- dimeno una audacia
che le viene soffiata dallo spirito. Nonostante il suo atto di fede
nella macchina, Fillia è certamente un pittore spirituale. La bellezza
intrinseca del. le macchine corrispande ad un suo bisogno di
esattezza sovrumana, di perfezione nelle linee e negli spazi. E’
una dimostrazione pratica che consente all'uomo di disinca- gliare
la vera vita, di ricercare quegli elementi universali dell’arte che
scaturiscono nei momenti fecondi ed imperiali delle Nazioni e ne rendono
lo spirito eierno. Per non spappolarsi nella struttura, per non
sgreto- larsi alla radice, il futurismo è lui stesso alla ricerca
del- l'eterno. E’ ben vero che questa eternità non è sotto i nostri
passi, non è dietro di noi, ma davanti a noi, In questo senso tutti i
cristiani dovrebbero essere futuristi, diceva Fillia, perché meno legati
degli altri uomini al passato e al presente, e più ferventi
dell'avvenire. Questo richiamo ad una tradizione spirituale, questo
allenamento {secondo la felice definizione di Marinetti) non ha
nulla di necroforo, non intralcia lo sviluppo dell'arte ma stimo-
la, spinge in avanti, crea. Non si dimentichi perciò il con- tributo
molto importante di quella autentica tradizione che serve a ristabilire
l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio Je forze novattici distruggono
talvolta, svelano uno sprezzo irragionevole del passato e di ciò che la
vera tradizione conserva pertanto di eternamente vivo. Un rifiuto
non controllato potrebbe anche andare a scapito del progresso
stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che motiva nuove conquiste.
Non si negano gli elementi universali dell’arte passata perché non si
possono negare quelli del- l’arte nuova. L’opera di Fillia
rivela una tendenza perpetua verso il progresso nel senso più alto della
definizione. Trasfor- mandosi da una pitiura all’altra svolge senza
contraddi- zioni la sua sincerità primitiva. Un futurista non può
dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel la del suo
movimento: egli porta il peso di un passato inventato che non può
rinnegare senza distruggersi. Questo passato inventato risale
certamente al di là del futurismo — che costituisce una specie di dialettica
dello spirito — e affre l’unica possibilità capace di abbat- tere gli
ostacoli. Il fiume precipita giù dalla cascata come se vi prendesse
nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio. Il futurismo ha radici
italiane ed europee: il tempo aiuta a farle scoprire senza
remissione. Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era. Dalla
sua opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di
Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto, si stacca un’arte
pubblica universale che l'architettura fun- zionale rivela, contribuendo
efficacemente alla diffusione delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e
degli slanci del purismo di Le Corbusier. Nell’intento di realizzare ad ogni costo,
Fillia si ap- poggiò al Regime attraverso gli interventi efficaci di
Ma- rinetti. Però, non ho mai visto Fillia in camicia nera, ne lo
sentii mai parlare di politica nostrana. Parlava sol- ranto dell’Italia
che amava. Le due idee rispecchiano gli scopi e i metodi creativi di quel
movimento indipendente di buona lega che fu il futurismo torinese.
SARTORIS per conto dell'Editore Volpe dalle Arti
Grafiche Pedanesi Roma, Via Fontanesi, Luciano De Maria e Mauro Pedroni,
Aggiornamenti bibliografici sul futurismo, in Il Verri, Maria Drudi
Gambillo e Teresa Fiori, Archivi del futurismo, De Lu- ca, Roma
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manifesti del futurismo, Istituto Editoriale Italiano, Milano s.d.
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di « Poesia », Roma I poeti futuristi, Edizioni Futuriste di « Poesia »,
Milano Noi futuristi, Riccardo Quinteri Editore, Milano Per conoscere Marinetti
e il futurismo, a cura di Luciano De Matia, Oscar Mondadori, Milano
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italiana, a cura di Ruggero Jacobbi, Guarda, Parma Sintesi del futurismo:
storia e documsenti, a cura di Luigi Scrivo, Bulzoni, Roma 1968,
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esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e
spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di
Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora,
sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo,
Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio
logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della
filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the
great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Carmando – Roma – filosofia italiana (Roma). Charmander
-- According to Seneca, Carmando wrote a book on comets.
Grice e Caro: l’implicatura conversazionale
dell’interpretare -- interpretante, interpretato -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “Caro likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials
going through Aquino’s Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were
fascinated by the fact that while the Grecian hermeneias is figurative – after
Hermes, some say – ‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has
philosophised on Davidson’s philosophising, notably Davidson’s idea of the
interpretant, an idea Davidson borrowed – but never returned – from Peirce!”
Insegna a Roma. Si occupa di filosofia
morale, di libero arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha
difeso la teoria detta " naturalismo liberale", già oggetto di
discussione nelle letteratura specialistica sull’argomento. È membro dei
comitati scientifici delle riviste Rivista di Estetica e Filosofia e questioni pubbliche. Collabora
con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La Repubblica, La Stampa e il
manifesto. Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA)
dal al. È vicepresidente della Consulta
Nazionale di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma
televisivo RAI dedicato alla filosofia.
L'asteroide 5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di
vista dell'interprete. La filosofia di Davidson, Roma, Carocci); Il libero
arbitrio, Roma-Bari, Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della
libertà, Roma, Meltemi); Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet);
Scetticismo. Storia di una vicenda filosofica” (Roma, Carocci). Siamo davvero
liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La
filosofia analitica e le altre tradizioni (Roma, Carocci). Bentornata Realtà: Il nuovo realismo (Torino,
Einaudi,. Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società” (Torino,
Codice,. Biografie convergenti: venti ircocervi filosofici, disegni di Guido
Scarabottolo, Milano-Udine, Mimesis). Cos’è il nuovo realismo [“What is
the new realism”], Mimesis, Milano, forthcoming.2) Azione
[“Action”] , Il Mulino, Bologna, Il
libero arbitrio. Un ’ introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ],
Laterza, Roma-Bari); Dal punto di vista de ll’int erprete. Il pensiero di
Donald Davidson [ “ From theInterpreter s Point of View. Donald
Davidson s Thoug ht”], Carocci, Roma
Interpretazioni e cause [“Interpretations and Causes”] , Doctoral
dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli)
of La libertà umana: storia di un’id ea, Carocci,Roma,
forthcoming.2) Editor (with Lavazza – Sartori) of
Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società, Codice,
Torino Marraffa) of La filosofia di Martino, special issue of
Paradigmi, Editor (with L. Illetterati) of a special issue of Verifiche
on “ Classical German Philosophy. New Research Perspectives between Analytic
Philosophy and the Pragmatist Tradition”) Editor (with S. Gozzano)
of a special issue of Rivista di filosofia on “The philosophy
ofconsciousness, ” Editor (with M. Ferraris) of Bentornata
realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi,Torino) Editor
(with S. Poggi), La filosofia analitica e le altre tradizioni, Carocci,
Roma) Guest editor, Naturalismo, special issue of
Rivista di Estetica, 44, 2010 (with C. Barberoand A. Voltolini)
Editor of The Architecture of Reason. Epistemology, Agency, and Science,
Carocci,Roma 2 (with Egidi) Editor of Siamo davvero liberi? Le
neuroscienze e il mistero del libero arbitrio,Codice, Torino) (with Lavazza and
Sartori).11) Guest editor of E’ naturale essere naturalisti?,
special issue of Etica e politica, (with C. Barbero - A.
Voltolini).12) Editor of Scetticismo. Storia di una vicenda
filosofia, Carocci, Roma (
Spinelli) Editor of La mente e la natura, Fazi, Roma (Italian version of Naturalismin
Question ) (with D. Macarthur) Editor of the Italian version of H.
Putnam, The Fact/Value Dicothomy, Fazi, Roma) Editor of
Normatività, fatti, valori, Quodlibet, Macerata, 2003 (essays by G.H.
vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De
ll‟ Utri).16) Editor of Logica della libertà [ “ The Logic of
Free dom”], Meltemi, Roma) -- contains the Italian translation of essays
by A. Ayer, R. Chisholm, P.F. Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt)
Guest editor of “ Libertà e Deter minismo” [ “ Freedom and
Determinism ” ], specialissue of Paradigmi, Presentazione” del numero
speciale di Paradigmi (25, 2013) dedicato a La filosofia di
Ernesto De Martino, “Machiavelli e Lucrezio ”, postface to A.
Brown, Machiavelli e Lucrezio. Fortuna elibertà nella Firenze del
Rinascimento, Carocci, Roma, 2 “Metafisica e naturalism o: una entente
cordiale? ”, Sistemi intelligenti, “Galileo e il platonismo fisico -
matematico”, in R. Chiaradonna (ed), Il platonismo e le scienze, Carocci,
Roma “Introduzione” (with R. Chiaradonna) to R. Chiaradonna (ed.), Il
platonismo e le scienze,Carocci, Roma Naturalismo nel mirino: ma quale
intendiamo? ”, Vita e pensiero, Autonomia della filosofia e neuroscienze,”
Rivista di Filosofia, “ Libero arbitrio e neuroscienze,” in A. Lavazza, G.
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(commento, su invito, a ll articolo target di CristianoCastelfranchi e Fabio
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naturalismi possibili Etica & Politica / Ethics & Politics, (with
A. Voltolini).14) “ Psicologia, intenzionalità, scopi: un punto di
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Scienza e libertà: due comuni fraintendimenti, SISSA NEWS, Quattro tesi su filosofia e scienza,”
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natura li,” in troductionto Fatto valore. Fine di una dicotomia (Italian
translation of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi, Roma “
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centralità delle regole: l esternalismo di Donald Da vidson,” in
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presupposti sociali della responsabilità, «Filosofia e questioni pubbliche, “
Per un connessionismo non eliminazionista, ” Sistemi Intelligenti,
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filosofia della mente contemporanea,” in M. Cini (ed.), Caso, necessità,
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linguaggio e conoscenza in Hilary Putnam, in Physis, Review of “ Il
naturalismo filosofico di Willard Van Orman Quine ” [review of:
W.V.O.Quine, La scienza e i dati di senso, Roma Tempo presente, Review of “ Scienza e
relativismo: un ossimoro? ” [review of: R. Egidi (ed.), La
svoltarelativistica nell'epistemologia contemporanea, Milano Tempo presente,
Review of “ E' ancora possibile una storiografia dell'arte? ” [review of:
H. Belting, La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte, Torino
Tempo presente,: Università della Calabria, Conference of Italian Association
of Philosophy ofMind. Commentator of the main speaker, Tim Crane.May 16, 2006:
participant in the debate on “ Semiotics and Phenomenology of the Se lf,” Roma,
Società Italiana di Filosofia.May 10, 2006: University of L Aquila. Lecture
on “ Free Will and Causal Determinism ”. Ravenna Scienza, “ Neurobiology
of Free Will: Is Our Will Free? ”.Invited speaker. Paper: “ The Philosophical
Mystery of Free W ill”. Roma, Auditorium “ Parco della Musica,”
Festival of Science. Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will” (with
Rebecca Goldstein).: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “ Nature
and Free dom”; invited spekaer for the section “ The naturalization of free
dom” (commentators A. Benini eS.F. Magni). Nature and Free dom”. December
2, 2005: University “ Ca Fosca ri,” Venice. International
Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action ”; invited
speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ”.Sassari,
Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on “ Freedom and Scien
ce”. Vita – Salute “
San Raffae le” University, Cesano Maderno (Milano), First Meeting
of the Italian Association of Philosophy of Mind ; organizer and
chairperson. University of Genoa, International conference, “ Mental Processes
”;relatore invitato per la sezione “ Action and Rationality ” Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA,
Trieste. Conference “ Neurophysiology and Free W ill”; invited
speaker. Paper: “ Etica e libero arbitrio ”. University of Trento,
International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ”.
Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “
Vita e Salute - San Raffae le” University, Milano. International
Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”.
Discussant di Hughes.May 12, 2005: University of Florence, International Conference
“ Philosophy, Neurophysiology and Free will” On the compatibility of
philosophy and scienc e”.Istituto di studi americani, Roma, International
Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and Interac
tions” (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura lism”.
University of Piemonte orientale, Department of HumanisticStudies. Three
lectures on Freedom and Nature. November 26, 2004: University
of Florence - Department of Philosophy. Lecture on TheConcept of Naturalism. November
16, 2005: University of Pavia – Giason del Maino College.
Lecture on TheContemporary Debate on Free Will . University "Vita e
Salute – San Raffae le,” Milano. Lecture on
Freedomand Nature. University of Piemonte Orientale, Vercelli, Department
ofHumanistic Studies, conference on “ Scientists and Philosophers and the Study
ofComplex Sy stems”. September 23-25: Genova, VI International Conference
of the Italian Society of AnalyticPhilosophy (member of the scientific
committee). Rome. International Symposium "Questions on
Naturalism" Rome. “ Davidson on
Human Free dom”. Conference on DonaldDavidson, Department of Philosophy,
Università Roma Tre (Rome. Discussant of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS
University.September 29, 2003, Florence. Paper: “ Metaphysical Libertarianism ”.
Conference on Robert Nozick s philosophy, Department at the University
of Florence (speaker).September 15, 2003, Sassari. Lecture on “ Logica e
retorica ” [Logic and Rhetoric].Department of Foreign Languages and Literatures,
University of Sassari (invited lecturer). May7, 2003, Siena. Paper on “
Naturalism and Free dom”. Workshop on The Free Will problem.
Department of Philosophy, Università di Siena Sassari. Workshop on Skepticism
and the Reemergence and the Self ,” Department of Philoosophy, Università
di Sassari, (discussant).October 12, 2002, Messina. Paper on “ Naturalism
and Intentionality ”. Annual Meeting of theItalian Society of Philosophy of
Language (speaker).May 14, 2002, Cosenza. Lecture: Memoria e identità
[Memory and Identity].Department of Philosophy, Università di Cosenza.May 6,
2002, Florence. Paper: “ Freedom and Moral Responsibility: Mysteries
orIllusions? ”. Florence Rome. Lecture La teoria della conoscenza nel
Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth Century]. Italian Society of
Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome. Paper on Il fondamento
filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical Foundation of Human Rights].
Conference “ The Question of HumanRights Today,” Università di Roma “ La
Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture on Responsabilità
e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ “ Responsability and Causality:
Some Criticisms of Strawson and Frankfur t”]. Department of Philosophy,
Università di Pavia (invited speaker). Cosenza. Lecture on “ Ragioni e ca
use” [ “ Reasons and causes ” Calabria ( Padua. Lecture on “
Freedom and Naturalism,” Department of Philosophy,Università di Padova
(invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper on “ Interpretations and Criteria
of Correctness ”.Conference: Interpretation and Correcteness, Università
Statale di Milano (Bologna. Paper on Causality and Naturalism. Annual Meeting
of the ItalianSociety of Analytic Philosophy, Università di Bologna (invited
speaker).April 10, 2001, Rome. Paper on Forms of Causation. Annual
Meeting of the Italian Societyof Philosophy, Università Roma Tre Siena. What P.F. Strawson Hasn’ t
Proved . Annual Conference ofthe Italian Society of Analytic Philosophy
(Rome. Paper on “ Freedom and the Self ”. Conference: The Nature of
theSelf, between Philosophy and Psychology, Università Roma Tre Rome. Paper on
“ Van Inwagen s Consequence Argument ”.Workshop: Freedom and Necessity,
Università Roma Tre Florence. Paper on “ What we should mean with the Word
Person” (with Maffettone). Conference Le ragioni del corpo
[The Reasons of the Body]. Istituto Gramsci Rome. Paper on “ Davidson on the
Conceptual Schemes ”.Workshop: Talking with Donald Davidson, Università Roma
Tre (organizer and speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker with D. Donald
Davidson at the presentation of the book M. De Caro (ed.),
Interpretations and Causes. New Perspectives on Donald Dav idson’s Philosophy,
Università Roma Tre Rome. Paper on “ Against an Alleged Refutation of Kripke
sSkeptical Argument ”. Conference: Facts and Norms, IV National
Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Università Roma Tre
Palermo. Paper on “ Davidson on Following a Rule ”.Conference: The Linguistic
Rule. Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage Rome. Paper
on Is Libertarianism About Free Will Scientifically Acceptable?.
Conference: Determinism and Freedom, Università Roma Tre(organizer and
speaker), Bologna. Paper on “ The Roots of Epistemic Skepticism ”.Conference:
Science, Philosophy, and Common Sense, III National Conference of theItalian
Society of Analitic Philosophy, Bologna (Rome. Lecture on Freedom and
Necessity. Seminar of theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific
Methodology (invited speaker).October 17-19, 1996, Rome. Paper on “ G.H. von
Wright on the Mind-Body Proble m”. Conference The Study of Mankind in
George Henrik von Wright , Università RomaTre Rome. Paper on “ Davidson on
Holism and SemanticExterna lism”. Conference: Perspectives on Holism,
CNR Roma (organizer andspeaker). Rome. Paper on “ Galileo s method ”.
Conference: Philosophies of Nature from the Renaissance to the Twentieth
Century, Università Roma “ LaSapienza ” Rome. Paper on “ Davidson on
skepticism”. Davidson’s
philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ” Lucca. Paper on
Logic and Philosophy of Science: Problems and Perspectives. Triennal Meeting of
Italian Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker). November 30, 1991,
Rome. Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof
Philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ”Rome. Paper on “W ittgenstein and
the Philosophy of Mind ”.Conference: Wittgenstein on Mind and Language,
Università Roma Tre (speaker). Grice: “When we taught De Interpretation with
Austin, a tutee would ask ‘hermeneias’? Austin thought that Heidegger’s attempt
to link hermeneia (to interpret) with Hermes was far fetched, so we left it at
that!” Mario De Caro. Caro. Keywords: interpretare, Davidson, Putnam,
“derivative Old-World philosopher focusing on New-World philosophers like
Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice –
Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice derangement
of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational implicature theory
too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not IMPLICATE it!
Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ – Actions and
Events --.- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Caronda: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania).
Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean, one of
those who studied with Pythagoras himself. He achieved a repulation as a
legislator. It is said that when he found out he had accidentally broken one of
his own laws, he committed suicide. Whether he was ever a Pythagorean at all is
now widely questioned. Substantial portions of a work on laws attributed to him
survive.
Grice e Carravetta: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lappano).
Filosofo italiano. Moved to the New World. Note
Peter Carravetta, Del postmoderno., by Alessandro Carrera iawa-West welcomes Peter Carravetta and
Marisa Frasca on Saturday, February 14,
at Sidewalk Cafe NYC IAWA’s Open
Reading Series Featuring Peter Carravetta & Marisa Frasca February 14, Filosofia Letteratura Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secolo Poeti italiani del XX secolo Poeti italiani del XXI
secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice: “Carravetta has been stealing
the Italian voice of Italian philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro
Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The
Swimming-Pool Library. Tractatus semeiotico-philosophicus – the opus magnum,
almost, of Grice – or Speranza. – The Swimming-Pool Library. Caravetta.
Grice e Carulli: l’implicatura
conversazionale di GIANO -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bari).
Filosofo italiano. Grice: “I like Carulli – he philosophises on things we do
not philosophy at Oxford, such as menstruation – or piegaturi, as Speranza
prefers, since this is plural – ‘delle mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has
also philosophised on some anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his
‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I
philosophised on “Not,” or “Not I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are
negative implicatures – ‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of
‘negative reflections on unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play
with word: ‘il ‘mito’ della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I
prefer, a mere vehicle for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!”
– Grice: “Carulli knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just
that but a Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr.
Speranza’s “Tractatus semeiotico-philosophicus”. Studia a Bari, una città
tradizionalmente soggetta allo storiografismo, all'impegno cattolico e al
marxismo. Produce una filosofia aliena ai grandi inganni e refrattaria alla
celebrazione dei suoi miti -- la democrazia, i diritti, la socialità, il
debolismo -- con un'inconsueta attenzione alla forma, seguendo la scuola della
cosiddetta critica della cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di
quello ai moralisti. Partito da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in
un Benjamin schiacciato sulla im-politicità di ritorno della sua filosofia in
“Oggettività dell'impolitico: riflessioni negative a partire da Benjamin”
(Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa dell'ultimo
Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova, Il Melangelo) è giunto
ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni” (Genova, Il Melangolo),
dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi socio-antropologiche per
riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso sul cristianesimo ritorna
in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico” (Napoli, La Scuola di
Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della democrazia. Il
cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e abitudinaria, ma in
grado di reggere con la sua apatia allo scontro con l'Islam. Si affaccia la verità
ontologica del “ente” in diminuzione che non giungono mai all'annullamento
definitivo; una verità che lo distanzia dall'eternità dell’ “essente” come pure
dai cultori dell'annientamento. La sua
filosofia, centrata ossessivamente sugli stessi temi, può essere idealmente
divisa secondo un'altra direttrice, volta alla ri-costruzione critica
pionieristica di su amico Sgalambro. In quest'ambito pubblica “Caro misantropo.
Saggi e testimonianze per Sgalambro” (Napoli, La Scuola di Pitagora);
Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il Melangolo), e “La piccola verità. Quattro
saggi su Sgalambro” (Milano, Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità?
Prove didattiche di studenti “tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta,
Cafagna. Gianluca Veneziani, Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è
un marxista, in Libero, De contemptu, su alessiocantarella. Davide
D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e le mestruazioni: l'idea bellicosa di
editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio Cantarella, Sfiducia e sragione, su
alessiocantarella, Davide D'Alessandro, Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al
Cristianesimo, su il foglio. Pier Francesco Corvino, Religio Medici. Andrea Comincini, Per una
interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com. alessio
cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore, in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno,
Sgalambro, “impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino,
Sgalambro, filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca
Farruggio, Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara
“Italian Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a
Sgalambro su rai playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Alessandro,
Uno Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio,
convenzionali.wordpress.com, Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale.
Sgalambro, l’esistenza e il peso di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il
filosofo che ama la canzone, in La Gazzetta del Mezzogiorno. Giano
(latino: Ianus) è il dio degli inizi, materiali e immateriali, ed è una delle
divinità più antiche e più importanti della religione romana, latina e italica.
Solitamente è raffigurato con due volti (il cosiddetto Giano Bifronte), poiché
il dio può guardare il futuro e il passato. Nel caso del Giano quadrifronte, le
quattro facce sono rivolte ai quattro punti cardinali. Busto di
Giano conservato presso i Musei Vaticani. Caratteristiche della divinità
Modifica Etimologia Modifica Quadrigato romano recante l'effigie di
Giano. Circa 220 a.C. Già gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al
movimento: Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire
"andare", perché secondo Macrobio il mondo va sempre, muovendosi in
cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna[1]. Gli studiosi moderni
hanno confermato questa relazione stabilendo una derivazione dal termine ianua,
"porta"[2], ma è con Georges Dumézil che il senso si precisa: il nome
Ianus deriverebbe dalla radice indoeuropea *ei-, ampliata in *y-aa- con il
significato di "passaggio" che, attraverso una forma *yaa-tu, ha
prodotto anche l'irlandese ath, "guado"[3]. In passato non sono
mancate tuttavia ipotesi alternative, come quella che voleva il nome derivato
da una più antica forma *Dianus, da mettere in relazione con la dea Diana e
quindi derivato anch'esso dalla stessa radice del termine latino dies,
"giorno"[4]. Dumezil nota anche l'appellativo di 'mattutino' con cui
Orazio si rivolge al dio in modo semiserio (Serm.). Tale appellativo tuttavia
deporrebbe indifferentemente a favore di entrambe le ipotesi etimologiche
esposte. Il suo nome in greco è Ιανός (Ianós). È il primo a portare il
naso con profilo romano (il classico naso a becco d'uccello). La figura
del Dio Giano, come appena accennato, è prettamente romana e la sua origine non
si può far risalire alla mitologia greca. Nella mitologia etrusca la divinità
più prossima a Ianus è Culsans[5], dio delle porte e dei passaggi[6][7],
anch’esso bifronte, con un nome simile ("ianua" significa porta in
latino, come "culs" in etrusco) e legato al concetto di passato e
futuro, ma con caratteristiche non del tutto sovrapponibili. Essendo pochissime
le informazioni in nostro possesso sui culti dell'Italia preromana non possiamo
far risalire con certezza Giano a qualche divinità italica. Una
possibilità da tenere in considerazione è che la figura di Giano sia stata
ispirata da quella di Ušmu, un dio sumero a due facce, altrimenti chiamato
Isimud o, in piena età babilonese, Ansar. Epiteti Modifica Asse con
l'effigie di Giano e la prora di una nave. Circa 240-225 a.C. Come tutte le
divinità romane, Giano era chiamato con diversi epiteti, che testimoniano la
sua particolare rilevanza all'interno del pantheon: Divum Deus (Dio degli
Dei) Divum Claviger (Dio Clavigero) Divum Pater (Padre degli Dei) Ianus Bifrons
(Giano bifronte) Ianus Cerus (Giano creatore) Ianus Consivius (Giano
procreatore) Ianus Pater (Giano padre) Pater matutinae (Padre del mattino)
Ianus Vicilinus (Giano Vigilante) Natura del dio Modifica Giano è una divinità
esclusivamente romano-italica, la più antica tra gli Dei nazionali, gli Di
indigetes, invocata spesso insieme a Iuppiter. Fu, insieme a Quirino, l'unico
dio romano a non essere assimilato a divinità ellenistiche. Il suo culto è
probabilmente antichissimo e risale ad un'epoca arcaica, in cui i culti dei
popoli italici erano in gran parte ancora legati ai cicli naturali della
raccolta e della semina. È stato sottolineato da più autori, fin dal secolo XIX
(Vedi Il ramo d'oro), come Giano fosse probabilmente la divinità principale del
pantheon romano in epoca arcaica ed anche Sant'Agostino nel suo De Civitate Dei
(VII, 9) ricorda che “ad Ianum pertinent initia factorum” e come perciò al Dio
competa “omnium initiorum potestatem”. In particolare rimarrebbe traccia di
questo fatto nell'appellativo Ianus Pater che permase anche in epoca
classica. Giano nell'epoca arcaica era semplicemente il dio legato ai
cicli naturali, poi con il passare del tempo il suo mito divenne sempre più
complesso. Nei frammenti superstiti del Carmen Saliare Giano è salutato
con particolare enfasi come padre e dio degli dei stessi: «divum +empta+
cante, divum deo supplicate» (IT) «cantate lui, il padre degli dei,
supplicate il dio degli dei» (fragmentum 1) Tale dato è confermato dal
fatto che per i romani Giano non era figlio di alcun'altra divinità (ad esempio
Giove è figlio di Saturno), ma, proprio per la sua qualità di pater divorum,
egli era sempre stato, immanente, fin dall'origine di ogni cosa. Così è che
Giano, come lo stesso ci racconta per bocca di Ovidione i Fasti (I, 103 e
s.s.), era presente allorché i quattro elementi si separarono tra di loro dando
forma ad ogni cosa. A tal proposito Varrone riporta nel carmen anche
l'epiteto di Cerus cioè "creatore", perché come iniziatore del mondo
Giano è il creatore per eccellenza[8]. Il console e augure Marco Valerio
Messalla Rufo scrive nel libro sugli Auspici che Giano è colui che plasma e
governa ogni cosa e unì, circondandole con il cielo, l'essenza dell'acqua e
della terra, pesante e tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e
dell'aria, leggera e tendente a sfuggire verso l'alto, e che fu l'immane forza
del cielo a tenere legate le due forze contrastanti[9]. Settimio Sereno lo
chiama "principio degli dèi e acuto seminatore di cose". Giano
presiede infatti a tutti gli inizi e i passaggi e le soglie, materiali e
immateriali, come le soglie delle case, le porte, i passaggi coperti e quelli
sovrastati da un arco, ma anche l'inizio di una nuova impresa, della vita
umana, della vita economica, del tempo storico e di quello mitico, della
religione, degli dèi stessi, del mondo, dell'umanità (viene infatti chiamato
Consivio, cioè propagatore del genere umano, che viene seminato per opera sua[10]),
della civiltà, delle istituzioni. Nella sua riforma del calendario
romano, Numa Pompilio dedicò a Giano il primo mese successivo al solstizio
d'inverno, gennaio, che con la riforma giulianadel 46 a.C. passò ad essere il
primo dell'anno. Una delle caratteristiche più singolari di Giano sta
nella sua rappresentazione come di un dio bicefalo, da cui l'appellativodi
Giano bifronte. Questa particolarità era connessa all'area di influenza divina
che Giano assunse in maniera specifica in epoca classica, dopo l'ascesa degli
dei romani "canonici": Giano era preposto alle porte (ianuae), ai
passaggi (iani) e ai ponti: ne custodiva l'entrata e l'uscita e portava in
mano, come i portinai, gli ianitores, una chiave e un bastone, mentre le due
facce vegliavano nelle due direzioni, a custodire entrata e uscita. Anche
in quest'epoca, comunque, Giano continuò a rappresentare il custode di ogni
forma di passaggio e mutamento, protettore di tutto ciò che riguardava un
inizio ed una fine. Miti Modifica Paolo Farinati, Giano bifronte
con una ninfa, 1590 circa, affresco, Villa Nichesola-Conforti, Ponton di
Sant'Ambrogio di Valpolicella (Verona). Nel mito Giano avrebbe regnato come
primo Re del Latium, fondando una città sul monte Gianicolo e donando la
civiltà agli Aborigeni, suoi originari abitanti. Con la ninfa Camese avrebbe
generato inoltre numerosi figli, tra i quali il dio Tiberino, signore del
Tevere. È lui ad accogliere il dio dell'agricolturaSaturno, spodestato dal
figlio Giove, condividendo con lui la regalità e consentendogli di portare
l'età dell'oro. Per l'ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal dio Saturno il
dono di vedere sia il passato che il futuro, all'origine della sua
rappresentazione bifronte. Numerose sono le ninfe indicate come mogli o
compagne di Giano: Camese, dalla quale il dio ebbe tre figli: Tiberino,
il dio del Tevere; Camasena, Clistene; Venilia, citata da Ovidio, dalla quale
avrebbe generato: Canente; Carna, dalla quale avrebbe ricevuto il potere sulle
porte; Giuturna, dalla quale sarebbe nato: Fons, dio delle sorgenti, venerato
ai piedi del Gianicolo. Culto Modifica Al culto di Giano, a differenza delle
altre divinità maggiori, non era preposto uno specifico flamen. Le cerimonie a
lui dedicate venivano invece amministrate dallo stesso Rex e, in età repubblicana
dal particolare sacerdote che suppliva alle antiche prerogative regie, il Rex
Sacrorum. Egli apriva dunque per primo le processioni e le cerimonie religiose,
antecedendo anche lo stesso flamen Dialis, sacerdote di Giove. Nel suo
tempio si sacrificava spesso per avere vaticinisulla riuscita delle imprese
militari. Santuari Modifica Arco di Giano o Ianus Quadrifrons. A
Roma i principali luoghi consacrati a Giano erano: lo Ianus geminus, un
passaggio coperto consacrato secondo la tradizione da Numa Pompilio nel Foro e
precisamente nella parte più bassa dell'Argileto secondo Tito Livio, o ai piedi
del Viminale secondo Macrobio, e che veniva aperto in occasione di guerre e
chiuso in tempo di pace[11]; lo Ianus quadrifrons, un arco a quattro aperture
situato nel Foro Boario; il Tempio di Giano situato nel Foro Olitorio e
consacrato da Gaio Duilio nel 260 a.C. dopo la vittoria di Milazzo. Giano come
simbolo di città Modifica Scultura lignea di Giano ad Avezzano Secondo la
leggenda, Giano fondò la città di Gianicola, e fu proprio lui ad accogliere
Saturno nel Lazio. Esisteva una frazione della città di Roma denominata
Gianicolo e secondo alcuni mitologi Giano sarebbe il fondatore di uno dei
villaggi di Roma. Da notare che il Gianicolo affaccia su un lato del Tevere ove
è presente un guado naturale, quindi un passaggio. Giano viene assunto
dal Medioevo a simbolo di Genova, in relazione al suo nome antico di Ianua[12].
Come tale viene spesso accostato al Grifone, altro simbolo di questa città.
Troviamo effigi di Giano bifronte nel pozzo sacro di piazza Sarzano
(l'ermabifronte sulla cupoletta, proveniente da una fontana cinquecentesca
opera della bottega in Genova di Giacomo e Guglielmo della Porta);
rappresentazioni dei grifoni come ornamento dei pinnacoli delle volte vetrate
di Galleria Mazzini e nei lampadari ottocenteschi della stessa. Una
rappresentazione indubbiamente più moderna ed essenziale la troviamo nel
palazzo azzurro sito in Fiumara. Bisogna considerare Giano come dio adatto a
sostituire i riti celtici dediti alla venerazione del torrente, considerato
come luogo ove convergono le acque da affluenti che stanno a destra e a
sinistra dello stesso corso d'acqua, in quanto Giano aveva due facce ed era il
dio dei passaggi, oltre ad avere rapporti con le divinità delle acque.
Oltre a Genova, Giano è il simbolo di Tiggiano(provincia di Lecce), Subbiano
(provincia di Arezzo), Selvazzano Dentro (provincia di Padova) e Centro Giano
(provincia di Roma), San Giovanni Rotondo(Provincia di Foggia). L'immagine di
Giano è presente nel gonfalone di Tiggiano (provincia di Lecce)[13]perché
secondo un'etimologia popolare il nome del paese potrebbe derivare dal nome del
dio Giano[14] (in realtà il toponimo è un prediale costruito sul
gentilizioromano Tidius[15].). In Basilicata, presso Muro Lucano (PZ) è
presente il toponimo Capo di Giano e Varaggiano, mentre presso Melfi c'è
Foggiano. A Pescopagano, in una nicchia sotto l'arco di Porta Sibilla vi è una
statuetta raffigurante Giano bifronte. L'immagine di Giano è presente nel
gonfalone di Subbiano (provincia di Arezzo)[16] perché secondo un'etimologia
popolare il nome del paese deriverebbe dal latino Sub Janum condita
("fondata sotto [il segno di] Giano")[17], ma in realtà il toponimo è
un predialecostruito sul gentilizio romano Sevius[18]. Il nome della
città di Avezzano in Abruzzo stando ad un'ipotesi giudicata inverosimile da
storici ed archeologi deriverebbe da "Ave Jane", un'invocazione posta
sul portale di un tempio consacrato al dio Giano. Secondo la leggenda attorno
al tempio ebbe origine la borgata formata dai primi agricoltori stanziati
nell'area che originariamente circondava il lago del Fucino[19]. Il monte
Giano nell'Appennino centrale è situato nel comune di Antrodoco, in provincia
di Rieti. Il toponimo di Selvazzano Dentro di origine romana parrebbe
riportare alla presenza di un boschetto sacro al dio Giano (selva di Giano),
l'attuale stemma comunale riporta infatti un altare dedicato al dio.
Secondo delle supposizioni i toponimi di Vezzano, come Vezzano Ligure in
provincia della Spezia, deriverebbero dalla divinità romana. Il nome del
dio è invece all'origine dei due toponimi Giano dell'Umbria e Giano Vetusto,
non direttamente ma attraverso un nome di persona latino Ianus (al quale sarà originariamente
appartenuto il fondo sul quale è sorto il centro abitato)[20]. A Reggio
Emilia c'è un Giano su uno spigolo di Palazzo Magnani in Corso Garibaldi. Nel
comune di Maddaloni, in Provincia di Caserta, esattamente dinanzi l'ospedale
cittadino, sono ancora visibili i resti di un tempio con l'iscrizione
"Iano Pacifero". A Trieste vi è una fontana con il volto
bifronte del dio, posta all'inizio del Viale XX Settembre. In quanto alla
scelta del sito, va notato che nei primi anni dell'Ottocento in quel punto si
trovava un recinto con cancello, che segnava l'uscita dalla città.[21].
Il toponimo di Camposano, in provincia di Napoli, tra le tante interpretazioni,
parrebbe derivare da un tempio dedicato al dio Giano denominato Campus
Iani. Nel pesarese, a pochi chilometri dalla città di Fano, vi è la
frazione di Monte Giano. Nei pressi del comune di Montieri, tra Siena e
Volterra, Alta Maremma, si trova una località chiamata Prategiano,
tradizionalmente legata alla divinità. Qui oggi si trova un prato collinare,
circondato da boschi. Vi ha sede un centro ippico di rilievo, dal quale partono
escursioni per numerose località naturali e storiche. La zona è ricca di
vestigia, tra le quali la Rotonda di Montesiepi, con la Spada nella Roccia, ivi
conficcata dal misterioso San Galgano nel XII secolo, oggi ancora visibile
sotto la cupola della rotonda. Note Modifica ^ Macrobio, Saturnalia, I,
9, 11 ^ ad esempio Herbert Jennings Rose in Dizionario di antichità classiche,
s.v. Giano. Milano, Edizioni San Paolo, Dumézil, La religione romana
arcaica, Milano, Rizzoli, Ferrari,
Dizionario di mitologia greca e latina, s.v. Giano. Torino, UTET, Simon
"Culsu, Culsans e Ianus" in: Atti Secondo congresso internazionale -
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con due mascheroni - Cronaca - Il Piccolo, in Il Piccolo, 19 novembre
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Mitologia:
accedi alle voci di Wikipedia che trattano di mitologia. Falacer Saturno
(divinità) divinità romanaell'agricoltura Carna Wikipedia Il
contenutoAntonio Carulli. Keywords: Giano, critica della cultura, Nietzsche, De
Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin, menstruazione, Aligheri sulla
mestruazione, ente, essente. Giano, e la religione, paganesimo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carulli” – The Swimming-Pool Library. Carulli.
Grice e Casalegno: l’implicatura
conversazionale -- il concetto d’implicatura nella filosofia linguistica del
Novecento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo
italiano Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me!
Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating
Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried
to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not
try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he
tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!” Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della
logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi
temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la
teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della
ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem;
“Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi,
un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del
linguaggio, Carocci, Verità e
significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci, (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il
puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre
osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento
antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità:
problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema
concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano,
Bompiani, Normatività e riferimento, in
Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il
maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera,
Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla,
A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio,
Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento oggi appartiene alla
collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è
Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in
questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi,
appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del
linguaggio. I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui Paolo
Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e Marco
Santambrogio. I testi antologizzati consentono al lettore di farsi
un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e problematiche
inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi decenni in
ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei curatori, in
cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e i concetti
chiave che emergono dalla sua opera. Apre il classico Senso e significato
di Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi Le descrizioni di
Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite), Significato,
uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche
filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Quine, Nomi e
riferimento di Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Putnam,
Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e conversazione” di Grice,
Dispute metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con
l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice
- è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in
maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si attenga a quattro “
massime ” che possono. Introduzione alla filosofia del linguaggio Paolo
Casalegno. Significato e condizioni di verità. Prendiamo in considerazione
un’idea del primo Wittgenstein: “Comprendere una proposizione vuole dire
sapere che accada se essa è vera” (Tractatus). Poiché comprendere una
proposizione equivale a conoscerne il significato, molti hanno concluso che
alla base di una teoria del significato si deve porre la nozione di verità.
Come sostenere la tesi wittgensteiniana? Un modo può
essere questo: usiamo il linguaggio per
descrivere la realtà. Una proposizione singola fornisce una
descrizione appropriata, anche se parziale, della realtà se le cose stanno in
un certo modo, una descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una
proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione
della realtà che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere
fatto il mondo affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per
comprendere una proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di
veri-tà’. Evitiamo di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di
una proposizione è molto diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o
falsa, e non bisogna dunque confondere le due cose. Inoltre, non bisogna
assumere che il conoscere le condizioni di verità
di una proposizione equivalga a sapere come si fa, in
pratica, per stabilire se essa è vera. La tesi wittgensteiniana sembra
essere ragionevole, e così anche la sua conseguenza più immediata: una teoria
del significato, ammesso che la si possa elaborare, deve essere imperniata sulla
nozione di verità. Le obiezioni che si possono però muovere a un siffatto modo
di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci su alcune di queste.
Le obiezioni possono essere, principalmente, di due tipi. Da un lato si può
concedere che compren-dere una proposizione equivalga a conoscerne le
condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di verità sia la
nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni per le
quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro lato,
si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni non
può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità. Al
termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo leggermente più
tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a
quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle
quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere
o false. La prima obiezione si basa sull’ovvia constatazione che
esistono espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non
sono enunciati, e alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente
attribuibili condizioni di verità. Ci sono
espressioni sintatticamente ben formate che
non sono frasi complete, parole singole o espressioni
come ‘valigia pesante’. Che queste espressioni
abbiano un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni
di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In secondo luogo,
ci sono frasi complete come le interrogative e le
imperative. Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato
di queste due sorte di espressioni deve ricorre a nozioni diverse
da quella di verità. Sembra dunque impossibile
che proprio su questa nozione si fondi tutta
quanta una teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si
può voler dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata
l’unica nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione
centrale. Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non
sono enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle
parole singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti
che ci serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole
singole non fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole
abbiano un significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi
complete in cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola,
comprenderla, equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al
significato delle frasi: in particolare alle condizioni di verità degli
enunciati. Non è possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere
nome di qualcosa — e, più in generale, che cosa sia il significato di una
parola qualsiasi — se non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del
significato deve fare appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle
parole singole (questo vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono
frasi complete) (MAH). Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono
enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra
capacità di capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative
dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo,
il che comporta che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non
lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso
di domande molto semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’,
ciò è evidente: queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono
in modo ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula
la domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il
rispondere ‘Sì’ alla domanda equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al
dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle
interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o
un’affermazione, e delle frasi imperative.
La centralità della nozione di verità
sembra così essere confermata. Della seconda
obiezioni esistono più varianti, potremmo perciò
formularla come segue. Concentrando l’attenzione sulle
condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il linguaggio può
essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di informazioni su
come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria. Se si
decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati possono
essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per concentrarsi in modo
esclusivo sul loro ruolo di veicoli di informazione, ci si condanna
ad offrire del linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del resto
anche se si è interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la realtà,
bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono assai più
complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai ridursi al
proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener
conto della situazione in cui ci tro-viamo, delle
informazioni di cui i nostri interlocutori
già dispongono, delle loro aspettative ecc.;
inoltre, ci sono regole precise di costruzione del discorso, violando le quali
ciò che diciamo potreb-be non esser compreso o risultare folle. Per tutto
questo le condizioni di verità non bastano. In se-condo luogo, le condizioni di
verità degli enunciati sono concepite di solito come qualcosa di relati-vamente
fisso e stabile. Di conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati
dipendesse per intero dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua
volta stabile. Ma solo fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo
da ogni loro impiego effettivo si può avere l’impressione che sia così.
Ciò che si può comunicare con un dato enunciato varia enormemente
con il variare dei contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste
nell’evocare la distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che
risale a un saggio di Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un
qualsiasi altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica
e pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo
dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei
segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi
concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e
pragmatica. Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si
riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un
tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia
giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da
altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della
nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale,
e possa costituir una scelta metodica feconda. Due punti: né il filosofo
del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi
pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che
potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo
la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di
partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle
condi-zioni di verità degli enunciati svolga un ruolo
essenziale anche quando sono coinvolti fattori che non sono
riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo
distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica
presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati
siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo 2 Questa
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cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è
quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha
subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una
proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un
“pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero
è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta
(?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione
e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio
ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E
precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere
alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è
formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo”
(Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che
è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che
rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione
completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale:
oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso
comune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio
ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione
completamente analizzata dagli oggetti del senso comune è il
requisito della semplicità. L’oggetto deve
essere semplice, ma di questa semplicità il Tractatus
non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la
genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione
vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano
soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la
sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere
un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine
del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di
Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione
abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto.
Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione
elementari siano immagini. Se ai nomi potessero corrispondere entità
complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un dato nome
corrisponda davvero qualcosa. Un’entità complessa consta di entità
più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale
correlazione è un fatto contingente. 5 stato di cose che l’immagine
rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva,
come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di
studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta
uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è
esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può continuare
a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma
non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il
senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e
che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?). Nel
caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero
che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è
logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così
che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del
pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben
altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche
filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare
del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e
dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si
riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono
immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una
proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in
quanto associata a quell’immagine vera e propria che è il pensiero. Il pensiero
è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua
natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di
pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori
notizie. Una proposizione che rispecchi fedelmente la struttura
del pensiero espresso è detta da Wittgen-stein “completamente
analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna
ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere
esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia
logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge
dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che
sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si
fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che
ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime
i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione
logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […]
Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi
di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa
concezione della filosofia resterà per lo più immutata. I nomi che
figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti
di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano
l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai
nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati
in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso
comune è il requisito della semplicità. L’oggetto
deve essere semplice, ma di questa semplicità il
Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in
parte la genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione
ricorrente di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire
degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli
oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”;
“Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe
dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare
un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento
di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità
complessa consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora,
che sussista una tale correlazione è un fatto contingente. Pertanto, se ai
nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna
garanzia che una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella
proposizione P figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità
complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa, e
quindi che P ha senso, solo se fossimo sicuri che C esiste: in
altri termini, solo se sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale
asserisce che gli elementi costituitivi di C sono correlati in quel certo modo.
Come dice Wittgenstein, “l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe
dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV) Ma questo sarebbe assurdo. Se una
proposizione abbia senso oppure no deve essere chiaro a priori. É inconcepibile
che la sensatezza o l’insensatezza di una proposizione possa essere “sco-perta”.
Se, per essere sicuri che una proposizione è sensata, dovessimo sempre aver
stabilito pri-ma la verità di un’altra proposizione, si genererebbe un regresso
all’infinito, e noi non potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo
alcunché di determinato. Non saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine
del mondo vera o falsa”. Devono esserci oggetti semplici e sono gli
oggetti semplici che devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio.
NB. In questo ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti
semplici viene fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un
fatto contingente ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a
priori. “É manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello
reale, pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”;
“Questa forma fissa consta appunto degli oggetti”. La proposizione (I)
non è dunque un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la
struttura di uno stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose
sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I
termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa.
Questo però non implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del
pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe
ri-correre a proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni
completamente analizzate. Si può finalmente comprendere perché ai nomi
non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello
cui pensava Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole
dire identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il
sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la
correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve
essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione
nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.
Vediamo ora cosa Wittgenstein sostiene riguardo
le proposizioni complesse. La sua idea è
che le proposizioni complesse siano funzioni
di verità delle proposizioni elementari che
figurano come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari
che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P
è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità
di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione,
congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per visualizzare il modo in
cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato
connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti, Wittgenstein
propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole di verità’. Tavola di
verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1). Tavola di verità della
congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione (inclusiva):
Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come sono, potrebbero
addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un linguaggio
artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra riportate
potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P ∨
Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo
autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa
differenza tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici.
Per Frege ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità
a valori di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege
avrebbe dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo
per descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i
connettivi non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è
che esso consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o
false dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le
proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per
Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi. A queste
considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la
concezione wittgensteiniana della logica. Né Frege né Russell avevano
saputo spiegare che cosa contraddistingue una proposizione logica da una
proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di
Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al
valore di verità di una pro-posizione complessa come
determinato dai valori di verità dei suoi costituenti
elementari, si può constare che ci sono due casi limite: quello in
cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione
complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità
dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la
chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’. Ciò che
Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero
di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una
proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per
via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice
nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il
loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del
linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni. Avevamo detto che il
senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione
rappresenta. Alle proposizioni complesse questa nozione di senso
non può essere applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è
una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa
ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha
ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di
verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa
dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò
che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle
combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per
le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨
QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non
perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti
devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO”
di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA
E’VERA(alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x
descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione
della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI
LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI
VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE
LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es:
l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI
VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E
NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI
UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La
luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI
VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO
COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo
della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi
è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE
DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI
DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi
complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI
INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI
VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche
nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE
NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X
UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo
atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN
TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando
dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che
possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della
costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE
CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morri
s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI: studia segni in
quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE
CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può
fare,dei loro impegni concreti*GRICE: - conversazione = ATTIVITA’
COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di
mezzo 2. QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti 4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla
nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato=
riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna +
alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es:
Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME
SINGOLARE es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità
di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni
hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =
E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO
CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI:
studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: -conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo
QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce
alla nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato =
riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna
+ alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi
propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York
*descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di
Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi
differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato
in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione= E’
SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE
EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO +
DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA
CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam FREGE, “SENSO E SIGNIFICATO”;
ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e DESCRIZIONI
DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di COMPOSIZIONALITÀ e di
SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE DESCRIZIONIDESCRIZIONI
INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI
VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA
NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE
LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI
AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI
DI STATO ESTENSIONE e INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ
LOGICA MODELLO K VERBI DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI
DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA
VERIFICAZIONE. il significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE.
Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo
significato, non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra
di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni
student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le
IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può
rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne
resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle
espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è
possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se
non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni
caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa
risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative
ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è
sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando
l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per
cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti
per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio
appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di
vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo
sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise
di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. -
le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il
contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a
sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte
solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano
CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre
che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di
circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è
tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si
basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo
significato, non sono enunciate quindi
non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben
formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la
prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex.
“Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa
obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la
nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono
enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in
cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la
NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV
nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si
può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può
convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed
imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere
il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno.
OBIEZIONE #2. Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente
per un’analisi adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione
sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si
decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per
concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare
impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista
le cose sono molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre
tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di
costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le
CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto
informativo degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta
stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due
opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV
che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di
una lingua si compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA
che riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi
concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e
PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione.
Qualcuno potrebbe ribattere che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il
problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo
due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del
linguaggio è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la
pragmatica presuppone la semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce
dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una
conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono
contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si avvnga
a massime sotto quattro categorie conversazionali (alla funzioni di Kant):
CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né
maggiori di quanto richiesto al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA
QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate.
FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE: dire cose perttnenti. FUNZIONE
CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare in modo chiaro ed
ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione tra semantica
e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo secondo
punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di
GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i
partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario
che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ:
fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. QUALITÀ:
non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI:
dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo. parlare
in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo Stefano
Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Casanova: l’implicatura conversazionale
del desiderio omoerotico – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Venezia). Filosofo
italiano. Grice: “It is fascinating to analyse what Casanova calls ‘piegadura’,
or ‘piegadure,’ in the plural – bendings – my implicatura is a bit like his
piegadura, only less acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a
philosopher, but my wife hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal
fratello Francesco Giacomo Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore,
poeta, alchimista, esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e
agente segreto della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di
Venezia. Benché di lui resti una produzione letterariatra trattati e
testi saggistici d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi
interessi, perfino di matematica) e opere letterarie in prosa come in
versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato principalmente come un
avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir poco movimentata, come
colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave e raffinato seduttore e
libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato "casanova".
A questa sua fama di grande conquistatore di donne contribuì verosimilmente la
sua opera più importante e celebre: Histoire de ma vie (Storia della mia vita),
in cui l'autore descrive, con la massima franchezza (pur non per questo
privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni abbellimenti), le sue avventure, i
suoi viaggi e, soprattutto, i suoi innumerevolissimi incontri galanti.
L'Histoire è scritta in francese: tale scelta linguistica fu dettata
principalmente da motivi di diffusione dell'opera, in quanto all'epoca il
francese era la lingua più conosciuta e parlata dalle élite d'Europa. Fra
corti e salotti vari, si ritrovò a vivere, quasi senza rendersene conto, un
momento di svolta epocale della storia, non comprendendo affatto lo spirito di
fortissimo rinnovamento che avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai
percorse prima; rimase infatti ancorato fino alla fine dei propri giorni ai
valori, precetti e credenze dell'ancien régime e della sua rispettiva classe
dominante, l'aristocrazia, alla quale era stato escluso per nascita e della
quale cercò disperatamente di far parte, anche quando essa era ormai
irrimediabilmente avviata al crepuscolo, per tutta la propria vita. Tra le
personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo di conoscere personalmente, e di
cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si possono citare Jean-Jacques
Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang Amadeus Mozart, Benjamin
Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di Prussia. Dalla nascita
alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia (ora Malipiero) Giacomo
Girolamo Casanova nacque a Venezia, in Calle della Commedia (ora Calle
Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche battezzato,
il 2 aprile del 1725. Molte opere enciclopediche o letterarie recano
erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui origine è sicuramente
da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835 Biografia degli italiani
illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de' contemporanei,
Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce relativa al Casanova, Bartolomeo
Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo Giovanni Giacomo Casanova.
Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella voce su C.
dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso. Si può leggere
il nome corretto nel documento relativo al battesimo del Casanova. «Addì
5 aprile 1725 Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe C. del
q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2
corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il
signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina
Salvi.» (Storia della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano Casanova,
era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando
alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova all'inizio dell'Histoire, gli avi
paterni sarebbero stati originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la
madre, Zanetta Farussi, era un'attrice veneziana che, nella sua professione,
ebbe di gran lunga maggior successo del marito, dato che la troviamo menzionata
persino da Carlo Goldoni nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova
bellissima e assai valente". La voce popolare lo considerava frutto di una
relazione adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4]
e Casanova stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori
né donne, di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a
suffragio della tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del
padre, i Grimani si presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse
oltre i normali rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie
veneziane praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo,
avevano servito la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la
giustizia della Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai
particolarmente nei suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri
cinque figli: Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena
Antonia Stella e Gaetano Alvise. Chiesa di San Samuele, Venezia
Rimasto orfano di padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre
costantemente in viaggio a causa della sua professione, Giacomo fu allevato
dalla nonna materna Marzia Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute
cagionevole e per questo motivo la nonna lo condusse da una fattucchiera che,
eseguendo un complicato rituale, riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era
affetto. Dopo quell'esperienza infantile, l'interesse per le pratiche magiche
lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui stesso era il primo a ridere della
credulità che tanti manifestavano nei confronti dell'esoterismo. All'età
di nove anni fu mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; nel
1737 s'iscrisse all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe
laureato in diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo
accademico è molto controversa: infatti Casanova descrive nelle Memorie gli
anni passati all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione
risulta anche dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui
frontespizio reca scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université
de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue.
Inoltre da documenti risulta che il Casanova abbia lavorato nello studio
dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si era presunto che, compiuti gli studi e
conseguita la laurea, fosse andato a compiere il praticantato presso il Da
Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a dubitare del titolo conseguito dal
Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto gli studi del Brunelli, il quale
aveva reperito documenti che dimostravano in modo certo l'avvenuta immatricolazione
al primo anno e le successive iscrizioni, convinsero tutti gli autori
dell'effettivo conseguimento del titolo accademico; in tal senso, tra i tanti,
anche James Rives Childs (Casanova). Successivamente Enzo Grossato pose
nuovamente in dubbio il conseguimento del titolo rifacendosi ai registri di
laurea, i quali non menzionano il nome del veneziano. Dello stesso avviso Piero
Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai registri consultati dal Grossato,
anche un ulteriore codice, il Registro dottorati 1737 usque ad 1747, non
riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò che il Casanova non aveva
mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando ormai ricostruire la
circostanza sarebbe stato difficile per chiunque. Terminati gli studi, Giacomo
Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel
1742. Nella sua città natale ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato
Marco da Lezze. La nonna Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla
quale era legatissimo, si chiuse un capitolo importante della sua vita: la
madre decise di lasciare la bella e costosa casa in Calle della Commedia[E 7] e
di sistemare i figli in modo economicamente più sostenibile. Questo evento
segnò profondamente Giacomo, togliendogli un importante punto di riferimento.
Nello stesso anno fu rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto
turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio.
Più che l'applicazione di una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di
correggerne il carattere. Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici
materni, per la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad
assumere la diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le
condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a
Roma, dove nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore
della Spagna presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa
della sua condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna,
residenza ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa.
Targa commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad
Ancona, dove era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella
città era stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva
intessuto una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera
superiore alla sua.[E 9] Fu però durante il suo secondo soggiorno ad
Ancona che C. ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un
seducente cantante castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di
una donna. Fu solo dopo una corte serrata che Casanova riuscì a scoprire ciò
che sperava: il castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il
figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta
orfana, si faceva passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri
dello Stato della Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul
palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a
testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee
dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a
Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel
teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del
padre, avvenuta prematuramente, avevano assunto ufficialmente la tutela del
ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei Grimani,
Michele, fosse il vero padre di Giacomo. Nel 1746 avvenne l'incontro con
il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente
le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu soccorso da Casanova e
si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la
vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo,
finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva
Bragadin, Casanova venne in contatto con i due più fraterni amici del senatore,
Marco Barbaro[E 11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si affezionarono
profondamente e, finché vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La
frequentazione con i nobili attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e
Casanova, su consiglio di Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori.
Nel 1749 incontrò Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della
sua vita. Lo pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna
di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre
identificazioni, i "casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In
linea di massima, come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati
nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con
qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono
citate con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po'
modificata per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di
avventure con donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in
generale le persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati
corretti e riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali
hanno confermato il racconto. Se qualche errore c'è stato, lo si deve
anche al fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie (dal 1789 in
poi), erano passati molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere
aiutato con diari o appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi.
Ogni tanto l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle
cose e non rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro
contribuisce a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità
del racconto casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in
molti casi, impossibile da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di
aver intrattenuto con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti.
Taluni studiosi hanno ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati
inseriti dei passaggi totalmente romanzati e di pura invenzione, basati
comunque su personaggi storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel
luogo e nel tempo della descrizione. Il caso più clamoroso è quello che
riguarda la relazione di Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con
l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una delle parti più valide
dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è
serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di straordinario realismo.
Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente veritiero e si è
ripetutamente tentata l'identificazione della donna, secondo altri il racconto
è di pura fantasia e basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale
Rosier), che effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le
varie tesi continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non
cambia, perché ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova
romanziere. Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel giugno successivo
decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico Antonio Stefano
Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta
della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, Casanova aderì alla
Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni
ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili
appoggi. «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non
vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei,
deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per sapere
superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene la
loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti
non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve
guardarsi dalle amicizie pericolose.» (C., Memorie) Ottenne qualche
risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua vita, come
Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni ricevute in varie
occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far parte di
un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti a Parigi,
Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con familiarità; la
generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i due anni in cui
visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò allo studio del
francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre che, in molti
casi, epistolare. Ritornato a Venezia dopo il lungo soggiorno parigino e altri
viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755, all'alba, fu arrestato e
ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca, al condannato non venne
notificato il capo d'accusa, né la durata della detenzione cui era stato
condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò dannoso, poiché se avesse
saputo che la pena era di durata tutto sommato sopportabile, si sarebbe ben
guardato dall'affrontare il rischio mortale dell'evasione e soprattutto il
pericolo della possibile successiva eliminazione da parte degli inquisitori, i
quali, spesso, arrivavano a operare anche molto lontano dai confini della
Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più evidente
dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano insieme
tribunale speciale e centrale di spionaggio. Sui motivi reali
dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova
era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle
spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i
comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In
definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne
sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in
generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del
regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto
disordinata, ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come
questi giocava, barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia
di religione e, quel che è peggio, non ne faceva mistero. L'arresto
di Casanova (illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione
alla Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la
scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente
appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in
Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma,
l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto
socialmente pericoloso restasse in circolazione. Tuttavia gli appoggi, di
cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono
notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la
reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è
solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per
estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua
alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a
qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato
che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle
famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e
altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel
libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di
corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi. Dalla fuga dai Piombi
al ritorno a Venezia (17561774) Presunto ritratto di Giacomo Casanova,
attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo
Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo shock
dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo fu
vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il 1º
novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte,
attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il
frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di
nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia
del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che
pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti
al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di
allontanarsi fulmineamente con una gondola. Si diressero velocemente
verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava
un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli
Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi
soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono
economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della
scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a Parigi,
dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e quindi gli
appoggi non gli mancavano. Illustrazione da Storia della mia fuga
Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua specialità:
brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale potesse offrire.
Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna ricchissima e stravagante,
con la quale intrattenne una lunga relazione, dilapidando cospicue somme di
denaro che lei gli metteva a disposizione, soggiogata dal suo fascino e dal
consueto corredo di rituali magici. Il 28 marzo 1757 assistette, come
accompagnatore di alcune dame «incuriosite da quell'orrendo spettacolo» (mentre
lui distolse lo sguardo) e di un conte trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite
squartamento) di Robert François Damiens, che aveva attentato alla vita di
Luigi XV. Molto fantasioso, come al solito, si fece promotore di una
lotteria nazionale, allo scopo di rinsaldare le finanze dello stato. Osservava
che questo era l'unico modo di far contribuire di buon grado i cittadini alla
finanza pubblica. L'intuizione era talmente valida che ancora adesso il sistema
è molto praticato. L'iniziativa venne autorizzata ufficialmente e Casanova
venne nominato "Ricevitore" il 27 gennaio 1758. Nel settembre
dello stesso anno, De Bernis fu nominato cardinale; un mese dopo Casanova fu
incaricato dal governo francese di una missione segreta nei Paesi
Bassi.[26] Al suo ritorno fu coinvolto in un'intricata faccenda
riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la scrittrice veneziana
Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese, Giustiniana era stata al
centro dell'attenzione per la sua rovente relazione con il patrizio veneziano
Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di sposarla, ma la ragion di
stato (lui era membro di una delle dodici famigliecosiddette apostolichepiù
nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a causa di alcuni oscuri trascorsi
della madre di lei, e, in seguito allo scandalo che ne era sortito, i Wynne
avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a Parigi, trovandosi in stato interessante
e di conseguenza in grosse difficoltà, la ragazza si rivolse per aiuto a
Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e che era anche ottimo amico del suo
amante. La lettera con cui implorava aiuto è stata ritrovata[28] ed è singolare
la schiettezza con cui la ragazza si rivolge a Casanova, dimostrando una
fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto dell'enorme rischio a cui si
esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il messaggio fosse caduto nelle mani
sbagliate. Casanova si prodigò per darle aiuto, ma incorse in una
denuncia per concorso in pratiche abortive, presentata dall'ostetrica Reine
Demay in combutta con un losco personaggio, Louis Castel-Bajac, per estorcere
denaro in cambio di una ritrattazione. Benché l'accusa fosse molto grave,
Casanova riuscì a cavarsela con la consueta presenza di spirito e fu
prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere. L'amica abbandonò l'idea
di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel convento in cui si era
rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria, Casanova si imbarcò in una
fallimentare operazione imprenditoriale, una manifattura di tessuti, che
naufragò anche a causa di una forte restrizione delle esportazioni derivante
dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono lo condussero per un po' in
carcere (agosto 1759). Come al solito, il provvidenziale intervento della ricca
e potente marchesa d'Urfé lo tolse dall'incomoda situazione.[30] Gli anni
successivi furono un intenso continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei
Paesi Bassi, poi in Svizzera, dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney.
L'incontro con Voltaire, il maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa
parecchie pagine dell'Histoire ed è riferito nei minimi particolari; Casanova
esordì dicendo che era il giorno più felice della sua vita e che per vent'anni
aveva aspettato di incontrarsi con il suo "maestro"; Voltaire gli
rispose che sarebbe stato ancora più onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse
aspettato per altri vent'anni.[31] Un riscontro obiettivo si trova in una
lettera di Voltaire a Nicolas-Claude Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la
figura del visitatore viene tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era
d'accordo con molte idee di Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il
popolo per la pace generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza»,
dirà in seguito), e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle
parole di stima per il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di
aver messo quel grande atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase
un brutto ricordo che mi spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò
che quel grand'uomo dava al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento,
anche se, quando leggo ciò che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver
ragionato giustamente nelle mie critiche. Comunque avrei dovuto tacere,
rispettarlo e dubitare dei miei giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi
che mi dispiacquero il terzo giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti
sublimi. Questa sola riflessione avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo
in collera crede sempre di aver ragione.[31]» In seguito andò in Italia,
a Genova, Firenze e Roma.[33] Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo
di Mengs. Durante il soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente
XIII. Nel 1762 ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche
esoteriche insieme alla marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto
di essere stata per anni presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e
bella per mezzo di pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato
stregone che, dopo poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato
non gli era più favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34]
Nella capitale inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di
intessere una relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò
il suo lato debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del
suicidio. Non che fosse un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva
accettare di essere trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più
lui vi s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi
di questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re
Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola
dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la
Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37] L'anno
successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38]
anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici
incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione
la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di
primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque.
Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della curiosità
suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi delle
capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che in
qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma
Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.
Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il
duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della
ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone
veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao
II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura
politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso
pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato
in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile
conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un
duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia
in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne
avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di
Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza
da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne
l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza
seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La
buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove
fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia
della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per
Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da
una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di
lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della
marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le
pur cospicue sostanze di famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla
disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu
gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un
mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente
(gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette
che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un
ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli,
Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli
Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il
3 settembre 1774. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite
grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli
Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi
prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le
riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la
collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso
rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di
persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.
L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di
sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta
rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si
usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle
stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter
sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva
manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo
della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che
avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre
duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte
autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del
doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere
un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo
livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una
città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di
pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue
vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna
una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra
la classe reietta e quella privilegiata. In questo stesso periodo iniziò
una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che
per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia,
delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52]
utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti
tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima
relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche
quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal
crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre
a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in
cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di
cambio con discrete somme di denaro. Il nome della calle deriva dalla
presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in
dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate
vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di
Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di
Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di
Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata
13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di
proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete
a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la
soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione,
spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa
antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di
me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo
originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco
Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste,
Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti
i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi
incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di
fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era
quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di
rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo
primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare
fondata e verificabile[54]. Negli anni successivi pubblicò altre opere e
cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò
un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti,
col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone
di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi
componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur
sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne
chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan
Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento
della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano
Giustinian.[55] Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città
in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola
e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso,
era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso
l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo,
esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno far
circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto casanoviano,
intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e vendicato al
libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita, di Giacomo
Casanova".[56] Ritratto del 1788 Annotazione della morte
di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e si diresse
verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore veneziano
Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto di bibliotecario
nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì trascorse gli ultimi
tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla servitù,[58] ormai
incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata per sempre.
Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese, alla caduta della
Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno di quel mondo a
cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo conforto, oltre alle
lettere numerosissime degli amici veneziani che lo tenevano al corrente di
quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della Histoire de ma vie,
l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue energie, compiuta con
furore instancabile quasi per non farsi precedere da una morte che ormai sentiva
vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita assolutamente irripetibile,
tanto da entrare nel mito, nell'immaginario collettivo, una vita «opera
d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che la salma fosse stata sepolta
nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del castello. Ma riguardo al
problema dell'identificazione corretta del luogo di sepoltura di Giacomo
Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non ci sono, allo stato,
che ipotesi non correttamente documentate. Tradizionalmente si riteneva che
fosse stato sepolto nel cimitero della chiesetta attigua al castello Waldstein,
ma era una pura ipotesi. Altre opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal
Francese, da rappresentarsi nel Regio Elettoral Teatro di Dresda, dalla
compagnia de' comici italiani in attuale servizio di Sua Maestà nel carnevale
dell'anno MDCCLII. Dresda); La Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda
1769Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie,
Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina. Epistola di un licantropo. Bologna.
1774Istoria delle turbolenze della Polonia. Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero
tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio del libro "Eloges de M. de
Voltaire par différents auteurs". Venezia. Il duello; Opuscoli
miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia Belegno alla nobildonzella
Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie. Venezia); Di aneddoti
viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto sotto i dogadi di
Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né amori né donne ovvero
la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre historico-critique sur un fait connu,
dependant d'une cause peu connu... Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du
différent, qui subsiste entre le deux Républiques de Venise, et d'Hollande.
Vienna. 1785Supplément à l'Exposition raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata
della contestazione, che susiste trà le due Repubbliche di Venezia, e di
Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre
a monsieur Jean et Etienne Luzac.... Vienna); Lettera ai signori Giovanni e
Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande
noble de Shonfeld imprimeur et libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons
de la République de Venise qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème
l'année 1787, Leipzig chez le noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga
dalle prigioni della republica di Venezia dette "li Piombi", prima
edizione italiana Salvatore di Giacomo (prefazione e traduzione).
Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911. 1788Icosameron ou histoire d'Edouard,
et d'Elisabeth qui passèrent quatre vingts ans chez les Mégramicres habitante
aborigènes du Protocosme dans l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois
par Jacques Casanova de Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de
Monsieur le Comte de Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague
à l'imprimerie de l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution
du probleme deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire
de Monsieur le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De
l'imprimerie de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre
donée a Dux en Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda.
1790Demonstration geometrique de la duplicaton du cube. Corollaire second,
Dresda. 1792 Lettres écrites au sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques
Casanova de Seingalt, le 10 Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en
droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de
l'Universitè de Padoue. Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn,
Paris, La Vogue. 1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon,
Parigi. Edizioni italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara,
traduzione Giancarlo BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed.
Mondadori 1965. 7 voll. di cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero
Chiara e Federico Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano,
Mondadori "I meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano,
Mondadori "I meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo
Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798)
di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di
Giacomo Casanova con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito
"Prosopopea Ecaterina II (1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro
tedesco di studi veneziani. 1985Examen des "Etudes de la Nature" et
de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e
Tom Vitelli. Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di
Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon,
Pensieri libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite
rinvenute a Dux), Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des
mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire
de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits.
Édition présentée et établie par Francis Lacassin. 2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont.
1997Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo.
Riproduzione integrale del manoscritto a fronte, Venezia, Editoria
Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto
secondo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria
Universitaria. 1999Storia della mia vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e
Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero
tradotta in veneziano da Giacomo Casanova. Canti otto. Mariano del Friuli,
Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in veneziano. Tradotta in ottava
rima. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria, Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne, 88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma
toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria
Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio
Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et
Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut
Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome III.
Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna
avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection
Bibliothèque de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition établie
par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi. Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi,
Milano, Luni Editrice,,
978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni
Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera casanoviana Presunto
ritratto di Giacomo Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da
alcuni[62][63], a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità storica
dell'opera di Giacomo Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna
distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado
gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e
addirittura matematico, Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto,
nessuna notorietà e nessun successo.[68] Successo che arrise invece all'opera
autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte
dell'autore. Disegno di un busto di Giacomo Casanova, ubicato
in origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua
produzione fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati
per ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della
Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte
durante la detenzione a Barcellona nel 1768, che avrebbe dovuto servire, e
infatti così fu, a ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto
sospirata grazia. Lo stesso si può dire per opere scritte nella speranza di
ottenere qualche incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia.
Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario
dell'autore ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto
dall'Historia della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e
varie edizioni, sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico
e di proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal
racconto dell'evasione. Sembra quasi che Casanova tollerasse le sue creature
autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non
autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu
acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles
Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di Casanova stava tutto
nei suoi racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la
narrazione salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era
brillante e trascinante quando parlava della sua vita[71]- osserva de
Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su
altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia mai voluto accettarlo.
E soffriva tremendamente di non avere quel riconoscimento letterario o meglio
scientifico a cui ambiva. Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti
di Voltaire, che nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione.
Quindi anche contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più
fortunati ma meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere
un grande successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in
misura molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu
iniziato tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi,
che costituì per decenni il cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu
pubblicata soltanto nel 1787. Inoltre l'opera "vera", cioè
quella in cui aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio
negli ultimi anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò,
in una lettera indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni
prima e che era stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età
mi fa credere di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia
vita...". Cioè sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva,
l'autore dovesse prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di
futuro davanti da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa
per chiunque, in particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro
irripetibile. Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la
fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente
impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto,
acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu
pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da
Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera,
sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando
anche l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle
oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché
di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un
fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario,
opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova
esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma
si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce,
indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non
appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]» Per
l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa
Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al
1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu
dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di
smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente
impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due
secoli dopo, modernità e realismo. Casanova è già uno scrittore di
costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni,
attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero
ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo
problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello
di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise
del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori
principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale.
Probabilmente si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non
ha incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue
frequentazioni.[78] Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro
problema, questo insuperabile, fu la sostanziale "immoralità"
dell'opera casanoviana. Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini,
ai tic, alle ipocrisie della fine del Settecento e, ancor di più, del
successivo secolo, ancora più fobico e per certi versi molto meno aperto di
quello che l'aveva preceduto. Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti
per diventare un autore di successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto.
Nella lettera a Zuan Carlo Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando
dell'Histoire, scrive testualmente:... questa Storia, che verrà diffusa fino a
sei volumi in ottavo e che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi,
richiede una risposta... perché io possa porla nei codicilli che formeranno il
settimo volume postumo della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto
puntualmente.[79] Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi
fece riferimento nella prefazione:
«J'ai écrit en français, et non pas en italien parce que la langue
française est plus répandue que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e
non in italiano perché la lingua francese è più diffusa della mia.» Certo
dell'immortalità della sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova
preferì utilizzare la lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il
maggior numero possibile di potenziali lettori. Molte opere minori, del resto,
le scrisse in italiano, forse perché sapeva bene che esse non sarebbero
divenute mai un monumento, come avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo
Goldoni, altro celebre veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di
scrivere la propria autobiografia in francese. L'autobiografia del
Casanova, a parte il valore letterario, è un importante documento per la storia
del costume, forse una delle opere letterarie più importanti per conoscere la
vita quotidiana in Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione
che, per le frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili
lettori, riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e
borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di
contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo.
Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano
degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di
ogni giorno. La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di
vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera
autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu
attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in
dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler,
Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio,
altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era
protagonista. Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna,
a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia
l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del
Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi
fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti
soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un
saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un
capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti
quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della
vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si
debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi
ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito,
Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono
di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che probabilmente
giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per l'Europa. La
grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua vita a un
certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura[91] Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don
Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di
numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi,
benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile, lasciando
dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista
puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e
soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle
vittime della sua seduzione. L'interpretazione del suo mito sarebbe
fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da
Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita:
Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue
snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che
alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato
sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e
Casanova si frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la
sera in cui a Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre
1787)è tutto sommato marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto
limitata, di Casanova alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera
mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto probabile da vari commentatori.
L'elemento fondamentale è un autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una
variante del testo che si è ipotizzato facesse parte di una serie di interventi
operati in accordo con Da Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel
che è certo è che Casanova si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno
ancora più grande, certamente più positivo e soprattutto reale. Mostre
1998 Praga, Palazzo Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in
Boemia). Catalogo: Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca'
Rezzonico "Il mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di
Giacomo Casanova, un veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio,
1998. 88-317-7028-4 Francia "Casanova for ever, 33
expositions Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel
Latreille (dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de
France “Casanova, la passion de la liberté” (dal 15 novembre al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la
passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil,. 978-2-7177-2496-7 (BnF) 978-2-02-104412-6 (Seuil) Stati Uniti d'America "Casanova: The
seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art
Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The
seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston. 978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova
Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia
di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con
Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und
letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia
di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René
Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo
Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947).
Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo
Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio
Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele
Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose
from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia,
1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo
Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing,
Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W.
Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi
Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro
(Italia, 1975). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens,
Rosanna Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei
personaggi). Il Casanova di Federico Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico
Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi,
Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982).
Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna
Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A.
Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello 1983 per la migliore
sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale
Le retour de Casanova (Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain
Delon, Fabrice Luchini, E Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia
di Mauro Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E.
Bradley. Il giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di
Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi,
Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti,
2005). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin,
Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort (Spagna/Francia ).
Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas.
Casanova variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael
Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io
Casanova (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour
(Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova),
Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo
lontanamente ispirati alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia
1942). Regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti
1944). Regia di Sam Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli.
Film comici La grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod.
Casanova & Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel.
Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini,
Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005).
Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura
Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino
per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo
l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e
il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia
vita, Milano, Mondadori 2001, II pag.
925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il
racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state
compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di
ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla
Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi,
senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata
effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore
burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso
periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi,
Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo
stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron
d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare
l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo
dell’opera autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza,
"il troppo strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il
duello cit. in bibl.).[95] Note Esplicative Casanova visse a lungo in Francia e conobbe
personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e
Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica
dominante appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva
anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di
personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si
definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare
cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore,
reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo
scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne
seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in
cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli
eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva
assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente
potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio,
Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr.
Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il
governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed
approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da
Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra
Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini,
Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.) Il cognome Casanova è attestato appartenere a
nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero Casanova afferma che dalla città
spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una
monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un
rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il
perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona,
potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è
interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma
vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne,
Laffont, pag. XL, op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la
genealogia inserita dal Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto
fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che facevano
regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio
dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare una
legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende di
cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private
rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si
considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura
al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome,
praticamente un toponimo, estremamente comune.
A conferma del fatto che la nascita illegittima di Casanova fosse
oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di
Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di
Casanova che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome
di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor
Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben
fatto della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di franchezza
indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici tipici e
riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una notevole
somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio
con Casanova è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda:
E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato cit. in bibl. pag. 25. (Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero
122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20
gennaio, 22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in
“Il Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2)
Il 2 aprile 1742 firmò un testamento in qualità di testimone. Sull'ubicazione esatta della casa natale di
Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della
morte della nonna materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al
momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito
tale da sostenere un spesa come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80
ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27
febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta,
Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi
poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni
probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza
della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è
assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha
identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle
delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth
Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical distraction, in
Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I
coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno
dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col
secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione
risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al
secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui
era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per
appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto
chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che corrisponda
alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al terzo, nonché
corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con certezza della
famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla descrizione è
quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della Commedia) al civico
3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto che la lapide
apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa calle, già Calle
della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova" senza alcun
altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di rimaneggiamenti
interni non è più possibile identificare la struttura originaria. Uno studioso
dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire
des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e seg.) un'analisi molto
approfondita basata sulle cosiddette "Condizioni" cioè sulle
dichiarazioni dei redditi immobiliari che venivano presentate dai proprietari.
All'epoca, per verificare l'esattezza dei dati dichiarati, si procedeva ad
un'ispezione diretta casa per casa effettuata, in ogni parrocchia, dal parroco.
Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a ognuno il titolo di possesso. I
proprietari dichiaravano il titolo di proprietà e gli affittuari dovevano o
esibire il contratto oppure giurare le condizioni contrattuali. Poiché è stato
ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per la
figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto
prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era di proprietà
Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la residenza indicata
sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e
catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione, anche
perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso
citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle
degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle della
Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque
tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche
centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova abitavano, per motivi di
lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento:
Calle della Commedia 324|casa|Giovanna Casanova comica al presente s'attrova in
Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui)
Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di S.Samuele. Non nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in
quello in uso precedentemente. Si è
mantenuta la cronologia quale risulta dal testo delle Memorie. L'autore ha qui,
come in altri casi, confuso le date o fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza
nel Lazzaretto era durata dal 26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre
1743. Quindi l'intervallo tra i due viaggi è stato di tre mesi, non di sette.
Come affermato dall'autore, il soggiorno si svolse nel Lazzaretto
"Vecchio", in quanto quello "Nuovo", pur terminato nel
febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché la Reverenda
Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda: Furio
Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des
Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno
pag. 711. In tale studio viene ricostruita la situazione dei lazzaretti
di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con le risultanze di archivio
relative ai progetti e all'iconografia degli edifici adibiti alle quarantene.La
cronologia della permanenza è stata stimata dall'autore nel periodo
26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un giorno soltanto:
27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit
original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont, I, Cronologia, pag. XXX, cit. in bibl.) Il
progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817,
si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I,
Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo stato del
fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova. Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone
una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti
riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come
realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota
virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già
dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il
personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso
citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con
Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti
riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla
Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché
Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola,
le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con
Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova
che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra
gli altri Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè
pensano che Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi
derivanti da più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi
ispirato, in larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non
demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e
seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di
un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino
androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili. La tendenza
a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso particolarmente stimolata
dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti,
fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e avendo
frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta che
rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia cantante
o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo particolarmente
negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse profondamente
gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le peggiori
inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è una delle
eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per la non rispondenza
alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è detto, sotto un nome
fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si veda, di Cynthia
Craig, Representing anxiety. The figure of the actress in Casanova's Histoire
de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes, Genève, Année 2003 XX. Marco Barbaro (19 luglio 1688-25 novembre
1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San Aponal, figlio di Anzolo
Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato di sei zecchini al mese.
(Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du
manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont cit. in
bibl. I pag. 997, che rinvia a Salvatore
di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano) Marco Dandolo, patrizio veneziano del ramo
Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di Marco Dandolo 28
marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario
"...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo Casanova, che mi fu
in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha
mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj.
Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui
dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio orologio d'oro e le
mie quattro possate d'argento" (Fonte: L'Histoire de ma vie di
Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.29 nota 104). L'identificazione di "Henriette"
insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù
dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con
la centralità sentimentale di questi due personaggi nella vita di Casanova. Il
nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie e la sua identità è
stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le identificazioni che si sono
susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere a: John Rives
Childs (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de
Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste Laurent Boyer
de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del castello di
Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella di residenza
di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di Marie
d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996), che
avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786). Quest'ultima
ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso
una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia
della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione.
Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che
secondo André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da
Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova
inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che
consenta l'identificazione certa. Molti
studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo
sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina
Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266. Sul rapporto tra romanzo e autobiografia
nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova
Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in.
Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal
padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a
Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie
d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a
un passaggio delle Memorie di Goldoni)
Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su
presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del
piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).
L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14
dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di
Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno
Mondadori, 2005). Nel novembre del 1750,
Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di
Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in
Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)
Malgrado la diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti
maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia pratica durante la
permanenza in Francia, il francese di Casanova non fu mai ritenuto
sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli
“italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. Casanova
riferisce con dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la
successiva intensa frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette
anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre
volte alla settimana ma non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi
(Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori). L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755
Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo
Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo
fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova
condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di
StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)
Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di
Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia
Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una
commediante; viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si
fa profittare della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne Bragadin,
per vivere alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista Manuzzi, 22
marzo 1755....Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi avea ne'
giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi che
si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva dell'inclinazione
il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta... Giovanni Battista
Manuzzi, 12 luglio 1755. Secondo il
casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di Casanova è da
ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con
Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note
casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti),
apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I
Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la
scandalosa situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie.
Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag
1065. Bibliografiche Giacomo
Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon,
1960-62. Giacomo Casanova, Examen des
"Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin
de Saint Pierre, 1788-1789127. Carlo
Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.
Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de
ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in
bibl. G.Casanova,Storia della mia vita,
Mondadori 2001, I, pag. 502 cit. in
bibl. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia) (Fonte:
P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia
dell'Padova n°25, 1992) Aprile, maggio
1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie,
pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.
(Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire
de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit.
in bibl.) Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non
aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani
che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa
paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva
occuparsi della questione. Si veda di
Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova,
L'Intermédiaire des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti. Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand
Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche: una cultura della mobilità
nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian
Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag.
LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.
cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl, Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl. Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano.
La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl. Riguardo alla paternità del quadro in
questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim
Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle
ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di
origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un
restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato
tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che
recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto
rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il
naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di
ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il
fatto che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di
mano del fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per
il soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare
a una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile
di vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro
passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe
Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes XI, 1994, pagg. 17-23. Il
mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998,
cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n° 3
luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana, che
si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è
consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra
organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil, pag.68-71 Marino Balbi
(1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una
casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni
ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti
barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire
de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ). Si trattava di un certo Andreoli, custode del
palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone,
"in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per
maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note
per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316. Sentenza di condanna a carico di Lorenzo
Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni
de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali
ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi
somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di
contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la
interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi
del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del
reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il
supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di
clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r
Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia
condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani
Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato,
Annotazioni, R. 535 c.83. Jeanne Camus
de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de
Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre
figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed.
Mondadori 2001, II pag.1634 nota) G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2,
Volume 5, Capitolo 3 Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un
ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature
politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo
entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001 cit. in bibl. II,
Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori,
pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla
ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo
Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una
ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda
anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993
cit. in bibl. II, pag 21 nota 4
(con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.),
pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les
loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963,
pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio
di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des Manuscrit
Française 26469, fol. 198). Del viaggio
nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica descritto da
Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a Dux,
rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode
(1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal
1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il
documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma
vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre
Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard
Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero
le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un
amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e
seg.). La lettera autografa di
Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre
1999. Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere l'anonimato,
ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut Watzlawick,
L'Intermédiaire des Casanovistes anno 2003 pag. 25) «...siete filosofo, siete onesto, avete la
mia vita nelle mani, Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...» G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori,
Edizione 2001, II, pag. 394, cit. in
bibl. Histoire, volume 15, capitolo XIX
Nous avons ici une espèce de plaisant qui serait très capable de faire
une façon de Secchia Rapita, et de peindre les ennemis de la raison dans tout
l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres complètes de Voltaire avec des
notes... Parigi 1837, II pag. 91) Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la
passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil,, Chronologie, pag. 221. G.
Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001, II, pag. 1508 cit. in bibl. Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta La
Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G. Casanova,
Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,
III pag.117 nota). Un riscontro
del soggiorno di Casanova a Berlino deriva da una annotazione nel diario di
James Boswell, datata 1º settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna
all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre
gigli) in Poststraße, dove anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho
mangiato da Rufin dove Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande
filosofo e quindi sosteneva di dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa
esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the
Private Papers of James Boswell, London 1953,
IV, pag. 67). Il nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con
un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo
cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui
indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus de Farussi,
Farussi era il cognome della madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick,
Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag
41). Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera
russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX
pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle Memorie, Casanova incontrò varie
volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma senza alcun risultato. Franciszek Ksawery Branicki, conte di
Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si muoveva Branicki, che era
un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui collusione con la potente nazione
vicina rappresentò un vero e proprio tradimento, si può consultare la voce
dedicata a Tadeusz Kościuszko, in particolare il paragrafo "Ritorno in
Polonia". Anna Binetti (cognome di
nascita Ramon) celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il
ballerino Georges Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò
all'insegnamento della danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia
vita, ed. Mondadori 2001, III pag.1183
nota) G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001, III, pag. 285 e
seguenti, cit. in bibl. La vicenda
sollevò un clamore notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei
fatti, che ricalca sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la
veridicità, si trova in una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe
Antonio Taruffi, segretario del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e
spedita da Varsavia a Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed.
Zanichelli Bologna, 1878. La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati pagg.
196 e seg. e nota 1 pag. 203.) Fonte:
Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 288. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di morte di
Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26 ottobre),
Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova. I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre
1743 al 23 febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il
terzo dal 14 maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti,
numerosissimi, sono noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere
veridico il racconto che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è
costituito da un documento che certifica la presenza a Roma del Casanova
durante la Quaresima del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri
parrocchiali di S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di
S.Eufemia Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie.anni 40 Margarita figlia
zitella anni 16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva
anni 40 Piggionanti Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe
fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni
46 L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna,
sito nella piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era
al secondo piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.) Si è a lungo discusso circa l'esistenza di
ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale
dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima
pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è
stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va
quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle
vicende di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle
medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di
contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette.
Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando
i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo
Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini,
Casanova dalla felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le
notizie riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono
enormemente più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa
l'attendibilità e la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il dibattito
è stato amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la
sostanziale veridicità. Il viaggio da
Trieste a Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una
notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua
il signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri
da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra
le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di
Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si
è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione
a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana”, Trieste, Deputazione di
Storia Patria per la Venezia Giulia, pag. 221-223). È da osservare che la notorietà del
personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che
di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima
del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer,
rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel
famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco
assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere
sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua
prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della
Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della
Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice
culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero
Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.) Delle
lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la
Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie
rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute.
A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che
coprono il periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono
state riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà,
Milano, Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere
di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il
dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più
avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che
praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva
sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in denaro,
essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si ritrovò
letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di Barbaria
delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna notizia
ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del
canone: A.Ravà, J. Marsan, Sui passi di
Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in
bibl. pag. 347 Fonte: G. Casanova,
Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il
testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata
Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani
abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il
libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma
manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue
memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).
Foscarini morì il 23 aprile del 1785.
Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più
acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del
maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La
diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher...
(vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le
persecuzionia suo diresubite. Il concetto
è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita,
ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14)...Ma il Casanova è
quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per l'audacia,
la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i colpi di
spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino all'ultimo
l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era un'opera d'arte
e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei sensi..... Il casanovista Helmut Watzlawick ha
pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII, 2006 pag. 38)
una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui riferisce la
notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di una
testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e
storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di
storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und
Kunst-Freunde (Dresda, 1805 I parte
seconda, pag. 172) fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur
en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux
en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le
Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon
son propre désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata
all'interno del parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un
monumento “pieno di gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein
aveva certamente dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla
comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico
formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava,
una pensione, che lo mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi
bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con
gli editori. È quindi più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con
una sepoltura degna e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto
come un biografo scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un
dettaglio facilmente verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali
Francesco Casanova, fratello minore di Giacomo e famoso pittore, al quale
Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo biografico e che era ancora
in vita al tempo della redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per
avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al
momento della morte del Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati
per la sepoltura e l'erezione del monumento.
Edizione in tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF,
con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente
() è l'edizione critica di riferimento.
Archivio Alinari, su alinariarchives.
Archivio GrangerNew York Opere di
LonghiCasanovaUbication: Firenze Miti e
personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte,
musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori,: «Nell'arte. Di Casanova esistono
alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi
che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un
terzo attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco
Narici) Il quadro, conservato un tempo
nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e
nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe
stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia
dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni
sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti.
Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno
dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco
Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della
collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto
ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca
in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove
opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova,
la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su Alessandro
Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca'
Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende del
ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de
Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau
garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un cospicuo
dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo circa la
personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere critiche sulla
questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a
separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal
giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle
memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto
Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si
veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron
1914) pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore
di Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il
valore storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori,
come Ettore Bonora il quale scrisse...fissati i loro limiti. i Mémoires restano
un libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco,
un libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può
rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la
Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori
del Settecento, pag 717, citato in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della
modernità, citato in. Emblematico a
questo riguardo è il caso del romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che
costituì un tale insuccesso editoriale da minare definitivamente la già non
florida situazione finanziaria del Casanova. Malgrado gli sforzi dei
volenterosi sottoscrittori, si accumulò una perdita di duemila fiorini, secondo
una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di ottocento zecchini secondo una
lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque di grande rilievo che
costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a ricorrere a prestiti
usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e perfino capi di vestiario
(Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e
seg.). Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi
della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da parte delle
autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che
avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu sicuramente
appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele influenti, stava
compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova
si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali
molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di essere
aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche vicino ad
ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di
patrizi che sosteneva le ragioni di Casanova ed era fautore del perdono si veda
Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire
de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.25, 26 nota 90. Si
veda inoltre la lettera di Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del
1769, Epistolario di Giacomo Casanova,
Piero Chiara, cit. in bibl. pag. 105,106.
Il brano, un ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De
Ligne riuscì a cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema
obiettività gli elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere
consultato qui (Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise
Dupont et C. Parigi 1828). Su come
Casanova esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue
avventure, vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del
personaggio, che è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera
al fratello Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive:...V'è un certo uomo
straordinario per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano:
egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato
tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di
fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli
quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta
ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del
racconto, Alessandro replicava:...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da
lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni,
ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa
infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia,
Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.
La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova,
Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340 Alla morte di Casanova, il manoscritto
originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini
che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria
Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a
Dresda, dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e
i quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio,
il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato
l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di
Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Molti studiosi hanno analizzato, parola per
parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è
trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della
questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore
procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la
versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con
cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera
biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi
e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni
che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei
crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la
rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non
espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio
Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo). G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori
2001, I pag. 733, cit. in bibl. A questo proposito de Ligne scrive...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti,
pag. 189, cit. in bibl.), Illuminante, a
questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da
Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che
riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per
essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non
verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte
al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti
posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di
Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.) Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e
l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in
bibl. G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione
dell'Histoire (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral
du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la
scelta sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore
diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e
approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di
Trocchio, cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché
nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana;
perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi
a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello
italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle
vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un
problema di diffusione. Stendhal fa,
nella sua opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades
dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il
casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo
Casanova, Michele Mari cit. in bibl. pag. 383.
Foscolo, durante il soggiorno londinese, recensiva opere di autori
italiani. A proposito dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse
occasioni (sulla Westminster review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review
del giugno dello stesso anno), che il protagonista era di pura fantasia e le
vicende narrate completamente inventate.
Balzac si ispirò largamente alle Memorie casanoviane utilizzando
personaggi, nomi ed episodi per l'ambientazione veneziana delle sue opere, come
nel caso di Facino Cane o per desumere spunti narrativi, come nel caso di
Sarrasine. Sul punto si veda Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi
su Balzac e l'Italia, Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine
indicate con relativa note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti
tra l'opera casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo
Casanova, Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R.
Childs, Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris
1962 Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e
scrive al padre:..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di trovare
un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella commedia
L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la cantante con
postfazione di Enrico Groppali, ed. SE).
Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra
cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di Casanova
(ed. Adelphi). Hesse scrisse il racconto
La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989) che fu pubblicato nel 1906. Márai scrisse il romanzo La recita di Bolzano
(ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come protagonista l'avventuriero
veneziano. Salvatore di Giacomo
"Casanova a Napoli" in Nuova antologia 1922. Benedetto Croce "Aneddoti di varia
letteratura", Napoli 1942. "Di un cantastorie del Settecento e di un
luogo delle Memorie di Giacomo Casanova" opera il cui autografo di sei
pagine è andato all'asta a Milano il 21.5.92.
Piero Chiara curò per Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata
sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova,
Mursia (1977) e molti articoli sull'argomento.
Scrive Casanova in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e
posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere.
(Fonte: Piero Chiara Il vero Casanova, Mursia 1977, pag.209). Tra le altre si veda Margherita Sarfatti,
Casanova contro Don Giovanni, ed. Mondadori (1950), citata in. La tesi è esposta in modo articolato da
Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert
Laffont, I, Préface, pag. X). Di questo
avviso Piermario Vescovo (Il mondo di Giacomo Casanova, pag. 187,, ed. Marsilio
1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad
Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono
probabile la partecipazione (Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G.
Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki 2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato
osservato che Da Ponte e Casanova si conoscevano e frequentavano, che Casanova
era certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia
lui che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la
rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per manifesta
insoddisfazione di alcuni cantanti, che Casanova era stato sempre molto vicino
per gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di
teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie.
Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare
varianti al testo del libretto per puro passatempo. Sull’argomento si veda lo studio di Furio
Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année XVII 2000, pag.
21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza
esito, nell'Archivio vaticano. Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà, Il
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Riviste di studi casanoviani Casanova Gleanings, John Rives Childs. L'intermédiaire
des casanovistes, M. Leeflang (Utrecht), F. Luccichenti (Roma), M.F. Luna
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casanoviani (), Antonio Trampus, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali
Comparati, Università Ca' Foscari Venezia, Ca' Bembo. Libertino (personaggio) Storia della mia fuga
dai Piombi Manon Balletti Silvia Balletti Matteo Bragadin Francesco Casanova
Gaetano Casanova Giovanni Battista Casanova François-Joachim de Pierre de
Bernis Zanetta Farussi Michele Grimani Charles Joseph de Ligne Andrea Memmo
Louise O'Murphy Giustiniana Wynne Pietro Antonio Zaguri TreccaniEnciclopedie on
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gallica.bnf.fr. Sito della BNF con
notizie sul manoscritto e iconografia, su expositions.bnf.fr. Testo dell'Histoire de ma vie edizione 1880,
su www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in
inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di Casanova
vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove
testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato
sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri
sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in
maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche
sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la
massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli
incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con
almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe
legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare
prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione
del seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e'
significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova
racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la
qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la
chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina
psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non
lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di
Casanova: Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Bertolini · FOUND
INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che
l'aveva istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di
passione e di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica
omosessuale che Casanova si... – Grice: “Casanova was what I regard as a
philosopher of sex. He fell for Bellino, an alleged castrato. In bed with him, Bellino tells him that his name was
Teresa and that her penis was an artificial phallus. Bellino had died years
before but people wanted a castrato, not a girl with a girl’s voice – and she
added that working on the side as a harlot, she found that most clients rather
she be a ‘he’!” -- Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman;
his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he
(Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s
favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo
Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione
sessuale, conversazione e conversazione” – The Swimming-Pool Library. Casanova.
Grice e Casati: l’implicatura
conversazionale d’Eurialo -- ovvero, dell’amicizia – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Casati; he is from Milano, and
therefore, as the Italians say, intelligent! – or ‘clever’” – His dissertation
is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that there’s ‘man,’ and “man” and
the idea of “man,” so the thing is the thing, but the idea stands for the
thing, and the expression stands for the thing that stands for the thing! But
he has also explored ‘amicizia’, as in the case of Oreste’s alter ego,
‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a typical Renaissance
man of a philosopher, as he should!” Studia a Milano con Bonomi. Pubblica
la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti
metafisici (Laterza). Si occupa di fenomenologia dello spazio e degli
oggetti. Analizzato la rappresentazione di questi due elementi secondo il senso
comune. Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità insormontabili
(Laterza). Buchi e altre superficialità è un tentativo di analizzare i
diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un elemento che
evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di filosofia della
percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica e letteratura.
Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e il linguaggio
quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine filosofica e
di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso
quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo. Tra i suoi principali contributi
si annoverano la teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la
teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica
analitica: la teoria dei suoni come eventi localizzati, la regione
spaziale immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli
oggetti materiali, la teoria del futuro "strizzato" nella
metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle
ombre e il loro contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali
grazie alla scoperta di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre
(ombre corrette che appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette),
scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione
"copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la
cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le
ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il
modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il
ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra).
Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati
principali in questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per
le mappe, una sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la
teoria dei "micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una
teoria generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore
di un progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura
normativa, in un contesto di democrazia partecipata. La sua Prima Lezione
di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato
concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella
società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è
proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia, che
non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia.
Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della
rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La
scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità
insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri
incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi
di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza);
Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere,
Laterza); Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia,
Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente
diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo,
Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI
UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e
definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA
VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto
visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti
materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE
E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed
immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il
problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore
della teoria della somiglianza Somiglianza e rappresentazione.
Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della
percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in.
LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione
canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun
luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie
percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario
iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio
nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE.
Contesto di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza
iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione
ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di
Escher e il fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte:
rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia
estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella
materialità. La geometria dell'espressione. La dissoluzione della
rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di
esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione.
Critica. Riferimento e generalità. La teoria che Grice e Casati
propongono può chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la
conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati
alternativi. La teoria di Grice e C. sostiene che un artefatto (segno
artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo
precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione di profferire
una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di riempire lo spazio
lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto
è il seguente. Una emissione conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo
di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto
che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione.
Cominciamo con lo sgombrare il campo da possibili equivoci. Un’obiezione
semplice è che “molte cose vengono create con lo scopo di suscitare una
conversazione, e queste non sono opere d’arte, come per esempio la produzione
di gesti che conducono alla disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni
roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria
metacognitiva dello spunto conversazionale non dice che le opere d’arte vengono
create con l’intenzione di suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è
compatibile con l’ipotesi che le opere d’arte non vengano create con
l’intenzione di suscitare una conversazione. L’intenzione pertinente è
un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che vengano riconosciuti (per
esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di
suscitare una conversazione. È irrilevante per la soddisfazione di questa
intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una conversazione, o se una
conversazione venga poi effettivamente suscitata 4. Vediamo subito anche alcune
conseguenze immediate, tenendo presente il fatto che i due competitori diretti
della teoria sono la teoria della comunicazione e quella dell’intenzione
artistica, laddove la prima compete sull’aspetto sociale, e la seconda in
quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria metacognitiva dello spunto
conversazionale i prodotti artistici non servono per una “comunicazione”
semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso
della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame
preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti
utilitari, devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri
elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto
sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto
sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei
fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba
creare l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in
una conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua
epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come
creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto
impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di
oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati.
La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances artistiche
come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono
particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli aspetti
impliciti di tutte le opere d’arte. La teoria spiega perché i prodotti
artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa
sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea
che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo
perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare
una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella
conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra capacità di
inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è
più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto
avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la
possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione.
In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello
spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla
comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici
hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati
problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere
sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente
complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della
loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di
conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le
fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta
avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve
anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La
teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti
di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure
irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale
spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata inventata.
Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che certi
artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore un
credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si
è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi
requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere
d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano
di espungere dal novero dell'arte.) Riprendo nel seguito ed espando alcuni
elementi da C. Spiega l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe
cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati
estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un
certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La teoria spiega perché gli
artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è
particolarmente arduo da spiegare in una teoria della comunicazione o
dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le etichette e i
pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere d’arte vengono
acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla conversazione
scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con svariate
strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che
è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot),
esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza
che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili
conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto
immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono
oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La
clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione
appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola
esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio
conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove
interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto
che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire
spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo
dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni
empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di
ricerca, una antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo
in questa direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo?
Conclusione La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta
un’ipotesi che cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su
che cosa è un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti
artistici e all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano.
Anche se è una teoria che si situa nella regione della dipendenza della risposta,
non non è una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche sono un
tipo di risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti non
artistici. Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe
aspettare di fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte
del 19 riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto
resta un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che
considera le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la
cui forma dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione
di controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria
metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo
oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente
articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un
oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione
sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi
comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste
uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio. L'arte come idea e come
esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s
national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan
warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos.
Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course, various
thematic functions and will have resonated in various ways for a roman
readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the
eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text
might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski
for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments
for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds
particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus
and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their
relationship see Williams, Lyne, and Hardie). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in
Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of
their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE
EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR
NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE
STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO
NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et
Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors
Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s
narrative of the two valourus young Trojans has, of course, various thematic
functions and will have resonated in various ways of a Roman readership. Here I
focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticiation of their
relation Niso ed Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5.
‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus
ammore pio pueri’ (Vir. Aen.). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus
outstanding for his beauty and fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love
for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus indulges ia a questionably bit
of gallantry: starting off in first place, he slips and falls in the blook of
sacrificed heifers, then deliberately trips the man who was in second place, in
order the Euryalus may come up from behind an win first place. Non tamen
Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. -- ‘He was not forgetful of his
love Euryalus, not he! (The plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual
partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the
word in the plural to refer to a bull’s mate at Georgics. Indeed, Servius, ad
Aen. writing in a different cultural climate, was worried by precisely thiat
fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM
AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM
SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO
PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’
Whereas the description of Nisus’s love for the boy as PIUS apparently
precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear in a celebrated
episode from Book 9, when they leave the camp at night in an effort to break
through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a number of
Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus first and
then his companion, who, after being morally wounded, flings himself upon
Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair. Nisus
erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem miserat Ida
venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Euryalus, quo
pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora puer prima
signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir.
Aen. Nisus, son of Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior,
swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to
accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s
followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at
the beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love,
and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the
emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard
on his fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE
and fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and
is continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and
especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which
recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM
TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS
SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly
presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND
EURYALUS’S (235-6: Likewise the question
that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive
resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT
DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase
DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, concerning
men’s desire TO EJACULATE and muta cupido. Euryyalus, is it the gods who put
this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira
cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire
to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could
also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction
of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is
notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely
protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat Nisus nec
se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me, me, adsun
qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil iste nec
ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum infeliciem
nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his mind, unable
to hid himself any longer in the shadows or to endure such great pain, Nisus
shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me, Rutulians!
The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he could not have
done it. I swear by the sky above and the stars who know: the only thing he did
was to love his unahappy friend too much. There is, in short, good reason to
believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is described in
the circumspect terms befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his
Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called
SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their eromenoi in
fourth-century B. C. Greece. Note also that “meme … figis?” seems to echo
Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too Makowski p. 9-10 and
9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave sequar? Rurus perplexum
iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA RETRO observata legit
dumisque silentisu errat) might recall the scene were Aeneas loses Creusa a t
the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels with the story of Orpheus
and Euryide in the Georgics, as well as as to that of Aeneas and Crusa in
Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat. Pelop, Athen. and the
probable allusion at Pl. Smp. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon
his companion’s lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth
into a celebrated eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus,
placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina
possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli
immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen.). Then he
hurdled himself, pierced through and through, upon his lifeless friend, and
there at last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has any
power, no day shall ever remove you from the remembering ages, as long as he
house of Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as the
Roman father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in death
ould hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their
‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET,
UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt
NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those
who wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for
we find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his
wife as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a
joint tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and
Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO
– SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE
491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR
QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA
RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC
IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too
Senece quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can
immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for
Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an
immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil
promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even
bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist.
21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI
AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary
in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males
– and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus
and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the
company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS,
Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND
PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between
Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo
and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship
between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is
then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while those
couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one partner
is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and Eurialus
only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are transformed from a
Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of ROMAN MEN (VIRI). The
valosiging distinctions inherent in the pederstaist paradigm seem to fade with
the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war side by side (PARITER –
PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they certainly DISAPPEAR when
the old man Aletes, praising them from their bold plan, addresses the TWO as
VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA POSSE REAR SOLVI, 252-3,
whe an enemy leader who catches a
glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI, 376), and most
poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads pierced on enemy
spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS
MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words, although Euryalus is the
junior partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and
capable of being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as
much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus.
There is a further complication in our interpretation of the pair, and indeed
all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course
set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural
setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence
of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of
pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both
cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of
his epic. Yet, while the influence of Homer is especially strong in these
passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic
adventures echoes the Homeric technique of citing some touching details about a
warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily killed
off), is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret
references in the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical
model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later
Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck –
from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, p. 235, n.
49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself,
while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond between the
two, does not represent them in terms of the classical pederastic model. See
further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96,
Sergent, 250-8, and Halperin p. 75-87. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’
Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen,
cites no Homeric parallel for these lines. And yet the pederastic relationships
in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two
peoples who are strictly distinguished din the epic from the Greeks, and
who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS of the roman race.
Cf. Turnus’s rhetoric based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks,
ndnd Italians, and the weighty dialogue between Jupiter and June where it is
agreed that Trojans and Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found
pederstastic relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal
gap or no, this would have been unthinkable in a cultural context in which
same-se relationships were universally condemned or deeply problematized. But
is it still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans,
Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of
a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of
Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE
relationship that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own
day be considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a
male-female relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is
not. This tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a
relationship that in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here
the gap between Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance.
While, due toe o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in
Virgil’s OWN DAY could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED,
they did find HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And
perhaps also Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic
past does not extend so far as to conceal the moral problematization of a
male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas
with the would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship
that corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered
stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship
that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is
complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance
Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s
experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the
commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her
involvement with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the
moral framework poposed by the text in a way that the relationship between
Nisus and Euryalus does ot. This distintion revelas something about the
relative degrees of problematization of the two types of relationships in the
cultural environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any
power no day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the
house of Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as
the Romans father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of
an adulterous couple ina Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as
the epitome of friendship along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and
Oreste e Palade. Luigi Speranza, "Gilbert Proebsch e George
Passmore", Luigi Speranza, "Kosuth" -- Luigi Speranza,
"Keith Arnatt" -- Luigi Speranza, "Unità etica ed unità
emica" -- Luigi Speranza, "Fenomenologia" -- Luigi Speranza,
"Concettualismo". Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero,
dell’amicizia, “la conversazione come arte del negoziato”; teoria
conversazionale dell’artifatto, segno, comunicazione, imagine, intenzione,
Grice, Ricominiciamo da capo – logico, stramaledettamente logico – implicatura
come stramaledettamente logica -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Casini: l’implicatura
conversazionale de naturismo – il concetto di natura a Roma -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like
Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so did Thales,
according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’ rather than
‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto Nardi, Antoni, e
Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di natura”.
I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si sono
successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali nel
Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla diffusione
della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a proposito di
filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero, non senza tener
conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in tale contesto
Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue ricerche
riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione
scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di
Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e
"antica sapienza italica", le dispute sorte attorno al
darwinismo. Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza);
Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana,
Laterza); Rousseau, Laterza); Introduzione all'illuminismo, Laterza --
razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia”
(Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino);
“Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del
Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il
concetto di creazione (Il Mulino). La lista di autorità e
l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.
Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella
cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo
passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura
romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni
storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni politiche del
Sette-Ottocento. Giuseppe Bottai o delle
ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa -
La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo
Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico
dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e
instabilità» - «Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla
ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia
(Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» -
Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la
sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi
retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore
dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e
nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola -
Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il
passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6.
Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche -
Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja –
Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be
- Anni di prova) - Indice dei nomi Order Zoogonia e
"Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia
Italiana 17 (n/a): 178. 1963. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina
Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like
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Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of
Science 127. Dordrecht: Kluwer (review)
British Journal for the History of Science The "Enciclopedia
italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Like
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Journal for the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark
10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques
Rousseau Like Recommend Bookmark 9 Il momento newtoniano in Italia: un
post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend
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this work Like Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de Voltaire,
Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and
W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation,
Taylor Institution, British Journal for the History of Science 17th/18th
Century French Philosophy Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e
la "Sacra famiglia" Rivista di Filosofia Lumi e utopie in uno studio
di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia The New World and the Intelligent
Design Rivista di Filosofia Anti-Darwinist ApproachesDesign Arguments for
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Settecento Rivista di Filosofia Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di
Filosofia Kant: Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica,
astronomia, relatività: Boscovich a Roma; « Rivista di Filosofia Introduzione All'illuminismo
da Newton a Rousseau Laterza; Like
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Shaftesbury Giornale Critico Della Filosofia Italiana L'iniziazione Pitagorica
Di Vico Rivista di Storia Della Filosofia; Like Recommend Bookmark Per Conoscere Rousseau
with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques Rousseau Toland e
l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia British Philosophy,
Misc L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia Rousseau, il popolo sovrano
e la Repubblica di Ginevra Studi Filosofici Il mito pitagorico e la rivoluzione
astronomica Rivista di Filosofia Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia
Rivista di Filosofia; Like Recommend Bookmark 13 Francesco Bianchini und
die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science and Medicine History of
Science Like Recommend Bookmark L'antica Sapienza Italica Cronistoria di Un
Mito. 1998. Pythagoreans Like Recommend Bookmark 16 Candide, Theodicy and
the «Philosophie de l'Histoire» Rivista di Filosofia La filosofia a Roma
Rivista di Filosofia Vico's initiation into the study of Pythagoras Rivista di
Storia Della Filosofia Pythagoreans Topic Order
Teoria e storia delle rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn
Rivista di Filosofia Il problema
D'Alembert Rivista di Filosofia Semantica dell'Illuminismo Rivista di Filosofia
Cheyne e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della Filosofia
Italiana Newton's Physics and the
Conceptual Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal for
the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark 1 Diderot and
the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie Diderot
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Descartes Rivista di Filosofia Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura
Isedi. 1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la
metafisica Rivista di Filosofia Leopardi apprendista: scienza e filosofia
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Rivista di Storia Della Filosofia Diderot « philosophe » Revue Philosophique de
la France Et de l'Etranger Continental Philosophy 1 citation of this work Like
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Italiana La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di
Filosofia L'empirismo e la vera filosofia:
il caso Scinà Rivista di Filosofia 8The Newtonian moment in Italy: A
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Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di
Filosofia Newton: the classical scholia History of Science; 1 reference in this
work 15 citations of this work Diderot et le portrait du philosophe éclectique
Revue Internationale de Philosophie Morte e trasfigurazione del testo Rivista
di Filosofia L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza.
Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific
Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer
(review) British Journal for the History of Science Éléments de la philosophie
de Newton (review) British Journal for the History of Science 2Isaac Newton
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of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Il momento newtoniano in
Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Rousseau e
l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques Rousseau Topic
Order 5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia saac Newton 1
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Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L.
Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire
Foundation, Taylor Institution, (review)
British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th
Century French Philosophy. Grice: “An assumption generally shared by those who
wrote and read the tests surveyed in Latin is that male desire can normally and
normatively be directed at either male of female objects. If this configuration
is held to be NORMAL or NORMATIVE, we might expect that it would also be
represented as NAATURAL, and it is thus worthwhile to consider the role played
by the discourse of NATURE in ancient representations of sexual behaviour. This
question is both hughe and complex.Important discussions include Boswell,
1Foucault, 1986, 150-7, 189-227, and Winkler, 20-1 36-7 114 8. but one thing is
clear: the ancient rhetoric of nature, as it relates to sexual practices,
displays significant differenct from more recent discourses. Boswell, for
example, observes that while “what is supposed to have been the major
contribution of Stoicism to Christian sexual morality – the idea that the sole
‘natural’ and hence moral use of sexuality is procreation, is in fact a common
belief of amny philosophies of the day’ at the same time, ‘the term UNNATURAL
was applied eto everything from POSTNATAL CHILD SUPPORT to legal contracts
between friends (Boswell). ‘The objection that homsosexuality is ‘unnatural’
appears, in short, to be neither scientifically nor morally cogent and probably
represents mnothing more than a derogatory epithet of unusual emotiona impact
due to a confluence of historically sanctioned prejudiced and ill-formed ideas
about ‘nature.’”Thus, as Winkler notes, the contrast between nature and
non-nature, when deployed in ancient writings simply ‘does not posess the same
valence that it does today’ Winkler, p. 20 Moreover, nearly all of the texts
that offer opinions on whether specific secual practice is in accordance with
nature are works of philosophy. The guestion does NOT seem to have seriously
engaged the writers of texts that directly spoke to and reflected popular moral
conceptions (e. g. graffiti, comedies, epigram, love poetry, oratory). For this
important distinction between the morallyity espoused by a philosopher and what
we might call popular morality, see the introduction and chapter 1. In short, as Richinlin warns us, the question
I ‘something of a red herring, since the concept of nature takes a larger and
more ominous form in our Christian culture than it did in AAncient Rome,
whetere itw as a matter for philosophers’.Richlin, p. 533. But it may
nonetheless be worthwhile to attempt a preliminary exploration of how the
rhetoric of NATURE was applied by some ROMAN PHILOSOPHERS to sexual practices,
particularly those between males.In other words. I would like to go a step or
two beyond that ‘nature’ is generally used by Roman moralists to justify what
they approve of’ (Edwards 88 n. 87). always bearing in mind, however, that to
the extent that it was mostly taken up by philsoeophers, the question of
‘natural’ sexual practice seems not to have played a significant role in most
public discourse among Romans. Nonphilosophical texts sometimes do deploy the
rhetoric of NATURE in conjunction with sexual practices, at least insofras they
as they offer representations of ANIMAL bheaviour, one possible component in
arguments about what is natural.2-6, and Win3, on Philo’s description of
crocodiles mating. kler, 2See for example Boswell, 137-43, 15 It will come as
no surprise that Roman writers images of animals’ sexual practices are
transparetntly influenced by their own cultural traditions. Thus in no Roman
text do we find an explicit appeal to animal bhehaviour in order to condemn
sexual practices between males as unnatural.Such an argument does occasionally
appear in Greek texts, such as Plato, Laws 836c (martua parag Omenos en ton
therios phusin kai deiknos pros ta toitauta oux aptomenon arena arrenos dia to
me phusei touto einai – and Lucian Amores 36. To Be sure, Musonius Ruffus’s
condemnation of sexual practices between males as para phusin might imply a
reference to animal practices, and it is possible that in some work now lost to
us the Roman Stoic followed in Plato’s footsteps in being explicit on the
point. A Juvenalian satire does make reference to animal behaviour in orer to
condemn cannibalism (claiming that no animas eat member s of their own species
Juv. 15 159-68. And in a passage discussed later in this appendix, Ovid has a
character argue that NO FEMALE ANIMAL experiences SEXUAL DESIRE for other
females. These claims are as unsupportable as the claim that sexual practices
between males do not occur anong nonhuman animals.This is obvious to anyone who
has spent time with dogs. With regard to the academic-study of the question,
the remarks of Wolfe, Evolution and Female Primate Sexual Behaviour, in
Understanding behaviour: what primate studies tell us about human behaviour
Oxford, p.are as illuminating as they are depressing. ‘I have taked with
several (anonymous at their request) primatologists who have told me that they
have observed both male and female homosexual bheaviour during field studies.
They seemed reluctant t publish their data,
however, either because THEY FEARED HOMOPHOBIC REEACTIONS (‘my
ccolleagues might thank that I am gay’) or because they lack a framework for
analysis (‘I don’t know what it means’). On the latter point Wolfe insightfully
comments that the same problem affects our attempts to understand ANY sexual
interactions among primates. ‘Because the alloprimates do not possess language,
it is impossible to inquir into their sexual eroticism. In other words,
homosexual and heterosexual behaviours can be observed, recorded, and analysed,
but we cannot infer either homoeroticism or heteroeroticism from such
behaviours (p. 131). But the fact that we do find animal behaviour cited by
Roman authors to CONDEMN such phenomena as cannibalism and same-sec desire
among females, but not SAME-SEX desire among males, merely proves the point.
These rhetorical strategies reveal more about ROMAN cultural concerns than
about actual animal behaviour. A poem in the Appendix Vergiliana introduces us
to a lover hhappyly separated from his beloved Lydia. In the throes of his
grief he cries out that this miserable fate NEVER BEFALLS ANIMALS: A bull is
never without his cor, nor a he-goat without his mate. In fact, sighs, the
lover: ET MAS QUACUMEQUE EST ILLA SUA FEMINA IUNCAT INTERPELLATOS SUMPAUQM
PLORAVIT AMORES CUR NON ET NOBIS FACILIS NAUTRA FUISTI CUR EGO CRUDELEM PATIOR
TAM SAEPE DOLOREM? (Lydia 35-8). The lover is melodramatically weepy and that
consideration partially accounts of his ridiculous claim that male animals are
never to be seen without their mates. Still, amatory hyperbole aside the verses
nicely illustrate the tendency to shape both natura and animal bheaviour into
whatever form is convenient for the argument at hand. Thus, Ovid,s suggesting
that the best way to appease one’s angry mistress is in bed, portrays sexual
behaviour among early human beings and animals s as the primary force that
effects RECONCILIATION (Ars 2 461-92. The poet offers a lovely panorama in
which animal behaviour is invoked as a POSTIIVE paradigm for specific human
practices: unting otherwise scattered groups (2. 473-80) and mollifying an
angry lover (2. 481-90). Less than two hundred lines later, the same poet
invokes animalas as A NEGATIVE PARADIGM, again in support of a
characteristically human concern: discretion in sexual matters. IN MEDIO
PASSIMQUE COIT PECUS HOC QUOQUE VISO AVETIT VULTUS NEMPE PUELLA SUOUS
CONVENIUNS THALAMI FURTIS ET IANUA NOSTRIS PARSQUE SUB INJIECAT VESTE PUDDAN
LATET ET SI NON TENEBRAS AT QUIDDAM NUBIS OPACAE QUAERIMUS ATQUE ALIQUID LUCE
PATENTE MINUS (Ovid, Ars, 2 615-20). Drawing his objets lesson to a close, Ovid
holds up his own behaviour as a pattern to follow. NOS ETIAM VEROS PARCE
PROFITEMUR AMORES TECTAQUE SUNT SOLIDA MYSTIFCA FURTA FIDE 639-40. And we are
reminded of the strategies of this pasage’s broader context. If you want to
keep your girlfriend happy, do not kiss and tell: that is the argument in
service of which animal behaviour is invoked as NEGATIVE paradigm. These to
Ovidian passages illustrate the utilyt of arguments from the animal world. Just
look ant the animals and see how much we resemble them; just look at the51-5. animals and see how far we have come.An
epigram by theGreek poet Strato gives the later poin an dineresting twist. We
huam beings, he writes, are SUPERIOR to animals in that, in addition to vaginal
intercourse, we have discovered ANAL INTERCOURSE, thus men who are dominated by
women are really no better than mere animals (A P 12 245 PAN ALOGON soon bivei
monon oi ligkoi de ton allon zoon tout exkomen to pleon pugizein eurotntes
hosoi de guanxi kratountai ton alogon zoon ouden exousi kleon. It all depends
on the eye – and rhetorical needs – of the beholder. OS it is that Roman
writers show how Roman they are through the picture they paint of sexual
practices among animals of the same sex. Ovid himself, in his Metamorphoses,
imagines the plight of young girl named Iphis who has fallen in love with
another girl. In a torrent of self-pity and self-abuse, she expostulates on her
passion, making a simultaneous appeal to NATURA and to the animals that is
reminiscent of Ovid’s sweeping review of animal bheaviour in the Ars amatorial
just cited. But this time the paradigm is an emphatically negative one. SI DI
MIHI PARCERE VELLENT PARCERE DEBUERANT SI NON ET PERDERE VELLENT NAUTRALE MALUM
SALTEM ET DE MORE DEDISSENT NEC CACCAM VACCA NEC EQUAS AMOR URIT EQUARUM: URIT
OVES ARIES SEQUITUR SUA FEMINA CERVUM SIC ET AVES COEUNT INTERQUE ANIMALIA
UNCTA FEMINA FEMINEO ONREPTA CUPIDINE NULLA EST (Ov. Met. 9. 728-34) As with
Lydia’s lover, so here we have the melodramatic expostulations of an unah[py
lover, and similarly her view of animal behaviour does not correspond to the
realities of that behaviour. Still, these arguments are pitched in such a way
as to invite a Roman reader’s agreement, and the sexual practices invoked as
natural and occurring among the animals demonstrate a SUSPICIOUS SIMILARTY to
the sexual practices and desired SEMMED ACCEPTABLE BY ROMAN CULTURE (the female
never leaves the male, heterosexual intercourse is a convenient and pleasurable
way of unting different social groups, and females never lust after females),
or to specifically HUMAN EROTIC STRATEGIES: we do not copulate in public, and
we should not kiss and tell if we want our to keep our partners happy. It
cannot be coincidental that, whereas Ovid invokes animal behaviour in the
context of a girl’s tortured rejection of her own passionalte yearnings for
another girl, the mythic compendium in which this natrratie is found is
peppered with stories involves passion and sexual relations between males. Both
Orfeo (after losing his wife Euridice) and the gods themselves (whether married
or not) are represented as ‘giving over their love to TENDER MALES, harvesting
the BRIEF springtime and its first flowers before maturaity sets in” Ov. Met.
10. 83-5 ORPHEUS ETIAM THRACUM POPULIS FUIT AUCTOR AMORET IN TENEROS TRANSFERRE
MARES CITRAQUE IUVENTAM AETATIS BREVE VER ET PRIMOS CARPERE FLORES. The stories
that Orfeo proceeds ts to relate include those of the young CYPARISSUS once
loved by Apollo Met 10.106-42 and the tales of Zeus and Ganumede, Apollo and
Hyacinth (Met 10 155-219 Consider also the beautiful sixteen yer old Indian boy
Athis and his Assyrian lover Lycabas (Met. 5 47-72. A passage which echoes of
Virgil’s lines on NISUS AND EURIALO discussed in chapter 2. And the remark that
the stunning but haughty young Narcissus, also in his sixteenth year, had many
admireers of both sexses (Met 3 351-5.None of Ovid’s characters arever
questions the NATURAL status of that kind of erotic experience or invokes the
animals in order to reject it. Aulus Gellius preserves for us some anecdotes
that further demonstrate the manner in which animal bheaviour could be made to
conform to human paradigms. Writing of (IMPLICITLY MALE) dolfns who fell in
love with beautiful boys (one oft them even died of a broek heart after losing
his beloved) Gellius exclaims that they were acing “in amazing human ways” 606C-D
and Plin N H 8 25-8 for this and other tales of male dolphins falling in love
with human boys. Gell 6 8 3 NEQUE HI AMAVERUNT QUOD SUNT IPSI GENUS SED PUEROS
FORMA LIBERALI IN NAVICULIS FORE AUT IN VADIS LITORUM CONSPECTOS MIRIS ET
HUMANIS MODIS ARSERUNS. Cf. Athen 13 Once again, the comment tells us more
about ‘human ways’ than about dolphins. The elder Plini, who alo relates this
story regarding the dolphin, introduces his encyclopeic discussion of elephants
by observing that they are nonly the largest land animals but the ones closest
to human beings in their intelligence and sense of morality. In particular,
they take pleasure in love and pride (AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS), and by way
of illustration of the ‘power of love’ (AMORIS VIS) among elephants he cites
two examples: ONE MALE FELL IN LOVE WITH A FEMALE FLOWER_SELLER, another with a
young Syractusan man named MENANDER who was in Ptolemy’s army. Likehise he
tells of a MALE GOOSE who fell in love with a beautiful young Greek MAN, and of
another who loved a female musician whose beauty as such that she alstro
attracted the attention of a ram. -4. NEC QUIA DESIT ILLIS AMORIS VIS, NAMQUE
TRADITUR UNUS AMASSE QUANDAM IN AEGYPTO COROLLAS VENDENTEM ALLUS MENANDRUM
SYRACUSANUM INCIPIENTIS IUVENTAE IN EERCITU PTOLEMACI DESIDERIUM EIUS QUOTIENS
NON VIDERET INEDIA TESTATUS 10.51 QUIN EST FAMA AMORS AEGII DILECTA FORMA PUERI
NOMINE OLENII AMPHILOCHI, ET GLAUCES PTOLOMAEO REGI CITHARA CANENTIS QUAM EODEM
TEMPORE ET ARIES AMASSE PRODITUR. Plin N H 8 1. MAXIMUM EST EPLEPHANS
PROXIMUMQUE HUMANIS SENSIBUS QUIPPE INTELLECTUS ILLIS SERMONIS PATRII ET
IMPERIORUM OBEDIENTIA, OFFICIOURM QUAE DIDICERE MEMORIA, AMORIS ET GLORIAE
VOLUPTAS 8 13Turing to the concept of NATURA as it applied to sexual pracyices by
ancient writers, we being with basica basic problem. The very term NATURA has
various referents in those texts. Sometimes NATURA seems simply to refer to the
way things are or to the INHERENT nature OF something, sometimes to the way
things SHOULD be according to the intention ordictates of some transcendent
imperative. Thus Foucault speaks of ‘the ‘three axes of nature’ in
philosophical discourse. The general order of the world, the orgginal state of
mankind, and a behaviour that is reasonably adapted to natural ends.Fouctault,
p. 215-6. See also the discussions in Boswell, p. 11-5, where he distinguishes
between ‘realistic’ and ‘ideal’ notions of nature, Beagon, and Levy, “Le
concept de nature a Rome: la physique, Paris). The first two of these axes are
evident in a wife-variety of Roman texts. Departures from what is observably
the usual PHYSICAL constitution of various thbeings could be called NONNATURAL
or UNNATURAL even by nonphilosophical authors. The Minotuar, centaurs, a snake
with feet, a bird with four wings, and a sexual union between a woman (the
muthis Pasiphae) and a bull.snAnon De Differentiis 520 23 MONSTRUM EST CONTRA
NATURAM UT EST MINOTAURUS. Serv. Aen 6. 286 (centaurs) Suet Prata fr.
176.113-5 snakes with feet, birds with
four wings. Serv. Aen. 1. 235.11. Pasiphae and the bull. Te elder Plinty claims
that breech births are ‘against nature’ since it is ‘nature’s way’ that we
should be born head first.n N H 7 45 -6. IN PEDES PROCIDERE NASCENTEM CONTRA
NATURAM EST RITUS NATURAE CAPITE HOMINEM GIGNI MOST EST PEDIBUS EFFERRI. PLiQuintilian
argues that to push one’s hair back from the forehead in order to achieve some
dramatic effect is to act ‘against nature’.Quint I O 11 3 160 CAPILLOS A FRONTE
CONTRA NATURAM RETRO AGERE. and Seneca himself opines that being carried about
in a litter is ‘contra natural’a, since nature has gives us feet and we should
use them.Sen. Epist 55 ` LABOR EST ENIM ET DIU FERI AC NESCIO AN EO MAIOR QUIA
CONTRA NATURAM EST QUAE PEDES DEDIT UT PER NOS AMBULAREMUS. Finally, the belief
that physical disabilities and disease are UNNAUTARAL, and thus, implicitly,
that a healthy body displaying no marked derivations from the form illustrates
what nature designed or intended, surfaces in a number of texts, arnign from
Celusus’ mdical treatise to Ciceroo’s philosophical works to declamations
attributed to Quintilian, to a moral epistle fo Seneca to the, to the Digest.2
1. 60 pr. MOTUS CORPORIS CONTRA NATURAM QUAM FEBREM APPELLANT. Quint. Decld.
Min. 298.12 WEAK AND MALFORMED BODIES ARE IMPLICITLY CCONTRA NATURAM. Celsus
Medic 3 21 15. On fluids that are retained in the body contra naturam. Cic Off
3 30 MORBUS EST CONTRA NATURAM. Gell. 4 2 3 Labeo defines morbus asHABITUS
CUIUSQUE CORPORIS CONTRA NATURAM QUI USUUM ETIUS FACIT DETERIOREM. Cf. D. 21 1
1 7. D. 4Along the same lines, some ancient writers also suggest that to harm a
healthy body with poisons and the like is unnatural.Quint Decl. Min. 246.3 the
plaintiff refers to a substance as a venenum QUONIAM MEDICAMENTUM SIT ET
EFFICIAT ALIQUID CONTRA NATURAM. Sen Epist 5. 4. To torment one’s body and to
eat unhealthy food is CONTRA NATURAM. As for the third of the axes described by
Foucault, anthropologists and others have long observed that proclamations
concerning practices that are in acoordance with nature often turn out to
reflect specific cultural traditions. As Winkler puts it, for nature we may
often read culture.Winkler p. 17. In the same way Edwards p. 87-8 discusses a
passage from Seneca (Epist 95.20=1) discussed in chapter 5, having to do with
women who violate their ‘nature.’ She concludes that ‘Seneca was not reacting
to naturally anomalous bheaviour. He was taking part in the reproduction of a a
cultural system.’ So too Veyne , p. 26. ‘When an ancient says that something is
unnatural, he does not mean that it is disgraceful (monstrueuse) that that it
does not conform with the rules of society, or that it is perverted OR
ARTIFICIAL”. Roman sources of various types certainly support that contention.
Thus, for example, violations of traditional PRINCIPLELS OF LANGUAGE AND
RHETORIC which are surely among the most intensely cutlrual of human phenomeno
are SOMETIMES SAID TO BE UNNATURAL.Serv. Comm. Art Don. 4 4 4 PLINIUS AUTEM
DICIT BARBARISMUM ESSE SERMOVEM UNUM IN QUO VIS SUA EST CONTRA NATURAM – Serv
Aen. 4. 427. REVELLI NON REVULSI. NAM VELLI ET REVELLI DICIMUS. VULSUS VERO ET
REVULSUS USURPATUM EST TANTUM IN PARTICIPIIS CONTRA NATURAM cf. Sen. Contr. 10,
pr. 9 – tof the rhetorician Musa. OMNIA USQUE AD ULTIMUM TUMOREM PERDUCTA UT
NON EXTRA SANITATEM SED EXTRA NATURAM ESSENT. One legal writer invokes the
rhetoric of NATURA to justify the principle of individual ownership (joint
possession of a single object is said to be CONTRA NATURAL.D. 41 2 3 5 CONTRA
NATURAM QUIPPE EST UT CUM EGO ALIQUID TENEAM TU QUOTE ID TENERE VIDEARIS.
Interestingly, another jurist argues that the principle underlying the
institution of slavery – that one person can be owned by another – is actually
‘unnatural’ (D. 1. 5. 4. 1. SERVITUS EST CONSTITUTIO IURIS GENTIUM QUA QUIS
DOMINIO ALIENO CONTRA NATURAM SUBICITUR. In a Horatioan satire we read that
NATURA sees it that no one is every truly the ‘master’ of the land that he
legally owns, and Natura puts a limit on how much one can inherit (Hor. Sat. 2.
2. 129-30, 2.3.178). Sallust describes the violation of the cultural and more
specifically philosophical tradition priviliengy the SOUL over the BODY as
UNNATRUAL.Sall. Cat. 2. 8. QUIVUS PROFECT CONTRA NATURAM CORPUS VOLUPTATI,
ANIMA OVERI FUIT. SALLUST. Likewise, practices violating Roan ideologies of
MASCULINITY are represented as INFRACTIONS NOT of cultural tranditions s but of
the natural order. Cicero’s philosophical tratise DE FINIBUS includes a
discussion of the parts and with some clarity functions of the BODY that
illustrates the relation between NATURE and MSASCULINITY with some clarity Our
bodily parts, Cicero argues, are PERFECTLY DESIGNED to fulfil their functions,
and in doing so they are in conformance with nature. But there are certain
bodily movesmesns NOT in accord with nature (NATURAE CONGRUENTES> If a man
were to walk on his hand or to walk backwyasds, he would manifestbly be
rejecgting his identity as a human and thuswould thus be displayeing a ‘hattred
of nature’ (NAUTRAM ODISSE). Cic Fin 5 35. CORPORIS IGITUR NOSTRI PARTES
TOTAQUE FIGURA ET FORMA ET STATURA QUAM APTA AD NATURAM SIT APPARET. The claim
that walking on one’s hand is unnatural nicely illustrates the gap between
ancient and more recent uses of the rhetoric of nature – cfr. Dodgson). The
next illustration Cicer o offers of bodily moveents not in accord with natura
concerns correctly masculine ways of deporing oneself. QUAMOBREM ETIAM
SESSIONES QUAEDAM ET FLEXI FRACTIQUE MOTUS, QQUALES PROTERVORUM HOMINUM AUT
MOLLIUM ESSE SOLENT, CONTRA NATURAM SUNT, UT ETIAMSI ANIMI VITIO ID EVENIANT
TAMEN IN CORPOMUTRAR MUTARI HOMINIS NATURA VIDEATUR ITAQUE A CONTRARIO MODERATI
AEQUABILESQUE HABITUS AFFECTIONS USUSQUE CORPORIS APTI ESSE AD NAUTRAM VIDENTUR
(Cic. Fin 5. 35-6. Deemed ‘agaist natture’ are certain ways of carrying oneself
that are ‘wanton’ and ‘soft,’ movements lthat, like walking on one’s hand or
stepping backwards, clasi the with thvident purporse of the body’s various
parts. Implicitly then, nature wills men’s bodies to move and to function in
certain ways. Men who violate these principles of masculine comportment are
acting BOTH EFFEMINATELY (as we saw in chapter 4, militia is a standard
metaphor for effeminacy) AND UNNATURALLLY. Cultural traditions regarding
masculinity – here, appropriate bodily gestures – are identified with the
natural order.Similar conddemnations of inappropriate bodily comportment,
marked as EFFEMINATE, abound: walking daintily, scratching the hair delicately
wih onefinger, and so on (see chapter 4 in general and see Gleason for a
general discussion of physiognomy and masculinity in antiquity. How, then is
the rheotirc of nature applied to same-sex practices? One scholar has recently
suggested that the elder Pliny describes men’s desires to be anally penetrated
as occurring ‘by crime against nature’ Taylor, p. 325. But that is probably a
misinterpretation of Pliny’s language. IN HOMINUM GENERE MARIBUS DEVERTICULA
VENERIS EXCOGIGATA OMNIA, SCLERE (or CCCELERE naturae FEMINIS VERO AOBRTUS Plin
N H 10 172. The phrase DEVERTICULA VENERIS which one might translate (by-ways
of sex’ or ‘sexual deviations’ is vague. There is no reason to think that it
refers to specifically, let alone exclusively, to the practice of being anally
penetrated. Moreover, the phrase SCELERA NATURA or SCELERE NATURAE, rather than
‘crime against nature,’ is most obviously transated as ‘crime OF NATURE,’ that
is, a crime perpetrated BY NATURE.This is indeed the way Plinio uses the phrase
elsewhere, noting that we ought to call earthquakes ‘moracles of the eart
rather than crimes of nature’ (NH 2 206 – UT TERRAE MIRACULA POTIUS DICAMU QUAM
SCLEREA NATURAE. See Beagon, p. 29. In other words (pace Taylor and Rackham
Loeb Classical Library translation, I take the genitive NATURAE to be
subjective rather than objective. I have not found any parallels for such an
objective use of a genitive noun dependent upon scelus. In any case, Pliny is
not implying that all sexual desires or practices between males are unnatural:
in this same treatise, significantly called the HISTORIA NAUTRALIS or Natural
Investigations’ he reports the story of a male elephant who fell passionately
in love with a young man from Syractuse as an illustration of the obviously
natural power of love of love (amoris vis) among elephants; likewise, he
reports the story of a gosse who loved a beautiful young man.Plin N H 8 13-4,
10.51More explicitly referring to those men who take pleasure in being
penetrated, the speaker in Juvenal’s second satire riducules menwho have
wilfully abandoned their claim on masculine status by weaking makeup,
participating in women’s religious festivals, and even taking husbands, and
notes with gratitude, that nature does not allow them gto give birth.Juv. 2 139
40. SED MELIUS QUOD NIL ANIMIS IN CORPORI IURIS NATURA INDULGET STERILES
MORTUNTUR. For Further discussion see Appendix 2. The orator Labienus decries
wealthy men who castrate their male prostitutes (EXOLETI, see chapter 2) in
order to render them more suitable for playing the receptice role in
intercourse. These men use their rinces in UNNATURAL WAYS (contra natural), and
the natural standard they they violate is apparently the principle that mature
males both should make use of the PENISES and should be IMPENETRABLE.Sen Contr.
10. 4 17. PRINCIPES VIRI CONTRA NATURAM DIVITIAS SUAS EXERCENT CASTRATORUM
GREGES HABENT EXOLETOS SUOS AD LONGIOREM PATIENTIALM IMPUDICITIAE IDONEI SINT
AMPUTANT. Firmicus Maternus refers to men’s desires to be penetrated as CONTRA
NATURAL (5. 2. 11), and Caelius Aurelianus’s medical wirtings also reveal the
assumption that men’s ‘natural’ sexual function is TO PENETRATE and not to be
penetrated.9 137. NATURALIA VENERIS OFFICIA. Cael. Aurel. Morb. Chron. 4 In
short, nature’s ditactes conveniently accorded with cultural traditions, such
as those discouraging men from seeking to be penetrated, or those deterring
them from engaging in sexual relations with other men’s wives: in a poem that
urges on its male readers the principle that NATURA places a limit of their
desires, Horace remocommends, as implicitly being in line with the requirement
of nature, that men avoid potentially dangerous affaris with married women and
stick to their own slaves, bh male and female.Hor. Sat. 1 2 111. NONNE
CUPIDINIBUS STATUAT NATURA MODUM QUEM … Se chapter 1 for further discussion of
this poem. Cf. Sat. 1. 4. 113-4: NE SEQUERER MOECHAS CONCESSA CUM VENERE UTI
POSEEM. In one of his Episles (122) Seneca provides a lengthy and revealing
discussion of ‘unnatural’ behavours that include a reference to sexual
practices among males. He beings, however, by despairing of ‘those who have
perverted the roles of daytime and nightime, not opening their eyes, weighed down
by the preceding day’s hangover, until night begins its approach. Sen Epist 122
2 SUNT QUI OFFICIA LUCIS NOTISQUE PERVERTERINT NEC ANTE DIDUCANT OCULOS
HESTERNA GRAVES CRAPULA QUAM ADPETERE NOX COEPIT. These people are
objectionably not simply because of their overindulgence in goof and drink but
because they do not respect the proper function of night and day.Comparing them
to the Antipodes, mythincal beings who live n the opposite side of the globe,
he asks. Do you think these people know HOW to live when they don’t even know
WHEN to live? 122.3 HOS TU EXISTIMAS SCIRE QUEMADMODUM VIVENDUM SIT QUI
NESCIUNT QUANDO?and this pervesion of night and say, is, in the end,
‘unnatural’. INTERROGAS QUOMODO HAEC ANIMAO PRAVITAS FIAT AVERSANDI DIEM ET
TOTAM VITAM IN NOCTEM TRANSFERENDI? OMNIA VITA CONTRA NAUTRAM PUGNANT, OMNIA
DEBITUM ORDINEM DESERUNT (Sen Epist. 122.5). He then proceeds to tick off a
serioes of bheaviour that are similarly CONTRA NATURAM. First, people who drink
on an empty stomach ‘live contrary to nature’ Sen. 122 6 NON VIDENTUR TIBI
CONTRA NATURAM VIVERE QUI IEIUNI BIBUNT QUI VINUM RECIPIUNT INANIBUS VENIS ET
AD CIBUM EBRII TRANSEUNT. Young men nowadsays, Seneca continues, go to the
baths before a meal and work up a sewat by drinking heavily; according to them,
only hopelessly philistine hicks (patres familiae rustici … et verae volupatigs
ignari) save their drinking for after the meal.Sen Epist 122 6. ATQUI FREQUENS
HOC ADULESCENTIUM VITIUM EST QUI VIRES EXCOLUNT UT IN IPSO PAENE BALINEI LIMINE
INTER NUDOS BIBANT IMMO POTENT ET SUDOREM QUEM MOVERUNT POTIONIBUS CREBRIS AC
FERVENTIBUS SUBINDE DESTRINGAT POST PRANDIUM AUT CENAM BIBERE VULGARE ETS HOC
PATRIS FAMILIAE RUSTICI FACIUT ET VERA VOLUPTATIS IGNARI. The latter comment,
with its contrast between URBAN AND RUSTIC life, austerity and luxyry , is a
valuable reminder of us. The standard violated by those who drank betweofre
eating was what we would call a cultural norm. But for Seneca they were
violating the dicates of NATURE, abandoning the proper order (debitum ordinem)
of things. This important point bust be borne in mind as we turn to the next
practices that come under Seneca’s fire: NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM
VIVERE QUI OMMUTANT CUM FEMINIS VESTEM? NON VIVUNT CONTRA NAUTRA QUI SPECTANT
UT PUERITIA SPENDEAT TEMPORE ALIENO? QUID FIERI CRUDELIS VEL VISERIOUS POTEST?
NUMQUAM VIR ERIT, UT DIU VIRUM PATI POSSIT? ET CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS
ERIPUISSE DEBUERANT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET (Sen. Epist 122. 7). The
concept of the proper order is very much in evidence here, and here again the
order shows unmistakable signs of cultural influence. Just as those who turn
night into day or drink wine before they eat a meal are engaging in unnatural
activities, so men who wear women’s clothes live contrary to nature – yet what
could be more cultural than the designation of certain kinds of clothing as
appropriate only for men and others as appropriate only for women? Moving on to
his next point, Senceca continues to focus on extermal appearance. Men who attempt
to give the appearance of the boyhood that is in fact no longer theirs also
‘live contrary to nature’. Again the order of things has been disrputed. Boys
should be boys, men should be men. But these particular men want to LOOK like
boys in order to find older male sexual partners to penetrate them. Such is the
thenor of Seneca’s decorous but blunt phrase, ‘so that he may submit to a man
for a long time’ (ut diu virum pati possit’). If we filter out Seneca’s
moralizing overlay, this detail gives us a fascinating fglimpse oat Roman
realities. These MEN scorned by Seneca acted upon the awareness that MEN would
be more likely to find them desirable if their bodies seemed like those of BOYS
(not men): young, smooth, irless. Moreover, the very fact that these men made
the effort suggests that th actual age of the beautiful ‘boys’ we always hear
of may not have mattered to their loveers so much as their youthful APPEARANCE.Cf.
Boswell, p. 29, 81. All of this is very much a matter of CONVENTION, of
CULtURAL traditions concerning the ‘proper order’ of things, but Seneca
insistently pays homage to NATURA.Cf. Winkler, p. 21. “Contrary to nature means
to Senea not ‘outside the order of the kosmos’ but ‘unwilling to conform to the
simplicity of the unadorned life’ and, in the case of sex, ‘going AWOL rom
one’s assigned place in the social hierarchy’”. The importance of this order is
especially clear in the climactic illustrations of those who live ‘contrary to
nature’. These are people who wish to see see roses in winter and employ
artificial means to grow lilies in the cold season; who grow orchards at the
tops of towers and trees under the roofs of their homes (this latter proving
Seneca to a veritable outburst ofm moral indignation)., and those who construct
their bathhouses over the waters of the sea Sen. Epist 122 21 NON VIVUNT CONTRA
NATURAM QUI FUNDAMENTA THERMARUM IN MARI IACIUNT ET DELICATE NATARE IPSI SIBI
NON VIDENTUR NISI CALENTIA STAGNA FLUCT AC TEMPESTATE FERIANTUR. Finally Seneca returns to the example of
unnatural practices that sparked the whole discussion: those who pervert the
function of night and day aengage in the ultimate form of unnatural behaviour (Sen
Epist 122 9 CUM INSTITUERUNT OMNIA CONTRA NATURAE CONSUETUDINEM VELLE NOVISSIME
IN TOTUM AB ILLA DESCISCUNT LUCET SOMNI TEMPUS EST QUIES EST NUNC EXERCEAMUR
NUNC GESTEMUR NUNC PRANDEAMUS. That the practice ofs of growing trees indoors,
of building bathhouses over the sea, and of sleeping by day and partying by
night should be considered unnatural makes some sense in relation to notions of
the ‘proper order’ of things. Plants should e outdoors, buldings should be on
dray land, and people should sleep at night. But that thes practices should be
cited as the most egregious examples of unnatural bheaviour – they constitute
the climax of Seneca’s argument – demontrastes just how wide the gap is between
ancient moralists and their modern counterparts on the question of what is
natural. With regard to mature men who seek to be penetrated by men, the third
of Seneca’s examples of unnatural behaviour, Seneca makes in passing a
surprising remark. CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERAT NON NE AETAS
QUIDEM ERIPIET? 122.7. The clear implication is that a nature man certainly
ought to be safe from ‘indignity’ (here a moralizing euphemism for
penetration), but ultimately the very fact that he is MALE, REGARDLESS OF HIS
AGE, ought to protect him. With with one pointed sentence, then, Seneca is
suggesting that MALENESS IN ITSELF IS IDEALLY INCOMPATIBLE WITH BEING
PENETRATED, and since sexual acts were almost without exception conceptualized
as REQUIRING penetration, this amounts to positing the exclusion of sexual
practices BETWEEN MALES from the ‘proper order’. This is a fairly radical
suggestion FOR A ROAM MAN TO MAKE, and Seneca was no doubt aware of that fact.
He slips the comment quietly into his discussion, makes the point rather subtly
(it makight ake a second reading even to REALISE IT IS THERE), and then instantly
moves on to other, less controversial arguments. FOR as opposed to Seneca’s
suggestion that EVERY MALE, even a boy, should somehow be ‘rescued’ from
‘indignity,’ the usual Roman system of protocols governing men’s sexual
behaviour required the understanding that A BOY is different from A MAN precisely
because they COULD BE penetrated without necessarily forfeiting EVERY CLAIM to
masculine or male status (see especially chapter 5 on this last point). But
Seneca, waxing Stoic, here voices a dissenting opinion, as does the first
century A. D. Stoic philosopher MUSONIUS RUFUS, in one of twhose treatises we
find the remark that sexual practices BETWEEN MALES are ‘against nature’
(‘para-physical’) Muson, Ruf. 86. 10 Lutz para phusin. The remark needs to be
be put in the context of Musonius’s philosophy of nature. According to
Musonious, every createure has its own
TELOS beyond the goal of simply being aalive En a horse would not b e fully
living up to its telos if all it did was to eat, drink, and copulate (106.25-7
Lutz)., while the TELOS or goal of a human being is to live the life or arete
or VIRTUS. Thus, “each one’s nature (phusis) leads him to his particular
virtuous quality (arete), so that it is is a reasonable conclusion that a human
being is living in accordance WITH nature NOT when he lives in pleasure, but
rather when he lives in virtue” 108.1-3 Lutz). Elsewhere he opines that human
nature (phusis – anthropine phusis, natura humana, Hume, Human Nature) is not
aimed at pleasure (hedone, 106.21.3 Lutz). Consequently, luxury (truphe) is to
be avoided in EVERY way, as being the cause of INJUSTICE (126.30-1 Lutz). By
implication, then, eating, drinking, and aopulating are not in themselves evil,
but they can easily become sgns of a life of luxury, and if those activities
aconstitute the goals of our existence, we are FAILING TO FULFIL OUR POTENTIAL
AS A HUMAN BEING, namely, the practice of virtue, or reason, and consequently,
not living IN ACCORDANCE WITH NATURE, but against her (paa phusin). Thus, as
part of a regime of SELF-CONTROL (MALENESS OR MASCULINITY AS SELF-CONTROL, not
addictive behaviour or weakness of the will) Musonius argues that a man should
engage in a sexual practice only within the context of marriage for the purpose
of begetting children. Any other sexual relation, even within marriage should
be avoided. T”Those who do not live licentiously, or who are not evil, must
think that only those sexual practices are justified which are consummated
within marriage and for the creation of children, since these pratcttices are
licit (NOMIMA). But such people must think that those sexual practices which
hunt for mere pleasure are unjust and illicit, even if they take place within
marriage. Of Other forms of intercourse, those committed in moikheia (I e. a
sexual relation with a freeborn woman under another man;s control) are the most
illicit. No more moderate than this is the INTERCOURSE OF MALES WITH MALES,
since it is a DARING ACT CONTRARY TO NATURE. As for those forms of intercourse
with with females apart from moikheia which are not licit (kaTa nomon) all of
these are too shameful, because done on account of a lack of self-control. If
one utside to behave temperately
(TEMPERANTIA, CONTINENTIA) one would not dare to have relations with a
courtesan, nor with a free woman outside of marriage, nor, by Zeus, with one’s
own slave woman (Musonius Rufus, 86.4-14 Lutz). As I argued in chapter 1,
Musonius’s final remark reveals the extent to which the sexual morality that he
is preaching is at odds with mainstream Roman traditions. Nor is his suggestion
that men should keep their hans off prostitutes and their own slaves the only
surprising statement to be found in the treatises attributed to Musonius. He
elsewhere aargues against the obviously widespread practices of giving up for
adoption or even exposing unwanted children (96-97 Lutz), of EATING MEANT (here
he explicitly contrasts himself with the many hoi polloi who live to eat rather
than the other way around (118-18-20 Lutz) or SHAVING THE BEARD (128.4-6 Lutz),
of using wet nurses (42.5-9 Lutz), and most appositely, of allowing husbands
sexual freedoms not granted to wives (96-8 Lutz). Thus his condemnation of
sexual practices between MALES is issued in the context of a condemnation of
ALL SEXUAL PRATICES other than those between husband and wife aimed at
procreation (strictly speaking, vaginal intercourse when the wife is ovulating)
and also in the context of a a suspicion of all luxury oand of pleasures beyond
those relating to the bare necessities of life. Thus he condemns sexual
relations between males as contrary to nature (the implication being that the
two sexes ARE DESIGNED TO UNITE WICH EACH OTHER IN THE CONTEXT OF MARRIAGE),
while sexual relations between malesand female outside of marriage are criticized
as ‘illicit (para-noma) and as signs of lack of self-control. Here Musonius is
obviously manipulating the ancient contrast between law or convention (nomos)
and nature (phusis) and interprestingly procreative relations within marriage
are ultimately given his seal of approval not because they are more ‘natural’
than tother sexual practices, but because they are ‘licit’ or ‘conventional’
(nomima), just as adulterious relations are most ‘illicit’ of unconventional
(paranomotatai). In other words, Musonius invokes the rhetoric of nature only
by way of secondary support.. A male-male relation is no more ‘moderate’ than a
adulterious relationa dn anyway, he adds, they are ‘unnatural’. But a relation
between a man and another man’s wife, while implicitly ‘natural’,is in the end
more ‘illicit’ than a male-male relation. Even for the Stoic Musonious, NATURA
may NOT be the ultimate arbiter. Interestingly, when he describes sexual
practices between males as being against nature, Musonius does not appeal to
animal bheaviour as does Plato in his Laws (836c). Indeed, such an argument
sould have ill-suited Musonius’s argument elsewhere that humans are different
from other animals and should not takem them as a MODEL FOR BHEAVIOUR. Thus he
argues that wise men ill not attack in return if attacked – such revenge is the
province of MERE ANIMALS – 78.26-7 Lutz) – and that, while among animals an act
of copulation suffices to procude offspring, human beings should aim for the
lifelong union that is marriage (88.16-17 Lutz). Finally, there is an important
distinction to observe between Musonius’s remark concerning sexual practices
between males and later Christian fulminations against ‘the unnatural vice’
which came to be a code term for ‘sodomy’. On the one hand, Musonius did not go
so far as to condemn such relations as THE unnatural vice. Indeed, if we think
about the implications of his words, relations between MALES do not even
constitute the ULTIAMTE sexual crime. He declare that ADULTEROUS relations are
‘the most illicit of all’ (paranomotatai) and thus clearly more ‘illicit’ than
relations between males which are howevery ‘equally immoderate’. Furthermore
Musonius’s approach to the problem of sexual behaviour differs from later
Christian moralists in a fundamental respect. As Foucault puts it, according to
Musonius, ‘to withdraw pleasure from this form (sc. Of marriage, to detach
pleasure from the conjugal relation in order to propoeseother ends for it, is
in fact to debase the ESSENTIAL composition of the human being. The defilement
is not in the sexual act itself, but in the ‘debauchery’ that would dissociate
it from marriage, where it has its natural form and its rational purpose” Foucault
p. 170. Cicero ro in a passage from one of this major philosophical works, the Tusculan
disputations, approaches the ascetic stance advocated by Seneca and Musonius
Rufus, although he nowhere makes an explicit commitment to the extreme
suggested by Seneca and preached by Musonius. Speaking in the Tusculan
Disputations of the detrimental effects of erotic passion, Cicero observes that
the works of Greek poets are filled with images of love. Focusing on those who
describe LOVE FOR BOYS (he mentions Alcaeus, Anacreon, and Ibycus), Cicero
notes thain an aside that ‘NATURE HAS GRANTED A GREATER PERMISSIVENESS (maiorem
liicnetial)” to men’s affairs with women. Cic. Tusc. 4. 71. ATQUE UT MULIEBRIS
AMORES OMITTAM QUIVUS MAIOREM LICENTIAL NATURA CONCESSIT QUIS AUT DE GANYMEDI
RAPTU DUBITAT QUID POETAE VELINT AUT NON INTELLEGIT QUID APUD EURIPIDEM ET
LOQUATUR ET CUPIAT LAIUS. The comparative (MAIOREM LICENTIAL is noteworthy.
NATURE has granted ‘greater’, not exclusive license to affais with women than
to affairs with BOYS. The Latter are evidently NOT FORBIDDEN BY NATURE.
Discouraged perhaps, but not outlawed. This is a BEGRUDGING ADMISSION, in
perfect agreement with the tenor of the whole discussion of sexual passion
which had opened thus. ET UT TURPES SUNT QUI ECFERUNT SE LAETITIA TUM CUM
FRUUNTUR VENERIIS VOLUPTATIBUS SIC FLAGITIOSI QUI EAS INFLAMAMATO ANIMO
CONCPISCUNT TOTUS VERO ISTE QUI VOLGO APPELATUR AMOR – NEC HERCULE INVNEIO QUO
NOMINE ALIO POSSIT APPELARI TANTAE
LEVITATIS EST UT NIHIL VIDEAM QUOD PUTEM CONFERENDUM. (Cic. Tusc. 4. 68). These
words disparage sexual passion as a whole – particularly a hot, inflamed desire
(QUI EAST INFLAMMATO ANIMO CONCUSPICUNT) whether indulged in with women or with
boys. NATURA, according to Cicero, makes it easier to indulge in this passion
with women, so that when men DO INDULGE
IN IT WITH BOYS, they show just who DEEPLY THEY HAVE FALLEN VICTIM TO LOVE –
that treacherous and destructive power, ‘te originator of disgraveful behaviour
and inconstanty (FLAGITTI ET LEVITATIS AUCTOREM (4. 68), as G. Williams notes. In
fact, remarkably enough, Cicero later claims that love itself is not natural.
Cic. Tusc. 4 76. If love were natural, everyone would love, they would always
love, and would love the same thing: one person would not be deterred from
loving by a sense of shame, another by rational thought, another by his satiety
– ETENIM SI NAUTRALIS AMOR ESSET ET AMARENT OMNES ET SEMPER AMARENT ET IDEM
AMARENT NEQUE ALIUM PUDOR ALIUM COGITATIO ALIUM SATIETAS DETERRERET. Cicero’s
remark on NATURA and sexual relations with women is in fact fact little more
than a a passing comment. Still, its implications deserve some consideration.
In what whays does NATURE grant ‘greater permisiveness’ to a relation with aa
woma than with a boy? Why does Seneca suggest that men’s MALENESS ought to
preclude them from being PENETRATED, and why does Musonius Rufus condemn ALL
SEXUAL PRACTICES BETWEEN MALES as unnatural? These philosophers’ comments seem
to rest on certain assumptions about the function of sexual organs. Certainly
Seneca emphasixes the notion of the proper order or debitus ordon, according to
which men should not drink wine before eating, grow roses in the winter, build
buildings over the sea, or PENETRATE MALES. In short, some kind of ARGUMENT
FROM DESIGN seems to lruk in the backgrounf of Cicero’s Seneca’s and Musoniu’s
claism. The penis is ‘designed’ to PENETRATE a vagina. TA vagina is deigned to
be penetrated by a penis. Similarly the passage from Phaedrus Fables 4 16
discussed in chapter 5 implies, whitout actually using the word NATURA, that
males who desire to be penetrated (molles mares) and females who desire to
penetrate (tribades) have A FLAWED DESIGN. When Prometheus was assuming these
people’s bodies from CLAY, he attached the genial organs of the opposite sex in
a drunken slip-up. But his more popularizing account only specifies that those
males who DESIRE to be penetrated are anomalous. It does not designate those
men who seek to penetrate other males as unnatural. On this model, a sexual act
in which a master penetrated his UNWILLING MALE slave is NOT UNNATURAL. By contrast, according the
philosophers discussed here (Musonius most expliclty) this act would be
unnatural. But on the whole very few
Roman writers seem to have taken this kind of argument to heart. In general,
ROMAN MEN’S BEHAVIOURAL codes reflect an AWARENESS that the PENIS IS SUITED for
purposes OTHER than penetrating avagina, and that the vagina is NOT the only
organ suited for being penetrated. Such is the implication of a witty comment
in an epigram of Martial’s addressed to a man who, instead of doing the USUAL
WITHIN with his BOY and analyy penetrating him, has been STIMULATING THIS
GENITALS. This is objectionable because it will speed up the process of his
maturation and thus hasten THE ADVENT OF HIS BEARD (11.22.1-8). Martial tries
to talk some sense into his friend and the epigram ends with an APPEAL TO
NATURE. DIVISIT NATURA MAREM PARS UNA PUELLIS UNA VIRIS GENITA EST UTERE PARTE
TUA Mart 1 22.9-10. The comment is of course a witticigm. Note the logical
contradiction that this playful invocation of nature creates. If the penis is
designed by nature for girls and the anus for mmen,how can a man use a boy’s
anus in the way nature intended (i. e. to be penetrated by men) and at the same
time use his own penis in the way nature intended (i. e. by penetrating a girl?
See chapters 1 and 5 for further fsucssion of this epigram together with
Martial’s humorous invocation of the paradigm of nature with regard to
masturbation. but if the humour was to succeed, the notion that a boy’s anus is
designed by nature for a man to penetrate cannot have seemed outrageous to
Martial’s readership. After all, the rhetorical goal of the epigram is to steer
tha man onto the path of right behaviour, the path which Martial’s won persona,
dutifully, even proudly, followed. This sort of comment – rather than the
passing remarks of such philosophers as Cicero, Seneca and Musonius Rufus,
reflects the mainstreat Roman understanding of what constitutes NORMATIVE and
NATURAL sexual beavhiour for a boy and for a man. It is significant, moreover,
that neither CCicero nor Seneca nor Musonius Rufus nor any other survinving
Roman text, philosophical or not, argues that a MAN’s *DESIRE* to penetrate a
boy is ‘contrary to nature’. Musonius, for one, speaks ony of the sexual act
(SUMPLOKAI). We return to the Epicurean perspective offered by Lucretius cited
in chapter i. SIC IGITUR VENERIS QUI TELIS ACCIPIT ICTUS SIVE PUER MEMBRIS
MULIEBRIBUS HUNC IACULATUR SEU MULIEUR TOTO IACTANS E CORPORE AMOREM UNDE
FERITUR EO TENDIT GESTITQUE COIR ET IACERE UMOREM IN CORPUS DE CORPRE DUCTUM.
Lucr. 4. 1052-6. This are lines from a poem dedicated to teaching its Roman
readers about ‘the nature of things’ (de rerum natura 1.25). cf. Boswell p. 149
“Lucretius’s De rerum natura dealt with the whole of ‘natura’ but it was the
‘rerum’ of things – which suggested to Latin readers what modern speakers mean
by ‘nature’”. Obviously the SUSCEPTIBILITY OF MEN to THE ALLURE of boys and
women is a PART OF THE NATURAL ORDER for Lucretius. The beams of atomic particles
that EMANATE from the bodies of boys and women and attract men to them are an
integral part of the nature of things. It is the mentalitly evident in such
diverse textsa Lucretius’s poetic treatise On the nature of Things, Martial’s
epigrams, and graffiti scrawled on ancient walls that we need to keep in mind
when we evaluate the comments of Musonius Rufus, Seneca, and Cicero. These are
the words of three philosophers. Cicero expounding on the danger s of love,
Senceca inveighing against the corrputions of the world around him, and
Musonius arguing that men should engage only in certain kind of sexual
relations and only with their wives, the goal being the production of
legitimate offspring and not the pursuit of pleasure. These pronouncements tell
u something about the world in which these three philosophers who made them
lived, and about what men and women in that world were actually doing. Seneca
for example is hardly fulminating about imaginary fices) but they tells us even
more about Cicero, Seneca, and Musoiuns, and their own philosophical
allegiances We have every reason to believe that comments like their rpersented
a minoriy opinion. Indeed, the men AGAINST whom Musonius argues, who believed
that A MASTER has absolute power to do ANYTHING HE WANTS to his slave, is
precisel that man shoes VOICE dominated the public discourse on sexual
practice. Moreover, as Winkler (p. 21) trenchangly observers, Seneca’s
condemnation of such ‘unnatural’ behaviour as growing hothouse flowers or
throwing nightime parties, ‘though articulated as universal, is OBVIOUSLY
DIRECTED AT A VERY SMALL AND WEALTHY ELITE – THOSE WHO CAN AFFORD THE SORT OF
LUXURIES Seneca wants ‘ALL MANKIND’ to do without”, It is telling, too, that
Cicero himself never makes this kind of APPEAL TO NATURA in the SEXUAL
INVECTIVE sscattered throughout the speeches he delivered in the public arenas
of the courtroom, Senate, or popular assembly (see chapter 5), and that the argument
appears NOWEHERE ELSE IN the considerable corpus of Seneca’s moral treatises.
Likewise, it is worth noting that Musonius Rufus’s who makes the most extreme
case, not only wrote his treatise in GREEK rather than Latin, as if to
underscore its distance from he everyday beliefs and practices of Romans, but
as a philosopher omitted to stoicis in a way that Cicero and and Seneca are
not. As Haexter reminds us, Cicero proposes manydifferent rhetorical and
philosophical positions in his speeches, letters, and dialogues, and Seneca’s
epistles to Lucilius offer a tentative and experimental mixture of Stoicism and
other philosophical schools (many of his earlier letters end with quotations
from Epicurus, for example). In any case, Boswell, cp. 130 citing ancient
sources claiming that the very founder of stoicism, Zeno, engaged in sexual
practices with males (perhaps even exclusively) tnote that many ancient stoics
actually seem to have considered the question of sexual praticess between males
to e ETHICALLY NEUTRAL. Finally, It is worth noting that both Seneca and Cicero
were thought not to have practiced what they prached. In a discussion of how
Seneca’s behaviour often stood in contracition to his own teachings, the
historian DIO CASSIUS observes that although he married well, Seneca also
“takes pleasure in older lads, and teachers Nero do to the same thing, too”.
Dio 61 10 4. Tas te aselgeias has praton gamon te epiphanestaton egme kai
meikarious exorois exaire kai tauto kai ton Nerona poietin edidaxe. The
historian goes on to insutate that Seneca fellated his partners, speculating on
the reason why refused to kiss Nero. One might imagine, Dio notes, that this
was because he was gisuted by Nero’s penchant
for oral sex. But that makes no sense given Seneca’s own relations with his
boyfriends (61 10 5 o gar toi monon an
tis hupopteuseien hoti ouk ethele toiouto stoma philein elegxketai ek ton
paidikon autou pseudos on). The younger
Pliny (Epist. 7.4) informs us that Cicero addresses a love poem to his faithful
slave and companion Tiro. Of course neither of these pieces of information
tells us anything about Cicero’s or Seneca’s actual experiences. Cicero’s poem
could have been a literary game and the stories a out Seneca that constituted
Dio’s source may well have been unfounded gossip (For Cicero and Tiro, see
McDermott and Richlin. P. 223, Canatarella p. 103 assumes that they actually
ENJOYED A sexual relationship)). On the other hand, is it not impossible that
Cicero actually DID experience DESIRE for Tiro and that Seneca DID enjoy the
company of MATURE MALE SEXUAL PARTNERS. And abovre all it is important to
recognize that later generations of Romans (the younger Pliny and Dio) were
willing to IMAGINE THOSE THINGS HAPPENING. Dio’s gossipy remarks and Pliny’s
comments on Cicero remind us of the
cultural context in which a philosopher’s allusion to NATURA must be placed. ( Paolo Casini. Keywords: naturismo, naturalismo,
natura, nazione, patto sociale, la legge naturale, l’uomo, contra natura. “antica
sapienza italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il
patto sociale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Casotti: l’implicatura
conversazionale del volere – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my
master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates
teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to
systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’,
which of course reminds me of my explorations on the multiplicity of being in
Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb
with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning
‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto
Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica
della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina
gentiliana dell'attualismo. Dopo aver
aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un
rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale
in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da
lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino.
Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni personali, unite all'esigenza di
approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera
piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire
all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a
Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia”
dell'aristotelismo aquinista. Egli
avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della
«lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta
all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto
tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa dell'attualismo
gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità, concependolo
piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita, incentrato su
una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che consente il
passaggio dalla potenza all'atto. Fonda
la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna, rinominata in
Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua filosofia, che
vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come disciplina” -- sia da un
aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo basato sulla
sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare alle difficoltà
del contesto. Altre opere: “La concezione
idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia,
Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze,
Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini,
Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee
pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro.
Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino.
Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia,
La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue
basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia
generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La
pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La
Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e
l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La
Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra C. e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia
nel pensiero di C., «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e
Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa,
«Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni», Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un
Fascio di Educazione Nazionale, in « L ' Educazione Nazionale », L ' Idea Nazionale.
vedere C., Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola », 1920, nn.
1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli insegnanti di
ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la... Sullo stesso
fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale riconosceva
l'opportunità di abbandonare... Casotti Mario, La nuova pedagogia e i
compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923. Mazzoni Elda, L '
idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola, Sandron, Palermo,
Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A tutee of
Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was called to
teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist scholars and
produced works on education with a distinct orientation. He is particularly
remembered as the founder and director of the review Pedagogia e vita, a
journal that took on new importance in the postwar years. A spiritualist who
came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer in
neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a conversion,
and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced critiques of
idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began a systematic
study of divided into three parts: teleology (the aim or end); anthropology
(study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINO Saggi di
filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo,
con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di
noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme,
il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il
pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima
unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia
di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non
è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si
vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle
quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato
abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di
pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio
discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più
fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia
fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia
di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125
Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al
mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare
ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella
maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri
nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un
periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e
soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con
sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che
doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San
Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo
le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non
fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o
non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non
si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E'
cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso
giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale
osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo
povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia
dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere
rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a
cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una
realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che
discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e
toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e
censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano
prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor
fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi.
Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.
Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active,
qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa
l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima,
che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e
superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo
riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di
autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo
naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo
denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San
Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua
critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va
meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità,
di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école
active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al
Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole
parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli
«attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S.
Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a
mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il
termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a
Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire,
nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro:
nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate,
giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il
cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio
fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso
d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici
accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di
risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici
s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in
questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia
cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato
verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e
generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non
sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per
arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una
conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore
Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di
rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari vorrebbero,
la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato morente, ma è
la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di speranze e di
promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero di S. Tommaso e, in
genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e l'originalità
della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume Maestro e
Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle scuole
medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia cattolica
si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo illumina delle
figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione: basta
menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e pedagogista,
si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della pedagogia
cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia conoscere al
pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono nell'illustrare le
più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche questa volta i
figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli di Dio. Ma non
sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio
1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi che si raccolgono in
questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in
poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti:
L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei
cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della
pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica
(Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino
Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza temer di cadere
nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso ai grandi
uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto
l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche
nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno
che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al
quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a
testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla
fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta.
Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto
dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine
a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è
anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e
delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più
urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i
metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere
senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso
permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di
discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e
didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
«De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con
tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?»
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile
l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che
cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono
intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare
dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto
malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto
dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle
particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella
pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione
stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e
caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile,
davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione
medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un soggetto
che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede determinate
cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste stesse
cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e lo
scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro
che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in
virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed
attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De
Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa
impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e
scaltrite filosofie dell'educazione. * * * Posto così, il problema dell'
educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche
pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il
formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno
sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una
contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine
«trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi
a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se
non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico
del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale,
allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o
cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò
che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la
scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel
significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto
interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto
impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è
impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia
spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato
problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la
difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due
soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa,
e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di
ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo
meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la
maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su
salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza
(mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava
interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a
dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello
stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando,
cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al
discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più
tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina
dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè,
che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione
filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che
immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo
via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al
soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la
sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall'
insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir
meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua
essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che
potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne
aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto
diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una
profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma
inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da
Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella
interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita
attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in
un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava
anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto
soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere
subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e
verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a
ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente
scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De
Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto
conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un
modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa,
come non si arresterà poi l'indagine di Tommaso, ai particolari problemi della
pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui
s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S.
Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è
possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo
scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende
in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire
tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in
genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o
scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche
ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale,
se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette
la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente
critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente
l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul
linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può
rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva
(spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una
esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica
realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col
dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della
scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta,
tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più
concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa,
per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha
sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od
«oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento
molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non
ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi
accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia
il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia
deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere
che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare
l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché,
effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non
sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete
la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un
segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S.
agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura
del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno
appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo
già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo,
allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se
non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La
parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente,
proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di
copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non
col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i
copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la
prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in
relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri,
per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i
segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere
i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben
lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può
significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che
vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la
possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro
allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere
veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili,
invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della
mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono
date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo
attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose
intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è
questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto
abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio;
chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre,
quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà»
[Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera
e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde
direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo
notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica,
dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana,
sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria
della reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro
al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra
soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto
l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può
insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità,
ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il
fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto
l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la
possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha
preso le mosse, dei rapporti fra maestro e scolaro. Nonostante gli spunti
geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e tormentose
le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci desiderare
con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è infatti il
grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare,
dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua
pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non le
offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del
problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III
L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il
problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o,
meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a
noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora,
il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare
l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso
le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di
teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più
recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del
Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di
alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci
permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo
il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il
che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che
passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De
unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto
quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le
tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di
polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente
insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è
ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi
problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da
augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla
luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior
esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella
questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella
questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell'
altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra
maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro
uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale
quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più
probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina
averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia
filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a
questa domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità
dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine
all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può
essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo
che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo
come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con
intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina
agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo
già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la
tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella
incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità,
non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie
incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo
benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e
che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi
fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa
essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem
numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si
cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso
Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...»
Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad
sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi
contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo,
ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che
questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema
della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla
polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate,
qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo
intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto
del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel
soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto
unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli
corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che
illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le
differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale
sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può
esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del
pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto
che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima
sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in
quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno
del corpo. Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale
l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze
d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte,
ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più
evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono
trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema
dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è
uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due
soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma
allora ecco risolta quella tal difficoltà della «comunicazione» fra
maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più
bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che
l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso
lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del
maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo
scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa
theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella
scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto
unico. Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il
peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano,
anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera
rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come
Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché
quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già,
filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile
riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di
infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria
averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa l'autodidattica,
che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte energicamente sentire, nella
storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi riceve scienza dal maestro o,
comunque, dal di fuori, ma solo trae da se stesso, o da quell'unico intelletto
che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna. Sì che, in sostanza,
averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono col formare una sola
dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà già sollevate da
Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi, quel
completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana
attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio:
il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa
trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto
appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un
soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo,
la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino
all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute
medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della
pedagogia moderna. Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un
significato ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro
gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e
negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come
Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano,
aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di
se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà
umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e
all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di
Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non
ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo
punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto
separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari
attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono
sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di
Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente
diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e
cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si sono dati
alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa
prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente
le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il
mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé
indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per
quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare,
l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente
o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei
commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante
posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno
ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio
naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro di S.
Tommaso. IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni
che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina
averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria
dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie
metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1,
l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa
i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza.
Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e
perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa
da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi
nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce
dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et
secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero
aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse
habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc
quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove
bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale
appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a
differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e
molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si
può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro,
non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo
all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire,
s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro
individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non
sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la
scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per
natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel
fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo
che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico;
mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il
maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio
della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e
ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla
luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come
adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua
chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura
impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio
di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le
quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti particolari, e
debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza,
almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo
modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono
pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo
e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa
formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle
singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e
ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè,
di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero,
che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando
l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei
fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione
che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la chiama S.
Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a
questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione del
vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere
riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio
o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto
[S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti bene, che
non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i soggetti
particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, «immanente». Poiché
la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di contiguità, ma
di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede appunto se sia
possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei singoli soggetti
particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è ora il caso
di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla teoria
dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare dell'averroismo
sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi argomenti in
proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama alla quest.
117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria averroistica porta
l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie, ben più moderne e
scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel
1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da
una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta
soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro:
identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi
mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e
sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice
che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza -
numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma
che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella
che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum «...docens non dicitur
transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia
quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria
dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema
della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti
pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che
se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in
rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non
è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in
generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa
prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è
Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui
che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato,
considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio,
e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di
idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il
problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che
le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e
da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti
individuali. Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per
criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica,
se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri
credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme,
scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e
venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali:
come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam
vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita,
nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem
manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu
in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della
Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella
secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che
la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod
agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit
materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q.
117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è
efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di
questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia
concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non
consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin
dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè
precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come
sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica. La
dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la
dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto
contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una
idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un
medesimo idealismo. E, infatti, quanto all'insegnamento, che differenza
ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di
stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la
luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e
la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che
il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che
già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe
aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno
che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi
di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa
scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza
oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più
chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica.
Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso
averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi
fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la
pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne
è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul
magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal
presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le
difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce,
quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo
scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla
dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale
contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era
proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le
conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce,
non capirà nemmeno i segni. A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro
il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza,
che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che
si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro
in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo
senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé
non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni
concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero
(l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale
offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri
concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi
su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo»
simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio
«apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e
con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più
tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui,
quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con
Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione
fra «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso,
che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due
teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso
completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione
che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si
vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività
dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam
scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare
immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o
le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni
scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti
primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro
concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe
formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note
musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia
escogitato o sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette
note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente,
esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto
vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta
tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in
atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata
o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi,
poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro
sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il
maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in
potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in
quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana:
essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività
sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti
i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che
percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente
nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle
che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre
che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per
mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De
Mag. Art. I (ad XII. mum) «...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia
consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus
implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per
officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando
»]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi,
mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e
immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed
è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella
scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi
mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno
cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse,
non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia
concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di
S. Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato
origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente
contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della
conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei
primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività
dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto
loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è
risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone,
più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le
«categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli
idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè,
tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse
così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l'
«io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le
altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si
riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione
assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i «principi
primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è
dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di
tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni
e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale. Appunto
per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget...
motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio
perché il processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le
conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità meccanica e
fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi debba
conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve
fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto
angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e che con un
solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la
verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto
le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora,
proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il
discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non
avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni
e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra
l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem
principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem
collativam » [S. Theol. loc. cit]. Ma il soggetto pensante non ha in sé
come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha
anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i
primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel
nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto
solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano
essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai
dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere»,
ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di
«vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione
dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe
caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale»,
«vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così: «Cum
autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia,
quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam
acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i
primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre
ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente
umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari
nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato
la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco
un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto,
delle nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa
saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua
osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le
cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales,
quas tamen ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei
aliqua sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex
quibus intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae».
S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del
maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e
strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile,
sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur
senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li
adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo
la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che
da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume
intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa
facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per
intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa
seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la
potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause
seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un
effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche
cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum
quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha
conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser
cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza
di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi
sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto
l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e
platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico,
o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli
agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale.
Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del
maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva
d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore:
nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. Ma, e quel
tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella
tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni
sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto? Per rispondere a
queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni
tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti
all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal
maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio
di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare,
in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto
materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e
identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una?
Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del
maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè,
le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per
prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma
sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali
persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una
identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha
punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto
materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa
formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria
scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del
maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che
siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente
identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno
nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il
processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della
conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi
l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza
senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta.
Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo
scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col
quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire
uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di
numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato
non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo,
il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che
qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo
stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che
aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale:
l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir
l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il
maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali.
Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero
che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto
che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et
per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è
ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica
alla natura. «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo
sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la
natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della scienza, che,
ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello
stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si
cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la somiglianza
fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento
come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o
si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema
della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura,
possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche
solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua?
Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento
principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e
siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che
S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il
carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della
scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia
tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla,
«sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità
degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della
sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il
«fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed
immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il
fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle
sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già
l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò,
con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della
sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge
fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una
«forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la
dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in
generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati
oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione
dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la
conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b,
c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della
dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi?
Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo
b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste
percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione.
E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a
sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della
dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo
processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli
corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti
videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione
universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione
esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma
d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma
bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono.
Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un
trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il
calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili,
all'udito o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili quanto lo è
appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per
poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto
formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della
dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere
materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente
del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto
un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge
scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o
concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a
dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire
dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi»
(udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la
legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e
della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e
cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non
è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della
dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali
il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della
gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così,
patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi
regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne
ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È
questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia
delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in
moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né,
tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere,
all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei
vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da
Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza
- abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca
tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono
variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S.
Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente
come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché
è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o
viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le
cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto
riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui,
poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che
non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni
delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba
doctoris audita, vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam
in intellectu sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus
intentiones intelligibiles accipit; quamvis verba doctoris propinquius se
habeant ad causandum scientiam quam sensibilia extra animam existentia,
inquantum sunt signa intelligibilium intentionum "]. E sappiamo già che
cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto
indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo
visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte
dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o "intenzioni"
intelligibili; le quali invece non sono presenti negli oggetti esterni e nelle
sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere senz'altro dalle parole del
maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle cose e dalle sensazioni:
non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un complesso e delicato
procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in ultima analisi,
incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità che l'insegnante
vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione
di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che
facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può
sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli
elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto
fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa
incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla
percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può
metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere
l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri
oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere
l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina,
l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore. È risolto,
così, quel tal problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed
è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima
vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in
genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per
operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere
affatto intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro
medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si
stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume
intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la
verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo
soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i
primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il
raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il
maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo
sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte continuamente
negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è già un'opera
creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale
e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e
inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla
creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo
qual è il maestro un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col
negargli ogni e qualsiasi attività od operazione. L'arte
dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura
stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe
una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo
assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova
nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e
spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo paradossale
in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati
ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un
fatto evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il
centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di
se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno,
siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde
senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci,
intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua
dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha
fondato la dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene
attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente
simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol
dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se
non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i
primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla
esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad
accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme
che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto,
prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione. È
questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla
cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori.
Supposta, da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione
della esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si
oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento
e a che chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente
illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura,
quando, cioè, la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose
ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce,
per evitar confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire:
inventio. Ma se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza»,
è poi anche «insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto.
L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che
suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora,
un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono averla
nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una
materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di
colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e
ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del
maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può
esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché
dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme
intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di
formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e
operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della
gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi
che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non
insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il
che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei
bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di
parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi
l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina)
per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene
due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di
estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è
caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e
l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale
acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno
per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e
propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto
l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per
potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che
l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non
accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)].
Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una
malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non
contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce
la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio
d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è
necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da
essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente
sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade
soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in
sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà
poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio
è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la
causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile,
contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili
come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al
suo essere di scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene -
un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al
contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio
in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò,
attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del
semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione
che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria
a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e
giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no
non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste
precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua
cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina
sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più
sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo,
anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver
scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E,
dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere
il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più
malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore
difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza
mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in
quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la
scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento»
[De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per
inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur
habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior
per doctrinam»]. Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente»,
sia solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così
importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la
differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe
filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è
la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a
questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della
filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa,
s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si
crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la
filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato,
ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre
facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo genere:
un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è,
insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di
completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la
filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero
nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e
futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come
atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser
causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo
può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il
seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra
pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di
un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il
supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero
in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come
supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla
«possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere
già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta
completa. Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il
materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in
fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è
nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non
essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro,
senza mistura di potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente
realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà
stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo
d'ogni cosa. Ed ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio,
fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si
capisce che per coloro i quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la
doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal
nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso
e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi
possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in
atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella
materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non
esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve
necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes
aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte
le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e
proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha
un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza:
una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più
vicina a quella delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il
genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo
opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma
sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra
irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello
scolaro. Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della presente
trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De Magistro, che,
nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad
ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta
una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato,
e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare
il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano,
1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di
S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione
della scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica
dell'età in cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più
feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come
doctrina piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non
debba avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo
superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per
ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume
intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze
d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata
dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e
a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i
secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della
scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere
sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello
Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in
luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio
medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione,
oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche
per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e
dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto
l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De
Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi
della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e
nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla
quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e
possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della
Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della
Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare,
consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà che questo
metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la
libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente
un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come
l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto
impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata sull'equivoco.
Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel conoscere il vero, e non nel
conoscere il falso; e, perciò colui che riceve dottrina da un maestro, se
questa dottrina è vera, non riceve una violazione, anzi un incremento della
propria attività e personalità, così come, viceversa, colui che inventa o
scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria violazione e
diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che riceve
scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma libertà
intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e, perciò, la
dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più sapiente di
tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata. Schiavo
in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra teologia, era
il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero che tutto
osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui vastità e
organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi dall'anemica
povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare le
intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna
cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi
come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per
essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
«medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa,
oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro
caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di
una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa
come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che s'accosta
tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via nelle virtù
dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e, viceversa,
reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della lussuria.
Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma soprannaturale
nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la pazienza, la
temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi generale alla
natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro possibilità
sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente costituita.
Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente insite
nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti, mediante
un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un uomo può
esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì la
misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le
specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il
catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte:
avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e
soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di
più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e
commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del
Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole
forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione
divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli,
e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi
scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione
l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i
due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o
entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di
educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella
famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le
arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che
la ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo
caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo,
ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di
nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della
natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un
solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I
quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua
della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo
medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la
preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere
umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica
legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo,
verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo,
s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro
d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora
conosciuto. Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della
educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure
soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto
puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di
attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione
naturale. II Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di
queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise
come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle
quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non
potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad
affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione
sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando
non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le
permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità.
Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani
come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata,
appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e
nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle,
l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità
e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come
effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le
piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la
natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto
varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i
maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non
si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche
nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità
del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi,
libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa
legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi
naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la
pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia
del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui
attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato
come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento
del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando «errori»
la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo
come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così,
invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté
mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue
Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare
intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi,
giustamente orgogliosi. Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo,
una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé
delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto
spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non
è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie
moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario
all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha
nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento:
afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura
umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a
riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al
bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e
l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il
bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese
o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo
bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una
educazione naturale dell'uomo, ma respinge come assurda e satireggia come
ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un
elemento soprannaturale nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due
cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione
naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi,
sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti
gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli
uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene,
almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua
esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui
tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra.
Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo
ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità,
che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo
all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere
umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è
facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente,
o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità
e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità
delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé,
esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la
delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante
come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si
confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come
lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato
in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da
lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato
i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione
dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo
inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto
dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva
affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa
possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal
genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole
differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione
effettiva. Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce,
almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza
del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei
santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini,
capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è
troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili
l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non
dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni
dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine
pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la
corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure;
dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la
serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito
incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere
questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più
modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o
gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non
sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la
competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le
cantonate! Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di
maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le
elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti
onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi
fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole
vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe
colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i pedagogisti
e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si
potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da tutte le cure e
cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri, e tirato
su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse venuto
fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse citare che
un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione naturale,
dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a realizzare
i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella potenzialità,
quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana. E che importa
conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima? In quell'anima
era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un individuo, ma il
pensiero e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel
volere sono appunto la natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si
presumeva di fatto educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale
natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo,
chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata;
come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato.
IV Finora abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni
particolari e tecniche di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a
confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il problema
dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso, dell'istruire? Il
maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel loro naturale
veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente
dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua
fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se
il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la
lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva
imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli
malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e
per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può ancora
servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la
lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno
se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle
sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando, sventuratamente, così non
fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è
sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e
dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni,
appunti, riassunti e così via. Ebbene, la storia della pedagogia,
specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo
semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per
istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola,
infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa
trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e
chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto
interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro»
che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso
all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza
la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito:
procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea
sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo»
che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel
prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della
sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si
rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole»
ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere
nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi,
quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione
dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di
un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri
geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere scolastico»
è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo
a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione
scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni
istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi
privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta
spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni
e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per
ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio
scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare
per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità
pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon
andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano
messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui
l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori
possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi;
supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o
limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità
sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo
conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà
che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un
Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i
più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti
dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un
altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno,
falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita
risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da
circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in
fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i
sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più
ideali e favorevoli condizioni. V Questo, per l'istruzione. Che cosa
bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere,
formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza,
che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro
l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura
umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta
insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per
conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e
atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al
sacrificio, generosi verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà
non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà
dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle
stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già
difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano
ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non
dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti
della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole
che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una
vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando
ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i
precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo
desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non
basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica
una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che
non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza
pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti,
esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati
moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella
educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti
predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la
virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo
necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta
costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo
dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che
l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per
imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee
scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari. Ma
questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad
organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne,
tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i
muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più
specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio
della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria
pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle
conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per
converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia
esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale
teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei
casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che
il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle
piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e
puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare
per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si
tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni,
delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina?
VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare,
emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona scuola,
e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze imponderabili
che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi elementi, allora
ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato, quanta, poniamo, di
essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un grande poeta. Con
la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo senza ricchezze,
senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non può vivere,
intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e ragionevole, senza
adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche essenziali della sua
natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo senso, per poter
riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo d'essere più
universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure, nonostante tali
scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto, meravigliarci non
che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di produrre, come
dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi superuomini,
sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione mantiene,
innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non
disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la
compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e
intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a
un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in
poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla
madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un
selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro
se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un
dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a
camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e
dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi
progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di
peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai
abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in
quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe
giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo
fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi
è che realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose,
l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la
razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed
onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle
loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue
istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono
ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza
sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo
della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire
nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro
pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore
alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la
storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde
nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si
possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così
perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari
è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto
ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi
è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la
ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del
mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro
singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi
oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col
fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla.
L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla
probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante
possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a
caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non
riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità
sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed
intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio
miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo,
talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le
nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe
temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle
scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano
in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio.
Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera
educativa, fra possibilità e realtà. La pedagogia e la filosofia debbono
fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale
mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia
con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti
morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con
una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione
della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che
alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono
garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza
ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine
puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo,
irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente
necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione
naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione
intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione,
necessario di una necessità relativa e morale: utile nello stesso senso
in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una
sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba
indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe
accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto,
arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la
forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La
natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente
educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso.
Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle
passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono
tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare
ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono
macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata
quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti
i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di
un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i
maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo,
possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che
tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i
suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il
pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di
Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la
corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato,
nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per
l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “
Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga
presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio
rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia
d'oggi.) Domando scusa se sono costretto a incominciare con
l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la
scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai
banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle
persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da
quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali
disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure
che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di
esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza
accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si
va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed
intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa
propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da
noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser
proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone,
ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella
pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in
primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica
scolastica. Ad esempio, per restare nell'ambito di quel che dicevamo poco
prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od
elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la
cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della
scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull'
imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo
ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi
un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo
trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
— forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura
decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili
moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente
pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli
individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per
propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si
contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo
troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire,
ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti
pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo
imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che
è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori
spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio
d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più
svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a
finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti,
leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe
comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta
estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la
proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica
neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non
vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della
riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si
faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto
naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno
agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale
che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi
sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico
l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio
alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo
preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero,
che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere
solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in
Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali
nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo
stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il
necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render
grazie alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è
formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto,
essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere
domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto
dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno offerto
alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo gravata
dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a ieri, una
nuova scuola universitaria? Problema difficile certo, e tale da render
pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e
del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è
argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo
nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo
quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione
ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con
sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita.
Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi,
un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo
visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in
materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha
infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno
come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le
bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha
trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare
che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra
cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto
Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo
sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la
cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già
compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia
perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in
sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole
ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e
gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole
elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare
che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione
del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici
non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano
ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar
giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad
esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde
non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi,
a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che
ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel
senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori
dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o
della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione,
senza un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si
riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola
nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta
permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si
riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi
misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni
vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica
di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale»,
ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili
europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o
l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e
difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il
bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina
spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari,
e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le
sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica,
e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e
di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con
passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli
anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o
iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad
apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca
d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei
propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo
ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra
nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe,
forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti
menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni
vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina
«romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in
altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati,
avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime
lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non
fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e
l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri
accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una
cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione
scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro
pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare
non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E
quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel
miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se
non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il
maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle
agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi
intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con
mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione
intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi
anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione
politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato
che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del
raccoglimento e della meditazione, «va a divertirsi» in un modo più o
meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle,
ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè,
del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo,
l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del
lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio
«moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il
pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più
sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo
duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica
gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità
simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale
dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono
pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol
lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di
sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami
del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le
chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più
massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al
volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche,
agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere
qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il
principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del
manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon
pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo
accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi
dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il
«fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un
altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che
sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non
avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi
dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché
degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran
parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il
vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante
volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la
settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra,
fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea
l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri
di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo
alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri
di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto
il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i
signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una
pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze,
degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e
finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non
sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La gravità della situazione
che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale
siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi,
future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le
migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del
nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa
incultura, dalle dure necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale
delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo
imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la
guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento
incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo
stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una
cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi
dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il
libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del
circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto
quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel
sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del
mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano
fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il
mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a
primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando
intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile
lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del
sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte
le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa
farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che
ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere
nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle —
sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un
fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un
più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa
grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che
ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a
questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima
comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre.
Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e
delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili
valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel
contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo
la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema
d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri
pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che tutti
debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle
favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni
preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete,
è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani
generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se
aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho
cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia,
essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello
alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi
annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura,
l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre
migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si
offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza
italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il
nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo
marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la
parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è
parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un
altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema
pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale,
noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui
si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire
d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia
scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini
e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto
e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e
degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune
discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro
funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie,
alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora,
secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio,
miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato.
Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri
e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi
tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la
cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe
sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e
greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica
formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre
medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le
vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato...
Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella
scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella
scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie,
disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man
mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali
deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli
uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana
elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario
come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica,
l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica.
Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge
sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro
l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere
classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza,
daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e
Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da
riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai
positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di
scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato
l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni
civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone,
attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle
letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque
risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la
cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo
scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un
nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia
idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il
medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario.
Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica
che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e
delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria,
superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo
dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo
contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un
Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi
metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera
piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento
“ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare
chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi,
onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai
tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare
i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta
è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il
realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul
“ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con
cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie
d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva
consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse
sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere
fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto
questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il
neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver
rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma,
viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar
tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi
naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come
“uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli
ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad
una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura
“egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo
spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso
contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso
l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò
egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque,
la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e
della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve
affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista?
No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni
pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento
dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta,
limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con
dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti
che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà
superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando
guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei,
essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il
caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio,
tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il più
possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica è
un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna in
sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del realismo,
cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre insieme,
saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica prerogativa dello
spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est necesse”: quella di
ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite per tendere sempre
più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si
consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia,
al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno
avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di
queste immagini v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura
s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi,
l'orientamento di una cultura non può non essere visibile anche in ogni sua
minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il
circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così
i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste
in contrario, per la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un
medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia
innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano
esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata categoria ideale.
Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni
oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi
indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma
come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si
perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e
imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco
perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la
grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la
vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla
pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore
e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito
cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al
realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi
di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice.
Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di
intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio
lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza,
debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta
d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica l'essenza
di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi, la
ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie
passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi al
terribile problema: «che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche
volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?»
Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e
che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale
ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto
pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno
bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la
libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il
nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso
tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di
comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno
una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo
che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro
col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del
neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il
problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno
non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e
della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la
maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se,
viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual
criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che
tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco
lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e
all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni
moderne. Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà
pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità
è superiore alla scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori
spirituali non si attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra
qualsiasi forma di lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione
di accettar dei doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più
l'attività che esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno
da essa possiamo aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella
perfezione di sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post
me venire abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle
comodità, al lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi
pagani: occorre rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso
interiore che è la gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio”
antico trovava compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il
paganesimo aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine
la più alta attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole
assurdo per la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si
proporranno per fine le attività, socialmente più basse, servili,
dispregiate, che non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma
chiederanno al mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le
piaghe del lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non
inutile tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da
realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo
numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale
sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio
della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare
colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che
è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben
sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni,
interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior
ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un
cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei
cieli. Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il
Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo
pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col
quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e
fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la
tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio
dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo,
pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali
consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo
che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando
l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante
pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto
filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente
intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato,
direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di
avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate
dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte
d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio.
Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere
aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre
migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere
per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio:
siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo
propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini
naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è
da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale
dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa
distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state
già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da
meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione
della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il
presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro
manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione
intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché
cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima
empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione della libertà
umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto
del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non
avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da
dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che
sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni
altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza
del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni
fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la
brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita
irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe
esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti
“divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati
alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo,
con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta
della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e
suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe
arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i
grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la
prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato
alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti architettonici,
pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere.
Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale
di una croce, ai più minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i
costruttori antichi avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture
che adornano le pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede
che il sacerdote commenta ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra
mirabile creazione che è il canto liturgico, nel quale l'emozione lirica
dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il
tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende possibile alle
moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E
la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e
naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un grandioso
dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili
strumenti della verità? — Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il
verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro
manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali
ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del
medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si
ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti
moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le
congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in
una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse
hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma
forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce,
ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della
pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana
e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro
assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa
tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché
mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai
pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente
stati, i Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera
dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per
l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur
cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni
effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è
mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto
originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella
da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il
domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la
Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno
ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a
qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là
dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena
realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni
insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si
consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una
larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare
sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in
quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene
che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario
e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si
accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica
era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale
pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno
uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si
guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella
formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione
francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella
formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in
quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri
principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia
condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina
ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le
diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal
moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi,
un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una
infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della
sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per
cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di
superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira
quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o
del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni
presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini
anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce
a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia
razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche
nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne
ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della
storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal
turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi
nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la
burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta
ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda
questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una
conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una
conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie
scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il
nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e
sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i
maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi
richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e,
possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie.
Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con
gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle
tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle
esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla
quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le
altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente,
in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di
raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto:
sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio,
umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia,
religione e "filosofie" nelle scuole medie L'introduzione
dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita
dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere
il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere,
strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la
cui eco si è sentita nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si
sente tuttora negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione
o per ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non
andrebbe molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante,
senza dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse
specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene)
debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo
intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente intorno alla
religione cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se già non
avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione
religiosa. È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito
trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono
nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento
religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo
desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il
turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non
tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene
dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il
problema filosofico che della questione stessa sta al fondo. Per
convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale
corre, si può dire, sulle bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti
— questa dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli
studi? Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla
scuola tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia
cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di
coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà
della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo
negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere
del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice
trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca
è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e
non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente
quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e
la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti,
volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che
accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni
dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque,
mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere
il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico,
il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e
tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da
qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia
moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del
cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo,
segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per
sempre superato. E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già
si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e
il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar
sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun
insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e
che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio
di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari,
tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose
di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non
le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò,
a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni
sacri, all'edificante spettacolo. Ora, i timori - più o meno
irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa
tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i
timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni
filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di
oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e
sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile
meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste
accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di
sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non
vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni,
siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli
stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze,
la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine:
domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino
quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il
cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei
d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire.
Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il
consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non
arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è
possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci
segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di
dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od,
occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto
d'incappare. I. Cominciamo con l'osservare subito che la questione che
ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono
nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente
tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti
amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca
neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di
filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda,
invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi
diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse
concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità,
diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare
insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della
religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei
diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno
di produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono
queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e
lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al
cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che
la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile
una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di
una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire:
e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si
accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna
delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle
quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque
le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte;
verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte,
verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra;
verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e
riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal
pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa
antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in
alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da
una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati,
la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si
capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi filosofici
veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla
scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale
verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come
un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a
modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza
di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant
ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o
scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della
filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che
intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di
maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la
concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per
necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa
scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non
ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo
sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o
“scolastico”, “tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere
oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o
di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i
personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che
le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”,
di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un
grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e
ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere,
in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua asserzione,
e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di ambire a
quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser progredita e
libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente, ma
dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di
spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II. Il procedimento
adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei
cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e
non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso
che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non
scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste
parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che
vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale
procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero
per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente
quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie. E,
infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener
vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o
irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è
costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa
soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed
inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale,
qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o
naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti
coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere
di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le
parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per
esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai
dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa
considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che
mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie
dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una
dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché
concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si
possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e
le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza
della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle
parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai ragionamenti,
cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si costituisce e si
dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente, lo stesso atto col
quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a memoria un libro.
Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate idealisti”, “siate
scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi scrive un libro per
dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia quali Hegel o Sesto
Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali il suo pensiero
meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco ed insensato da
volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo scolastici” o
“siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria
i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San Tommaso. Ma
pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e da quei
libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n
positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino,
facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca
(nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano
essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a
conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà
della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver
nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato
vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è
garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto
l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol
quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa fanno, rispetto alla
scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male
intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano,
essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero
ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi
non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale
ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia
scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola,
l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici
d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano,
riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o
libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola
che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla quale, evidentemente, non si
può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla
quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler
indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e
siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni,
e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo
scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la
irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca.
Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse
altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano
vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale
di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non
d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così
com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e
ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo,
sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non
c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma
la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e
respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la
dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o
positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è
sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli avversari
della scolastica si compiacciono d'insistere. Infatti, una dottrina, come
or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che, naturalmente, in un
primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per forza apparire un puro
dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché colui che esamina la
dottrina proposta non sia in condizione di passare all'interno, cioè di
riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina medesima,
persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle espressioni, di
quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi qualcosa di
arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla, imperfezione e
limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente e
tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo
sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine,
idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali,
debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo
appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le
esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica
o positivistica, materialistica o scettica. Il che è ancor più manifesto
quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non
è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze
la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar
libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo
imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol
trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero
umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina,
idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si
dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in
quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara
svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché
il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o
restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e
formule scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o
formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci
s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O
il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri
ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come
puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne,
in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo
è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri
insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così
come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica
diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la
libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo
scetticismo e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e
incompatibili con l’attività e la libertà del pensiero umano. Ciò è tanto
vero, che, in ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli
altri, i quali, per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno
addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia
stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di
condurre liberamente la loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie
delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a
tutti, anche il dire di non credere nella filosofia è fare della filosofia, e
anche il dire di non avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo,
l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi
coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare
una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere
il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il
pensiero sarà addirittura quello di non formulare né insegnare mai
nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né materialistica né di altro
indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale dell'economia e della semplicità per
filosofi, scienziati, legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come
or ora s'è chiarito, il difetto d'essere inattuabile. Colla pura e semplice
denunzia di un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e
ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La quale non è un
insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è un vivente
organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono essere,
tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal pretendere
d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non vuole
essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene
ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro
che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La
filosofia scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e
dimostrabile tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a
chi non creda punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure
se una rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni
che si possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia
saldamente stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà.
Questo spiega perché sia molto meglio e più conforme alla precisione
scientifica parlare di filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o
“cattolica”, contenendo questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione
religiosa e alla teologia che non è ancora ammissibile, né dimostrabile,
durante la pura ricerca filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il
vantaggio di definire direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto
dottrinale o speculativo, senza introdurre altri elementi. Che se, ciò
nonostante, è gloria della scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche
l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione cattolica e della teologia
per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai
infirmato l'uso del primo, che vale durante la ricerca filosofica e prima di
aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione religiosa, così come l'altro
vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli argomenti e della filosofia
e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che una rivelazione è possibile,
e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica. Risulta, dunque, evidente da quel
che si è detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica da parte del
maestro, come per apprenderla da parte del discepolo occorre precisamente tanto
spirito inventivo ed originalità quanta ne occorre per insegnare od apprendere qualunque
altro sistema filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il
dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento
della filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di
ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio
estrinseco col quale si possa decidere su due piedi quali filosofie siano per
riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale
criterio è soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o
minore verità delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già
abbiamo avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e
le altre riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste;
poiché solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza
della persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne,
alle quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono,
dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella
scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica,
qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di
libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci
ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche
col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro
la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a
quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più
notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente
pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di
oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già
detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori
del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre
debbono per forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità
e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano,
si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una
sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre
un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora,
a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo
scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua,
il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia
della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il
discepolo a “crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame
più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si
rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo,
esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il
gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno
malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da
mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte
dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e
colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto
diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto
diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra
loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se,
infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un
orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto
lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta
dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina
non è un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in
quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità.
E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è
proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo
cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel
tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un
simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza
dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui
dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno
invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre
nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una
cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E
viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo
fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici
fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può
aversi dalla conoscenza della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci:
il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la
vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la
verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte
le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata.
Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma
si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo,
allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i
principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria? La risposta a
questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti
differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di
esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e
la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono,
infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma
di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa
fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria
filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non
è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo
scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera
alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto
mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è
evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche
quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre
esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto
quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude
assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè
distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due:
o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano
fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le
filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il
concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma
eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e
allora la loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi
sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la
verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e
precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo,
cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la
filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla
libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché,
però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di
scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia
l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale
dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere
tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo
concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non
sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in
considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente
ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più
importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di
necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in
un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con
l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità
inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che
in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una
o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che
ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della
propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli
stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere. Così la
storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta
larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza
di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai
giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il
concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero
umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia.
Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S.
Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer, e che ognuno vi può
spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e
del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta
di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta
variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant
ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a
rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista
in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista
evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma
prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso,
sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme,
circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza
sia sempre quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un
filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che
l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del
vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per
risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa dell'idealismo,
cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in luce. - Ah, dunque
eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una dottrina vera, cioè
conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur questa realtà la sola
storia) e mediante essa vi assumete il diritto di giudicare tutti gli
altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più intollerante,
tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non precisamente
ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che cosa, se non
mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono davvero pensabili,
e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi dell'immaginazione in
servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono, parzialmente o totalmente,
implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o no, conformi alla scolastica
stessa? Che cosa, se non configurare tutta la storia della filosofia, in quanto
storia della scienza filosofica, e non delle aberrazioni o dei bisogni
fantastici, passionali e pratici dello spirito umano, come preparazione,
svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia scolastica? Ciò
posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte, la posizione della
scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro
sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi
mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più
di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo,
dato che una tale accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è
costretta a poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad
esempio, il fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono
in maggior numero per l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in
epoche cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel
XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità
non ha nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né si vede perché
debba appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser
posseduta, in forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da
pochi o perché un professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista
meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a
prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la
scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo
XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime - non meno di
qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità”
filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così via.
Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G.
D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro.
Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi
antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi;
dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un
tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che
non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è
venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra,
e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile
e nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un
campo del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è
derisibile applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato
alla storia della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo
sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato
tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della
filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del
temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento
individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e
da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale
ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e progredire. Ma si
dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il
progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo
fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali
condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle
passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto
personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo,
da individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce
sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista
sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché
se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere
arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno
d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere
espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi,
il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento
individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la
verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde
segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter
l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché,
nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e
la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non
ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai
grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe
saputo scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi
filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche
che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione
cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le
sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di
filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e
che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo
capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E
può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della
filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo
scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la
vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo
la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta,
invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare,
senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico,
idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni
sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale
necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il
sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si
rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi
consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio,
dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa proposizione risulta
manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano di poter
mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola moderna. La
nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e il
cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il pensiero
moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più ristretti ed
intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data dal duplice
significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o “giustificare”, che una
volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina e accettarne la verità,
e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di
indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose
e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è
certo che la scolastica non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il
positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che
neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema simile possono
ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo l'opposizione della
scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli
altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo
senso, allora anche la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante
rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo,
metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni,
enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo,
corredando il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una
sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la
scolastica, possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di
quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della
formazione mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi
scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non
norunt, quia superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola,
più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si
compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo
scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla
necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto
sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla
storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita.
Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci. Ma
l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla
scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta.
Si scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la
maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura
filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre
della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a
raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi
antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di
richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora
ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è
una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo
di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in
ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di
Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi,
formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita?
Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di
studiare, possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico
dai sistemi filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo
qualche idea così vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni
carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che
l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e bisogna rifarla, o che
ciascuno è libero di seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità
avrebbe certo trovato anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e
larghe. Sì che si può dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine
filosofiche, in quello che hanno di specificatamente filosofico, passano senza
toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla
v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche
se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi
strada da sé ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica,
nei costumi e nelle scienze stesse. Ben più difficile e ben più
intollerante è, invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla
logica, sono costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il
cattolicesimo il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso
esclusivo della verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per
rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada
solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la
maggior parte del genere umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento
della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini,
i quali costituiscono certamente la maggioranza del mondo civile; una religione
che non ha mai cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti
dello spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e
sulla politica, sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle
scienze non meno che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche
sulla formazione del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di
più che le dottrine di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di
intellettuali che le hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una
dottrina falsa, fondata sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente,
come si spiega la sua vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la
civiltà moderna stessa che in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli
avversari rispondono di non aver affatto questa malvagia intenzione, ma di
voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo così come
qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo
così come qualunque altro sistema filosofico umano significa, in realtà, non
ammettere affatto il cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di
esso, che prescinde precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di
una Rivelazione divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il
cristianesimo che si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi
sforzi filosofici, non è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che
già sfuma nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur
con diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo
il cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale
tanto poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove
solo attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel
protestantesimo, sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a
tutte le altre filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova
della costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad
afferrare ed assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del
cattolicesimo. E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta
la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per
opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad
esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione
e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico?
Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a
“storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la
filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana
della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di
Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle
tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori
bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal
cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia,
soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che
tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale
concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero
della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di
“moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non
ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel
non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua
rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia
moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica
quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al
pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e
la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si
accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in
sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa
entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del
pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva
simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama
irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto
parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo
oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad
esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero
medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo
storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che
l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il
semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano,
lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza,
volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che
è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di
certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la
scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione
apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile,
ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare,
per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine,
niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e
progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus
est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che
consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso
infinito. Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia
moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e
disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un
suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola
alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più
intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una
dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le
altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante
autorizzata della verità e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e
soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca
scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento
dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del
giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non
l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio,
non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad
essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il
meccanismo. Pedagogia cattolica Credo che a parlare di un'opera come
questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo
Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben
intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un
fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del
Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene
d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano
o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il
Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e
nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai
alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver
appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del
bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto della
prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita.
Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni
alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti
alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non
credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per
annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza
in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa;
ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope
professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente
del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si
celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone
poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa,
talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da
una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici
forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza,
all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti,
ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a
ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano
col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato
quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa
di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con
piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se
così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero
riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart,
bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici.
Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”,
nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita,
prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente
lievito d'una personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello
spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze
che maturavano nei nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare
il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine
sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo
cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una
presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è
manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno
tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano
lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano,
risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo
stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il
secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema
morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a
penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto
la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che
egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto
filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi”
e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina
religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta
a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se
con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto
metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una
dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della
storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del
procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui
c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche
s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con
mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla
formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo
intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci
perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba
avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una
educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga
conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito
umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia,
delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui
nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il
Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha
affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice
aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è
quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro
e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far
fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è
rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai
“laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio
vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita. Si
direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue
lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una
malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva
sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle
concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo,
grande importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non
interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o
rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al
senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di
siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è,
secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la
religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima
analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli
esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il
coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un
villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a
ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi,
o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di
applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste
loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o
cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale,
pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una
conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è
disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche
senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta
di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto,
condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad
esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane
troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o
quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non
essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché
così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo
delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo
religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia
cagione e valore» (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto
programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla
morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di
perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in
contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la
religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo
ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la grande
preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo
rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere
appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo
d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha
anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente,
consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica
moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della virtù”, definì
or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più recente speculazione
al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di
tutte le umane passioni e tendenze sulle cui rovine si erga la legge
morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa.
Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre
rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella
sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo
concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del
problema, la santità che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non
raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta,
correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro serrate con
un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore
che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono,
nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa,
essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il
sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti
umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da
tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa
complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità,
dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi
d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature
chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio
timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle
qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio,
l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca
la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere
tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a
rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro,
ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a
mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla
puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli
altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di
solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni
metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché
i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e
questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità,
ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali.
Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella
di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don
Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso
di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile
l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli
umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata
educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un
ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in
cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero
voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa
avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il
calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena
che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli
esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più
facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E
allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più
alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato
innanzi alle minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria
coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello
di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché
il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo»
e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili
vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e
la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla
ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di
difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico,
l'educatore dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser
preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale
di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori,
con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche
improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser
battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in
questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei
rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p.
49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene
concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica
immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per
cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova
gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel
significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che
sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione
od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione
dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo,
debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro
carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza
di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché
presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro
esercizio sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di
contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che
non si fondi per sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta
ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque,
preparare, facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista
religioso ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia
facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica
immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione
umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù
«umane» e perciò già in sé stesse «passionali». Conclusione di tutto ciò
è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal
disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a
facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime
eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè,
in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della
consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la
dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta
persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi
del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il
Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale
per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia
moderna secondo cui il rinvigorimento del corpo non è già la formazione
del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha
l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari
all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene
osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica,
il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di
cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener
sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra
fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù
sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti
limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili
satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione
rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina»
cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case
dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello
religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia
cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana?
«Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo
della stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa
diventi superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia
cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia
ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che
e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico.
L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il
Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e
smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi
scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo
dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella
tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a
Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un
avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di
precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da
non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio
valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a
Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale
assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio,
si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire
la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la
difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di
qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel
mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in
un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa
che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata
umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La
filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di
sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è
tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano
della umiltà. Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale
nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già
abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista
il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle
sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa
a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della
scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del
curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà
cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto
e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza
di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio»
pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che
solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché,
tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di
addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di
rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una
cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto
acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani
alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita
intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure
non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in
cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola
che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti
bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro
senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un
interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni »
(p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina
dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto
con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede
pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei
propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso
bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la
Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema
di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli
esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve
parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei
grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad
esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza
d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo
a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla
conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti,
culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non
può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La
religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti,
crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che
filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi,
vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col
catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare
l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto
nella vita spirituale. Qualcosa di simile al già detto per la cultura
intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà
riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli
della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i
gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che
dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche
una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non
cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi,
poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La
ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere
o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno
sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio.
Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di
buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche
elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi
confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei
canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia
fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto
verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a
rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa
della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli
delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce (p. 163). Ciò è
quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha
bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può
dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo
estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero
moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si
pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente
ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte
a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica
moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto
opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle
convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti.
Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad
un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori
classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da
alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti
dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello»
(p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E
inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione
di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche
cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.):
talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici
della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta
riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è
affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di interessante
nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei grandi santi a
maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita. Ma sopratutto
interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta finezza
facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva a
toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico e
filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta
ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni
intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel parlare delle
ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e
lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò
riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là
porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi,
scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche.
Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il
Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine
della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per
attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data
dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni
spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più
propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una
concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il
nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità
gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il
legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con
tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la
filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi,
cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la
educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai
accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista
del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi
pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non
è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo
proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente
dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze
filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera
tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al
fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi moderni,
egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su senza
approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del
fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti,
oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo
fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che
in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi
immediatamente di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare
le parole esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate
ch'egli incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di
partenza” da trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue
parole, viene a dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia
l'identificazione assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello
dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il
mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia
pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti
giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una
letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da alcune correnti della
pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e
ne sviscerasse bene le ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente,
in confronto alla piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo
ingegno intorno ad una quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio
ci vieta di discutere, come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima
di finire, di esprimere ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per
quanto egli scrive nella sua lettera ventunesima sulla cultura femminile. La
quale, perciò che il pensiero moderno ha proclamato, dopo il
cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti naturalistici, l'eguaglianza
spirituale dell'uomo e della donna, non per questo ha cessato di essere un
problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini diverse da quelle maschili
che fa della donna un essere, pur pari di natura e di valore all'uomo, ma che
si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica fisionomia di cui l'educatore
non può non tener conto. L'aver dimenticato questo ha portato come effetto
nella società moderna una duplice piaga che il Crispolti ben analizza: quella
delle donne ignoranti da un lato, e quella delle donne pedantescamente saccenti
dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il Crispolti stesso, all'aver
preteso di istruire, quando si è istruita, la donna, cogli stessi procedimenti
scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo, «come se tra i licei
femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di mezzo». E invece non si è
pensato alla differenza di abitudini mentali per cui l'uomo, presto distratto
nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più spregiudicato, reagisce con
un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del sapere scolastico, conservandone
solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri
domestici, si assimila dalla scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco
con cui fu impartito. A questo inconveniente c'è, per il nostro un rimedio:
dare alla donna nella scuola solo i primi indispensabili elementi, e lasciare
all'educazione familiare e sociale la cura di fare il resto. «La più elevata e
piacevole erudizione delle donne è quella acquistata involontariamente nella
conversazione colla gente eletta. Per un padre colto che desideri le figlie
colte non v'è miglior via; farle partecipare in modo insensibile e continuo
alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non soltanto l'intelligenza delle
cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse verso di esse, ciò che è più
difficile» (p. 200). Non importa se per questa via la donna non otterrà delle
idee precise e collegate sistematicamente fra loro: per chi non debba proprio
compiere un lavoro determinato in un certo campo dello scibile come l'uomo, il
beneficio della cultura sta non nelle singole idee che dà, ma nella elevazione
spirituale che procura all'animo; elevazione per cui la donna «non pretenda di
scoprire né di classificare, ma giunga a compiacersi nella visione delle cose
alte; non s'affanni a far camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo
cammino, ad ocelli aperti e con amore» (p. 202). Giacché la difficoltà della
cultura femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo
contenuto, cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare
in essa il senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più
difficile. Istruire la donna «è una difficoltà non intellettuale ma morale; è
una coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni
tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo
col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali
una eccezionale formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti,
e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo,
anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da
quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé.
La stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale
della famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa
cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze,
e ciò che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato,
ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre
filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro
donne una più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per
esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro
attività. Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte
pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto
suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E,
naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli
uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a
cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un
dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave
ostacolo allo sviluppo del senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi
attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto
ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa,
che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali
e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita
pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e
degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non
pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma
si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine,
funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte
la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli
regolare, la conservava intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia,
nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del
problema della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto
risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va
bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico,
no: le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci
né le migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla
natura stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour,
d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla
scienza e d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più
vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di
loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove
giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti
sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima
questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se,
invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte
degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione.
Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche
maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo
un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di
quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX
infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi
personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o
addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera
pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che
siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione
storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi
stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica
e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio,
dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi
alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se
non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due
secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine,
là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni
temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi
che cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi
nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi
anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà
di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento
interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero,
che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis,
potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma
finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso
dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una
realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano
edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità
e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia
pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è
andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento,
innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un
Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte
all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i
suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica
richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di
grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo
meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che
aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di
ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità
per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio
per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la
democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno
attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura
e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche
con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il
suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un subito
in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della retorica
accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e
lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio
italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica
come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle
doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia
difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si
sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma
ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle
grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un
singolare incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi
personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente
individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un
sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte
che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano
nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto
esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della
retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito
europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica,
consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non
esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una
filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik,
dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le
possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei
puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano
istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse,
che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No
certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che
attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma
non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. Non è ancora spenta l'eco delle discussioni
suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto
fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi
(come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro
contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è
meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere
di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra
minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti
della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia
pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo,
sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi,
a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta
cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, «I Diritti della Scuola»
che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come
pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del
gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben
diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma
«poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e
non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti
del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E
il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della
Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La
tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che
parlasse al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua
dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé
e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella
sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il
proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il
fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a
poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia,
nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo
catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal
sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre
il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come
la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e
forse non deve) dalla lettera dei sacri testi». Noi non vogliamo
rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono
state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che,
quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da
eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro
forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la
religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si
basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come
incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe
minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i
«dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo
«irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della
fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi
assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i
«sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui
egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o
«meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete
rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il
decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della
Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si
voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla
circolare del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e
l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la
teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni
così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con
molto rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola».
Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità
d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a
un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi
cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al
canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma
brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai
sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo,
assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone
davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale
è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre
scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli
apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più
begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come
«canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le persone di più
difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua
opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano
a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale,
del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta
cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione
dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre
scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è
evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una
volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo
nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli
assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo
anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli
elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato
d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia,
quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste,
colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro
pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa
serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la
natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo
«intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei
suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi
illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali
e poeti erano di là da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa
della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe
desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile
zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va
facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società
francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele
Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei
molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto
opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche
ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo
Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa,
mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il
grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie
sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e
giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno
potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa,
che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere
persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le
panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario
a scala ridotta del metodo montessoriano. E passo all'altro,
apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che
sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un
catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la
esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo.
Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene l'altra, a meno di
non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti
puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e
anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei
mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e
praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in
fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di
anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di
sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque,
facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o
comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una
buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia,
cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che
tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze
dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato:
ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza,
si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o
ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del
più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della
transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e
sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne?
Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza
fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum
resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo
puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un insegnamento
vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo" condotto
secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui viene
insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta, costituito da
tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità l'aritmetica perché,
nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi o le definizioni
nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto dell'insegnamento,
il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo, la via, o il punto
di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica odierna ha una
quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni inerenti al
metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state discusse e
trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani, le
interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa la
didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con imparzialità
e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione catechistica
impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero attendere,
la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una società
come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di qualsiasi
didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro troveranno
sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in abbondanza anche
per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che le massime, gli
esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo spesso indifferenti
o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le definizioni
catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il segreto per
avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia, e
perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non
nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino
della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il
decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso
ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al
fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle
cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni,
il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di
molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il
Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il
decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che
nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della
filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il
cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo
duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo
in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto,
la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e confortante:
è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter
introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una
verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono
passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì,
colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che
minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due
bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo
energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano
riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le
ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte
delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. La
Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della
pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie
163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary.
Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere
soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee
(Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non
addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato
che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi
altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su
Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in
maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del
processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o
corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si
"tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
«tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come
Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto
di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del
soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile
che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade! XI suo soggiorno in Italia* Terminata la sua
opera, Schopenhauer non si decise a tornare nel Nirvana, come torse si
sarebbe potuto credere; al contrario senza nem¬ meno aspettare le prove
di stampa, egli partì pel paese più bello e più ottimista che vi sia
sotto il sole, per la. véna terra promessa, per il paese dei paesi, per
la bella Italia, Con ragione si è detto che ! abitu¬ dine di vedere la
vita in nero, sparisce e sembra innaturale sotto il cielo splendido d’im
paese meridionale. Dintorni poco graziosi spesso di¬ ventano Ja causa
d’un falso pessimismo; ma de v ? esser genuino il pes¬ simismo che
persiste anche in un ambiente bello ed incantevole. Il fatto che Schopenhauer
non ismani il suo pessimismo è una prova convin¬ cente, se prova ci
vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo pessimismo era piuttosto
comprensibile nel freddo settentrione; ma é un altro conto ritenerla in
mi paese ove tutto sorride, ove la natura stessa c* invita a prendere con
leggerezza resistenza ed a gettare lon¬ tano da noi ogni cura, ove Paria
stessa respira la leggerezza di cuore, ove il dolce far niente è il
programma di vita degPindigeni, T resoconti del suo viaggio in
Italia sono tutt ? altro che blandi. Schopenhauer, più si faceva vecchio,
pili si rinchiudeva in se stesso, e non vi sono nè giornali nè lettere
che possano colmare questa lacuna nella sua biografia. D’ora innanzi era
il suo espresso desiderio di sfug¬ gire alla pubblicità. Non voglio che
la mia vita privata formi mPesea « per la curiosità fredda e maliziosa
del pubblico », così rispose molti anni più tardi a coloro che lo
esortavano a fornire maggiori informa’ zioni su se stesso ai dizionari
biografici. I suoi notiziari presero il posto del giornale, ma siccome
contengono piuttosto riflessioni suggerite dagli avvenimenti senza
raccontare .questi, non spargono sugl 5 incidenti del suo viaggio che
poca luce. Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3 avere
scritto una gran¬ d'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il
risultato. Non era tanto indifferente in quanto alla accoglienza della
sua opera quanto voleva far credere. Il trattato sulla
Quadruplice Radice era stato ben accolto dai critiei, -ed. aveva chiamato all 5
autore l’attenzione generale più di quanto sogliono farlo le
dissertazioni universitarie; era giustificabile che spe¬ rasse che la sua
opera maggiore dovesse suscitare almeno lo stesso in¬ teresse. Egli
corresse le prove di stampa che gii furono mandate ed a petto k
pubblicazione, sfogando intanto i suoi sentimenti in linguag¬ gio
poetico. Unv er schami e Vers e. A us ] anggehegten,
tiefgefuhlten Schmerzen Wand sich’s einpor aus meinetn innern Herzen,
Es festzuhaHen haMch lang gemngen, I>och weiss ich, dasz
zuletzt es mir gelungen. Mogi Euch drtim irnrner, wie Ilir wollt,
gebar cleri, Des Werkes Le ben kòimt ihr nìcht gefahrden;
Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini ermehr vernichterq Ein
Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten. Nel frattempo visitava le
principali città <MP Italia settentrionale; frequentava i musei ed il
teatro, continuando a studiare la lingua ita¬ liana die egli già sapeva
assai bene. E* in Italia die egli s 5 invaghì cosi profondamente della
musica di Rossini, di cui andava spesso a sentire le opere. Degli autori
italiani egli predilìgeva, -— ed è questo un fatto abbastanza curioso, —
il Petrarca, il poeta di Laura e dell 5 amore. « Fra tutti gli
scrittori italiani, preferisco il mio caro Petrarca. « Non vi e in tutto
il mondo un poeta che lo abbia mai superato nella « profondità e
nell’ardore del sentimento; le sue parole vi vanno dritto a al cuore.
Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi trionfi e le sue can- a
zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed alle orrende contorsioni
di « Dante. Trovo il fiume naturale delle parole, che sgorgano dal
cuore, « molto più opportuno del linguaggio ricercato ed affettato di
Dante, a Petrarca è sempre stato e rimarrà per sempre il poeta del mio
cuore. « Quello che concorre a confermarmi nella mia opinione è il
tempo a presente, a quanto pare, tanto perfetto che osa parlare con
disprezzo a di Petrarca. T T na prova sufficiente sarebbe il confronto di
Dante e « Petrarca nel loro costume intimo e non ricercato, cioè in
prosa, eon- K frontando per esempio i bei libri di Petrarca, ricchi di
pensieri e di « verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu mundi, De
rimediu ufrius- z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed asciutta
di Dante ». Dante coi suoi modi didattici non corrispondeva al
gusto rii Scho¬ penhauer che considerava tutto Pinfenio come un’apoteosi
della cru¬ deltà. ed il penultimo canto come una glorificazione della
mancanza del sentimento d’onore e di coscienza. Non aveva neppure alcun
affetto per Ariosto e Boccaccio; anzi più volte espresse la sua
meraviglia in quanto alla fama europea di quest’ultimo, il quale dopo
tutto non aveva scritto che Delle ehtonique.s scandaleuse*. Gli piacevano
PAlfieri ed il Tasso, ma li considerava come autori tli seeoncVordine;
egli non riteneva il Tasso degno d'essere posto come quarto in una linea
coi tre grandi poeti italiani. Per quanto riguardava Parte,
egli si sentiva maggiormente attirato dalla scultura e dall'arekitettura
che dalla pittura. Ciò non potrebbe sorprendere e non sarebbe in
contraddizione coll 1 indole generale della sua mente* se la sua intimità
con Goethe non lo avesse fatto entrare nello studio dei colori.
Schopenhauer non volle mai ammettere che i due anni possati in
Italia fossero stati per lui due anni felici, sosteneva, che mentre gli
altri viaggiavano per divertimento, egli lo faceva per raccogliere nuovi
ma¬ teriali in appoggio del suo sistema, e nel suo notiziario scrisse
has- stoma di Aristotile : 6 TQ aAuTCtfO orò TU fiSìl.
Però ricordava con piacere questi due anni, dico con piacere e
s'in¬ tende fin dove Schopenhauer ammetteva il piacere; negli ultimi
giorni della sua vita non poteva mai menzionare Venezia senza che la sua
voce tremasse, il che prova che Pamore che ivi lo tenne stretto, non era
inte¬ ramente dimenticato, sebbene fosse morto. Senza dubbio, la
seguente nota scritta a Bologna in data del 19 novembre 1818 tradisce
qualche contentezza. « Appunto perchè ogni felicità è
negativa, accade che non ce ne « avvertiamo affatto, quando ci troviamo
in uno stato di benessere; la¬ ti sciamo tutto passare dinanzi a noi
liscio, e con dolcezza fino a che tf questo stato è passato. La perdita
soltanto* che ci si fa sentire con « chiarezza, pone in rilievo la
felicità, svanita; è allora soltanto che ci a accorgiamo di ciò che
abbiamo trascurato di assicurarci, ed il rimorso « si aggiunge alla
privazione, b Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia-
In quel tempo vi era anche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili.
E J strano che essi non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel
genio di Byron la più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi
sarebbero an¬ dati d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè
Leopardi. Un dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il
giovane conte era¬ no confrontati, fu pubblicato nella rivista
contemporanea del 1858, e Schopenhauer non si diede pace prima che non sì
fosse assicurato di averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf
azione il trovarsi asso¬ ciato col giovane che egli ammirava così
profondamente (ed a cui, dicia¬ molo tra parentesi, Io scrittore De
Sanctis, non ha reso giustizia); gran parte della sua soddisfazione,
proveniva vinche dal fatto die egli vedeva elio la sua filosofia si era
fatto strada fino in Italia. Non avveniva spes¬ so che egli fosse
contento di quanto sì scriveva sulle sue opere, non tro¬ vava mai che lo
avessero letto con sufficiente attenzione; ma quest 1 uo¬ mo, così
diceva, lo aveva assorbito in sucóurn et tangm nem .Quando -Schopenhauer arrivò
a Venezia per la prima Tolta, e pii scrisse : « chiunque si trova repenti
nani ente trasferito in un contrada « totalmente straniera, ove prevale
un modo di vivere e di parlare dif- « ferente da quello a cui e pii è
abituato, ha il sentimento di chi ina- « spettata mente ha messo il piede
nel F acqua fredda. Egli avverte su- « bito la differenza di tempera
tura, sente una forte influenza che agi- « sce dal di fuori e che lo
rende infelice; egli si trova in un elemento « estraneo in cui non sa
muoversi comodamente, A questo si aggiunga « che egli si accorge come
ogni cosa attira la sua attenzione e che teme « di essere a ne Ir e gl i
osservato da tutti. Ma dal momento che si è eal- « maio, che ha
incominciato ad assorbire la. nuova temperatura e ad « abituarsi al nuovo
ambiente, egli si trova bene come difatti si trova « un uomo nell* a equa
fresca. Egli si è assimilato a!1 J elemento, ed averir « do perciò
cessato di occuparsi della propria persona, rivolge la sua a attenzione
esclusivamente a ciò che lo circonda: ed ora, appunto per- « che lo
contempla con oggettività neutrale, egli si sente superiore al « suo
ambiente come prima se ne sentiva schiacciato, « Viaggiando le
impressioni dlogni genere abbondano, ed il nutria s mento intellettuale
ci viene in tale quantità che non ci rimane tempo c per la digestione. Ci
rincresce che le impressioni le quali si succedono a rapidamente non
possano lasciare una impronta permanente. In real- tà però avviene qui
quello che ci accade quando leggiamo. Quante «* volte ci lamentiamo di
non essere capaci di ritenere la millesima par- «te di quanto abbiamo
letto! W confortante però in ognuno dei due « casi il sapere che ciò che
abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra « mente un'impressione,
prima d'essere dimenticato, impressione che « concorre a formare e
nutrire la mente, mentre ciò che riteniamo a « memoria serve soltanto a
riempire i vuoti della testa con materie che « ci rimangono sempre
estranee, perchè non le abbiamo mai assorbite; « il recipiente dunque
potrebbe anche essere rimasto vuoto come prima. » Schopenhauer era
d’opinione elle, viaggiando, possiamo riconosce- re quanto areno radicate
le opinioni pubbliche e nazionali., e quanto sia difficile di cambiare il
modo di pensare d T un popolo, « Mentre cerchiamo d'evitare uno
scoglio, ne incontriamo un altro; « mentre fuggiamo i pensieri nazionali
di un paese, in un secondo ne « troviamo degli altri, ma non dei migliori.
Il cielo ci liberi da questa « valle di miseria! « \ i a gg
ian do veci i a m o 1 a v ita u ma n a s ot t o ni olle fori n e dive rs e
: « ed è questo appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma,
ving- « g i a n d o, non v e d i a m o c he il lato esteriore del la v if
a u ni a n a ; cioè ne « scorgiamo soltanto quello che se ne vede
generalmente. D'altra parte « non vediamo mai la vita interiore del
popolo, il suo cuore ed il suo « centro, cioè il campo in cui Vazione del
popolo si svolge, in cui il «suo carattere si manifesta,,., quindi,,
viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio dipinto con un orizzonte
vasto che abbraccia molte <i cose, ma che non li a personaggi
spiccati. Di lì, nasce pure la stan¬ tìi ehezza del viaggio. »
Schopenhauer studiò profondamente gl’Italiani, i loro costumi e la
loro religione. Di quest’ultima dice: La religione cattolica è un
ordine per ottenere il cielo mendicando, giacche sarebbe troppo disturbo
doverlo guadagnare. I preti sono i me¬ diatori di questa
transazione. « Ogni religione positiva dopo tutto non fa che
usurpare il trono « che per diritto spetta alla filosofia ; i filosofi
quindi la coniti attera uno a sempre, anche se dovessero considerarla
come un male neccessario ed « inevitabile, un appoggio per la debolezza
morbosa della maggior pur- « te degli uomini. a La nuda
verità non ha la forza di frenare le menti rozze e di co¬ te stringerle
ad astenersi dal male e dalla crudeltà giacche esse non san¬ ti no
afferrare queste verità. Di lì il bisogno di storne, di parabole e di «
dottrine positive. « In dicembre ièlS la sua grande opera vide la
luce per la prima volta. Schopenhauer ne mandò una copia a Goethe. Poi
nella prima¬ vera del 1819, egli si trasferì a Napoli; Goethe accusò
ricevuta del do¬ no per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle predilette
del vecchio poeta. « Goethe ha ricevuto il tuo libro con
grande piacere, scrive Adele, a Egli immediata mente divise V opera
voluminosa in due parti e cornili- « ciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi
mandò il biglietto qui unito, di- « eendomi che egli ti ringraziava molto
e credeva che tutto il libro .do- « vesso esser buono, giacche aveva
sempre la fortuna di aprire i libri « nei posti più notevoli; così egli
mi disse d'avere letto le pagine indi- « caie (pag. 22 e pag. 340 della
prima edizione,) ed egli spera di po- « ferii scrivere quanto prima la
sua opinione completa. Intanto egli « desiderava che io ti dicessi
questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi dis- « se che il di lei padre
leggeva il tuo libro con un interesse che lessa « fino allora non aveva
mai osservato in lui. Egli le Ka detto che ora ave- « va. un divertimento
per tutto ranno, giacché intendeva leggere il tuo libro da capo in fondo
e credeva che ciò lo avrebbe occupato per un « anno. Disse a me ch’egli
si sentiva proprio felice di saperti sempre « a lui devoto, nonostante il
vostro disaccordo sulla teoria dei colori. « Disse pure che nel tuo libro
gli piaceva sopra tutto la chiarezza della « rappresentazione e del
linguaggio, sebbene la tua lingua differisce da quella degli altri e che
occorresse prima avvezzarsi a chiamare le « cose come tu lo vuoi.
« ila, continuò, quando una volta si é pervenuto a queste, allora «
la lettura procede con facilità e comodo. Anche la disposizione della «
materia gli piaceva ; solfante la forma immaneggiabile del libro non a
gli dava pace, e si convinse che F opera dovesse consìstere di due vo- a
fumi* Spero di rivederlo solo ed allora egli mi dirà iorse qualche cosa «
di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il solo autore che Goethe «
legga in questo modo e con tanta serietà* » Nondimeno Schopenhauer
ritenne F opinione che Goethe non lo legasse con sufficiente attenzione ;
che il poeta avesse già speso il po~ co interesse che aveva per le
questioni filosofiche* A Napoli Schopenhauer fu principalmente in
rapporto con giovani inglesi. L’elemento inglese aveva per lui, durante
tutta la sua vita, un fascino speciale; credeva che gl"Inglesi erano
quasi giunti ad esse)e il più gran popolo del mondo, e che soltanto
alcuni loro pregiudizi si opponevano, acciocché infatti lo fossero. La
sua cognizione della loro lingua ed il suo accento erano tanto perfetti
che anche gl T Inglesi stessi per- qualche tempo lo prendevano per un
loro cOmpatriftta, un errore die sempre lo esaltava* Tutto
quanto vide, concorse a confermare ed a sviluppare il suo sistema
filosofico * Rimase specialmente colpito dal quadro di un gio¬ vane
artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di questo quadro
illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime che, secondo il
nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé stesso* Il
quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse piange alla
Cor¬ te di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie sventure, «
Questa « è Fespressione più alta idi e possa avere la compassione di se
stesso. » Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e
forza dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della
bellezza delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo
quinto* & La ventina e la prima parte della trentina sono per
Fintelletto quello « che è il 'uose di maggio per gii alberi, questi
durante la stagione prh <t maverile emettono soltanto dei bottoni che
poi diventano frutti* » L’esteriore, di Schopenhauer doveva essere
caratteristico, ma la sua bel¬ lezza stava nell 9 animo e non nella
faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti anche nella vecchiaia, nella
gioventù rischiaravano quella testa poten¬ te col loro sguardo acuto e
limpido. Verso quel tempo un vecchio si¬ gnore* a lui perfettamente
estraneo, gli si accosto in istrada per dirgli che egli, Schopenhauer,
sarebbe stato un giorno un grand’uomo* An¬ che un Italiano, che pure non
lo conosceva, venne da lui e gli disse: € Signore, lei deve aver fatto
qualche grande opera; non so cosa sia, a ma lo vedo nel suo viso* » Un
Francese che alla tal)le cVhote, gli sede¬ va dirimpetto, ad un tratto
esclamò: « Je ooudrais savori- ce qu il penr- « se de nous autres j nous
devom par altre hien ■ petit s à ses yeiux ! ?> Un giovane Inglese
rifiutò assolutamente di cambiare posto con le parole: « Yoglio stare
qui, perchè mi piace vedere la sua faccia intelligente. » Nel riposo egli
rassomiglia va a Beethoven; entrambi avevano la stessa testa quadrata, ma
il cranio di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la
misura elle ne fu presa dopo la sua morie e che recai un’idea delle prò
pozioni straordinarie eli questa testa, E no¬ tevole la distanza che
correva tra un occhio e V altro; egli non poteva portare occhiali
ordinari. Era di statura media, tarchiata e muscolosa , aveva le spalle
larghe ; In sua bella testa era portata da un collo troppo breve per
esser bello* Capelli biondi e ricci Liti circondavano la sua fron¬ te e
cadevano sulle sue spalle; quando era giovane, mustacchi biondi coprivano
la sua bocca ben formata, che coll'accrescersi degli anni perdette la sua
bellezza a misura che perdeva i denti. Il suo naso era di bellezza
speciale e cosi pure le sue piccole mani* Egli stesso faceva una
distinzione fra la fisionomia, intelletuale e morale à- un uomo; cer¬
cava la prima nelPocchio e nella fronte, la seconda nelle forme della
bocca e del mento. Era soddisfatto della sua fisionomia intellettuale, ma
non della sua fisionomia morale* Vestiva sempre bene e con elegan¬ za,
il.suo contegno era aristocratico e leggermente altero. Portava Seni¬ li
re V abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano sempre dello
stesso taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non pareva mai stra¬
no, talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il popolo in
istra¬ da spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo esteriore
animato dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu fatto il
suo ri¬ tratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto
ci parla dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni virili.
Velia biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline!
tro¬ viamo runica menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a
Roma. Allora era un'epoca di misticismo per Parte e per la religione
della Germania, epoca che produsse nella storia un Biniseli, nell’arte
un Cornelius ed un Qverbeck. I giovani artisti tedeschi, chiamati dal
loro console ad ornare la di lui villa sul monte Pine io, avevano
l'abitudine di riunirsi quotidianamente con certi poeti e giornalisti nel
caffè Greco, diventato il punto d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà.
Il poeta Ruekert ed il novelliere L, Schefer, ottimisti per professione,
frequentavano allora quella casa. Molti degli uomini più importanti della
Ger¬ mania allora viventi, si trovavano nella eterna città.
Schopenhauer, come gli altri, frequentava il caffè Greco, ma pare che il
suo spirito mefistofelico fosse un elemento disturbatore per i visitatori
ordinari che desideravano che egli si allontanasse* Un giorno egli
annunciò alla società che la nazione tedesca era la più stupida di tutte,
ma che era in un punto a tutte superiore, cioè che era arrivata al pùnto
di poter fare a meno della religione. Questa osservazione suscitò una
tempesta ili disapprovazioni, ed alcune voci gridarono: fuori! alla porta
met¬ tetelo fuori ! Dà quel giorno in poi il filosofo evitò il caffè
Greco, ina le sue opinioni sui Tedeschi rimasero inalterate. « La patria
tedesca * in me non si è allevato un patriota », disse un giorno ; e
spesso anda dicendo ai suoi compatì lotti a francesi ed a inglesi che egli si
vergoigmva di essere tedesco, piaceli è questo popolo era tanto stupido, a
Se « io pensassi così della mia nazione », rispose un Francese, «
almeno « non lo direi. » « Questo Schopenhauer è un sala
miste) (N&rr) insopportabile », scrive Bòhmer. « Questi filosofi
antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero « essere tutti quanti rinchiusi
pei bene comune, » Schopenhauer non menava una vita santa ed
ascetica, uè pretese die gli altri lo credessero. Egli sprezzava le
donne; considerava ibi more sessuale come una delle manifestazioni più
caratteristiche della volon¬ tà; tuttavia non era dissoluto. Sospirava
con Byron : «Più che vedo « gli uomini meno mi piacciono; tutto sarebbe
bene se potessi dire lo « stesso delle donne. » Egli differiva dagli uomini
ordinari, parlando di ciò che gli altri sopprimono. I suoi discepoli
troppo zelanti die cre¬ devano vedere qualcosa di divino in tutte le sue
azioni, trassero alla luce del giorno anche questi suoi discorsi e quindi
attirarono sul maestro un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le idee di
Schopenhaner coincidevano con questa osservazione di Buddha ; « Non v ? è
pas- « sione più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa
nessun’ultra «merita d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di questa
forza, « per la carne non vi sarebbe più salute! » E di lì nacque senza
dubbio il timore di Sdì operili auer « di non poter raggiungere il Nirvana
», come egli disse con rincrescimento al dottor Grwinner. In
mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza femminile gli giunse ad
un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi e a, in cui era
implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di sua madre, era
minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in Germania; ia perdita
del suo avere era il male che Schopenhauer temeva maggior- mente., il
male che egli sapeva di poter sopportare più difficilmente, tenuto
calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a guada' gnarsi il.
pane; la sua intelligenza non era di quelle che si possono dare in
affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva ereditata gli parve
sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché s ! era tutto dedicato a
suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on (lem was Einer hai , egli
scrive : Non. istimo indegno della mia penna di raccomandare hi cura
« della fortuna che si è acquistata per lavoro o per eredità. E 5 un van-
« faggio inapprezzabile il possedere fin da principio quanto occorre per
« vivere, sia anche solo e senza famiglia, comodamente ed in vera im.1L «
pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; quèsto stato rende huomn esente
ed « immune dalla privazione e quindi dalla servitù universale, sorte
caie ninne dei mortali. Colui soltanto che dal destino fu favorito in
questo « modo è veramente nato uomo libero, giacché soltanto egli è vwr
j.arix, « padrone del suo tempo e delle sue facoltà e può dire ogni
mattina ; il « giorno è mio. Per questa ragione la differenza tra colui
che hn mille ai a scudi d’entrata e colui clie ne La
centomila- è molto minore di quella « che corre tra il primo e colui che
non La nulla. La fortuna ereditari si « acquista un sommo valore, quando
cade in mano ad un uomo il quale, « dotato di capacità
intellettuali d’ordine elevato, segue tendenze in- « compatibili col
lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo ricevette da! « destino un
doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma egli coni¬ ti pensa cento
volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando cosa « che nessun
altro potrebbe effettuare, e producendo qualcosa pel bene « ed anzi per V
onore comuni, TTn altro in questa condizione privile- « gìata con
tendenze filantropi eh e saprà meritarsi la gratitudine d elee l’umanità.
D’altra parte sarà un pigro spregevole colui che si tro¬ te va in
possesso d’ una fortuna ereditaria e non cerca in nessun modo, «
neppure acquistando a fondo qualche scienza, di rendersi utile all’umanità,
» a Questo ora- è riservato al più alto grado di perfezione iute
Ilei- ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il genio solo si occupa
escili- sivamente dell’esistenza e della natura delle cose, per poi
esprimere a i suoi concetti profondi, secondo la propria inclinazione,
per mezzo <* dell’arte, della poesia e della filosofia. Pei uno
spirito di questo ge- « nere il commercio non interrotto con sé stesso,
co’ suoi pensieri e colle « sue opere è un bisogno urgente. Ad esso è
cara la. solitudine, e l’ozio è il suo bene maggiore; il resto non gli è
indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di tal uomo soltanto possiamo dire
con ragione che « abbia in sé stesso il suo punto di gravità. Cosi si
spiega perchè queste « persone tanto rare, anche se hanno il miglior
carattere del mondo, « non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel
bene comune quella a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono
tanti altri; giacche « dopo tutto possono consolarsi d’ogin cosa finché
hanno sé stessi* In « loro vive un elemento d'isolazione tanto più attivo
quanto meno gli «altri possano dar loro soddisfazione; questi altri uomini,
essi non li « considerano interamente come loro pan; e dal momento che
corniti- « ciano a vedere che tutto a loro è eterogeneo, prendono l’abitudine
di « camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi fossero esseri da
loro « diversi; nei loro pensieri ne parlano come di terze persone,
dicendo: « essi, loro , e mai noi. « Tln uomo munito di questa ricchezza
interiore non chiede al mondo esterno nulla, all* infuori d'un dono negativo,
cioè la libertà di svilappare e di migliorare le sue facoltà intellettuali, di
godere la sua « ricchezza interiore, vale a dire di essere interamente a
sé in ogni gioì « no. in ogni ora e durante tutta la sua vita. Quando un uomo è
desti- « nato a lasciare l’impronta del suo intelletto all’intera razza umana,
« egli non può conoscere che una sola gioia, cioè quella di vedere le «
sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di compiere l’opera e
sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito. Ogni altra, cosa «
è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i tempi le menti più
*; elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E ozio, ed il valore di
« quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo stesso. Volentieri
Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la libertà è un cordiale
più fortificante del Tokay, Pieno dei più cupi presentimenti egli
si portò con fretta in Germania, (tra zi
e alla sua energia e alla siili diffidenza d ogni prò Fessio- nej riuscì
a salvare la maggior parte della propria sostanza. Sua in mire non volle
prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe finale essa ed Adele
rimasero quasi senza un centesimo, Questo incidente dimostra die
Schopenhauer non era filosofo (/truche e poco pratico; egli certamente
non avrebbe inciampalo, guardando cri ammirando le stelle ; al genio egli
univa il senso pratico, una combina¬ zione molto rara, la cui origine
egli faceva risalire a suo padre nego¬ ziante. Ed è questa qualità che fa
di Schopenhauer il vero filosofo pei bisogni d’ogrii giorno, lasciando da
parte il -suo pessimismo. Egli aveva vissuto nel mondo e non era uno di
quegli studiosi che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni
e le richieste del mondo i suoi aforismi ed assiomi non sono troppo
elevati per essere messi in pratica s oltreché sono esposti in linguaggio
chiaro ed intelligibile ed esprimono spesso le percezioni d’ogni mente
che pensa. Though man a tlilnkmg being is ci e fine d,
Few use thè great prerogative oi minti; How few thiiik jusUy
oì thè tliiriking few; II ow manv n e ver inmk, who think they
do. Sfortunata incute il loro numero è infinito ed a loro non
occorre nè filosofo, nè poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella
vita una guida sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate
si tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die
welt as will –volere – filosofia fascista -- la volonta di potere, un invento della
sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Castelli
Grice e Castrucci: l’implicatura
conversazionale del guerriero indo-germanico -- sul conferimento di valore –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Monterosso al Mare). Filosofo
italiano. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La
Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi
filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi,
laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di
ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in
contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia
espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di
laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.
I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle
idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della
dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la
critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre
le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. C.
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in
particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice
europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del
nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e
di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che C. analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate
rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana,
a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del diritto.
Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono
infine riconoscere, secondo C., le linee di un'antropologia politica fondata su
basi individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione
individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio
problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale
tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella
comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia
radicamento individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in
tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o
radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea
di potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di
Nietzsche. L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di
riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica
della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea
aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi
distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra
questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso
filosofico di C., la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche
convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel
pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer,
Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più
recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali
di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno
suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno col quale si riferiva a
figure storiche naziste come Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento
di C. "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho
combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e
Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione
di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice
filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera
Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio
storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del
principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva
dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere
un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente
provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la
grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da C., annunciando di aver "dato
mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del
caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo
aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente,
ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la
sospensione, C. non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo
dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso, mentre l'iter
procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in
seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta
penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine
convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e
"Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè
Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè); Considerazioni
epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione
alla filosofia del diritto pubblico di Schmitt, Torino, Giappichelli); Hume e
la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica:
Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di
Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea
prima di Thomas Hobbes, C., Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della
terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il
nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio
sul problema della prassi giudiziale, C., Milano, Giuffre). Le radici
antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del
Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum
europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas,
in Filosofia politica, Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un
totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di
Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della
forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento,
Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e
pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno
nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè);
Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti
intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma,
potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).
HOMO ABSCONDITUS L’IDEOLOGIA TRI PARTITA DEGLI INDOEUROPEI
il Cerchio Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA
DEGLI INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli
studi di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle
anti¬ che civiltà euro-asiatiche. La struttura fondamentale
del pensiero religioso e sociale delle popolazioni uscite dalla comune
radice indoeuro¬ pea. dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in
Sacerdoti. Guerrieri e Contadini che è presente nelle origini di
Roma così come nei miti iranici, germanici e celti, si rivela essere
lo specchio di un'armonia divina, in cui gli stessi dèi sono così
suddivisi, clas¬ sificati e diversamente adorati. È la
dimostrazione di come, nelle ci¬ viltà tradizionali, anche l'aspetto
sociale e politico dipenda radicalmente dalla dimensione
mitico-religiosa. e il mondo del divino diviene l’archetipo che dà
forma a tutta la società degli uomini. DUMÉZIL è una figura
fondamentale nel panorama culturale europeo. Filologo e
storico, nel ‘900 ha riav¬ viato gli studi attorno alla civiltà
indoeuropea nelle grandi civiltà precristiane: Roma. l'India. l'Iran, la
Grecia, le popolazioni celtiche e germaniche. Ha lasciato una
bibliografia sterminata, solo parzialmente tradotta in italiano,
fra cui ricordiamo almeno La religione ro¬ mana arcaica, Gli Dèi
dei Germani, Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli
Indoeuropei. HOMO ABSCONDITUS Dumézil L’ideologia
tripartita degli Indoeuropei Con un saggio introduttivo
di RlES il Cerchio Iniziative editoriali L'idéologie
tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di
Mera. Walters Art Museum, Baltimora. II Cerchio Srl La
riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil.
Calmette rinvenne i primi due Li bri dei Veda, u n documento coni p
letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella
Biblioteca Reale di Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala,
Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza di una
lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della
riscoperta del pensiero indoeuropeo. Il primo dossier indoeuropeo
Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di com¬
piere nuove scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti
dell’antica mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione dei
Germani al Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare alle
origini spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolar¬ mente
due pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la celebre
opera di Creuzer Simbolik
undMvlhologie der altea Vòfker , tradotto in francese nel 1825; infine
nel 1810 J.J. Gòrres pubblicò il suo Mythengeschichle der asiatischen
Welt, in cui questo precursore del romanticismo religioso cercò di d
imostrare che i miti dell’India, dell’Iran e della Grecia veicolavano una
dottrina comune su Dio, l’Anima e l’immortalità. Sulla scia dei
loro maestri i mitografi romantici si lanciarono alla ricerca delle prime
idee religiose dell’infanzia umana. Oltre a ciò questa corrente si occupò
dell’espressione e delle modalità di trasmis¬ sione del messaggio
religioso sin dalle origini dell’umanità. A questa corrente romantica
si oppose la ricerca storica e filologica, rappresentata da Miiller, da Bopp,
da Chézy e da tutta la linea degli specialisti in filologia comparata che
studiarono scientificamente i testi dei Veda e dell’Avesta per
familiarizzarsi col pensiero dell’India e dell’Iran antichi. Tra questi
ricercatori Miiller occupa un posto di primaria importanza. Specializzatosi in
sanscrito, in grammatica comparata ed in filosofia del mito ad Oxford,
istituì una Cattedra divenuta celebre: egli credette che la filologia
comparata fos se la chiave che avrebbe permesso di aprire le porte della storia
delle religioni. Ai suoi occhi la lingua è un testimone autentico del
pensiero. Miiller sostenne che in origine l’uomo ha agito, e per
descrivere i suoi atti inventò il linguaggio. Da allora i miti non sono
altro che la personi¬ ficazione degli oggetti e delle azioni che 1 ’uomo
ha dovuto esprimere e descrivere. Continuando le sue ricerche
in direzione delle origini, Miiller tradusse i Veda, testo in cui credeva
di trovare il primo pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli
antichi Ariani. Così secon¬ do il nostro Autore i poemi vedici sarebbero
la fonte del pensiero religioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma
tra le ricerche di Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred
Books of thè Easl (che potè terminare prima della propria morte,
la¬ sciando così agli studiosi occidentali una vera summa dei libri
sacri dell’antica Asia. Il dossier indoeuropeo del XIX secolo è già
abbastanza ricco: scoperta della corrispondenze all’interno del
vocabolario delle lingue indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una
cultura arcaica ariana come pure di una civiltà comune alle diverse
popolazioni. Frazer tentò d’intraprendere un vasto studio comparato at¬
torno al mito romano della morte rituale ed al mito nordico del dio
Balder. Tutta la sua opera, The Golden Bough cerca di delineare una sintesi di
questa mitologia, ma le sue conclusio¬ ni sono deludenti.
Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il metodo frazeriano,
Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra per volgersi verso la
linguistica e la filologia comparata. Le sue guide furono A. Meillet e J.
Vendryes. In un articolo intitolato Les correspondances de vocabulaire
enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique (in «Mémoires de la Société
Linguistique»), Vendryes ha sottoli¬ neato le corrispondenze esistenti
tra parole indo-iraniche da una parte ed italo-celtiche dall’altra. Si
tratta di termini relativi al culto, al sacrificio ed alla religione, c vi sono
anche parole mistiche relative all’effi¬ cacia degli atti sacri, alla
purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’of¬ ferta fatta agli dèi,
all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla protezione divina ed
alla santità. Questa scoperta fu molto importante, poiché dimostra
l’esistenza di una comunanza di termini religiosi presso i popoli che in
seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici, gli Italici ed i
Celti. La permanenza di questo vocabolario religioso alle due estremità
del mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella Gallia ed in Italia, è
un dato molto significativo, benché la scomparsa di questo vocabolario
presso popoli come i Germani e gli Scandinavi non abbia mancato di
incuriosire Vendryes. Riflettendo, egli ha consta¬ tato che questi
termini religiosi si sono mantenuti presso quei popoli clic disponevano
di collegi sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi,
il Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e trasmettere
questo vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi sacri ed
alle preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa c di una
fonte importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il mondo indoeuropeo
arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic veicolava grazie ad
un linguaggio comune. 3. La scoperta dell’eredità indoeuropea
Alla luce delle ricerche dì Vendryes, Dumézil ha compreso quale
orientamento imprimere ai propri lavori. Al termine di vent’anni di studio egli
doveva trovare la chiave che gli permise di penetrare gli arcani del
pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La pubblicazio¬ ne de L'idéologie
tripartie des Indo-Européens è il compimento di una lunga marcia ed il punto di
partenza per tutte le scoperte .successive. L’esame del problema
flamen-brahman c dei flamini maggiori a Roma condusse Dumézil ad una
conclusione decisiva: «/ più antichi Romani, gli Umbri, avevano
portato con toro in Italia la stessa concezione conosciuta dagli
Indo-Iranici e su cui noto¬ riamente gli Indiani avevano fondato il loro
ordine sociale »' Era la scoperta e la messa a fuoco di un’eredità
indoeuropea, di una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla sommità
della quale si trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita dalla
forza fisica che s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si situa
la fecondi- tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza ma
indispensabile al loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa griglia di
lettura lo studioso francese si c avventurato nello studio di tutta la
documenta¬ zione disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui
oggetto c il dato indoeuropeo. Durante il III c II millennio
a.C. delle bande di conquistatori si spostarono verso l’Atlantico, il
Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate erano fatte di diversi dialetti
provenienti da una lingua comune, il che suppone un fondo intellettuale e
morale identico, ed un minimo di civiltà comune. Popoli senza scrittura, gli
Indoeuropei hanno lasciato pochi documenti. Solo gli Hittiti, stabilitisi
in Anatolia all’inizio del II millennio a.C., hanno adottato una
scrittura cuneiforme che consentì loro di conservare degli archivi. Ma
ciò che c notevole c la persistenza del vocabolario religioso legato
all’organizzazione sociale, alle prati¬ che cultuali ed ai comportamenti
religiosi. Parecchi fatti presuppon¬ gono l’esistenza di una religione
che rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo, una
concezione dell’origine, del presente c del futuro. DUMÉZIL, Mythe
et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les épopees despeuple
indo-européens, Gallimard, Paris 1968, p. 15 (Trad. italiana, Einaudi,
Torino 1982 - NdT) Volendo spiegare quest’eredità e la sua
struttura, Dumézil ha elaborato il proprio metodo comparativo, che lui
stesso chiama «genetico)}. La prima fase del lavoro consiste nel mettere in
evidenza delle corrispondenze precise e sistematiche, che permettano di
tracciare uno schema del rituale: miti, riti, significati logici ed
articolazioni essenziali. Questo schema viene proiettato nella preistoria, al
fine di comprendere la curva dell’evoluzione religiosa. Possedendo
delle corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo storico delle
civiltà e lo storico delle religioni procedono per induzione in direzione
delle origini. Utilizzando i dati dell’archeologia, della mitologia,
della filologia, della sociologia, della liturgia e della teologia
arcaica, lo storico giunge a comprendere le grandi linee del pensiero di questi
popoli e la loro evoluzione, sino alle soglie della storia. Grazie a
questo lavoro lungo ed arduo si è riusciti a stabilire un’archeologia del
comporta¬ mento e delle rappresentazioni. Dumézil non ha preteso
di resuscitare la religione degli Indoeuropei come venne vissuta nei
tempi preistorici. Si è accontentato piuttosto di delineare lo schema
concettuale delle società collegate tra loro nello sviluppo della storia,
e si è servito di questi schemi per giun¬ gere a spiegare i testi ed i
fatti che resistevano ad ogni spiegazione. Nelle civiltà
indoeuropee il nostro autore trova una struttura sociale articolata in tre
funzioni. Sono queste i tre varna dell’India: i brdhmana, sacerdoti
incaricati del sacrificio e custodi della scienza sacra; gli ksatriya,
guerrieri incaricati della protezione del popolo; i vaisya, produttori
dei beni materiali, del nutrimento. Secondo il Rg-Vecla (Vili, 35) queste
tre «caste» sono molto antiche. In Iran l 'Avesta menziona tre gruppi di
uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guer¬ rieri, i radaci.star montatori di
carri; gli agricoltori-allevatori, chiamati vàstryò.fsuycmt. Una struttura
identica ha lasciato tracce presso gli Sciti ed i loro discendenti, gli
Osseti del Caucaso, e presso i Celti ed i loro druidi, la loro
aristocrazia militare ed i loro boairig, gli allevatori DUMÉZIL, L
’heritage des indo-curopéens à Rome, Gallimard, Paris di buoi. L’analisi
delle origini di Roma condotta da Dumézil si è riveata particolarmente
illuminante. Queste tre funzioni sono attività fondamentali e
indispensabili per la vita normale della comunità. La prima funzione,
quella del sa¬ cro, regola i rapporti degli uomini fra loro e sotto la
garanzia degli dèi, determina il potere del re e traccia i limiti della
scienza, inseparabile dalla manipolazione delle cose sacre. La seconda
funzione, quella re¬ lativa alla forza fisica, interviene nella
conquista, nell’organizzazione della società e nella sua difesa. La terza
ricopre un vasto ambito, quel¬ lo della sussistenza degli uomini e della
conservazione della società: fecondità animale ed umana, nutrimento,
ricchezza e salute. Dumézil ha dimostrato che la società indoeuropea era
governata in profondità grazie ad una mentalità fondata su una struttura
trifunzionale. La teologia si trova al centro del mondo indoeuropeo.
Una delle grandi prove di ciò è la lista degli dèi ariani di Mitanni
trovata su una tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa, capitale
dell’impero hittita. Scoperta nel 1907, questa tavoletta contiene il
testo di un trattato concluso nel 1380 a.C. tra il re hittita Supilulliuma ed
il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della loro alleanza
ognuno dei re invo¬ ca i propri dèi: il re di Mitanni invoca gli dèi
considerati i protettori della società ariana: Mithra-Varuna, India e i
Nasatya. Sono gli dèi delle tre funzioni che ritroviamo in India ed in
Iran. In quest’ultimo paese è la riforma di Zarathustra e la formulazione
delle sei entità divi¬ ne - gli Immortali Benefici - che illustra in
maniera illuminante questa teologia strutturata su tre piani ed
articolata in tre funzioni. Dai Mitanni, dall’India e dall’Iran
Dumézil è pervenuto all’Ita¬ lia ove ha rilevato la triade
Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio) in Umbria ed a Roma la triade
precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus. Questi dati indicano
chiaramente che l’ideologia è correlata ad una teologia delle tre
funzioni. Nell’India vedica ciò comporta un’associazione di tre coppie di
dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi Mitra e Varuna, signori del primo
livello, si dividono la sovranità di questo mondo e dell’altro: Indra,
scortato dai Marut, un battaglione di giova¬ ni guerrieri, proclama
l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin sono distributori di
salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armen¬ ti; si tratta dunque di
una teologia tripartita. Il documento di Hattusadel 1380 a.C. ci
mostra che questa teo¬ logia è anteriore alla redazione dei Veda e che fa
parte della tradizione ariana arcaica; d’altra parte, la presenza dello
schema trifunzionale nella teologia di Zarathustra ed il suo riflesso
sugli «Arcangeli» raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda conferma
l’attacca¬ mento ad una struttura di pensiero ariano sia presso i
sacerdoti che i popoli dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si
rinviene anche in Italia, presso i Celti, i Germani e gli
Scandinavi. Conclusioni E stato necessario tutto il XIX
secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c
stato quello di aver consa¬ crato un 'intera vita all’interpretazione di
questa documentazione. Egli ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max
Miillcr c di James Frazer: una ricerca di equazioni nell’onomastica
relativa al dominio del culto e delle divinità. Le corrispondenze
all’interno del vocabolario del sa¬ cro, dei popoli indo-iranici da una
parte c di quelli italo-ccltici dall’al¬ tra, hanno fornito allo studioso
l’idea di studiare più a fondo i paralleli attorno alle divinità ed ai
sacerdoti, poiché questi popoli sono i soli tra gli indoeuropei ad aver
conservato per molti secoli i loro collegi sacerdotali. Questa
nuova via fu illuminante, poiché ha condotto alla sco¬ perta di
un’eredità indoeuropea ancora visibile agli inizi della storia dei popoli
italici, celtici, iranici cd indiani. L’assenza di vestigia ar¬
cheologiche concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un meto¬ do
comparativo genetico fondato sull’archeologia delle rappresenta¬ zioni c
del comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce
dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio
egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -
della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale
che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei
della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:
classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori. Mezzo
secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa visione nuova del
mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle vestigia della
civiltà e della religione indoeuropea e di far indietreg¬ giare di più
d’un millennio i lempora ignota. Julien Ries Università di
Louvaìn-la-Neuve Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà
menzione de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni,
della loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo
qui im¬ piegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non
interessa molto i problemi qui posti. La «civiltà indoeuropea» che noi
conside¬ reremo è quella dello spirito. Al pari degli Indiani
vedici, come ci vengono presentati dai loro inni, gli Indoeuropei non
furono uomini senza riflessione e senza im¬ maginazione, tutt’altro.
Esattamente da vent’anni ormai la comparazione delle più antiche tradizioni,
dei diversi popoli parlanti lingue in¬ doeuropee, ha rivelato un fondo
considerevole di elementi comuni, elementi non isolati ma organizzati in
strutture complesse delle quali non ci è offerto un equivalente in altri
popoli del mondo antico. L'esposizione, che ci si appresta a leggere, è
consacrata alla più importante di queste strutture. L’obiettivo
essenziale è quello di guidare lo studente, tramite una serie di riassunti
ordinati e consequenziali, attraverso una mole di argomenti poco agevoli
a causa della loro eterogeneità e del loro frazionamento. Nello
stesso tempo si vorrebbe fornire ai lettori già informati una prima e
provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo un ordine ma una messa a
fuoco alla correlazione generale che solo uno sguardo d’insieme può
imporre ai risultati parziali. Un problema che per anni è stato
capitale e in primo piano - penso al valore trifunzionale delle tre tribù
romane primitive - si trova qui limitato in un secondo livello; al
contrario, le numerose applicazioni ideologiche delle tre funzioni, le cui
segnalazioni si trovano disperse nelle pubblicazioni più svariate,
acquisteranno ora, io spero, potenza grazie ad un parallelismo che farà
risaltare il loro semplice riavvicina¬ mento. Questo doppio
disegno non prevederànote a piè di pagina: si è preferito costruire una
sorta di commentario bibliografico distribuito secondo i paragrafi del
libro, indicando i testi affinché ognuno riepilo¬ ghi o perfezioni a
proprio piacimento; oppure segnando c datando su ogni punto importante i
progressi o le svolte della ricerca; o ancora, rinviando ad altri
paragrafi per segnalare correlazioni che non avrebbero potuto ingombrare
l’esposizione discorsiva iniziale. Non si è tenuto conto che
dell’opera principale dell’autore e di un certo numero di colleghi
francesi e stranieri che, pur senza voler formare una scuola, si dedicano
da più o meno tempo alle stesse mate¬ rie con metodi simili e che si
tengono costantemente in contatto tra loro. Altre visioni sul
pensiero degli indoeuropei, incompatibili con questa, non saranno qui
esaminate, non per disprezzo ma perché le di¬ mensioni del presente libro
sono ristrette e l’intento è costruttivo e non critico.
Tuttavia, nelle note finali si troveranno riferimenti a numerose
discussioni. Il mio caro collega Renard mi ha permesso di
presentare nella collezione Latomus, poco tempo dopo Les Déesses latines,
que¬ sta nuova esposizione in cui il popolo romano non interviene che
prò virili parte. Egli ha così voluto confermare, sensibilmente ai
nostri studi, cd io lo ringrazio, la necessaria alleanza tra studi
classici e indoeuropei, tra metodi filologici e comparativi, che ho sempre
invocato con augurio. Uppsala. Parigi. Le tre funzioni
sociali e cosmiche 1. Le classi sociali in India Uno
dei tratti più sorprendenti delle società indiane post-rgve- diche è la
loro divisione sistematica in quattro «classi», dette in san¬ scrito i
quattro «colori», varna, le prime tre delle quali benché diverse sono
pure perché propriamente arya, mentre la quarta, formala indub¬ biamente
dai vinti della conquista arya, è sottomessa alle altre tre ed è quindi
irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe eterogenea non si
Lralterà qui ulteriormente. I doveri di ognuna delle tre classi
arya servono per definirle: i brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano
la scienza sacra e cele¬ brano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i
guerrieri, proteggono il po¬ polo con la loro forza e con le loro armi;
ai vaisya è affidato l’alle¬ vamento e l’aratura, il commercio e più in
generale la produzione dei beni materiali. Si costituisce
così una società completa e armonica presieduta da un personaggio a
parte, il re, rdjan, generalmente nato e qualitativa¬ mente estratto dal
secondo livello. Questi gruppi funzionali e gerarchizzati sono
conchiusi tutti su loro stessi in base all’ereditarietà, all’endogamia e
a un codice rigoro¬ so d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi
è dubbio che il sistema non sia una creazione propriamente indiana posteriore
alla maggior parte del Riveda-, i nomi delle classi non sono
menzionati chiaramente che nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale,
nel X libro della raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una
tale crea¬ zione non è nata dal nulla, bensì da un irrigidimento di una
dottrina e di una pratica sociale preesistente. Nel 1940 uno studioso
indiano, V.M. Apte, fece una collezione dimostrativa dei lesti dei primi
nove libri del Riveda (principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come
sin dai tempi della redazione di questi inni la società fosse pensata
composta da sacerdoti, guerrieri e allevatori e che se questi gruppi non
erano an¬ cora designati dai nomi di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya
(sostanti¬ vi astratti, nomi di nozioni di cui i nomi di questi uomini
non sono che i derivati) erano già composti in un sistema gerarchico che
definiva di¬ stributivamente i principi delle tre attività. Brc'ihmun (al
neutro) «scienza e utilizzazione delle correlazioni mistiche tra le parti
del rea¬ le visibile o invisibile», kyatrei «potenza», vis «contadinanza»
o «habi¬ tat organizzalo» (la parola c apparentala al latino vTcus e al
greco (w)oùco<;), al plurale visuh «insieme del popolo nel suo
raggruppa¬ mento sociale e locale». È impossibile determinare
in quale misura la pratica si confor¬ masse a questa struttura teorica:
vi era forse una parte più o meno con¬ siderevole della società che
indifferenziata o altrimenti classificata sfuggiva a QUESTA
TRIPARTIZIONE? L’ereditarietà all’interno di ciascuna classe non era
forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale più flessibile
c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente ci è accessibile
solo la teoria. 2. Le classi sociali avestiche Da un
quarto di secolo, confermando le osservazioni di F. Spie- gel, di E.
Benvenisle e di me stesso, abbiamo sostenuto che almeno nella sua forma
ideologica la tripartizione sociale era una concezione già acquisita
prima della divisione degli «Indo-Iranici» in Indiani da una parte ed
Iranici dall’altra. In diversi passaggi VA vesta menziona i
componenti della socie¬ tà come gruppi di uomini o di classi (designate
da una parola che si ri¬ ferisce al colore, pistra): i sacerdoti,
àBuurvan o uBravun (cf. uno dei sacerdoti vedici, Vdtharvan), i
guerrieri, luBciè.star («guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto
del dio guerriero Indra) e gli agri¬ coltori-allevatori, vàstryó.fsuyant.
Un solo passaggio avestico e più notoriamente i testi palliavi,
pongono come quarto termine alla base di questa gerarchia, gli artigia¬
ni, huiti, altri indizi (come il fatto che raggruppamenti triplici di
nozio¬ ni sono talvolta messi maldestramente in rapporto con le quattro
clas¬ si, cf. SBE, V, p. 357) ci portano a considerarla una aggiunta a
un antico sistema ternario. Nel X secolo della nostra èra il
poeta persiano Ferdusi, fedele testimone della tradizione, racconta come
il favoloso re Jamsed (lo Yima Xsaéla dell’A vesta) istituì
gerarchicamente queste classi: se¬ parò inizialmente dal resto del popolo
gli *asravctn «assegnando loro le montagne per celebrarvi il loro culto,
per consacrarsi al servizio di¬ vino e restare nella luminosa dimora »; gli
*artesfar, posti dall’altra parte, «combattono come dei leoni, brillano
alla testa delle armate e delle province, grazie a loro il trono regale è
protetto e la gloria del valore è mantenuta »; quanto ai *vùstryós, la
terza classe, « loro stessi arano, piantano e raccolgono; di ciò che
mangiano nessuno li rimpro¬ vera, non sono servi benché vestiti di
stracci e il loro orecchio è sordo alla calunnia». A
differenza dell’India le società iraniche non hanno irrigidito questa
concezione in un regime castale: esso sembra essere rimasto un modello,
un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed enunciare l’essenzialità
dell’argomento sociale. Dal punto di vista della ideolo¬ gia in cui noi
ci poniamo, questo è sufficiente. Un ramo aberrante della famiglia
iranica, molto importante poi¬ ché si è sviluppato non in Iran ma a nord
del Mar Nero, fuori dalla mor¬ sa degli imperi, iranici o altri, che si
sono succeduti nel Vicino Orien¬ te, testimonianello stesso senso: sono
gli Sciti - i cui costumi insieme a molte leggende ci sono noli grazie ad
Erodoto e a qualche altro autore antico - la cui lingua e tradizione si è
mantenuta sino ai nostri giorni grazie a un piccolo popolo del Caucaso
centrale, originale e pieno di vitalità, gli Osseti. Secondo
Erodoto (IV, 5-6) ecco come gli Sciti raccontano l’origine della loro
nazione: 17 «Il primo uomo che comparve nel
loro paese, prima di allora deserto, si chiamava Targitaos, che si diceva
figlio di Zeus e di una fi¬ glia del fiume Boriysthene (il Dniepr
attuale)... Lui stesso ebbe tre fi¬ gli, Lipoxais (variante Nitoxais),
Arpoxais e in ultimo Kolaxais. Quando erano in vita caddero dal cielo
sulla terra Scizia degli oggetti d’oro: un carro, un giogo, un’ascia e
una coppa (apoxpóv xe mi t/uyòv mi cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa vista
il più anziano si af¬ frettò a prenderli ma quando arrivò l ’oro si mise
a bruciare. Così si ri¬ tirò e il secondo si fece avanti ma senza
migliore successo. Avendo i primi due rinunciato all 'oro bruciante,
sopraggiunse il terzo e l ’oro si spense. Lo prese con sé e i suoi due
fratelli, davanti a questo segno, abbandonarono la regalità interamente
all'ultimogenito. Da Lipoxa¬ is sono nati quegli Sciti che sono chiamati
la tribù (yévoq) degli Aukh- atai; da Arpoxais quelle dette Katiaroi e
Traspies (variante: Trapies, Trapioi) e in ultimo, dal re, quelle dette
Paralatai; ma tutte insieme si chiamano Skolotoi, dal nome del loro re
» Mi sembra certo che bisogna, al pari di E. Benveniste,
rendere yévoq con «tribù». Gli Sciti contano quattro tribù, una delle
quali è la tribù capo. Ma tutte hanno realmente o idealmente la stessa
struttura: è chiaro infatti che questi quattro oggetti si riferiscono
alle tre attività sociali degli Indiani e degli «Iranici deH’Iran»; il
carro e il giogo (E. Benveniste ha analizzato un composto avestico che
associa queste due parti della meccanica dell’aratura) evocano
l’agricoltura; l’ascia era con l’arco l’arma nazionale degli Sciti; altre
tradizioni scitiche conser¬ vate da Erodoto, come pure l’analogia coi
dati indo-iranici conosciuti, incoraggiano a vedere nella coppa lo
strumento e il simbolo delle of¬ ferte cultuali e delle bevande
sacre. La forma ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà
alla tradizione, conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli
amba¬ sciatori degli Sciti che cercavano di convincere Alessandro Magno
a non attaccarli: «Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un
giogo per buoi, un carro, una lancia, una freccia e una coppa (iugum bovum,
aratrum, hasta, sagitta et patera). Ce ne serviamo con i nostri amici e
contro i nostri nemici. Ai nostri amici doniamo i frutti della terra che
ci procu- 18 ra il lavoro dei buoi; con essi
offriamo agli dèi libagioni di vino; quan¬ to ai nostri nemici, li
attacchiamo da lontano con la freccia e da vicino con la lancia».
4. La famiglia degli eroi Narti È interessante vedere
sopravvivere questa struttura ideologica della società nell’epopea
popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n frammenti ma in numerose
varianti da circa un secolo e che una gran¬ de impresa folklorica
russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistema¬ ticamente raccolto. Gli
Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i Narti, erano divisi
essenzialmente in tre famiglie. «/ Boriatee - dice una tradizione
pubblicata da S. Tuganov nel 1925 - erano ricchi in armenti; gli
Alcegatce erano forti per intelligen¬ za; gli /Exscertcegkatce si
distinguevano per eroismo e vigore ed erano forti per i loro uomini».
I dettagli del racconto che giustappongono od oppongono a due a due
queste famiglie, soprattutto nella grande collezione degli anni ’40,
confermano pienamente queste definizioni. II carattere
«intellettuale» degli Alaegatae riveste una forma ar¬ caica, non appaiono
che in circostanze uniche ma frequenti: c nella loro casa che hanno luogo
le solenni bevute dei Narti in cui si produco¬ no le meraviglie di una
Coppa magica detta la «Rivelatrice dei Narti». Quanto agli
vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto, è ri¬ marchevole che il
loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t) «bravura», che è, con
le alterazioni fonetiche previste nelle parlate sci¬ tiche, la stessa
parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico, come abbia¬ mo visto, del
fondamento della classe guerriera. I Boriala; e il principale tra
essi, Burafscrnyg, sono costante- mente e caricaturalmente i ricchi, con
tutti i rischi e i difetti della ric¬ chezza e in più, in opposizione ai
poco numerosi vExsaertaegkatae, sono una moltitudine di uomini.
5. Gli Indoeuropei e la tripartizione sociale Riconosciuta
così come retaggio comune indo-iranico, questa dottrina tripartita della
vita sociale è stata il punto di partenza di un'inchiesta che prosegue da
più di vent’anni e che ha portato a due risultati complementari che possono
riassumersi in questi termini: 1) al di fuori degli Indo-Iranici i popoli
indoeuropei conosciuti in età antica o praticavano realmente una
divisione di questo tipo oppure, nelle leg¬ gende in cui spiegano le
proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti «componenti» iniziali fra
le tre categorie di questa stessa divisione: 2) nel mondo antico, dal
paese dei Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Li¬ bia e dall’Arabia agli
Iper borei, nessun popolo non indoeuropeo ha esplicitato
praticamente o idealmente una tale struttura o se l’ha fatto è stalo dopo
un contatto preciso, localizzabile c databile, che ha avuto con un popolo
indoeuropeo. Ecco qualche esempio a sostegno di que¬ sta
proposizione. Il caso più completo è quello dei più occidentali tra gli
Indoeu¬ ropei, i Celti e gli Italici, il che non è sorprendente una volta
che si c prestata attenzione (J. Vendryes, 1918) alle numerose
corrispondenze che esistono nel vocabolario della religione,
dell’amministrazione e del diritto, tra le lingue indo-iraniche da una
parte e quelle ilalo-celli- che dall’altra. Se si ordinano i
documenti che descrivono lo stato sociale della Gallia pagana decadente conquistala
da Cesare, insieme ai testi che ci informano sull’Irlanda pocoprima della
sua conversione al cristiane¬ simo, ci appare sotto il *rig (l’esalto
equivalente fonetico del sanscrito rcij- o del latino réf*-), un tipo di
società così costituita: 1) Al di sopra di tulli c forte oltre ogni
limile, quasi super-nazio¬ nale come la classe dei brahmani, vi c la
classe dei clruicli (*dru-uid), cioè dei sapienti, sacerdoti, giuristi,
depositari della tradizione. 2) Segue poi l’aristocrazia militare,
unica proprietaria del suo¬ lo, \a flciith irlandese (cf. il gallico
vlata- c il tedesco Gewcdt), propria¬ mente la «potenza», esatto
equivalente semantico del sanscrito ksatrà, essenza della funzione
guerriera. 3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini
liberi ( ciirif.;) che si definiscono solamente come possessori di vacche
( bó). Non è sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R.
Thurney- scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che
questa ul¬ tima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che
designa lutti i membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono
protetti dalla legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle
assemblee - airecht - e ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato
in -k di una parola impa¬ rentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito
city a, àrya\ antico-persiano ariya, avestico airya; osseto Iceg «uomo»,
da *arya-ka-). Ma poco im¬ porta: il quadro tripartito celtico ricopre
esattamente lo schema reale o ideale delle società indo-iraniche. La
Roma storica, benché risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali:
l’opposizione tra patrizi e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è
l’effetto di un’evoluzione precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi
benché rivestila di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres,
Titienses - e ancora in qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci
suggerisce chiaramente la leggenda delle origini. Secondo la variante più
diffusa, Roma si e costituita da tre elementi etnici: i compagni latini
di Romolo e Remo, gli alleati etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i
nemici sabini di Romolo comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato
nascita a la TRIBU I -- Ramnes, i secondi alla TRIBU II – i Luceres c i
terzi alla TRIBU III – i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora
costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA
TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU
II. Lucumone c la sua banda sono i primi specialisti dell’arte militare
arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I: Romolo è il semi-dio, il
rex-augur beneficiario della promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y
urbs e il fondatore istituzionale della respublica. Talvolta la componente
etnisca è eliminala, ma l’analisi «tri-funzionale» non viene meno poiché Romolo
c i suoi Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi
sacri e di guerrieri esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito
Livio (1,9; 2-4), “deos et virtutem” e non gli mancano temporaneamente
che opes (e le donne) che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro,
1,1) i Sabini riconciliati che si trasferiscono a Roma c cum generis suis
a vitas opes prò dote socicint. Eliminando così gli’etruschi, il
dio Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico
dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: « La
ricca vicinanza – “viciniadives” -- non voleva questi generi senza ricchezza –
“inopes” -- e non aveva riguardo del fatto che io ero (un dio) la fonte
del loro sangue – “sanguinis auctor”. Io ho risentito di questa pena e ho
messo nel tuo cuore, Romolo, una disposizione conforme alla natura di tuo
padre -- “patriam mentem”, cioè marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione,
ciò che domandi, saranno le armi a donartelo – “arma dabunt”. Dionigi di Alicarnasso che segue la
tradizione delle tre razze, ripartisce tra quelli gli stessi tre
vantaggi: le città vicine, sabine o altre, sollecitate da Romolo per
mezzo di matrimoni, rifiutano (II, 30) di unirsi a questi nuovi venuti «
Che non sono da considerarsi neper ricchezza (xpTipaoi) né per altre imprese
(taupnpòv Èpyov)». A Romolo, relegato così alla sua qualità di figlio di dio e
di depositario dei primi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari
di professione come l’etrusco Lucumone di Solone, «Uomo di azione e
illustre in materia di guerra» (xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq).
8. Properzio iv, i, 9-32 Ma è Properzio, nella prima elegia
romana che da a questa dottrina delle origini, e nella forma delle tre
razze, l’espressione più complete. Nel momento in cui nomina, con Romolo, le
tre tribù primitive mettendo in risalto le loro etimologie tramite le
correlazioni tradizionali coi nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere
i caratteri funzionali distintivi, 1’«essenza», potremmo dire, della
materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i compagni di Remo e di suo fratello (il
nome di Romolo è riservato per coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon
(Lucu- mo); TRIBU III. Tito Tazio. Il testo di Properzio
merita di essere esaminato più da vicino. L’intenzione di Properzio
all’inizio di questa elegia è di opporre (c un luogo comune dell’epoca)
l’umiltà delle origini all’opulenza della Roma d’Ottaviano. Dopo qualche
verso che introduce il tema applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati
in tre parti ineguali, seguite da una conclusione: -- sul pendio
dove si elevava un tempo la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo
focolare, immenso reame. La Curia, il cui splendore copre oggi
un'assemblea di toghe preteste, non conteneva che senatori vestiti di pelle
e dalle anime rustiche. Era la tromba che convoca, per i colloqui, gli
antichi cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro
senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna
scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a
cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al culto
ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che
con fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno
oggi giorno grazie a un cavallo mutilato. Vesta era povera e
trovava il suo piacere in asinelli coronati di Fiori. Delle vacche
scarnite portavano in processione degli oggetti senza
valore. Dei maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti
crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre in sacrificio le
interiora di una pecora. Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle
correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci
scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi
terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo
campo e stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del
generale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON. E la
ricchezza di TATIUS era essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si
formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, originari di Solonio; è da là che
Romolo Lancia la sua quadriga di cavalli Bianchi. Il percorso di questo
sviluppo è ben chiaro. Cme una favola verso la sua breve morale, tende
verso l’ultimo distico che prima di menzionare il «radunatore» Romolo,
nell’apparato dei suoi trionfi, enumera sotto i loro nomi le tre tribù
riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che
sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione
erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del
verso 30 e i Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes
(v. 23, e 31), conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati
simmetricamente alla menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto
di comando di questa società composita (v. 31 e 32) ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al
verso 9, o insieme a lui in frotres al verso 10. In altre parole, prima
di mostrarli trasformati (hinc...) sotto Romolo, nei tre terzi della città
unificata, Properzio comincia col presentare successivamente, sotto i loro
eponimi e nella loro esistenza ancora separata, le tre componenti della
futura Roma, nell’ordine. TRIBU I: Le genti di Remo e di suo fratello.
TRIBU II. L’etrusco Lucumone e – TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega
così come le feste dei versi 15-26, appartenenti ai futuri Ramnes, siano
quelle che la tradizione considera anteriori al sinecismo e praticate già,
nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma non è tutto. Non è meno lampante
che le tre successive presentazioni delle future tribù siano caratterizzate
secondo tre funzioni. Dal verso 9 («Remo») al verso 26, Properzio non evoca che
il carattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (v. 9-14;
semplicità dei «re», di ciò che rappresentava allora il senato e
l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di solennità e di dèi
stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a febbraio - dei
Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno sfarzo). TRIBU
II: Dal verso 27 al verso 29 (« Lygmon») il poeta evoca le forme
primitive della GUERRA che rimangono elementari («un berretto di pelle»)
anche col primo tecnico militare. TRIBU III: Nel solo verso 30 («
Tatius ») Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA
primitiva. La nettezza delle articolazioni del testo e, in
conseguenza, delle intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto
nel distico 29-30 di Lucumo come generale e di Tazio come ricco
proprietario di armenti, mettono in risalto il fatto che, benché
concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di
epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente. TRIBU I: I Ramnes,
raggruppati intorno ai «fratelli», dediti soprattutto al governo e al
culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio
e i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori. Le
divisioni degli Ioni Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi
ateniesi erano stati ini¬ zialmente divisi in quattro tribù definite dal
ruolo nell’organizzazione sociale. I nomi tradizionali delle tribù non
sono molto chiari, al pari della ripartizione dei nomi nelle quattro
funzioni o, come dice Plutar¬ co, nei quattro |3ioi «(tipi di) vite», ma
questi tipi sono molto probabil¬ mente sacerdoti o funzionari religiosi,
guerrieri o «guardiani», agricol¬ tori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1;
cf. Platone, Timeo, 24 A). Plutarco 0 Solone 23), per una falsa
etimologia del nome ordinario ricollegato ai sacerdoti, omette i
sacerdoti e sdoppia agricoltori e pastori. È probabile che le tre
classi della Repubblica ideale di Platone - filosofi che governano,
guerrieri che difendono e il terzo stato che pro¬ duce ricchezza - con
ogni loro armonizzazione morale o filosofica, così prossima talvolta alle
speculazioni indiane, siano state ispirate in parte dalle tradizioni
ioniche, in parte da ciò che si sapeva allora in GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli
insegnamenti dei pi¬ tagorici che risalgono senza dubbio al remoto
passato ellenico o pre¬ ellenico. 10. La tripartizione
sociale nel mondo antico A questi schemi concordanti si è cercata
invano una replica in¬ dipendente nella pratica o nelle tradizioni delle
società ugrofinniche o siberiane, presso i Cinesi o gli Ebrei biblici, in
Fenicia o nella Mesopo- tamia sumerica o accadica, o nelle vaste zone
continentali adiacenti agli Indoeuropei o penetrate da essi. Ciò che
salta agli occhi sono delle organizzazioni indifferenziate di nomadi in
cui ognuno è sia combat¬ tente che pastore; delle organizzazioni
teocratiche di sedentari in cui un re-sacerdote o un imperatore divino è
contrapposto ad una massa spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua
umiltà; oppure ancora delle società in cui lo stregone non è che uno
specialista fra tanti altri senza preminenza, malgrado il timore che la
sua competenza suscita. Niente di tutto questo ricorda né da vicino
né da lontano la strut¬ tura delle tre classi funzionali gerarchizzate e
non vi sono delle eccezioni. Quando un popolo non indoeuropeo del
mondo antico, ad esempio del Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa
struttura è perché l’ha acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato
vicino a lui, da una di quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti,
Hittiti, Arya - che nel secondo millennio si sono arditamente sparse
lungo diversi percorsi. E il caso ad esempio dell’Egitto «castale»
in cui i Greci del V secolo credevano di aver trovato il prototipo,
l’origine delle più vec¬ chie classi funzionali ateniesi che sono state
menzionate poco fa. In re¬ altà questa struttura si è formata sul Nilo
grazie al contatto con gli Indoeuropei, che apparendo in Asia Minore e in
Siria nella metà del secondo millennio prima della nostra èra, rivelarono
agli Egiziani il cavallo e tutti i suoi usi. Solamente dopo
questa data il vecchio impero dei Faraoni si riorganizza per poter
sopravvivere, formandosi ciò che non aveva mai avuto: un’armata
permanente e una classe militare. Il più antico testo «multifunzionale»
del tipo di quello che sarà conosciuto da Erodoto (Timeo) o da Diodoro, è
l’iscrizione in cui Thaneni si vanta di aver fat¬ to un vasto censimento
per conto dei suo Faraone Thutmosis IV (J.H. Breasted, Ancient Records
ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty, 1906, p. 165): «M uste ring
ofthe whole land before his Majesty making an in- spection ofevery body,
knowing thè soldiers, priests, royal serfs and all thè craftsmen ofthe
whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle, by thè military
scribe, beloved of his lord Thaneni » Ora, Thutmosis IV (1415-1405)
è giusto il primo Faraone che abbia mai sposato una principessa arya dei
Mitanni, la figlia di un re dal nome caratteristico di Artatama. Sembra
che la differenziazione di una classe di guerrieri col suo statuto
«morale» particolare, unito ad una sorta di alleanza flessibile a una
classe ugualmente differenziata di sacerdoti, sia stata la novità degli
Indoeuropei e il cavallo e il carro la ragione e il mezzo della loro
espansione. Le iscrizioni geroglifiche e cuneiformi ci hanno trasmesso il
ricordo del terrore che causarono alle vecchie civiltà questi specialisti
della guerra, così arditi e impietosi come quei conquistadores che
tremila anni più tardi nel Nuovo Mon¬ do comparvero ai capi e ai popoli
degli imperi che schiacciarono. Essi li designavano con un nome -
marianni - che in effetti gli Indoeuropei usavano: i mdriya, incuiStig
Wikander seppe riconosce- 26 re nel 1938 i
membri dei «Mcitinerblinde» dello stesso tipo studiato da Otto Hofler
presso i Germani. 11. Teoria e pratica La comparazione
dei più antichi documenti indoiranici, celtici, italici e greci, se da
una parte permette di affermare che gli Indoeuro¬ pei avevano una
concezione della struttura sociale fondata sulla di¬ stinzione e sulla
gerarchizzazione delle tre funzioni, dall’altra parte non può insegnare
grandi cose sulla forma concreta - o sulle diverse forme - in cui si
sarebbero realizzate queste concezioni. Bisogna ora generalizzare ciò che
è stato detto più sopra a proposito degli Arya ve¬ dici. È
possibile che la società sia stata interamente ed esausti vamen- te
ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può anche pensare che la
distinzione avesse solamente portato a mettere in risalto qualche clan o
qualche famiglia «specializzata», depositaria nell’un caso dei segreti efficaci
del culto, nel secondo delle iniziazioni e delle tecniche guer¬ riere e
nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie deH’allevamento, mentre il
grosso della società, indifferenziata o meno differenziata, si affidava
alla direzione degli uni o degli altri, secondo le necessità o le occasioni.
Si è infine liberi di immaginare moltissime forme intermedie, ma
queste non saranno che punti di vista dello spirito. Certi
raffronti di cifre sembrano tuttavia rivelare la sopravvi¬ venza di
formule molto precise: così, nel Rgveda i «33 dèi» riassumo¬ no una
società divina concepita ad immagine della società aryae sono talvolta
scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3 supplementari; oppure, a
Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei quali 30 (cioè 3 per 10)
riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei Ramnes, Luce- res e
Titienses, completate da 3 àuguri. 12. Le tre funzioni
fondamentali Così, non è il dettaglio autentico e storico
dell’organizzazione sociale tripartita degli Indoeuropei che interessa di
più il comparatista, ma il principio di classificazione, il tipo di
ideologia che essa ha susci¬ tato, realizzato o formulato, e di cui non
sembra essere più rimasta che un’espressione tra tante
altre. Diverse volte nell’esposizione che si è letta è stata
incontrata una parola importante: quella di funzione, di tre funzioni, e
bisogna così intendere certamente le tre attività fondamentali assicurate
da gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri, produttori - per il
sostentamen¬ to e la prosperità della collettività. Ma il
dominio delle «funzioni» non si limita a questa prospetti¬ va sociale.
Alla riflessione filosofica degli Indoeuropei esse avevano già fornito -
come sostantivi astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi delle tre classi
nella riflessione filosofica degli Indiani vedici e posl-vedici - ciò che
può essere considerato, secondo il punto di vista, come un mezzo per
esplorare la realtà materiale e morale o come un mezzo per mettere ordine
nel patrimonio delle nozioni ammesse dalla società.
L’inventario di queste applicazioni non propriamente sociali della
struttura trifunzionale, è stato intrapreso e continuato, dal 1938, da E.
Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre sulla prima e sulla
seconda «funzione» un’etichetta che copra tutte le sfumature: da una
parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli
uo¬ mini tra di loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto,
ammi¬ nistrazione), e così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai
suoi delegati in conformità con la volontà o il favore divino e infine,
più ge¬ neralmente, la scienza c l’intelligenza, allora inseparabili
dalla medi¬ tazione e dalla manipolazione delle cose sacre; dall’altra
parte la forza fisica brutale e l’impiego della forza, uso principalmente
ma non uni¬ camente guerriero. È meno facile delincare in
poche parole l’essenza della terza funzione, che ricopre delle province
numerose fra le quali intercorro¬ no dei legami evidenti ma la cui unità
non comporta un centro ben de¬ finito: fecondità umana, animale e
vegetale, ma, nello stesso tempo, nutrimento e ricchezza, santità e pace
(con le gioie c i vantaggi della pace) e anche voluttà, bellezza c
l’importante idea del «gran numero», applicata non solo ai beni
(abbondanza) ma anche agli uomini che compongono il corpo sociale
(massa). Non sono queste delle defini¬ zioni a priori ma insegnamenti
convergenti di molte applicazioni dell’ideologia tripartita.
Gli indologi hanno familiarità con questo uso straripante della
classificazione tripartita sin dai tempi vedici: per un impulso che ricorda,
nel suo vigore e nei suoi effetti, la tendenza classificatoria del
pensiero cinese - che ha distribuito tra lo yang e lo yin sia coppie di
no¬ zioni solidali che antitetiche -1’India ha messo le tre classi della
socie¬ tà, coi loro principi, in rapporto con numerose triadi di nozioni
preesi¬ stenti o create per la circostanza. Queste armonie, queste
correlazioni importanti per l’azione simpatetica a cui tende il culto,
hanno talvolta un senso molto profondo, talvolta artificiale e altre
volte puerile. Così, ad esempio, le tre «funzioni» sono
distributivamente con¬ nesse ai tre guna (propriamente, «figli») o
«qualità» - Bontà, Passione, Oscurità - delle quali la filosofia sùrìikhyu
dice che gli intrecci variabili formano la trama di tutto ciò che esiste;
o ancora, nei tre stadi superiori dell’universo, le si vede non meno
imperiosamente collegate ai diver¬ si metri e melodie dei Veda o ai
diversi tipi di bestiame o a comandare minuziosamente la scelta dei
diversi tipi di legno con cui saranno fatte le scodelle o i
bastoni. Senza arrivare a questi eccessi di sistematizzazione, la
maggior parte degli altri popoli della famiglia presentano aspetti di
questo ge¬ nere che, ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del
globo, hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei.
Non si potrà presentare in questa sede che qualche inventario.
13. Triadi di calamità f.triadi di delitti Da circa vent’anni
E. Benveniste ha individualo presso gli Ira¬ nici c gli Indiani delle
formule molto simili in cui un dio è pregalo di allontanare, da una
collettività o da un individuo, tre flagelli, ognuno dei quali si
riconnettc a una delle tre funzioni. Per esempio, in una iscrizione
di Pcrscpoli (Persep. d 3) Dario domanda ad Ahuramazdà di proteggere il
suo impero «r/a// ’esercito nemico, dal cattivo anno e dall'inganno»
(quest’ultima parola, drau- ga, nel vocabolario del Gran Re designava
sopralutto la ribellione po¬ litica, il misconoscimento dei suoi diritti
sovrani; ma si riferiva anche al peccalo maggiore delle religioni
iraniche, la menzogna). Parallela¬ mente, al momento delle cerimonie
vcdichc del plenilunio c del novi¬ lunio, una preghiera è dedicala ad
Agni, con delle formule che, diver¬ samente allungate dagli autori dei
vari libri liturgici (per esempio Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm.,
I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo comune: «Conservami dalla
soggezione, conservami dal cattivo sacrifi¬ cio, conservami dal cattivo
nutrimento». L’enunciato indiano è parallelo a quello iranico, con
la riserva che, al primo livello, il re achemenide parla di inganno e il
ritualista vedico di sacrificio malfatto: questo scarto nei timori corrisponde
ad evoluzioni divergenti - da una parte più moraliste e dall’altra più
for- maliste - delle religioni delle due società. Mi è stato
possibile dimostrare in seguito che i più occidentali tra gli
Indoeuropei, i Celti, i cui usi sono talvolta così sorprendente¬ mente simili
a quelli vedici, utilizzavano la stessa classificazione tri¬ partita
delle maggiori calamità. La principale compilazione giuridica
dell’Irlanda, il Senchus Mór, comincia con questa dichiarazione ( Ancient
Laws oflreland, IV 1873, p. 12): « Vi sono tre tempi in cui si produce il
deperimento del mondo: il periodo della morte degli uomini (morte per
epidemia o per carestia, precisa la glossa), la produzione accresciuta di
guerra e la dissoluzione dei contratti verbali». I malanni sono così
ripartiti fra le tre zone della salute o del nutrimento, della forza
violenta e del diritto. I Galli non hanno inserito nei loro libri
giuridici delle tali for¬ mulazioni astratte, ma un testo che parrebbe
essere la trasposizione ro¬ manzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd
a Llevelis è consacrato all’esposizione delle tre «oppressioni»
dell’isola di Bretagna e al modo in cui il re Lludd vi mise fine.
Queste calamità sono: 1) una razza di uomini «saggi» il cui «sa¬
pere» è tale che essi intendono per tutta l’isola ogni conversazione,
fosse anche a bassa voce, e interferiscono così nel governo e nei rap¬
porti umani; 2) ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due
draghi, il drago dell’isola e il drago straniero che viene a «battersi»
col primo, cercando di «vincerlo», e le urla del drago dell’isola sono
tali da paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che
il re ac¬ cumula in uno dei suoi palazzi una «provvista di cibarie e di
vivande», fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte
seguente e porta via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una volta
come le tre oppres¬ sioni si sviluppino qui negli ambiti della vita
intellettuale, dell’ammi¬ nistrazione della forza e infine del
nutrimento; in più, considerate in 30 base ai
loro agenti e non in base alle vittime, esse definiscono tre delit¬ ti:
abuso di un sapere magico, aggressione violenta e furto di beni.
Sembra che il più antico diritto romano ugualmente consideras¬ se i
delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu- tio),
violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto
{furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione
C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,
prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una di¬
stinzione sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in «furto,
violenza fisica e incantesimo» (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha
raffrontato la classificazione avestica dei me¬ dicamenti ( Vidèvdàt ,
VII, 44: medicine del coltello, delle piante e del¬ le formule
d’incantesimo) con l’analisi che fa un inno del Riveda sui poteri medici
degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) «.guaritori di chi è cieco (male
misterioso, magico), di chi è smagrito (male alimentare) e di chi ha una
frattura (violenza)». È lo stesso procedimento che nella III
Pythica di Pindaro il cen¬ tauro Chirone insegna ad Asclepio per guarire
« le dolorose malattie degli uomini» (versi 40-55: incantesimi, pozioni o
droghe, incisioni) ed è stato sospettato che dietro questi fatti
paralleli si celi l’esistenza di una «dottrina medica» tripartita
ereditata dagli Indoeuropei. Se i vec¬ chi testi germanici non applicano
questo schema classificatorio ai ma¬ lanni, ai delitti o ai rimedi, è
vero che l’utilizzano in altre circostanze: il Canto di Skirnir nell
'Edda è un piccolo dramma in cui il servitore del dio Freyr costringe,
malgrado la sua volontà, la gigantessa Gerdr a cedere ai desideri amorosi
del suo maestro. Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il
suo amore con dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente,
minaccia di decapitarla (str. 23-25) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine
al suo terzo ten¬ tativo non gli rimane che minacciarla con gli strumenti
della sua ma¬ gia, bacchette ( gambantein ) c rune (str. 26-37).
15. Elogi tripartiti Quando un poeta indiano vuole fare
brevemente l’elogio totale di un re, passa in rassegna le tre funzioni in
tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re Dilàpa merita di
essere chiamato padre dei suoi sudditi « perché assicura loro buona
condotta, li protegge e li nutre». Con delle formule generalmente meno
concise, l’epopea irlan¬ dese procede allo stesso modo. In un bel lesto,
il Paese dei Viventi, cioè l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti
immortali, è caratte¬ rizzalo dall’assenza di morte in base ai tre
aspetti seguenti: «.non vi è né peccato né errore...] vi si mangiano
pasti eterni senza servizio; l'in¬ tesa regna senza lotte ».
L’originalità del paese meraviglioso consiste nel fatto che tutto è
buono e facile, ma questa idea si analizza e si esprime nel pensiero
dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni (virtù, guerra, abbon¬
danza alimentare); la seconda funzione, di tipo violento, considerata
come un male c rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale al massi¬
mo grado (J. POKÒRNY, «Conio’s abcnteucrliche Fahrt» ZCP XVII, 1928, p.
195). In un a simile analisi, per fare 1 ’ elogio del re Conchobar,
u n lesto del ciclo degli Ulati dice che sotto il suo regno vi erano
«pace e tran¬ quillità, saluti cordiali», «ghiande, grasso e prodotti del
mare», «con¬ trollo, diritto e buona regalità» (K. MEYER, «Milleil. aus
irischen Handschriflen» ZCP, III, 1901, p. 229): cioè il contrario della
guerra, della carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli
contro i quali il re Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare
il suo impero. 16. Le tre funzioni e la «natura delle cose»
Si può obiettare talvolta che queste formule non siano troppo
naturali, così troppo ben modellale sull’uniforme e inevitabile dispo¬
sizione delle cose perché il loro accumulo e la loro somiglianza provi¬
no un’origine comune c resistenza di una dottrina caratteristica degli
Indoeuropei. Una riflessione anche elementare sulla condizione
umana e sul¬ le risorse della vita collettiva non dovrebbe forse mettere
in evidenza, in ogni tempo c in ogni luogo, tre necessità, cioè una
religione che ga¬ rantisse un’amministrazione, un diritto c una morale
stabile, una forza protettrice c conquistatrice, infine dei mezzi di
produzione, di alimen¬ tazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui
pericoli che incontrac sulle vie che si aprono alla sua azione, non è
ancora a una qualche va¬ rietà di questo schema che si riporta? Basta
uscire dal mondo indoeuropeo, in cui queste formule sono così numerose, per
constatare che, malgrado il carattere necessario e universale dei tre
bisogni ai quali si riferiscono, esse non hanno la generalità o la
spontaneità chesi suppo¬ ne: al pari della di visione sociale
corrispondente, non le si ritrova in al¬ cun testo egizio, sumerico,
accadico, fenicio e biblico, né nella lettera¬ tura dei popoli siberiani,
nè presso i pensatori confuciani o taoisti così inventivi ed esperti di
classificazioni. La ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per
una civiltà, sentire vivamente e soddisfare dei bisogni impellenti è una
cosa; por¬ tarli alla chiarezza della coscienza e riflettere su di essi,
farne una struttura intellettuale e uno schema di pensiero è tutta
un’altra. Nel mondo antico solo gli Indoeuropei hanno fatto questo
cammino filo¬ sofico e così si percepisce nelle speculazioni e nelle
produzioni lette¬ rarie di tanti popoli di questa famiglia, che la
spiegazione più econo¬ mica, come per la divisione sociale propriamente
detta, è ammettere che il percorso non è stato fatto e rifatto
indipendentemente in ogni provincia indoeuropea dopo la dispersione, ma che
è anteriore alla di¬ visione ed è opera di pensatori dei quali i
brahmani, i druidi e i collegi sacerdotali romani sono in parte i diretti
eredi. 17. Meccanismi giuridici triplici Una delle
applicazioni più interessanti ma più delicate è quella che in riferimento
alla concezione indoeuropea chiarifica presso i di¬ versi popoli (India,
Roma, Lacedemoni) i quadri e le regole giuridi¬ che. Lucien Gerschel,
ricordando il diritto romano, ha dimostrato che questo, così originale
nei suoi fondamenti e nel suo spirito, conserva nelle sue forme un gran
numero di procedure in tre varianti a effetti equivalenti (che si
spiegano solitamente, ma senza prove, come crea¬ zioni successive dell’
uso e del pretore) che almeno qualcuna di queste sorprendenti
«tripartita» si modella sul sistema delle tre funzioni qui considerate.
Citerò unodei migliori esempi: un testamento può essere fatto con lo
stesso valore sia nell’assemblea strettamente religiosa dei Comitia
Curiata, presieduti dal gran pontefice; sia sul fronte di una battaglia
davanti ai soldati; sia tramite una vendita fittizia a un «emp-
torfamiliae» (Aulo-Gellio, XV, 27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1).
Gerschel non pretende che sia esistito a Roma un «diritto sacerdota¬ le»,
un «diritto guerriero» e un «diritto economico», o che i tre tipi
di testamento abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti
differenti, non più dei tre tipi di affrancamento o delle altre
tricotomie giuridiche che si possono interpretare in questo senso. Questo
quadro così incredibilmente frequente, questa triade di possibilità a
effetti equivalenti e l’omologia delle distinzioni che si di¬
stribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che «i creatori del
diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti della vita
collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto volen¬
tieri tre processi, tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti
cia¬ scuno dal principio (religioso; attualmente o potenzialmente
milita¬ re; economico) di una delle tre funzioni ». 18. Le
tre funzioni e la psicologia La stessa psicologia non sfugge a
questo schema. I sistemi filo¬ sofici indiani dosano nelle anime, come
nella società, dei principi come la legge morale, la passione,
l’interesse economico (dharma, kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle
tre classi della sua Repubblica ideale - filosofi governanti, guerrieri,
produttori di ricchezze - delle formule di virtù che distribuiscono e
combinano la Saggezza, il Co¬ raggio e la Temperanza; in un’espressione
apparentemente tradizio¬ nale e legala all’intronizzazione dei Re Supremi
di Irlanda, la mitica regina Medb, depositaria e donatrice della
Sovranità, pone come tripli¬ ce condizione a chiunque vuole diventare suo
marito, cioè re, di «essere senza gelosia, senza paura, senza avarizia»
(Tdin Bó Cualnge ed. Win- disch, 1905, pp. 6-7); infine, anche lo
zoroastrismo, nei testi brillante- mente interpretati da K. Barr, spiega
che la nascila dell’uomo per eccel¬ lenza, Zoroastro, è stata accuratamente
preparata con la combinazione di tre principi, l’uno regale, l’altro
guerriero e il terzo carnale. Si tratta forse di un’applicazione
mitica di una credenza anti¬ chissima; nei trattati rituali domestici
dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17, 9; Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia
infatti alla donna che vuole concepire un bambino maschio di rivolgersi a
Mitra, a Varuna, agli Asvin e a Indra (quest’ultimo accompagnato da Agni
o Sùrya, secondo le va¬ rianti) e a nessun altro, cioè, come sarà dimostrato
nel capitolo seguen¬ te, alla lista arcaica indo-iranica degli dèi che
incarnano e patrocinano la prima, la terza e la seconda
funzione. Un’altra via di sviluppo per il pensiero trifunzionale è
stata quella del simbolismo: tanto i tre gruppi sociali quanto i loro tre
princi¬ pi sono stati legati figurativamente e solidalmente a degli
oggetti ma¬ teriali semplici, il cui raggruppamento li evocava e li
rappresentava. Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia
principalmente portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani
e un venta¬ glio di colori. Ci si ricordi della leggenda
tramite cui gli Sciti, secondo Erodo¬ to, spiegavano le loro origini: gli
oggetti d’oro caduti dal cielo - carro e giogo per l’agricoltore, ascia
(o lancia o arco) come arma guerriera, coppa cultuale - hanno dei valori
nettamente classificatori secondo le tre funzioni. Ora,
questi oggetti non erano solamente mitici: erano conserva¬ ti lutti
insieme dal re e ogni anno venivano solennemente portati attra¬ verso le
terre scitiche. Anche la leggenda irlandese attribuisce alla pe¬ nultima
razza che avrebbe occupato l’isola, e che in realtà è costituita dagli
antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé Danann, «Le tribù della dea
Dana»), un gruppo di oggetti talismani: il «calderone di Dagda» che
conteneva e donava un nutrimento meraviglioso; due armi terribi¬ li, la
lancia di Lug che rendeva il suo possessore invincibile e la spada di
Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai infine, sede
della sovranità, il cui grido rivelava quale dei candidati doveva essere
scelto come re (V. HULL«Thefourjewels oftheT.D.D» ZCP, XVIII, 1930, pp.
73-89). Le mitologie vediche e scandinave collegano allo stesso modo dei
gruppi di tre oggetti caratteristici a degli dèi che ve¬ dremo ben presto
e che sono distribuiti secondo le tre funzioni. 20. Colori
simbolici delle funzioni presso gli Indo-Iranici Quanto ai colori
simbolici, l’importanza e l’antichità sono già segnalate, per il mondo
indo-iranico, dal fatto che i tre (o quattro) gruppi sociali funzionali
sono designati in base alla parola sanscrita varna e alla parola avestica
pìstra (cf. il greco 7touciXoq «screziato», russo pisat' «scrivere»), che
con sfumature diverse designano il colo¬ re. Di fallo è un insegnamento
costante nell’India che brdhmunu, ksatriya, vaisya e sùclru siano
rispettivamente caratterizzati (e le spie¬ gazioni non mancano) dal
bianco, il rosso, il giallo e il nero. 35 Di
certo che vi è stata un’alterazione in seguilo alla creazione delle caste
inferiori ed eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di cui
rimangono tracce nei rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S. IV,
2, 6) e senza dubbio anche uno nel Riveda («nero, bianco e rosso è il suo
cammino » dice X, 20,9 di Agni, il più triplice e trifunzionale de¬ gli
dèi), sistema formato semplicemente da tre colori senza il giallo e dove
vi era il nero (o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli allevato¬
ri-agricoltori. In effetti anche l’Iran ha mantenuto questa
ripartizione: una tra¬ dizione «mazdeo-zurvanita» che è stata
progressivamente stabilita e interpretata da H. S. Nybcrg (1929), G.
Widengren, S. Wikan- der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955) descrive
nella cosmogonia l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella dei
guerrieri come rossa o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori
come blu scura. Altri Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V.
Basanoff ha intelli¬ gentemente i nterpretato in questo senso un rituale
hiltita di evocatio in cui i diversi dèi della città nemica assediata
sono pregali di lasciarla e di giungere presso gli assedianti attraverso
tre cammini - il che suppo¬ ne tre diverse categorie di dèi - avvolti uno
in una stoffa bianca, il se¬ condo in una stoffa rossa e il terzo in una
stoffa blu ( Keilischrifturk aus Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK, Deralte
Orient, XXV, 2,1925, pp. 22-23). 21. Colori simbolici delle
funzioni presso Celti e Romani Tra i Celti della Gallia e dellTrlanda
il bianco è il colore dei dm- idi e il rosso, nell’epopea irlandese, è
quello dei guerrieri; a Roma un Albogalerus caratterizza il più sacerdote
tra i sacerdoti, il flamen diu- lis, mentre il paludumentum militare è
rosso come il drappo sulla testa del generale o come la trabea dei
cavalieri o dei sacerdoti armati che sono i Salii. Un sistema
completo a tre termini del simbolismo coloralo s’incontra due volte nelle
istituzioni romane. Il caso più interessante è quello dei colori delle
fazioni del circo che assunsero grande impor¬ tanza sotto l’impero e
nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono si¬ curamente anteriori
all’impero c che gli studiosi di antichità romane ricollegano del resto
alle origini stesse di Romolo. 36 Le
speculazioni esplicative di questi antichisti sono molteplici e intrise
di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste, conser¬ vata da
Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà ro¬ mane e
afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica erano
inizialmente tre ( albati , russati, viricles) in rapporto non solo con
le divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparente¬ mente
sostituita a Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovrani¬ tà,
guerra, fecondità), ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes,
Lucercs e Titienses. A proposito di questi ultimi si è ricordalo
più sopra che erano, nella leggenda delle origini, sia componenti etnici
(Latini, Etruschi, Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c
governanti, da guer¬ rieri professionisti e da ricchi pastori) e che in
un altro passaggio {De magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come
paralleli alle tribù funzionali degli Egiziani e degli antichi
Ateniesi. Nel 1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi
anti¬ chi e moderni (religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade
di colori: quasi lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o
dai suoi confini, o dalle regioni che furono esposte all'influenza degli
Indoeu¬ ropei e alcuni hanno chiaramente un valore classificatorio del
tipo qui considerato. 22. Le scelti- dei tigli di
Feridùn Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle
narrazioni mol¬ to diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale.
Eccone qual¬ che esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos,
il cui ulti¬ mogenito raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi
oggetti d’oro simboli delle tre Finzioni, è stata paragonala da M.
Molé a una tradi¬ zione dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli
del l’eroe che V Ave¬ sta chiama ©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i
testi persiani Feridùn. Eccola nella traduzione data da M. Molé a un
passaggio dell 'Àyàtkar i JàmcispTk: «Da Frètòn nacquero tre
figli; Salm, Tòz ed Eric erano i loro nomi. Egli li convocò tutti e tre
per dire ad ognuno di essi: «Io sto per dividere il mondo tra di voi, che
ciascuno di voi mi dica ciò che gli sembra bello affinché io glielo
doni». Salm chiese grandi ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la
gloria dei Kavi (cioè il segno mira¬ coloso che distingue il sovrano
scelto da Dio) la legge e la religione. Frètón disse: «Che a ciascuno di
voi giunga ciò che ha chiesto». Ed egli donò infatti la terra di Rum a
Salm, il Turkestan e il deserto a Toz e l’Iran e la sovranità sui suoi
fratelli a Eric». Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la
stessa divisio¬ ne geografica con un altro criterio, anche se col
medesimo senso. Esposti a titolo di prova a uno stesso pericolo (un
dragone minaccio¬ so), ognuno dei tre fratelli si rivela in accordo con
la propria natura e col proprio «livello funzionale»: Salm fugge, Tòz si
precipita cieca¬ mente all’assalto e Iraj evita il pericolo senza
combattere, con l’intelligenza e il nobile sentimento che ha della dignità
regale della sua famiglia. 23. La scelta del pastore
Paride È un tema simile, presente fra i Greci d’Asia Minore e forse
in¬ fluenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito la materia
del «giudizio di Paride», piacevole racconto dalle pesanti
conseguenze poiché è destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza
e il suo valore, Troia finisca per soccombere ai Greci.
Paride, il bel principe pastore, vede giungere presso di sé tre dee
(che simboleggiano le tre funzioni) che gli chiedono un giudizio emi¬
nente; secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig. Aul, V. 1300- 1307)
ognuna si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della propria
attività: Era, « fiera del letto regale del sovrano Zeus », Atena con
l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che la
«potenza del desiderio». Secondo un’altra variante (Euripide, Troia¬ ne,
v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio promettendo un
dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa, Atene la vit¬ toria
e Afrodite la donna più bella. Paride sceglie male e assegna il
premio ad Afrodite, scelta che causerà ben presto il rapimento
dell’incomparabile Elena e, malgrado dieci anni di combattimento, la fine
di Troia, distrutta da una coalizio¬ ne di uomini e divinità tra le quali
Era ed Atena non saranno le meno accanite. 38
Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi moderni. L.
Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed austriache
raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla leggen¬ da
greca, che presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma ge¬
neralmente «bene») fra tre offerte nettamente funzionali; oppure tre
fratelli che si spartiscono tre doni funzionali dei quali solo uno,
quello della «prima funzione» assicura a chi lo possiede un destino
piena¬ mente «buono». Ecco per esempio la forma originale
rigorosamente ricostruita da Gerschel, delle leggende tedesche
sull’origine dello «Jodeln» (Johlen). «Res, il vaccaro di
Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre esseri sovrannaturali in
procinto di fare il formaggio: a un certo pun¬ to il latticello è versato
in tre secchi e nel primo è rosso, nel secondo secchio è verde e nel
terzo è bianco. Res apprende che deve scegliere un secchio e berne il
latticello; allora uno dei vaccari fantasmi ag¬ giunge: «Se scegli il
rosso sarai talmente forte che nessuno potrà combattere con te». Il
secondo vaccaro disse a sua volta: «Se tu bevi il latticello di colore
verde possiederai molto oro e sarai ricchissimo». Il terzo infine spiegò:
«Bevi il latticello bianco e tu sarai Jodeln mera¬ vigliosamente». Res
rifiutò i due primi doni e si decise per il latticello bianco, diventando
un perfetto Jodler ». Gerschel rileva che questa tecnica vocale ha
nelle diverse va¬ rianti un effetto magico (tutte le bestie vengono
incontro allo jodler e. l'accompagnano; tavole e panche danzano nella sua
capanna: le vac¬ che si alzano sulle loro zampe posteriori e danzano; la
vacca più selva¬ tica si addolcisce e si lascia mungere facilmente,
etc.). 24. Talismani di Roma e di Cartagine Verso la
fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio orga¬ nizzato su un tale
tipo di schema la garanzia della sua vittoria finale: una testa di bue,
poi una testa di cavallo (trovate dagli scavatori di Di- done sul sito in
cui si ergeva, con Cartagine, il tempio della «sua» Giu¬ none) avevano, a
detta di loro, garantito alla città africana l’ opulenza e la gloria
militare. Ma in virtù della testa d’uomo che gli spalatori di Tarquinio
avevano un tempo trovato sul Campidoglio, nel sito del fu-
39 turo tempio di Jupiter O. M, è Roma che detiene la più
alta promessa, quella della sovranità. L. Gerschel, a cui si deve ancora
questa sor¬ prendente interpretazione, ha ricordato che presso gli
Indiani vedici uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori
delle vittime ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme
alle teste delle due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno
in apparenza, essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare
l’importante altare del fuoco, in mancanza del santuario permanente che
non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico
la tripar¬ tizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò
un tema di grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato
in India, in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un
dio o di un uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III
capi¬ tolo) un personaggio della «seconda funzione», un guerriero.
Indra, il dio guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei
Brahmano e nelle epopee la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è
lun¬ ga e varia. Ma il quinto canto del Màrkandeya Purànu li ha ridotti
allo schema delle tre funzioni: Indra uccide prima il mostro
Tricefalo, morte necessaria poiché il Tricefalo c un flagello che
minaccia il mon¬ do, ma tuttavia morte sacrilega poiché il Tricefalo ha
il rango di brah¬ mano e non vi è crimine peggiore del brahmanicidio e di
conseguenza Indra perde la sua maestà, la sua forza spirituale, tejas
(1-2). Poi, es¬ sendo stato generato il mostro Vrtra per vendicare il
Tricefalo, Indra s’impaurisce e contravvenendo alla vocazione propria del
guerriero conclude con Vrtra un patto infido che viola, sostituendo alla
forza l’inganno; di conseguenza perde il suo vigore fisico, baia (3-11).
Infi¬ ne, tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la forma del marito,
adesca una donna onesta in adulterio e perde così la sua bellezza, rùpa
(12-13). L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a
rintracciarne la storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in
lingua scandinava - conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr
(Starcatherus), guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e
devoto ai re che 1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli è
infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita prolungata
sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in ognuna di esse
egli commetta una penalità. Ora, il quadro di queste tre penalità
si distribuisce chiaramente secondo le tre funzioni. Essendo al servizio
di un re norvegese l’eroe aiuta criminalmente il dio Othinus (Ódinn) a
uccidere il suo signore in un sacrifìcio umano (VII, V, 1-2).
Trovandosi poi al servizio di un re svedese /ugge vergognosa¬ mente
dal campo di battaglia dopo la morte del suo signore abbando¬ nandosi, in
quest’unica occasione delle sue tre vite, alla paura panica (Vili, V).
Servendo infine un re danese, assassina il suo signore procu¬ randosi per
mediazione centoventi libbre d’oro, cedendo eccezional¬ mente per qualche
ora all’appetito di questa ricchezza di cui fece altro¬ ve, in atti e
discorsi, professione di disprezzo (VII, VI, 14). Essendosi così
estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che cercare la morte ed
è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili, Vili). Il carattere e
le gesta di Starkadr ricordano in molti punti quelle di Eracle. Nelle esposizioni
sistematiche che sono fatte - relativamen¬ te tarde ma non inventate - la
vita intera dell’eroe greco (concepito da Zeus e Alcmene durante tre
notti) è scandita da tre mancanze che han¬ no un effetto grave sull
'essere dell’ eroe e ognuna di questecomporta il ricorso all’oracolo di
Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1) Euristeo re di Argo comanda ad Eracle di
compiere dei lavori e ne ha il diritto in virtù di una promessa
imprudente di Zeus e di un’astuzia di Era: Eracle commette tuttavia
l’errore di rifiutare, malgrado l’invito formale di Zeus e l’ordine
dell’oracolo. Approfittando di questo stato di disubbi¬ dienza agli dèi,
Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso dalla demenza ed
uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna penosamente alla ragione, si
sottomette e compie così le Dodici Fatiche, aggravate da altre fatiche
(cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito, Eracle attira suo figlio
Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello ma con l 'inganno
(Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il carattere for¬ temente
antieroico di questo sbaglio). Eracle, punito, cade in una ma¬ lattia
psichica da cui non si libera: viene così informato dall’oracolo che deve
vendersi come schiavo e rimettere ai figli di Iphitos il prezzo di questa
vendetta (cap. 31). 3) Benché infine legittimamente sposato aDeianira,
Eracle cerca di sposare un’altra principessa, poi ne rapisce una terza e
la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva il terribile di¬ sprezzo
di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di Nesso e i terri¬ bili e
irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può liberarsi, dietro un terzo
ordine di Apollo, che con la propria apoteosi, col rogo (cap.
37-38). Oltraggio a Zeus e disobbedienza agli dèi; morte vile e
perfida di un nemico senz’ armi; concupiscenza sessuale e oblio della
propria don¬ na: i tre errori fatali di questa gloriosa carriera si
distribuiscono sulle tre zone funzionali esattamente come i tre peccali
di Indra e con la stessa specificazione (concupiscenza sessuale) della
terza, alterando l’essere stesso dell’eroe. Ma queste alterazioni,
progressive e cumulative nel caso di Indra, sono invece successive nel
caso di Eracle: le prime due possono essere riparate mentre la terza trascina
alla morte. In una tradizione avestica, senza dubbio ripensala e
ri-orientata dallo zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo, Yima, è
punito per un unico grande peccalo (menzogna o, più lardi, orgoglio c
rivolta contro Dio e usurpazione degli onori divini) e viene privato in
tre tempi dello x' arvnah , di quel segno visibile e miracoloso della
sovranità che Ahu- ra Mazda pone sul capo di coloro destinati ad essere
re. I tre terzi di questo x v arvnah successivamente sfuggono per
collocarsi nei tre per¬ sonaggi corrispondenti ai tre tipi sociali dell’
agricoltore-guaritore, del guerriero e d c\V intelligente ministro di un
sovrano (Dènkart , VII, 1, 25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl
XIX, 34-38). 26. Il problema del re Questo rapido
excursus è sufficiente per mostrare le direzioni e i diversi ambili in
cui l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha uti¬ lizzato la struttura
tripartita; ancora una volta dobbiamo ora volgerci, come per le altre
applicazioni di questa struttura, verso i popoli non indoeuropei del
mondo antico per ricercare se intorno a un eroe si è prodotto un tema
epico o leggendario, la messa in scena di una lezione morale o politica,
la giustificazione colorita immaginifica di una prati¬ ca o di uno stato
di fatto. Al momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da
Gilga- mesh a Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi
della Cina, dalla saggezza araba agli apologhi confuciani, nessun
personag¬ gio storico o mitico ha rivestito in alcun modo l’uniforme
trifunzionale in cui si trovano al contrario molte figure degli Indoeuropei. È
dun¬ que probabile che questa divisa sia solo indoeuropea e che solo
in questa vasta partedel mondo, e prima della loro dislocazione, gli
Indo¬ europei abbiano intellettualmente scandagliato, meditato e
applicato all’analisi e all’interpretazione della loro esperienza, e
infine utilizza¬ to nei quadri della loro letteratura, nobile o popolare,
le tre necessità fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano
di soddi¬ sfare. Terminando quest’esposizione molto generale
vorrei sottoline¬ are ancora che il riconoscimento di questo fatto così
importante non ci fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale
effetti voo le istitu¬ zioni (senza dubbio variabili da provincia a
provincia) degli «Indoeu¬ ropei comuni». Noi non possediamo
che un principio, uno dei princìpi e dei quadri essenziali. Una delle
questioni più oscure rimane ad esempio il rapporto fra le tre funzioni e
il «re», del quale ci è assicurala l'esistenza antichissima nella parte
senza dubbio più conservatrice degli Indoeu¬ ropei, cioè presso gli
indiani vedici (/•«/-), i latini (/ <?#-) c i celti (n#-).
Questi rapporti sono diversi sui tre domini c su ognuno vi è stata
una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così qualche fluttuazio¬
ne nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c notoria¬
mente della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla strut¬
tura trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura
amministrazione del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul
sovrano e i suoi ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governato¬
re) è al contrario il più eminente rappresentante di queste funzioni.
Oppure si presenta una mescolanza variabile di clementi presi dalle
tre funzioni e in special modo dalla seconda, dalla funzione e dal¬ la
classe guerriera da cui solitamente proviene: il nome differenziale dei
guerrieri indiani, ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di ràjanya,
derivato dalla parola ràjanl Queste difficoltà, insieme ad altre,
potranno essere meglio for¬ mulale, se non risolte, quando avremo
indirizzato lo studio su ciò che fu l’armatura più solida del pensiero di
questa società arcaiche: il siste¬ ma divino, la teologia e i suoi
prolungamenti mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, «Were castes formulateci in
thè age of thè Rig Veda?», Bull, of thè Decenti College Research
Institute, II, pp. 34-36. Per brahman vedi L. RENOU, «Sur la nolion de
bràhman», JA, CCXXXVII, 1949, pp. 1 -46. Questa interpretazione, facile
da conciliare con i fatti iranici segnalali da W.B. HENNTNG,' «Brahman»,
TPS, 1944, pp. 108-118, rende caduco il senso ammesso nel mio
Flamen-Brahmnti (1935). Il «Brahman» di P. THIE- ME, ZDMG, 102, 1952, non
ha fatto avanzare l’analisi e non altera il risultato dello studio di
Renou. Circa i rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia discussione
con J. GONDA ( Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII, 1950, pp. 255-258
eCXXXIX 1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente la questione di questi
rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo in vedico e
appartiene per certi impieghi al vocabolario del «primo livello»; ma la
concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito ksatriya per designare
l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome dell’arcangelo sostituito
nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo livello (vedi qui sotto II § 8) e
infi¬ ne di /Exscert-ieg come nome della famiglia degli uomini
differenzialmente “forti” nell’epopea degli Osseli (vedi sotto, 4),
garantisce che fin dai tempi indo-iranici questo termine fosse una
designazione tecnica dell’essenza del secondo livello. § 2.
DUMÉZIL, «La préhistoire indo-iranienne des castes», JA, CCXVI, 1930, pp.
109-130. B ENVENISTE, «Les classes sociales dans la tradilion ave-
stique», JA, CCXXI, 1932, pp. 117-134; «Les mages dans l’ancien Iran»,
Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938, pp. 6-13; «Tradilions
in- do-iraniennes su les classes sociales», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-550;
H.S. NYBERG, Die Religione/} cles alteri Iran, 1938, pp. 89-91; DUMÉZIL,
JMQ, pp. 41-68 (= JMQ it. pp. 24-45). § 3. L’interpretazione
è stata progressivamente costituita negli articoli e nei libri citati al
§ 2, partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le pre¬ mier homme...
I, 1918, pp. 137-140. § 4. JMQ, pp. 55-56 (= JMQ il., p. 35). Sulle
tradizioni degli Osseti vedi il mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il
risultato delle grandi inchieste degli anni ‘40 pubblicale in Osetinskije
Nartskije Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in osseto: Narty kailcliitce ibid.
1946). Il testo citalo di Turganov è nell’articolo «Klo takie
Narty?»,/zv. Oset. histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak), 1925, p.
373. § 5. Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de Franco
(1949), pp. 15-19 e BGDSL, 78, 1956, p. 175-178. § 6. JMQ,
pp. 110-123 (=JMQ il. pp. 77-87). Sette anni più tardi, dopo la guerra,
T.G.E. POWELL ha ripreso la mia dimostrazione, «Ccltic Origins; a Stage
in thè Hnquiry», J. ofthe R. Anthropol. Institute, 78, 1948, pp. 71-79:
« Of greatest interest is thè recognition of a three folci clivision o f
society 44 among thepeoples concerned [Indiani,
Italici, Celti ],providing in thehighest rank a class oflearned and
sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo- west thè ordinary
people » etc. Circa il nome di aire apparentato ad aiya, io credo che
bisogna rinunciare all’etimologia che accosta il nome dell’eroe ir¬
landese Eremon al dio indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in
conse¬ guenza sopprimere l’ultimo capitolo del mio Troisième Souverain,
1949. § 7-8. Questa analisi è stata fatta progressivamente in JMQ,
pp. 129-1 54 (= JMQ it., pp. 90-107); NR, pp. 86-127 (= JMQ it. pp.
230-263); JMQ IV, pp. I 13-134. In parte qui riproduco il riassuntode
L'heritage... pp. 127-130 e 190-209. Gli Umbri distinguevano nella
società i rappresentanti delle tre fun¬ zioni: «Ner - et uiro - dans les
sociétés italiques», REL, XXXI, 1953, pp. 183-189. § 8. Delle
obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in NR, cap. II
(= JMQ it. pp. 230-262), riassunto in L’heritage... pp. 196-201 e 229-23
1. Ho anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - «superbum
Rhamnetem» -come nomeproprioda Virgilio (Aen., IX. 327) è perdesignare un
re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome
della gens Lucretia, una delle più militari delle leggende dei primi
tempi della Re¬ pubblica (e proprietaria del cognome Tricipitinus, che
senza dubbio allude a un mito del Tricefalo); che il radicale di
Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir., Ili, 1930, pp. 75-80) si trova in
altre parole in rapporti diversi ma convergenti con la fecondità,
l’amore, la voluttà: questo conferma l’orientamento diffe¬ renziale di
ognuna delle tribù verso una delle tre funzioni. Ho infine ricercato
delle allusioni letterarie alle «tre funzioni» e ai loro rappresentanti,
come componenti di Roma o di altre società concepite a sua immagine: JMQ
IV, pp. 121-136; REL, XXIX, 1951, pp. 3 18-329; ma i testi degli storici
e quello di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità
della fusione dei Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a
questa ma differente, vedi sotto, II i? 17, nota. § 9. JMQ,
pp. 252-253 (=JMQ it., pp. 269-270); in compenso le classi do¬ riche sono
di un altro tipo, malgrado JMQ, pp. 254-257 (soppresso in JMQ it.). Un
recente studio di MARTIN P. NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults, myths,
oracles andpolitics in ancient Greece, 1951, pp. 143-149) presenta delle
difficoltà che esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente pro¬
posto di riconoscere la tripartizione sociale indoeuropea nei testi
micenei: TPS, 1954, pp. 18-53; Acliaeans and Indoeuropeans, an Inaugurai
Lecture, Oxford 1954, pp. 1 -22. Quanto ai «tre stati» della Repubblica
di Platone, vedi JMQ, pp. 257-261 (= JMQ it. pp. 170-171 ): « Se le più
antiche tradizioni degli Ioni conservano il ricordo di una divisione
funzionale quadripartita della so¬ cietà (sacerdoti, guerrieri,
agricoltori, artigiani), la città ideale di Platone non potrebbe forse
essere, nel senso più stretto, una reminiscenza indoeuro¬ pea? Essa è
costituita dalla concatenazione armoniosa di tre funzioni, tò
(pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ XpimOtTlCTTUCÓV
«CUStO- 45 dum genus, uuxiliarii, questuarti»,
come traduce Marsilio Ficino, cioè i filo¬ sofi che governano, i
guerrieri che combattono e il terzo-stato, agricoltori e artigiani
riuniti, che crea la ricchezza. La solidarietà dei primi due gruppi al di
sopra del terzo è fortemente marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno:
ogni stato agisce conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia, evita
la confusione , 7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della
vita politica, è assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una
«formula di virtù» particolare: il terzo stato deve essere temperante,
acótppcov; alla temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio,
àvSpeia; i «guardia¬ ni» saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa
immaginare, per quel po ’ che li si è praticati, i trattati
politico-religiosi dell’India: stessa definizione dei tre stati sociali;
stessa solidarietà dei primi due, ubhe vlrye; stesso anate¬ ma contro la
confusione, varnanàm samkaram,- stessa esortazione ad atte¬ nersi al modo
di azione a cui si appartiene, stessa distribuzione dei doveri e delle
virtù dello stato. I legislatori indiani e la Repubblica si fanno eco:
none forse perché essi recitano la medesima canzone ancestrale?... Che si
pensi a tutte le vie per le quali questa «filosofia indoeuropea»
tripartita ha potuto di¬ scendere fino a Platone: non solo le tradizioni
sulle origini degli Ioni, ma i contatti molteplici con quel conservatore
di dottrine, non ariane, ma anche ariane, che fu l'impero degli Ac he me
nidi; l'orfismo, in cui deiframmenti del¬ la scienza dei sacerdoti traci
e frigi si sono depositati e in cui non mancavano le triadi; il
pitagorismo, su cui Henri Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a non
trascurare le componenti «iperboree»; infine il folklore...» Cf. qui
sotto § 18, per le applicazioni psicologiche della divisione tripartita
nell’India e in Platone. § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui
marianni (egiziano ma-ra-ya-na\ cunei¬ forme mar-ya-an-nu ; forse come
l’ha proposto Albrighl, dall’accusativo plu¬ rale arya mdrycin + la
terminazione hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN, «New light on thè
Maryannu as chariot-warrior», Jb. f kleinas. Forschung, 1951, pp.
308-324. I libri fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der arische
Mannerbund, 1938 e H. LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da confron¬
tare con O. HÒFLER, Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934. Una delle
grosse differenze tra il «Mannerbund» degli Indiani e quello dei Germa¬
ni consiste nel fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna), mentre
il secondo a Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della
«funzione guer¬ riera» presso i Germani (cf. II § 22); vedi MDG, p. 92,
n. 1 e più specificata- mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch., II,
1957, §§ 405-412. § 11. Un’interpretazione delle corrispondenze del
tipo «33» fra Roma e l’India vedica è proposta in JMQ IV, pp. 156-170 (=
JMQ it., pp. 389-405), L'heritage..., pp. 213-227.1 «33 dèi» vedici sono
ripartiti frai tre piani del mondo (JMQ IV, pp. 30-33; riassunto in DIE,
pp. 7-9) essi stessi in rapporto con le tre funzioni (JMQ, p. 65 = JMQ
it. pp. 42-43 ). Il carattere indo-iranico dei «33 dèi» è garantito dalla
concezione avestica dei «33 ratu» (spiriti pro- 46
tettori o prototipi delle diverse specie di esseri): JMQIV, pp.
158-159(=JMQ it., pp. 294-395), secondo J. Darmesteter e S.
Wikander. § 12. È nel suo articolo «Traditions indo-iraniennes sur
les classes socia - les», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-549, che E. BENVENISTE
ha per la prima volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in
cui il fatto era ben cono¬ sciuto, che l’ideologia tripartita supera
largamente l’organizzazione sociale che finalmente non appare più se non
come un’applicazione particolare. Come disse all’inizio di un altro
articolo, per riassumere l’insegnamento di questo («Symbolisme social
dans les cultes gréco-italiques» RHR, CXXXIX, 1945, p. 5): «La elivisione
della societe'i in tre classi, sacerdoti, guerrieri, agricoltori, è un
principio di cui gli Indo-Iranici avevano piena co¬ scienza e che
presentava ai loro occhi l’autorità e la necessità di un fatto na¬
turale. Questa classificazione regge così profondamente l’universo
indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le enunciazioni
esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA, 1938, p. 529
e segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate e che sono
fuori dal¬ la sfera propria del sociale, al punto che ogni de finizione
di una totalità con¬ cettuale tende inconsciamente a riflettere il quadro
tripartito che organizza la società degli uomini. Da parte sua, G.
Dumézil, in una serie di brillanti stu¬ di ha riportato sino alla
comunità indoeuropea l’origine di questa classifica¬ zione, scoprendola
nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale antica e
principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella
reli¬ gione romana». Le posizioni variabili della «tecnica» in rapporto
alla tripar¬ tizione sociale sono esaminate in «Les métiers et les
classes fonclionnelles chez divers peuples indoeuropéens» che sarà
pubblicato quest’anno in Anna- les. Economies, Sociétés, Civilisations.
§ 13. BENVENISTE, «Traditions indo-iran. sur les classes sociales»,
JA CCXXX, 1938, pp. 543-545; DUMÉZIL, «Triades de calamités et triades
de délits à valeur trifonclionnelle chez divers peuples indoeuropéens»,
Ltito- mus, XIV, 1955, pp. 173-185. § 14. BENVENISTE, «La
doctrine médical des Indo-Européens», RHR, CXXX, 1945, pp. 5-12; Dumézil,
art. cit. al paragrafo precedente, p. 184, n.2. § 15. JMQ, pp.
114-115 (= JMQ it., p. 80) § 17. «Les trois fonctions et le droit
romain selon L. Gerschel», frammenti di una memoria inedita di L. G.,
pubblicata in appendice a JMQ IV, pp. 170-176. § 18. Per
Platone e l’India vedi JMQ, pp. 259-260 (=JMQ it., pp. 171 -172)
«Dopo aver scoperto la formula tripartita della società, Platone si
volge sull’individuo, sull'«Uno umano» e in questo microcosmo ritrova gli
stessi elementi in una stessa gerarchia, le stesse condizioni di armonia
comandano le medesime virtù. L'uomo giusto, dal punto di vista della
giustizia, non diffe¬ risce in niente dallo Stato giusto; ha in sé
l'equivalente dei saggi, dei guerrie¬ ri, degli uomini ricchi: questi
sono i principi della conoscenza, della flussione e dell ’appetito , xò
à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,- che effli subordina in
modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i due primi dominino
insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte più
considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze;
poi¬ ché apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi
spirituali che convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo
stesso modo l’India, con l’instabilità delle rappresentazioni e delle
formulazioni che le è propria, compone l’anima o meglio l'involucro
dell’anima, di tre guna al pari della società e dell'universo: queste
qualità, che furono inizialmente luce, crepu¬ scolo e tenebra, sattva,
rajas e tamas, sia perla loro presenza isolata che per la loro
combinazione, costituiscono gli individui e lo Stato: talvolta il senso
della legge morale, della passione e dell’interesse, dharma, kama e artha,
si uniscono in una triade equivalente a quella dei guna e il loro
equilibrio lode¬ vole o biasimevole definisce i tipi umani; talvolta,
seguendo uno schema prettamente indiano, è la conoscenza serena,
l’attività inquieta o l’ignoran¬ za fonte di errori, che si disputano il
nostro effimero edificio e questa sempli¬ ce enumerazione disegna una
terapeutica...» Per l’Irlanda e la regina Medb vedi JMQ, pp. 115 -116 (=
JMQ it., pp. 80-82); è la stessa Medb che commen¬ ta chiaramente la sua
seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valo¬ roso in guerra
e anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in questi
termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché «non sono mai stata
senza un uomo nell’ombra di un altro » - allusione alle costanti competi¬
zioni intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e conferisce. Nella
lon¬ tana posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul. Hon.,
espone magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima (o delle tre
anime) c ritro¬ va, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di Medb
(ma col «timore» al primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris
ira; seruitiipaliere iugum... - Per «Zoroastro tripartito» vedi K.
Barr, «Irans profet som xéXeioq avOptonoq», Festkr. tilL.L. Hammerich,
1952, pp. 26-36. § 19. Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi
JMQ, cap. VII (soppri¬ mendo le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici
(la Vacca magica per il dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai
pcrlndra, ilearro a tre ruote che ser¬ ve agli Aévin per portare la loro
benevolenza al mondo: p. es. RV, I, 161, 6) e scandinavi (P anello magico
per Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle setole d’oro per
Freyr) vedi Tarpeia, IV («Mamurius Veturius»), pp. 205-246. §
20. Nei rituali vedici vi sono tracce di un’antica assegnazione del nero
ai vaiéya: per costruire la sua casa un indiano sceglie un suolo
diversamente co¬ lorato, bianco per un brahmano, rosso per uno ksatrya e
per un vaiéya, giallo secondo certi trattati ( Àsvalàyana G.S., II, 8, 8)
e nero secondo altri ( Gobhila G.S., 7, 7; Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per
la tradizione iranica vedi in ultimo luogo ZaEHNER, Zurvan, 1955, pp.
118-125 (testo del Grande Bundahisn c del Denkart, pp. 321-336 e
374-378). Per il rituale hittita vedi BasaNOFF, Euocatio, 1947, pp.
141-150. 48 § 21. DUMÉZIL, Rituels cap. Ili
(«Albati, russati, virides») e IV («Ve- xillum caeruleum»); J. DE VRIES,
«Rood, wit, zwart», Volkskimde, II, 1942, pp. 1-10. §
22. MOLE, «Le partage du monde dans la tradition des Iraniens», JA, CCXL,
1952, pp. 456-458. § 23. DUMÉZIL, «Les trois fonctions dans
quelques traditions grecques» Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L.
Febvre ), I, 1954, pp. 25-32, dove sono studiate in questo senso il
«Kroisos-Logos» di Erodoto e certe forme dell’apologo di Mida e del
Sileno; L. GERSCHEL, «Sur un schème trifon- ctionnel dans une famille de
légendes germaniques», RHR, CL, 1956, pp. 55-92, in cui sono esaminati
due tipi imparentati di leggende, una che com¬ porta l’opzione proposta a
un individuo fra tre «offerte funzionali» (es. l’origine di «Jodeln»
citata nel testo) e l’altra che presenta tre fratelli che si spartiscono
tre doni funzionali il cui valore si rivela disuguale a vantaggio del
dono della prima funzione (es. il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT
D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III, 1842, pp. 268-291 ha pubblicato un buon
esempio). § 24. L. GERSCHEL, «Structures augurales et tripartition
fonctionnelle dans la pensée del’ancienneRome», JP, 1952, pp. 47-77.
L’estrema antichità e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e
pratiche augurali di Roma (la parola augur è indoeuropea) sono state
stabilite in diversi articoli: «L’inscription archaique du Forum et
Cicéron, De divin., Il, 36», RSR, XXXIX-XL ( =Mél. J. Lebreton. I), 1951,
pp. 17-29, prolungata da «Le iuges auspicium et les incongruités du
taureau attelé de Mugdala», NC, V, 1953, pp. 249-266; Rituels..., cap. II
(«Aedes rotunda Vestae»); «Les trois premiè- res regiones caeli de
Martianus Capei la», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A M. Niedermamì),
1956, pp. 102-107. Sulla parola augur e la sua preistoria in¬ doeuropea,
vedi «Remarques sur augur, augustus», REL, XXXV, 1957, pp. 126-151.
§ 25. Aspects..., p. 63-101 («Les trois péchésdu guerrier»). Citiamo
anco¬ ra L. GERSCHEL, «Coriolan», Eventail de l’Histoire vivante (=Mél.
L. Feb¬ vre), II, 1954, pp. 33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma,
resiste alle ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto
il corpo sacerdo¬ tale rivestito delle sue insegne sacre e con gli
strumenti di culto, ma cede alla terza, a quella di tutte le donne di
Roma che portano i loro bambini - la «parte germinativa» di Roma -
condotte dalla sua propria madre e da sua moglie. § 26. Sulla
diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre funzioni, vedi la
mia comunicazione al Vili Congresso Internazionale di Storia delle
Religioni (Roma 1956), «Le rex et les flamines maiores», riassunta negli
Atti..., 1956, pp. 118-120. Sul re germanico nella prospettiva
trifunzionale vedi J. DE VRIES, «Das Kònigtum bei den Germanen»,
Saeculum, VII, 1956, pp. 289-309. 49
Capitolo secondo Le teologie tripartite 1.
Espressione teologica dell’ideologia delle tre funzioni Le teologie
dei diversi popoli indoeuropei non sono essenzial¬ mente degli accumuli
incoerenti di dèi stratificati dai flussi e riflussi fortuiti della
storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente infor¬ mati è facile
riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si definiscono le
une con le altre e che si spartiscono le province del sa¬ cro, secondo il
piano spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi sono stati per
lungo tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal compresi.
Il loro riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo itali¬ co
e mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a partire
dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi;
all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta
penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei
diversi ambiti. 2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli
inni e nei RITUALI VEDICI I sacerdoti dell’India
vedica, in un certo numero di circostanze rituali importanti, associano
(per delle invocazioni, delle offerte o del¬ le enumerazioni
classificatorie) i due sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio
guerriero per eccellenza, lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi sempre
designati al duale con un nome collettivo, i Ncisatya o Asvin, guaritori,
datori di discendenza e di ogni sorta di bene. Talvolta al se¬ condo
livello, evidentemente per analogia col raggruppamento bina¬ rio del
primo e terzo livello, Indra compare associato a un altro dio, spesso
variabile (Vàyu, Agni, Surya, Visnu). Abbiamo già visto (I § 18) questo
insieme divino (Mitra-Varuna, i due ASvin, Indra con Agni o Sùrya),
invocati per ottenere la formazione di un feto maschio, obiet¬ tivo più
importante in questi tempi arcaici che non oggi. L’ordine di
numerazione mette gli ASvin al secondo posto, pri¬ ma di Indra poiché si
tratladi una nascita, cioè di un avvenimento che è propriamente del loro
ambilo. Con un’alterazione differente dell’ordi¬ ne che mette più in
evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce la lista dei principali
«dèi in coppia» invocali al momento culminante della spremitura mattutina
del soma (il sacrificio tipico); sono Indra-Vàyu, Mitra-Varuna c i due
ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1, 3-5) ed è lui che comanda il piano di
un certo numero di inni del Rive¬ da ispirati da questo rituale.
Il contesto di questi inni è sovente istruttivo, garantisce e illu¬
stra il valore funzionale di ogni livello divino: per esempio in I, 139
Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c nella
stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine tecnico che designa il
battaglione dei giovani guerrieri divini: la strofa di Mitra-Varuna (2) è
riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè dell’Ordine cosmico e mo¬
rale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono invece presentati come i si¬
gnori delle due varietà di «vitalità», srlyah e prksah. Nei due
inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualifi¬ cati come nani,
«Mànner, eroi» (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è detto che «con
l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto un’elevata efficienza »;
quanto agli Asvin, « donano gioia a molti» (3, slr. 1). 3.
Lis ti-: ascendenti e discenden ti Più spesso l’ordine canonico sia
ascendente che discendente è rispettato. Ecco inizialmente due casi molto
«puri» in cui Indra è solo al suo livello. 52
Nel rituale arcaico e minuzioso d’erezione dell’importante alta¬
re del fuoco, al momento in cui si tracciano i sacri solchi che devono
li¬ mitare l’area, viene fatta un’invocazione alla vacca mitica,
Kàmadhuk («quella che quando la si munge dona ciò che si
desidera»). L’invocazione contiene la sequenza divina che ci riguarda,
nel senso discendente, con un prolungamento che ne garantisce i valori
funzio¬ nali: «Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna,
a Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei
sfidra), alle creature, alle piante!» (cf. Éat. Brdhm., VII, 2, 2, 12).
In una tale numerazione ordinata, al di sopra delle piante, degli animali
ed even¬ tualmente degli uomini non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin
non possono patrocinare che tre varietà di uomini arya, quelli che corri¬
spondono rispettivamente e gerarchicamente alle loro tre nature. In
un sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli stessi dèi sono
invocati nell’ordine ascendente con un complimento colletti¬ vo ed
esauriente (Taittir. Sarnh. , II, 3, 10, 1 b): «tu sei il soffio degli
dèi Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il soffio di
Mitra-Varuna... tusei il soffio di Tutti gli Dèi!». Con Agni
associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osser¬ va la stessa
sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interes¬ sante ( RV ,
X, 125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine delle strofe):
è il famoso inno panteista, messo nella bocca di un perso¬ naggio che è
senza dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta come il
supporto e l’essenza comune di tutto ciò che esiste. La prima
strofa è questa: «Io vado con i Rudra, con i Vasu, con gli Àditya e con
Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due Mi¬ tra-Varuna; sono io
che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due Asvin!». È degno di nota
che nelle strofe seguenti, analizzando la pro¬ pria polivalenza o, come
ella dice, i « diversi luoghi » c «soggiorni» in cui «glidèi l’hanno
introdotta » (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in ri¬ salto, come parti
della sua opera in rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6 =AV str. 4, 3,
5) il nutrimento e la vita, poi la parola «assaporata dagli dèi e dagli
uomini» e il bene che concede ai personaggi sacri (bruh- man, rsi),
infine l’arco «la freccia che uccide il nemico del brahmàn» c il
combattimento. È chiaro che, qualunque sia l’intenzione dottrinale
(si è parlato in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo poema
utilizza nelle sue espressioni il più antico sistema concettuale degli Arya:
con la sua esposizione di nozioni parallele (dèi, azioni) conferma che la
se¬ quenza Mitra-Varuna, Indra (solo o accompagnato) e i due Asvin
riu¬ nisce i patroni e le espressioni teologiche delle tre
funzioni. 4. Gli dei arya dei Mitanni Talvolta leggermente
ritoccata, secondo preoccupazioni che è spesso possibile comprendere,
questa stessa sequenza si ritrova in di¬ versi testi dell’India arcaica,
ma ora voglio giungere senza indugio a un documento molto
importante. È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo parlante
sia il futuro «indiano-vedico», che un dialetto molto vicino a quelli che
si possono chiamare «para-indiani», invece di emigrare verso Est, verso
l’Indo e il Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino alla
Palestina, in¬ correndo in un destino brillante ma effimero e lasciando
sue tracce in molti scritti cuneiformi. Mentrei loro fratelli
orientali, autori degli inni vedici, sfuggono alla storia, questi,
circondali da popoli archivisti e armati di una scrit¬ tura, sono
localizzabili e databili con una grande precisione. Sono loro che hanno
fatto tremare e talvolta crollare antichi reami del Vicino Oriente con le
loro bande di guerrieri specialisti, di cui si c parlato più sopra,
quelli che i testi babilonesi ed egiziani chiamano marianni. Il
gruppo più interessante di questi «Para-Indiani» è quello che,
inquadrando e dirigendo un popolo di altra origine, ha fondato nella metà
del secondo millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero hurri- ta dei
Mitanni, che per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto trattare
da pari a pari. Nel 1907, a Bogazkòy, negli archivi di un re
hittita, gli scavi hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un
trattato concluso da questo principe, verso il 1380, col suo vicino dei
Mitanni, il re Mati- waza. Restaurato sul suo trono dall 'Hittita che gli
aveva inoltre donato sua figlia, il Mitan no stabilì un’alleanza col suo
benefattore nella debi¬ ta forma. Il testo enumera le
maledizioni celesti in cui egli accetta di in¬ correre se mancherà alla
parola. Secondo l’uso, i due contraenti con¬ vocano come garanti tutti
gli dèi che i loro due imperi riconoscono. Fra gli dèi mitanni, vicino a
un gran numero di dei sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità
locali o babilonesi, s’incontra una sequen¬ za che è stata immediatamente
identificata dagli indianisti e su cui i fi¬ lologi hanno lungamente
lavorato, esaminando le particolarità grafi¬ che e grammaticali del
testo. Oggi renumerazione si può rendere con sicurezza nel modo
seguente: «Gli dèi Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il
dio Indura [var. Inclar], i due dèi Nàsatyu ...». Per più di
trentanni, senza aver preso in visione i documenti ve¬ dici principali
citati, si sono proposte per questa riunione di dèi delle spiegazioni
strane (W. Schulz, 1916-17) o insufficienti (S. Konow, 1921 ). Il danese
A. Christensen ( 1926) con un’analisi serrata si è avvi¬ cinato alla
verità, riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya non compaiono a
Bogazkòy come tecnici di atti diplomatici, né come interessali di questa
o quella clausola particolare, ad esempio matri¬ moniale, del trattalo,
ma poiché erano «dèi principali» della società arya. Sfortunatamente egli
ha «pensato» questo stato maggiore solo nel quadro dualista
dell’opposizione *asura-daiva preminente nell’I¬ ran, reale ma meno
importante nell’India vedica, c l’ha ripartito artifi¬ cialmente,
contrariamente alle indicazioni del testo, in due gruppi, Mitra-Varuna da
una parte e Indra-Nàsatya dall'altra. E solo nel 1940, grazie a un
dossierve dico delle tre funzioni e ai testi vedici che associano gli
stessi dèi presenti nel trattalo di Bogaz¬ kòy, che è apparsa
l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in questi termini nel
1945: «A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che
pa¬ trocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della regalità coi
suoi necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i Nàsatyu,
rappre¬ sentanti duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo stesso
piano: a un secondo livello vi è Indura, dio della funzione guerriera e
dell’ari¬ stocrazia militare dei marianni; poi, a un livello ancora
inferiore vi sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi
dèi insie¬ me e in quest’ordine, il re fa due operazioni precise: vincola
con se stesso tutta la società del suo reame, presentata nella sua forma
rego¬ lare, ed evoca le tre grandi province del destino e della
provvidenza. Questo corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni
che accettu di attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla
sua persona al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e
oblio, odio generale da parte degli dèi ». 5. Connotati degli
dèi caratteristici delle tre funzioni NELLA RELIGIONE VEDICA
Non sarà inutile, per agevolare il lettore nelle analisi
particolari che seguiranno, precisare ora in qualche parola, nella
prospettiva delle tre funzioni, gli orientamenti e i limiti di questi diversi
dèi che gli ar¬ chivi di Bogazkòy, confermando le formule degli inni e
dei rituali in¬ diani, comprovano essere un raggruppamento formulare
pre-vedico. Ecco come questi valori sono stati riassunti nel mio piccolo
libro Les dieux des Indo-Européens (1952). «Non è un caso se
il primo livello è spesso rappresentato da due dèi: nella sovranità che
questi antichi indiani concepivano vi erano due facce, due metà
antitetiche ma complementari e ugualmente ne¬ cessarie, incarnate e
patrocinate da due «re», Mitra e Varuna. Se dal punto di vista dell'uomo
Varuna è un signore inquietante, terribile, possessore della màyà, cioè
della magia creatrice delle forme, armato di nodi e di reti, che opera
cioè avvinghiameli immediati e irresistibili, Mitra, il cui nome
significa Contratto, e anche Amico, è rassicurante e benevolo, protettore
degli atti e dei rapporti onesti e stabiliti, estraneo alla violenza.
L'uno, Varuna, dice un testo celebre, è l’altro mondo; questo mondo è
invece Mitra. Varuna è più despota, più dio stesso se così si può dire;
Mitra è quasi un sacerdote divino. Più che della prima funzione, Varuna
sembra avere maggiori affinità con la seconda, violenta e guerriera;
Mitra, per la tranquilla prospe¬ rità che dischiude grazie, alla terza.
L'opposizione è così netta che da tempo si sono potuti sottolineare i
tratti quasi demoniaci di Varuna: non è forse l’àsura per eccellenza ? E
nelle forme post-vediche della religione, come già in molte strofe del
Rgveda, gli usura non sono for¬ se dei misteriosi demoni? In Ind(a)ra si
riassumono tutte altre cose: i movimenti, i seni zi, le necessità della
forza brutale che applicate alla battaglia producono vittoria, bottino e
potenza. Questo campione vo¬ race, armato di folgore, uccide i demoni e
salva l’universo, per com¬ piere le sue imprese si inebria di soma che
dona vigore e furore. Egli è il danzatore, nrtti; il suo splendido e
ardente seguito è formato dai Marut, trasposizione atmosferica del
battaglione dei giovani guerrie¬ ri, màrya. Per lui e per essi si esprime
una morale dell'exploit e dell'esuberanza che si oppone all'onnipotenza
immediata e rigorosa, come alla benevolente moderazione che si riunisce
nel primo livello. Gli dèi canonici dell'ultimo livello, i Ndsatya o
Asvin, non esprimono che una parte del dominio complesso tipico della
terz.a funzione. Sono soprattutto datori di salute, giovinezza e
fecondità, dèi taumaturghi soccorritori degli infermi, degli amanti, dei
figli senza fidanzata o del bestiame sterile. Ma la terza funzione è
molto più di tutto questo, non solo salute e giovinezza ma nutrimento,
abbondanza in uomini e in beni, cioè massa sociale e ricchezza economica,
attaccamento al suolo, a questa gioia tranquilla e stabile dei beni, che
si esprime in sanscrito con l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono
spesso rinforzati al loro livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono
altri aspetti della terza funzione, come la vita animale, l’opulenza, la
maternità ( Pùsan, Puramdhi, Dravinodà, il «Signore dei Campi», SarusvatT
ed altre dee madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale,
collettivo, tota¬ le («Tutti-gli-Dèi», paradossalmente concepiti come una
classe parti¬ colare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che
Rgveda Vili, 35 oppone come etichetta della terza funzione ai singolari
neutri bràh- man e ksatrà, caratteristici delle due funzioni
supreme». Abbiamo qui un buon esempio di struttura, una teologia
artico¬ lata difficile da pensare come formata da un assemblaggio di
pezzi e frammenti: l’insieme c il piano condizionano i dettagli; ogni
tipo divi¬ no nel suo orientamento proprio esige la presenza di tutti gli
altri e non si definisce che per rapporto agli altri, con la vivacità che
solo l’antitesi produce. Il riconoscimento di questa sequenza divina e
del suo carattere prc-vcdico ha permesso di compiere, nel 1945, un
passo decisivo nell'interpretazione delle religioni iraniche c di rendere
con¬ to di un tratto importante della teologia aveslica da tempo
osservalo. 6. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni nella riforma
ZOROASTRIANA Sotto il nome di Zoroastro si è avuta una
profonda riforma che ha notevolmente alteralo il paganesimo ancestrale,
somma di una serie di riforme progressive nello stesso senso.
Tuttavia, considerando il ri¬ sultato storicamente attestato di questo
processo riformatoree il punto di partenza preistorico, determinabile
poiché era sicuramente vicino allo schema vedico e pre-vedico oggi
riconosciuto, certe linee direttri¬ ci del movimento appaiono
immediatamente. Nell’Ave.vra nongàthico, dove è mitigato
l’intransigente mono¬ teismo delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura
Mazda - senza dub¬ bio anche lui sublimazione dell’Asura supremo, quello
che l’India chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche di alto rango
che portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy (MiGra,
Indra, Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra
(al pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto
differen¬ te, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya -
enunciati ancora sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in cui
i Nàsatya se¬ guono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di una
riforma che (operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e
destinata a im¬ porre uniformemente a tutta la società mazdaica la morale
elevata del primo livello purificalo) ha rigettato, anatemizzato,
demonizzato i pa¬ troni divini che tradizionalmente rappresentavano e
giustificavano al¬ tri comportamenti come lo scatenamento guerriero c l’orgia,
meno sanguinante ma certo non meno libera, dei culti della
fecondità. 7. Le Entità zoroastriane Quanto alla nuova
teologia monoteista allo stato puro, quella delle Gùthà, essa riposa, in
un’altra maniera, sullo stesso schema. Il tratto saliente è 1’esistenza
di un gruppo di Entità astratte associate al Gran Dio unico. Queste
Entità non hanno ancora un nome collettivo, ma sono quelle che si
vedranno in seguilo costantemente raggruppate in un ordine fisso, sotto
il nome di Amasa Spanta, gli Immortali Bene¬ fìci (o Efficaci). Si è
discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste Entità siano già delle
creature o delle emanazioni separate da Dio - una sorta di arcangeli - o
semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo non cambia niente quanto al
problema delle loro origini che qui ci inte¬ ressa. La lingua e lo stile
delle Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità volontaria e raffinata, ma
fortunatamente per orientarsi si dispone di talune considerazioni che non
dipendono dalle incertezze di parola per parola. 1) Il senso e la
struttura grammaticale dei nomi che designano le Entità forniscono
qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengo¬ no quasi tutti i nomi di
una o più Entità sono assai numerose per per¬ mettere delle osservazioni
statistiche - frequenza relativa di ogni Enti¬ tà, frequenza delle loro
associazioni diverse - che rivelano dei tratti molto importanti del
sistema. Per esempio, se l’intenzione, la forma e lo stile di questi inni
lirici non costringono il poeta a presentare le Enti¬ tà in lista nel
loro ordine razionale, come faranno più tardi i testi rituali in prosa,
tuttavia la tavola delle frequenze di menzione delle Entità, prese
separatamente e in conseguenza delle importanze relative che i poeti le
attribuiscono, riproduce esattamente l’ordine gerarchico che esse avranno
in seguito sotto il nome di Amaste Spanta: questa gerar¬ chia dunque
esisteva già. 3) Un altro elemento d’interpretazione è for¬ nito dalla
lista degli «elementi materiali» che la tradizione associerà, parola per
parola, alla lista delle Entità, gemellaggio a cui gli inni stes¬ si
fanno allusioni certe e precise. 4) Infine, nell’À vesta non gàthico, ad
ognuna delle Entità è opposto un arcidemone che in molti casi le chia¬
rifica. Il quadro è il seguente: Entità astratte Elementi materiali
arcidemoni opposti PATROCINATI 1) VohuManah bue
(Il Buon Pensiero) 2) Asa (l’Ordine) fuoco 3)
XsaGra (la Potenza) metallo 4) Àrmaiti (il Pensiero terra
Pio) 5) Haurvatà( acque (l’Integrità, la
Salute) 6) AmarstàJ (la piante Non-Morte,
l’Immortalità) 8. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni,
trasposti nelle ENTITÀ Arcangeli o aspetti di Dio, in
qualunque modo si interpretino le Entità, questo quadro suscita delle
domande: perché questi gli eletti e Il Cattivo Pensiero
Indra Saurva NàqaiOya La Sete
La Fame non altri che sarebbero più facilmente concepibili?
Perché, non dispo¬ nendo che di così poco posto, gli autori del sistema
ne hanno in qual¬ che modo sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute
con rimmortalità, che quasi senza eccezioni è nominata insieme ad
essa? Perché questi posti precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni
che sono antichi dèi funzionali condannati dalla riforma? Un
confronto delle Entità zoroastrianc con la lista vedica e mi¬ tannica
degli dèi funzionali, mostra dove bisogna cercare la soluzione
d’insieme. 1 ) Le ultime due, fra i cui nomi vi è assonanza e che
sono presso a poco inseparabili, ricordano per le nozioni così simili che
esprimo¬ no, per gli elementi materiali associali c per il loro posto
gerarchico, i gemelli Nàsatya, indissociabili, donatori di salute e di
vita, ringiovani- tori dei vecchi, tecnici delle virtù medicali contenute
nelle acque c nel¬ le piante. 2) Prima di queste, la terza
Entità è la Terra in quanto madre, nu¬ trice e modello della padrona di
casa iranica: ricorda così la dea varia¬ bile (Sarasvatl, notoriamente)
che si vede talvolta unita ai Nàsatya nel¬ le enumerazioni vedichc che
segnalano la terza l’unzione. Così il dominio delle tre ultime Entità
zoroastrianc, designate tutte da sostan¬ tivi femminili, mentre quelle
superiori sono nominale da neutri (cf. in vcdico vis, femminile, contro
brahman c ksutriì, neutri), è quello della terza l’unzione. In più, nella
persona di Àrmaili, è a una Entità della ter¬ za funzione che il sistema
oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazio¬ ne (ridotta a un unico
personaggio) delle due divinità canoniche della stessa funzione, i
Nàsatya. 3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè la
stessa pa¬ rola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya
c che lin da Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda
l'unzione, come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta , }>
fornisce diffe¬ renzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il
«metallo» che gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma
dei lesti espliciti lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc
a lui opposto, Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra,
personaggio complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua
qualità di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda
funzione. 4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o
men¬ zionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi
signi- 60 ficativi: ASa è la parola avestica
(cf. antico-persiano aria-) che corri¬ sponde al vedico ria, l’Ordine
cosmico, rituale, sociale, morale, patrocinato dagli dei sovrani ma
principalmente (e negli epiteti che gli sono propri) dall’inflessibile e
terribile Varuna. Vohu Manah, il «Buon Pensiero», in una serie di
passaggi gàthici e in tutta la letteratu¬ ra non gàlhica, è presentato,
al contrario, come vicino all’ uomo, al pari del benevolo e amichevole
Mitra, vicino all’uomo e a «questo mon¬ do», in opposizione a Varuna che
è «l’altro mondo». Yasna XLIV contiene a questo proposito due
strofe rivelatrici, le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo lontano e
il nostro scenario più vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo così netto
come fa Rgveda IV, 3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli ausiliari di
cui si parlerà nel capitolo seguente). L’elemento materiale associalo a
Vohu Manah c il bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c da tempo
riconosciuto (A. Christensen) che il bue era sotto la protezione
particolare del sovrano Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e
dell’arcidemone Indra ricor¬ da che molti inni del Rgveda inscenano delle
tenzoni tra i 1 sovrano Va¬ runa e il guerriero Indra, depositari di due
morali, la cui divergenza sfocia facilmente in un conflitto.
9. Intenzione di questa riforma zoroastriana Altri
particolari dello stesso genere arricchiscono e sfumano il confronto, ma
questi sono sufficienti per fondare la soluzione del pro¬ blema delle
origini degli Amasa Spanta che io ho estesamente svilup¬ pato nel 1945
nel mio libro Naissance d’Archanges: la lista delle sei Entità dello
zoroastrismo monoteista c stata ricalcala, copiata, dalla li¬ sta degli
dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico; più esatta¬ mente, da
una variante di questa lista, come si trova in India, che ai cin¬ que dèi
maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella terza
funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copia¬ tura?
Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non hanno
semplicemente e puramente soppresso questi «falsi dèi»? Senza
dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quel¬ la struttura
trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia come mezzo
di analisi c come quadro di riflessione sulla vita; senza dubbio perché
gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro predicazione e
che volevano persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa
forma di pensiero e bisognava dunque fornire un sostituto esatto di ciò
che si toglieva loro. Infine, senza dubbio perché così presentata la
lezione era più eloquente: uno degli oggetti pratici della riforma, come
si è visto, era distruggere la morale particolare dei gruppi di guerrieri
e allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e purificata dalle
funzioni sacerdotali. Elevando, ad esempio, al posto in cui
infieriva sino allora l’au¬ tonomo Indra, l’esemplare figura di una
«Potenza», XSaGra, devota alla santa religione, si portava ai sostenitori
dell’antico sistema un col¬ po più rude della semplice negazione del dio
pagano o della semplice soppressione di questa provincia della teologia.
In un certo senso si può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo
delle Entità, sia con¬ sistita nella sostituzione di ogni divinità della
lista trifunzionale con una equivalente, che conservava il suo rango ma
che essenzialmente era privata della propria natura e animalo da un nuovo
spirito, dallo spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio
unico. Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli
stu¬ diosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi
nomi, questa Entità che si muovono sembrano equivalenti,
intercambiabili. Si spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque
sia il livello e il dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato
sublimalo, portino uniformemente a pensare, circa il loro comportamento,
al gruppo in¬ diano dei due primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya,
fra i quali Mitra e Varuna sono i principali. Questa
analogia, che è un fatto incontestabile e che B. Geiger e K. Barr hanno
avuto ragione di mettere in risalto ampiamente, non ha comunque risolto
il problema delle origini delle Entità: esse non sono gli equivalenti
normali e antichi degli dèi sovrani vedici, ma gli equi¬ valenti degli
dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli energicamente ri¬ portati al
tipo unico di una «santità» esigente: dèi sovrani certo, ma an¬ che,
sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi vivificanti che li
completano. 10. Gli dèi indo-iranici delle tre eunzioni e le
spiegazioni CRONOLOGICHE Questa spiegazione degli Amasa
Spanta, immediatamente am¬ messa da molti iranisti, ha ricevuto in
seguilo degli ampiamenti e alcuni li ritroveremo al capitolo seguente (III, §
8). Devo qui limitarmi e sottolineare la principale conseguenza del punto
di vista comparativo. Riportando ai tempi indo-iranici la lista canonica
mitannica e vedica degli dèi delle tre funzioni con la loro gerarchia, ci
è precluso ogni ten¬ tativo di spiegare questa lista e questa gerarchia
con avvenimenti sto¬ rici o della preistoria recente dei tempi vedici.
Indra non è, non può più essere considerato come un «gran dio» che,
ad esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conqui¬ sta
sarebbero «in procinto» di sostituire a un più antico «gran dio» Va¬ runa
che in seguito avrebbe sviluppato il suo prestigio alle spalle di un più
vecchio dio Mitra. Se così fosse, come comprendere che questa
situazione, effime¬ ra per natura, questi rapporti instabili di dèi in
crescita e di dèi che re¬ trocedono si siano fissati e cristallizzati
allo stesso stadio di evoluzio¬ ne, disegnando lo stesso quadro d’insieme
(arrestando per secoli allo stesso massimo il progresso di uno dei
termini e allo stesso minimo la soppressione dell’altro),pressoi
Para-Indiani dei Mitanni, negli inni e nei rituali propriamente vedici e
ancora, nel politeismo iranico che si lascia leggere in filigrana sotto
la teologia di Zoroastro? La «storia» non può essere stata in
questo punto tre volte identi¬ ca, aver avuto degli effetti intellettuali
così simili in queste tre società precocemente separate. La
sola interpretazione plausibile è che egli Indo-Iranici ancora indivisi,
qualunque fosse il loro punto di partenza, erano arrivati ai li¬ miti
delle loro Terre Promesse in possesso di una teologia in cui i rap¬ porti
di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano già come li ritroviamo
negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il raggruppa¬ mento degli
dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato fortuito di
avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico, un’analisi e una
sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così fortemente come la
«destra» presuppone e chiama la «sinistra», in breve, presuppone una
struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è pensato di
ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di Varuna rispetto
a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in cui questi dèi
si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno stesso in cui Indra
si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che messe in scena del¬
la tensione che esiste tra 1’«aspetto Varuna» della funzione sovrana e la
funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne risenta
pienamente i benefici. I miti collegati ai signori divini delle
funzioni devono, almeno in parte, illustrare con chiarezza la divergenza
delle funzioni e devono farlo senza i riguardi e i compromessi che la
pratica sociale impone: è chiaro, ad esempio, che se la sovranità magica
assoluta e la pura forza guerriera fossero portate agli estremi
sfocerebbero in dei conflitti e di fatto in certi momenti della vita
della società a causa di tali conflitti si producono usurpazioni,
anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la teologia dei rapporti tra
Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella grande maggioranza dei casi
essi collaborano, ma in qualche testo dia¬ logato i poeti sono portati a
questo estremo, che i politici evitano sag¬ giamente e per meglio
definirli, per «vederli» e «farli vedere», li han¬ no opposti come rivali.
Stando così le cose, si tratta di un esercizio retorico sicuramente
antico, poiché come si è visto lo zoroastrismo ha scelto Indra
scomunicato, demonizzato, per farne l’avversario parti- col are di Asa,
cioè dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna. 11.
Comunicazione tra gli dèi delle tre funzioni Questa osservazione
deve essere completata da un’altra inver¬ sa. La definizione funzionale
dei tre livelli divini è statisticamente ri¬ gorosa (la letteratura
vedica è assai abbondante perché la statistica vi possa trovare un
appiglio certo), precisa non solo nei testi dove tali funzioni sono
intenzionalmente classificate o perlomeno raggruppate, ma anchenella
maggior parte dei testi in cui un poeta considerao invo¬ ca gli dèi di un
solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni religio¬ ne le
effusioni della pietà, della speranza e della confidenza talvolta
debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è soprattutto vero
per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso dei tempi stori¬
camente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli inni), han¬
no così spesso portato a riconoscere l’identità profonda dell’essere
sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per esprimere con¬
cretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli attributi
degli altri. In più, nella pratica, ciò che interessa l’uomo pio è
sicuramente la diversità dei soccorsi che può ricevere e delle porte
mistiche a cui può bussare, ma è anche e soprattutto la solidarietà e la
collaborazione di tutti gli dèi che gli rispondono. Infine,
nelle opere stesse per le quali gli uomini chiamano gli dèi, capita che
la totalità o più parti deH’insiemc funzionale si trovino interpellati da
degli specialisti che gli sono estranei. L’esempio mag¬ giore è quello
della pioggia che gonfia le acque del suolo, che fornisce direttamente o
indirettamente il tipo di ricchezza pastorale e agricola, la salute
stessa, di cui si occupano gli dèi della terza funzione; ma essa c
ottenuta grazie alla battaglia celeste, strappata sotto forma di fiume o
di vacche celesti agli avari demoni della siccità, e questo è il compito,
il gran compito di Indra c dei suoi aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei
Marut. Congiungere il cielo e la terra e assicurare la
sopravvivenza del mondo è anche l’interesse degli dèi sovrani c
l’operazione tecnica si svolge infine grazie allo specialista
Parjanya. Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a lare sempre
questa giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c comune c
quindi la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande guerriero
Indra sia così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma della sua
azione, in quanto donatore di fecondità e di ricchezza. Ma il
lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare il modo
violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per li¬ berare
le acque: egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cer¬ chia
dei Pfisan o dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente
esistita tra gli Indo-Iranici prima della loro divisione, come
l’ideologia tripartita, l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più
antica ancora c deve es¬ sere riportata ai tempi indoeuropei: c allora
legittimo c necessario ri¬ cercare nella teologia degli altri popoli
indoeuropei antichi, c suffi¬ cientemente conosciuti, se delle équipes
analoghe sono attestate dagli usi rituali o da formulari.
Questa ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha immediatamente portalo
a risultati nei domini italici e germanici. Ma allo stesso tempo, in
questi domini in cui gli specialisti, nella loro autonomia, avevano da
lungo tempo costruito delle maestose c dotte spiegazioni di ogni cosa.la nuova
interpretazione ha dovuto rimettere i n questione molti pseu¬ do-fatti,
dimostrando la fragilità di molte pseudo-dimostrazioni, in modo tale che
spesso non è stata considerata la benvenuta. In sintesi, le
opposizioni sono soprattutto nate dal fatto che le «filologie separate», sia
scandinava che latina, si erano abituate a pen¬ sare cronologicamente -
secondo una cronologia ipotetica e soggettiva - la preistoria, la
«formazione» dei quadri teologici complessi, presen¬ tati dai documenti
antichi, mentre questi quadri, guardati in base alla prospettiva
comparativa che a grandi linee viene qui ricordata, s’interpretano
immediatamente, per l’essenziale, come strutture con¬ cettuali che
esprimono la distinzione e la collaborazione delle tre fun¬ zioni
esplicitate dagli Indoeuropei. 13. Jupiter, Mars, Quirinus e Juu-,Mart-,
VOFION(O)- Le due società italiche di Iguvium e Roma - l’una umbra
e l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci informano,
presenta¬ no due varianti di una triade in cui i due primi termini sono
identici: Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus
nella più antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo incoraggia a
non cer¬ care per la triade romana, com’è d’uso, una spiegazione fondata
sul caso, sugli apporti successivi o sui compromessi di una storia locale:
com’è possibile infatti che due serie di avvenimenti indipendenti pos¬
sano suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili? 14.
La triade precapitolina L’esistenza della triade romana, che si è
anche voluto contesta¬ re ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal
fatto che questi dèi sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti
da tre sacerdoti senza omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo
sacerdotum: Festo, p. 198, Lindsay) che sono, al di sotto del rex
sacro rum, erede ridotto e sa¬ cerdotale degli antichi re, gli alti
sacerdoti dello stato: i trej7 amines maiores, cioè il dialis, il
martialist il quirinalis. Questa triade capito¬ lina, vero fossile
nell’epoca storica, respinto dall’attualità di una tria¬ de differente
formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è rima¬ sta legata a molti
rituali e a rappresentazioni evidentemente arcaiche. 66
Una volta all’anno, in una cerimonia la cui fondazione era attri¬
buita a Numa (Tito Livio I, 21, 4), i treflciminesMciiores attraversava¬
no solennemente la città in uno stesso carro e facevano congiuntamen¬ te
un sacrificio alla dea Fides. I sacerdoti Salii che conservavano tra i
dodici ancilici indiscernibili il talismano caduto dal cielo cui era
stata attribuita la fortuna di Roma, erano in tutela Jovis, Martis et
Quirini (Servio, ad Aen., Vili, 663). Il tragico rituale
della devotio, con il quale il generale romano, per salvare il proprio
esercito, si immolava agli dèi sotterranei contemporaneamente all’esercito
nemico, era introdotto da una for¬ mula, da un’enumerazione di dèi che
Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di certo trascritto esattamente e che dopo
Janus, dio di ogni inizio, nominava innanzitutto l’antica triade: Giano,
Jupiter, Mars Pater , Quirinus, poi Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la
conclusione di un trattato, secondo Po¬ libio (III, 25, 6), i sacerdoti
feziali prendevano come testimoni prima Jupiter, poi Mars e infine
Quirinus. Il carattere comune di queste circostanze, in cui la
triade preca¬ pitolina è presentata come tale, è che il corpo sociale di
Roma è inte¬ ressato nel suo insieme e nella sua forma normale:
mantenimento del¬ la fides pubblica, senza cui la coesione sociale è
impossibile; protezione continua o urgente; impegno diplomatico. Il
sacrificio a Fides è particolarmente rivelatore poiché è la sola
circostanza conosciuta in cui i tre flamines maiores agiscono insieme; ma
lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro, l’unità
dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la garanzia
di Fides l’unità delle tre «cose» che Jupiter, Mars e Quirinus patroci¬
nano distributivamente; tre «cose» la cui sintesi o aggiustamento sono
essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste «cose»? 15.
Valore di Jupiter e di Mars nella triade precapitolina La risposta
non necessita di grandi sforzi, sempre che si preferi¬ sca il sentimento
dichiarato dai Romani stessi contro le ricostruzioni ardite, fatte da tre
quarti di secolo dagli epigoni di W. Mannhardt o da archeologi poco
coscienti dei limiti della loro arte; sempre che non si dimentichi che
questi dèi sono stati associati e gerarchizzati a Iguvium e a Roma poiché
rendevano dei servizi differenziati e complementari; e infine, a condizione
che si attribuisca un valore particolare, trattandosi di divinità dei tre
flamines maìores, a ciò che insegna l’ufficio di questi sacerdoti. Se si
osserva questa regola, e queste precauzioni, si riconoscerà in primo
luogo che Jupiter, e nello stesso tempo il Dius (nel capitolo seguente si
mostrerà il senso di questa sfumatura), onora¬ to dagli atti del flamen
dialis , e dal suo comportamento pieno di innu¬ merevoli precetti
positivi e negativi, è il dio che dall’alto del cielo pre¬ siede
all’ordine e all ’osservazione più esigente del sacro, garante della
vita, della continuità e della potenza romana. Quanto a Marte,
imperturbabilmente docile secondo l’insegna¬ mento dei migliori testi
epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio com¬ battente di Roma,
patrono della forza fisica, di quella forza che può, al pari del vedico
Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non di più) dal
contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno biso¬ gno di essere
forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o invisibili,
possono minacciare. Questa forza è sempre rimasta la forza che dona
la vittoria, sin dai tempi favolosi delle origini e fino al declino
dell’impero, nella schiacciante maggioranza degli impieghi
conosciuti. 16. QuiRINUS Per Quirino, l’unico
«invecchiato» fra i tre dèi in epoca storica, gli eruditi antichi hanno
generosamente costruito, su dei pressapochi- smi etimologici allora
correnti, delle teorie contraddittorie che com¬ plicano il lavoro; ma
fortunatamente disponiamo degli uffici adem¬ piuti dal suo flamen e di
molti altri fatti cultuali, del suo nome e di qualche indicazione
oggettiva degli antichi. Queste diverse fonti informative
forniscono un quadro com¬ plesso ma coerente. I ) Siamo a
conoscenza di tre circostanze in cui officia il flamen quirinalis. Ai
Robigalia del 25 aprile sacrifica un cane in un campo nei pressi di Roma
e allontana così (verso le armi da guerra, aggiunge Ovidio) la ruggine
che minaccia le spighe. Ai Consualia del 21 agosto sacrifica sull’altare
sotterraneo di Consus, dio del grano messo in provvista ( condere ); il
23 dicembre sacrifica sulla «tomba» di Laren- tia, la cortigiana che
incarna in una celebre storia la voluttà, la ricchez¬ za e la generosità
e che ha meritato di ricevere un culto, legando la sua fortuna a quella
del popolo romano. La festa propria di Quirino, i Quirinatici del 17 febbraio,
coincide con (e probabilmente è) l’ultimo atto dei Fornacalia, cioè delle
feste curiali della torrefazione del grano. Nelle altre due
circostanze rituali in cui appare, Quirino è asso¬ ciato alla dea Ops,
cioè all’Abbondanza rurale personificata: una iscri¬ zione ci insegna che
il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figura¬ no tra le divinità
onorate senza dubbio contro gli incendi (C/L I 2 , p. 326). La leggenda
che giustifica l’esistenzadei Salii di Quirino, dimo¬ stra che il voto
fondante questo collegio è stato fatto per la stessa ra¬ gione del voto
che istituiva la festa di Ops e di Saturno. Tutti questi dati, che
costituiscono l’intero dossier cultuale del dio, attestano che la sua
attività è uniformemente e unicamente in rap¬ porto con le sementi (tre
feste, tra cui la sua), con le divinità agricole Consus e Ops, con la
ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso senso si spiega il fatto che nel
390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando bisognava seppellire gli oggetti
sacri di Roma, questo compito non spettasse al rex o al flamen dialis,
primi sacerdoti dello stato, come ci si sarebbe aspettato, ma al flamen
quirinalis. 2) Il nome di Quirino è sicuramente inseparabile da
quello dei Quirites, cioè dall’insieme dei Romani considerati nelle loro
attività civili in opposizione totale a ciò che essi sono in quanto milites
(un aneddoto ben noto di Cesare lo prova). P. Kretschmer
aveva proposto di spiegare Quirites con curia (volscio couehriu), come
«gli uomini riuniti nei loro quadri sociali», essendo QuTrinus (cf.
dominus da domus) il patrono di questa entità della «massa sociale
organizzata» ( *co-uir-io/a -). L’etimologia, in sé e prsé soddisfacente,
è stata resa molto probabile da V. Pisani ( 1939) e in¬ dipendentemente
da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato come il nome dell’omologo
di Quirinus nella triade umbra di «Jupiter, Mars, Vofionus» possa essere
il compimento fonetico rigoroso di un *Le- udh-yo-no «patrono della
massa» (cf. il tedesco Leute, latino liberi, «massa di uomini liberi,
bambino di nascita libera» etc.), esatto paralle¬ lo e sinonimo dal
latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al pari della coltivazione
del suolo, aspetti considerati dalla terza funzione. 3) Ma lo stile
di questa pace è marcato dall’impronta romana e contribuisce al
sorprendente meccanismo che in qualche secolo ha conquistato e
romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico e stabilisce il
pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si è mai trattato di
una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi erano deposte ma
conservate; in cui i civili Quirites erano anche mobilitabi¬ li, i
milites del domani; in cui i comitia legiferanti non erano che l’
exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto nei suoi
quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla guerra. È
questo regime, questo stato di spirito che Quirino governa e che esprime
eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei flamines minores, il
Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle porte ( por¬ tele ) delle
città, prima di essere quello dei porti (j)ortus ) - ha l’incarico di
ungere le «.armidi Quirino» (Festo s .v.persillum, p. 238, Lindsay), cioè
di compiere il gesto di ogni mobilitazione alle armi: le quali pos¬ sono
anche non essere utilizzate, al momento, ma verso le quali può sopraggiungere
improvvisamente l’esigenza di ricorrervi. Questa ambivalenza
Quirites-milites dei Romani, questa con¬ cezione militare della pax
romana , spiegano sufficientemente come Quirino possa essere stato
considerato una varietà di Marte e come i Greci, che concepivano
altrimenti l’eipf|VTi, abbiano scelto per tradur¬ re il suo nome quello
di un vecchio dio guerriero, differente da Ares, ’EvuàA-ioq. E non sarà
troppo inutile meditare in questo contesto su due note del commentatore
di Virgilio, Servio, giudicate un tempo «assurde», ma alle quali la nuova
prospettiva «trifunzionale» ha con¬ ferito pieno valore (ad Aen. I, 292;
VI, 859): «... Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum
saevit) quando è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A Roma possiede
due templi: uno all’interno della città, in qualità di Quirino, cioè di
guardiano e di dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),' l'altro
sul¬ la via Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio
guerrie¬ ro o Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il
Marte che presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro
Roma mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio
fuori Roma ». 17. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti
leggendari di Roma Questa rapida esposizione, spogliata dalle
innumerevoli di¬ scussioni che è stato necessario sostenere su quasi
tutti i punti, basterà a dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade
precapitolina, l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni
termine. Cielo ed essenza stessa della religione come supporto di Roma;
forza fisica e guerra; agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace
vigilante: queste etichette definiscono tre ambiti complementari che
disegnano una struttura sicuramente anteriore a Roma e a Iguvium, dunque
italica, e quindi così vicina alla struttura indo-iranica da dirsi
risalente ai tempi indoeuropei. Non sarà inutile ricordare
qui i valori funzionali di cui appaiono rivestite, nei racconti sulle
origini di Roma, le tre componenti etniche, base leggendaria delle tre
tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi com¬ pagni sono i depositari del
potere sovrano e degli auspici; i suoi alleati etruschi, sotto il comando
di Lucumone, sono gli specialisti dell’arte militare; i suoi nemici, Tito
Tazio e i Sabini, sono provvisti di donne, ricchi in bestiame e in più
detestano la guerra e fanno di tutto per evi¬ tarla. Una variante
frequentemente attestata (l’abbiamo ricordata in I § 7) minimizza la
componente etrusca e concentra le due prime caratte¬ ristiche su Romolo e
i suoi compagni. Sotto questa forma la triade precapitolina si
divide molto ade¬ guatamente tra i due gruppi di avversari e futuri
associati: Romolo è costantemente il protetto di Jupiter (gli auspici
iniziali; Jupiter Fere- trius e Jupiter Stator in battaglia) ma è figlio
di Mars e trova riuniti in sé i favori dei due primi dèi della triade;
Quirino (in questo insieme leggendario soltanto) è considerato come un
dio sabino, il «Marte sa¬ bino» portato in dote da Tito Tazio a Roma
nella riconciliazione fina¬ le, allo stesso modo del nome collettivo dei
«Quirites» (ma questa pse- udo-sabinità dei Qui riti e di Quirino, benché
conf orme al carattere dei Sabini della leggenda, portatori della terza
funzione, si spiega col gio¬ co di parole, popolare tra gli eruditi di
Roma, «Quirites-Cures»), Si sa che un’altra forma della leggenda,
incompatibile con que¬ sta, fa di Quirino il nome postumo di Romolo,
riunendo così sul solo fondatore i tre termini della triade divina in base
agli auspici, alla filia¬ zione e all’apoteosi. 18. Varianti
della triade Jupiter, Mars, Quirinus Della leggenda delle origini,
Varrone (De ling. lat., V, 74) e Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno
conservato un aspetto importante: all’epoca della riconciliazione di Romolo con
Tito Tazio e dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella comunità, ormai
completa e in via di sviluppo, ognuno dei due re istituisce dei culti e
mentre Ro¬ molo fonda solo il culto di Jupiter, Tito Tazio instaura
Quirinus e un gran numero di dèi e dee che hanno rapporto con la vita
rurale, la fe¬ condità e il mondo sotterraneo. Questa
tradizione è molto interessante perché sottolinea ciò che è stato già
segnalato a proposito dell’India (II, § 5); la molteplicità de¬ gli
aspetti, l’inevitabile frazionamento di questa «terza funzione» che Tito
Tazio incarna, ma soprattutto perché tra gli «dèi di Tito Tazio» (che non
sono certamente sabini ma romani, a dispetto della colorazio¬ ne etnica
della leggenda) molti f igurano in terza posizione, nelle triadi che non
sono altro che varianti della triade canonica «Jupiter, Mars, Quirinus»,
come Ops (abbiamo già segnalato i suoi rapporti con Quiri¬ no) o
Flora. 1 tre gruppi di culto della Regia, della «casa del re», che
corri¬ spondono senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano
giustap¬ poste nelle rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi
sacri del più alto rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la moglie
del flamen dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium
Marti.?, 3) cul¬ ti del sacrarium Opis Consivae, la dea
dell’abbondanza. Questa collocazione dei tre livelli funzionali
manifestava sensi¬ bilmente che la stessa forma di religione che si
analizzava e che si dis¬ sociava nelle persone dei tre grandi flamines,
creava al contrario una sua sintesi quando passava nelle mani del rex,
quando era il rex che l’amministrava, non più in quanto incarnazione ma,
nel nome di Ro¬ ma, come gestore delle forze sacre. Quanto
alla triade «Jupiter, Mars, Flora» (rimpiazzata più tardi da Venere)
sembra essere stata lei a patrocinare i tre carri delle corse primitive
(in relazione con le tre tribù funzionali e i tre colori bianco, rosso,
verde; vedi sopra I, § 21 ). Flora meritava due e tre volte questo posto,
per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di lei un
doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a Roma stessa,
senza dubbio più alla massa romana che all’entità politi¬ ca patrocinata
da Quirino. Un’altra variante della triade - «Jupiter, Mars,
Romulus, Re- mus» - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino
alla fondazione di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica
in¬ do-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la
protezione del terzo livello. 19. Gli dèi delle tre funzioni in
Scandinavia Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello
stes¬ so tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente,
come ul¬ timo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di
quella precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile -
se¬ condo schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e
sin¬ cretismi tra culti successivamente comparsi. Lacritica a
questo tipo di spiegazioni facili e seducenti, che cre¬ dono di basarsi
logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrap¬ pongono arlifi
cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora esse¬ re fatta
poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia volentieri. Nel piano
ridotto del presente libro dovremo semplicemente prescin¬ derne ma dichi
arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm (1925,1946, 1953), da E. Wessén
( 1924) a E. A. Philippson (1953), i numerosi ten¬ tativi fatti per
dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa re¬ cente (sostituito a
*Tiuz) o che in Scandinavia il più antico «gran dio» è Pórr (sempre che
non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto dell’intelligenza, dell’erudizione
e del talento dei loro autori. Ci limiteremo dunque ai fatti e
quindi all’esistenza stessa della triade in quanto tale. E questa triade
di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo di Brema ha vi sto regnare nel tempio di
Uppsala e di cui fornisce la de¬ scrizione del meccanismo trifunzionale
(Gesta Hammaburgensis eccl. Pontificium, IV, 26-27); è lei che appare
dalle formule di maledi¬ zione come dai poemi eddici o dagli scaldi
(Ódinn, Pórr, Freyr, Njòrdr: Egilssaga, 56); è lei che si sprigiona dal
racconto della batta¬ glia escatologica ( Vòluspà , 53-56) in cui ognuno
dei tre dèi lotta con¬ tro uno dei maggiori avversari che soccombe sotto
i suoi colpi; è lei che si spartisce i gioielli divini (Skaldskaparmal,
cap. 44) ed è lei che rappresenta l’intera mitologia in cui le altre
divinità - salvo la dea Freyja, strettamente associata a Freyr e Njòrdr e
che li completa - sono come comparse che circondano questi «primi ruoli»
e che si definisco¬ no in rapporto ad essi. Ci si ricorderà che
nella leggenda delle sue origini Roma si è ri¬ dotta spesso a due
componenti, benché comprendesse tre tribù che rappresentavano tre
funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi compagni, detentori di cleos et
virtutem, la potenza del sacro e i talenti guerrieri, il dominio di
Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i suoi Sabini erano quelli che
apportavano delle specialità loro connesse, cioè le donne e le ricchezze,
opes. Il quadro scandinavo della formazione della società
divina completa è dello stesso tipo: i componenti riuniti per una
riconcilia¬ zione ed una fusione conseguente a una guerra terribile, sono
due, gli Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il capo, mentre Pórr è il più
eccelso dopo di lui; trai Vani sono invece Njòrdr, FreyreFreyjaipiù
eminenti e i soli nominati individualmente. La distinzione
funzionale degli Asi c dei Vani è chiara e costan¬ te. I Vani,
specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano al massimo la tipologia,
anche se capita loro di essere o di fare altre cose, sono in¬ nanzitutto
dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di ricchezze e patroni del
piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa, della fecon¬ dità e
della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente ed
economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o al mare
in quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr). A questi
tratti dominanti si oppongono quelli dei principali Asi. Né Ódinn né Pórr
certamente si disinteressano delle ricchezze del su¬ olo, ecc., ma da
quando la mitologia scandinava ci è conosciuta i loro centri sono
altrove: l’uno è un mago potente, signore delle rune, capo della società
divina; l’altro è il dio col martello, nemico dei giganti ai quali
peraltro assomiglia (si pensi al suo «furore»); è il dio tuonante (nel suo
stesso nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia e anche nel
folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellico¬ sità in
maniera atmosferica e violenta, non terrena c progressiva. Il senso
da attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il pro¬ blema
centrale che domina tutte le interpretazioni delle religioni scan¬ dinave
c di quelle germaniche, anche laddove le spiegazioni cronolo¬ giche c
storiche (di storia immaginaria) affrontano con vivacità le spiegazioni
strutturali e concettuali. I fatti riuniti dall’inizio di questo libro
apportano un grande so¬ stegno agli strutturalisti: il parallelismo delle
teologie indo-iraniche e italiche ci fa precisamente attendere, presso i
popoli imparentati, una teologiaed unamitologiadel tipo presentato dagli
Scandinavi, che op¬ pone per meglio definirli e che ricompone per creare
un insieme vitale: 1 ) delle figure divine che patrocinano ciò che è
sotto il magistero degli Asi, Ódinn e Pórr, l’alta magia e la sovranità
da una parte, e la forza brutale dall’altra; 2) delle figure divine del
tutto differenti che patroci¬ nano ciò che è sotto il magistero dei tre
grandi Vani, la fecondità, la ricchezza, il piacere, la pace, etc.
etc. 21. La guerra degli Asi e dei Vani e la guerra dei
Protoromani e dei Sabine formazione di una società TRIFUNZIONALE
COMPLETA La frattura iniziale, che separa i rappresentanti delle
due prime funzioni e quelli della terza, è un dato indoeuropeo comune: lo
stesso sviluppo mitico (separazione iniziale, guerra e poi indissolubile
unio¬ ne nella struttura tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a
Roma, sul piano umanoenei racconto delle origini
dell’Urbe(guerrasabinae sinecismo), ma in India, dove è detto che gli dèi
canonici del terzo li¬ vello, gli Asvin, non erano inizialmente degli
dèi, ma entrarono nella società divina come terzo termine al di sotto
delle «due forze» (ubhe virye) solamente in seguito a un conflitto
violento conclusosi con una riconciliazione e un’alleanza.
Come si potrà prevedere, i dettagli di queste leggende sono stati
scelti e raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le «funzioni» ri¬
spettive delle diverse componenti della società e i procedimenti speci¬
fici che queste «funzioni» attribuiscono ai loro rappresentanti. L’ana¬
lisi comparata della leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani e
Sabini e della leggenda scandinava sulla «prima guerra nel mondo» degli
Asi e dei Vani (a cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le strofe
21-24 della Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e
conferito un senso sia all’una che all’altra. Ambedue sono formate
da un dittico, da due scene in cui ciascu¬ no dei due campi nemici ha il
vantaggio (vantaggio limitato e provvi¬ sorio poiché è necessario che il
conflitto finisca senza vittoria e con un patto liberamente consentito) ed
è debitore di questo vantaggio alla sua specificità funzionale. Da una
parte i ricchi e voluttuosi Vani che corrompono daH’interno la società
(le donne!) degli Asi, inviando loro la donna chiamata «Ebbrezza
dell’Oro»; dall’altra parte Ódinn che lancia il suo famoso giavellotto di
cui è noto l’irresistibile effetto magico e di panico. Allo
stesso modo i ricchi Sabini, da una parte, ottengono quasi la vittoria
occupando la posizione-chiave dell’avversario, non col combattimento, ma
acquistando con l’oro Tarpeia (in una variante, grazie all’amore cieco di
Tarpeia per il capo sabino); dall’altra parte Romolo, grazie a
un’invocazione a Jupiter (Stator) ottiene dal dio che l’armata nemica
vittoriosa venga improvvisamente, e senza motivo, invasa dal
panico. 22. Sviluppo della funzione guerriera presso gli
antichi Germani Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi
conseguenze che ha determinato ben presto, e non solamente presso gli
Scandinavi ma fra tutti i Germani, una deformazione della struttura delle
tre fun¬ zioni e della teologia corrispondente. Da nessuna
parte, certamente né a Roma né in India, gli dèi del primo livello,
Varuna e Jupiter, si disinteressavano della guerra: se è vero che non
combattono propriamente come Indra o Marte è anche vero che mettono le
loro magie al servizio della parte che favoriscono e sono loro, in
definitiva, che attribuiscono la vittoria, la quale, se è in effetti
conquistata con la Forza, interessa soprattutto l’Ordine per le sue
conseguenze. Non ci si sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire
nelle battaglie, senza combattere molto, ma gettando sull’armata che
ha condannato un panico paralizzante, il «legame dell’esercito»
herfjò- \)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è certo che la
parte della «guerra» nella sua definizione è di gran lunga piu
considerevole che nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in
lui - e anche nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel
prossimo ca¬ pitolo e che è interpretato da Tacito come Marte - si
constata più di una osmosi, un vero e proprio ribaltamento e
straripamento della guerra nell’ideologia del primo livello. All’epoca in
cui si sono formate le loro epopee, gli «eroi odinici» - Sigurdr, Helgi e
Haraldr Den- te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e
nell’aldilà sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie
guerriere, che Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in
certi luo¬ ghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario,
ad averperso il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli
uomini) ed è sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici
contro i giganti e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha
giustificato e popo¬ lari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato
Freyr dal la parte agri¬ cola della sua provincia. Questa doppia
evoluzione sembra essere sta¬ ta spinta all’estremo tra gli Scandinavi più
orientali, presso i quali così Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i tre
dèi della triade di Uppsala. «Thor presici et in aere, qui tonitrus
et fulmina, ventos ymbre- sque, serena et fruges gubernat. Alter Woclan,
id est furor, bella gerit hominique ministrai virtutem contro inimicos.
Tercius est Fritto (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens
mortalibus... Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur,
sibellum, Woda- ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi».
Anche se si ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi di
Uppsala fosse più ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle brevi
osservazioni di Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio principale
poiché figura nel mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un martello che
ha scambiato per uno scettro e perché, tuonante, lo ha as- similato a
Giove), non vi è ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo
scivolamento della guerra nel dominio di «Wodan» e lo scivolamento
inverso di «Thor» al servizio dei contadini sono dei fatti. Ma se ne
comprende l’origine (come su altri punti relativi alla Scandinavia) e
dove lo stesso fenomeno si osserva, i valori dei tre dèi restano essen¬
zialmente vicini a quelli dei loro omologhi indiani e romani. Stato del
problema presso i Celti, i Greci e gli Slavi Sulle altre parti del
dominio indoeuropeo, a causa di diverse ra¬ gioni - cronologia troppo
recente, imprestiti massicci da sistemi reli¬ giosi non indoeuropei - è
difficile constatare immediatamente le strut¬ ture teologiche corrispondenti
alle tre funzioni: sono necessari quindi dei ragionamenti e di conseguenza
I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato di cose è particolarmente
spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui l’informazione è tuttavia
molto abbondante: bisogna rassegnarsi. In Grecia, dove la religione
non è essenzialmente indoeuropea, il raggruppamento delle dee nella
leggenda del pastore Paride resta ad esempio un gioco letterario e non
forma evidentemente un’autentica combinazione religiosa. In
Gallia, dove la classificazione degli dèi riportata da Cesare (e
confermata dai testi irlandesi sui Tuatha Dé Danann) ricorda per molti
versi la struttura delle tre funzioni, quest’analogia con la filiazione, e
i ritocchi che suggerisce, suscitano più problemi invece che
risolverli. Quanto al paganesimo degli Slavi, questi sono così poco
conosciuti perché i tentativi di spiegazione tripartitapossano essere
altra cosa che brillanti ipotesi. Ma la concordanza delle testimonianze
sui tre domini, in¬ do-iranico, italico e germanico, in cui le antiche
religioni sono state de¬ scritte in maniera sistematica dai loro stessi
rappresentanti, è sufficiente a garantire che sin dai tempi indoeuropei
l’ideologia tripartita aveva dato luogo a una teologia della stessa
forma; a un gruppo di divinità ge- rarchizzate che esprimevano i tre
livelli; e ad una «mitologia eziologi¬ ca» che giustificava la differenza
e la collaborazione di queste divinità. 24. Divinità che
sintetizzano le tre funzioni Ci limiteremo a segnalare nella
teologia un altro utilizzo fre¬ quente della struttura tripartita, non
analitico ma sintetico. Vi sono in¬ fatti divinità che sia i saggi che i
fedeli tengono a definire, in opposi¬ zione agli dèi specialisti delle
tre funzioni, come onnivalenti, domiciliate ed efficienti sui tre
livelli. Questo tipo di espressione si è prodotta indipendentemente in
diversi luoghi, per esempio nelle civil¬ tà mediterranee, quando una
divinità patrona o eponima di una città ha assunto un’importanza a svantaggio
di altri dèi o di équipes divine: così, presso gli Ioni di Atene, dove
sembra che una teologia tripartita (Zeus, Athena, Poseidone, Efesto)
concernesse innanzitutto le quattro tribù funzionali (sacerdoti,
guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena che in epoca storica domina
la religione. Così, seguendo la felice osservazione di F. Vian,
durante le pic¬ cole Panatenee, ella riceveva successivamente degli
omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e Niké, vocaboli che evocano le
funzioni di sa¬ lute, sovranità politica e vittoria. Allo stesso modo,
nello zoroastrismo si è prodotta la tripla titolatura Buone, Forti, Sunte
dei geni tutelari, le FravaSi, che sono in effetti trivalenti.
25. Dee trivalenti Tuttavia, tra queste figure sembra che
bisogni far risalire alla comunità indoeuropea un tipo di dea la cui
trivalenza è così messa in evidenza e che è intenzionalmente congiunta
agli dèi funzionali: que¬ sta dea, che per il suo stesso sesso e per il
suo punto d’inserimento nel¬ le liste è connessa alla terza funzione, è
tuttavia attiva in tutti e tre i li¬ velli e sembra che la sua presenza
nelle liste esprima il teologhema di una multi valenza femminile che
raddoppia la molteplicità degli spe¬ cialisti mascolini. Abbiamo
ricordato più sopra che talvolta, nelle liste trifunzio¬ nali vediche, la
dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli epi¬ teti di
SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono chiaramente
come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno dall’altro, sia io
(1947) che H. Lommel (1953) abbiamo proposto di interpretare come
un’omologa di SarasvatT e come l’erede della stessa dea indo-iranica, la
più importante delle dee del \'Avestu non-gàthico, anch’essa dea-fiume,
Anàhità; ora, il nome completo e triplice di Anàhità, fa evidentemente
riferimento alle tre funzioni: «l’umida, la forte, l’immacolata», AradvT,
Suri, Anàhità. Ed è ancora per sublima¬ zione dello stesso prototipo che
io penso che lo zoroastrismo puro ab¬ bia creato la sua quarta Entità,
Àrmaiti, che seppur ordinariamente al terzo livello (dopo XsaSra,
«Potenza» e prima di Haurvatà(-Amar,?là(, «Salute» e «Immortalità») e
benché non in possesso di una tripla tito¬ latura, porta un nome che
significa «Pensiero-Pio», aiuta Dio nella sua lolla contro il Male ed ha
come elemento materiale la terra nutrice dif¬ ferenzialmente
associata. Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone era onorata sotto il
triplice epiteto di Seispes Mater Regina, i due ultimi epiteti riportano
alla teo¬ logia della Giunone romana (Lucina, etc.; Regina) patrona della
fe¬ condità regolata c dea sovrana; ma a Roma la specificazione
guerriera manca, mentre era in evidenza nella figura di Giunone lanuvia e
certa¬ mente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro Seispet- (rom.
sospit-, da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati, eie.).
Infine, nel mondo germanico, considerando i Germani conti¬ nentali,
sembra che una dea unica e polivalente (se non onnivalente), *Friyyò fosse
congiunta ai multipli dèi funzionali di cui abbiamo par¬ lato più sopra;
se la specificazione guerriera non è attestata, il poco che si sa di essa
la mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano il nome dei
Lombardi) e «Venus» ( *Friyya-dcigaz , «Freitag»), Presso gli Scandinavi
questa multi valenza è esplosa: la dea si è raddoppiata in Frigg (esito
regolare di *Friyyó in nordico), sposa sovrana del signore magico Ódinn,
e in Freyja (nome rifatto su Freyr), dea tipicamente Vani, ricca e voluttuosa.
In Irlanda un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea epo¬ nima
del luogo più importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re pagani
del 1 ’ Ulster con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti-
vamente questo carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni,
poiché è sfociata in tre personaggi, in un «trio di Macha» ordinato nei
tempi. Una Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne- med,
«il Sacro», che muore per un’emozione profonda in seguito a una visione;
poi una Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il suo
generalissimo e che muore uccisa; infine una Madre che accresce
meravigliosamente la fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e
che muore durante l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possi¬
bile determinare quali rapporti avesse nella religione con gli dèi ma¬
schi della stessa funzione. 26. Le teologie tripartite e i loro
elementi Dopo aver preso una visione globale dei sistemi teologici
in¬ do-iranici, italici e germanici che esprimono l’ideologia delle tre
fun¬ zioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza paralleli per
giustifi¬ carne la spiegazione nei termini di un’eredità indoeuropea
comune. Non è che l’inizio: senza perdere di vista la struttura
d’insieme, l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su ognuno
dei tre termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa in se
stessa, poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram ite la
comparazio¬ ne tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di
determinare come gli Indoeuropei concepivano, suddividevano e
utilizzavano ciascuna di esse. 80 Note ai
paragrafi § 1. Sulla necessità, per lo storico delle religioni, di
non perdere mai di vi¬ sta e di riconoscere le strutture teologiche di
cui studia i frammenti, vedi prin¬ cipalmente L’heritage..., cap. I
(«Matièrc, objet et moyens de étude») - al quale rimando una volta per
tutte circa le questioni di metodo - e DIE, cap. II («Structure et
cronologie»), § 2-3. Il riconoscimento del raggruppamento arcaico
«Milra-Varuna Indra e i Nàsatya», l’inventario delle circostanze in cui
appaiono, sono state fatte progressivamente in: JMQ, pp. 59-60 (= JMQ it,
pp. 38-39); NA pp. 41-52; Tarpeia, 1947, pp. 45-56 (dove sono studiati in
dettaglio sei inni del Riveda fondali su questa struttura);
«Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com- me palrons des trois fonclions
cosmiqucs et sociales», Studia Linguistica, II, 1948 pp. 121-129; JMQ IV,
pp. 13 - 35 ( «Les dieux palrons des trois f onctions dans le Rg Veda et
dans le AlharvaVeda»); in queste due ultime esposizioni la divisione
degli dèi in tre gruppi «Aditya, Rudra, Vasu», è interpretata nello
stesso senso (cf. DIE pp.7-9). § 4. La discussione delle
spiegazioni anteriori e l’interpretazione nuova formano il primo capitolo
di NA, pp. 15-55 («les dieux Arya de Mitani»), Il carattere indiano degli
Arya di Mitani è reso probabile dalla forma del nume¬ ro «uno» (aika:
sanscrito eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT ha
interpretato senza difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al
vcdi- co (JAOS, 67, 1947, pp: 251-253). In seguilo G. Widengren ha
sottolineato in questi nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del
nome di Varuna (nel trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che
rinforza questo parlare di iranico: Numen, II, 1955, pp. 80-81 e note
167, 170. § 5. DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una
faretra cassila c stata interpretata come rappresentante in alto Mitra c
Varuna, nel mezzo Indra (o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una
scena di medicazione mira¬ colosa conosciuta dal Rg Veda : «Dieux
cassiles et dieux vediques, à propos d’un bronze du Lourislan» RHA, 52,
1950, pp. 18-37. Riprenderò prossima¬ mente il problema a partire da una
migliore fotografia (la scena c le insegne di «Mitra e Varuna» devono
essere spiegate altrimenti: non vi sono degli altari ma un vaso
raffigurante una lesta di leone) e con degli altri documenti sui
«gemelli» § 6-9. La spiegazione degli Amai a Spanta costituisce la
materia di NA, cap. II-V; la quarta Entità, Àrmaiti, che sembrava creare
allora difficoltà, è stala spiegata in seguito in Tarpeia , cap. I (=JMQ
il.pp. 305-313). Questa in¬ terpretazione è stata accettala e sviluppata
da J. De MENASCE, «Une legende indo-iranienne dans l’angelologie
judéo-musulmane: à propos de Hàrut-Màrut», Études Asiatiques (svizzeri)
I, 1947, pp. 10-18; J. DUCHE- SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 1948 pp. 47-80;
Onnazd et Ah rimati, 1953, p. 23; The Western Response to Zoroaster, 1958
pp. 38-51 (vedi specialmente pp. 45-46 contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz);
S. WlKANDER (vedi sotto, nota 81 al III cap. §
13); J.C. TAVADIA «From Aryan Mythology to Zoroastrian The- ology,
aReviewofDumézil’sResearches», ZDMG, 103, 1953, pp. 344-353; K. Barr,
Avesta, 1954, pp. 52-59 e 197; G. WlDENGREN , «Stand und Aufga- ben
deriranischenReligionsgeschichte», Numen, I, 1954, pp. 22-26; S. Har-
TMAN in molti articoli specialmente «Ladisposition de l’Avesta»,
Orientatili Suecana, V, 1956, pp. 30-78; e inoltre da altri importanti
iranisti. È stata inve¬ ce rigettata senza discussione da I. Gerschevitch
e W. Lentz e non è menzio¬ nala nei libri di W.B. Henning e R.C.
Zaehner. § 10. Questo tipo di spiegazione è stata estesa alle
Entità già gathiche come SraoSa e ASi (considerale come sublimazioni
degli dèi prezoroastriani equivalenti agli dèi vedici Aryaman e Bhaga):
vedi qui sotto, III, § 8; poi al non gathico Rasnu e alla Fravasi
(considerate come figure purificate corri¬ spondenti a Visnu e ai Maj'ut):
«Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa- striennc», JA, CCXLII,
1953, pp. 1-25; infine a Busyastà (considerata come una demonizzazione
della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques, 1956, pp.
34-37. § 11. DIE, pp. 22-23. § 12. Gli attacchi più
vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi- sta; vedi a
proposito di H.J. ROSE, RHR, CXXXIII, 1948, pp. 241-243 e Dé¬ esses
latines..., 1956, pp. 118-123. I germanisti ostili hanno in generale
preferito “ignorare”; tuttavia ho recentemente avuto una gradevole
discus¬ sione - la prima - con K. HELM, BGDSL, 77, 1955, pp. 347- 365;
78, 1956, pp. 173- 180. Un grande numero di «risposte alle obiezioni» si
trovano dis¬ seminate nelle prefazioni, note e appendici dei miei libri.
Le ultime in ordine di tempo che hanno un valore generale sono; «Examen
de criliques réccnles; John Brough, Angelo Brelich», RHR, CLII, 1957, pp.
8-30. § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano
solitamente Vo- fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi.
Perla triade umbra vedi «Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium»,
RP, XXVIII, 1954, pp. 225-234 e «Notes sur le début du riluel d’Iguvium»,
RHR, CXLVII, 1955, pp. 265-267. La triade romana è comparsa proprio a
fornire il titolo comune degli studi sulle tecnologie trifunzionali
indoeuropee, pubblicati dal 1941 al 1948. § 14.
L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un articolo
che conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: «La préhisloirc des flami-
nes majeurs», RHR, CXVIII, 1938, pp. 188-200. Sono comparsi in seguito
JMQ, cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage... pp. 72-101.
§ 15. Contro il «Marte agrario» vedi NR, pp. 38-71 (=JMQ it., pp.
191-217) e Rituels... pp. 78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR., pp. 71-76
(= JMQ it. pp. 218-222); è importante non vedere in Giano (dio dei prima,
di tut¬ ti i prima) un «predecessore» né un doppio di Jupiter (dio dei
summit): DIE, pp. 91-102 e«Jupiler-Mars-Quirinus et Janus», RHR,
CXXXVIII, 1951, pp. 209-210; sugli «dèi dei prima» indo-iranici, Tarpeia,
pp. 66-96. 82 § 16. La spiegazione del
complesso Quirino è stata formata in tre tempi: 1) JMQ, pp. 72-77, 84-94,
143-148, 182-187 (=JMQ it„ pp. 49-53, 58-66, 101-104); 2°), NR, pp.
194-221 (=JMQ it., pp. 264-285) e Tarpeia, pp. 176-179; 3°) JMQ, pp.
155-170 (specialmente pp. 167, 169 e n. 2, 170). Vedi anche L. GERSCHEL,
«Saliens de Mars et Saliens de Quirinus», RHR, CXXXVIII, 1950, p.
145-151. Ho sostenuto numerose discussioni, special- mente: «La triade
Jupiter-Mars-Janus?», RHR, CXXXII, 1946, pp. 115-123 (con V. Basanoff);
REL, XXXI 1953, pp. 189-190 (con C. Koch);«A propos de Quirinus», REL,
XXXIII, 1955, pp. 105-108 (con J. Paoli); «Remarques sur les armes des
dieux de troisième fonction», SMSR, XXVIII, 1957, pp. 1-10 (con A.
Brelich). Generalmente ogni nuovo avversario non tiene alcun conto delle
risposte fatte ai precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire
psychotogique et historique de la religìon roinaine, 1958, p. 118 (che
tratta anche della triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di
Jupiter Mars Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le
considerazioni nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso
più profondo e una data più antica di quanto non si facesse generalmente
(vedi «La bataille de Sentinum, remarques sur la fabrication de
l’histoire romaine» Annales, Eco¬ nomie, Sociétés, Civilisations.VU,
1952, pp. 145-154). Sulle etimologie pro¬ poste per Vofionus, vedi RP, XXVIII,
1954, p. 225, n. 4 e p. 226, n. 1; la spiegazione con *leudhyono- sitrova
in Pisani «Mytho-etymologica», Rev. desEtudes Indo-Européennes
(Bucarest), I; 1938, p. 230-233 e in BENVENI- STE, «Symbolisme social
dans les cultes gréco-italiques», RHR, CXXIX, 1945, pp. 7-9.
§ 17. Una questione connessa è quella della realtà o della non realtà di
una componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto
al no¬ stro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti
storici, e in più, una risposta affermativa non genererebbe affatto
l’interpretazione funzionale delle leggende sulle origini, di cui
bisognerebbe solamente ammettere (la qual cosa è ordinaria) che
presentano l’avvenimento «ripensato» in un qua¬ dro ideologico ed epico
preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che que¬ sta
interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la
tesi dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra
diverse difficol¬ tà. In L’heritage .... pp. 179-181, si troverà
riassunta la lunga discussione del capitolo III di NR («Latins et Sabins,
histoire et myhte» non tradotta in JMQ it.: vedi p. 263), condotta
principalmente in funzione della tesi di A. PlGA- NIOL, Essai
surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli studi. Da
quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho letto molte
affer¬ mazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina
lontana dalla fon¬ dazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto
archeologico che non fosse già stato prima esaminato e che facesse
pendere decisamente la bilan¬ cia; cf. JMQ IV, p. 182 (sugli argomenti
che si sono voluti demandare alla strana disciplina della «geopolitica»)
e RE XXXIII, 1955, pp. 105-107 (su un curioso argomento che J. Paoli ha
creduto di poter ricavare dalla triade um¬ bra). Quanto a me, continuo a
trovare soddisfacente nel suo principio la spie- 83
gazione data nel 1886 della leggenda del sinecismo latino-sabino da
T. MOMMSEN, «Die Tatiuslegende», ripreso in Gemmiti. Schr. IV, pp. 22-35.
In una memoria intitolata «Céramiques des premiers siècles de Rome,
VIII-V siècles», manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus
de l’Académie des Inscriptions , 1950, p. 287-295, F. Villard si è
pronuncialo per l’omogeneità della popolazione romana dell'ottavo
secolo. § 18. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi
JMQ, pp. 144-146 (= JMQ it., pp. 101-012) (dove bisogna correggere nella
citazione di Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de Hadingus,
1953, pp. 109-110. Per la triade «Jupiter, Mars, Ops» vedi «Lcs
cultes de la Regia, les trois fonclions et la triade JMQ», Latomus, XIII,
1954, pp. 129-139. Per la triade «Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus)», vedi
Rituels..., p. 54 e p. 60, note 37-40. Per Romolo-Remo come
corrispondenti dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, § 24. Inoltre
l’utilizzazione delle tre funzioni c della triade «JMQ» da parte di
Martianus Capella è stata esaminala in «Remarques sur Ics trois premières
re¬ gione s erteli de Mart. Cap.», Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M.
Nieder- memn) 1956, pp. 102-107. § 19-20. Jan de Vrics è
stalo condotto dalle sue ricerche a una visione strutturale delle
religioni germaniche. Quando è uscito MDG, 1939, egli av¬ vertì la
parentela della mia concezione e della sua e la complementarietà dei
nostri argomenti. Da allora, benché divisi su qualche dettaglio, siamo
d’accordo, credo, su tutte le maggiori questioni: che ci si riporti alle sue
chia¬ re, obiettive c generose esposizioni del suo Altgermanische
Relìgionsge¬ stiti cht e. 2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai suoi articoli:
«Dcr heutige Stand der gcrmanischen Rcligionsforschung», Gemi. - Roman.
Monatsschrift , N.F., II, 1951, pp. 1-11 ; e «L’élat acluel
dcséludes sur la rcligion germanique», Dio¬ gene, 18, aprile 1957, pp.
1-16; altri articoli che toccano le questioni qui trat¬ tale: «La valeur
religicuse du mot irmin», Cahiers du Sud, n. 314, 1952, pp. 18-27; «Die
Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl», Atta Philol. Stand., 1952, pp.
172-180; «La loponymiect l’hisloire des religions»,RHR, CXLVI, 1954, pp.
207-230; «Uber das Wort Jarl und seine Vcrwandlen», NC, VI, 1954, pp.
461-469. Nell’opera collettiva Deutsche Philologie ini Aufriss, Miinchen,
1957, la sezione «Die altgermanische Religion» (col. 2467-2556),
redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo germanico, e specialmente scan¬
dinavo, un’eccellente interpretazione, originale c ripensata, nel quadro che
io ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in questo stesso schema:
«L’élymologic du terme germanique *ansuz, dieu souverain», Études
Germuniques, 1953, pp. 36-44 e «La religion germanique primitive, rcflccl
d’une slruclurc socia¬ le», Le Flamheau, 1954,4, pp. 437-463.1 miei MDG,
oggi felicemente esau¬ riti, hanno sofferto di essere stali pubblicati
agli esordi delle ricerche sulla tripartizione indoeuropea: non era che
una prima vista d’insieme e un pro¬ gramma carico d'ipotesi di lavoro,
alcune delle quali si sono verificate c altre no; presto pubblicherò una
seconda edizione interamente rimaneggiata. Non ho qui ancora il posto per
esaminare la teologia dei Germani continentali (specialmente Tacito,
Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio c 84
Marte, Ercole, «Iside»): vedi DIE, pp. 23-26. PerÓdinn bisogna
aggiungere l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R.
Otto, 1932): vedi J. De Vries, op. cit., II, § 405. § 21.
Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella dei Latini di
Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia, pp. 247-291 (= JMQ
it.,pp. 108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione
in «giganto- machia» della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8,
1924, e la pre¬ sentazione generale in L’heritane..., pp. 125-142.
§ 23. Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23.
PerglidèigallidiCesaree i loro corrispondenti irlandesi nei loro rapporti
(in ogni caso molto alterati) con la tripartizione, vedi MDG, p. 9, NR,
pp. 22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux de la Gaule, 1957, pp. 4, 19-21, 31-33,
94. R. JAKOBSON ha tentato di inter¬ pretare nel quadro delle tre
funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art. «Slavic Mythology»
in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore, II, 1950, pp.
1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un giorno
favorevole alla nostra inchiesta. § 24. Sulla tripla titolatura di
Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La guerre dea géants, le mytheavant
l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258. § 25. Su
SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tar¬ peia,
pp. 55-66; H. Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa-
rasvatl-Anàhità c l’ha pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954, pp.
405-413. Per i dati latini, irlandesi e germanici vedi «Iuno, S.M.R.»,
Eranos, LII, 1954, pp. 105-119 e «Le trio des Macha» RHR. L’esplorazione
di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo indoeuropeo implica tre
compiti molto considerevoli, a tult’oggi pro¬ grediti in maniera assai
discontinua. Non è stalo possibile giungere ra¬ pidamente a risultati
sistematici che al primo livello. Se importanti aspetti del secondo e del
terzo sono stati determinati in breve tempo, essi non sono tuttavia che
un insieme strutturalo ancora in fase di ap¬ profondimento. Non si è
potuto dunque fare altro che dare per essi de¬ gli orientamenti generali
e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di lavoro. Varuna
e Mitra, ASa e Vohu Manah Il principio fondamentale intorno a cui
si organizzavapresso gli Indo-Iranici la teologia della prima funzione è
già stato segnalato; nel trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che
sono state confronta¬ te, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e
Varuna, che la rappresenta¬ no, ed c ancora questa coppia che presuppone
la coesistenza di due figure, il «Buon Pensiero» e 1’«Ordine», che gli
corrispondono in testa alla lista delle entità sostituite da Zoroastro
agli dèi funzionali. Questa dualità è stata spiegata in molte
maniere dai commenta¬ tori indiani e dalle diverse scuole mitologiche
degli ultimi cento anni. Attualmente è stata fatta luce su ciò che in
parte si può dedurre dai loro stessi nomi: se la parola Veruna,
apparentata o no al greco oùpavóq, wpavoq, resta oscura (la si è
interpretata con radici che significano «coprire», «legare»,
«dichiarare»), al contrario, Mitra è sicuramente, come ha spiegato
Meillet in un celebre articolo (1907), per la sua eti¬ mologia, il
Contratto personificato. Nella grande maggioranza dei casi, tra questi
dèi i cui nomi appaiono spesso al duale doppio, cioè con una forma
grammaticale che esprime il più stretto legame, i poeti non fanno
differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari soli¬ dali del
più grande potere, e quando non nominano che uno dei due, non si fanno
scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attri¬ buti di
questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia della
funzione sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, co¬ stituisce
per gli uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo piano nella
credenza e nell’espressione. Ma capita spesso felicemente, anche nel
lirismo degli inni ma soprattutto nei libri rituali, che il poeta o il
liturgista travalichi questo primo piano e voglia distinguere i due dèi
per meglio spiegare o utilizzare la loro solidarietà. In tale caso
le diverse immagini che appaiono sono tutte dello stesso senso: Mitra e
Varuna sono i due termini di un gran numero di coppie concettuali e di
antitesi, la cui sovrapposizione definisce due piani, ogni punto del
piano potremmo dire, richiamando sull’altro un punto omologo; e queste
coppie tanto diverse possiedono tuttavia un’aria di parentela così netta
che di ogni nuova coppia assegnata al¬ l’insieme si può provare a colpo
sicuro quale sarà il termine «mitria- co» e quello «varunjco».
Fra le specificazioni così diverse dell’antitesi sarà difficile
estrarne una da cui il resto può essere derivato e senza dubbio questo
tentativo, una volta fatto, non avrebbe gran senso. Sarà molto meglio
procedere a un breve inventario, osservando e definendo l’antitesi in
rapporto alle principali categorie dell’essere divino (cf. II § 5).
Quanto ai loro domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a ciò che è
vicino all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che si
ri- 88 trova nettamente fra le Entità
zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°); passando al limile, dei
testi affermano che Mitra è questo mondo mentre Varuna Valtro mondo, come
è certo che ben presto Mitra rappresentò il giorno e Varuna la notte.
Mitra è assimilato alle forme visibili e usuali del soma e del fuoco,
mentre Varuna alle loro forme invisibili e mitiche. Nelle modalità
d'azione, se Mitra è propriamente il «contratto» e stabilisce tra gli
uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande mago, signore della
màyà, la magia creatrice delle forme, e in posses¬ so dei «nodi» con cui
«afferra» i colpevoli con una presa irresistibile. Nondimeno essi
si oppongono per il foro carattere : l’ami¬ chevole Mitra è benevolo,
dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna è impietoso, violento, a
volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applica¬ zioni illustrano questo
teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che è cotto a vapore, a
Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il soma
inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò che
è ben sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc.. Tra le
funzioni diverse da quelle che gli sono proprie, Mitra ha più affinità
per la prosperità, la fecondità e la pace, Varuna per la guer¬ ra e la
conquista, tra le province stesse della sovranità, Mitra è piutto¬ sto -
come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy - il potere
spirituale, mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i casi ri¬
spettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.
II, 1956, p. 110) ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente, di
Varuna per l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovra¬ ni
Mitra e Varuna, di diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno
che l’altro. Se gli inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò
non avviene perché egli è «in procinto» di prendere un’importanza
maggiore rispetto a un «più vecchio» dio Mitra, ma perché, semplice¬
mente, la specificazione magica e inquietante della sua azione solleci¬
ta all’uomo più preoccupazioni cultuali del rassicurante e chiaro do¬
minio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c
mai conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una
co¬ stante collaborazione. Questo schema indiano, e prima ancora
indo-iranico, ha fornito la chiave per qualche difficoltà o enigma delle
mitologie occidentali. A Roma, dove tutto il pensiero è concreto e
patriottico, in cui il cosmo e le sue diverse parti richiedono attenzione
e riflessione solo nella misura in cui possono essere utili o nocive all’ Urbe,
non ci si può aspettare di osservare la bipartizione nelle sue generalità. La
lontananza del cielo, l’ordine dell’universo, cose di Varuna, lasciano i
Romani totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna delle sue
specificazioni, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma storica “dius”,
“dius fidius” -- il dio luminoso e garante della fides, della lealtà e dei
giuramenti -- non è più che un aspetto di Jupiter, è vero che sembra
esservi stata tutt’altra situazione nei primordi. Certo, i due dèi erano
strettamente associati e il nome del primo flamine e più vicino a “dius”
che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che “dius” si accolla,
nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici su cui Roma vive, la
direzione mistica della politica romana, i miracoli salvifici della storia
romana -- come più propriamente caratteristici del suo grande socio. Allo
stesso modo, nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una specificazione
nettamente mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli appartengono,
mentre quelli della notte rivelano una varietà oscura e varunica di “jupiter”,
“summanus”. È probabile che questa teologia complessa abbia
risentito, prima dei nostri testi più antichi, della promozione e, nello stesso
tempo, della riforma teologica di “jupiter” che ha coinciso con la
creazione del suo culto capitolino e con la sostituzione di una triade
«Jupiter O.M, Giunone Regina, Minerva» all’antica triade «Jupiter, Mars,
Quirinus». Lo “jupiter” del Campidoglio sembra essere stato quasi subito
imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé tutta la sovranità;
ma forse i due piani tradizionali complementari sono ancora segnalati
nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” -- cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè
il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono
questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia
vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E Tyr Ma è nel
mondo germanico che l’analogia indiana è particolar¬ mente illuminante.
Né «Mercurio» (cioè *Wópanaz ) nella Germania 90
di Tacito, né Ódinn nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino
a loro vi è quello che Tacito, per delle ragioni comprensibili e
interes¬ santi, chiama Marte (cioè *Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr.
Que¬ sto dio, omonimo del vedico Dyauh e del greco Zeus, e che al pari
di questi due o del Dius Fidius latino evoca l’idea del cielo luminoso,
è generalmente considerato nei suoi rapporti con *Wópanaz come un
dio «più antico», impallidito di fronte a un nuovo venuto. Benché sia
strano che, a otto o dieci secoli di distanza, Tacito da una parte e i
poeti scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e registrato, proprio
allo stesso stadio, l’avanzamento di uno e l’arretramento dell’altro, le
con¬ siderazioni comparative ci incoraggiano a dare un senso strutturale
a questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio eclissato a
causa dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per cui Mitra,
teori¬ camente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei poeti
e come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini
hanno più attenzione per la sovranità magica che per quella
giuridica. La grande originalità del mondo germanico è quella
segnalata da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte. Essa
per¬ viene a delle considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in
cui abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della funzione
guer¬ riera. La stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri
lo de¬ finisce (Gylfaginning cap. 25). «Vi è ancora un Asi
che si chiama Tyr. È molto intrepido e co¬ raggioso, ha un grande potere
sulla vittoria in battaglia. Perciò è bene che i guerrieri valorosi lo
invochino. Di alcuni, che sono più co¬ raggiosi degli altri e che non
hanno paura di niente, si dice prover¬ bialmente che sono figli di Tyr
» Questa «marzializzazione» del sovrano giurista dei Germani
non è senza analogia con quella che a Roma ha fatto di Quirino, dio ca¬
nonico della terza funzione, patrono dei Romani nella pace e nelle opere
di pace, una varietà di Marte. Nei due casi l’evoluzione sociale ha
reagito sugli dèi: dal giorno in cui - forse con la riforma di Servio - i
Quiriti hanno coinciso coi milites e sono diventati «i militi in congedo
tra due appelli», era naturale che Quirino si volgesse verso il Mars
tranquillus, il Mars qui praeest paci aspettando di saevire.
91 In altre condizioni, meno formali e più violente, le
società ger¬ maniche antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi
di pace i quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello
spirito guer¬ riero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva
l’assemblea legisla¬ tiva, si riuniva al Campo di Marte ma senza armi.
Che si rileggano, al contrario, i passi coloriti in cui Tacito (Germania
, 11 -13) descrive il Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro
bande, le armi brandite o battute in segno di voto, le forme tutte
militari del prestigio e deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si
formulava il diritto e si regolavano i processi. Qualche secolo più tardi
l’antichità scandinava non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci
si riunisce in armi, si approva alzando la spada o l’ascia o battendo la
spada sullo scudo. Non è dunque sorprendente che il dio al centro di
queste riunioni giuri- dico-gueiTiere, erede del dio giurista
indoeuropeo, rivestisse l’uni¬ forme dei suoi ministri e li accompagnasse
nel loro passaggio, facile e costante, dalla giustizia alla battaglia e
che gli osservatori romani lo avessero considerato come un Marte. Alcune
dediche trovate in Frisia sono rivolte a un Mars Thincsus che compie
l’esatto legame tra lo stato indoeuropeo probabile e il risultato
scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel Tyr di cui è stato notato che il nome
segnala, nella toponimia, gli anti¬ chi luoghi del Ping.
Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri popol i, gli antichi Ger¬
mani abbiano così riconosciuto, a parte ogni questione dell’apparalo
guerriero, l’analogia profonda tra la procedura del diritto - con le sue
manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie senza appello - e il
combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è un mezzo per essere il
più forte e per ottenere vittorie che spesso eliminano l’avversario così
radicalmente come in un duello. Quando si dice che Tyr, in segui¬ to a
un’astuzia giuridica, per aver rischiato la sua mano destra come pegno di
un’affermazione utile ma falsa, « è divenuto monco e non è chiamato
pacificatore di uomini», non si tratta che della controparte, del
completamento morale di un fatto materiale: la riunione del Ping in armi,
con intenzioni di potenza (più che di equità) che vede la guerra in ogni
luogo. Queste indicazioni molto generali aiuteranno a comprendere
come un Tiuz-Mars abbia potuto formarsi
a partire da un dio indoeu- 92 ropeo il cui
dominio specifico era il diritto e il cui carattere si è purifi¬ cato e
moralizzato, aiutato dalla civilizzazione progressiva. 5. Gli dèi
sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e Bhaga vicino a Mitra Ma
negli inni del Rgveda il giurista Mitra e il magico Varuna, benché
sembrino dividersi equamente il dominio della sovranità, non sono
isolati. Essi non sono che quelli più frequentemente nominati dal gruppo
degli Àditya, o figli della dea Aditi, la Non-Legata, cioè la Li¬ bera,
l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e delle funzioni de¬ gli
Àditya in tutti i contesti, lo studio delle frequenze di menzione di
ognuno, frequenze dei loro diversi raggruppamenti parziali e del loro
legame con altri dèi, hanno permesso di interpretare la struttura che di¬
segnano. Non è qui possibile beninteso riassumere molto
brevemente queste analisi e questi calcoli, i cui dettagli sono stati
pubblicati in due tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla letteratura epica
è conservato il ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i due
principali tra loro, van¬ no a coppie e in seguito arriveranno sino a
dodici. Nel Rgveda sembra che vi sia già stata un’oscillazione tra
un’antica cifra di seie una prima estensione a otto, per addizione di due
dèi eterogenei. Di questi sei, Mitra e Varuna formano la prima
coppia; di ognu¬ na delle altre due coppie è facile vedere che un termine
agisce sul pia¬ no e secondo lo spirito di Mitra, mentre 1 ’ altro,
simmetricamente, agi¬ sce sul piano e secondo lo spirito di Varuna, di
modo che è legittimo e comodo chiamare queste figure complementari
«sovrani minori». Ma questa cifra di sei sembra essere stata estratta,
per ragioni di simme¬ tria, da un sistema più breve di quattro dèi
sovrani, in cui il sovrano «vicino agli uomini» Mitra, aveva solo due
assistenti, mentre Varuna rimaneva solitario nelle sue lontananze. I nomi
e le distribuzioni di questi Àditya primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman +
Bhaga; 2) Varuna. Il principio della stretta associazione di Aryaman,
Bhaga, Mitra, pro¬ vato dalle statistiche delle menzioni simultanee, è
semplice: ognuno di questi dèi esprime e precisa lo spirito di Mitra su
ognuna delle due province che i nteressano 1 ’ uomo, quelle che il
diritto romano ritroverà con un altro orientamento, più individualista,
distinguendo le perso- nae e le res. 93
Sotto Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il tono e il
modo generale d’azione che si conosce (giuridico, benevolo, regolare, orientato
verso l’uomo), Aryaman si occupa di preservare la società degli uomini
ari a cui deve il suo nome, mentre Bhaga, il cui nome si¬ gnifica
propriamente parte, assicura la distribuzione e il godimento regolare dei
beni degli Arya. 6. Aryaman Aryaman protegge l’insieme
degli uomini che, uniti o no politi¬ camente, si riconoscono Arya in
opposizione ai barbari, e li protegge non in quanto individui ma come
elementi di un insieme: gli aspetti principali del suo servizio
multiforme sono i tre seguenti: 1 ) Favorisce le principali forme
di rapporti materiali o contrat¬ tuali tra Arya. È il «donatore»,
protegge il «dono» (il che lo obbliga a interessarsi alla ricchezza e
all’abbondanza) e in particolare l’insieme complesso delle prestazioni
che formano l’ospitalità. P. Thieme (Der Frenullinx im Riveda, 1938) ha
messo in risalto questo punto col torto di farne il centro di ogni
concetto divino e di dedurne o negarne tutto il resto. Infatti Aryaman non
c meno primariamente interessato ai matri¬ moni: c pregato come dio delle
buone alleanze, scopritore di mariti (subandhùpativédana: A V, XIV,
1,17); cerca un marito per la fanciul¬ la giovane o una donna per il
celibe (A V, VI, 60,1 ). La sua preoccupa¬ zione per i cammini e per la
libera circolazione (c àtùrtapanthà, «colui il cui cammino non può essere
interrotto»; RV, X, 64,5) non deve esse¬ re negata o minimizzata come è
stato fatto da B. Geiger, H. Giintert c P. Thieme: tutto ciò risalta da
un gran numero di strofe di inni e da un lesto liturgico che lo definisce
come il dio che permette al sacrificante «di andare ove e^li desidera» e
di « circolare felicemente » ( Tait- tir.Samh., II-, 3, 4, 2).
2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha anche un aspetto litur¬
gico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la prima volta la Vacca
mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si tiene a fianco
dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV, 1,139,7, col
commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9) di espellere
sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle libagioni
(uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi dell’aldilà, gli
autori degli inni non parlano di un’altra forma di servizio che è, al
contrario, la sola di cui l’epopea con¬ servi un ricordo molto vivo e che
è sicuramente antica. Nell’altro mondo Aryaman presiede il gruppo dei
Padri, sorta di geni il cui nome chiari¬ sce abbastanza l’origine: sono
infatti una rappresentazione degli ante¬ nati morti, e Aryaman è il loro
re, che prolungano così nel posl-mortem la felice promiscuità e la
comunità degli Arya viventi. Il cammino che porta presso i Padri,
riservato a quelli che durante la propria vita hanno praticato
esattamente i riti (in opposizione agli asceti e agli yogin), è chiamato
«il cammino di Aryaman » (Mahàbhdrata , XII, 776 etc.). 7.
Bhaga Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a
lui che ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una
par¬ te (RV , VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo
no¬ minano o che impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha
per¬ messo di constatare che questa parte è dotata di qualità richieste
alla metà dell’amministrazione sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare,
prevedibile, senza sorprese, giunge a scadenza perlina sorta di gesta¬
zione (il bambino pronto perla nascita «rut> giunge Usuo bhd^a»: RV,
V, 7, 8); essa è il risultalo di un’attribuzione senza rivalità,
implicante un sistema di distribuzione (verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day,
cf. il greco Sou|.iov); infine è acquisita e conservata nella calma, è la
retribuzione degli uomini maturi, assennali, seniores, opposti agli
iuvenes (RV, I, 91,7 ; V, 41,11 ; IX, 97, 44). L’altra varietà della
parte, imprevedibile, violenta, «varunica», che si conquista con la
battaglia o con la corsa, è designata da un’altra parola che sin dai
tempi indo-iranici aveva una risonanza combattiva e che ha giustamente
fornito ai teologi vedici il nome del «sovrano minore varunico» simmetrico
di Bhaga, Amsa. 8. Trasposizione zoroastriane di Aryaman e Bhaga:
SraoSa e A$i Abbiamo la certezza che questa struttura era già
indo-iranica: come in Iran la lista degli dèi canonici delle tre funzioni
è stala subli¬ mata dallo zoroastrismo puro in una lista di Entità che
gli corrispondo¬ no termine per termine (vedi II § 8); così gli dèi
sovrani minori asso- 95 ciati a Mitra hanno
prodotto due figure complementari non comprese nella lista canonica delle
Entità, ma vicine, le cui statistiche dei ruoli mostrano l’affinità
esclusiva dell’una rispetto all’altra, e di tutte e due rispetto a Vohu
Manah (sostituito di *Mitra); e anche nei testi in cui questo dio
ricompare, in relazione a MiGra, mentre niente lo lega ad Asa (sostituto
di *Varuna). In più, per il loro nome come per la loro funzione, queste
due Entità - Sraosa, VObbedienza e la Disciplina , e Asi, Retribuzione -
sono ciò che ci si può attendere da un Aryaman o da un Bhaga ripensati
dai riformatori. E facile vedere punto per punto che Sraosa è per la
comunità dei credenti ciò che Aryaman era per la comunità degli Arya, la
chiesa che rimpiazza la nazionalità. 1) H. S. Nyberg ha potuto
vedere in Sraosa la personificazione «derfrommen Gemeinde», il termine
«genio protettore» sarebbe più esatto ma i 1 punto di applicazione è
noto: Sraosa che è «capo nel mon¬ do materiale come Ohrmazd lo è nel
mondo spirituale e materiale» {Greater Bundahisn, ed. e trad. B. T.
Anklesaria, 1957, XXVI, 45, p. 219) presiede all’ospitalità come già
faceva l’Aryaman vedico (e già indo-iranico; cf. persiano èrmdn,
«ospite», da *airyaman), quando è concessa, si sa, all’uomo buono, allo
zoroastriano (Yasna LVII, 14 e 34). Se non lo si vede più
occupato, specialmente delle alleanze ma¬ trimoniali e della libera
circolazione sui sentieri, nondimeno la sua azione sociale sulle anime è
precisata: egli è il patrono della grande virtù della vita in comune, di
quella che assicura la coesione, cioè la giusta misura, la moderazione (
Zdtspram , XXXIV, 44); è anche il me¬ diatore e il garante del famoso
patto concluso tra il Bene e il Male (Vasi XI, 14) e il demone che gli è
personalmente opposto è il terribile Aesma, il Furore, distruttore della
società ( Bundahisn XXXIV, 27). Rimane una precisa traccia mitica
della sostituzione di Sraosa a un dio protettore degli Arya: secondo il
Menók iXrat, XLIV, 17-35 è lui il signore e il re del paese chiamato Eràn
vèz. (avestico Airyanam vaèjò), quel soggiorno degli Arya da cui, dice
l’A vesta, sono venuti gli Iranici ( Vidèvdat , I, 3). 2)11
ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente amplificato in Sraosa: Yasna
LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a sacrificare e cantare gli inni e
tutto l’inizio del suo Yast (XI, 1-7), unicamente consacrato
96 all’elogio della preghiera e all’ esaltazione della loro
potenza, si giusti- fica per questo ricordo. Simmetricamente,
alla fine dei tempi, al tempo del supremo combattimento contro il Male, è
Sraosa che sarà il sacerdote assistente nel sacrificio in cui Ahura Mazda
stesso sarà l’officiante principale (.Bunclcihisn , XXXIV, 29).
3) Infine, come l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della
dimora in cui vanno - attraverso «il cammino di Aryaman» - i morti che
hanno correttamente praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruo¬ lo
decisivo nelle notti che seguono immediatamente la morte: egli ac¬
compagna e protegge l’anima del giusto sui sentieri pericolosi che la
conducono al tribunale dei suoi giudici, di cui egli stesso è parte
{Dùuistun-TDénTk XIV, XXVIII, etc.). Asi è sempre una «distribuzio¬ ne»
come lo era Bhaga ma la nuova religione, che conferisce più im¬ portanza
all’aldilà che al mondo dei viventi, gli domanda soprattutto di vegliare
sulla giusta «retribuzione» post-mortem degli atti buoni o cattivi
dell’uomo. Tuttavia anche nelle Gàthà, c palesemente nei testi
post-gathici, pur badando in avvenire al tesoro dei suoi meriti, non di¬
mentica nella vita terrestre di arricchire l’uomo pio c di riempire la
sua casa di beni. L’analisi di questa concezione, già
indo-iranica, della sovranità che non altera la grande bipartizione
ricoperta dai nomi di Mitra e Va- runa, ma dona solamente a Mitra due
assistenti che l’aiutano a favorire il popolo arya, illumina una particolarità
della religione romana di Ju- pitcr che sfortunatamente è conosciuta solo
nella forma capitolina di questa religione. Jupiler O.M, in cui si
concentra tutta la sovranità, sia quella «diale» che quella propriamente
«gioviana» (vedi sopra § 3), ospitava in due cappelle del suo tempio due
divinità minori, Juvenlas e Terminus. Una leggenda
giustificava la coabilazione singolare di questi tre dèi facendola
risalire alla fondazione del tempio capitolino, ma questa leggenda (che
utilizzava del resto un vecchio tema legalo al concetto di Juvenlas) non
prova evidentemente che l’associ azione fosse più antica. L’analogia
indo-iranica ci incoraggia a considerarla come preromana.
97 Infatti, secondo degli slittamenti tipici della società
romana, Ju- ventas e Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli
compara¬ bili a quelli di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas,
dice la leggenda eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la
sta¬ bilità sul suo dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la
du¬ rata e Bhaga la stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse,
fuori da questa leggenda, le due divinità romane sono molto di più di
tutto que¬ sto: Juventas è la dea protettrice degli «uomini romani» più
interes¬ santi per Roma, gli iuvenes, parte essenziale e germinati va
della socie¬ tà; Terminus garantisce la spartizione regolare dei beni,
dei beni sopratutto immobili, catastali, appezzamenti di terreno, non
delle greggi erranti che presso i nomadi indo-iranici o tra gli indiani
vedici costituivano la ricchezza essenziale. Nel mondo scandinavo un
tale schema di sovrani minori non si è ancora lasciato identificare, al
momento. Non è che intorno a Ódinn non vi fossero degli dèi che, secondo
il poco che si sa di loro, non aves¬ sero avuto l’incarico di esercitare
dei frammenti specializzati della so¬ vranità, ma queste specificazioni e
l’analisi della funzione sovrana che suppongono sono originali e i loro
rappresentanti non hanno omo¬ loghi indo-iranici e neppure romani. Vi è
Hoenir, riflessivo e prudente e che secondo la fine della Vòluspó è
proiezione mitica di una sorta di sacerdote; vi è Mimir, consigliere di
Ódinn, ridotto a una testa che ri¬ mane pensante e parlante anche dopo la
sua decapitazione; oppure Bragi patrono della poesia e
dell’eloquenza. Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili
e Vé, sicura¬ mente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si
allittera in scandi¬ navo che con una forma preistorica del suo nome
(*Wòt>anaz), ma si conoscono troppo pochi dati per interpretare questa
triade e tutt’altra soluzione sarà proposta più avanti. 11.
Condizioni dello studio teologico della seconda e TERZA
FUNZIONE I procedimenti di analisi e di statistica che hanno
permesso di dispiegare e di esplorare la sovranità - nell’India vedica
inizialmente e 98 poi progressivamente
nell’organizzazione intema della teologia della prima funzione - non sono
applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e al momento non si è
riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dub¬ bio questa differenza
è propria della natura delle cose; per i suoi stessi concetti (i nomi dei
personaggi divini sono in gran parte etimologica¬ mente chiari e molti
sono delle astrazioni animate) la prima funzione si prestava facilmente
alla riflessione psicologica e non bisogna di¬ menticare che i primi
filosofi, appartenenti al personale di questa fun¬ zione, erano dei
sacerdoti e non potevano evitare di applicarvi con pre¬ dilezione la loro
analisi. La controparte è che nel Rgveda questa teologia così ben
sviluppata non si raddoppia in una mitologia ricca in proporzione: di
Mitra non è quasi «raccontato» niente; di Varuna si dice molto di più, ma
la lista delle scene in cui interviene è ridotta e in generale si tratta
di potenze e qualità degli dèi sovrani più che della loro storia, del
loro tipo d’azione piuttosto che di azioni precise com¬ piute da
loro. Al contrario, la funzione guerriera e la funzione di
fecondità e prosperità si basano in gran parte su immagini: più che
grazie a dichia¬ razioni di principio, è il ricordo inesauribile delle
imprese o dei famosi benefici che provano l’efficacia di un dio forte o
dei buoni dèi tauma¬ turghi. Così queste due province divine sono più
adatte a degli svilup¬ pi mitologici che a una messa a fuoco teologica; o
forse è meglio dire che la dottrina si abbellisce, si dissimula e si
altera sotto il rigoglio dei racconti. Per il comparatista
questa differenza comporta grandi conse¬ guenze. Senza che questo fatto
capitale sia stato ancora pienamente enunciato, il lettore ha già potuto
osservare che è il confronto delle re¬ ligioni vedica e romana il più
adatto a stabilire o suggerire, grazie al conservatorismo della seconda,
dei fatti indoeuropei comuni, mentre la religione scandinava non
interviene che a titolo di conferma dopo che il percorso comune è già
stato riconosciuto e assicurato. Ora, allo stato delle nostre
conoscenze, la religione romana pre¬ senta ancora una teologia ben
costituita: nel raggruppamento «Jupiter Mars, Quirinus» o nel
raggruppamento trasversale di «Jupiter, Juven- tas, Terminus», essa ha
registrato coscientemente delle articolazioni concettuali molto chiare.
Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere che la religione romana non è
più che una teologia: per un processo radicale che caratterizza Roma, i suoi
dèi - e questa volta non solo gli dèi sovrani, ma anche Marte, Quirino,
Ops, eie. - sono stati spogliati di ogni racconto e limitati
asceticamente alle loro essenze, alla loro pro¬ pria funzione. Se dunque
(per la determinazione del quadro generale tripartito e per
l’esplorazione dei primo livello) il confronto di una teo¬ logia vedica
facilmente determinabile, e di una teologia romana im¬ mediatamente
conosciuta, ha permesso i risultali netti coerenti, c sem¬ pre più
completi che si sono appena letti, la stessa cosa non avviene quando si
passa ai due livelli seguenti. India o i Nàsatya vedici non
esprimono le sfumature della pro¬ pria natura che mediante delle
avventure alle quali Marte e Quirino non corrispondono, se non per mezzo
della loro scarna definizione c per ciò che è possibile intravedere dalle
dottrine e dai culti dei loro sa¬ cerdoti: i documenti e i linguaggi
delle due religioni che sono i princi¬ pali sostegni del comparatista non
si combinano più. 12. Mitologia ed epopea La difficoltà
sarebbe probabilmente irriducibile senza un altro fallo, ancora più
importante per i nostri studi, di cui i precedenti capi¬ toli del
presente libro hanno già discretamente fornito qualche esem¬ pio. Le idee
di cui vive una società non danno luogo solamente a delle speculazioni o
a immaginazioni relative agli uomini. La teologia e la mitologia sono raddoppiate
dalle «storie antiche», dall’epopea in cui degli uomini prestigiosi
applicano c dimostrano dei principi che gli dèi incarnano e dei
comportamenti che dipendono da loro. Certo, ben altri fattori
contribuiscono alla formazione dell’epo¬ pea di un popolo, ma è raro che
questa non abbia avuto, in alcuni dei suoi grandi temi c dei suoi primi
moli, un rapporto essenziale con l’ideologia che dirige le
rappresentazioni divine dello stesso popolo. Per i nostri studi
comparativi indoeuropei questa felice circostanza gioca a nostro favore
in due maniere: la seconda è stata da me ricono¬ sciuta nel 1939, mentre
la prima è stala scoperta nel 1947 dal mio col¬ lega svedese Stig
Wikander. Da una parte, la più grande epopea indiana, il
Mahàbhcirata, sviluppa le avventure di un insieme di eroi che
corrispondono parola per parola ai grandi dèi delle tre funzioni della
religione vedica e pre¬ vedrà, di modo che l’India presenta, con questo
enorme poema c col Riveda, lina doppia edizione rispondente, a due differenti
bisogni e con sensibili varianti, alla sua «ideologia in immagini». Dall’
altra par¬ te, se Roma ha perduto tutta la sua mitologia e ha ridotto i
suoi esseri teologici alla loro scarna essenza, ha conservato al
contrario, per costi¬ tuirla in seguito, la storia meravigliosa e
ragionevole delle proprie ori¬ gini, un antico repertorio di racconti
umani, colorati e molteplici, pa¬ ralleli a quelli che avrebbero dovuto
essere in tempi meno austeri le raccolte mitiche degli dèi.
Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in storia da
Roma stessa? Oppure essa prolunga direttamente un’epopea prero¬ mana e
italica, coesistente con una mitologia che Roma avrebbe per¬ duto senza
traslazione e senza compensazione? L’una e l’altra tesi possono trovare
argomenti nel dettaglio dei fatti, ma per il comparati¬ sta questa
discussione non incide: in ogni caso, il primo libro di Tito Livio
contiene una materia ideologicamente conforme al sistema de¬ gli dèi
romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla mito¬ logia
dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui dettagli
delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza fun¬ zione è
dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro
comparativo. 13. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S.
Wikander Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il
Mahàbhdra- ta, i personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo
di cinque fratelli, i Panda va o «figli di Pàndu», che fra i molli tratti
notevoli pre¬ sentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti
c cinque, Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo
regime di poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya
ma attribuito qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito
per più di un se¬ colo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha
fornito la soluzione soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave
di tutto l’intrigo del poema. In realtà i «figli di Pàndu»
non sono i suoi figli. Sotto il peso di una maledizione che lo condanna a
morte nel momento in cui compirà l’alto sessuale, Pàndu si assicura una
posterità con un procedimento eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in
seguilo ad un’avventura giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito:
le era sufficiente in- 101 vocare un dio perché
questo sorgesse immediatamente davanti a lei e le donasse un
figlio. Dietro preghiera di suo marito invoca dunque in successione
di¬ versi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono Dharma,
«la Legge, la Giustizia» (entità in cui si ritrova il vecchio concetto
del giu¬ rista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra.
I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna. Suo
marito la prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie, di
questa fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri prende
dalla situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati i due
inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ulti¬ mi dei
cinque «figli di Pàndu», Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò ben presto
che la lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin -
riproduceva nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi
dei tre livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che
rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al
secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora
più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri
doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni
epiche dei figli, come in effetti accade. Yudhisthira è il re,
mentre gli altri Pàndava sono solamente de¬ gli ausiliari; un re giusto,
virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza specialità o virtù guerriere, come
si conviene a un rappresentante della «metà di Mitra» della
sovranità. Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme.
Quanto ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori
dei loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la
grande vir¬ tù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente
le due classi superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve
immediatamente in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza
aberrante ma della trasposizione epica della concezione vedica,
indo-iranica e pri¬ ma ancora indoeuropea, che completa la lista degli
dèi maschi, tra i quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni,
con una dea unica ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la
vedica Sarasvatl che comprende in se stessa la sintesi delle tre
funzioni. Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due
gemelli servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125
formulava quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl):
«Sono io che sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che
sosten¬ go i due Asvin», o che ancora si ritrova nella triplice
titolatura (con un’ulteriore specificazione della terza funzione) della
principale dea dell’Iran, «l’Umida, la Forte, l’Immacolata». Questa
scoperta è stala il punto di partenza di un’ esplorazione di tutto il
poema, soprattutto dei primi libri (che precedono la grande battaglia) ed
è stata certamente chiamata a rinnovare i nostri studi: per la sua abbondanza,
la sua coesione e la sua varietà, la trasposizione epica permette,
partendo dal sistema trifunzionale, da ogni funzione e dalle molte
rappresentazioni connesse, uno studio più profondo e più avanzato di
quanto non lo permettesse l’originale mitologico cono¬ sciuto sopralutto
dalle allusioni dei testi lirici. D’altra parte, sin dal suo articolo del
1947, Wikander ha stabilito un punto molto importante: la struttura
mitologica trasposta nel Mahàbhdruta è sotto molti aspetti più arcaica di
quella del Rgveda poiché conserva dei tratti sfumali in questo innario ma
che le analogie iraniche provano come fosse in¬ do-iranica. Per tale
ragione uno dei primi servigi apportati da questo nuovo studio è stato
quello di rivelare nella funzione guerriera una di¬ cotomia che il Rgveda
ha quasi completamente dimenticato a tutto vantaggio di Indra.
Infatti, come è già stato dimostrato da lavori anteriori della scu¬
ola di Uppsala, Vàyu c Indra erano i patroni, nei tempi prevedici, di due
tipi molto differenti di combattenti i cui figli epici, BhTma e Arju- na,
rendono possibile un’osservazione dettagliala e certamente una parte dei
caratteri fisici dell’Indra vedico devono essere restituiti a Vàyu per un
periodo più antico. Questi due tipi sono facilmente defini¬ bili in qualche
parola. L’eroe del tipo Vàyu è una sorta di bestia umana dotato di
un vi¬ gore fisico mostruoso, le sue armi principali sono le sue braccia,
pro¬ lungale talvolta da un’arma che gli è propria: la clava. Non è bello
né brillante, non è molto intelligente c si abbandona facilmente a
disa¬ strosi eccessi di furore cieco. Infine, opera spesso da solo,
fuori da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore designato, per
cercare l’avventura e per uccidere principalmente dei demoni e dei
geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un uomo
compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia delle armi
perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno spe¬ cialista
delle armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e soprat¬ tutto
socievole, guerriero da battaglia più che cercatore di avventura e
generalissimo naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa distinzione è
conosciuta anche dall’epopea iranica, nel¬ la persona del brutale
Kó>rasàspa armato di mazza e legato al culto di Vàyu, oppure nel tipo
dell’eroe più seducente come ©raètaona. In Grecia ricorda
l’opposizione tipologica di Ercole e Achille, ma soprattutto permette di
dare una formulazione più precisa, in Scan¬ dinavia, ai rapporti tra
Ódinn e Pórr e più in generale a quelli della pri¬ ma e seconda funzione.
E stato segnalato, nel secondo capitolo, che Ódinn si era annesso una
parte importante della funzione guerriera. Vediamo ora che si tratta principalmente
(senza che la discriminazio¬ ne sia rigorosa: è Pórr che al pari di Indra
rimane il dio tuonante dello sconvolgimento atmosferico) della parte che
presso gli Indo-Iranici era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte
di *Vàyu era piuttosto quella di Pórr, il brutale picchiatore e
l’avventuriero delle spedizioni solitarie contro i giganti. Tuttociò
appare ancora più chiaramente se si considerano nell’ epopea gli eroi che
corrispondono a ciascuno di que¬ sti dèi: gli eroi odinici come Sigurdr,
Helgi e Haraldr sono belli, lumi¬ nosi, socievoli, amati e aristocratici,
mentre l’unico «eroe di Pórr» co¬ nosciuto dall’epopea, Starkadr,
appartiene alla razza dei giganti, un gigante ridotto da Pórr a forma
umana, arcigno, brutale, errante e soli¬ tario, vera replica scandinava
di Bhlma o Ercole. 16. Caratterizzazione funzionale dei
Pàndava Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti, sicuramente
consape¬ voli di questa struttura, si sono cimentati nel dare delle
rappresentazio¬ ni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro diverse
maniere di reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due. Nel
momento in cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto
esilio che avrà fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno
la loro rivincita, il pio e giusto re Yudhisthira avanza « Velandosi il
volto col suo abito per non rischiare eli bruciare il mondo col suo
sguardo corrucciato». Bhlma «guardale sue enormi braccia» e pensa: «Non
vi è uomo ugua¬ le a me per la forza delle braccia »; egli « mostra le
sue braccia, inor¬ goglito dalla forza delle sue braccia desidera fare
contro i nemici un 'azione pari alla forza delle sue braccia ». Arjuna
sparge la sabbia «raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce
scoccate contro i nemici». Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è
un’ altra: Nakula, il più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le
membra di cenere dicen¬ do: « Che io non possa mai trascinare sulla mia
strada il cuore di una donna!» e suo fratello Sahadeva allo stesso modo
si imbratta il viso (II, 2623-2636). All’inizio dei libro IV (23-71
e 226-253), i cinque fratelli scel¬ gono un mascheramento per soggiornare
in incognito alla corte del re Virata: Yudhisthira, eroe della prima
funzione, si presenta come un brahmano; il brutale Bhlma come un
cuoco-macellaio e un lottatore; Arjuna, coperto di braccialetti e
orecchini, come un maestro di danza; Nakula come un palafreniere esperto
nella cura dei cavalli malati, mentre Sahadeva come un bovaro, informato
di lutto ciò che riguarda la salute e la fecondità delle vacche.
Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono
interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzio¬
ne nella coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato
l’importanza del criterio qui rivelato. Sempre restando prima di
tutto degli abili medici che ignorano l’agricoltura (il che ci porta a
far risalire indietro di molto questa con¬ cezione), Nakula e Sahadeva si
dividono le due principali province deH’allevamento, riservandosi
rispettivamente l’uno la protezione delle vacche e l’altro quella dei
cavalli, che nel Rgvedu forniscono loro il loro secondo nome collettivo,
Aévin, un derivato di àsva, «ca¬ vallo». Abbiamo così il
primo modello delle formule che si osservano anche altrove a proposito
degli omologhi funzionali dei Nàsatya -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad
esempio, entità zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie
all’interno del genere «sa¬ lubrità», sotto le acque e le piante; così
pure, almeno parzialmente, tra il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la
distinzione nell’uniforme be¬ neficio dell’«arricchimento» si compie
secondo le due fonti della ric¬ chezza, il mare e la terra.
Si nota qui chiaramente come la considerazione dell’epopea metta in
risalto dei tratti strutturali e suggerisca inchieste feconde. Il
travestimento di Arjuna non è strano a un primo approccio, poiché è
arcaico e di un arcaismo che è conosciuto dal Riveda, in cui Indra è il
«danzatore» e i suoi giovani compagni la banda guerriera dei Marut che si
adorna il corpo di ornamenti d’oro, braccialetti e anelli da cavi¬ glia
che li fanno apparire come dei ricchi pretendenti. Comune alle più
vecchie mitologie c alla sua trasposizione epica, questo tratto è certa¬
mente da riconnetlerc all’insieme del «Mànnerbund» indo-iranico. E forse,
nello stesso ordine di idee, la trasposizione epica lascia intrave¬ dere
un aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e che riguarda la
morale particolare di questi gruppi di giovani, quando essa insiste sul
carattere «effeminato» del travestimento scelto da Arjuna. 18.
Pàndu e Varuna Progressivamente sono stale individuate altre
corrispondenze tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c
prevedica, sem¬ pre con lo stesso vantaggio che l’epopea, narrazione
ampia e continua, facilita in ogni caso l’analisi che, al contrario, c
infastidita dal lirismo degli inni c dalla loro retorica dell’allusione.
Ho così potuto dimostrare come Varuna non sia assente dalla
trasposizione; solo si trova nella generazione anteriore, inattuale,
morta, quando il corrispettivo di Mitra, il figlio di Dharina, diviene
re. Pàndu, il padre putativo dei Pàndava, anche lui re prima del suo
figlio maggiore Yudhisthira, presenta in effetti due caratteri originali
e im¬ probabili che i libri liturgici e un inno attribuiscono anche a
Varuna; a uno di questi caratteri deve il suo nome: pàndu significa
«pallido, gial¬ lo chiaro, bianco», e infatti un incidente di nascita, o meglio,
del con¬ cepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la pelle insanamente
pallida o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi rituali come sukla
«bian¬ chissimo» e atigaura «eccessivamente bianco». L’altro aspetto c
di più ampia portata: Pàndu c condannalo all’equivalente dell’impotenza
sessuale, condannato a perire (e così in effetti perirà) se compie l’atto
d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze diverse ( AV , IV, 4, 1 :
rituale della consacrazione regale) è presentato come uno divenuto
momentaneamente impotente, devirilizzato (evirazione che si fa a
vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il mito importante del greco
Urano castrato dai suoi figli). Il lavoro insomma è appena
cominciato. Sia io che Wikander speriamo di estrarre da questa riserva
importante del materiale abbon¬ dante e abbastanza chiaro per delucidare
molte incertezze e difficoltà che sono ancora irrisolvibili sul piano
degli inni e per fornire alla rico¬ struzione indoeuropea degli elementi
privi di ambiguità.L’epopea romana ha utilizzato in altra maniera l’ideologia
delle tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano
non sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente
gerarchizzati; essi si succedevano nel tempo e progressivamente
costituiscono Roma. Non si succedono però nell’ordine canonico ma in un
altro or¬ dine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano
«gioviano» se¬ mi-dio, creatore ed eccessi vo (pri ma funzione del tipo
di Varuna) e poi sovrano «diale», umano, pio, regolatore (prima funzione
del tipo Mi¬ tra); 3) infine, un re strettamente guerriero (seconda
funzione). In più, il sovrano gioviano non è altro che uno dei due
gemelli sopravvissuto alla coppia ma profondamente trasformato. Questa
doppia singolarità schiude nuove prospettive all’inchiesta comparativa ma
inizialmente considereremo i rappresentanti delle due prime funzioni che
non implicano problemi inediti. 20. Romolo e Numa e i due
aspetti della prima funzione Nella tradizione annalistica i due
fondatori di Roma, Romolo e Numa, formano un’antitesi abbastanza
regolare, sviluppata nello stes¬ so senso di quella di Varuna eMitra
nella letteratura vedica. Ogni cosa si oppone nel loro carattere, nei
loro fondamenti e nella loro storia, ma in un’opposizione senza ostilità:
Numa completa l’opera di Romolo donando all’ ideologia regale di Roma il
suo secondo polo, necessario quanto il primo. Quando nel VI canto d
t\VEneide, negli Inferi, Anchise li pre¬ senta tutti e due in qualche
verso al suo figlio Enea (vv. 777-784 e 808-812), definisce Romolo come
il bellicoso semidio creatore di Roma e, grazie ai suoi auspici, l’autore
della potenza romana e della sua Crescita continua (et huius, nate,
auspiciis illa inclita Roma impe- rium terris, animos aequabit Olympo)\
poi Numa come il re-sacerdote portatore di oggetti sacri, sacra ferens,
coronato di olivo che fonda Roma donandogli delle leggi, legibus.
Tutto si ordina intorno a questa differenza - «l’altro mondo e
questo qui» - in cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha l’iniziativa,
equili¬ brano eccellentemente gli auspicio, in cui l’uomo non fa che
decifrare il linguaggio miracoloso di Giove. Si verifica
istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi di sovrani ricopre punto
per punto quella analizzata nel caso di Varuna e Mitra (vedi III, § 2).
Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella genesi di Roma,
Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa metà del mondo.
Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo, quando spiega
agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del regno, una
osservazione molto giusta (Numa, 5,4-5): «Si attribuisce a Romo¬ lo la
gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è stato
nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione particola¬
re della divinità; io, al contrario, sono di una razza mortale, sono sta¬
to nutrito e allevato da uomini che voi conoscete». I loro modi di
azione non differiscono di molto e la differenza si esprime in maniera sorprendente
in ciò che si possono chiamare i loro dèi prediletti. Romolo
stabilisce solo due culti che sono due specificazioni di Jupiter - quel
Jupiter che gli ha donato la promessa degli auspici - Jupi- ter Feretrius
e Jupiter Stator che si accordano nel fatto che Giove è il dio protettore
del regnum, ma relativamente ai combattimenti e alle vittorie; e la
seconda vittoria è dovuta a una prestidigitazione sovrana di Giove, a «un
cambiamento di vista» contro il quale nessuna forza può niente e che
capovolge l’ordine normale e consueto degli avveni¬ menti. Al contrario,
tutti gli autori insistono sulla devozione particola¬ re che Numa rivolge
a Fides. Dionigi di Alicamasso scrive (II, 75): « Non vi è sentimento
più elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato che
nei rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità
Numa, il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides
Publica e istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli
delle altre divi¬ nità». Plutarco {Numa, 16,1) dice similmente che fu il
primo a costrui¬ re un tempio a Fides e insegnò ai Romani il loro più
grande giuramen¬ to, il giuramento di Fides. Si vede bene come questa
distribuzione sia conforme all’essenza delle due divinità sovrane
antitetiche, Varuna e Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due
dèi si oppone allo stes¬ so modo: Romolo è un violento, descritto dagli
annalisti come un ti¬ ranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con
dei tratti sicura¬ mente antichi: « Vi erano sempre vicino a lui - dice
Plutarco ( Romolo , 26, 3-4) - quei giovani chiamati Celeres a causa
della loro prontezza nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in
pubblico che preceduto dai littori armati di verghe, con le quali
respingevano la folla, cinti di corregge con cui legavano sul posto
quello che lui ordinava di arre¬ stare». A questo sovrano, così
materialmente «legatore» come Varu¬ na, si oppone il buono e calmo Numa,
la cui prima iniziativa una volta di venuto re fu quella di sciogliere il
corpo dei Celeres e come seconda di organizzare ( ibidem) o creare (Tito
Livio, I, 20) i tre flamines maio- res. Numa è privo di ogni passione,
anche di quelle sti mate dai barbari, come la violenza e l’ambizione
(Plut. Numa, 3, 6). Di conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte
per la funzione guerriera, quelle dell’altro per la funzione di
prosperità. Anche nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre
trionfi, prescrive ai Romani: rem militarem colant (Tito Livio, I, 16,
7). Numa si assegna il compito di disabituare i Romani alla
guerra (PI ut. Numa, 8, 14) e la pace non è rotta in alcun momento del
suo re¬ gno (ibidem, 20, 6); offre un buon accordo ai Fidenates che
compiono razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo
una va¬ riante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle
forme che im¬ pediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso,
II, 72; Plu¬ tarco, Numa, 12, 4). Distribuisce ai cittadini
indigenti i territori occupati da Romolo «per sottrarli alla miseria,
causa quasi necessaria della perversità, e per spingere verso l ’ag
ricoltura lo spirito del popolo, che domando la terra si addolcirà»-,
divide tutto il territorio in vici, con ispettori e com¬ missari che lui
stesso controlla « giudicando i costumi dei cittadini in base al lavoro,
premiando con onori e poteri coloro che si distinguono perla loro
attività, biasimando i pigri e correggendo le loro negligen¬ ze» (Plut.
ibid. 16,3-7). Limitiamo a ciò la comparazione che potrebbe comunque
proseguire dettagliatamente, poiché è evidente che gli an¬ nalisti si
sono ingegnati a spingere in ogni direzione l’opposizione tra i due re,
l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da que¬ sti)
senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis, sepolto
piamente dai senatori, antenato di numerose genti. Delle pretese
gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno potuto introdurre più
di un dettaglio e in di verse epoche in queste «vite parallele inverse» e
sicuramente in quella di Numa. Ma è chiaro che queste stesse
innovazioni si sono uniformate a un dato tradizionale, la cui intenzione
era di illustrare due tipi di re, due modelli di sovranità, quelli stessi
conosciuti dall’India sotto i nomi di Varuna e Mitra. 21.
Tullo Ostilio e la funzione guerriera Dopo la funzione sovrana la
funzione guerriera, dopo Romolo e Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise
presenta ad Enea ( En . VI, 815) come colui «che riporterà alle armi, in
arme, i cittadini divenuti casa¬ linghi e disabituati ai trionfi». Arma,
come auspicia e sacra per i suoi predecessori, segnala qui l’essenza del
suo carattere e della sua opera: militaris rei institutor dirà Orosio e
prima di lui Floro: «La regalità gli fu conferita in base al suo
coraggio: è lui che ha fondato tutto il siste¬ ma militare e l'arte della
guerra; di conseguenza dopo aver esercitato in maniera sorprendente la
iuventas romana osò provocare gli Alba¬ ni». 22.1 miti di
Indra e la leggenda di Tullo Ostilio È in questo caso che il
confronto tra l’epopea romana e la mito¬ logia ha dato ( 1956) i
risultati più inattesi e ha permesso di ampliare lo studio dettagliato
della funzione guerriera indoeuropea, il cui solo confronto della
teologia esplicita non lasciava intravedere che i mag¬ giori aspetti:
nelle loro «lezioni» ma anche nelle loro affabulazioni, i due episodi
solidali che costituiscono la «storia» di Tulio - la vittoria del terzo Orazio
sui treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salva¬ no Roma del
pericolo che correva il suo nascente imperium, uno per la subordinazione
di Alba, l’altro per la sua distruzione - rispecchiano da vicino i due
principali miti di Indra che la tradizione epica presenta spesso come
conseguenti e solidali, cioè la vittoria di Indra e di Trita sul
Tricefalo e la morte di Namuci. Non è possibile qui che mettere in un
quadro schematico le omologie, pregando il lettore interessato di
riportarsi al libro in cui gli argomenti e le conseguenze sono lunga¬
mente esposti. A, a) (India). Nell’ambito della loro rivalità
generale coi demo¬ ni, gli dèi sono minacciati dall’imbattibile mostro a
tre teste che è tut¬ tavia il «figlio dell’amico » (nel Riveda) o il
cugino germano degli dèi (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre,
brahmano e cappellano degli dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita «il
terzo» dei tre fratelli Àptya, a uccidere il Tricefalo e Trita in effetti
lo uccide, salvando gli dèi. Ma quest’atto, morte di un parente, di un
alleato o di un brahmano, com¬ porta un’impurità che Indra scarica su
Trita o sugli Àptya che la liqui¬ dano ritualmente. Da allora gli Àptya
sono specializzati nell’eli¬ minazione delle diverse impurità e in
particolare, in ogni sacrificio, di quella che comporla l’inevitabile
messa a morte della vittima. b) (Roma). Per regolare il lungo
conflitto in cui Roma e Alba si disputano Vimperium, le due parti
convengono di opporre i tre gemelli Orazi e i tre gemelli Curiazi (l’uno
dei quali è fidanzato a una sorella degli Orazi e che, anche nella
versione seguita da Dionigi di Alicar- nasso, sono cugini germani degli
Orazi). Nel combattimento ben presto non rimane che un Orazio,
ma questo «terzo» uccide i suoi tre avversari dando Vimperium a
Roma. Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini rischia di
produrre un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché i Curiazi
hanno accettato per primi l’idea del combattimento, la responsabilità
cade su di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue famigliare è
ripartita subito, trasferita, su un episodio che non ha paralleli nel
racconto indiano: il terzo Orazio uccide sua sorella che lo ha maledetto
per la morte del suo fidanzato. La gens Oratia deve dunque liquidare
quest’impurità e ogni anno continua a offrire un sacrificio espiatorio:
la data di questo sacrificio, all’inizio del mese che pone fine alle
campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste espiazioni
riguardavano (da là la leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a Roma,
macchiati dalle inevitabili morti della battaglia. B, a)
(India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità conclude un patto di
amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo «né di giorno né di
notte, né col secco né con l'umido ». Un giorno, approfit¬ tando a
tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è stato messo dal
padre del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi at¬ tributi:
forza, virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo soccorso gli dèi
canonici della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli ren¬ dono
la sua forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola data pur
violandola: egli non deve che assalire Namuci all’alba (quando non è né
giorno né notte) e con della schiuma (che non è né secca né umida). Indra
sorprende così Namuci che non sospetta c lo decapita in maniera bizzarra,
«burrificando» la sua testa nella schiuma. b) (Roma). Dopo la
disfatta dei tre Curiazi, il capo degli Albani, Mezio Fufezio, si pone in
Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù della convenzione. Ma
segretamente tradisce il suo alleato e durante la bat¬ taglia contro i
Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scopren¬ do il fianco
dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti alla divinità
della terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché al corrente
del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e convoca al
pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là sorprende Mezio,
lo fa afferrare e lo condanna a una pena unica nella storia di Roma, lo
squartamento. 23. Rapporti della funzione guerriera con le altre
due Attraverso questi miti e queste leggende è tutta una filosofia
della necessità, dell’impeto cdei rischi della funzione guerriera, che si
esprime, come pure una concezione coerente dei rapporti di questa
l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio; e con
l’aspetto «Mitra-Fides» della prima che tuttavia non rispetta affatto e
che non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei pericoli, come
potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi questa azione
disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i rapporti di Indra e Tulio
Ostilio con l’aspetto «Varuna-Jupiler» della funzione sovrana non
procedono senza scontri: abbiamo già ricordato gli inni vedici in
cui Indra sfida Varuna, vantandosi di sconfiggere la sua potenza (e
gli Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo oppongono Ódinn e Pórr
in un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a Roma uno scandalo vi¬
vente, il re empio e la fi ne della sua storia non è che la ten ibile
vendet¬ ta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si prende contro
questo re troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo tempo.
Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate tuttavia a
continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso contrae una lunga
malattia; dice allora Tito Livio (I, 31,6-8): «lui, che fino a
questi tempi aveva creduto che niente è meno degno di un re che applicare
il proprio spirito alle cose sacre, improv¬ visamente si abbandonò a
tutte le superstizioni, grandi e piccole, e propagò anche fra il popolo
delle vane pratiche... Si dice che il re stes¬ so consultando i libri di
Numa vi trovò la ricetta di certi sacrifìci se¬ greti in onore di Jupiter
Elicius. Egli si appartò per celebrarli. Ma sia all’inizio che nel corso
della cerimonia commise un errore rituale, di modo che, invece di veder
comparire una figura divina, irritò Jupiter con un'evocazione mal
condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la sua casa»
Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il
grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è per¬ ché
egli è un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che
più interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era
l’unica a onora¬ re, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei
tempi delle sue origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella
persona di Romolo e Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re,
che abbia¬ mo visto opposto a Numa nella seconda ed ultima parte della
sua car¬ riera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre Quirinus.
Questa differenza risalta in effetti a proposito della stessa fondazione,
nella disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo cessa allora
di es¬ sere «uno dei due gemelli», il socio fedele e senza contesa di suo
fra- 113 tello, per diventare il re
prestigioso, creatore, terribile, tirannico e isti¬ tutore di quegli
uomini che portano davanti a lui delle corde, pronte a «legare» nel senso
letterale del termine, al pari del suo omologo del pantheon vedico,
Varuna, armato di lacci. La corrispondenza tipologica dei gemelli
dell’epopea romana e degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la
lista trifunzionale indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da
Alba, e alla fondazio¬ ne dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori
allevati da un pastore, vivono una vita esemplare da pastori messa in
risalto solo da un gusto marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In
questa definizione pastorale l’evoluzione della proto-civilizzazione
romana (scomparsa del carro da guerra) ha eliminato la «parte del
cavallo» (in evidenza nella parola ASvin), non rimane quindi che la
«parte del bue e del montone», per si¬ tuare maggiormente Romolo e Remo
nell’economia rurale. I Nàsatya, come si ricorderà, sono
inizialmente tenuti a distanza dagli dèi perché troppo «mescolati agli
uomini» ( Éat. Brùhm ., IV, 1,5, 14, etc.) e nella letteratura posteriore
saranno considerati come degli dèi Sfldra, dèi di ciò che vi è di più
basso e fuori-casta, in rapporto alla società ordinata. Così
vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non vi è in essi niente
di «sovrano», nessun rispetto per 1 ’ ordine. Devoti ai più umili,
disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del bestiame del re
(Plutarco, Romolo, 6, 7). Il gruppo che li seguirà nella loro rivolta
sarà un gruppo di pastori (Tito Livio, 1, 5, 7) o un’assemblea di indi¬
genti o schiavi (Plutarco, Romolo , 7, 2) prefiguranti l’eterogenea po¬
polazione dell’Asilo ( ibidem , 9, 5). Sono raddrizzatori di torti:
come i Nàsatya passano il loro tem¬ po a riparare le ingiustizie degli uomini
o della sorte. Essendo sempli¬ cemente degli dèi i Nàsatya compiono le
loro liberazioni, restaurazio¬ ni e guarigioni per mezzo di miracoli,
mentre Romolo e Remo non possono ricorrere che a mezzi umani per
proteggere i loro amici contro i briganti, ristabilire nei loro diritti i
pastori di Numitore maltrattati da quelli di Amulio e, finalmente, punire
Amulio. Uno dei più celebri ser¬ vigi dei Nàsatya, origine della loro
fortuna divina, è stato quello di aver ringiovanito il vecchio decrepito
Cyavana; la grande impresa di Romolo e Remo, origine della fortuna del
primo, fu allo stesso modo quella di aver riabilitato il loro vecchio
nonno che era stato privato del¬ la regalità di Alba. I due
Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono in¬ sieme ma
tuttavia un testo segnala una grave disuguaglianza che ricor¬ da quella
dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è fi¬ glio di
un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è differente ma
considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi proseguirà la sua
carriera diventando un dio - il dio canonico della terza funzione, Quiri¬
no -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i soli onori abi¬
tuali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro {Fasti, II
395-6): « ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen ex
illis iste vigoris habet ...» Certe azioni estranee ai Nàsatya -
mal conosciute come tutta la loro mitologia - sembrano ricordare dei
tratti della leggenda di Romo¬ lo e Remo, talvolta solo con una
inversione (protettori e non protetti) che testimonia come essi siano
degli dèi e i gemelli romani degli uomi¬ ni. Uno dei servigi frequenti
dei Nàsatya è di fare cessare la sterilità delle donne e delle femmine;
ora, Romolo e Remo sono i primi capi dei Luperci, un compito dei quali è
di rendere madri le donne romane con la flagellazione (una leggenda
eziologica, che pone l’origine di questo rito dopo la fondazione di Roma
c il ratto delle Sabine, dice che è stato destinato inizialmente a far
cessare una sterilità generale). In tutto il Rgveda il lupo è un
essere mal visto, è il nemico; l’unica eccezione si trova nel ciclo dei
Nàsatya: un giovane uomo ave¬ va sgozzato cento c un montoni per nutrire
una lupa e per punizione suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera
della lupa i gemelli divi¬ ni resero la vista allo sfortunato. Nella
storia di Romolo e Remo, c solo in essa a Roma, non è più in quanto
nutrita ma come nutrice che la lupa occupa il posto eminente che ben si
conosce. Nei riti e nelle leggende dei Luperci (Ovidio, Fasti, II,
361-379), nel racconto sulla giovinezza di Romolo e Remo (Plutarco,
Romolo, 6, 8) le corse giocano un ruolo considerevole; ugualmente le
corse in carro ncl4 mitologia degli ASvin. Un aspetto
sfortunatamente oscuro della festa rustica di Palcs (il «cavallo
mutilato», curtus equos), come pure il concetto stesso del¬ la dea
«Pales», così strettamente legato a Romolo e Remo e alla fonda¬ zione di
Roma, ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in for-
ze la giumenta detta «Pula del w.f» (vis, principio della terza
funzione e anche «clan») che durante una corsa si era spezzata le gambe.
Questo confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro carriera
«preromana», Romolo e Remo corrispondono così precisamente ai Nàsatya
come Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corri¬ spondono a
Varuna e Mitra e Tulio a Indra. Quando Romolo muore verrà deificato sotto
il nome del dio canonico della terza funzione, Quirino, ritornando quindi
al suo valore primigenio e, sia dello di sfuggita, questa notevole
convergenza spinge a rivedere l’idea gene¬ ralmente ammessa che
l’assimilazione di Romolo a Quirino sia secon¬ daria e tardiva.
25. La terza funzione, fondamento delle altre due Riguardo
l’ordine di apparizione delle tre funzioni nell’epopea delle origini
romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello stesso Romolo da «Nàsatya»
in «Varuna», queste non sono senza paralleli c rivelano un aspetto della
struttura trifunzionale che ancora non abbiamo avuto occasione di
segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto cer¬ to che, se è vero
che la terza funzione è la più umile, nondimeno essa è il fondamento e la
condizione della altre due. Come vivrebbero maghi e guerrieri se i pastori-agricoltori
non li sostenessero? Nella leggenda iranica, Yima al pari di Romolo
diviene un re prestigioso e eccessivo sfidando Ahura Mazda - dopo essere
stato differenzialmente, nella primaparte della sua vita, un buon «eroe
della terza funzione» dai ric¬ chi pascoli, sotto cui la malattia c la
morte non affliggevano ne l’uomo né la bestia né le piante ( Yust , XIX,
30-34). Nell’epopea osscla (vedi sopra I § 4), i due gemelli /Exsaert e
/Exsaertacg, dei quali il secondo uc¬ cide il primo in un eccesso di
gelosia, genera poi la famiglia degli i£xsaertaegkalae (la famiglia dei
Forti, dei Guerrieri) che sono usciti se¬ condo certe varianti dalla
razza di «Bora», cioè dai Boratae (una fami¬ glia di ricchi).
È la stessa filosofia che si esprime nei rituali indiani sulla
stessa area sacrificale: devono essere riuniti tre fuochi corrispondenti
alle tre funzioni; un fuoco che trasmette le offerte agli dèi, un fuoco
che difen¬ de contro i demoni e un fuoco padrone della casa; ora,
quest’ultimo presenta i caratteri di un «fuoco vatéya» che è il fuoco
fondamentale acceso per primo e che serve per accendere gli altri.
26. Sviluppo della ricerca Il lettore è stato quindi
introdotto non solo nel deposito in cui sono classificati i risultati ma,
per la teologia e la mitologia di ognuna delle tre funzioni, e
notoriamente della seconda e della terza, lo si è l'at¬ to penetrare nel
campo degli stessi scavi in cui il comparatista si batte ancora con la
sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure or¬ dinarie che non
sono solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzio¬ ni, delle
reinterpretazioni dei dettagli alla luce dell’insieme meglio compreso e
generalmente delle riflessioni critiche sui bilanci anterio¬ ri. Prima di
prendere congedo la guida deve ricordare che, per impor¬ tante o centrale
che sia l’ideologia delle tre funzioni, essa è ben lungi dal costituire
tutta l’eredità indoeuropea comune che l’analisi compa¬ rativa può
intravedere o ricostruire. Un gran numero di altri cantieri più o meno
indipendenti sono aperti : sugli «dèi iniziali», sulla dea Au¬ rora e su
qualche altro, sulla mitologia delle crisi del sole, sulle varietà del
sacerdozio, sui meccanismi rituali e sui concetti fondamentali del pensiero
religioso, la comparazione, e specialmente la comparazione dei fatti
indo-iranici e romani, ha già permesso c permetterà di ricono¬ scere
delle coincidenze che è difficile attribuire al caso. Note ai
paragrafi § 2. La struttura bipolare della sovranità è l’argomento
di MV; il capitolo III di NA studia i fatti iranici (Vohu Manah c Asa). A
proposito di questi ulti¬ mi la critica di W. LENTZ, «Yasna 2<f», Abh.
Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz.., 1954, p. 963, non regge; non più dei poeti
del Riveda per Mitra e Varuna, quelli delle Gàthà avevano la
preoccupazione, in tutte le circostanze o in molte circostan¬ ze, di
caratterizzare differenzialmente Vohu Manah c Asa; questo è vero per lo
Yasna 28 in cui ogni strofa nomina contemporaneamente le due Entità
esattamente come RV, V, 69, in cui ogni strofa nomina simultaneamente i
due dèi senza cercare di distinguerli. Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN,
The f>reai Vohu Manah and thè Apostle ofGod, 1945. Per Mi9ra e Ahura
Mazda nella nuova prospettiva vedi MV, cap. V, § v (da correggere dopo
WlDEN¬ GREN, Numen, I, 1954, p. 46, n. 148); J. DUCHESNE-GUILLEMIN,
Zoroastre , 1948, pp. 87-93; da S. WlKANDER, Orientalia Suecana, I, 1952,
pp. 66-68 (sul Mesoromazdés di Plutarco). L’importante affinità del
Varuna vcdicocon F oceano, f ortemente marcata da H. LUDERS,
Varuna , I ( Varuna linci die Was- ser), 1951, sarà esaminata
ulteriormente i n un quadro comparativo. § 3. MV, cap. IV.
§ 4. MV, cap. VII: si hanno ora le esposizioni di J. DE VRIES,
Altgerm. Rei. -Gesch., Ir, 1957, §§ 409-412 e di W. BETZ (vedi sopra,
nota a II, §§ 19-20) «Die altgerm. Religion», col. 2485-2498.
§ 5. Le troisième souverain, essai sur le_ clieu indo-ircuiien
Aryaman, 1949; DIE, pp. 40-59. Su Aditi, madre degli Aditya, in quanto
«madre e fi¬ glia» di uno di essi, vedi Déesses latines et mythes védique
, 1956, cap. III. Ri¬ fiutando e caricaturando in ZDMG, 117, 1957, pp.
96-104 la rettifica che avevo proposto alla sua interpretazione (1938) di
ari (non importa quale «Fremdling», ma già con una nota di nazionalità,
l’insieme o un membro del mondo arya - alleato o avversario), P. THIEME
compie il tour de force di di¬ scutere senza menzionare il mio libro su
Aryaman, che è il contesto naturale di questa rettifica, e mi attribuisce
non so quale metodo sintetico, intuitivo, etc. No: il mio studio su
Aryaman procede per una analisi completa e detta¬ gliata dei testi vedici
in cui è menzionato. Esaminerò successivamente questa curiosa risposta
nel JA e spero che P. Thieme userà più fair play nello studio che sta
preparando, mi dicono, su «Mithra e Aryaman», (vedi l’Appendice). §
6. DIE, pp. 50-51, riassumendo Le troisième souverain. § 7. DIE,
pp. 51-52. Sugli Àditya Daksa e Amsa, ihid., pp. 55-58. § 8. DIE,
pp. 59-67; K. Barr, Àvesta, 1954, pp. 184-185, 193, 215. § 9. DIE,
pp.68-75. Per Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro nel mondo
celtico: come Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favo¬
re di Jupiter O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo
tempio, così l'irlandese Mac Oc («il Giovane Figlio»), antico dio
protettore della gio¬ ventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio
dio sovrano Dagda e si fa concedere «un giorno e una notte », poi
arguendo che il giorno e la notte fanno la totalità del tempo, rifiuta di
uscire e resta maestro del luogo («Jeunessc, éternité, aube», Annales
d’histoire économique et sociale , 1928, pp. 289-301. § 10.
DIE, pp. 76-77. § 11. Vedi la prefazione di Aspects...
§ 12-24.1 servigi che bisogna richiedere alla pseudo-storia delle
origini romane comparata con la mitologia indiana o scandinava, sono
stati ben pre¬ sto riconosciuti: JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces,
1942, pp. 65-70; Ser- vius et la Fortune , 1943, pp. 112-119; riassunto
in L’hérìtage..., cap. Ili e in «Mythes romains», Revue de Paris, die.
1951, pp. 105-118. Sull’epoca in cui I’affabulazione definitiva degli
antichi miti si è prodotta (senza dubbio tra il 350 e il 280 a giudicare
dagli anacronismi che vi sono inseriti), vedi L’héritage..., p. 181, n.
49. § 13. L’interpretazione dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata
data da S. WlKANDER in un suo articolo fondamentale, «Pandava-sagan
och Mahàbhàratas myliska fòrutsattningar», Religion neh
Bibel, VI, 1947 pp. 27-39, in gran parte tradotto e commentato nel niio
JMQ IV, pp. 37-85; cf. WlKANDER, «Sur le fonds commun indo-iranien des
épopées de la Perse et de l’Inde», NC, VII, 1950, pp. 310-329. Nel
dominio germanico un caso paralle¬ lo (il trasferimento su Hadingus della
Mitologia di Njordr) è stato studialo in La saga de Hadingus (Saxo
Granunaticus, I, V-VIII), du mythe au roman, 1953. Mentre il presente
libro era in stampa, in Orientalia Sue vana, sotto il ti¬ tolo «Nakula e
Sahadeva». WlKANDER faceva considerevolmente avanzare l’analisi dei
gemelli epici e divini (vedi sotto § 24). § 14. Su Vàyu-Indra, vedi
«Pàndava sagan...», pp. 33-36; è il risultalo dei lavori diH.S. NYBERG,
Die Reli gioiteti des altea Iran, 1938, pp. 75, 300, 317; di G.
WlDENGREN, Hochgattglaube ini alten Iran, 1938, pp. 188-215; di S.
WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV ha riconosciuto il dio indo-iranico *
Vayu nel nome generico dei «giganti» (f orti, catti vi, bestie) presso gli
Osse- ti, weijug (da *Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, VI, 1956,
pp. 450-457, che io ho commentato in «Noms mythiqucs indo-iraniens dans
le folklore des Osses», JA, CCXLIV, 1957, pp. 349-352. § 15.
Aspects..., pp. 9, 70, 80. § 16. JMQ IV, p. 56. § 17.
«Pàndava-sagan...», p. 36; JMQ IV, pp. 59+60, 67-68. § 18. Pandu
come trasposizione di Vanina, vedi JMQ, IV, pp. 77-80. La trasposizione
di un mito vedico (duello di Indra c del Sole, la ruota del carro del
Sole «infossata») è stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna,
fratello uterino e nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono
degli dèi delle tre funzioni: «Karna et Ics Pàndava», Orientalia Suecana,
III ( =Do- num natal. H.S. Nyberg), 1954, pp. 60-66. Una trasposizione
(dei passi di Visnu al servizio di Indra) è segnalata in «Les pas de
Krsna et l’exploit d’Arjuna», Orientalia Suecana, V, 1956, pp. 183-188; e
altri due (i sovrani minori Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c
Dhrlaràstra) in una conferen¬ za fatta all’Università di Copenhagen nel
nov. 1956, pubblicala quest’anno nell’ Inclo-1 ninian Journal («La
transposilion des dieux souverains dans le Mahàbhàrata»), Il personaggio
di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella stessa prospettiva.
§ 19. Le leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due
croi che ricordano, per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio
cieco monco della mitologia scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e
Tyr: questi sono Orazio Coclite («il Ciclope») c Muzio Scevola («il Mancino»),
i due salvatori di Roma nella guerra contro Porsenna; la comparazione è
stata sviluppata in MV cap. IX e ripresa diverse volle, specialmente ne
L’heritage..., pp. 159-169 c Loki, 1948, pp. 91-97. Sui primi redi Roma
vedi il riassunto degli studi anteriori in L’heritage..., pp. 143-159; un
notevole «ritocco» parallelo al «ritocco» zoroastriano degli dèi
trasporti in Entità della tradizione romana nel De Republica di Cicerone,
è stato studiato in «Les archanges de Zoroastrc et Ics rois romains de
Ciceron», JP, XLIII, 1950, pp. 449-463. 119 §
20. Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane..., pp. 146-154.
§21. Horate et les Curiaces, 1943, pp. 79-88; L ’héritage..., pp.
154-156. § 22. Aspetta ..., pp. 15-61: «La geste deTullus Hostilius
et les mythes de Indra»; cf. pp. 3-14 dello stesso libro, studio
dell’Indra vedico come «solita¬ rio» a dispetto dei suoi associati ( ekci
-) e come «autonomo» (sva-). La biblio¬ grafia degli studi comparativi
sullasecondafunzioneèdatain DIE, pp. 38-39 e completala in Aspetta..., p.
1. § 24. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli
Nàsa- tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, «Harlekintracht...»,
Orientalia Sueca- na , II, 1953, pp. 96-97; Aspetta..., pp. 20-21. Non ho
ancora pubblicato su questa interpretazione dei gemelli romani il libro
preparato nel 1951-1952; è comparso solo un frammento: «Le turtus equos
de la fète de Pales et la muti- lationde lajument ViSpala», Ercinos, LIV
(=G. Bjiirck meni. Saturni), 1956, pp. 232-245. Altre corrispondenze tra
dèi ed eroi gemelli dei diversi popoli indoeuropei sono state segnalale
in La saga de Hadinf>us, 1953, pp. 114-130, 151-154.1 Dioscuri greci
sono solo parzialmente comparabili. Sembra che altri aspetti della terza
funzione (massa popolare; sviluppo della ricchezza e del commercio;
piacere) abbiano ispirato i racconti sul quarto re di Roma, Anco Marzio,
successore del guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III («Jactanlior Ancus») e
la discussione con J. Bayet in JMQ IV, pp. 185-186 (dove impor¬ tanti
questioni di metodo sono toccate). § 26. DIVINITÀ: sugli «dèi
iniziali», vedi «De Janus à Vesta», Tarpeia, pp. 31-113 (=JMQ it., pp.
287-353), DIE, pp. 84-105; in Rituels..., pp. 33-39, sono state rilevate
delle concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di Vi- vasvat; in
Déesses latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani hanno
chiarificaio e giustificaio le rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas;
vedi anche RENOU, Études védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les Hymnes
à l'Aurore du Riveda, pp. 1-104, specialmente pp. 8-9,10, 65), della
silenziosa Diva Angerona, dea degli angusti dies del solstizio d’inverno
(cf. Atri opero¬ sa con la preghiera silenziosa nella crisi del sole),
della Fortuna Primigenia prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf.
Aditi, madre e figlia del sovrano Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti).
RITUALI in «Suouetaurilia», Tarpeia, pp. 115-158 (= JMQ it., pp. 355-388)
si è stabilito lo stretto parallelismo di que¬ sto sacrifico triplice,
offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di un loro, di
un montone c di un capro a Indra «Buon Protettore»); in Rituels in-
doeuropéeus à Rome (oltre a qui sopra, I, § 21), i Fordicidia sono stali
resi chiari, nei dettagli dei riti, dal sacrificio vedico della «Vacca
dagli otto pie¬ di»; l’opposizione del santuario rotondo di Vesta c di
templi quadrati, orien¬ tali, è stala riavvicinata all’opposizione tra il
fuoco rotondo (di riserva e di accensione, «fuoco del padrone di casa»,
attaccalo alla terra) e il fuoco qua¬ drato (che dirige verso gli dèi le
offerte degli uomini) sull’ara sacrificale ve- dica; i rapporti rituali
degli equidi, c in special modo del cavallo, con ciascuno dei tre livelli
funzionali, sono stati riconosciuti come idèntici sia a Roma che nell’India
vedica; in «Quacstiunculac indo-italicac, 1-3» (da pub¬ blicarsi in REL,
XXXVI, 1958) il tulmen inane fabae della fumigazione dei 120
Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco durante i Volcanalia
e la prescrizione bigarum victricum clexterior del Cavallo di Ottobre
sono chiarificati dai dati vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a
I, § 1, per Jlamen-brahman ): «Meretrices et virgines dans quelques
légendes politiquesde Rome et des pe- uples celtiques», Ogcnn, VI, 1954,
pp. 3-8; «Remarques sur le ius feriale », REL, XXXIV, 1956, pp. 93-111;
REL, XXXV, 1957, pp. 126-151, contiene uno studio su augur, inaugurare,
augustus. NOZIONI: «A propos de latin ius». RHR, CXXXIV, 1947-48, pp.
95-112; «Ordre, fantasie, changemente dan les pensées archaiques de
l’Inde et de Rome, à propos de latin mos», REL, XXXII, 1954, pp. 139-160;
in «Maiestas elgravitas, de quelques diffé- rences entre les Romains et
les Austronésiens», RP, XXVI, 1952, pp. 7-28 e XXVIII, 1954, pp. 9-18;
queste sono invece due nozioni prettamente romane che sono state
analizzate contro la scuola primitivista; su gratus, gratin emi¬
nentemente spiegate con un usovedico della radicegurC^V, Vili, 70,5),
vedi L.R. PALMER, «The Concept of Social Obligation in Indo-European»,
Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. M. Niedennann), 1956, pp. 258-269. E.
BENVENI- STE ha delucidato comparativamente un gran numero di nozioni
religiose e sociali, vedi in special modo «Symbolisme social dans les
cultes gré- co-italiques» RHR, CXXIX, 1945, pp. 5-16 (vedi una conferma
di un dato importante nel mio Rituels...)', «Don et échange dans le
vocabulaire in- do-éuropéen», L'Année Sociologique, 1951, pp. 7-20 e
«Formes et sens de pvaopai», Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (=
Festschr. A. Debrun¬ ner), 1954, pp. 13-18. Storia
degli Studi e bibliografìa Dopo lo scacco del saggio intelligente
ma prematuro fatto dalla scuola di Adalbert Kuhn (1812-1881) c di
Friederich Max Miiller ( 1823-1900) teso a ricostruire la mitologia
comune degli Indoeuropei, l’impresa fu per un certo tempo dichiarata
illusoria. Daunaparte, sotto l’influenza di Wilhelm Mannhardt
(1831-1880), gli studi si spostaro¬ no sui rituali e le credenze
agricole, popolari, di un tipo abbastanza uniforme per tutta l’Europa e
ci si applicò a ridurvi, senza pretendere di stabilire filiazioni né
parentele particolari, un gran numero di culti e miti delle diverse
religioni e in special modo quelle dei popoli classici. Da un’altra
parte, per effetto della crescente settorializzazione delle specialità,
gli studiosi dei diversi domini, indiano, greco, latino, ger¬ manico,
etc., rifiutando ogni considerazione comparativa, costruirono per
spiegare la genesi e lo sviluppo delle religioni da loro studiate delle
ipotesi che presero sovente per dati di fatto e che non si accordavano
che per un punto: la riduzione a poche cose, per non dire a niente,
dell’eredità conservata dal passato comune indoeuropeo. Rari autori
continuavano a parlare di «religione indoeuropea» come ad esempio A.
CARNOY, Les Indoeuropéens (1921) p. 154-240. Tuttavia nel secondo
quarto di questo secolo si produssero delle reazioni. In Germania bisogna
citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der Arische Weltkonig und Heiland (1923);
R. OTTO, Gotlheit und Got- theilen derArier (1932); F. CORNELIUS,
Indogermanische Religion- sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che
prosegue brillantemente, degli articoli c dei libri di F.R.
Schroder. A partire dal 1924 e nel corso di dodici anni io stesso
ho fatto un primo sforzo di revisione della «mitologia comparata», ma con
dei 123 mezzi filologici insufficienti e
rimanendo prigioniero, per la spiega¬ zione, delle concezioni
mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im- morIalite 1924, Le crime des
Lemniennes 1924 e qualche articolo di cui non vi sono grandi cose da
ritenere; il Leproblème des Centaures, 1929 e Flamen-Brahman, 1935, i cui
frammenti rimangono utilizzabi¬ li). Non è che a partire dal 1938 che,
inizialmente solo e poi, dopo il 1945, raggiunto e spesso superato da
altri ricercatori, spero di essere riuscito a delineare dei tratti
importanti della struttura dell’eredità in¬ doeuropea comune, in una
coscienza più chiara delle condizioni c dei mezzi deH’inchiesta. Quest’inchiesta
non si riporta ad alcun sistema preconcetto di spiegazione, ma utilizza
gli insegnamenti della socio¬ logia e dell’etnografia, come pure il
ricorso all’analisi linguistica dei concetti. Essa ha due
postulati: ammette che tutto il sistema teologico e mitologico significa
qualcosa, aiuta la società che lo pratica a com¬ prendersi, ad
accettarsi, ad essere fiera del suo passato, confidante nel presente e
nell’avvenire; ammette anche che la comunità di lingua, presso gli
Indoeuropei, implica una misura sostanziale dell’ideologia comune alla
quale deve essere possibile accedere grazie a una varietà adeguata del
metodo comparativo. Una circostanza, sulla quale un articolo di J.
Vcndryes aveva at¬ tirato l’attenzione sin dal 1918, ha dato il via all
'inizio di molte ricer¬ che: il vocabolario religioso degli Indo-Iranici
da una palle c quello dei Celti e degli Italioti dall’altra presentano un
gran numero di con¬ cordanze precise e che sono loro proprie. Un
articolo-programma del 1938 «La préhistoire des flamines majeurs», RHR, CVIII,
pp. 1 88-200 ha dimostrato che questa parentela prossima non si
riduce al vocabolario ma si estende alla struttura della religione. E dal
1938, in ogni tipo di materia, è in effetti la comparazione dei dati
vedici o in¬ do-iranici e dei dati romani che ha fornito i primi
risultati precisi sui quali è stato possibile fondare delle comparazione
più vaste. Così illuminati, i fatti germanici (benché il
vocabolario religio¬ so sia interamente differente) si sono ben presto
rivelati anch’essi no¬ tevolmente fedeli al passato indoeuropeo.
Benché conformandosi ai grandi quadri indoeuropei, il domi¬ nio
celtico pone ancora, in seguito allo stato della documentazione, un gran
numero di problemi irrisolti. La Grecia - per effetto senza dubbio
124 del «miracolo greco» e anche perché le più antiche
civiltà del Mare Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti
dal Nord - contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più
conside¬ revoli dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto
agli altri popoli del mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli
Slavi, non si è ancora riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali
lavori in cui è stata progressivamente analizzata l’ideologia tripartita
degli Indoeuropei che il presente libro espone sono i seguenti':
Mythes etdieuxdes Gennains, essaid’interprétation compara¬ tive
1939 (citato MDG) Mitra-Vurunu, essai sur deux représentations
indoeuropéen- nes de la souveraineté 1940, II ed. 1948 (citato MV)
Jupiter Mars Quirimis, essai sur laconception indoeuropéenne de la
société et sur Ics origines de Rome, 1941 (citato JMQ) Naissance de Rome
(=JMQ II) 1944 (citato NR) Naissance d'Archanges, essai sur la
formation de la théologie zoroastrienne (=JMQ III), 1945 (citato
NA) Jupiter Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ IV) L
’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux séries «JMQ» et «Mythes
Romains», 1949 Le troisième Souverain, essai sur le dieu Aryaman,
1949 Les dieux des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE) Rituels
Indoeuropéens à Rome, 1954 Aspects de lafonction guerrière chez les
Indoeuropéens, 1956 Déesses latine set mythes védiques. Coll. Latomus,
XXV, 1956 Una traduzione italiana di una versione migliorata in
diverse parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia (1947) e di JMQ
IV, è stata pubbl icata nel 1955 a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars
Quiri- I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di
JMQ. NR. NA ehc sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard.
Aspettando, l’edizione italiana dei primi due Corniscc un’idea delle
correzioni giudicale necessarie: le parli che non sono state tradotte
sono da eliminare. 125 ìtus (citato JMQ it.) 2
. Delle questioni di metodo, che io qui non affron¬ to, si trovano
discusse nelle prefazioni della maggior parte di questi li¬ bri e, più
sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage ... («Materia, oggetto
e metodi di studio»). 2 AUre abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL
= Beitrage zur Geschichte der Deutschen Sprache und Literatur: FFC =
Folklore Fellows Communications; J A = Journal Asiati que; JAOS = Journal
of thè American Orientai Society; JP = Journal de Psichologie: NC = la
Nouvelle Clio; REL = Revtte des Etudes Lalines; RHA = Revtte Hittite et
Asianique; RHR = Revtte de l ’Histoire des Religions; RV = Riveda; RP =
Revtte de Philologie. RSR = Recherches de Science Religieuse; SBE =
Sacred Books of thè East; SMSR = Studi e Materiali di Storia delle
Religioni ; TPS = Transaction of thè Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't
fìir Celti sche Philologie; ZDMG = Zeitschrift der Deutschen
Morgenlàndischen Gesellschafl. 126
Appendice Aryaman e Paul Thieme Mentre correggo
le seconde bozze di questo libro (maggio 1958) è uscito quello di Paul
Thieme annunciato qui sopra (nota al cap. Ili § 5), ma egli non risponde
affatto alle ingenue speranze che esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due
estratti dell’articolo del JA, concernenti Aryaman e il metodo di Thieme,
menzionato nello stesso paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione
provvisoria su Mitra and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle
note di I e II i nu¬ meri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. = P.
Thieme, Der Frem- dling im Rig Feda, 1938; S = il mio Troisième
Sauveraine, 1949; Z = P. Thieme, Ari, «Fremder», ZDMG, 117, 1957. pp.
96-104. I Ma è soprattutto nei confronti del dio
vedico, e prima ancora in¬ do-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme
rivela la sua debolezza. In virtù dell’ipotesi {ari = «lo straniero»,
qualunque sia) c del senso che ne risulta per aryó («l’ospitale»),
Aryaman non può essere che il «dio dell’ospitalità)). È così?
E ancora, sarebbe necessario che negli inni o nei rituali questa
definizione si verificasse sul suo centro, intendo dire, in occasione del
ricevimento di un ospite designato come tale. Ora, non soltanto non vi è
un testo rgvedico che riunisca il nome dell’ospite, àtithi e quello di
127 Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia,
Aryaman non è né invo¬ cato né menzionato ritualmente all’arrivo di un
visitatore. Non biso¬ gna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia
curioso, se il concet¬ to di ospitalità è stato sentito tanto importante
da essere personificato in uno dei due dèi sovrani, e nel più
considerevole dopo Varuna e Mi¬ tra, che questa origine non abbia avuto
nessuna occasione per espri¬ mersi chiaramente. Mitra, il contratto
personificato, è certo come dio molto più del contratto, ma si trovano
dei testi in cui questo legame è manifestato e sottolineato con delle
parole senza ambiguità. Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo
corrispondente avesti- co Airyaman, intervengono in circostanze che,
salvo violenza, sono irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo
due. Prima di Thieme molti vedisti avevano notato, con delle
con¬ clusioni talvolta eccessive o errate, i rapporti tra Aryaman e il
matri¬ monio. 1 testi allegati sono abbastanza numerosi". Per
piegarli alla sua tesi, Thieme è stato indotto a far loro subire dei
trattamenti poco racco¬ mandabili. In tutto il dossier vedico vi sono dei
documenti più chiari e più netti, altri più oscuri o più indeterminati.
Il metodo ordinario è d’informarsi all’inizio sui primi e con questi
chiarificare o precisare in seguito i secondi. Per il caso di Aryaman si
ha, chiara e netta in A V, 1, 60, la formula destinata a procurare un
coniuge, la descrizione che fa di Aryaman la prima strofa:
tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah asyci icchcinn
agruvai pettini utd jàyàm ajànuye «Ecco arrivare Aryaman con i
riccioli sciolti, cercando per questa fanciulla un marito e una moglie
per chi non è sposato». Non meno esplicito vi è in/l V, XIV, 1,
inno rituale del matrimo¬ nio, la strofa 17 che riguarda la giovane
donna: aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam
urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah 11 I lesti
sono riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, II 2 ,1927, pp. 74-76,
seguiti da un'interpretazione di Aryaman come «Feier», sicuramente errata. «Noi
sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze, il trovatore dei
mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da qui (= dalla tua casa
di ragazza), non da laggiù (= dalla casa coniugale)». V icino a questi
testi ve ne sono altri che riguardano ancora siala «ricerca della sposa»
che diversi episodi precisi del rituale delle noz¬ ze, nei quali Aryaman
interviene sempre, ma associato ad altri dèi e di conseguenza con un
ruolo non immediatamente identificabile. Ciò che in questi casi incerti
può orientare l’interpretazione è evidente¬ mente la descrizione e la
definizione che su di lui hanno dato i testi espliciti del dossier: egli
cerca da ambedue le parti gli elementi delle coppie coniugali e fa delle
buone alleanze matrimoniali. Thieme procede all’ inverso
cominciando dalla seconda cate¬ goria di documenti. Consacra cinque
pagine per citarli in esteso e per tradurli inserendo tra parentesi, a
favore della loro indeterminazione, la sua concezione di Aryaman («die
Gastlichkeit», «der Gott der Ga- stlichkeit», «der Gott gastlicher
Aufnahme») e in seguito, in dieci ri¬ ghe che conclude allusivamente,
pretende che ciò che dice sui testi meno determinati permetta-infine! -
di ridurre alla loro «vera» porta¬ ta questi testi la cui precisione lo
imbarazza 13 : «Von hier aus wirdes nun erst mòglich, die Verse A
V. 6.60. 1, 14.1.17, Mp. 1.5.7, die H1LLEBRANDTan die Spitze seiner
Untersu- chungdes Verhàltnisses zwischen Aryaman und E he gestellt hat,
in ih- rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen. Als einer der Genien des
Hau- shalts, der auch bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman
als «Gattenfìnder» (A V. 14, 1.17) und Ehevermittler (A V. 6.60.1)
schlechthin in Zauberspriichen genannt, die anscheinend durch die
Erwàhnung eines so vornehmen Gottes, der im R Vin der Gesellschaft des
Mitra und Varuna aufzutreten pflegt, wirken wollten.» Al di fuori
dello stesso procedimento che consiste nel masche¬ rare ciò che è chiaro
con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è ten¬ denzioso: questi
Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale del matrimonio, non
meritano alcun disprezzo c sono sicuramente 12 F„ §§ 118-124; S.
pp. 73-79. 13 F„ § 124. adatti a chiarire la funzione del dio
che essi mobilitano. Pretendere che Aryaman non vi figuri in qual ità, ma
semplicemente perché è un « gran nome» della mitologia, è una spiegazione
che generalizzata permette¬ rebbe all’esegeta di sopprimere in ogni
maniera le testimonianze im¬ barazzanti. Infine, la definizione di
Aryaman come «einer derGenien des Haushalts», è stata utilizzata, pefitio
principii, usando la libertà fornita dai testi meno determinati. Bisogna
aggiungere che alcuni di questi testi resistono al senso che si vuole
loro dare. Quando Aryaman ad esempio è pregato, ancora in un inno di
matrimonio, «di ungere (forse la novella sposa) fino alla vecchiaia» (o
«affinché ella non in¬ vecchi»)' 4 , Thieme, ricordando che «in ogni
paese del mezzogiorno» 15 il bagno di ospitalità comporta un’unzione
d’olio, traduce intrepida¬ mente: «Mòge Aryaman (als der Gotigastlicher
Aufnahme) [Dich= die Braut ] inir der Ólsalbung schmiicken; auf dass du
nicht altseist ( = inJugendschònheitglànzest)». Le giustificazioni di
questa traduzione sono leggere: suppone un aspetto non attestato del
rituale d’ospitalità e il dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un
senso inattendibile; come si può mai dire alla giovane sposa: « Che il
dio dell 'ospitalità ti unga con olio affinché tu non abbia l'aria
invecchiata »? Viceversa se si vede in Aryaman il protettore del rapporto
che si forma, è naturale che egli sia pregato di garantire alla sposa
lunga vita o vigorosa vec¬ chiaia. E non è tutto. Thieme
assimila costantemente l’ospitalità e il matrimonio, l’accoglienza che
riceve l’ospite e quella che riceve la fi¬ danzata. Ora, le due cose sono
differenti: a dispetto del riferimento a Mrs. Stevenson 16 , l’atto della
donna che entra in casa di suo marito per rimanervi, può identificarsi,
nei riti, con l’atto del visitatore che dopo essere entrato straniero se
ne andrà, benché incaricato del dovere di contraccambiare, ma sempre
straniero? L’accoglienza fatta alla futura madre può forse essere più
ospitale, nello spirito e nei riti, delle ceri- 14 RV, X, 85,
43: a nati prajath janayatu prujàpatir àjarasàya sùm
anaktv aryamù... Geldner: «Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis
zurhohcn Alicr soli nns Arya¬ man verschinelzcn». 15 Nell'India
vedica? 16 F., p. 125, n. 1. 130
monie che in seguito legalizzeranno il neonato come membro della
stessa famiglia? Se bisognasse avvicinare ad altre cose questa proce¬
dura sui generis del matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto
all’adozione che all’ospitalità? Le nostre parole «accoglienza,
Aufnahme», creano un’ambi¬ guità che senza dubbio un Indiano, non più di
un Romano, non rischia¬ va di sentire vivamente. Io resisto
particolarmente all’interpretazione datadaThiemead AV, 14,1,39-sempre
riguardo il rituale nuziale 17 : aryamnó agnini pàryetu pùsan [var.
ksiprdm] prdtiksante svasuro devaras cu. «Sie
umschreite das Feuer des Aryaman (der Gastlichkeit), o Pùsan'*, es sehen
entgegen Schwàher und Schwager.» Sono certamente meno ben informato
di Thieme sui rituali ve¬ dici: quando un ospite entrava in una casa gli
si faceva fare anche que¬ sta circumambulazione del focolare, che trova
il suo esatto corrispon¬ dente, come molti altri tratti, nel matrimonio
romano (dove ha valore di rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità
romana? Se è così m ’ inchino. Altrimenti, messa in luce dai testi
precisi sul ruolo di Arya- 17 F„ § 122. 18 Piuttosto,
secondo la variante «schnell». In S., p. 78, vi è una cantonata nella
tra¬ duzione che dopo dieci anni non so ancora se la devo attribuire a
un’ inavvertenza del mio manoscritto o delle mie correzioni delle bozze:
,f vósuro devàsra.ica è reso con «i suoceri e i cognati» invece de «i7
suocero c i cognati» il plurale della secon¬ da parola avendo determinato
meccanicamente, da me o dal tipografo, il plurale della prima. Questo
testoche sotto la protezione di Aryaman f a intervenire dopo la giovane
sposa il padree i fratelli dello sposo, prova che nel matrimonio Aryaman
si interessa a ben di piti che l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è
interessata da questo nuovo membro che le procura un’alleanza con
un’altra famiglia (cf. Aryaman qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello
stesso inno). Alla pagina 119 di S. ho commesso una svista più umiliante
ma senza conseguenze per i miei pro¬ positi, considerando svasurah di RV,
X, 28, 1 come padre della moglie (possibile nel sanscrito classico ma non
nel vedico) emettendo la strofa in bocca al marito. E l’inverso. La
moglie parla e si sorprende che il padre di suo marito non sia venuto al
festino preparalo, mentre vi.ivo... anyó arlh «ogni altro ari, tutto il
resto dell'insieme ari » (e non facendo sparire la parola essenziale
«altro», « jederunde- re, niimlichjeder ari», Thieme) è pervenuto. Il
commento che ho fatto di questo testo, per i rapporti di ari e di
.ivù.iurah, sussiste interamente a condizione che si rimpiazzi «genero»
con «nuora» (e co.si « prendere moglie» con « prendere mari¬ to » e «ha
scelto la jigliadel suocero» con «è stato scelto dai figli del suocero»).
man nel matrimonio, l’espressione «fuoco di Aryaman» per designare
eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si forma il legame mi
sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo ruolo. Sono queste le
principali ragioni per le quali non mi è possibile dedurre il ruolo di
Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione che esige l’ipotesi di
Thieme. L’Airyaman avestico è invocato ( Yasna 54, 1) per
sostenere «gli uomini e le donne di Zoroaslro» e il Buon Pensiero; è
detto dotato di forza offensiva, distruttore di ogni resistenza,
vincitore dei nemici (ibid. , 2); la preghiera che è invocata dopo di lui
è onnipotente e guari¬ trice (Yast III, 5); Aryaman stesso è l’eroe di
una scena mitica in cui questa preoccupazione di guarigione è al primo
posto: quando Angra Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le
99.999 malattie, il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la
«Formula Efficace»: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina)
si av¬ vicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che
doveva divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo
19 . Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non
tenta la scommessa ma lascia intendere che tutto questo è
un’innovazione, un uso fuori dal dominio di un dio sentito come
importante: «Man hai also von Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der
AV von A/yaman», dice lui facendo allusione alla fine del § 124 che ho
cita¬ to 20 Temo che questa sia una maniera troppo rapida per eliminare
un elemento preciso del dossier. La stessa cosa avviene per altri aspetti
di Aryaman e per i suoi rapporti con le strade, ad esempio,
strumento utile di comunicazione sociale 21 : ci si riferisca all’analisi
del mio Troi- sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente per far
capire che Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità.
Infatti nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei
matrimo¬ ni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di
un gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche
il matrimonio siano possibili. 19 F. § 126-128; S„
81-83. 20 V. qui sopra n. 13. 21 S., p. 141-149. Per il
trattamento insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F., vedi S., p.
137-139. 132 L’Airyaman iranico protegge in una
maniera più ampia e fino alla sanità l’insieme di uomini e donne della
«buona società», definita dopo la riforma zoroastriana solamente in base
alla religione e non alla nazionalità. Bisogna dunque che il
concetto di arya - nel nome di Aryaman sia altra cosa rispetto a quello
detto da Thieme: minore in estensione, poiché il matrimonio non è
possibile con alcun ospite, ma più ricco in comprensione, poiché oltre
all’ospitalità comporta altre forme di lega¬ mi e in special modo
l’attitudine a contrarre il matrimonio. Si è così costretti a introdurre
in questo arya-e quindi in ari, un valore di nazio¬ nalità.
II Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto [in
S p. 113-127] (Icariano», collettivamente o genericamente), rende
conto di tutti i derivati e si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi
ai quali si adattava il valore generale («der Fremde, der Fremdling») di
Thieme, rende inoltre conto di un testo che resisteva a quest’ultimo. Il
dossier di ari contiene in effetti almeno un testo che direttamente
impone una traduzione limitata e mi sorprende che Thieme non l’abbia
riconside¬ rato nella difesa che mi oppone. Questo è RV, IX, 79, 3:
uta svàsyd ardtyd arir hi sa utdnydsyd ardtyd vrko hi
sah La costruzione e il senso sono limpidi:
«[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.
[Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo.» Questi
versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti equivalenti, quattro
termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono di conseguenza
un’eccellente equazione per determinare l’incognita, ari : vi è
l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è proprio,
imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, este¬ riore,
straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo
che merita di essere chiamato lupo poiché il suo comporta¬ mento è
selvatico. Così ariè. precisato negativamente come un tipo di nemico
distinto da questo nemico selvaggio ed esterno che è posto al di fuori
del gruppo i cui membri sono degli svà\ positivamente ari è definito come
intemo a questo gruppo. La traduzione e il commentario fatto da Thieme a
questo passaggio devono essere citati per intero 12 : «/ Schutze]
vor eigener, voranderer (i.e. vorjeglicher) arati; sie (oder: das, was
die arati ist) istjaderFremdling (der den Frieden be- droht), sie istja
der Wolf... ». Ich habe in der Ubersetzung vonab au/Nachahmung der
Spre- izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja sehr wohl
nurstili- stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in
Abrede stel- len, dass wir zu sagen hdtten: «vor eigener arati- sie ist
ja ein Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor
an- derer drdti-sie istja ein Wolf». La prima
interpretazione, quella che l’autore preferisce poiché sopprime le
difficoltà, fa una violenza inammissibile all’ordine e al rapporto delle
parole: mantiene come tale una delle due opposizioni equivalenti ma
sopprime l’altra volgendola in solidarietà; riducear/e vrka a un’unità
(non essendo vrka che un rinforzo del «cattivo» ari) di cui svà e anyà
sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali diritti. La
seconda interpretazione orienta l'opposizione tra svà e anyà in un senso
che non è il suo: svà non si applica a ciò che è presso me temporalmente
e accidentalmente senza essere a me, ma segna un le¬ game permanente ed
essenziale con me. In più, questa traduzione sup¬ pone, dalla parte
àeW'ari nemico, un comportamento speciale, quello dell’ospite che una
volta ricevuto in casa si comporta male e « minaccia la pace » come dice
Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma questi rischi si
realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del RV vi fa allusione:
sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di una preghiera e che, in
questa preghiera, fossero messi sullo stesso 32 P. 27, già II,
1956, p. 109. Se, come io penso, ari ha già il valore etnico («ariano»),
si concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella
di¬ rezione «élite», «capo», etc. 134
piano, in contrapposizione, i rischi costanti che fa correre il vrka
bar¬ baro e brigante. Questo testo è dunque decisivo contro
il senso troppo esteso di ari e impone un senso ristretto. Nei suoi
Etudes védiques et pàninéen- nes. III (1957), L. Renou mi sembra abbia
ben riassunto l’insegna¬ mento del testo nella formula: «.vrka il nemico
straniero, ari il nemico interno». Questo delimita ari, sia il buono che
il cattivo: amico, ospite, sposabile, correligionario, rivale, nemico,
Vari porta alla considera¬ zione di chi lo menziona, la nota svà, che
esclude la nota anyà n . Ili Mitra and Aryaman è in
gran parte un pamphlet contro di me: fornisco perfino il titolo di un
capitolo. Mi limiterò qui ad alcune os¬ servazioni che faranno vedere a
quale livello si situa il dibattito. Prima di entrare nella
materia, e per togliere ogni credito ai miei argomenti, Thieme incomincia
a dimostrare, secondo tre punti, che io commetto molteplici e grossolani
errori di grammatica utilizzando gli inni vedici. Lo credo volentieri, ma
vediamo che cosa mi rimprovera (pp. 12-16): a) Io
tratto dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in cui si
incontra la sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi sovra¬
ni, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a causa di un verbo o un aggettivo
che sono appunto al duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman in un
solo personaggio mitico che chiama «Freund, Gasljreund» (nel 1938) e che
ora preferisce chiamare «The contract (God Contract) which is hospitality
(God Hospitality )». È nel riconoscere questo mo¬ stro, di cui non vi
sono altre tracce nella letteratura vedica, che mi sono rifiutato, nel
1949 (S., pp. 42-47). Non ho cambiato parere: è inverosi- 33
Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono altre ragioni) per fare
scar¬ tare il paragone etimologico con diana (l'opposto di svà) che è stato
portato in ap¬ poggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, «Zur Bedeutung
des Ariernamens», KZ, 68, 1941, pp. 42-52. D’altra parte, il fatto che
RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere ùryi'ih pùrasyàntarasya lùrusah, «il
vincitore dell'un lontano e vicino» dimostra che lo svà di IX, 79, 3 non
deve essere compreso in un senso stretto né senza dub¬ bio locale. Il
concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia con¬
dizione: Vari per «un» ariano è sia svà che para. 135
mile che in questi due soli passaggi la triade ceda il posto a una
coppia «Varuna e Varyamàn Mitra» o a «Varuna e il mitra Aryaman».
Uno di questi testi è RV, V, 67, 1: varuna mitrdryaman vdrsistham
ksatrdm àsiithe, «o Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi avete ot¬ tenuto la più
alta sovranità». Perché si dice che il verbo è al duale? Il poeta vuole
sottolineare la stretta affinità di Mitra e Aryaman (che è fondamentale
come spesso ho detto) nei confronti di Varuna, di modo che si debba
tradurre «o Varuna, o Mitra e Aryaman»? Non lo so, ma la soluzione meno accettabile
è di fondere in un solo essere Mitra e Aryaman, poiché la strofa 3 dello
stesso inno enumera nuovamente i tre dèi al nominativo e questa volta con
due aggettivi e due verbi che sono correttamente al plurale. Noto che K.
Geldner comprende come me: «ihr habt die hòchste Herrschaft erreicht,
Varuna, Mitra, A rya- man» - i tre vocativi essendo esattamente
paralleli, come Thieme mi rimprovera di avere detto. L'altro
testo è RV, Vili, 26, 11 : vaiyasvdsya srutam narotó me asya
vedathah/sajósasd varuna mitrò aryamd. La prima parte non è ambigua:
«Ascoltate, o voi due eroi (= gli Asvin) [la parola] di Vai- yasva e
conoscete questa [parola] mia». La seconda è meno chiara, un aggettivo al
duale (sajósusà, «in accordo») precede i tre nomi di¬ vini.
Geldner risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a ciò che
segue, ma come attributo a ciò che precede, ai due Asvin: « Horet aufden
Vyasvasohn, ihrHerren, und seid meiner hier ein^edenk, ein- miitig, (und
mit euch) Varuna Mitra Aryaman». Non so se ha ragione o se si può trovare
una giustificazione più sottile, ma come lui penso che gli dèi
dell’ultimo verso, qui come altrove, siano ire. b) Tratto dei
plurali come dei duali. Si tratta di RV, III, 54, 18, aryamd no dditir
yajmydsah, «Aryaman, Aditi [sono] degni (plurale e non duale!) dei nostri
sacrifici, dobbiamo sacrificare ad Aryaman, ad Aditi». Thieme consentirà
forse a credere che ho consultato la tradu¬ zione di Geldner: «.Aryaman,
Aditi sind uns anbetun^swert», con la nota corrispondente: « Den Plur.
yajnfyàsah, weil der Dichter an die iibriffen Àditya ’sdenkt». Ma ciò che
più m’interessava perii mio argo¬ mento (S., p. 68) è che in questo lesto
della «terza funzione» (la fine della strofa domanda abbondanza di
bestiame e di bambini), il gruppo degli dèi sovrani distacca, in qualche
modo come i suoi soli delegati espliciti, la loro madre e Axyaman.
Non prevedendo Thieme non ho preso la precauzione di ripetere in termini
di grammatica una precisa¬ zione che ogni vedista conosce. Il mio
commento si è limitato a dire: «Sembrerebbe che ancora qui sia
l’iniziativa di Aryaman che orienta l'azione collettiva degli Àditya
verso questa grazia speciale». Non è abbastanza chiaro? c)
Tratto un singolare come un duale. Si tratta del lapsus segna¬ lato più
sopra (n. 18) che, in A V, XIV, 1, 39 (S, p. 78, 1.8 e 11 ) mi ha fatto
scrivere e non mi ha fatto correggere «i suoceri» invece del «suo¬ cero»,
come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io abbia pensato
ai «due suoceri». Mi reputa così ignorante da poter cre¬ dere che io
abbia preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o, per un
nominativo duale? La stessa parola, sotto la stessa forma non è forse
correttamente tradotta la seconda volta che la si incontra (S, v. 1
19)? La spiegazione che mi parrebbe più plausibile è che, essendo poco
leggibile il mio manoscritto, il compositore abbia congetturato i
«suoceri» secondo i «cognati» che seguono immediatamente, o che
meccanicamente abbia messo allo stesso numero queste due parole così
analoghe [pères e frères nel testo. N.d.T.]. Può anche darsi che il
lapsus risalga al mio manoscritto. Mi dispiace molto ad ogni modo che
nella sovrabbondanza di correzioni che ho dovuto fare sulle bozze quello
mi sia scappato e che l’errore mi sia saltato agli occhi solamente
qualche mese dopo la pubblicazione. È in maniera sleale che Thieme
orchestra questo scandalo in due pagine e anche il mio errore su
svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito. Nondimeno Thieme
dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio argomento la menzione
del suocero e dei cognati (della moglie) in A V, XIV, 1,39 e quella del
suocero {della moglie) opposti al «resto dell’ari» in X, 28, 1
conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è stato mostrato qui
sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel matrimo¬ nio, non
si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti per l’alleanza che
la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa ammessa da Thieme nel
1957; Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si com¬ piono all’interno
dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida «all’in¬ terpretazione errata!»
per mascherare il gioco di prestigio altrimenti grave fatto da lui stesso
all’insegnamento di tutti i testi che stabilisco- 137
no il vero ruolo di Aryaman nel matrimonio (vedi sopra 1 )'. Il libro è
in seguito infiorito di notae censoriae. Alcune mi sono sembrate
giuste ed utili e ne terrò conto, senza che nessuna cambi niente alle
figure e ai rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna dirlo, un puro bluff
poiché Thieme denuncia come antigrammaticale, errata o sprovvista di
sen¬ so, una traduzione possibile ma che non ha il suo favore 2 ,
caricaturan¬ do le mie esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni
peravere un motivo di risentimento in più 4 , etc. etc. 1
L’obiettivo di questo triplo assalto grammaticale si scopre a pagina 17:
«IJ'eel il my duty to warn especially Lutinists, who cannai be expecled
lo judge on thè me¬ riti of Dumez.il' s indological araumenti, agama
trusting hispresentation oflhe Jacts oJ'Vedic religion loo confidently,
andagainst believing ihal only his "expla- naiions" need be
discussed». Non ho questa pretesa. Domando solo senza grandi speranze che
latinisti o indologi, di St. Andrews o di Yale, che vogliano discuter¬ mi
lo facciano lealmente. 2 P.es.,pp. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 :
/?V, X. 136,3;p. 62: RV, X, 89,9; ctc. p. 67, in RV VII, 82, 5, Thieme
rende correttamente duvasyatil Ha sicuramente ragione, ad ogni modo, a
rimproverarmi la riga di S., p. 40 («Mitra offre dei sacrifici a Va¬
nirla), in cui ho esagerato la frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La
religion védique, III, p. 138: «In un passaggio in cui né Mitra né Varuna
sono del resto esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al
secondo come il sacer¬ dote al dio che onora»): duvasyati significa sempl
icementc «rendere gli onori do¬ vuti»; bisogna correggere in que.slo
senso Les dieux des Indoeuropéens, p. 42, 1.27: in RV, VII, 82, 5, Mitra
non è come un sacerdote di Varuna. 3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che
ho detto dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra- Varuna',
1948, pp. 79-83, non è compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho
semplicemente utilizzato i progressi che, dal suo articolo del 1907, i
sociologi hanno fatto compiere alla teoria del contratto presso i popoli
semi-civilizzati. Allo stesso modo, p. 82, la mia concezione dei rapporti
tra i diversi dèi sovrani si è de¬ formata: che si confronti il capitolo
II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia dei nomi divini (Varuna,
Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo quando è evidente
(Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses latineset mythes
védiques, 1956, p. 117): qualunque sia quella di Varuna (e non credo mol¬
to a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente,
l’insieme del suo comportamento e il suo rapporto con le altre figure
divine: un dio non c prigioniero del suo nome. 4 P. es., p.
74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e
136, a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà
facilmente che essa non esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo
così futilmente in contraddizione. P. 86, n. 60, sono accusato per due
parole di «mislranslations, wich might have been avoided by looking up
thè PW or any other good dictionary » ; Thieme vorrà rifarsi a A.B.
Keith, HOS XVIII, p. 167-168, di cui ho adottato la traduzione (e vi sono
ragioni per preferire questa interpretazione a quella di Thieme). P. 9;
Thieme non tiene conto della differenza d’intenzione tra Mitra-Varuna e
Le Troisième Souverain. A dispetto del suo titolo in¬ diano il primo
libro non tratta un soggetto indiano 1 ; si propone di di¬ mostrare che
presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e fra i Germa¬ ni in special
modo, esistevano delle coppie di dèi o di eroi della prima funzione la
cui articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne ha scoperto per
Mitra e Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano con una campionatura
abbondante. Non avevo dunqueintenzione di stabi¬ lire «gli insegnamenti
degli inni stessi» e dei Bràhmana - che altri (dopo Bergaigne e H.
Glintert) avevano sufficientemente stabilito. In Le Troisième Souverain,
al contrario, con Aryaman abbordavo un pro¬ blema specificatamente
indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovu¬ to riprendere tutti i
testi, discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da scrivere sul mio
libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di essere e di
rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei soggetti, a
dei bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della materia hanno
corrisposto dei procedimenti differenti. Quanto alle tesi stesse di
Thieme, le esaminerò nella Revue de l'Histoire des Religions e mi
sforzerò di rispondere con un’argomen¬ tazione serena a questa scherma da
gladiatore. Enumererò gli apporti positivi poiché ve ne sono. E
dimostrerò come sotto le apparenze del rigore filologico Thieme
misconosca costantemente le prospettive, ignori i dati statistici più
evidenti e distrugga i rapporti più probabili e sulla via così sgombra si
avanzi con una sovrana fantasia verso le pagi¬ ne sorprendenti che
terminano il suo libro. In attesa, a coloro che sarebbero
impressionati da questo mec¬ canismo, non posso che consigliare di
rileggere, circa i grandi Àditya, l’ammirevole esposizione di Abel
Bergaigne, certamente vecchia su molti punti, ma attenta sia al dettaglio
dei testi che alle strutture del pensiero, onesta e intelligente.
I J.C. Tavadia si era inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più
leale riparazione. L’editoria
italiana ha accolto con favori e fortune alterne l’opera di un autore
tanto discusso, controverso e innovativo, quale fu Georges Dumézil,
persona acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non di rado
pungente ma sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano che
l’inchiesta scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre
che ai colleghi che accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore
nostrano troverà di piacevo¬ le lettura la traduzione della intervista
francese: Un banchetto dì immortalità. Conversazioni con Didier Eribon ,
Guanda, Milano 1992. Spetta alle Einaudi l’esordio di Georges
Dumézil nel panorama edito¬ riale del nostro dopoguerra, all’intemo di
quella “collana viola” che non sen¬ za travaglio di intelletti e di
coscienze (si legga il carteggio C. Pavese - E. de Martino, La collana
viola. Lettere Bollati Boringhieri, Torino a c. di P. Angelini) ha
contribuito a diffondere autori importanti come C.G. Jung, K. Kerény,L.
Frobenius, G. van derLeeuw, M. Eliade. Il libro Ju- piter, Mars,
Quirinus, Torino 1955, è una traduzione di parti dell’originale, più
capitoli di altri volumi come Naissance de Rome, Naissance d'Archanges, e
Jupiter, Mars, Quirinus IV, 1948. Il catalogo della Ei¬ naudi ritornerà
solo tardivamente, nel decennio degli ’80, a rioccuparsi di Dumézil,
traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata, 1982 (= Mythe et epopee f)
e Gli dei sovrani degli Indoeuropei, 1986. Spetta alla Adelphi
(Milano) la maggiore percentuale di libri tradotti, a cominciare dalla
raccolta di storie e leggende del Caucaso: // libro degli Eroi. Leggende
sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili economici della Bompiani, Milano
1976), fino a Gli dèi dei Germani, 1974; Matrimoni Indo¬ europei, 1984;
Le sortì del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso gli Indoeuropei,
1990 (una prima traduzione di questo libro, condotta sulla precedente
edizione di Hetir etmalheur duguerrier, 1969, si deve ai tipi della
Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura del guerriero,Tonno 1974). E
infi¬ ne bisogna ricordare anche «...Il monaco nero in grigio dentro
Varennes», 141 1987 che è però un
divertissement enigmistico-letterario sulle profezie di
Nostradamus. Il catalogo della Rizzoli (Milano) si è arricchito di
due opere importanti e poderose, oggi purtroppo introvabili, come La religione
romana arca¬ ica, 1977 eStorie degli Sciti, 1980; mentre II Melangolo
(Genova) ha tradotto due volumi quali Idee romane, 1987 e Feste romane,
1989. Recentemente le edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto La saga
di Hadingus. Dal mito al romanzo. Fra le poche opere italiane su questo
autore ricordiamo Rivière, Dumézil
egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per una
bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil cf. la rivista Futuro
presente 2/1993 diretta da Alessandro Campi (numero monografico “Georges
Dumézil e l’eredità indo-europea”): oltre a un dibatti¬ to su Dumézil in
base alle aree storico-geografiche consuete nella sua ricerca (Roma,
Indo-Iranici, Caucaso, Germani), vi è un interessante articolo di Grisward
sulle persistenze del modello trifunzionale nella società medioeva¬ le -
suddivisione in oratores, bellatores, laboralores - e la traduzione di un
ar¬ ticolo di Dumézil in risposta alle critiche di una versione francese
di un saggio di Ginzburg (“Mitologia germanica e Nazismo”, apparso su
Quaderni Storici, ristampato in Id., Miti, emblemi, spie, Einaudi,
Torino) su un argomento, le presunte simpatie per la cultura nazista, già
affrontato da A. Momigliano, Rivista storica italiana. Sulle implicazioni
politiche e razzistiche degli studi indoeuropei cf. A. Piras,
“Georges-Dumézil e iproblemi dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni di Ava/lon
e “Indoeuropeistica e cultura europea”, in L 'Europa di fronte
all'Occidente, Il Cerchio, Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni
sociali, religiose, economi¬ che, amministrative, giuridiche, delle
diverse culture parlanti idiomi indoeu¬ ropei, cf. E. Benveniste, //
vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I-II, Ei¬ naudi, Torino 1979
(e più edizioni); si veda anche E. Campanile, “Antichità indoeuropee”, in
A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue indoeu¬ ropee, Il
Mulino, Bologna 1993, pp. 19-43 e J. Ries (a c. di), L 'uomo indoeu¬
ropeo e il sacro, Jaca Book-Massimo, Milano 1991. Un argomento
dibattuto da decenni come la nozione di “lingua poe¬ tica indoeuropea”
(che consente di rintracciare nelle diverse letterature - Edda, Beomtlf,
poemi omerici. Veda, Avesta - elementi di una fraseologia co¬ mune ed
ereditaria) è stato di recente affrontato in un libro eccellente di G.
Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea, Leo Olschki, Firenze. Ries
La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo L’opera magistrale
di Dumézil. Le tre funzioni sociali e
cosmiche. Le teologie tripartite. Le diverse funzioni nella teologia,
nella mitologia e nell 'epopea Storia degli Studi. Aryaman e
Paul Thieme Bibliografia italiana di Dumézil. Emanuele Castrucci. Castrucci.
Keywords: sul conferimento di valore, il
guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica,
l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica.; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Catalfamo: all’isola --
l’implicatura conversazionale e la metafisica della libertà – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “I
love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than anything that
soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’! Catalfamo, like most
Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the concept of a ‘person’
seriously – indeed, so seriously that he, along with a few other Italian
philosopher, turn it into an –ism: his is a critical personalism, though, best
defined as an expansion from scepsis to hope. Della corrente del
"personalismo storico o critico".
Si laurea in Pedagogia e in Scienze Politiche. Prima assistente
volontario di Galvano Della Volpe (che definisce unico filosofo a livello di
Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era formato alla scuola di Gentile,
del quale era stato assistente), e suo collaboratore dal 1946, diviene libero
docente, incaricato di Pedagogia e infine ordinario di Pedagogia. Fonda e
diviene direttore dell'Istituto di Pedagogia all'Messina. Il suo pensiero si snoda in quattro fasi:
dell'epistemologo, del personalista storico ed antidogmatico, dello scettico,
dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu Assistente di ruolo di
Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi", fondata dai suo maestro
La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico, concepito, e nel tempo
modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione anche didattica. Nel
suo personalismo, che ha come principi critici la storicità, la trascendenza e
la problematicità "egli rintraccia nuovi aspetti... e incomincia a fare i
conti con la storia e le sue fenomenologie", " il personalismo...
lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come «storico»; la persona assume
una significanza fenomenologica di unità... in costruzione",
"Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona al flusso della
realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e stimolazione di questa
verso quella e della trasformazione della realtà oggettiva ad opera della
persona". "L'uomo come soggetto agente impedisce che l'esperienza sia
un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in essa quello che non è e quello che
potenzialmente è. La persona, dunque, è una realtà trascendente".
L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa riferimento alla
"posizione stessa della persona, la quale, costituita nell'esperienza, è
radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo per la persona è
sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel mondo". Catalfamo è stato fondatore e direttore della
rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta; fondatore e
direttore di "Prospettive pedagogiche". Prorettore dell'Messina. Gli
è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la Medaglia d'oro al merito
della Scuola, della Cultura, dell'Arte. La Giunta del Comune di Messina gli ha
intitolato un tratto di strada nei pressi dell'Università, all'Annunziata alta.
Più recentemente, a Messina, si è tenuta una solenne cerimonia, nel corso della
quale è stata scoperta una targa commemorativa, che riporta una sua rilevante
riflessione, e gli è stato intitolato un Istituto Comprensivo. Altre opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed.
Messina Empirismo pedagogico e filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2
Pedagogia e Filosofia, "Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano
Marxismo e Pedagogia, Avio, Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una
pedagogia personalistica, Sessa, Messina Personalismo pedagogico, Armando, Roma
La pedagogia contemporanea e il personalismo, Armando, Roma L'educazione
fondamentale, Armando, Roma I fondamenti del personalismo pedagogico, Armando,
Roma La pedagogia dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina
Elementi di psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente,
Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze
Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad
Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo
Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in
collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La
filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina
Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione co Vitetta),
Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento (in
collaborazione con Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo spiritualismo
pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età evolutiva (in
collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma Ideologia e
pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS, Messina
L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della socializzazione, Peloritana,
Messina Le illusioni della pedagogia, Milella, Lecce Fondamenti di una pedagogia
della speranza,La Scuola, Brescia L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini
Editore, Cosenza Educazione della persona e socializzazione, EDAS, Messina
Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento, Catalfamo e il personalismo critico.
"Nuove Ipotesi" D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo Catalfamo,
Accademia Peloritana dei Pericolanti. Di qui ap- punto si può
anticipatamente scorgere, che le dif- ficoltà più profonde incluse nel
concetto di liberta, si potranno risolvere coll’ idealismo in sè
preso, tanto poco quanto con qualunque altro sistema parziale. L’
idealismo invero porge, della libertà, da un lato il concetto più
generale, dall’altro quello meramente formale. Ma il concetto reale
’e vivente è, che essa consista in una facoltà del bene e del
male. Questo è il punto della difficoltà più grave, che, in
tutta la dottrina della libertà, è stata da lungo tempo avvertita, e che
tocca, non solo questo o quel sistema, bensì, più o meno, tutti 1 : nel
modo più spiccato di cerio il concetto dell’immanenza; poiché, o si
ammette un male reale, e allora è inevitabile collocare il male nell’
infinita sostanza o nell’ originario volere stesso, con che si
distrugge interamente il concetto di un essere perfettissimo; o
bisogna negare in qualche maniera la realtà del male, e con ciò svanisce
insieme il concetto reale di libertà. Non minore è l’intoppo, anche se
inten- diamo nel modo più esteso la relazione tra Dio e gli esseri
mondani; poiché, dato pure che essa venga limitata al cosiddetto
concursus, o a quella necessaria cooperazione di Dio all’ agire delle
crea- ture, che dev’ esser accettata grazie alla essenziale
dipendenza loro da Dio, anche se vuoisi del resto affermare la libertà:
in tal caso però Dio apparirà innegabilmente come cooperatore del male,
giac- ché il permetterlo in un essere in tutto e per tutto
dipendente non vai meglio che il contribuire a produrlo; o anche qui, in
un modo o nell’altro, dovrà esser negata la realtà del male. La
propo- sizione, che tutto il positivo della creatura venga da Dio,
anche in questo sistema dev’essere affer- mata. Ora, se si ammette che
nel male vi sia al- Schlegel ha il merito di aver fatto valere
questa difficoltà specialmente contro il panteismo nel suo scritto sugl’
Indiani e in parecchi luoghi; ma è a deplorare soltanto che quest’ acuto
erudito non abbia creduto oppor- tuno comunicare la sua propria veduta
sull’ origine del male c sul suo rapporto col bene. cunchè di
positivo, anche questo positivo deriverà da Dio. Qui si potrà opporre: il
positivo del male, in quanto positivo, è bene. Con ciò il male non
viene a sparire, benché non venga neppure spie- gato Infatti, se ciò che
nel male sussiste' è bene, donde mai nasce ciò, in cui questo sussistente
è, la base, che forma propriamente il male? Tutta diversa da
quest’affermazione (sebbene spesso, anche di recente, confusa con la
prima) è 1’ altra, che nel male, in ogni caso, non vi sia nulla di
positivo, o, per usare un’espressione diversa, che esso non esista
affatto ( neppure con e in un altro elemento positivo), ma che tutte le
azioni siano più o meno positive, e che la differenza tra loro
consista in un semplice plus o minus di perfezione, con che non si
stabilisce alcuna opposizione, e però il male svanisce interamente.
Sarebbe questa la seconda possibile ipotesi in rapporto alla propo-
sizione, che tutto il positivo scaturisca da Dio. Allora la forza, che si
mostra nel male, sarebbe sì, al paragone, più imperfetta di quella che
appare nel bene, ma, considerata in sé, o fuori del para- gone,
sarebbe una perfezione pur sempre, la quale dunque, come ogni altra, dev’
esser derivata da Dio. Ciò che noi in tal caso chiamiamo un male, è
solo il minor grado di perfezione, il quale però solo per il nostro
bisogno di comparazione appare come difetto, mentre nella natura non è
punto. Che questa sia la vera opinione di Spinoza, non è possibile
negare. Qualcuno potrebbe tentare di sfuggire a quel dilemma,
rispondendo: che il positivo derivante da Dio sarebbe la libertà,
la quale è in se stessa indifferente verso il male e il bene. Ma,
se egli concepisce questa indifferenza, non in modo puramente negativo,
bensì come una 1 Nel testo: « Seietide. » vivente e
positiva facoltà di determinarsi al bene e al male, non si vede come da
Dio, che vien considerato come pura bontà, possa mai seguire una
facoltà di eleggere il male. È evidente da ciò, per dirla di passaggio,
che, se la libertà è real- mente quel che in conformità di questo
concetto deve essere (ed è immancabilmente), non si può essa
giustificare con la già tentata derivazione della libertà da Dio; poiché,
se la libertà è un potere di far il male, essa dovrà avere una
radice indipendente da Dio. Così incalzati, si può esser tentati di
gettarsi in braccio al dualismo. Ma questo sistema, se dev’ esser
concepito effettivamente come la dottrina di due principii opposti e tra
loro indi- pendenti, non è se non un sistema del suicidio e dello
sconforto della ragione. Se poi il principio cattivo è pensato come
dipendente in un certo senso dal buono, tutta la difficoltà della
deriva- zione del male dal bene è certo concentrata in un solo
essere, ma viene così ad essere accresciuta anziché diminuita. Anche
supponendo che questo secondo essere fu dapprincipio creato buono e
per propria colpa si staccò dall'essere originario, resta sempre
inesplicabile in tutti i sistemi, che si son avuti finora, la prima
facoltà di un atto di ribel- lione a Dio. Perciò, anche se noi finiamo
col sopprimere, non solamente l’identità, ma ogni le- game degli
esseri mondani con Dio, considerando la loro esistenza attuale e quella
del mondo con essa come un allontanamento da Dio, la diffi- coltà è
solo spostata di un punto, ma non tolta. Infatti, per potere scaturire da
Dio, essi dovevano già esistere in un certo modo, e non si potrebbe
menomamente opporre al panteismo la dottrina dell’emanazione,
presupponendo essa un’originaria esistenza delle cose in Dio e quindi
naturalmente il panteismo. A spiegare quell’ allontanamento, si
potrebbe solo addurre quanto segue. O esso è involontario da parte
delle cose, ma non da parte di Dio: e allora, siccome esse da Dio furono
get- tate nello stato d’ infelicità e di malizia, Dio è 1’ autore
di un tale stato. O è involontario da ambe le parti, cagionato forse da
esuberanza dell’ essere, come alcuni affermano: rappresentazione
insoste- nibile affatto. O è volontario da parte delle cose, uno
svellersi da Dio, dunque la conseguenza di una colpa, alla quale segue
una sempre pivi pro- fonda caduta: e allora questa prima colpa è
già per se stessa il male, e non dà alcuna spiega- zione dell’
origine di esso. Senza un tale espe- diente poi, che, se spiega il male
nel mondo, estingue viceversa, e interamente, il bene, e invece del
panteismo introduce un pandenionismo, sva- nisce precisamente nel sistema
dell’ emanazione ogni proprio contrasto di bene e male; il Primo,
si perde per infiniti gradi intermedii, mediante un graduale attenuarsi,
in ciò che non ha più alcuna parvenza di bene, suppergiù allo stesso modo
in cui Plotino, 1 con sottigliezza bensì, ma senza lasciar
appagati, descrive il transito del bene ori- ginario nella materia e nel
male. Invero, da un costante processo di subordinazione e di
allonta- namento, vien fuori un Ultimo, di là dal quale il divenire
è impossibile, e questo appunto (ciò che è incapace di produrre
ulteriormente) è il male. Ovvero: se qualche cosa è dopo il Primo, dev’
es- serci anche un Ultimo, che del Primo non ha più nulla in sè, e
questo è la materia e la necessità del male. Dopo tali
considerazioni, non sembra giusto rovesciare tutto il peso di questa
difficoltà su di un solo sistema, specialmente se ciò che di più
alto si pretende di opporgli, è così poco soddi- 1 Ennead. I. L.
Vili, c. 8. sfacente. Anche le generalità dell’ idealismo
non ci possono dare qui alcun aiuto. Con dei concetti lambiccati di
Dio, come /’ actus purissimùs, del genere di quelli che stabiliva la
filosofia antica, o di quelli, che la moderna cava fuori pur
sempre, con la preoccupazione di tenere Dio a gran di- stanza dall’
intiera natura, non si riesce a nulla di nulla. Dio è qualcosa di più
reale che un sem- plice ordinamento morale del cosmo, ed ha in sè
ben altre e ben più vive forze motrici di quelle che P arida sottigliezza
degl’ idealisti astratti gli attribuisce. L’orrore per ogni realtà, quasi
che lo spirituale possa contaminarsi in ogni contatto con essa,
deve naturalmente produrre anche la cecità per l’origine del male.
L’idealismo, se non ha per base un realismo vivente, diviene un sistema
altret- tanto vuoto e lambiccato, quanto il leibniziano, lo
spinoziano, o qualunque altro sistema dogmatico. Tutta la nuova filosofia
europea dal suo principio (con Descartes) ha questo comune difetto, che
la natura non esiste per essa, e che le manca un vivo fondamento.
Il realismo dello Spinoza è per- tanto così astratto, come l’idealismo
del Leibniz. L’idealismo è l’anima della filosofia; il realismo n’
è il corpo; solo tutti e due insieme fanno un tutto vivente. Il secondo
non può mai offrire il principio, ma bisogna che sia la base ed il
mezzo, in cui quello si realizza, prendendo carne esangue. Se ad
una filosofia manca questo fondamento vivo, il che d’ ordinario è segno
che anche il principio idea'e aveva originariamente in essa una
debole efficacia: essa verrà a perdersi in quei sistemi, i cui
distillati concetti di aseità, modificazioni ecc. stanno nel più acuto
contrasto con la forza vitale e la pienezza della realtà. Dove poi il
principio ideale è fornito davvero e in alta misura di forza
operativa, ma non può trovare una base di conci- liazione e di
mediazione, produrrà un torbido e selvaggio entusiasmo, che finirà nella
macerazione di se stessi, o, come accadeva ai sacerdoti della dea
Frigia, nell’ evirazione, la quale in filosofia si compie abbandonando la
ragione e la scienza. È parso necessario incominciare questo
trattato con la giustificazione di concetti essenziali, che da
lungo tempo, ma in particolare ultimamente, sono stati ingarbugliati. Le
osservazioni fatte si- nora debbono perciò considerarsi come
semplice introduzione alla nostra indagine vera e propria. Noi
l’abbiamo già dichiarato: solo con i prin- cipii d: una vera filosofia
della natura si può svolgere quella veduta, che dà completa
soddisfa zione al tema che ci proponiamo. Noi non ne- ghiamo perciò
che una tale esatta veduta sia stata già da lungo tempo anticipata da
alcuni intelletti. Ma erano anch’ essi appunto quelli, che senza te-
mere gli epiteti ingiuriosi di materialismo, pantei- smo ecc., usuali da
un pezzo contro ogni filosofia realistica, cercavano il principio vivente
della na- tura, e, in contrapposto ai dogmatici ed agl’idea- listi
astratti, che li respingevano come mistici, erano filosofi naturali
(nell’ uno e nell’altro senso). La filosofia naturale dei nostri
tempi ha per la pri- ma volta introdotta nella scienza la distinzione
tra l’essere, in quanto esiste, e l’essere, in quanto è semplice
fondamento di esistenza. Tale distin- zione è vecchia quanto la prima
esposizione scien- tifica di essa. 1 Nonostante che proprio in
questo punto essa diverga nel modo più reciso dalla via di Spinoza,
pure in Oermania si è poiuto fin adesso affermare che i suoi principii
metafisici siano tut- t’uno con quelli di Spinoza; e sebbene quella
distin- zione appunto porti nello stesso tempo la più recisa
1 Si veda nella Zeitschrift tur spekul. Physik Bd. II, Heft 2, § 54 nota,
[IV, S. 146], inoltre nota 1 al § 93 e la spiegaz. a p. 114 [S.
203). distinzione della natura da Dio, ciò non ha im- pedito che la
si accusasse di confondere Dio con la natura. Poiché sulla medesima
distinzione si fonda la presente ricerca, sia detto quanto segue a
fine d’ illustrarla. Non esistendo nulla prima o fuori di Dio,
con- viene che egli abbia in se stesso il fondamento della sua
esistenza. Cosi dicono tutti i filosofi; ma essi parlano di questo
fondamento come di un puro concetto, senza farne alcunché di reale e
di effettivo. Questo fondamento della sua esistenza, che Dio ha in
sé, non è Dio assolutamente con- siderato, cioè in quanto esiste; poiché
esso non è se non il fondamento della sua esistenza, esso è la
natura in Dio; un essere inseparabile, è vero, ma pur distinto da lui.
Questo rapporto si può chiarire analogicamente con quello tra la
forza di gravità e la luce nella natura. La forza di gravità precede la
luce, come suo eternamente oscuro fondamento, il quale per se stesso non
è actu e si dilegua nella notte, mentre la luce (l’esistente)
sorge. 11 suggello, sotto cui essa è chiusa, non è sciolto interamente
neppur dalla luce. ' Appunto perciò essa non è nè l’ essenza pura
nè l’essere attuale dell’ assoluta identità, ma non fa se non seguire
dalla sua natura;* * o essa è, considerata in altri termini nella potenza
deter- minata: poiché del resto, anche ciò, che relati- vamente
alla forza di gravità appare come esistente, in se stesso poi appartiene
al fondamento, e la natura in genere è pertanto ciò che rimane di
là dall’essere assoluto dall’identità assoluta. 3 Per quanto del
resto concerne quella precedenza, essa non è a concepirsi nè come
precedenza di tempo, nè come priorità di essenza. Nel circolo, da
cui ogni cosa deriva, non v’ è alcuna contradizione ad ammettere
che ciò, da cui 1’ Uno è prodotto, sia alla sua volta prodotto da esso.
Non v'è qui un primo ed un ultimo, perchè tutto si presuppone a
vicenda, nessuna cosa è 1’ altra e tuttavia non è senza l’altra. Dio ha
in sè un intimo fondamento della sua esistenza, che in questo senso
precede lui come esistente; ma Dio a sua volta è del pari il Prius
del fondamento, giacché questo, anche come tale, non potrebbe essere, se
Dio non esistesse actu. Alla medesima distinzione porta la
riflessione scaturiente dalle cose. Primieramente è da lasciare
affatto in disparte il concetto dell’ immanenza, in quanto esprima per
avventura una morta compren- sione delle cose in Dio. Noi riconosciamo
piut- tosto, che il concetto del divenire sia l’unico ap- propriato
alla natura delle cose. Ma queste non possono divenire in Dio,
assolutamente conside- rato, mentre sono tato genere , o per parlare
più giusto, infinitamente diverse da lui. Per essere staccate da
Dio, occorre che divengano in una base differente da lui. Ma nulla
potendo essere fuori di Dio, la contradizione si scioglie solo am-
mettendo, che le cose abbiano la loro base in ciò che in Dio non è Egli
stesso ', ovvero in ciò che è base della sua esistenza. Se
vogliamo accostare maggiormente quest’ es- sere all’ intelletto umano,
possiamo dire : che egli sia il desiderio, che sente l’Eterno Uno, di
generare 1 È questo l’unico vero dualismo, cioè quello che
nello stesso tempo concede un’unità. Più su era in questione il
dualismo modificato, secondo cui il principio malvagio è, non coordinato,
ma subordinato al buono. C’e appena datemere che qualcuno confonda il
rapporto stabilito qui con quel dualismo, in cui il subordinato è sempre
un principio es- senzialmente cattivo, e appunto perciò rimane
totalmente incomprensibile nella sua origine da Dio. se stesso. Non
è l’Uno stesso, ma pure è coeterno con lui. Vuol generare Dio, cioè
l’impenetrabile unità, ma in questo senso non è in se stess’o an
cora V unità. È dunque, considerato per sè, anche volere; ma volere in
cui non c’è intelligenza, e però anche, non autonomo e perfetto volere,
perchè l’in- telletto propriamente è il volere nel volere. Tuttavia
esso è un volere che si dirige all’ intelletto, cioè desiderio e brama di
esso; non un conscio, ma un presago volere, il cui presagio è
l’intelletto. Noi parliamo dell’essenza del desiderio in sè e per
sè considerata, che dev’essere ben tenuta d’occhio quantunque sia stata
da gran tempo sop- piantata dal principio superiore, che si è elevato
da essa, e quantunque non possiamo afferrarla sensibilmente, ma solo con
lo spirito e col pen- siero. Secondo l’eterno atto dell' auto-
rivelazione, tutto invero nel mondo, come lo scorgiamo adesso, è
regola, ordine e forma; ma nel fondo c’è pur sempre l’irregolare, come se
una volta dovesse ricomparire alla luce, e non sembra mai che l’
or- dine e la forma siano l’originario, ma che qual- cosa di
originariamente irregolare sia stata solle- vata ad ordine. Questo è
nelle cose l’inafferrabile base della realtà, il residuo non mai
appariscente, ciò, che, per quanti sforzi si facciano, non si può
risolvere in elemento intellettuale, ma resta nel fondo eternamente. Da
questo Irrazionale è,- nel senso proprio, nato l’ intelletto. Senza il
precedere di questa oscurità, non v’è alcuna realtà della creatura;
la tenebra è il suo retaggio necessario. Dio solo — egli medesimo
l’Esistente — abita nella pura luce, poiché egli solo è da se
stesso. La presunzione dell’ uomo si ribella assolutamente a
quest’origine, e anzi va in cerca di principi! morali. Tuttavia non
sapremmo che cos'altro po- tesse maggiormente spinger l’ uomo a tendere
con tutte le sue forze verso la luce, che la coscienza della
profonda notte, da cui egli è stato tratto al- l’esistenza. I lamenti feminei,
che in tal modo si ponga F inintelligente come radice dell’intelletto,
la notte come principio della luce, si fondano in parte su di
un’equivoca interpretazione della cosa (in quanto non si capisce, come
con questa ve- duta la priorità dell’intelletto e dell’essenza
secon- do il concetto possa tuttavia sussistere); ma essi esprimono
il vero sistema degli odierni filosofi, che volentieri produrrebbero
fumum ex fulgore, al che non basta la potentissima precipitazione
fich- tiana. Ogni nascita è nascita dall’ oscurità alla luce; il
seme dev’essere profondato nella terra e morire nelle tenebre, affinchè
la bella e luminosa forma vegetale si aderga e si spieghi ai raggi
del sole. L’uomo vien formato nel corpo della madre; e dal buio
dell’irrazionale (dal sentimento, dalla brama , 1 splendida madre della
conoscenza) germo- gliano i luminosi pensieri. Noi pertanto dobbia-
mo rappresentarci la brama originaria, come diri- gentesi verso l’intelletto,
che essa non ancora conosce, così come noi nell’aspirazione
aneliamo ad un bene ignoto e senza nome, e agitantesi pre- saga,
come un mare che ondeggia e ribolle, simile alla materia di Platone,
secondo una legge oscura ed incerta, senza la capacità di formare
qualcosa che duri. Ma, rispondendo alla brama, che, quale
fondamento ancora oscuro, è il primo segno di vita dell’essere divino, si
genera in Dio stesso un’ intima riflessiva rappresentazione, mercè
la quale, poiché non può avere altro oggetto che Dio, Dio contempla
in una immagine se stesso. Tale rappresentazione è la prima forma in cui
si realizza Dio, assolutamente considerato, benché solo in lui
stesso ; è in Dio inizialmente, ed è Dio 1 Nel testo: « Sehnsucht
». stesso generato in Dio. Tale rappresentazione è ad un tempo l’
intelletto — il verbo di quell’ aspi-, razione,* e l’eterno spirito, che
sente in ih il verbo e insieme l’infinita aspirazione, mosso dal-
l’amore, che è egli medesimo, esprime il verbo, che oramai, accoppiandosi
l’intelletto all’aspira- zione, diviene volontà liberamente creativa e
onni- potente, e nella natura, dapprincipio sregolata, pro- duce
come in un suo elemento o strumento. 11 primo effetto dell’ intelligenza
in essa è la separa- zione delle forze, potendo egli solo così
dispie- gare l’unità che vi è contenuta inconsciamente, quasi in un
seme, eppur necessariamente, a quel modo stesso che nell’ uomo la luce s’
insinua nel- l’oscuro desiderio di cercare qualcosa, per il fatto,
che nel caotico tumulto dei pensieri, che tutti s’intrecciano, ma ognuno
impedisce all’altro di sor- gere, i pensieri si scindono e sorge l’unità,
che è nascosta nel fondo e che tutti li comprende sotto di sè; o
come nella pianta, solo nel rapporto del di- spiegarsi e propagarsi delle
forze, si scioglie l’o- scuro vincolo della gravità e viene a
svilupparsi l’unità nascosta nella materia distinta. Poiché in-
vero quest’essere (della natura primordiale) non è altro che l’eterno
fondamento dell’esistenza di Dio, perciò deve contenere in se stesso,
benché chiara, l’essenza di Dio, quasi un lume di vita risplendente
nell’oscurità. II desiderio poi, eccitato dall’ intelligenza, tende ormai
a conservare quel lume di vita che ha accolto in sè, e a
rinchiudersi in se stesso, per rimanere pur sempre come fon-
damento. Quando perciò l’intelletto, o il lume posto nella natura
primordiale, spinge alla sepa- razione delle forze (all’abbandono
dell’oscurità) il desiderio che si ritira in se stesso, facendo sor-
1 Nel senso in cui si dice: la parola dell’enigma. gere,
appunto in questa separazione, l’unità in- clusa nel distinto, il
nascosto lume di vita, nasce in tal modo per la prima volta alcunché di
com- prensibile o di singolo, e in verità, non per via di rappresentazione
esterna, bensì di vera imma- ginazione , ' poiché quel che sorge nella
natura è figurato di dentro; o, più esattamente ancora, per via di
un risveglio, in quanto che l’intelletto fa sorgere l’unità o l’idea
occultata nel fondamen- tale distinto . 1 2 Le forze separate (ma non
comple- tamente staccate) in tale distinzione son la materia, onde
poi è configurato il corpo; invece il legame vivente che nasce nella
distinzione, e però dall’imo fondo naturale, come centro delle forze, è
l’ani- ma. Siccome l’intelletto originario trae l’anima, come
elemento interiore, da un fondo indipen- den e da esso, rimane perciò
anch’essa indipen- dente, come un’essenza speciale e sussistente di
per sé. È facile vedere, che nella resistenza del desi-
derio, necessaria alla perfetta nascita, il legame strettissimo delle
forze si scioglie in uno svolgi- mento che avviene per gradi e, ad ogni
grado della separazione delle forze, sorge dalla natura un nuovo
essere, la cui anima sarà tanto più perfet- ta, quanto più contiene
distinto ciò, che negli altri è ancora indistinto. Mostrare come ogni
suc- cessivo processo venga ad avvicinarsi sempre più all’essenza
della natura, finché nella massima separazione delle forze si schiude il
più intimo centro, è ufficio di una perfetta filosofia della
natura. Per lo scopo presente è essenziale quanto segue. Ognuno degli
esseri, sorti nella natura 1 Nel testo ; Ein-Bildilng, onde un
gioco di parole intra- ducibile nella nostra lingua. Alla lettera; « nel
fondamento distinto »; in dcm geschie- denen Grande. (N. d. T).
secondo la maniera indicata, ha in sè un doppio principio, che è uno e
identico in fondo, ma si- può considerare sotto due aspetti. Il primo
prin- cipio è quello, per cui essi son distinti da Dio, o per cui
sono nel solo fondamento; ma, siccome tra ciò, che è esemplato nel
fondamento, e ciò, che è esemplato nell’intelletto, ha pur luogo
una originaria unità, e il processo della creazione tende solo a
trasmutare internamente o a rischiarare nella luce il principio
originariamente oscuro (perchè l’intelletto, o la luce introdotta nella
na- tura, cerca in fondo propriamente la luce affine, rivolta a
loro): così il principio tenebroso per sua natura è appunto quello, che è
insieme rischia- rato nella luce, ed entrambi, sebbene in determi-
nato grado, son uno in ogni essere naturale. Il principio, in quanto
nasce dal fondo ed è oscuro, è il volere individuale della creatura, il
quale però, in quanto non è ancora assurto (non comprende) a perfetta
unità con la luce (come principio del- l’intelletto), è mera passione o
brama, ossia vo- lere cieco. A questo volere individuale della
crea- tura si contrappone l’intelletto come volere univer- sale,
che si serve del primo, subordinandolo a sè come semplice strumento. Se
infine, proce- dendo la trasformazione e separazione di tutte le
forze, è messo in piena luce il punto più interno e profondo della
primordiale oscurità in un es- sere, allora il volere di quest’essere è
bensì, in quanto esso è un individuo, egualmente un vo- lere
particolare, ma in sè, o come centro di tutti gli altri voleri
particolari, è uno col volere origi- nario o coll’intelletto, cosicché di
entrambi si fa ora un unico insieme. Quest’elevazione del più
profondo centro alla luce non accade in nes- suna delle creature a noi
visibili fuorché nel- l’uomo. Nell’uomo è tutta la potenza del
principio tenebroso e ad un tempo tutta la potenza della luce. In
lui è il più profondo abisso e il più alto cielo, o entrambi i centri. Il
volere dell’uomo è il germe occultato nell’ eterna brama di un Dio
esistente ancora nel fondamento; il divino lume di vita chiuso nel
profondo e che Dio vide, quando concepì il volere di crear la natura. In
lui soltanto (nell’ uomo) Dio ha amato il mondo; e la brama accolse
nel suo centro appunto quest’immagine di Dio, quando entrò in conflitto
con la luce. L’uomo per ciò, che egli scaturisce dall’ imo fondo (è
una creatura), ha in sè un principio indipen- dente per rapporto a Dio; ma
per ciò, che sif- fatto principio — senza cessare tuttavia di
essere tenebroso nel suo fondo — è chiarificato nella luce, si
schiude insieme in lui qualcosa di più alto, lo spirito. Infatti l’eterno
spirito esprime l’unità o il verbo nella natura. 11 verbo espresso
(reale) poi è solo nell’unità di luce e tenebre (vocale e consonante).
Ora in tutte le cose vi sono bensì i due principii, ma senza piena
conso- nanza, a causa della manchevolezza di ciò che è elevato dal
fondo. Solo nell’uomo dunque è piena- mente espresso il verbo, che in
tutte le altre cose è ancora arrestato e incompiuto. Ma nel verbo
espresso viene a rivelarsi lo spirito, cioè Dio, esi- stente come actu.
Essendo poi l’ anima identità vivente dei due principii, essa è spirito;
e lo spi- rito è in Dio. Ora, se nello spirito dell’ uomo
l’identità dei due principii fosse altrettanto indis- solubile che in
Dio, non vi sarebbe alcuna diffe- renza, cioè Dio, come spirito, non si
rivelerebbe. Quella medesima unità, che in Dio è inseparabile, deve
essere adunque separabile nell’ uomo, — ed ecco la possibilità del bene e
del male. libertà Capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza
costrizioni o impedimenti esterni, e di autodeterminarsi scegliendo
autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli. La l. può essere definita in
riferimento a tre elementi: il soggetto o i soggetti di l. (chi è libero), i
campi entro cui essi sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni
socialmente riconosciuti che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di
fare). Come vi sono vari tipi di agenti che possono essere liberi (persone,
associazioni, Stati), così vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e
innumerevoli generi di cose che essi sono liberi o non liberi di fare. In
questo senso esistono molte l. diverse (morale, giuridica, politica, religiosa,
economica, ecc.). Di conseguenza, quando cerchiamo di definire stati di l.,
abbiamo a che fare con questioni relative all’identificazione di chi, sotto
quale descrizione pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare
che cosa, rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato
sociale. La riflessione sul tema della l. accompagna tutta lo storia del
pensiero filosofico, dall’antichità all’epoca contemporanea, con accenti e
approcci diversi. Il tema della libertà nella filosofia antica. Nel
pensiero di Socrate hanno un grande rilievo i due motivi, strettamente connessi
tra loro, della involontarietà del male e dell’attraenza del bene. Socrate è
convinto che nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il
male, e che ognuno agisce sempre in vista di quello che egli crede sia il bene
e il meglio per lui. Se per questo verso Socrate resta all’interno del
cosiddetto soggettivismo dei sofisti, nel senso che anche per lui non è mai
possibile uscire dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze
individuali, tuttavia questi vengono continuamente giudicati, criticati e
discussi attraverso il διαλέγεσϑαι («il disputare») e ciò permette di ritrovare
criteri comuni e validi universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire
seguire un bene apparente invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il
bene, lo farebbe anche, perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae
irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è
preferibile. Di qui l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente
connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui,
implicitamente, una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la
scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di
una prospettiva escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica,X), il
guerriero che ha passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha
visto. L’anima, che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i
peccati che ha commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può
scegliere fra vari «modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della
propria scelta, «la divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per
guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la
decisione, non ci sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato
la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera,
di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la
filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e
conoscenza. Secondo l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1), involontarie
sono quelle operazioni «che avvengono per costrizione» o «per ignoranza»; la
costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore, di
modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per nulla». Quanto alle
azioni commesse per ignoranza, l’involontarietà deriva dal fatto che «ogni
malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere». Pare
dunque, conclude Aristotele, che «sia volontario ciò il cui principio si trova
nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». In
questo modo Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta
volontaria. Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà ci dà Plotino
nelle Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa rimessa alla nostra
libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci trascinano, «noi ci
domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per avventura, altro che
nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino riconduce la l. del
volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta
tendenza»; è necessar io, insomma, che «la ragione e la conoscenza si
rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano». Perciò esse devono rifarsi a
un principio non-sensibile, a una non-sensibile tendenza al bene. Coloro che
sono guidati da impulsi sensibili, non potremo considerarli, sostiene quindi
Plotino, «compresi sotto un principio di l., perché anche agli incapaci, che
agiscono per lo più in quel modo, non riconosceremo mai l. del volere: a chi,
invece, per la virtù operosa del suo intelletto, è immune dalla passionalità
del corpo, attribuiremo veramente la libera indipendenza». Cristianesimo e
Riforma. Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del
cristianesimo. Hegel osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e
l’Oriente, non avevano mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i
Romani, Platone e Aristotele, e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è
realmente libero in virtù della nascita (come cittadino spartano, ateniese,
ecc.) o in virtù della forza del carattere e della cultura, in virtù della
filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova
idea di l. si afferma per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo
come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è
destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e a far sì che
questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà.
Se il concetto di l. del volere diventa centrale per il cristianesimo, perché
senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe
senso alcuno la redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi
strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e
indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana
e insieme un prestabilito disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere
umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che
certamente «può»; ma la maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene
che «può» volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello
stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino
risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero
arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole,
ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino,
l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso
possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso, a sua volta,
sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto,
non da una sua perfezione: «che il libero arbitrio possa scegliere oggetti
diversi rispettando l’ordine delle finalità, appartiene alla perfezione della
l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale ordine – ciò che è peccare – questo
appartiene a un difetto di libertà» (Summa theologiae). Dopo il Medioevo, nel
quale la soluzione agostiniana è accolta da taluni con più intensa
accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con
maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure
dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo nel quale la
questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono
le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio
umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più
rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i rifor-
matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con decisione
la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero, tornando a
un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della l.
cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme dei
privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione
ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il
concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo
della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola
di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o
secolare, e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il
rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua
sovraordinazione all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla
concezione moderna della l. e al dibattito sul suo significato
politico-giuridico. Il dibattito su libertà e necessità. Nel
Seicento, Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il
concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero
arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e nell’accettazione della
necessità universale stessa. Nel secolo seguente abbiamo la concezione di Kant,
con la sua distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni
dell’Universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per «l.
morale» si deve intendere, secondo Kant, la facoltà di adeguarsi alle leggi che
la nostra ragione dà a noi stessi. Noi possiamo dunque scegliere tra il seguire
la causalità empirica, che rende il nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla
legge morale che, esprimendo l’essenza più profonda del nostro Io, rende il
nostro volere autonomo e, così, libero. E come l’essenza profonda del nostro
essere è la l., così all’origine dell’intero Universo che alla scienza si
presenta determinato, è il libero volere di un Essere intelligente, che ordina
teleologicamente ciò che alla conoscenza scientifica appare invece
meccanicamente causato. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima
dignità è il grande concetto che Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al
concetto, elaborato da alcuni scolastici, di «l. o arbitrio d’indifferenza»
(facoltà di volere, immotivatamente o indifferentemente, l’una o l’altra di due
cose contrarie o anche nessuna delle due), che, non sapendo o non potendo
risolvere la propria indifferenza, resta in fondo un’inerte possibilità
d’azione, Hegel oppone un concetto più concreto della l., quello della l. come
autodeterminazione e intima spirituale necessità. Al determinismo positivistico
reagiscono tutte le filosofie del «ritorno a Kant», intese a salvare la l.
della condotta morale. E, nel quadro del ritorno all’idealismo classico dei
primi decenni dell’Ottocento, i movimenti neohegeliani insistono sulla
hegeliana coincidenza di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero
arbitrio o l. d’indifferenza. Il rifiuto della concezione hegeliana della l.
come processo speculativo della ragione universale distingue invece il pensiero
di Marx, che identifica la l. con un processo di liberazione economica,
politica e sociale volto ad affrancare l’uomo dal bisogno e dalla lotta di
classe e a creare le condizioni per una concreta autorealizzazione materiale e
spirituale. Per tutt’altra via passa l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal
contingentismo, per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e
spontaneità, piuttosto che autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la
filosofia dello «slancio vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a
coincidere con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale
l’uomo non ha altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nella
«esistenza inautentica», come in Heidegger. In L’essere e il nulla Sartre
sostiene che l’uomo è «essenzialmente» libero di scegliere, in quanto sua
caratteristica è la «mancanza», il «nulla» di essere, ed è perciò continuamente
teso alla scelta di possibilità esistenziali. L’equivalenza, di qui derivante,
di tutte le scelte viene tuttavia eliminata nelle opere successive.
Il dibattito contemporaneo. Il significato politico-giuridico del
concetto di l. è al centro del dibattito contemporaneo. Particolarmente
influente è stata a questo riguardo la distinzione espressa da Berlin fra l.
negativa e l. positiva, fra l. da e l. di: la prima concerne l’area entro la
quale una persona è o dovrebbe essere lasciata fare o essere ciò che è in grado
di fare o essere senza interferenze da parte di altre persone. La seconda
riguarda l’area in cui si situa la fonte del controllo e dell’interferenza che
può determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che un’altra. La
l. negativa corrisponde alla l. dei ‘moderni’ di Constant, che ne definisce
appunto il senso e il valore nella celebre contrapposizione con la l. degli
‘antichi’; essa è l’indipendenza individuale difesa da J.S. Mill: il soggetto
della l. negativa è l’individuo, e l’arena della l. negativa è circoscritta da
un confine che, per quanto mobile e variamente tracciato, separa la sfera
‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la sfera individuale da quella collettiva.
L’assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata principalmente come
assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità legittima,
che è tale se e solo se non viola o viola il meno possibile l’autonomia
individuale. Contro la distinzione analitica dei due concetti di l. si è
espresso Rawls nella sua teoria della giustizia come equità. La l. o, meglio,
il sistema delle l. è oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive
che il sistema delle l. sia per ciascuno il più ampio possibile,
compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun altro. Nella prospettiva di
Rawls, la massimizzazione del sistema delle l. individuali è prioritaria
rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto
principio di differenza, che deve modellare le istituzioni responsabili della
distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni
sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Accettare la priorità dell’eguale
sistema delle l. implica accettare un principio di equità nella distribuzione
dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di l. non ha, di regola,
eguale valore per individui diversamente dotati. Proponendo un ordinamento fra
l. ed equità, espresso dalla priorità del principio di l. sul principio di
differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la l. e un altro
valore sociale quale l’uguaglianza. A questa prospettiva, e ai suoi importanti
sviluppi ad opera di Sen e di Dworkin, si contrappone radicalmente la tesi sui
diritti negativi propria della teoria libertaria. In partic., Nozick ha
confutato la pretesa di teorie della giustizia distributiva di proporre criteri
o modelli di distribuzione giusta. Se ci si basa sull’assegnazione di valore
intrinseco alla l. individuale, qualsiasi precetto distributivo è inaccettabile
perché non può che violare la l. individuale stessa. Nella più recente
controversia nell’ambito della teoria normativa, il conflitto distributivo ha
finito per lasciare spazio ad altro tipo di conflitto, il conflitto di identità
o conflitto per il riconoscimento. E questioni relative all’assegnazione di
valore alle l. si sono così connesse a questioni di riconoscimento di nuove
identità o di identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione
da comunità di ‘pari’ dai differenti confini.Elzeviro Catalfamo. Il
personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: metafisica della
libertà, il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella
persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la
prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo”
– The Swimming-Pool Library.
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