Grice e Ferranti:
implicatura conversazionale, ragione, deutero-Esperanto – e lingua universale –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Roma. Collo pseudonimo d’“ingegnere Filopanton,”
presenta il “simplo,” ispirato al progetto di PEANO (si veda), nel saggio
“SIMPLO INTERNATIONALE LINGO: CONTRIBUTO AL STUDIOS DIL INTER-NATIONE LINGO PEM
SIMPLIGITE FONETICE-GRAFICE SISTEMO”. Lo scopo è quello di creare un SISTEMA in
grado di rendere l'apprendimento della lingua internazionale facile e veloce,
tramite l'abolizione delle desinenze, dei suffissi e dei prefissi e un rapporto
intuitivo tra idea e parola. Per F., idee tra loro collegate devono essere
espresse da parole tra loro simili; per esempio, aventi la stessa radice.
Keywords: system, sistemo, lingua, lingo. Refs.: Grice e Ferranti” Mario
Ferranti. Ferranti.
Grice e Ferrari:
implicatura conversazionale e ragione nella lingua universale – scuola di
Modena – filosofia modenese – filosofia emiliana -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Modena). Filosofo modenese. Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Modena, Emilia-Romagna. Canonico, insegna etica.
Sotto lo pseudonimo di Callicrate Aletiano, F. pubblica “Mono-Glottica: considerazioni
storico-critiche e FILOSOFICHE intorno alla ricerca d’una lingua universale,”
Vincenzi, Modena, -- un contributo rilevante per la discussione intorno alla
lingua universale, con le proprie considerazioni in materia, dedicando il
saggio a un certo Aristodemo Euganeo. “Callicrate” ricalca il nome di un
architetto della Grecia antica; Aletiano riconduce alla parola greca per
'rivelazione', 'verità'. Allora F. si configura come l'architetto – cf. Grice,
engineer -- di un sistema linguistico che rispecchi la verità delle cose, che
si rifà direttamente alle idee. Aristodemo invece è una figura della mitologia
greca che sacrifica la propria figlia in nome della vittoria sulla città di
Sparta; Euganeo deve essere ricondotto alle origini del dedicatario. Il modus di
F. è del tutto simile a quello di SOAVE
(si veda). Dopo una disamina del tipo d’alfabeto
utilizzato dagl’italiani, F. dichiara che le tradizionali disformità della lingua
e della scrittura accumularono ostacoli d'ogni sorta alle scambievoli
comunicazioni delle genti, ed alla diffusione della generale socievolezza e
coltura, arrivando perfino ad essere causa di incomprensioni sì grandi da
condurre i popoli alla guerra, giacché: diversitas linguarum hominem alienat ab
homine (AGOSTINO, De Civitate Dei, Venezia, Albizziano). Conscio degli studi
dei suoi predecessori, tra cui nomina anche gl’italiani CESAROTTI (si veda),
CERUTI (si veda), e SOAVE (si veda), F. espone e passa in rassegna i progetti,
esprimendo elogi e rimproveri per
ciascun sistema. F. propone un indice dei sezioni che formano il nuovo saggio
di studi e di proposte riguardanti l'istituzione di una lingua universale --di
cui “Monoglottica” è un mero riassunto. In
nota, riporta: Premessi alcuni principi generali, seguiti da alquante
norme direttive, lo schema espone l'alfabeto universale, che, da poche
modificazioni in fuori, s'identifica con quello della favella aria italiana. Il
comune alfabeto vocale ipotizzato da F. comprende le V vocali a, e, i, o, u
poiché esse formano il sostrato primitivo ed essenziale de’varii sistemi FONETICI
– FONEMICI – cf. Grice, disctinctive features -- di tutti i popoli da lui
considerati. Per quanto riguarda le consonanti esse sono «b, c, d, f, g, h, j,
k, 1, m, n, q, r, s, tv, w, X, y, z» e a ciascuna di esse è associato un suono
e uno soltanto. Graficamente esso deve essere latino -- quel che l'autore
intende è che la lingua non può essere simile a una lingua romanza come
l’italiano --, poiché il meno appuntabile rispetto agl’altri, e corredato delle
note tipografiche. La lingua proposta è - moderatamente - flettente e
combinante, a stregua però di una calcolata ECONOMIA (cf. Grice, efficiency,
cooperative efficiency), nello svolgimento del VERBO. Valendosi rispetto al
NOME (e predicato – ‘shaggy’) -- , a forma delle lingue analitiche, dell’ARTICOLO
DETERMINATIVO. Salvo il differenziare con minima flessione la desinenza plurale
dalla singolare – “irrelevant in logic” (Grice): “(Ex): “Some, at least one”.
Per questo è evitata quanto più la FLESSIONE, la derivazion, l’agglutinamento e
l'uso dell’accento non giustificato d’una reale esigenza. La lingua oxoniense in
discorso non è ideografica, siccome quella concepita da Delgarno e da Wilkins,
né semi-algebrica, come la caratteristica leibniziana, né tampoco tachigrafica
o stenografica a mo’della pasigrafia di Taylor. È puramente alfabetica, e
costituita con una base e un processo grammaticale, epperò con opportuno
corredo dell’ARTICOLO (“the,” “a”) e il pronome (“I am hearing a sound”), della
congiunzione (“and” – but cf. ‘or’ and ‘if’), la preposizione (cf. Grice on ‘to’ and ‘between’) ell’avverbo
(cf. ‘not’). Essa discerne due generi
nominali, l'uno maschile o concreto, l'altro femminile o astratto, lo che giova
non meno alla perspicuità che all'armonica varietà del favellare. Adotta sei
verbi di uso frequentissimo, come primi ed AUSILIARI (cf. Grice, “Actions and
Events” on ‘do’), semplificandone le forme e gli svolgimenti, e rilevandone le
funzioni rispetto agli altri verbi. Con somma parsimonia si vale
dell'applicazione di lettere vocali e delle consonanti a denotare maniere e
rapporti di senso nominale e verbale; tenendosi lungi anzichenò, dal sistema gallico
d’OCHANDO. Segue un procedimento metodico per l’evoluzione delle parole
primitive e radicali, allo scopo di ritrarre le molte parvenze e trapassi
nell'esplicazione delle idee fondamentali. Poscia sono stabilite le norme
relative alla SINTASSI, ed il regime sì diretto, che indiretto. Infine si
traccia il disegno costitutivo della lessicografia. L'autore cura soprammodo,
in tutte le parti dello schema, la semplicità, il collegamento e la regolarità,
che debbono esser le doti primarie e congenite della lingua universale, perchè
puo ella riescire perspicua, gradita, e
mirabile per esattezza ed energia. La lingua di F. deve anch'essa essere
esente di sinonimi, neologismi, solecismi, irregolarità, e deve piuttosto fare
ampio uso dell'analogia, che quindi deve essere assurta a regola; tanto che F. sostiene «l'analogia è un
giorno, quando che sia questo per ispuntare, l'oracolo e la salvaguardia della lingua
universale, deve essere attuato un procedimento di logo=genesi, per il quale il
suono ESPRIMENTE (SEGNANTE) un'idea o proposizione semplice deve in qualche
modo essere presente anche in qualunque suono che compone la parole da esso
derivate. La SINTASSI deve seguire quanto più l'ordine logico dei pensieri. Keywords:
lingua universale, Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari”,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gaetano
Ferrari. Ferrari.
Grice e Ferrari: la ragione
conversazionale e FILOSOFIA della RIVOLVZIONE – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano). Filosofo
italiano. Grice: “Ferrari is important in at least two fronts: as a
philosopher, he promotes what has been called a ‘critical illuminism’ – and who
but an Italian philosopher can have as a claim to fame a treatise on ‘the
philosophy of revolution’? The second front is my proof of the latitudinal
unity of philosophy; for Ferrari counts as the best interpreters, with his ‘La
strana sorte di Vico,’ of Vico!” “My pupil at Oxford – my first one, actually –
Flew, once called Humpty Dumpty an anarchist – semantic anarchism, he called
it. – But he was wrong. Humpty Dumpty cannot mean that by uttering
‘Impenetrability’, Alice will know that he means that a change of topic is
required!” Essential Italian
philosopher. Federalista, repubblicano, di posizioni democratiche
e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano per sei legislature
e senatore del Regno. Nato da una famiglia borghese il padre era medico -- dopo
la morte dei suoi genitori poté godere di una rendita grazie alla quale visse
senza particolari problemi economici. Fece i suoi studî nel ginnasio S.
Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo. Si laurea a Pavia. Fu
però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio di
Romagnosi. Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre per la
cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo porta a
Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con “Sull’errore, ossia, De
religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la
filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica
a proposito dei giudizî. Un giudizio infatti non consente di giungere alla
verità oggettiva. Grice: “The
problem with Ferrari’s analysis is etymological. For the Romans, indeed the
Indo-Europeans – cf. German irren --, to err was to wander FROM THE TRUTH. It’s a metaphor, a figure of speech. Un giudizio è
indissolubilmente intrecciato a questo che Ferrari chiama un “errore”. F.
define un ‘errore’ come ‘un vero’ – un vero relativo, non assoluto.
Similarmente, il vero e un errore relativo – giudizio vero relativo al soggetto
– errore intersoggetivo. -- una vero
relativo. Speaking of
relative/absolute allows you to avoid ‘objective’ and ‘subjective’, but we do
want to use ‘subjective’ and inter-subjective. An error can still be
inter-subjective, for Ferrari, un ‘vero relativo’ a S1-S2. Introdotto nei circoli intellettuali di Parigi da lettere
di presentazione di Peyron e Valerio (due allievi piemontesi di Cattaneo) e di
Ballanche, Ferrari frequenta Cousin, Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come
pure gli che si riunivano nel Palazzo Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e
Strasburgo dove, attaccato da Roma per le affermazioni irreligiose e scettiche
espresse nel suo corso sulla filosofia del Rinascimento e per la sua
presentazione favorevole della Riforma luterana, fu anche accusato di insegnare
dottrine atee e socialiste e sospeso dall'insegnamento, e, benché avesse
ottenuto la cittazidanza francese e il titolo di "professore di filosofia”
che lo abilita ad insegnare non fu più
reintegrato nell'insegnamento, poiché la raccomandazione di Quinet per una sua
nomina a professor al Collège de France, benché accettata dalla Facoltà, fu
rifiutata dal ministero dell'Educazione. L'allontanamento di Strasburgo
fu all'origine del suo rapporto con Proudhon che, avendo appreso il "caso
F." dalla stampa, s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad
un'amicizia. Ferrari fu tra gli avversari repubblicani della monarchia
orleanista, con Schoelcher. Durante il sollevamento delle cinque giornate di
Milano contro il governo austriaco fu accanto a Cattaneo ma, deluso dai
risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un altro
tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin) di ottenere una cattedra a
Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne il colpo di Stato che
mise fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato come
repubblicano, si rifugia à Bruxelles. Ritorna definitivamente a Milano per
partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello
stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel
collegio di Luino (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni (eletto in
secondo scrutinio nello stesso collegio di Luino, nel frattempo allargato a
Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui banchi della sinistra per sei
legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne fedele
ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere riassunto
nella formula: "irreligione e legge agraria", cioè lotta contro Roma
e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei latifondi, con la
distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i proprietari terrieri,
sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali dell’uguaglianza. Per quel
che concerne la forma dello stato italiano, F. domandava una costituzione federale,
con un esercito, delle finanze e delle leggi federali comuni, ma anche con la
più ampia de-centralizzazione amministrativa possibile. Dopo essersi
recato sul posto, scrisse una relazione parlamentare sul Massacro di
Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re Cavaliere Ufficiale
dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda immediatamente il decreto
di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva inviato. Ma
la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta
ufficiale. Nominato professore di filosofia a Milano, benché non ci fosse
a quel tempo nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di
nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur
continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione sull'intitolazione
degli atti del governo, contro la denominazione di secondo, e non primo re
d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a più riprese contro uno stato
unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle
regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante riconoscesse
nell'articolo che l'unità italiana non esiste che nelle regioni della
filosofia. In una regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo,
non si posse reclutare un esercito, non si può organizzare nessun governo.
Esprime l'auspicio che l'Unità Italiana si potesse prima o poi realizzare.
L’Italia tutta deve domandare alla libertà. La liberta non ha leggi, né costumi
politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né una né confederata;
essa non progredirà se non col cominciare a chiedere costituzioni, poi la
confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la fatalità lo permette.
Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole dicendo. “Io non muto
d'avviso.” “Sono stato avversario dell'unità italiana.” “Credo l’unita tragica
nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi
disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e
gli olocausti alle religioni.” Si è pure pronunciato contro la cessione di
Nizza e della Savoia alla Francia, contro il trattato di commercio con la
Francia e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del
debito già pontificio (lui, "francese al peggiorativo", come ama definirlo
il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti
d'Aspromonte in favore della Polonia e dello spostamento della capitale da
Torino a Firenze, prese parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla
proclamazione di Roma capitale, sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria
del nuovo regno. E fatto senatore. Assolutamente
solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico e ad ogni consorteria, non
ebbe seguito. è una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non
che le sue idee individuali. La sua azione parlamentare è stata così caratterizzata
e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra difendendo le opinioni liberali,
combattendo gli arbitri e gli errori dell'amministrazione, denunciando nel
piemontesismo l'indebita preminenza di una consorteria, vagheggiando la
demolizione di ogni privilegio romano, e per tutto questo poteva sembrare
d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a
pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma
intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la cessione di Nizza e della
Savoia alla Francia. Contro le annessioni incondizionate. Sulla interpellanza
del deputato Audinot intorno alla questione romana. Interpellanza relativa alle
condizioni delle province meridionali. Il battesimo del Regno. Contro il
prestito di 500 milioni, La questione romana e le condizioni delle province
meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. Sull'esercizio
provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte) Interpellanza
sugli affari di Roma. Sulla questione della Polonia. Contro il trattato di
commercio con la Francia. Intorno al bilancio dell'Interno. Sulla situazione
del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. Il trasporto della
capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di Torino, Interpellanza al
Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro la convenzione col governo
francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex Stati pontifici. Contro
le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. Sulla
violazione del diritto del non intervento, Interpellanza su Mentana. Inchiesta
sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul macinato. Sulla
sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia cointeressata dei tabacchi.
Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini per la legge sul macinato. Inchiesta
sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno. Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I
fatti di Francia. Contro la convalidazione del decreto di accettazione del
plebiscito di Roma. Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro
la politica estera. Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto
del comizio popolare al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento
dell'appannaggio al principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in
Roma. Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente
di storia all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di
Filosofia della storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore
di Filosofia all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di
studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore
della rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze
e lettere di Milano.Membro ordinario della Società reale di Napoli. Membro
effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro
straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro
ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio
corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province
modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei
Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino
per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Come tutti
i socialisti italiani, Ferrari è fortemente influenzato dall'Illuminismo e da
Proudhon. Il suo socialismo si costituisce come una radicalizzazione del
principio di uguaglianza affermato dalla rivoluzione francese. Riconosce
come unico fondamento della proprietà il lavoro. Propone quindi un socialismo
che, non strettamente in opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito
individuale e sul diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la
nascente borghesia, si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora
presenti in Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione
borghese. Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale. Contrario
all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una “federazione”
di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità delle singole
regioni. Questo progetto dove essere attuato attraverso un'insurrezione armata,
aiutata dall'intervento francese. Al contrario della maggioranza dei teorici
risorgimentali (in particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse
una missione storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario
l'intervento di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei
diversi stati italiani. L'opinione pubblica dove essere preparata alla
rivoluzione (che dove avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di
cospiratori) da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e
socialista. La questione sociale era infatti inscindibile da quella
istituzionale. Il stato federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito
da un'assemblea nazionale e da tante assemblee regionali. Insieme a Pepe
elaborò il “neo-guelfismo” -- per sottolineare il carattere re-azionario di
restaurare la presenza attiva di Roma nella vita politica d’Italia. Critico
verso la formula liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la
superiorità dello stato d’Italia rispetto alla Roma, corrispondente alla
superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto
Stato-Roma che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in
Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana. Consta dai registri della
Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe Michele Giovanni Francesco dei coniugi
Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque. Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue
dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere: “Romagnosi” (O. Campa, Milano); “Sulle
opinioni religiose di Campanella” (Milano, Franco Angeli); "La fede in Dio
è l'ERRORE più primitivo, più NATURALE del genere umano.” “La religione è la
pratica della servitù.” “Roma presenta tutti i vizi della ri-velazione
sopra-naturale.” “Roma conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo.” “Il
romano cè morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli
apostoli e la Chiesa”. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di
Giuseppe Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati,
Atti del Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati,
Torino, Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le più belle pagine di
Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. F., Milano, Garzanti, Altre
opere: “Romagnosi”; “Vico”; “La Federazione repubblicana”; “Filosofia della
rivoluzione”; “L'Italia dopo il colpo di Stato”; “Opuscoli politici e
letterari”; “La mente di Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso
sugli scrittori politici italiani; Il governo a Firenze, “Giannone”; Lettere
chinesi sull'Italia, Storia delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi
politici, L'aritmetica nella storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni
Immanenza);La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I
partiti politici italiani, Le più belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti
politici, Ghibaudi, I filosofi salariati, L. La Puma, “Scritti di filosofia” e di politica, M.
Martirano, Il genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario
Peruta, "Contributo all'epistolario di F.", in: Franco Della Peruta,
I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Franco Della Peruta
(ed.),"Contributo all'epistolario di Ferrari", Rivista storica del
socialismo, Lettere a Proudhon, Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, C.
Lovett, "La Questione Meridionale con lettere inedite", Rassegna
storica del Risorgimento”; “Milano e la Convenzione di Settembre dalla corrispondenza
inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lombardia dalla corrispondenza
inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lovett, "Il Secondo
Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere inedite di Wallon a F.",
Rassegna storica del Risorgimento e la politica interna della Destra. Con un
carteggio inedito, Milano. Altro A. Agnelli, "Giuseppe Ferrari e la
filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, Ghiringhelli e
F. Invernici. La vita sociale e politica nel collegio di Gavirate-Luino",
in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano,
Milano, Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di Capolago delle
opere di F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo
stato italiano, Milano, Paolo Bagnoli, "F. e Montanelli", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Bruno
Barillari, "Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano, Francesco
Brancato, Ferrari e i Siciliani, Trapani, Bruno Brunello, Ferrari, Roma, Bruno
Brunello, "Ferrari e Proudhon", Rivista internazionale di filosofia
del diritto, Michele Cavaleri, Ferrari, Milano, Cosimo Ceccuti, "Ferrari e
la Nuova antologia: il destino della Francia repubblicana", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Arturo
Colombo, "Il F. del Corso", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Compagna, "Ferrari
collaboratore della "Revue des deux mondes", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Corona,
"Il filosofo "rivoluzionario" visto da Asproni", in:
Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Carmelo D'Amato, Ideologia e politica in Giuseppe
Ferrari", Studi storici, Amato, "La formazione di Giuseppe Ferrari e
la cultura italiana della prima metà dell'Ottocento", Studi storici, Peruta,
"Il socialismo risorgimentale di F., Pisacane e Montanelli", Movimento
operaio, Franco Della Peruta, Un capitolo di storia del socialismo
risorgimentale: Proudhon e Ferrari", Studi storici, Franco della Peruta,
"F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe
Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Aldo Ferrari, F., Saggio critico,
Genova, Ferri, "Cenno su F. e le sue dottrine", in: Ferrari, La mente
di G. D. Romagnosi, Milano. Gian Biagio Furiozzi, "Olivetti e F.",
in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Gastaldi,
"Nella galassia dell'Estrema", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura
di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Robertino
Ghiringhelli, Robertino Ghiringhelli, "Romagnosi e F.", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano,
Milano, Carlo G. Lacaita, "Il problema della storia in F.", in:
Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Eugenio Guccione, "Il laicismo politico di Ferrari",
in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Grosso,
"Il Medioevo in F.", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, Lovett, "Europa e Cina nell'opera di F.",
Rassegna storica del Risorgimento, Maurizio Martirano, “Ferrari, interprete di
Vico”. Maurizio Martirano, Filosofia, storia, rivoluzione. Saggio su F.,
Napoli, Liguori, Gilda Manganaro Favaretto, Angelo Mazzoleni, Ferrari. Il
pensatore, lo storico, lo scrittore politico, Roma, Angelo Mazzoleni, F.. I
suoi tempi e le sue opere, Milano, Antonio Monti, "La posizione di Ferrari
nel primo Parlamento italiano", Critica politica, Giulio Panizza,
L'illuminismo critico di Ferrari, Giulio Panizza, "La teoria della
fatalità nell'Histoire de la Raison d'Etat", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Giacomo
Perticone, "La concezione etico-politica di Ferrari", Rivista
internazionale di filosofia del diritto, Luigi Polo Friz, "Ferrari e Frapolli:
un rapporto di amore e odio tra due interpreti del Risorgimento Italiano",
in: Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Nello
Rosselli, "Italia e Francia in Ferrari", Il Ponte, Silvia Rota
Ghibaudi, Ferrari, lFirenze, Silvia Rota Ghibaudi, "Ferrari e la Teoria fatalista
dei periodi politici", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli,
Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luciano
Russi, "Pisacane e Ferrari: esiti socialisti dopo una rivoluzione
fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il
nuovo stato italiano, Milano, M. Schiattone, Alle origini del federalismo italiano,
Ferrari, Nicola Tranfaglia, "Ferrari e la storia d'Italia", Belfagor,
Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, Luigi Zanzi, "un filosofo"militante",
in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Stefano Carraro, "Alcuni aspetti del pensiero politico",
BAUM, Venezia. Gian Domenico Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano
Lodovico Frapolli Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane
Federalismo. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.F.,
su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Opere di
Giuseppe F., su Liber Liber. Il primo radicalsocialista italiano, dal sito del
Movimento RadicalSocialista. Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto,
la filo- sofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno
della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'in- tento dei
primi filosofi, questo è l'intento della rivouzione. 'I primi filosofi ne
furono i precursori: ma traditi dalla metafisica , sentivansi solitari ,
impo- tenti , inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando i
demoni, le favole , un artifizio estrinseco , un felice inganno , cadevano sotto
il felicissimo inganno della chiesa; Socrate non poteva regnare se non
sotto la protezione di Cristo. Ma la rivoluzione liberò questo
prigioniero delia teologia, ne divulgò la parola, la tras- mise a tutti
gli uomini, e vuol costituire l'umanità sulla terra colla forza della
scienza e con quella del diritto. Da mezzo secolo la metafisica tende
un'ultima insidia alla rivoluzione trasportando il problema della
scienza nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'eguaglianza nelle
antinomie del diritto. Ne consegue, che abbiamo il regno della scienza
fatta astrazione dalla verità, il regno della libertà falla astrazione
dai dogmi, il regno dell'eguaglianza falla astrazione dal riparlo,
il regno dell'industria fatta astrazione dal capitale: e
s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'umanità; si pensava perfino a
fondare un impero meno l'impero, un papato meno il papato, quasi fosse
pro- posito deliberalo di predicare la rivoluzione meno la
rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'impossibile. I miseri
cavilli della metafisica sarebbero morti nel vuoto delle scuole, se leggi
equivoche a disegno non li avessero tratti in piazza per stabilire una
tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Ma la tregua non regge;
ad ogni momento vediamo avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad
alcuni può parere lontano, e se altri possono consigliare di dare
tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede che quando la
scienza scopre un errore per quanto sia teorica, lo lascia smascherato
per sempre, e chi lo difende più non regna, e se sì ostina cade
scon- fitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede negli
avvenimenti imprevisti non è cieca e viene au- torizzala dalla forza del
vero che oggi tradito si ven- dica domani col corso naturale degli affari
, delle guerre, delle paci, della ricchezza, e perchè ogni verità è
un valore, chi la scorge se ne impossessa e la sconta, e tiranno o
tribuno giova a lutti sotto le forme più inaspettate. Si ricordino che non
vi fu mai progresso che non toccasse alla proprietà o alla reli-
gione che non venisse dalla scienza e dall'eguaglianza e che non si
dovesse irnaginare con ardimento scandaloso quasi fosse una profanazione. Si
ricordino da ultimo che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt
ferve in ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, già dairso al 93
quattro soli anni bastavano per passare dalla teoria alla pratica e per
sostituire una genera- zione di tribuni, di generali, di insorgenti, di
dittatori, di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filosofi
mandati alla bastiglia e qualche volta perfino pro- tetti tanto
sembravano lontani dalla realtà. Quanto a noi figli del passato,
discepoli degli stessi maestri da noi discussi, visto nella critica
l'arme che ferma la metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli
inutili tormenti dal campo della rivelazione naturale, visto che
rinchiusi nel fatto, legali alla terra ogni giorno, ci sottrae alla
rivelazione sopranaturale comunque si gradui il progresso e possa
prendere delle forme mostruose e talora nemiche, dal momento che sentimmo
compiersi nella nostra mente la filosofia della rivoluzione secondo
l'inflessibile suo disegno, la linea retta fiparve la migliore e il dissimulare
ci parve tradimento. Per sette anni il F. tacque : non pia stu- di
pubblicati sulle riviste francesi per far conosce- re al mondo T Italia
del passato e del preseme, non più opuscoli politici per tracciare piani
d'a- zione pamphlets violenti contro i suoi avversa- ri: gli amici
lo avrebbero potuto creder morto. EpIHjre la sua operosità si svolgeva
occulta sotter- ranea silenziosa, tanto più assidua quanto meno era
visibile: abbandonato il campo del giornali- smo dove le tracce del
lavoro sono ben presto cancellate dall'incalzare di sempre nuovi
proble- mi e dalle richieste di gusti sempre mutati, la- sciato il
tumulto della vita politica, U Ferrari si era dedicato totalmente alla
pura scienza. Il pre- sente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato
; l'Italia pareva ricaduta nella schiavitù e nell'abiezione, ed egli la
volle studiare libera e regina, quando marciando a capo di tutte le
nazioni tra- smetteva l'urto delle sue continue rivoluzioni al
mondo. Il Medio Evo italiano, il campo chiuso della sua
attività storica, era sempre stato il suo lavoro e il suo tormento:
grande nell'insieme e nei suoi più piccoli frammenti pareva che volesse
sottrarsi ad ogni interpretazione razionale e organica, come se
sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che go- vernava le continue
rivoluzioni di cento stati dif- ferenti gli uni da^i altri come posti
agli antipodi fosse il caso, il capriccio della fornina, l'arbitrio
dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano uno svolgimento
storico organico, una forma po- litica costante che le contradistingueva
in ogni e- poca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di Napoleone
III la Francia era sempre stata la na- zione della monarchia unitaria; la
Germania era ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilter- ra
dalla Camera dei Lordi come ai tempi di Otto- ne I e di Guglielmo il
Conquistatore. Ma l'Italia Qon poteva ridursi sotto nessuna
categoria politi- ca; uè al principio della monarchia né a quello ddla
repubblica, né all'Impero né al Papato : ftemmeno ad un sistema federale
che raccoglies- se in organismo la varietà tumultuosa ed eslege dei
^uoi stati. Rivoluzioni d'Italia. Da molti anni queste considerazioni si
svolgevano lentamente nel mio spirito, per rendermi enigma- tiche e
impenetrabili le vicessitudini di Milano di Firenze di Roma di Genova di
Venezia, di tante città unite dal suolo e separate da irreduttibili
diiTerenze. Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran pur
sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza cau- sa, rivoluzioni senza
idee, guerre senza soluzione. Le cronache degli Scriptores rerum
Italicarum mi apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti,
medaglie sparse di un museo che una vandalica igno- ranza avesse
devastato. Tutte le serie, tutte le simme- trie essendo dissestate da una
mano sconosciuta; po- tevasi dire che TAriosto solo colla noncurante
sua ironia avesse il diritto di sognare liberamente in mez- zo a
questi cenci pomposi. Ma se la fecondità lussu- reggiante degli
avvenimenti si rivoltava contro ogni unità imperiale o pontificia; se essa
facevasi gio- co delle repubbliche, delle signorìe, del candore dei
cronisti e degli artifizi della retorica; se essa com- piacevasi di
sconcertare tutti i sentimenti e tutte le analogie: io vedevo tanta
grandezza dell'insieme e una tal forza nel minimo frammento, da non
potermi arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e della
Divina Commedia ingannasse l'aspettativa de- stata dal sentimento del bello,
.per non essere se non un cumulo di accidenti eslegi. n
Ferrari volle scoprire il spreto di una cosi misteriosa apparenza, la
legge vitale di un orga- nismo così complesso, lo scopo di una coA
ab- bagliante fantasmagoria. Si tuffò nella storia me- dievale fino
agli occhi : senza fermarsi alle com- pilazioni volle risalire alle fonti
originali, meditò su tutte le pagine degli Scrìptores rerum
Italica- rum, rìsfogliò le cronache, rivisse tra la polvere erudita
coi vescovi e coi consoli coi settari e coi signori del buon tempo
antico: e cosi mentre la turba degli gnomi, non comprendendo la sua
soli- taria libertà superiore alle borie del nazionalismo miope e
pettegolo, lo accusava di vilipendere la sua lingua e la sua patria, egli
preparava in silen- zio airitalia uno tra i più bei monumenti di
glo- ria che potessero inalzarle i suoi figli. Le Rivoluzioni
d'Italia furono pubblicate la pri- ma volta a Parigi in francese nel
1858, ripubbli- cate in italiano tradotte dell'autore: in questa
seconda edizione, nonostante gli studi posteriori in seguito ai quali
credette di avere scoperto la filosofia della storia e la legge
perio- dica del movimento storico, guidato da un istin- to
fortunato, non la ritoccò quasi affatto, non osò guastarla per farla
servire alla sua teoria; quindi noi terremo sott*occhio pel nostro studio
Tedi- zione italiana, da cui son tolte le citazioni e a cui si
riferiscono i rimandi. Per quel che già conosciamo della
costinizione intellettuale del Ferrari, possiamo fin d'ora giu-
dicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perchè egli riunisce
l'intelligenza artistica alla comprensione filosofica e al criterio di un
sistema formato. Tutti ì grandi storici sono artisti: artisti neil'inter-
pretare gli uomini e i fatti, artisti nel rappresen- tarli e atteggiarli
davanti al lettore in modo che sembrino attuali e spirino vita. Sono
anche filo- sofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui traggono
i criteri della interpretazione e del giu- dizio; ma di solito il loro
sistema non è che im- plicito e irrìflesso come quello di qualsiasi
indivi- duo che non si dedichi di proposito alla filoso- fia;
qualche più rara volta c'è, ma preso a presti- to, non rielaborato né
rivissuto individualmente, rimane estrinseco e astratto. Orbene la
grandezza unica del F., la sua caratteristica qualità, consiste
nell'avere a fondamento della sua interpreta- zione un vero formato
originale sistema filosofico. Non solo. Questo suo sistema, che anche
og- gi è in gran parte vivo perchè rientra nel corso delle grandi
concezioni, è il più adatto a dare u- na base filosofica
all'interpretazione storica; per- chè considera la reahà come movimento,
ed è tut- to pervaso dalla persuasione della razionalità che
governa la realtà e la storia. Cosicché per quan- to il Ferrari come
politico sia un uomo di parti- to militante e quanti altri mai fermo
nelle sue idee, amante delle posizioni nette, insofferente degli
equivoci; come storico noi possiamo essere sicuri che guarderà la storia
dall'alto, saprà giudicare libero totalmente dalle preoccupazioni po-
litiche del momento, saprà rispettare la veneranda grandezza del passato senza
querimonie per gli eroi mancanti e per le cause sconfitte, non farà ddla
narrazione dd passato un pamphlet <x)n- iro i suoi avversari ddl'oggi.
In una parola sarà imparzude. Questo è il suo significato ragioaevole di
una simile rìciiiesta dd senso comune, il quale esige non che lo storico
non abbia un pun- to di vista a cui è impossibile sottrarsi; ma che
abbia un punto di vista elevato, donde sì giustifi- chi, non si faccia il
processo alla storia. Riepiloghiamo brevemente il sistema del
Fer- rari, integrando la sua concezione più propriamente filosofica, cioè
di valore assoluto, con le deter- minazioni empiriche onde egli cerca di
dare una formula generale al movimento storico. Il mondo è
alterazione svolgimento rivoluzione; la storia è la narrazione di questo
movimen- to intemo ed estemo, prodotto dall'antitesi delle
contradizioni critiche insolubili ideali, e dalla lot- ta delle contradizioni
positive reali che si cond- liano in una specie di equilibrio dinamico.
In o- gni momento nel mare enorme ddl'umanità l'individuo che ne fa parte
come tm'onda o meglio ancora come una goccia ha suoi interessi
parti- colari su cui nasce una sua rivdazione morale <1); messo
di fronte a nitti gli altri innumerevoli suoi simili, mossi pure da forze
utilitaristiche e morali varie e a volte contrastanti, lotta per
eon- dUare le contradizioni in tm dstema politico, che Non è
se non la proclamazione del determinismo econo^ micCj che egli applica
poi nel coreo della ina storia. si attua sopramtto d^tro i confini dello
stato. Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di natura^ nutre
dentro di sé un sistema opposto destinato a succedergli (1). La stocianoa
è altro se non la narrazione del succedersi di questi sistemi nati
da^i interessi e dalle rivelazioni morali variabili dell&'masse»
divise tra loro> da una specie di lot- ta di cla|^e^<:te.r}esce^a.
propagare sempre più la democrazia e a conquistare una più larga
egua- glianza. Come si attua questo progresso dentro Io
star to? Lo stato è duali^ato in due paniti contra*) stanti che
polarizzano gli interessi delle moltitur dini, il pardto rivoluzionario e
il partito conser- vatore. La rivoluzione assale la forma tradizio-
nale dello stato a nome di un nuovo principio, di una più larga
democrazia^ con la forma politica opposta; monarchk)a negU. stati
repubblicani^ fe- derale negli stati unitari, cattolica contro i
protestanti,, erviceyersa. Vince perchè il progresso è necessità fatale
della storia; ma appena il prin^ cipio da essa propugnato è stato
accettato essa viene vinta dal partito conservatore, che traspor-
ta il nuovo principio sulla base politica tradiziona- le onde lo stato si
difende dallo stranilo. Perchè lo jstaio non è solo sulla terra; ai
suoi confini un altro organismo nemico vive con intere^, cQnidoe, con
tendee^o opposte. L'umanità è quindi una specie di scaochiejra di nazioni
che si prendono vicendevolmente a rovescio, un (i) Cfr<
la notfi teorìa di Marx. enorme meccanismo di ruote dentate
ingranate runa nell'altra che girano in senso contrario, un sistema
di forze disposte cosi che il partito oppositore intemo di uno stato i sempre
d'accordo col partito dominante dello stato vicino e rivale. O- gni
stato è quindi straziato da una guerra inter- na e nello stesso tempo
combattuto da una guer- ra estema : la lotta sociale domina e regge
la lotta politica. Poiché appena dentro uno stato trionfa un nuovo
sistema sociale, vien creata una nuova forma che allarga sempre più la
democra- zia e Teguaglianza ; il movimento si diffonde a tutte le
altre nazioni come il cerchio sollevato da una pietra gettata nel lago: e
il nuovo sistema sociale vien trasmesso dal lavoro delle minoranze
oppositrici a tutti gli stati. Guai se uno stato at- tarda troppo nella
strada della rivoluzione sociale! Esso vien conquistato da altri stati di
civiltà superiore. Guai se non adotta la forma opposta dd contrasto
I Viene assorbito dal vicino più potente. Gli stati le nazioni le razze
possono quindi de- cadere e magari spegnersi, ma l'umanità non de-
cade e su una linea di progresso continuo passa per una scala ascendente
di sistemi sempre superiori. Nemmeno nei periodi più oscuri di barba- rie
e più nefandi di cormzione si ha decadenza: Anche un popolo vive esso è in
progresso, pro- gresso che può essere arrestato solo dal fatto fi-
sico della sua totale disparizione per un catacli- sma naturale o per un
eccidio universale. Riceverà l'impulso politico che una volta egli dava alle
altre nazioni^ accettando le nuove progressive forme politiche
dall'esterno invece di crearle per sua spontanea originale vitalità;
perderà magari Tindipendenza, ma la compenserà con un miglioramento
sociale per cui accetta il vincitore; vedrà succedere al fiorire delle
arti alla ricchezza industriale e commerciale sterilità intellettuale e
mi- seria, ma avrà sempre un progresso sociale che lo compenserà di
questa sua decadenza. Poiché fra popoli in lotta, come fra più
individui, è naturale che il più forte vinca. Ed è anche razionale. La forza
dei grandi aggruppamen- ti storici non è la forza fisica, non è il peso
bru- to del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pugno del facchino
che tappa la bocca al tribuno; ma è ordine, disciplina, saldezza
economica, co- scienza nazionale, è in una parola forza spiritua-
le. Non è la pura forza fisica brutale che vince nel gran campo di
battaglia della storia, ma è la superiorità intellettuale e morale: la
vittoria co- rona sempre il più degno, fatalmente destinata come la
sconfitta; chi ha perduto se lo merita; chi è conquistato : o s'è
lasciato liberamente con- quistare per godere di una civiltà superiore
che colle sue forze non poteva raggiungere, o si è dimostrato nel
paragone delle forze inferiore al suo vincitore che in compenso della
libertà per- duta gli dà i vantaggi di un miglior sistema so-
ciale. Certo gli uomini e gli stati agiscono spesso sot- to
l'impulso di bisogni materiali e di egoismi per- sonali, ma la storia li
adopera a tm fine che li trascende; quella che Vico chiamava
Pwwedenr za ed Hegel Astuzia della Ragbne trae dalle azio- ni
egoistiche il bene dell'umanità, usa dei malvar gi per un'opera buona,
della cupidigia delle conquiste si serve per spandere la civiltà sulle
regioni selvagge o barbare, di Nerone per iniziare la gran
democratizzazione dell'Impero romano, di Fernando Cortez per conquistare
l'America a u- na civiltà superiore. Il male nella storia non esi-^
ste come non esiste in natura : esso non è che in quanto ha in sé il
bene, un granello di bene che solo gli permette di esistere; non è che un
con- cetto dialettico senza realtà (!)• ^ storia è dun- que razionale.
Non stiamo a spargere lacrime su- gli eroi sconfitti e sui popoli caduti;
la storia li ha sacrificati con diritto a cause superiori : tatto
quello che è avvenuto è avvenuto razionalmente. La storia dà dunque la
vittoria al merito, pro- gredendo con la legge del minnno sforzo.
Date tali forze in contrasto, la soluzione del sistema in un fatto
sarà rigorosamente quale doveva per il valore delle forze; a quella
maniera che in un sistema di forze flsiohe il loro rapporto è
deter- minato dalla loro potenza. La storia è dunque ne» cessarla :
la serie degli avvenimenti che dai tem* pi antichissimi arriva Ano a noi
non poteva esse^ re diversa da quella che fu per arrivare a questo
punto. Questa è una necessità a posteriori: non una necessità metafisica
o teologica che (i) Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e false
storte. — Napoli, Giannini. Questioni
storiografiche^ Napoli, Giannini, 19:3 — passim.
obblighi uomini e cose a seguire le linee di un piano traéciaro in
antecedenza» ma una neces^ sita interna che nasce dal gioco delle forze
uma- ne. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze fossero state
diverse; e cambiato uno degli anelli, la catena sarebbe certamente
cambiata arrivando fino a noi : non si sarebbe giunti allora a
questa mèta, ma ad un*altra imprevedibile, non meno necessaria
secondo il valore di quelle forze. Cosi dalla storia vien cancellata la
parola ca^o, che una volta si usava a indicare la ragione ignota co^ me
dai geografi ìò spazio bianco a indicare una regione sconosciuta ; cosi
vien cancellata là paro- la Ubero arbitrio inteso come un misterioso
potere deirindividuo, che con la piccola fòrza della sua volontà
potrebbe alterare il corso degli avveni- menti determinato dalle forze di
volontà dell’umanità intera. Per quanto un individuo voglia an- dar
contro corrente, egli è sempre Aglio del suo tempo; per lottare contro
esso deve accettarne la base comune di credenze ^e perflho le parole
del- la discussione e le armi della battaglia; per quan^- to sia
isolato non può mai impedire che la società lo insegua e lo tocchi per
combatterlo o per ac- clamarlo. Non lasciamoci impressionare
da certe parole e frasi, che potrebbero far credere a una
costruzio- ne astratta a priori della storia : era nel carattere
del Ferrari di calcare la mano troppo violentemen- te sopra certe
affermazioni, di' mettere troppo in rilievo i caratteri comuni delle
cose, di dare la forma assiomatica d'una verità assoluta a certe generalizzazioni
di cui egli stesso riconosceva la relatività. Cosi quella storia ideale,
che secondo certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa che
rimane sopra ai fatti ad essi indifferente e su- periore, assoluta sopra
essi contingenti, come se nel blocco unico della storia si potesse
tagliar fuo- ri il necessario dall'accidentale; ha qui perduto
quasi totalmente il significato primitivo e non è altro se non una
generalizzazione e semplificazio- ne dei fatd storici fatta a posteriori,
per poter raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente
didascalico onde non dover tornare ogni momen- to a ripetersi. Del resto
il F. stesso afferma che questa sua storia ideale ricade d'appiombo
a coincidere colla positiva; ma una prova ben più decisiva ce
Toffre la sua storia stessa, la quale è tutt'altro che una storia
astratta a priori. Così il F. si compiace spesso, sforzando al
solito l'espressione, di chiamare geometrici, meccanici certi
movimenti, di dare come perfettamente e- quivalenti certe rivoluzioni
avvenute in forza di uno stesso principio — viceversa poi nella narra-
zione fa vedere anche come, pur nate dallo stesso principio, si svolgono
con forme individuali. Spesso pure e volentieri tira fuori la fatalità
: ma questa non è affatto l'opposto di libertà indi- viduale che
leghi con un misterioso potere pro- veniente dalla natura o da Dio ; non
è altro se non la forza storica dell'ambiente, forza umana e im-
manente dell'umanità, della massa, che soverchia naturalmente il conato
d'un individuo. Premessi questi chiarimenti, diremo che il
suo sistema storico possiamo accettarlo. Mio Dio, non è di valore
assoluto, non si attua quindi in tutti i casi colla stessa necessità e
precisione con cui si attua un sistema fllosoflco : nonostante le sue
esagerazioni verbali il Ferrari stesso ne era per- suaso, lo dimostra la
sua opera. Ma perchè vor- remmo noi interdirci la generalizzazione, che è
un processo necessario del pensiero? Che non si prendano le
generalizzazioni, queste entità astratte, per realtà metafisiche; che non si
costringa nel loro letto di Procuste l'individuo — d'accordo. Ma perchè
rifiutarle come strumento di ricer- ca e mezzo di spiegazione e di
esposizione? E' generalizzazione evidentemente la divisione in pe-
riodi storici (sistemi o principi): la storia è un corso continuo di
avvenimenti simile a un fiume ; ma come il corso del fiume si può
dividere in superiore e inferiore, così si può dividere, cosi si è
sempre divisa la storia. E' generalizzazione il raccogliere gli
innumerevoli partiti di uno sta- to in regnante e opponente, ma essa
semplifica e spiega la realtà. La legge di opposizione, che or-
ganizza gli stati vicini in senso inverso gli uni de- gli altri ,è pure
una generalizzazione — e guai se uno volesse applicarla rigorosamente I
Pure la forma politica de^i stati è una generalizzazione, perchè
questa forma un tempo non era cosi e in- sensibilmente va sempre
mutandosi. Lo stesso movimento dei prìncipi considerati come
qualche- cosa d'assoluto, di perfettamente identico per tut- ti gli
stati che li traducono nelle loro forme poli- tiche diverse, è una
sempHBcazione generalizzata ; perchè qui contenuto o principio e forma
sono ruu'uno, non si possono scindere né l'uno dal- l'altro, ni
dagli uomini che li rappresentano, come fossero delle entità metafisiche.
Di fronte a tanta ricchezza di pensiero non fac- ciamo dunque i
sofistici pesatori di parole, non af- ferriamoci alla lettera cruda che
uccide lo spirito, sdegniamo un procedimento che distrugge colla
pedanterìa terribile dei cavillatori qualsiasi gran- d'uomo; e
abbandoniamoci con simpatia al nostro autore cercando di
intenderlo. Vediamo ora come questi prìncipi vengono ap-
plicati airinterpretazione della storìa d'Italia. L'enorme devastazione
unitarìa di Roma aver va sottomesso tutti i popoli del mondo antico
al dispotismo imperìale, per eguagliarli in una de- mocrazia
vittoriosa di mtte le aristocrazie nazio- nali, per trasmettere loro la
civiltà del pensiero . greco e della legge romana. Ma dopoché e$8i eb-
bero conquistati i benefìci della civiltà e della democrazia; quando i Galli e
gli Afrìcani, gli Iberì e gli Illiri furono tutti romani dinanzi
all'ugua-, gliatrice legge imperiale^ allora l'interesse e il
sentimento di patria li rivoltarono contro il fisca- lismo micidiale
dell'Impero che, flagellato dalle onde del grati mare barbarìco
minacciante ai con- fini, era costretto per le necessita della difesa
a caricjBre di tasse i suoi cittadini o a maneggiare Je invasioni
cacciandole l'una con l'altra — e un pròcesto di dissolvimento federale
decompose la ciclopica unità romana. Una invasione barbarica stabile
venne accettata dai popoli per sfuggire al flagello delle invasioni
perpetuamente rinnovanti- si che moltiplicavano le devastazioni (1); e la
ca- duta dell'Impero romano d'Occidente fu salutata come una
liberazione economica e politica, che conservava intatto nitto il
progresso sociale di Ro- ma (476). Odoacre venne dunque
accettato dall'Italia co- me liberatore; Teodorico, spedito contro di
lui per un bieco disegno di reazione dall'Imperatore d'Oriente, una
volta signore della terra doveva assumere la posizione e continuare la
missione della sua vittima. (Fondazione del regno : 476-512). Senonchè
lo spirito uhiàno nei suoi deside- ri non si ferma mai sotto la spinta di
sempre nuovi bisogni; e una volta stabilito saldamente quel regno
che li aveva liberati dal fiscalismo im- periale, gli Italiani vollero
conquistare una mag- gior libertà, e si raccolsero attorno alla Chiesa
cattolica repubblicana e federale per assalire il regno ariano e unitario
dei barbari. Comincia la Lotta contro il regno barbaro estemo. Fulminati
dalla potenza invisibile della Chiesd^ erede di Roma cadono gli eroici
Goti; Nar- sete, che vuole sfruttare la vittoria romano-bizan- tina
per rialzare una specie di regno bastardo, Cfr. C. Balbo: Della
storia if Italia. Bari, Laterza, 1913. Voi. I, pag. 104 : Bisogna dire
che parerle una benedi- zione qnell' invasione stanziata dopo tante
momentanee più cmdeli e più sovvertitrici. non può rimaner saldo sul
terreno malfido. {Riv. d'it.) : ... Ecco i Longobardi che
giungono In apparenza marciano casualmente; formano una moltitudine densa sozza
vorace, che scende lentamente dai passi delle Alpi, si spande squallida
compatta ardente come la lava, sepellisce sotto di sé le città che
invade, le petriflca colFalito suo; nella sua bru- talità non infrange
nemmeno gli ostacoli ma li cir- conda oltrepassandoli — ed invade metà
della peniso- la fermandosi subitamente senza ragione alcuna. La
scena è muta e desolata : si direbbe che tutto ce- de a leggi
esclusivamente fìsiche, e che i Longobardi obbediscono al peso della loro
propria materia. Senonchè questa massa in apparenza bruta di
Longobardi evita a disegno tutti gli errori dei Goti : non errano come
soldati, ma si stabilisco- no come un popolo di conquistatori nell'Italia
del Nord e nel centro, rinunziando alle inutili vitto- rie del
Mezzogiorno; fondano una rete strategica di fortezze che sorvegliano e
imprigionano le grandi città romane sempre rivoluzionarie; trat-
tano i vinti da conquistatori, sottomettendoli alla legge della spada e
derubandoli del frutto del lo- ro lavoro. Inutile: Tltalia romana e
cattolica ri- mane libera, sotto l'egida ufRciale della protezio-
ne di Bisanzio ; e S. Gregorio Magno papa (590- 604) divenuto capo della
federazione romana e rappresentante anche dei vinti del Regno,
volta contro la barbarie longobarda tutti i miracoli del- la
religione e la potenza spirituale del pontefice, a cui una nuova teologia
dà il potere di condannare o assolvere i morti prima del Giudizio uni-
versale. Le due forze antagoniste rimangono dunque di fronte
a influire Tuna sull'altra vicendevolmente : ma se i Longobardi eccitano
col loro esempio r Italia romana a conquistarsi Tindipendenza poli-
tica da Bisanzio, sperando cosi di ingoiarsela do- po; non possono
sottrarsi all'influsso della Chie- sa, che con una rete sotterranea di
silenziose co- spirazioni mina il sottosuolo dell'Italia regia per
mezzo dei suoi cattolici. Prima decompone il re- gno opponendo al re
ariano di Pavia, la capita- le longobarda, il re cattolico di Milano, la
capi- tale romana ; e infine trionfa coll'avvento del cattolico
Liutprando. I Goti avevano commesso l'er- rore di accettare il principio
imperiale, i Longo- bardi commisero quello di accettare il
principio cattolico : e paralizzati dalla inimicizia intema dei
cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato della rivoluzione romana e
della eroica devozione fran- ca (1). Per quanto più tunani dei mostruosi
re franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini, già
seminazionalizzati da un processo di fusione coi vinti del regno; non
furono mai accettati dall'I- talia romana, che organizzata
antiteticamente li combattè con la rivoluzione col Papa coi
Franchi. L'Italia romana non voleva il flagello d'un regno Cfr. G,
Volpe. Pisa e i Longobardi in Studi storici, Pisa, Non il re franco fu il
vero vincitore, ma 1* Italia e Roma, che avevan rotto la natia compagine
delle genti d'Alboino, già predisposte a ciò dall' antica
costituzione del popolo e dai modi della eonquista. l>arbaro che
avrebbe imbrìgliato la rivoluzione so- dale, legato i gran centri romani nella
rete delle città militari in arretrato, sepellito sotto un'allu-
vione barbarica le reliquie della civiltà romana conservate dal
cattolicismo. E per impedire che potesse mai formarsi un
regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, de- stinata a spandere il
fuoco della libertà su tutta l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in
Occidente. Come rappresentanti del nuovo patto so- ciale che doveva
essere la base del diritto pub- blico dell'Occidente a loro sottoposto,
il Papa e l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad essere
la custode del loro duplice potere euro- peo : l'Imperatore ebbe l'Italia
superiore, il Pa- pa Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia
meridionale con le isole da conquistarsi ancora 3ui Bizantini. {Trasporto
dell'Impero in Ocddente). L'Italia perdeva quindi l'indipendenza
naziona- le, ma acquistava la libertà: e per tutti i domini del
Papa e dell'Imperatore il progresso sociale migliorava le condizioni dei
Romani, non più sot- tomessi alla legge della spada barbarica, ma
alla giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la sorte delle città
dell'industria e del commercio a danno (dei centri militari; soffiava
nelle ceneri calde del- la coltura romana ad attivarne nuove scintille
.So- lo le terre ancora escluse dal patto papaie-imperiale, Venezia, le
repubbliche meridionali, la Sicilia, scontavano amaramente la loro
indipenden- za politica con una inferiorità sociale, prodotta dalla
confusione bizantina dd potere temporale e del potere spirituale, la
quale impediva la gran libertà del pensiero. Intanto Tunità
dell'Impero d'Occidente andava decomponendosi sotto gli inetti successori
di Carlo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa del- le nazioni
insegnando loro a conquistarsi una li- bertà federale. Ma poiché da
questa risorge lo spettro micidia- le d'un regno barbaro interno, la
rivoluzione pa- pale e imperiale sempre regnante approfittando
delle rivalità tra i feudatari rende impossibile il regno d'Italia, lo
condanna a non essere che una lotta di pretendenti, offrendo sempre la
corona a due rivali e rialzando sempre il vinto contro il vincitore
(Lotta contro il regno barbaro interno) finché invocato dalle rivoluzioni
italia- ne giunge Ottone I a rinnovare il patto papaie- imperiale.
Egli distrugge per sempre il regno, di- sorganizza le marche dei
discendenti dei barba- ri, esalta il clero romano, protegge i comuni
ita- liani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte le nazioni
europee e modifica al suo esempio an- che la Chiesa. {Riv. d'Italia)
: L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di «no
scacchiere, gli uni bianchi gli altri neri, gli u- m unitari gli altri
federali; presso gli uni la reli- gione prevale sulla legge, presso gli
altri la legge primeggia sulla religione; i primi progrediscono con
l'eguaglianza, i secondi con la libertà. La necessità della guerra
condanna tutti i popoli a svolgersi al ro- vescio gli uni degli altri ;
la stessa necessità della guer- A. Fbrrari — Giutéppt Ferrari.
7 ra li obbliga pure ad accettare coll'una o coiraltra delle
due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Cigni stato in ritardo, ogni
popolo che dimentica sé stesso che non prende la sua base d'operazione
in opposizione ai suoi vicini, si trova debole impotente in
contradizione con se stesso e soggiogato. Se si cerca Tinfluenza italiana
in .una propaganda diretta» uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se
inve- ce si segue nell'urto delle azioni e delle reazioni che si
estendono opposte le une alle altre.... si vede dap- pertutto la
catastrofe del regno d'Italia riprodotta con esattezza similare,
dappertutto l'antico stato carlo- vingio o pagano sparisce per cedere il
posto ad un nuovo stato libero colle diete o popolare col re.
Liberata cosi per sempre dalla tirannia unita- ria di un re l'Italia può
abbandonarsi alla carrìe- ra magica delle sue rivoluzioni, che
sembrano frantumare in moti individuali variati disordinati la sua
ideale unità di nazione, e a prima vista ci appaiono refrattarie a
qualsiasi principio organi- co di interpretazione (Riv. d'Italia):
Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto al- l'azione dei
principi; e la storia d'Italia si svolgeva una e logica, dominando i più
svariati avvenimen- ti con una specie di continuità drammatica un tem-
po vasta come il mondo. Odoacre abbraccia l'intera nazione col fatto
unico del regno proclamato contro gli ultimi imperatori, che accampati da
.banditi a Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Un- ni e
Roma ai Vandali. I Goti continuavano l'opera di Odoacre, fissando
l'invasione unica del re in tutta l'Italia. Bdisarìo e Narsele lottavano
pure quali ca- pitani dell'unità Imporàde contro il ragno tondKo so
Ravenna; e tutte le città, scacciando i Goti, si ria- nimavano con un
risorgimento quasi repubblicano. Più tardi i due principi opposti
dell'unità imperiale e dell'invasione regia si spartivano materialmente
la penisola; e la terra, metà romana, metà longobarda, rimaneva una
nella guerra dei popoli cattolici del Mez- zodì contro la dominazione
ariana di Pavia; ancora una nel doppio slancio che estolleva le
repubbliche cattoliche e il regno longobardo; sempre una nell'in-
fallibile trionfo della religione delle repubbliche, che consegnava il
regno a Carlo Magno per rifare l'Im- pero d'Occidente. L'unità
sopravviveva nel patto di Carlo Magno esteso a tutta la vera Italia
dipendente da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei
Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti egualmente nemici
del Papato e dell'Impero; l'unità si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni
posteriori con- tro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re
italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di quattordici
rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra or- dinata nelle sue lotte,
uniforme nel suo ultimo trion- fo, unanime nel disegno che rinnovava il
patto della Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t due
principi della rivoluzione cattolica e del regno nazionale, s'intendeva
facilmente il senso di tutte le lotte; dal momento che una guerra scoppiava
dove- va essere la guerra dei due principi : ci bastava il se-
guire le due correnti, il nostro lavoro era eccezio- nale senza esser
diffìcile, l'unità delle idee suppliva all'unità materiale dei fatti. Noi
avevamo il diritto di sottomettere ad una unità eccezionale il moto
ecce- zionale del Papato e dell'Impero; Napoli, Venezia, Bari, la
Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da se stesse per lasciare il posto
alla geografìa pontifìcia imperiale; e queste repubbliche ordinate al
rovescio della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzio-
naria, la sola che importava di seguire. M« dai primi anni del XI secolo
cambia la scena; il moto generale scioglie ^uestltalia che già
scon- certava la critica: o^i città ha il suo eroe, le sue
rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I comuni non sembrano punto
associati; nesstma federazione, nessuna lega, nessun' unione generale e
apparente: Milano è straniera ad Ancona qtianto Arles Treverì o Cambra!.
I popoli si combattono, gli avvenimenti si incrocicchiano in tutti i
sensi, gli episodi sono in- numerevoli. Alcune città fondano delle
colonie, altre si estendono colle conquiste, giungono i Normanni,
la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'i- noltriamo, tanto
più le forze della guerra e della li- bertà sembrano scatenarsi a caso.
Lo spirito si tur- ba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i
suoi storici non abbracciano più l'insieme della penisola:
Giordanes, Paolo Diacono, Vamefrìdo e Liutprando non hanno successori; più
non si scoprono se non dei frammenti di cronache, delle scene staccate.
Più tardi ogni città ci presenta la sua biblioteca dì scrit- tori,
i suoi poeti della barbarie municipale, il suo Cimerò che canta nuove Iliadi.
Eccoci in presenza di cento storie distinte diverse contradittorie, senza
legame palese: noi lo domandiamo, dove sarà la sto- ria d'Italia?
Le nostre proprie idee ci danno il filo che ci gui- da attraverso
il labirinto italiano. I comuni s'impa- droniscono del suolo per
interpretare la vittoria da essi riportata col Papato e coli 'Impero;
essi proseguo- no la loro guerra contro il regno, combattendo ogni
rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge, la forza,
l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei re; questo è lo scopo
loro; essi marciano contro il Papa e l'Imperatore per distruggere
nell'uno e nel- l'altro ogni principio che conserva le tracce dei
Go- ti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Euro- pa. La
storia dei comuni non è dunque altro che la storia di una rivoluzione
continua, lenta, fatale, e sempre trascinata dai suoi propri antecedenti
a combattere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della barbarie, per
creare un Papato, un Impero ideale, donde spariscano in modo cosmopolita
tutte le trac- eie della dominazione delFuomo sull'uomo. Un grand
'errore ingombra la storia d'Italia, ne sconvolge i prìncipi il moto le
epoche il progresso, e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed
è l'errore che la considera come il racconto di una guerra continua
contro il Papa e l'Imperatore per conquistare l'indipendenza politica del
governo o, co- me si dice in oggi, per respingere l'invasione dello
straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe mai stata, la prima delle
nazioni, e la sua storia riu- scirebbe a questa assurdità inammissibile:
che do- po cinque secoli dì guerra non avrebbe né raggiun- to, né
voluto lo scopo stesso della guerra. No! nac- que l'Italia pontificia e
imperiale contro i Goti, contro i Longobardi, contro i re italiani provenzali
e burgundi; nacque creando e interpretando il gran patto della
Chiesa coli 'Impero; dominò le stesse conquiste carlovinge cogli incanti della
religione e colla magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi
di Teodorico la Chiesa e l'Impero sono stati i simboli della sua libertà, della
sua redenzione, di ogni sua idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel
fatto e nel possibile; e con la costituzione dei due poteri essa ha
organizzato una rivoluzione permanente, universale, indefinita nelle sue
aspirazioni verso l'avve- nire. Il primo dei suoi capi sotto l'aspetto
politico è l'Imperatore, il più debole il piii legale il piti fede-
rale dei re; il secondo suo capo è il Papa, cioè il più inerme tra i principi,
il meno conquistatore dei sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul
suo- lo italiano, ed al contrario il regno che era conquista- tore
venne schiantato con una guerra così violenta che tutti gli stati
dell'Europa ne rimasero scossi. Per- tanto non vi ha, né vi sarà mai
guerra alcuna d'indi- pendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno
se non pochissimi soldati, sempre costretti a fondarsi sulla forza
stessa della terra. Che, ss sono assaliti, si è perchè sono oltrepassati
dagli Italiani che voglio- no riformare il patto» che chiedono sempre un
mi- glior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'es- sere
rifatto: nò punto reclamano una vuota indipen- denza; ma sostengono una
guerra costituzionale in- tima organica per trasformare le idee le
istituzioni la religione, una guerra dove il principio di respin-
gere gli stranieri è sempre posposto al principio di distruggere ogni
istituzione regia o feudale. E se il Papa e Tlmperatore resistono, non
combattono se non come conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle
reazioni inteme che la libertà provoca e sormonta, imponendosi loro cosi
d'epoca in epoca fino agli ulti- mi giorni del risorgimento italiano. La
storia dei co- muni, considerata in tutta la sua durata, non è dun-
que la storia di una guerra contro lo straniero, fatto unico materiale
mille volte impotente; ma è la sto- ria di un fatto ideale organico
sempre crescente: e poiché là dove le idee regnano il caso non può
re- gnare, l'oscurità del labirinto italiano deve sparire - e
qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzio- ne è la stessa in
tutte le città : da per tutto essa ha lo stesso punto di partenza — la
caduta del regno, lo stesso punto d'arrivo — il risorgimento italiano;
da per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla medesima
logica; lenta o rapida, squallida o splen- dida, vittoriosa o vinta, le
sue fasi sono determina- te anticipatamente dall'inflessìbile destino che
sforza i principi a generare le loro conseguenze. Che i mil- le
accidenti della guerra turbino adunque l'Italia, es- si saranno tutti
travolti da una sola corrente; e vi sarà sempre una storia ideale e
uniforme, comune a tutte le città da Ottone I alla flne del
risorgi- mento. La storia ideale della città italiana si
ripete a un patto di Carlo Magno, che essa interpreta e che tra-
sforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore noli intendono che a
mantenerlo nel senso il pih tardo, se ne dichiarano apertamente conservatori;
la loro opera è sempre una restaurazione imperiale e pontificia. Ma
hannovi forse restaurazioni nella sto- ria? Noi non ne conosciamo: gli
antichi poteri che diconsi ristabiliti si trovano sempre trasformati,
e non trionfano se non accettando Topera del tempo, e non
ricompaiono sulla scena se non alla condizione di rappresentare i
principi che la fatale ignoranza del governo tradizionale lasciava ai
loro nemici. Stessa- mente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro
re- staurazioni così dette eterne, seguendo passo passo la storia
delle città italiane di cui amnistiano le ri- bellioni e accolgono le
innovazioni. Egli è giusto che resistano; se non resistessero la
rivoluzione non a- vrebbe nessuna ragione per manifestarsi e nel
me- desimo tempo la storia ideale si fermerebbe. Ma e- gli è altresì
giusto che, una volta sconfitti, si rista- biliscano, accettando il
progresso che si è fatto stra- da e che passa allo stato di fatto
compiuto o di fa- to ineluttabile; ed è così che tutte le epoche
della storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Ma- gno colla
Chiesa. Una volta nel patto, esse si ripeto- no in tutti gli stati
dell'Europa. Non sono forse il Papa e l'Imperatore i due grandi
personaggi dell'Oc- cidente? bisogna dunque che propaghino da per
tut- to le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli stati
non si svolgono forse simultaneamente gli uni contro gli altri? devono
quindi accettare ogni pro- gresso, non foss'altro per combatterlo.
Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tut- te le rivoluzioni
italiane; la legge che ne governa la varietà a prima vista irreducibile
di forme, e le costringe ad essere incasellate entro il quadro di
due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il periodo storico che il
Ferrari ha studiato con più amore e trattato con più larghezza i la
storia an- t^rìorc al 962 e posteriore al 1530 è rispetdva- mente
conaiderata come imrochizione e come epi- logo alla epopea di quel che
egli chiama risorgi- mento italiano. Allontanato per sempre
il perìcolo d'una tirai^ nide regia colla rinnovazione del patto
papalo- imperìale e col trasporto dell'Impero in Germa- nia, r
Italia che fln qui era stata l'alleata dd Pa- pa e dell'Imperatore
comincia a combatterli ma non per distruggerli, bensì per riformarli,
tra- scinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartie- re contro
ogni rimembranza del regno. La rivoluzione dtì Vescovi
(962-1122) apre la serie. Nella città sfuggita ormai all'incubo dd
re^ gno ecco si trovano di fronte due poteri : il conte goto
longobardo o franco di discendenza, che vor- rebbe riprodurre in piccolo
dentro la cerchia dd- le mura cittadine la tinmnide regia, che
governa cdla legge ddla spada il popolo di discendenza ro- mana; e
il vescovo romano di razza e di tradi- zione che protegge i deboli contro
la prepotenza regia del conte barbaro, aprendo loro le porte del
suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone impedisce agli sgherri
del tiranno di entrare. B. popolo si serra attorno al suo vescovo, vuol
es- sere giudicato dalla sua giustizia superiore a quel- la del
conte come la ragione alla spada, si appas- siona per tutte le
sup»*stizioni dd cattolicismo voltandde come armi ideali contro le
alabarde degli sgherri comitali^ finché un giorno scoppia im-
prowisame&ie una sollevazione annata. Il conte si trova espulso, e
nella città si comincia a sboz- zare colla formazione dd primo popolo
raccolto dalla corte del conte e da quella del vescovo Tor- ganismo
comunale italiano, che non è una deriva- zione germanica o romana ma
nasoe adesso oomh battendo contro le memorie del regno. La rivolu-
zione vescovile irraggiata dal focolare di ribeÌlto> ne delle città
penetra nei feudi, ove sostituisce fa- miglie pie di tradizione romana e
avversa al re- gtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discen-
denti dagli invasori ; conquista il Mezzogiorno pa^ ralizzato dalla
confusione bizantina dei due pote- ri, al seguito delie schiere avventurose
dei Nor- masni; e in RomB trionfa coHa libera elezione popolare e
clericale di Gregorio VI nemico dei conti e dei patrizi. Ma i
centi espulsi daUe città da un esercito d! straccicmi capitanati da un
prete ricorrono all'au- torità legale del loro supremo tutore,
l'Imperato- re, che vede oltraggiata la sua legge; e Corrado II di
GebeHno comincia la reazione contro i ve- scovi. Invano : sconfitto da
Eriberto di Milano, che oppone alla cavalleria feudale le picche
dei popolani raccolti attorno al carroccio novdlamen- te creato,
vede la sua reazione abortire nelle cit- tà e nei feudi deiritaUa
imperiale e in Roma, e deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano
dd- ritalia meridionale è il Papa, che l'ha avuta fai seguito al
^an patto carolingio: a lui quindi spetta di guidare la necessaria
reazione contro i Normanni rappresentanti meridionali del princi- pio
vescovile, i quali dopo averto vinto sforzano S. Leone IX ad accettare la
loro rivoluzione. E cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e
legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri eu- ropei la diffondono
in tutta l'Europa; e perfino ndla Chiesa, la quale si appassiona per la
vergi- nità mistica in odio dei preti ammogliati, che pro- fanano
la sua repubblica immacolata con una spe- cie di feudalità clericale
(1050). Appena ottenuta la legalizzazione della cacciata del
conte, la rivoluzione entra in una seconda fa- se, continuando contro i
vescovi no- minati dall'Imperatore che li incarica di sostene- re
la parte dei conti, per strappare la libera ele- zione dei vescovi stessi
— e una volta vittoriosa vuole la libera elezione del più grande dei
vesco- vi, del Papa, che l'Imperatore si arrogava il di- ritto di
imporre. Il monaco Ildebrando riunisce tutte le forze della rivoluzione
per togliere Roma ai papi tedeschi, prima con l'elezione di Nicola
II, poi con quella di Alessandro II contro l'anti- papa Cadaloo; e infine
salito lui stesso sul tro- no pontificio assale per la prima volta la
suprema- zia imperiale, e trasporta nella Chiesa la rivolu- zione
vescovile compita predicando la crociata. Senonchè l'utopia di
Gregorio VII conteneva il germe d'una reazione pontificia contro la
libera elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto tra- sportare
dalle mani dell'Imperatore a quelle del Papa: cosicché al suo avvento gli
uomini della rivoluzione passano nel campo nemico; dichiarano che il Papa
non è il padrone della Chiesa ma, sottoposto al Vangelo alla tradizione
ai concili, è il servitore dei servitori, e può essere deposto se
manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra del- le investiture che è la
reazione papaie-imperiale contro la libera elezione dei vescovi : i due
capi sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi in- terpretando
con mente retograda l'antica tradi- zione; ma i popoli al seguito dei
loro vescovi, come avevano atterrato il vecchio Impero sotto 1
colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo Pa- pato sotto quelli del nuovo
Cesare rigenerato. Le città dirigono il Papa e l'Imperatore: sono
im- periali quando il Papa trionfa e pontificie quan- do
l'Imperatore prepondera, e finiscono col se- guire l'alleanza imperiale
sulle terre della dona- zione e quella papale sulle terre
dell'Imperatore. Roma determina l'azione di Gregorio VII sulla
Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV a resistere e gli danno la
vittoria nonostante la sua sciocca sottomissione di Canossa, ma
quan- do la sua vittoria diventa minacciosa disertano il suo campo
e rialzano il Papa; e continuano in questo gioco a rimbalzello Anche
riescono ad ot- tenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa
e l'Imperatore diffondono al solito — dopo con- cessa — a tutta
l'Europa. Anche la prima crociata cade sotto la legge del- la
rivoluzione vescovile: costituita coi quattro e- lementi della città
italiana, la moltitudine il popo- lo i consoli e i vescovi, altro non è
se non Te- spetrìazioae volontaria della feudalità che
lascia libera la terra alla giuriadizion^ dei vescovi. Abbiamo
dato un sunto diffuso di questo perio- do per offrire un esempio più
chiaro del metodo interpretativo del Ferrari : ora potremo procede-
re più rapidamente. Qi stati dell'Europa non avevano ancora com-
pita la prima metà della rivoluzione dei vescovi che nelle città italiane
dov'era nam essa era as- salila da una nuova rivoluzione, nei principi
o- scura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalo- sa c^ tuid i
vescovi della cristiania ne erano scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione
dei Couso^ 2ipassava anch'essa per due tesi: prima sostituiva il
governo vescovUe ed governo consolare; poi scatenava le une con-
tro le i|kre città consolari, divise in due campi per conquistarsi con la
guerra una più larga li- bertà dentro il patto papaie-imperiale.
Nella città vescovile il vescovo essere religiosa e u-asmondano si
trovava a capo della moltitudi- ne, agitata da tend^ize industriali e
commercia- li completamenie mondane ch'egli non poteva soddisfare
né raffrenare. Dall'opposizione nasce rifisurrezione : la città si muove
prima conser- vando le apparenze dell'obbedienza, poi rinnova le
sue istituzioni e crea un nuovo popolo più al- largato e democratico
chiamato a legiferare nd parlamenti che, col tradizionale intervertimento
di aUeanze nemico del Papa negli stati della Chiesa e
nemico dell imperatore nellitalia imperiale, as- sale il diritto del
regno a nome nel risorto di- ritto romano. La. immancabile
reazione pontificia e imperiale procedeva questa volta unita : Innocenzo
II e il suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cat- tolica
tedesca allora vittoriosa nellimpero, secon- do la formula generale di
tutte le reazioni oppo- nevano il passato sempre vivo in essi al
presen- te da cui erano assaliti ; e combattevano i conso- li
fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed al- tra volta si
ardentemente invocati dai popoli, ma non riuscivano che ad ottenere la
fatale sconfitta. Ed ecco che appena vittoriosi della duplice
rea- zione i consoli spingono le città le une contro le altre in
quella guerra municipale, che fa la ma- raviglia e lo sdegno degli
storici maldicenti con le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio
fra- temo. E' questo uno dei misteri più profondi del- la storia
ditalia: la guerra municipale non si spiega né colla volontà del Papa e
dell impera- tore, nò colla lotta fra i due capi della cristianità,
nò colla duidità geografica di Roma e di Pavia, nò colle vertenze fra i
diversi distretti, né colla HbeDione dei castelli. (Riv. d'Italia — Voi.
I, pag. 515): Guardiamo alla terra dove sorgono le città
libe- re : la sua gìeografla é anticipatamente determinata da una
rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vesco- vi ha disorganizzato il
regno, ne ha paralizzata la capitale, lìia isolata, ha degradato le città
militari che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro fun-
zioni strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri se- condari che erano
padroni delle vie dei fiumi del commercio di tutto. Le città romane sono
state rial- zate, opposte alle città militari; restituite
all'impor- tanza naturale che loro davano il conmiercio, la ric-
chezza, la facilità delle comunicazioni, le circoscrizio- ni diocesane
stabilite dai Romani sotto l'impero del- la civiltà. Ne nasce che la
terra è dualizzata in ogni parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate
tutte le città le une contro le altre: ogni centro militare si
trova in presenza di un centro romano a lui ostile; Tuno declina, l'altro
s'inalza; l'uno immiserisce, l'al- tro prospera; l'uno langue, l'altro
risorge. Nell'era dei vescovi la dualizzazione delle città non è
ancora apparente, la legge imperiale e pontificia regna an- cora,
la guerra si dissimula; e se i conti sono con- gedati, la metà della
gerarchia sussiste ancora col ve- scovo che supplisce al conte, nasconde
la guerra - e non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Mi-
lano non combatte le città dei dintorni se non per ordine
dell'Imperatore... Ma nel momento dei conso- li la disorganizzazione
vescovile del regno si fa lai- ca, la dualizzazione delle città diventa
economica: più non trattasi di reclamare precedenze, giurisdizio-
ni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchez- za, i fiumi, le
strade, i transiti trasformati in istru- menti di prosperità o di
miseria; il mercante, il fab- bricante, il ricco si sostituiscono al
vescovo; nessu- na gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raf-
freni le rivalità; non i giudici per decidere sulle vertenze, le città
devono giudicarsi da sé. Esse so- no in contatto immediato; il contatto
diventa lotta, la rivoluzione dei consoli diventa guerra — si po-
trebbe forse evitarla? — Guardiamo sempre la ter- ra. La rivoluzione dei
consoli si sviluppa sul fondo stesso della prima rivoluzione dei vescovi,
per rad- doppiare la disorganizzazione del regno e la degradazione delle
città militari. Questa degradazione è fat- ta dal commercio,
dall'industria; diventa la miseria dei centri regi, la prosperità dei
centri commerciali : i primi son condannati a difendersi sotto pena di
mo- rire, i secondi combattono anche prima di dichiarare guerra
perchè basta loro il vivere il progredire per spegnere le città
dell'antico regno; esse assorbono t frutti il succo gli umori del suolo
italiano, esse ri- fanno tutte le strade tutte le comunicazioni al
rove- scio del sistema militare, esse sostituiscono alla stra-
tegia regia quella del commercio che procede lenta sorda implacabile col
libero spaccio di tutte le merci. Come resistere loro se non colle
armi? Ecco l'o- stilità dichiarata: ogni città militare lotta colle
armi, coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa
buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la patria. Se occorre si
rivolgeranno le forze stesse della li- bertà e della civiltà contro le
città più libere, più civili; si spingeranno alla ribellione i comuni
inter- mediari promettendo loro l'indipendenza; si tenterà di
smembrare le città romane, di attorniarle con bor- ghi insorti, di
disorganizzare questo centro di disor- ganizzazione — e ne nascerà l'aff
razionamento del- l'aff razionamento, la guerra della guerra.
Fin qui abbiamo considerata solo la natura del suo- lo: e l'abbiamo
trovato friabile, inconsistente, dispo- sto alle frane, e dualizzato come
se avesse subito in tutte le sue molecole una doppia polarizzazione
sot- to la pressione del Papato e dell'Impero. Prendiamo ora il
compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la guerra deve raddoppiare
d'intensità. Qual'è la circo- scrizione della terra ove sorgono i
consoli? La città vescovile si ferma ai corpi santi ; pivi oltre tutto è
oc- cupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è co- sa loro,
l'irradiazione popolare della prima rivoluzio- ne ha dovuto soffermarsi
nei limiti determinati dal- l'ombra della cattedrale. Ma i consoli
possono forse rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuo-
vo popolo, del doppio più potente coll'avvenimento ddrinéttstrìa e del
commercio, due volte più ricco grazie alla sua attività che
moltiplicandosi trabocca oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si
rinno- vano i bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del co-
nume, le fortezze, i cimiteri; la città s*adoma, s'in- grandisce e più
non può capire nel proprio territo- rio, e segue coll'occhio i suoi fiumi
le sue strade i suoi sbocchi: dei pedaggi altre volte
insignificanti intralciano il corso delle merci, dei villaggi un
tem- po inosservati le tagliano le comunicazioni; la città smania
di estendersi, di svincolarsi dalle sue pasto- ie, di rompere ogni
ostacolo. Pisa e Genova, die si trovano dinanzi delle terre lontane sul
mare, fondano delle colonie consolari; ma per le città delFin- temo non
hannovi terre vacue, la campagna appar- tiene alla feudalità, tutte le
giurisdizioni son ar- mate, i confini sono spietati — e le città si
getta- no sull'unico spazio che sia vuoto, sullo spazio della
rivoluzione consolare. Ogni città che si governa coi consoli sfugge
all'Impero o alla Chiesa nella misura stessa del consolato, e si presenta
come la preda na- turale del nemico che l'osserva; essa è res
nuUius: 9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed ogni
città, ogni borgo aspira a diventare una capita- le; la guerra deve
durare fino alla liquidazione gene- rale di tutte le pretensioni;
l'Italia dev'essere rifatta per intero. Ora supponete il Papa e
l'Imperatore a- nimati da sentimenti patemi e da benefiche
intenzio- ni; supponeteli sempre pronti a intervenire per pre-
dicare la pace l'unione la concordia; supponeteli ab- bastanza forti per
ottenere innumerevoli conciliazio- ni ,per riparare mille torti, per
render giustizia agli oppressi; supponeteli protettori, conservatori
come devono essere secondo il dato primo del Papato e dell'Impero:
le città riporteranno vittorie che non sa- ranno vittorie; le-sconfitte
non saranno sconfitte; nes- suna guerra riuscirà ad alcuna soluzione;
tosto otte- nuto un vantaggio bisognerà rialzare le torri spiana-
te, ricostruire le mura smantellate, riedificare le città incendiate,
restituire il territorio conquistato; e al- la partenza del Papa
deirimperatore e dei loro de- legati, le cause della guerra sussistendo
ricondurran- no le città al combattimento; si rimarrà per secoli a
battagliare in una casamatta, ai piedi di un ba- stione, sull'orlo di un
fosso - per riportare mille vit- torie inutili, per subire mille
sconfitte sempre ripa- rate. La guerra municipale che rimane
dentro i con- fini della regione viene quindi ridotta al dualismo
delle città militari e delle città romane costrutte le une a controsenso
delle altre : di Milano e di Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e
di Ve- rona la prediletta di Teodorico, di Bologna e di Ravenna la
capitale di Odoacre, di Firenze e di Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma
e delle cit- tà latine : anche il regno di Napoli si toglie all'a-
nalogia degli altri regni per seguire la legge del- le città italiane,
funzionando come una gran città cambattente con Palermo contro i
rimasugli fe- derali dei piccoli stati greco-longobardi. Questa guerra
che oggi si considera come un disordine odioso era nel secolo XII un
progresso, una ri- voluzione, il primo passo delle città per
determi- nare i loro confini a nome della propria libertà insultata
e disconosciuta dalle vecchie giurisdi- zioni. Intanto Fed.
Barbarossa ,capo della rivoluzio- ne vescovile in Germania, si propone di
combat- tere in Italia la seconda fase della rivoluzione con-
solare, sopprimendo la libertà della guerra muni- cipale che insulta alla
sovranità dell'Impero: e A. PrrraRI — Giuseppa Ferrari. la sua
reazione subisce vicende diverse secondo che si muove sulla terra
delPantìco regno o su quella del Papa o del regno normanno.
Nell'Al- ta Italia diventa capitano municipale delle città romane,
manovrante da bandito con l'uniforme d* Imperatore, e invece di spegnere
la guerra la conferma. Dopo i successi effìmeri dovuti alle città
che lo secondavano nelle prime discese, vin- to dalla Lega Veronese dalla
Lega Lombarda e dalla fondazione d'Alessandria, accorda il dirit-
to alla guerra sanzionando nel trattato di Costan- za le due leghe di
Pavia e di Milano. La battaglia di Legnano non è dunque una lotta
repubblicana e nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore
tedesco (1); ma una lotta fra le città romane gui- date da Milano è le città
militari guidate da Pa- via, per ottenere dentro la gran giurisdizione
del- l'Impero la libertà della guerra. La nuova rivoluzione,
appena legalizzata dalla duplice repubblica europea del Papa e ddl'
Im- peratore, si diffonde dappertutto dando ad ogni nazione dei
governi con missioni consolari : perfi- no nella Chiesa, che assalita da
ogni parte pren- de al rovescio i suoi nemici colle creazioni
conso- lari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini
francescani; e sostituisce la conquista vicina del- l' Inquisizione alla
conquista oltremarina della Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S.
Bo- naventura all'indisciplina dei Francesi e dei cap-
puccini. (i) Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,
Macmillan, Non si dichiaraTano prìncipi repub- blicani, né si faceva
appello alla nazionalità italiana. La terza grande rivoluzione italica
prende no* me dai Cittadini e Concittadini (1184-1250) e pa9- sa
per le fasi della guerra ai castelli (1184-1198) e della guerra cittadina
che provoca la creazione del podesta. La città consolare, la quale non è
altro se non un'oasi in mezzo alla foresta feudale del regno che
copre ancora tutta la campagna inceppando il libero espandersi del
commercio, una volta otte- nuta la libertà della guerra riflette che le
città ri- vali sono troppo radicate alla terra, mentre i no- bili
della campagna si presentano come vittime facili; e volta contro di loro
l'impeto irresistibi- le della sua espansione economica e politica.
Le città romane specialmente combattono con furore contro la
moltitudine dei feudatari che le accer- chiano impedendo loro il respiro;
e questa ulti- ma rivoluzione che estende la libertà alle campa-
gne si presenta come la conclusione della gran guerra contro il regno,
distrutto nelle sue soprav- vivenze campagnole dei castelli. Nella Bassa
Ita- lia, che funziona come un gran municipio, la guer- ra ai
castelli si confonde con la continuata guer- ra municipale di Palermo
contro gli antichi cen- tri, ultimi nidi di feudatari di sangue
longobardo sognatori di sorpassate franchige aristocratiche.
La soluzione della prima fase, vittoriosa della reazione, apre una
nuova lotta. I castellani, na- turalizzati e deportati per forza nel
cuore della città che loro impone l'odiosa legge dell'uguaglianza, si
vendicano costruendo delle fortezze in- teme, armando i loro servi,
conquistandosi coil'o- ro la moltitudine che voltano contro il popolo
— e ricominciano un combattimento che come quel- lo fra città e
città non può finire ; perchè il denaro è alle prese col denaro, la borsa
colla borsa, la fi- nanza colla finanza : i proprietari della terra
(con- cittadini) sono almeno forti come i possessori dei- fabbriche
(cittadini). La lotta fra il Papa e l'Im- peratore si presenta ai
cittadini e ai concittadini per riassumere ed eternizzare il loro
combatti- mento: con la solita interversione d'alleanze i cittadini
dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli di Roma e delle Due Sicilie
invocano l'Imperato- re; al contrario i concittadini dell'Alta Italia
se- guono l'Imperatore, mentre quelli della Bassa I- talia invocano
il Papa contro Palermo. I torbidi continui, le prese d'armi
improvvise, l'anarchia imperante, conducono alla creazione di un
nuovo governo : i consoli nella loro qualità di capi dei cittadini come
parti in causa non hanno quell'autorità imparziale che possa giudicare i
due partiti, e lasciano il posto ad un nuovo magistrato nel tempo
stesso giudice e capitano, ad una spe- cie di dittatore annuale che si
chiama podestà. Preso all'estero e quindi superiore ai partiti egli
stesso giudica e applica la sua legge con potere discrezionarìo — ma
spirato il suo mandato è sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole è
con- dannato a multe a prigonia e talvolta alla morte. La
reazione immancabile questa volta si sem- plifica. Il Papa è il
protettore delle città romane del Nord, T Imperatore è lui stesso il gran
pode- stà delle Due Sicilie : la reazione imperlale non opprime
quindi che i sudditi diretti dell'Impero, mentre la reazione pontificia
non percuote che i popoli della Chiesa. Federico II assale qua!
con- sole della Germania i podestà della Lombardia, diventa capo
dei concittadini delle città romane e dei cittadini delle città militari;
ma dentro al laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si
trova impegnato in un combattimento a cui l'e- quivalenza delle forze non
permette nessuna so- luzione — ed è costretto a riconoscere col fatta
della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv. d'ItaUa):
Visto da lungi nella confusione del XIIl secolo, Federico inganna
gli storici col suo doppio prestigio di console della Germania e di
podestà delle Due Si- cilie, e vien considerato come un essere onnipoten-^
te che avrebbe potuto fare Tltalia come voleva; e la poesia, che segue le
grandi figure della storia per trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi
disegni le sue utopie le sue speranze o i suoi rimpianti, stende
silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi ab- bia seco perduto non
si sa qual misterioso destino d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo
dei Gebeli- ni, condannati alla demenza delle reazioni impossi-
bili : il fatto della sua sconfitta non ammette né pen- timenti né
correzioni; egli resta qual'è nel suo tem- po nel suo giorno nell'ora
sua, simile all'uno dei mil- le geroglifici che la stenografia della
storia traccia con la rapidità del lampo per un'eterna immobilità.
Uti- le al Mezzodì, l'ultimo degli Hohenstauffen non po- teva né
essere il podestà dell'alta Italia, né equilibrar runa coll'altra le due
regioni del Mezzodì e del Nord, né reggere tutta la penisola con un
potere di- screzionarìo e profressivo; le nozioni stesse di
com- pensi, di equità giudiziaria, di discrezione politica o di
despotismo beneflco erano anticipatamente elimi- nate dal progresso dalla
vita e dalle rivoluzioni del- ritalia, che si svolgevano diverse variate
affraziona- te da cento stati contradittori, la cui suprema feli-
cità era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male fatto a Firenze non
era compensato dal bene fatto a Lucca, un'umiliazione di Milano non
toglievasi con alcuna indennità concessa a Pavia... (1) Un pode-
stà unico regnante a Palermo a Roma ed a Milano; un regno unitario
improvvisato ed esteso a tutta la penisola; una sola dominazione imposta
d'un tratto all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai mar-
chesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede sarebbe stata
come una montagna sovrapposta a tut- te le montagne, una devastazione
inaudita di tutte le libertà, una esagerazione iperbolica del regno
dei Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un tratto
fermata e inaridita la civilizzazione dell'Occi- dente. E come mai l'uomo
che non poteva evitare la sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe
potuto ri- portare una simile vittoria? Dove avrebbe preso le sue
fòrze? I suoi stessi pensieri partivano dal bas- so come la libertà
generale... Al certo l'elevazione non mancava a Federico; e fissando lo
sguardo su lui, a traverso i delitti della corona, lo spettacolo
del- l'Impero e la commedia estema delle pompe, si sco- pre
quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sem- pre m tutte le epoche
della storia ; nel momento del- le grandi rivoluzioni, quando gli eroi
nello spasimo (i) Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia
morte di Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* N*to in un secoio di disordini e
di contradiùoDi le quali spesso in Ini si pCTSonJlicaroiM>, chiamato a
Kovemare regioni cba come hi G^- mania V lulia meridionale e U
aellatttcieiiale avrebbero richiesto una politica diversa un indirizzo
qualche veka addiritura oppo- sto, più volte egli disfece con una roano
ciò che aveva costrui- to con 1' altra. del dolore dimenticavano
un istante di essere tribu- ni re imperatori, per chiedere alla natura e
agli astri se può darsi un esito ragionevole alle pazzie
deirumanità. Egli si rivolge ai sapienti dell'Islami- smo, per cercare
delle verità che la sua religione gli vieta di conquistare; li turba colle
sue orgogliose in- terrogazioni su Dio, sull'anima, sulla
provvidenza, sulla vita futura. Qualche volta, stomacato dalla fur-
beria dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un califato
d'occidente, col quale la ragione gli rende- rebbe la metà del potere
ceduto da Carlo Magno al- la Chiesa. La tradizione profana lo segue
appassio- natamente e, guerreggiando con le calunnie cattoli- che,
gli attribuisce confusamente il pensiero di vo- ler regnare quale podestà
delle tre religioni che si contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè
Ge- sù Cristo e Maometto sono i tre grandi impostori dell'umanità,
che ingannano i mortali, che semina- no sulla terra il furore delle
crociate, che bisogna do- marli e dominarli; e che ci dev'essere qualche
cosa ad essi superiore, non fosse altro un etemo sonno, per calmare
la ragione oltraggiata dai pontefici dagli ebrei dai cristiani e dai
musulmani. Porse, nel suo disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo
amo- re per i Romani e per i castellani minacciati dal fuo- co
della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli ad una rivoluzione
religiosa; nel mentre che nume- rosi insensati si attendevano a vedere
trasformato l'u- niverso da un incanto che rovescerebbe la tirannia
imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero arbitrio del
pensiero, che si fa strada in mezzo alle più astratte possibilità, non
serve che a rivelare di rimbalzo tutta la forza della fatalità.
Sciagurati i Ce- sari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di
parere ancora più religiosi degli altri; devono im- porre il silenzio
l'obbedienza la cecità, e farsi ipo- criti impostori e persecutori di
ogni filosofia; perchè la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti
i suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli di
miracoli — questo è il suo pasto; e non sacrifi- ca i suoi capi più
assurdi se non agli uomini che le promettono con maggior energia di
continuarne gli errori. Podestà occulto di tre religioni, Federico
II- gemeva sotto il peso occulto di una filosofia che lo condannava
a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cat- tolico, ad abbruciare gli
eretici e a disprezzare Tu- manità. Viceversa nel regno delle
Due Sicilie la reazio- ne è guidata dal Papa, che come console dei
con- cittadini del Mezzodì assale con le armi della ri- volta
federale e della superstizione cattolica il suo vassallo (1) Federico 11
supremo podestà, ma è vinto nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta
Italia. E la sua sconfitta si ripetè a Roma, che organizzata a forma
repubblicana lo obbliga a ce- dere di fronte a Brancaleone dell' Andalo
podestà bolognese. La libertà della democrazia della sedi- zione e
delle battaglie si svolge in tutta l'Italia proclamando il grande interregno,
e si diffonde per tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i
dottori combattono come cittadini e concittadini prendendo al rovescio
gli stati, finché il Papa di- venta il giustiziere universale di tutte le
dissiden- ze presenti passate e future come un podestà mi-
triato. Vili. Ma nemmeno il podestà poteva durare
sulla (i) Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella
falsa posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano. —
' BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208. scena un tempo maggiore di
quello concessogli dal fato della rivoluzione^ la quale entrava
nella nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si divide in periodo
delle sette e dei tiranni, al momento in cui la guerra civile straripava
al disopra del governo pacificatore e i combattenti disprezzavano gli
ordini del pode- stà. Chi sono questi furibondi che si scannano a
vicenda proprio adesso che il grande interregno li libera alle lofo
tendenze, permette ai Lombardi di adorare il loro Papa, ai Meridionali di
vene- rare il loro Imperatore? Essi non derivano dal Papa e
dall'Imperatore (1) non sono altro che le due sette dei cittadini e dei
concittadini che rina- scono con duplicato furore, per darsi delle
sem- pre nuove battaglie al seguito della quale una me- tà degli
abitanti deve prendere la via dell'esilio. I cittadini delle città romane
sono guelfi, all'oppo- sto dei cittadini delle città militari di Roma e
del Regno delle Due Sicilie : i concittadini delle città romane
sono ghibellini, mentre quelli delle città militari di Roma e del regno
sono guelfi. Con u- na guerra tutta sociale» figli di una stessa
città, essi combattono per conquistarla non per distrug- gerla;
riconoscendo per la prima volta l'unità i- Cfr. G. Volpe :
Pisa, Firenze e Impero in Studi storici. Pisa, 1902, pag. 182: I-e varie
cagioni delle lotte inter- ne ed esteme dei conìuni sono al di fuori di
Papi e di Impera- tori, e indipendenti dalle cagioni che questi
aggiungono di pro- prio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle
preeti- stono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia
del Medio Evo, a cui le due podestà servono pur illudendosi di co-
mandare. deale della nazione si stringono in alleanza coi
settari del loro stesso colore, onde tutta la peni- sola è corsa come
dalla rete di una circolazione di vene e di arterie moventisi a
controsenso. Pa- ri è la forza degli interessi, pari la forza delle
i- dee; la lotta adunque nel complesso della nazione è eterna e
senza soluzione come una antinomia metafisica; ma prende possesso delle
contradtzio- ni della guerra municipale, secondo la legge che dopo
una minore o maggiore alternativa di espul- sioni fa inclinare sempre la
vittoria a favore dei cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle
cit- tà romane, dei Ghibellini nelle città militari. Essa allarga
ancora la libertà nazionale dentro il patto di Carlo Magno, istituisce un
nuovo popolo più numeroso dilatando la democrazia, e mira a crea-
re secondo il tipo ideale formatosi con la genera- lizzazione delle sue
due tendenze una nuova Chie- sa democratica e un nuovo Impero
legale. Minacciato dalle due sette che fanno traballare il
suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma se non facendo un passo
indietro per fermare la ri- voluzione, chiamando Carlo d'Angiò alla
conqui- sta della Sicilia affinchè domini come un podestà
imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa guelfo prima d'aver
visto l'Italia e la reazione pa- pale è sconfitta. Questo orribile
sconvolgimento è rivoluzionario, cioè benefico e liberatore :
dirocca innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra consola- re,
estende la libertà alle arti ai mestieri alla plebe, compensa il
decadimento delle città milita- ri col fiorire delle città romane
arricchite dall'industria e dal commercio, rivela attraverso il colle-
gamento antitetico delle sette Tunità nazionale, e dà due linguaggi due
poesie due nuove religioni all'Italia. Il francese, lingua guelfa
adottata dal- l'aristocrazia popolare delle città romane, bilancia
l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Fede- rico II e di
Manfredi, artificiosamente scelto dai dialetti di tutte le città ; finché
viene a trionfare la nuova lingua guelfa della democrazia di
Firenze. Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso nella
seconda fase dei tiranni. Il ti- ranno è il capo di una delle due sette
che gli con- cedono un potere dispotico sacrificando la loro
libertà quasi feudale nell'interesse della vittoria : esso compensa la
violazione di tutli i diritti ac- quisiti coi favori prodigati alla
moltitudine e col- la condotta vittoriosa della guerra estema, e
per la prima volta rappresenta la terra sotto una for- ma
individuale. Ma, capo di un partito destina- to dall'equilibrio delle
forze ad alternare te scon- fitte con le vittorie, si avvia anch'egli ad
una ca- tastrofe certissima. Le città che non entrano nel- l'era
dei tiranni si contorcono nelle angosce del- la guerra civile non ancora
disciplinata imbriglia- ta e mitigata, e in ritardo di una generazione
nel corso della civiltà sono sorpassate dalle rivali co- me Firenze
che rifiuta un tiranno guelfo in Gian della Bella, o son costrette a
ricorrere a tiranni stranieri come Brescia o^ Piacenza fondate sul tiranno
di Napoli. Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione op-
ponendo la guerra pura e semplice all'ordine nasceme delle tirannie, per
suscitare attraverso al- la penisola un ondulazione guelfa che
distrugga le tirannie ghibelline ; e ricorre a Carlo di Valois. Lo
scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in tutte le città i Guelfi si
trovano senza capi senza ripu- tazione senza potere e disonorati
dall'invettiva immortale della Dmna Commedia. Invocato da
Ghibellini d'Italia arriva infine Ar- rigo VII, che in ritardo come la
sua patria di due rìvduzioni non vuole essere nò guelfo né ghibel-
iino; e guida quindi una reazione opponendo ai furori delle tirannie la
pacificazione sorpassata del podestà. Ma appena messo il piede sul suolo
fa- tale ditalia, come i suoi predessori vien preso
nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto a diventar
ghibellino, e muore sconfitto e si di- ce avvelenato dall'ostia guelfa
dei monaci di Buon- convento, dopo ruminazione di Roma e l'affron-
to di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei ti- ranni penetra infine nel
patto di Carlo Magno col- le teorie antitetiche di S. Tomaso e di Egidio
Co- lonna, di Tolomeo da Lucca e di Dante, che pro- pongono come
stato modello gli uni la tirannia guelfa gli altri la tirannia ghibellina.
La Divina Commedia è la grande epopea della tirannia ghi- bellina
trasportata nell'universo soprannaturale, dove Dio sostiene la parte del
tiranno supremo; Dante è il poeta del terrore, dell'odio, della
rab- bia, dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^ prema di
salvare il genere umano ; che da per tut- to immola sacrifica consacra i
Guelfi del suo tempò ad una eterna infamia, pur accettando tutta la
democrazia guelfa del passato. La rivoluzione vittoriosa si
diffonde per tutta l'Europa ; si riproduce nella Chiesa grazie a
Bo- nifacio Vili e ai suoi successori d'Avignone; pe- netra nei
conventi colle esplosioni guelfe e ghi- belline dei domenicani tomisti e
dei francescani scottisti, nelle scuole coi realisti e nominalisti,
e perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar gli angeli dal
cielo per ristabilirvi i demoni del- l'inferno. A un certo
momento il tiranno s'accorge che per regnare deve sfuggire alle
ondulazioni guelfe e ghibelline, stabilendo il regno dell'imparzialità
col disarmo colla corruzzione o con la distruzione dei settari nobili e
repubblicani, nell'interesse del- l'agricoltura dell'industria e del
commercio che vogliono ora la pace. Il reggimento repubblica- no
già compromesso dai tiranni viene quindi abolito dai Signori che regnano da
de- spoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di traverso al
Papato e all'Impero senza prenderli mai di fronte; finiscono le guerre ai
castelli e le guerre municipali fin qui insolute, dando predo-
minio alle città progressive romane; si estendono colla forza della
necessità, migliorando la sorte delle città conquistate trattate
coll'imparzialità u- sata verso le due sette; e sempliflcando la
geogra- fia delle due Italie, utilizzano ormai direttamente il Papa nel
Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel Nord quasi ghibellino (Avvento dei
Signori : 1318- 1336). Traviati derisi traditi dalla
giurisprudenza che dimostrava in qual modo si poteva vivere nello
stesso tempo nei due campi o passare sapiente- mente da un campo
all'altro; i Guelfi e i Ghibel- lini non avevano altro mezzo che
d'invocare ^ uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno
dell'Impero, per disfare con una reazione gene- rale le nuove costruzioni
delle signorie imparziali. Ma la signoria definitivamente
vittoriosa di tre reazioni, una papale una imperiale e una combi-
nata, penetra nel patto di Carlomagno, mentre i giureconsulti proclamano
per la prima volta la so- vranità popolare di ogni nazione astrazion
fatta dalla Chiesa e dall'Impero. Nella seconda fase della
Prosperità dei Signori (1336-1378) a regno dei furfanti benefìci si
pro- paga in tutte le città : le terre più timide, i centri più
disgraziati, i villaggi più infelici vogliono cre- arsi dei capi al di
fuori dei vecchi partiti: ogni città prende definitivamente il posto che
le era stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione del 1000:
indi l'importanza di Milano, la petulan- za di Verona, l'inferiorità
della Toscana e del Mezzodì. La signoria di Milano era
frattanto giunta a tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la
reazione di una federazione repubblicana pontifi- cia e imperiale, in cui
le città minacciate dalla vo- racità dd Biscione si alleavano coi poteri
retrogradi per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava a sé i suoi
capi retrogradi e la reazione finiva col- la catastrofe dell'Impero,
sceso con Carlo IV al- Timperdonabile bassezza di farsi mercante di
di- jplomi; e col gran scisma della Chiesa divisa fra Urbano VII
quasi ghibellino e Roberto di Savo- ia, che coi loro vicendevoli anatemi
liberavano la ragione individuale dalle catene della religione.
La terza fase del periodo dei signori è domina- ta dal dualismo fra
Milano e Firenze. Un nuovo progresso inalza Milano, dove per can-
cellare ogni rimembranza di atrocità tiranniche Galeazzo tradisce Barnabò
suo zio. L'ambizione illumina i cronisti milanesi e suggerisce al
Mussi Tidea di sopprimere la dominazione temporale della Chiesa per
sottomettere T Italia all'unica si- gnoria dei Visconti. Ma quest'idea
trasforma la signoria milanese benefica e rivoluzionaria lungo il
suo raggio legittimo in un flagello per il resto della penisola, ed
obbliga Firenze a difendere la liberta le leggi le tradizioni e le
federazioni dei popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni
della nazione si spiegano col contrasto fra Milano e Firenze, che si
riflette nelle due rispettive scuo- le dei cronisti. Ma la vera Italia si
trova superio- re al contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bar-
tolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo a profitto dei moderni e
impersonano l'empietà del nuovo scisma: l'uno conciliando ogni
contra- dizione col suo classicismo accademico feroce so- lo contro
la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando ' le nazioni dal gran patto
papaie-imperiale per mezzo della romanità, il terzo sepelleiido le
im- posture del Medio Evo sotto le risate della sua novella
federale. E* questo il momento in cui la bisantina Venezia esiliatasi fin
dall'era dei vesco- vi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia Dimenticata
fino dalla caduta del regno, appena frammista qua e là alle battaglie
lombarde e friula- ne come una terra secondaria e affatto straniera,
qua- si sconosciuta al Papa e all'Imperatore non meno che ai popoli
e ai poeti d'Italia; si presenta d'un trat- tò ancorata a Rialto, carica
di prede di ricchezze di simboli, simile ad una nave d'alta velatura che
sa- rebbe entrata nel porto durante la notte, di ritomo da un lungo
viaggio nelle regioni favolose d'Oriente. La signoria si propaga in
tutta l'Europa, dove tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione
anteriore riprendono il loro atteggiamento naturale; e la Chiesa
rinuncia alle lotte della scolastica fra i so- stenitori dell'individuo e
quelli del genere, per diventare ciceroniana ed eclettica ad imitazione
del Petrarca. Le conquiste sociali e politiche della
signorìa vengono adesso minacciate dalla Crisi militare. I signori
avevano composto i loro e- serciti di mercenari per disarmare i Guelfi e
i Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizio- nalmente
antimilitari; ma poiché, affascinati dal demone della conquista vogliono
mantenere eser- citi superiori alla loro potenzialità economica,
fi- niscono per fallire e per cadere in balia della ple- be
irritata e dei soldati insorti. La crisi si com- pie in tre tempi : prima
la plebe insorgendo con- tro il flagello della miseria distrugge la
signoria, risuscitando le forme politiche sorpassate della
repubblica o della tirannia ; poi vedendo che quel- la libertà la
ripiomba nelle demenze del passato accetta una nuova signoria, che limiti
le sue am- bizioni conquistatrici al raggio legittimo consen-
titole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi ritemprato da una nuova
consacrazione plebea si trova adesso di fronte al condotdere capo
di una signoria volante di soldati su d'un territorio che non può
sostenerli tutti e due, bisogna che uno scompaia : ora è il condotdere
che diventa signore come Francesco Sforza, ora è la signorìa che
toglie di mezzo il condottiero come Venezia fa del Carmagnola.
La garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora in mezzo alla
derisione universale di tutti i prin- cipi, conserva tutto il lavorio dei
secoli preceden- ti : la federazione italiana si semplifica colla
vitto- rai dei gran centri romani sulle città militari e le dualità
invincibili; detronizzando diciassette dina- stie e distruggendo
diciassette indipendenze inuti- li, uccise dai poveri e dai plebei
secondo la gran legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'or-
goglio della nazionalità alle necessità della demo- crazia, perchè la
fame è superiore all'ambizione delle monarchie e delle repubbliche.
Indipendenti A. Ferrari — Giuseppe Ferrari. nel fatto dal
Papa e dall* Imperatore le signorìe se- colarizzate si uniscono nella
cdebre lega del 1484, in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli,
di- chiarando di assoldare un condottiere a spese co- muni,
stabiliscono il principio di tutte le federa- zioni : di formare uno
stato solo contro al nemi- co benché ogni stato resti distinto e sovrano
nel proprio territorio. Le reazioni di questo periodo sono appena
accennate e non servono che a con- fermare la rivoluzione flnanziaria.
La quale si riflette nelle lettere, dove si ha pri- ma la ricerca
di tutti i valori, poi il rinascere del- le opere originali con Lorenzo
col Poliziano e col Pulci, che malizioso come un signore liquida il
Papa e l'Imperatore senza contestare i principi del Papato e dell'Impero.
E penetra inflne nella Chiesa la quale, assalita dalla ribellione
federa- le del Concilio di Costanza, si rigenera all'imi ta- zione
di tutti gli stati mostrandovi le scintille d'un incendio universale di
democrazia, che presto a- vrebbe divorato tutti i re e i dottori
protettori del- la libertà e delle riforme; inventa la visione bea-
tificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il pur- gatorio ; e fa adorare
un Dio che vende le indul- genze per rendersi visibile nei capolavori
del- l'arte. L'Italia aveva fin qui squassato la face ideale
della rivoluzione; marciando alla testa della civU- tà essa creava man
mano le nuove forme politiche. che diffondeva per mezzo del Papa e
dell impe- ratore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che durante
il periodo della Decadenza dei Signori (1494-1530) la civiltà trasporta i
nuovi centri in- cendiari in un'altra nazione (1); e la Francia
chia- mata da Ludovico il Moro straripa improvvisa- mente con una
espansione militare nellitalia, la quale sorpresa da questo imprevedibile
progres- so è costretta a difendersi restaurando il Papato e
l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi esiliato, e resuscitando
le forze indigene delle sette guelfe e ghibelline che il tradimento dei
si- gnori aveva addormentato. Il meccanismo politico cosi adesso si
rovescia : prima era l'Italia che tra- smetteva all'Europa l'impulso
delle sue sempre nuove forme politiche per mezzo dei poteri euro-
pei del Papa e dell'Imperatore; adesso è l'Euror pa che, mossa da
un'altra nazione, per mezzo del Papa e dell'Imperatore trasmette il
progresso al- litalia. Succede un altro passo indie- tro quando
l'Italia è costretta a mettere il Papa e l'Imperatore sotto la Spagna per
difen- dersi dall'insurrezione germanica e federale di Lu- tero contro
le sue rivoluzioni, contro la sua ci- viltà passata attaccata nel Papa ;
che rappresenta- va tutto il suo lavorio religioso, la sua suprema-
zia mondiale e che era pure uno dei due membri della federazione europea
da essa creata (Riv. d'ItaUa) r (i) Cfr. C. Balbo: Dciln
stona d' Italia - Voi. I., pag. 297: Finiva V età del primato (qualunque
fosse) d* Italia; ioco- minciava quella dei primati occidentali di
Spagna, poi Francia, poi Inghilterra. L'eresia che aveva
serpeggiato nel Nord fra le due patrie di Huss e di Wicleif reclamava
anch'essa la sua espansione; le regioni che avevano respinto il
giogo della centralizzazione dell'antica Roma si le- vano con nuovi
Arminii, per respingere con le for- ze invisibili del pensiero l'unità
pontifìcia che era sottentrata all'unità conquistatrice dei Romani; i
po- poli la cui antica barbarie aveva imposto le sue fe- derazioni
nomadi ai Cesari, opponevano le nuove fe- derazioni degli spiriti indipendenti
ai demiurgo di Roma e al Cesare guelfo dell'Austria. II Nord del-
l'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed 0- gni individuo,
diventato libero nel fòro intemo del- la propria coscienza, formulava
cento gravami contro la monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni
d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque con- tro la prima
rivoluzione, che in odio del re di Pavia aveva divinizzato i preti i
vescovi e il loro capo ; con- tro il prestigio magico che essi avevano
messo ne- gli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e del-
le reliquie a confusione dei barbari; contro la san- tificazione
dell'antica capitale con una gerarchia mi- steriosa che aveva umiliate
tutte le città regie; e contro la superstizione incendiaria che aveva
dato al- l'ordalia, all'altare e all'acqua benedetta il potere di
sottrarre i delinquenti ai tribunali ed i popoli ai re. Non si risparmiò
poi alcuna delle creazioni di Carlo Magno : né la separazione dei due poteri ;
né la donazione che faceva della Chiesa una potenza poli- tica; né
la penitenza che metteva i suoi giudici al di sopra di tutti i giudici,
le sue sentenze al di sopra di tutte le sentenze; né la liturgia che
propagava il culto col fascino dei canti, delle pitture, delle
scul- ture sconosciute alla Chiesa primitiva; né il purga- torio
che raddoppiava la distanza fra il cielo e l'in- ferno, per far luogo
agli incanti delle preghiere cle- ricali; né in una parola il pontefice
che arrivava al- l'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera
ipostasi della giustizia divina e proconsole di tutti i procon- soli
istituiti sotto il nome di primati. La devastazione luterana si estendeva
a tutte le rivoluzioni posteriori : e proscrìveva dell'era dei vescovi il
celibato dei preti e tutte le riforme che fornivano armi spirituali
temporali ali* unità pontifìcia; dell* e> ra dei consoli gli ordini
mendicanti, le feste impo- nenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura
regnan- te e rimplacabile inquisizione; delfera delle due sette i
tomisti e gli scottasti, le ecceità, i flatus vocis, le dotte puerilità
che profanavano Dìo trasformando- lo in tiranno or guelfo e ora
ghibeilino; del tempo dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso,
ma- teriale, e abbandonato al despotismo della frase ai periodi ciceroniani
e al pennello di artisti sostituiti al- rinsegnamento degli apostoli; del
tempo della crisi fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva
tutti i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le
assoluzioni le indulgenze le dispense tutto, per far denaro con una
religione già materiale, e per molti- plicare cosi i capolavori che
sostituivano ai miracoli di Crìsto quelli delle nove Muse. Non si voleva
più ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano contro
la sua religione, le intelligenze contro i suoi dogmi, il pudore contro
la sua morale. L'ira generale denunciava il sacerdote giudice confessore
inquisitore funzionario e papista come un nemico del genere u-
mano. Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni uomo diventato il
proprio pontefice, la religione in- catenata al senso letterale della
Bibbia, tutto l'an- damento divino ridotto alla stessa legalità di
questo documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivolu- zioni
italiane sarebbe definitivamente abolita come una epidemia satanica, e
tutta la signoria di Roma ma- ledetta come un sacrilegio commesso contro
la li- bertà del Vangelo. L'Italia non era mai stata più
violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano ri- spettato la civiltà
romana, i Goti di Teodorico l'avevano protetta — Lutero la fulminava; e se
prima di lui si era declamato contro la nuova Babilonia, le si
attribuivano adesso come delitti non solo i suoi vizi e le sue virtù ma
altresì la sua grandezza e magni- ficenza. Gli Italiani
difendono dunque il Papa e 1* Impe- ratore che rappresentano le loro
rivoluzioni lega- lizzate, e questi si mettono sotto la protezione
del- la Spagna per resistere al federalismo protestan- te dei
luterani; mentre i signori rinunziano alla lega del 1484 che aveva congedato
silenziosamen- te il Papa e l'Imperatore, e la nazione rinnova per
un'ultima volta il patto di Carlo Magno col- la Chiesa. La restaurazione
di Cario V non era una reazione: delle rivoluzioni italiane
rispetta- va nitto il lavorio geografico e sociale, ben diffe-
rente dalle reazioni anteriori che pretendevano farlo ren*ogradare; essa
venne quindi accettata. Leone X riassume e sviluppa la grandezza
dei suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tem- po si
burlano della Chiesa e dell'Impero. — L'ar- te e la scienza trasportano
nel campo ideale la rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne
riBette l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tem- po deride
ed ammira il Medio Evo, dove sono ammessi all'onore dell'arte tutti i
contrari della politica e della religione ^uabnente ridicoli e ve-
nerabili, tutto il fantastico pagano e orientale non meno rispettabile
delle favole della Chiesa — e la sua arte che rappresenta ancora oggi
l'indole ita- liana è imitata da tutta la letteratura. Il Machia-
velli può dirsi l'Ariosto in azione : volendo insegnare le norme della politica
rimane vuoto e a- sirattOy mentre fonda la teorìa che determina le
leggi secondo cui si svolgono tutte le rivoluzioni possibili. Cosi nella
vita è malpratico improvido senza importanza, ma la sua fama si estende
len- tamente colle rivoluzioni ulteriori contro il patto di Carlo
Magno colla Chiesa, man mano che l'u- manità si svincola dalle credenze
soprannaturali e si basa sul razionale. La nuova era politica
della Rivoluzione prote- stante (1517-1648) propagata dalla Germania
con- siste in un movimento che estende la fraternità umana oln*e
assai la benedizione del Papa e la memoria di Roma e, conservando la
distinzione dei due poteri che aveva inaugurato il regno del
pensiero puro, la affida ad ogni individuo dive- nuto papa di se stesso
una volta in regola colle leggi del suo stato. Essa si attua in forma
oppo- sta negli stati germanici e negli stati latini: nei primi
individuale legale federale distrugge il po- tere di Roma confermando
quello dei prìncipi; nei secondi riforma le antiche dottrine della
teo- crazia romana, opponendo alla rìvoluzione prote- stante la
fraternità e la democrazia, le concentra- zioni ispaniche e le
centralizzazioni francesi. In Italia produce il trìonfo degli stati
ghibellini (Mi- lano Genova Firenze Napoli) sui loro opponen- ti
guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei Ghibellini nella
minoranza degli stati dove i Guelfi devon regnare (Venezia Savoia Roma). La
ri- volizione rinnova la letteratura col Tasso, il poe- ta della
tenerezza che celebra la grande impresa cattolica della prima crociata;
fonda la musica; e ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle
teorie della fraternità in opposizione alla libertà protestante.
La riforma appena vittoriosa è assalita da una reazione : cattolica
e unitaria nei paesi protestanti, protestante e federale nei paesi
cattolici, essa non fa che confermarla; sacrificando in Germania
Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati ghibeliini d'Italia i
Guelfi francesi i Guisa i Vac- chero, e negli stati guelfi i Ghibellini
spagnoli d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Ve- nezia.
La letteratura nazionale sta per soccombe- re airinsurrezione dei
dialetti; mentre che la ra- gion di stato liquida senza parere la
religione e spegne il senso morale cogli scritti di mille me-
diocrità misteriose; e la filosofia dà Bruno e T. Campanella : Tuno il
martire del panteismo che afferma Punita della materia e la pluralità
dei mondi; Taltro il rappresentante più grande dei- Tutopia
politica dei popoli latini esagerante al- Tinfihito la fraternità l'unità
e il despotismo, con- tro l'utopia opposta che si svolge secondo
Lutero colla forza della libertà delle federazioni delle leggi. Il
nuovo periodo storico che va dal 1648 al 1789 e che si potrebbe definire
del Despotisma illuminato è guidato dalla Francia; la quale in-
segna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza religiosa che
secolarizza lo stato, la semplificazio- ne del governo colla distruzione
dell'indipenden- za quasi feudale d'una nobiltà costretta a moder-
nizzarsi, l'impostura e la libertà della ragion di stato nell'interesse
delle moltitudini. Esso si at- tua in senso inverso negli stati
monarchici e ne- gli stati federali colla centralizzazione o colla
le- galità. In Italia la democratizzazione dell'aristo- crazia
viene diffusa negli stati ghibellini dall'Im- pero d'Austria, nei guelfi
dall' imitazione della Francia. I politici della ragion di stato
sospendo- no le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dal- le
loro divagazioni, e le pompe dell'opera tradu- cono il secolo di Luigi
XIV nella lingua univer- sale della musica diffusa dall'Italia a tutta
l'Eu- ropa (Riv. d'Italia — Voi. Ili, pag. 575) : ... La
nazione mantiene ormai la 3ua supremazia coirestatica inazione dei suoi
cantanti. Non si affret- tano mai : gli eroi si precipitano al
combattimento colla misura dell'andante, il nemico fugge senza po-
tersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomel- iì, le tenebrose
sorprese si svolgono con cavatine i cui accenti riempiono le più vaste
sale, si danno le pugnalate in battuta, le vittime cadono colle
vibra- zioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta per- chè
rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le leggi delle
verosimiglianze. Ma contro la secolarizzazione d'Europa
abbia- mo l'immancabile reazione guidata dal cardinale Alberoni, che
cupido di riconquista- re alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in
ogni stato i vecchi partiti per distruggere il nuovo pro- gresso.
Ma il suo bieco disegno è distrutto in Francia dagli uomini della
reggenza e dai filoso- fi delPenciclopedia, che diffondono in tutta
l'Eu- ropa le idee del despotismo illuminato, mentre la Massoneria
succede ai Gesuiti. In Italia l'Austria prende l'iniziativa delle
riforme, il Regno di Na- poli diventa indipendente, il Piemonte si
ricosti- tuisce e si estende ; mentre le repubbliche riman- gono
indietro attardate dalla loro retrograda aristocrazia. La nazione rivela la sua
grandezza nella filosofia con Vico, il quale colle idee del de-
spotismo illuminato mette a livello tutte le società e tutte le
religioni; nella poesia con Metastasio il più tenero nemico degli dei, e
con l'Alfieri il tra- gico poeta della guerra che vuole tutte le
idee alla altezza dei nuovi tempi {Riv. d'ItaliaDeliziosamente illusa da
queste cantilene rimate [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti
i teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno sor- presa e si
direbbe intimorita da un nuovo spettacolo che portava la sfida alle pompe
asiatiche dell'orche- stra. Senza musica, senza cori, senza strofe,
senza rime, Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena
squallida triste e nuda; e là quattro personaggi dalle figure astratte,
impegnati in una azione unica stincata rapida, obbligata a giungere alla
meta in ventiquat- tr'ore coli'orologio alla mano con un cadavere
in terra e colla nuova moralità del vizio vittorioso e della virtù
sacrificata — questi miserabili mezzi a controsenso di tutti i pregiudizi
fecero Teffetto di un drappello dì Spartani che fennassero Tannata di
Ser- se. Il melodramma ne ricevette uno smacco irrepa- rabile, i
suoi pomposi personaggi furono scompigliati, i loro gemiti sospirosi si
fermarono subito; nessun poeta succedette a Metastasio; i maestri
rimasero soli con taluni poeti pagati, con libretti insignificanti,
con parole vuote di senso che si chiamano ancora in oggi le parole — e la
poesia lasciò per sempre le ri- me effeminate, le pugnalate fantastiche,
le virtiì ri- dicolmente languide e i cantanti castrati delle
cappel- le principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vi- brare
la corda della guerra, sconosciuta a tutti i drammaturghi dagli
Arlecchini fino ai poeti cesarei. Più nuovo di Dante, più moderno di
Shakespeare, e- gli inventava dei personaggi poetici per formarne
dei veri; nuovo Orfeo voleva destare la libertà nazio- nale, che
nella sua immobilità secolare non sapeva- si ornai come intendere. I
cicisbei impallidirono, lo spasimante il patito il cavalier servente ed
anche il signor marito si sentirono ridicoli, le civette si mor-
sero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dal- le code impdverate
si guardarono intomo, e i capi- tani capirono che si poteva morire alla
guerra. Il fuo- co sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al
cospetto del governo, la tragedia penetrava nei gabi- netti, qualche
volta esiliata dalle scene investiva il lettore a casa sua — e i suoi
spettri inattesi gli in- timavano di spogliarsi del vecchio uomo, di
levarsi, di pensare. L'ultimo perìodo storìco, non ancor chiuso
quando il Ferrari scriveva, è quello della Rivolu- zione francese
(1789-1858). Il suo principio con- siste nella divulgazione dei misteri
del despotisir.o illuminato per modo che il razionalismo libe- ro
pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristi- mzione del codice che
uguaglia politicamente tut- ti i cittadini, nell'avvento della proprietà
borghe- se figlia dell'industria e del commercio. La rivo- luzione
francese ricorre alla forma repubblicana antipatica alla nazione come a
strumento di di- struzione, finché Napoleone trasporta nella for-
ma tradizionale dell'assolutismo il contenuto nuo- vo, l'ultimo
progresso; e lo diffonde con le ar- mi a nitta l'Europa dove l'esordio è
quindi asso- lutistico e la conclusione libera. Cosi la Germa- nia
dal despotismo della conquista napoleonica necessaria per trasmetterle la
rivoluzione torna al- la sua federazione quasi repubblicana, alle
specu- lazioni astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Au- stria
ritorna alla patema democrazia e alla bu- rocrazia meccanicamente esatta;
l'Inghilterra ave- va già avuto nel suo territorio la esplosione
che creava gH Stati Uniti anticipando le idee della ri- voluzione
francese ; ma la Russia copia il progres- so francese direttamente coli'
assolutismo degli Czar. L*ltalia si volge alla Francia per distruggere
Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo pro- gresso ; e ad una prima
tenue succede una secon- da più radicale trasformazione all'unitaria,
Anche conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio lento alla
sua tradizionale federazione. Al solito la rivoluzione francese è assalita
da una reazione, che impone alla Francia la liber- tà
costituzionale della dinastia borbonica, e viceversa air Europa il despotismo;
ma essa si avvi- ticchia alle forme stesse della reazione per com-
batterla e sconfiggerla nel 1848, in Francia colla repubblica che conduce
al governo assoluto di Na- poleone III, presso i suoi avversari col
ristabili- mento delle libertà costituzionali. In Italia abbia- mo
pure assolutismo al rovescio della Francia; ma assolutismo che è
costretto a diffondere il contenuto della rivoluzione, a far riforme
ammi- nistrative, ad appellarsi alla moltitudine che ten- ta di
voltare contro i liberali. Però la nazione volle scuotere questo odioso
giogo dell'assoluti- smo e alla rivoluzione di febbraio corrispose
l'e- splosione unitaria del Piemonte accettata per ri- formare il
Papa e l'Imperatore; finché la religio- ne e la politica federalista si
volsero contro Car- lo Alberto, che trasformava la guerra di libertà
- in guerra di conquista interna non legittimata nemmeno dalla
vittoria napoleonica, e da Villa- franca a Novara si distrusse un regno
immagina- rio a profitto della federazione italiana. Ma il pro-
gresso è richiesto tanto all'Austria costretta alle riforme e bilanciata
dalla Francia, quanto al Pa- pato compromesso politicamente dalla doppia
oc- cupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi cedono ai
principi deir89 per il rumore confuso delle nuove idee che attaccano la
proprietà. E dal- la lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti
e i tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli uni o gli
altri, essendo detronizzati, trovansi nel- la necessità di proporre una
più vasta democrazia per risalire al potere. Il sunto a bella posta
diffuso che noi abbiamo steso tessendolo spesso di frasi e perìodi
dell'au- tore basterà a dare un'idea adeguata della impor- tanza
unica di quest'opera, in cui il Ferrarì di- spiega netta la sua
incomparabile grandezza di storico. Per averne la misura paragonate la
sua storia d'Italia, non dirò con uno di quei manuali in cui i
fatti e i personaggi sono infilzati l'uno dietro all'altro come una
corona di nocciole, ma anche coi libri di coloro che vanno per la
maggio- re fra i moderni : con la voluminosa storia poli- tica
d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la sto- ria del Villari, che
passa per il migliore dei no- stri storici viventi, in corso di
pubblicazione a- desso presso Hoepli (1). Anche per una
persona di quelle cosidette col- te che frequentano le società di lettura
e fondano le università popolari la storia, secondo l'idea che ne
ha portato dal liceo, è come una fantasmago- ria irragionevole, che
sarebbe comica se non stil- lasse il sangue di innumerevoli vittime. II
capric- cio la pazzia il caso sembrano movere questi in- numerevoli
fantocci di un dramma senza processo e senza scioglimento; dove si vedono
degli indi- vidui che si scannano senza ragione, delle na- zioni
che si combattono senza sapere il perchè, delle invasioni barbariche
piovute dal cielo, e so- pratutto una incessante lotta intema dei
popoli {ì) Lf' /mvfsi'oni barba rù'hf, Milano, Hoepli, 1907; L'
Ita^ Ita da Carlo Magno ad Arrigo VJJy id., 1910, contro i governi
che pare non proporsi mai uno scopo, fatta per para cattiveria. Pur
troppo mol- ti manuali di storia sembrano scritti da gente che la
pensa cosi! Ma anche molti degli storici più elevati, più scientifici
diciamo, mancano del me- todo interpretativo in una maniera
impressionan- te. La loro storia, costretta a rimanere attaccata ai
personaggi ufficiali per avere almeno una u- nità apparente, è un seguito
di biografie e di rac- contini legati gli uni agli altri dalla
meccanica successione cronologica o da metafore vuote. A quel modo
che i letterati seguaci del cosi detto metodo storico — che è per
eccellenza il metodo antistorico — credevano che la critica avesse
e- saurito il suo compito, una volta dimostrato che la tal canzone
del Petrarca era stata scritta nella tale occasione per quel tal
personaggio; cosi mol- ti storici credono ancora che il lavoro della
sto- ria si limiti a mettere in sodo se un tal fatto più o meno
particolare è accaduto in quel dato mo- do, se quella data istituzione
politica era costitui- ta così e non altrimenti. Ma come di fronte
a quei pseudo-letterati la critica afferma la necessi- tà di
completare e integrare il loro lavoro da pu- ri manuali della letteratura
con la ricostruzione con l'interpretazione col giudizio; cosi contro
que- sta specie di positivismo storico non sarà mai ab- bastanza
forte affermato che la storia non deve limitarsi alla descrizione estema
dei fatti, ma li deve interpretare spiegare resuscitare, collocare
in una lìnea di sviluppo per cui si veda sotto alle apparenti
fermate o alle parziali decadenze lo sviluppo continuo e progressivo
della civiltil u- mana. Sta bene la ricerca del documento nuovo:
noi non proclamiamo affatto inutile questo lavoro che è anzi la base
necessaria su cui si deve svol- gere il lavoro veramente storico, ma
affermiamo che il documento di per sé è inutile se non è u- sato,
che è muto se non vien fatto parlare, che deve essere bruciato per
rischiarare la storia; la quale non è soltanto, la Dio grazia,
scovamen- to e pubblicazione della nota della lavandaia di
Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del comune di Simifonti, ma è
narrazione dello sviluppo civile dell'umanità. Non basta raccontare un
fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al di sotto della sua superficie
squallida o brillante per ritrovarne l'intima ragione (1); bisogna i
fat- ti singoli sgranati collegarli colKunità d'un prin- cipio che
è il loro motore e la loro spiegazione; bisogna il succedersi dei diversi
principi, dei di- versi sistemi sociali dimostrarlo dominato da una
legge di continuo sviluppo, di progresso continuo. Or bene l'opera
del Ferrari è un modello in- comparabile di storia interpretativa, di
storia cioè vera. Di più, il Ferrari è uno storico completo.
Cfr. T. B. Macaulay: History in Miscellaneous Wri- iififTi — Longmans,
Green and Co.. London, 1906, pag. 139 : Nella invenzione sono dati i
principi per tro%'are i fatti , nella storia sono dati i fatti per
trovare ì principi; e lo scritto- re che non sa spiegare i fenomeni
ueualmente bene come li nar- ra compie solo una metà del suo ufficio. I
fatti sono semplice- cernente la scoria della storia. È dall' astratta
verità che li pe- netra e sta latente fra essi come 1* oro nel minerale
che la mas- sa deriva tutto il suo valore. Storia vera è la
narrazione e interpretazione di tutta l'attività umana, quindi non
semplicemente della politica ma anche della artistica e della fi-
losofica; perchè l'uomo è uno in nitte le sue mani- festazioni. Lo
storico completo deve dunque dimo- strare come tutta l'attività umana di
uno stesso pe- riodo abbia unità di caratteri, come arte e filoso-
fia e politica siano tutte dominate da uno stesso principio storico;
questo, come abbiam visto, il Ferrari fa; giudicando inoltre senza
pregiudizi di aorta l'arte dal puro punto di vista estetico, il
pensiero dal puro punto di vista filosofico. Ma la sua dote
migliore è quella di essere to- talmente libero dai pregiudizi della
morale miope dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero ridur- re
la storia a qualche cosa come un dramma a fine morale, con l'obbligo del
n*ionfo per perso- naggi dotati di tutte le sette virtù cardinali e
teo- logali. Nulla di più noioso che gli scritti di certi signori,
perpetuamente scandalizzati di fronte al- la vitalità umana potente nei
vizi come nelle vir- tù, perpetuamente predicanti contro le orge di
Nerone o le crudeltà della Rivoluzione francese, ridotti alla
disperazione di dover ricercare a forza dentro i fatti ribelli il trionfo
della loro mo- ralità di scomunicare il 90% della storia. (La
Chine, pag. 14) : ... Non c'è niente di meno storico che Io
scopo morale perseguito sì ostinatamente da certi storici, i quali
trasformano la storia in una specie di catechi- smo. Essa al contrario
ammette tutti gli scioglimenti : A. Ferrari — Giuseppa Ferrari.
10 ora tragica, ora comica, a volta indulgente e crudele, non
si incarica di punire di ricompensare alcun e- roe; e domanda senza fine
dei tiranni dei condottieri dei martiri degli stolti delle vittime.
Perchè si vor- rebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti a un
innocente, là che s'irritasse contro un malvagio, e che si sosti-
tuisse a Dio per ricompensare gli uomini secondo il loro merito; che
fosse in una parola edificante per le madri di famiglia e per i bambini
poppanti! Che l'arte debba essere giudicata da! puro pun- to
di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si è finalmente
cominciato a capire : pare che non si sia invece capito ancora che, per
intendere e giudicare la storia, bisogna mettersi da un punto di
vista superiore a quello della propria moralità individuale e
contingente. La storia è un tessuto di azioni pratiche, che
io posso quindi giudicare sia dal punto di vista eco- nomico che dal
punto di vista morale ; posso cioè determinare se l'azione di quel dato
individuo fu prodotta puramente da fini individuali, da Ani
universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene che la moralità è formale,
che è morale quello che l'uomo crede e sente morale; devo quindi
ri- nunziare alla mia rivelazione morale — come di- rebbe il Ferrari
— per rimettermi nei panni del- l'individuo che pretendo sottomettere al
mio tri- bunale; e non portare le idee del secolo XX nel secolo V
avanti Cristo, e non giudicare il Valen- tino coi criteri con cui si
giudica un onesto im- piegato municipale padre di numerosa prole.
Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in sodo se Gian Galeazzo
Visconti tradì lo zio Bar- nabò per pura libidine di regno o per
beneflcare i suoi popoli, liberandoli dall'ultimo vestigio della
tirannia a nome di una più completa imparzialità ; anche nel caso del
resto piuttosto raro in cui fa- zione sia determinata dal solo interesse
individua- le, lo storico vero deve saperci discernere il bene,
quel bene che l'individuo non cerca e non cura ma che il destino gli
impone di compiere, e che solo permette alla sua azione di essere e le dà
un senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che la storia è il
trionfo della moralità, che non è quella degli storici pudibondi; della
moralità che non esiste senza il vizio perchè appunto è lotta
contro il vizio; della moralità che si vale per i suoi fini di tutti gli
istinti, di tutte le passioni, di tutte le colpe dell'uomo, condannato
dal destino ad essere sempre e dovunque angelo e bruto. E
veniamo ora a giudicare il valore della inter- pretazione
concreta. Pensate che ai tempi del Ferrari la piti impor- tante
storia d'Italia era il Sommario di C. Bal- bo (1), il quale in fondo non
è molto superiore ad un manuale scolastico, come del resto ricono-
sceva l'autore stesso: Finché non avremo un grande e vero corpo dì
sto- ria nazionale, da cui si faccia poi con più facilità (i)
Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n, — 148 —
ed esattezza uno di quei ristretti destinati ad andar per le mani
di tutti, o come si dice un manuale; k> non so se mi ingannino le mie
speranze di scrittore, ma tal mi pare possa esser questo (1)
e dove lo sguardo dello storico è velato dal pre- giudizio
deirindipendenza. Con le Révolutions d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del
Ferrari non ha altro serio punto di contatto che l'identità del
titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche va- ga somiglianza di
concezione ci si trova (l'Italia spiega l'Europa — la sua lotta è per la
libertà non per l'indipendenza — Venezia è estranea al- la vera
Italia) si tratta di osservazioni ormai co- muni fra gli storici, o già
anticipate dal Ferrari stesso nei suoi saggi sull'Italia anteriori al
1848 (4). Non parliamo degli storici anteriori di cui il Ferrari
stesso mette in luce nella prefazione al- l'opera sua la deficenza
interpretativa, per cui al- cuni volevano spiegare l'Italia col principio
del- l'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello del- la Chiesa
(Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ri- durla sotto la forma politica dei
principati (Guic- ciardini) e altri sotto quella delle repubbliche
(Si- gjmondi). Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni
dopo vistq con tanta giustezza e profondità, giudicato da tanta
altezza, narrato con tanta ala di poesia e forza di rappresentazione la
storia d'Italia? (i) e. Balbo : Della storia tf Italia, — Bari,
Laterza, 1913. Voi. I, pag. 6. (2) Paris, Dagnerre,
1857. (3) Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina
(1765). (4) Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag.
88. Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fat- ta del ststema
politico italiano impiantato sulla gran repubblica papato-imperiale che
ha fatto del- l' Italia una nazione senza confini, perchè possa
diventare U centro d'Europa che irraggia le sue continuamente nuove
creazioni politiche a tutti gli stati? Solo questa idea può dominare e
spie- gare coU'unità d'una legge la esuberante varietà delle forme
politiche che prende lo spirito italia- no, scisso nelle due eteme
antitesi dei Guelfi e dei Ghibellini. E solo quando si parta dal
concet- to che gli Italiani lottano non per l'indipenden- za che
sottragga la nazione al patto papaie-im- periale, ma per la libertà e per
il progresso so- ciale, non per distruggere ma per riformare la
repubblica dualizzata che è la loro franchigia ; di- ventano
intelligibili le innumerevoli battaglie che ebbero il loro campo fra le
Alpi e il mare. Non contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la
sua libertà dal pericolo d'un regno, che danno al- la nazione la gloria
di essere il centro politico di tutta l'Europa, combattono i suoi Guelfi
e i suoi Ghibellini per conquistare il lustro vano di una gretta
indipendenza chiusa nei suoi confini; ma per riformare il Papa e
l'Imperatore e costrin- gerli ad ammettere grado a grado nel loro
patto il progresso sociale delle nuove forme politiche create dalla
forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^ polo italiano è il gran
protagonista che adopera i Papi e gli Imperatori, imponendo loro le
parti che devono recitare sulla scena mobile ddla storia; che distrugge o
chiama gii stranieri, sfrutta tutte le invasioni, maneggia Francesi e
Tedeschi come strumenti per conquistare una sempre più larga
democrazia. Tutta la gran guerra delle ri- voluzioni italiane si riduce,
come per Vico la guer- ra intema della repubblica romana, a un con-
trasto sociale del popolo con l'aristocrazia; che diventa anche contrasto
di razza perchè il po- polo è italico e romano, l'aristocrazia è
formata dai Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli invasori e
dai loro discendenti. Ltt gran guerra contro il regno barbaro estemo dei
Goti e Lon- gobardi e contro il regno barbaro intemo dei Be-
rengarì e degli Arduini, la rivoluzione dei vescovi contro i conti sono
nello stesso tempo lotte di classe e di razza; da una parte il popolo
romano, dall'altra i conquistatori barbari. E poiché i bar- bari
hanno piantato piò profonde radici nelle cit- tà militari da essi
colonizzate; la lotta fra le città romane e le militari si classifica
pure sotto que- sta doppia antitesi; come la lotta ddle città con-
tro i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini, dei GQdfi contro i
GUbdliiii. Se non che man mano che si procede nella fusione barbarica,
la lotta attenua il suo carattere di razza per accen- tuare quello
di classe; già ncUt guorra cqmm 1 castelli i feudatari combtttoti daDe
città altari barbare di tendenza si romanizzano facendo ami- cizia
colle città romane; cosicché nell'era seguen- te noi vediamo la lotta
incrociata in modo che nelle città romane i Cittadini sono romani e i
Con- cittadini barbari, mentre nelle città militari è viceversa ; e nel
periodo ancora successivo il popolo è guelfo nelle città romane e
ghibellino nelle milita- ri. E siccome la vittoria è data all'elemento
roma- no e all'elemento popolare insieme uniti : noi ve- diamo
trionfare le grandi città dell'industria e del commercio; e il progresso
della democrazia va di pari passo col risorgere dei grandi focolari
del- la civiltà romana; finché colla costituzione della lega
federale del 1484 il processo indigeno è com- piuto e i nuovi progressi
della democrazia vengo- no dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e
dal- l'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini. Chi ha mai
saputo disegnare con tanta chiarezza i lineamenti della storia italiana,
decomposta cosi nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il si-
stema papaie-imperiale e la lotta non nazionale ma democratica per
riformarlo non per distrug- gerlo, rimangono sempre le due idee che ci
dan- no la chiave della storia nostra. Ma non meno giusta è
l'interpretazione che il Ferrari ci dà dei particolari periodi storici.
Alcu- ni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi e
concittadini, dei tiranni sono da lui addirittu- ra scoperti; ma anche
quegli altri che erano già conoscenza acquisita di qual luce non vengono
da lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni che hanno il
difetto di abbracciare troppo tempo e di sottomettere la nostra storia a
un principio straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu
sempre combattuto dall'espansione originaria no- stra; per es. l'enorme
periodo del feudalismo che va da Carlo Magno ai Comuni è da lui
decompo- Sto nei due perìodi della lotta contro il regno bar- baro
intemo e dei vescovi. Chi meglio di lui ha saputo spiegare la gran
catastrofe dell* Impero ro- mano, che percuote di spavento come un
mira- colo — dimostrando che fu rovesciato dai popo- li irritati
dalla sua fiscalità, i quali vollero piut- tosto una invasione stabile
che il continuamente rìnnovantesi disastro delle invasioni
maneggiate dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lot- ta
delle investiture, condotta non dal Papa e dall'Imperatore, ma dai popoli
italiani che si gio- vavano dell'uno contro l'altro per modificarli
a vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd pat- to di Carlo
Magno la gran rivoluzione della li- bera elezione dei vescovi? Chi meglio
di lui ha saputo ritrovare il filo del progresso logico in mez- zo
allo sconvolgimento vertiginoso della crisi mi- litare ; chi ha meglio di
lui definito il periodo del- la decadenza dei signori come restaurazione
pa- paie-imperiale non conquista, perchè liberamente invocata e
accettata dai popoli che non si difendo- dono nemmeno con una battaglia?
Nella storia moderna il Ferrari è un po' meno preciso e la
interpretazione in qualche punto è ancora sogget- ta a completamento e a
correzione — come egli stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla
Fran- cia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'ir-
radiazione politica deir Europa, e anticipa il pe- riodo della
Rivoluzione francese alla pace d'Aqui- sgrana (1748). L'opera del
Ferrari è in conclusione la messa in valore degli Scrìptores rerum
Italicarum del Muratori, è la riabilitazione del Medio Evo; che
anche oggi è comunemente considerato dalla gen- te cosi detta di cultura,
la quale giudica coU'oc- chio velato dal pregiudizio classicistico del
Rina- scimento, come un periodo di decadenza di bar- barie di
traviamento mistico. I romantici special- mente stranieri nella loro
nostalgia mistica e nel loro orgoglio nazionale furono i primi a
rivendi- care il Medio Evo, però più dal punto di vista del
sentimento che della ragione, finendo col consi- derarlo come un
territorio di sogno dove la fan- tasia urtata dalle volgarità del
presente potesse ri- coverarsi, in mezzo allo splendore magico di
una società fantastica in cui un cavaliere poteva col suo valore
conquistarsi un regno. Poi vennero i cattolici che lo celebrarono come la
loro età dei- Toro ; il perìodo di trionfo delle loro idee; l'età
in cui tutta la terra, popolata di gente che passa- va come pellegrina
cogli occhi fissi al cielo, era sottoposta all'alta sovranità del Papa,
che poteva imporre agli imperatori l'umiliazione di Canossa. Questa
è per es. la concezione di Gioberti che, combinando col sentimento
cattolico l'orgoglio na- zionale, celebrò il Papato come la ragjone
della grandezza medievale d'Italia, dominante il mon- do colla
religione come una volta coll'armi (I). (i) Del primato civile e
moraU degli Italiani — Bniael- Us, 1843. Adesso per converso, dove
lui vedeva la luce e appunto per la stessa ragione la folla delle perso-
ne colte vede le tenebre; e il Medio Evo è anco- ra per loro come un
enorme deserto di schiavitù di barbarie di abiezione mistica, in cui
fioriscono non si sa come le oasi dei liberi comuni a un cer- to
punto distrutte dal simoun delle signmie. Nessuno ha saputo
riabilitare con così alta giu- stizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso
sfata l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando come anche
nei secoli più bui il progresso sociale continui sotterraneo; come il
popolo d'Italia non sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato
libe- ramente le invasioni perchè gli portavano un pro- gresso
sociale, o lottato contro i conquistatori co- sì terrìbilmente da
distruggerli; come egli solo protagonista oscuro e possente abbia creato
e at- terrato Papi e Imperatori, invocandoli per distrug- gere il
regno o combattendoli per riformarli. Non si tenti dunque di far passare
per un popolo di puri mistici questo che, anche nelle epoche più
teocratiche volto alla terra, si giovava della reli- gione come di
un'arma spirituale più terribile del- le spade gotiche e delle aste
longobarde, per raf- frenare e dominare colla magia di tma
supersti- zione terribile gli enormi bestioni vellosi e trucu-
lenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio dei Romani; che poi
al tempo dei consoli, riget- tando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si
vol- tava con una energia meravigliosa alle opere del- l'industria
e del commercio e diventava il banchie- re dei re dell'Europa ,ritenendo
la religione come una tradizione da cui gli artisti potessero e- vocare
un popolo di capolavori — che passò nove secoli in mezzo alle passioni
forse più forti della vita, quelle della politica, colla spada alla
manp. La decadenza poUtica comincia proprio nel perìo- do del
Rinascimento, quando la civiltà trasporta altrove i suoi centri
incendiari e V impulso vie- ne dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile
non c'è : come non c'è alia caduta dell'Impero roma- no, come non
c'è all'avvento delle signorie sopra il comune: il gran processo sociale
della demo- crazia aliargantesi continua, anche se non origi- nario
proviene dall'Europa più avanti ormai nel- la scala storica ; questo
progresso sociale della de- mocrazia si traduce in un continuo aumento
di potenza dei centri romani, delle città industriali e
commerciali. Non c'è salto come non c'è decaden- za, non si può quindi
accettare l'interpretazione del Rinascimento come di un movimento che
pren- da a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la con- tinuità
ideale; anche qui il Ferrari è confermato dai resultati ultimi
dell'investigazione particolare dei nostri storici: Si vede
dunque come le radici dell 'Umanesimo siano profondamente penetrate e
ramiflcate nel ter- reno dell'Italia comunale; come esso sia
intimamen- te moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata dal
blocco di marmo. (1) (i) G. Volpe : Bizantinismo e
Rinascenza in Critica, — Bari, Laterza, 1905. Pag. 74. XVIII.
Ma il Ferrari non è solo un interpretatore ih nico, è anche un
artista di primissimo ordine, che il buon Cantoni non si peritava di
paragonare per la sua potenza drammatica di rappresentazione a
Shakespeare : D*uno sguardo psicologico acuto e profondo,
d'u- na mirabile facoltà di ridar vita movimento e colore agli
uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ciò le qualità più
difficili che fanno i grandi drammatici, e avrebbe potuto forse divenire
il più grande dei no- stri se un*altra tendenza più forte non lo
avesse spinto alla filosofia : la tendenza cioè precocissima in lui
ad ascendere ai principi assoluti, ai principi su- premi ed etemi che
regolano la vita degli individui e delle nazioni (!) Le
abbondanti e frequenti citazioni bastano a dare una idea della forza
artistica con cui sa ca- ratterizzare uomini e cose, descrivere città,
rap- presentare movimenti politici. Un periodo ampio; una vivezza
calda e mossa di rappresentazione; un sottile humour tenue come il
sorriso d*un uo- mo superiore che compatisce alle debolezze uma-
ne, e nei tempo stesso un'accensione lirica una foga d'entusiasmo che gii
fa mettere in luce la grandezza epica della storia in ogni minimo
fatto; la forza dell'immagini che, atteggian- do come esseri viventi
città e stati, vi si piantano nel cervello senza abbandonarvi più;
formano le (:) G. Cantons: (/. Ferrar/, pag. 87.
doti di questo scrittore che avrebbe potuto anche nel campo
dell'arte pura lasciare un'orma immor- tale. Con una fecondità
versatilità profondità ve- ramente shakespeariana egli ha saputo creare
una folla di personaggi e rappresentare una serie in- numerevole di
rivolgimenti senza mai ripetersi, perchè sa colpire nella sua
caratteristica la real- tà che mai si ripete. Per avere un'idea della
sua forza drammatica leggete per esempio la narrazio- ne della lotta
di Milano contro il vescovo papista Grossolano {Riv. d'Italia — Voi. I,
pag. 395) e delle imprese di Ezelìno da Romano (Voi. II, pag. 278);
per dare ancora un esempio della sua vivezza rappresentativa eccovi la
descrizione di Genova che pare d'oggi (Voi. I, pag. 480) :
Genova è un magnifico anfiteatro gettato fra il mare e la montagna,
e tale che ì suoi abitanti non possono fare un passo senza salire sulle
rupi o senza ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che
riuniscono tutti gli estremi della miseria e della mu- nificenza. Nei
loro viottoli stretti neri fangosi inac- cessibili alle carrozze si
rizzano immensi palazzi, che disegnano le linee della loro abbagliante
architettura sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni
lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che vi si incontrano
alla ventura colia moltitudine cen- ciosa dei marinai. Ad ogni
rivoluzione la città on- deggia dall'aristocrazia alla democrazia come
una go- letta di smisurata alberatura; e i suoi cronisti non
possono dissimulare l'ondulazione dei consoli, specie di marea tumultuosa
che monta a poco a poco fino a insabbiare il potere del vescovo.
Superiore in questo al De Saiictis in cui il D'A- -
158 - nunzio poteva notare tante manchevolezze artisti- che e
stilistiche da presagire a torto la sua dimen- ticanza, il Ferrari —
anche dovesse la sua inter- pretazione essere dimostrata falsa da una
critica superiore — rimarrebbe ancora immortale in que- sto
capolavoro, che continuerebbe ad essere let- to come uno dei più bei
romanzi storici d* Italia. XIX. Eppure con tanto valore
artistico e storico que- sta sua opera non ebbe fortuna, nò nella prima
e- dizione francese fatta per T Europa, né nella se- conda edizione
italiana. Quello che è il suo pre- gio caratteristico fu appunto la causa
del suo in- successo*, la concezione filosofica cosi profonda che
era a base del suo lavoro di interpretazione rese quest'opera
inintelligibile in un periodo di barbarie, in cui il positivismo dominante
ottun- deva tutte le menti : la sua altezza cosi serena di giudizio
Io fece trascurare da quegli uomini an- cor tutti accesi delle passioni
politiche dal cui coz- zo usciva r Italia. Tipica a questo proposito è
la recensione larghissima di G. Rosa alla edizione del 58; essa
univa a qualcuna delle solite imman- cabili osservazioni di dettaglio la
critica di uno che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della
nazionalità e del liberalismo astratto, pare spa- ventato che si possa
refutare l'apologia dei Lon- gobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti;
seb- bene abbia una certa confusa sensazione che in ciò consiste la
grandezza del Ferrari : Per questa altezza nuova, per Tindipendenza
dalle idee vecchie, per la vastità del concetto specialmente noi
facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se non possiamo accettare
tutte le di lui argomentazio- ni, se anche tutte le di lui teorie non
reggeranno al- la prova della scienza storica progrediente; egli
avrà prestato prezioso servigio agli studi italiani, avrà e- ducato
a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche, dalle tradizioni
tiranniche dei partiti nazionali e sco- lastici. Per lui i giovani
apprenderanno a contem- plare la storia da un'altezza che la ragguaglia a
quel- la della civiltà, dove non giungono le ire delle pas- sioni,
dove il male parziale appare coordinato a più vasto bene (1).
Gli accade in piccolo e in breve come a quel Vico ch'egli
venerava col nome di maestro: trop- po alto per il suo tempo non venne
compreso. Anche coloro fra i moderni che citano questa sua opera,
come per es. il Romano (2) o il Gianani (3), paiono non comprenderne
affatto la terribile profondità il metodo l'interpretazione — e
somi- gliano un po' a fanciulli che giochino colla cla- va di
Ercole. Solo uno straniero, che amò e stu- diò ritalia, J. A. Sysmonds,
autore di quella Renaissance in Italy non meno importante del piiji
noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione dell'importanza di
questo libro. Infatti come nel- la prefazione del I voi. (L'era dei
tiranni) ricor- (i) Archivio storico italiano, — Firenze,
1858. Nuova se- rie, tomo 3, pag. III. (2) Le Invasioni
barbariche. — Milano, Vallardi. (3) / Comuni, — Milano,
Vallardi. dava espressamente (1), nel cap. II {La storia ita- liana)
ne ripete con parole diverse e con qualche ampliamento o dilucidazione
tutte le grandi idee» però da un punto di vista un pò* meno alto e
non del tutto superiore ai pregiudizi del senso comu- ne, e nel
seguito del volume non ne tiene molto conto. Nessuno tra gli
storici moderni, tra cui ce ne sono diversi molto meritevoli per ricerche
parti- colari, è riuscito a sollevarsi all'altezza del Fer- rari
che rimane ancora unico solitario gigante, per darci un'interpretazione
completa della storia d'I- talia. O meglio ci fu uno che
tentò sebbene con for- ze inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a
u- na folla di positivisti che abbassavano arte e sto- ria alla
portata dei loro intelletti piccini, Oriani ben comprese — e l'aveva
appreso in gran par- te dal Ferrari — come la storia sia
interpretazio- ne, spiegazione, visione dall'alto, resurrezione se-
condo la parola di Michelet (2). Non c'è bisogno di abbassare l 'Oriani
per innalzare il Ferrari : la condotta poco delicata di quello verso
quest'ulti- mo, rammentato con citazioni che nascondono più che
rivelare la derivazione, non deve indurci a negare il valore storico
all'autore della Lotta pò- (i) J. A. Sysmonds: //
Rinascinunto in Italia; Cera dei tiranni (vcrs. it,). — Torino, Roux e
Viarciigo, 1900, pag. XX: Debbo anche manife&tare speciale
gratitudine al Ferrari, del quale ho fatto miei non pochi {^iudirj nel
capitolo sulla storia italiana scrìtto per la seconda edizione di questo
volume, (2) A. Oriani: Fino a Dogali, - Bologna, Gherardi, 19 1
2 — Pag. 168. — litica. Esso fu il solo degno
continuatore di Fer- rari; continuatore in quanto non propriamente
storico del Medio Evo — i libri I e II della Lotta politica come è stato
dimostrato (1) non sono al- tro se non un riassunto spesso colle stesse
parole dal suo gran predecessore — ma storico del Ri- sorgimento
italiano. Ad ogni modo, per quanto sia runico che possa tentare la prova
del parago- ne, Oriani soccombe; come storico per l'inegua- glianza
deirinterpretazione ora indovinata ora su- perficiale, come artista per
la non rada enfatica esagerazione romagnola inferiore alla potente
pre- cisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una posizione
sentimentale un po' meno adatta che non quella del Ferrari. In questo il
senso del su- blime storico e l'entusiasmo di fronte alla gran-
dezza va accompagnato a una calma serena, a una specie di fine bonario
umorismo che sa tro- vare l'uomo magari contro il suo volere
benefi- co anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani ha della
storia solo il senso tragico; brontola un po' troppo; troppo spesso va in
collera col passato; non sa mantenersi cabno davanti agli errori
dei suoi personaggi, errori spesso imposti dalla storia che qualche
volta egli vorrebbe correggere. Que- sti difetti sono più sensibili nei
due primi libri per mancanza di quella conoscenza diretta che è
necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio, ma anche qui c'è da
notare un po' di semplici- smo e astrattismo, più nelle forme che nel
con- ci) l. Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani
nella Voce, Prrrari — Oimeppe Ferrari, 11 cetto. Per es. egli
dà come ragione dello scacco delta rivoluzione del 48 la sua forma
federale, mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'e-
quivoco del popolo e il tradimento dei prìncipi. Ragionando a questa
maniera vedrebbe più giu- sto il Ferrari che pensa precisamente
l'opposto. Certo qualche po' delle lodi che danno all'Òrìani
storico i crìdci moderni, il Croce (1) e il Borgfte- ^ se (2), spetta di
diritto al Ferrari, di cui sono tre fra le immagini che quello cita per
dare un esem- pio della forza rappresentativa del suo autore
(Venezia — I Condottieri — Silvio Pellico). Concludiamo. Sare6be
un'impossibile pretesa l'affermare che l'opera del Ferrari sia
definitiva, perchè nulla c'è al mondo di definitivo, né la vi- ta
né la filosofia né l'interpretazione storica. Ma come una filosofia è
viva finché non è sorpassata e inverata, così una storia. Orbene — prima
di buttare il libro del Ferrari fra le anticaglie — bi- sogna
averlo sorpassato, e finora nessuno non so- lo non Tha superato ma non si
è nemmeno solle- vato al suo livello. Noi consigliamo quindi a stu-
diarlo: primo per imparare il metodo di Inter* pretare la storia ;
secondo per meditare la sua in- terpretazione concreta, anche oggi tanto
vera che 1 moderni studi particolari la confermano invece di
distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta l'Europa il Ferrari
merita un posto a parte su* periore ai più famosi : al Macaulay al
Mommsen al Taine, per la stessa ragione che rende il De (ì)
La Critica^ genn. i<)og. La vita e il libro. Parte I. — Torino,
Bocca. Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura^ per il
senso filosofico che gli diresse la potenza interpretativa a risultati
così grandi. Per racchiu- dere in una frase il resultato di queste mie
osser- vazioni, Ferrari è il De Sanctis della storia poli- tica, lo
storico dell'Italia medievale. Noi non esi- tiamo a considerarlo come il
più gran rappresen- tante della storiografia romantica (1),
sorpassato nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor
degno come storico concreto di essere il gran maestro della nostra
generazione. Grice: “I use
revolution occasionally – minor ones! --. Grice: “Mussolini kept saying that
Ferrari was talking of ‘rivoluzione fascista’ – Garibaldi hardly used
‘rivoluzione’! Grice: “Nothing pleased Mussolini more than the collocation
‘rivoluzione fascista’ – almost as much as Washington did ‘American
revolution’, and Cromwell, ‘The Glorious Revolution’!” -- Giuseppe Ferrari. Giuseppe Michele Giovanni Francesco
Ferrari. Ferrari. Keywords: FILOSOFIA della RIVOLVZIONE, A. Ferrari on ‘storia
d’Italia’ – i rivoluzionarii italiani – Vico, Domenico Romagnosi. L’uso del
termine ‘rivoluzione’ nella storia italiana – la rivoluzione dell’unificazione,
la rivoluzione fascista – il risorgimento dell’unita hardly qualifies as a
revolution. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Ferrari: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale degl’anarchici di Mussolini – scuola della Spezia – scuola
d’Arcola – filosofia speziana – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Arcola). Filosofo arcolese. Filosofo
speziano. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Arcola, La Spezia, Liguria. Grice: “I like Ferrari; he
was a philosopher AND a poet – a combo we don’t find too often at Oxford!”
-- Ferrari (alias Novatore) Renzo
Novatore. Oggi cerco un'ora sola di furibonda
anarchia e per quell'ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la
mia vita.» Refrattario a ogni disciplina fin da giovanissimo, frequenta
la scuola soltanto per alcuni mesi prima di abbandonarla definitivamente ed
essere costretto dal padre a lavorare nei campi. Il suo profondo desiderio di
conoscenza, unito ad una notevole forza di volontà, lo spinse però ad un
personalissimo studio da autodidatta che lo portò a leggere Stirner, Nietzsche,
Palante, Wilde, Ibsen, Schopenhauer, Baudelaire. Non rinunciò comunque ad
elaborare una visione autonoma, che costruì giorno dopo giorno, come ricorda il
suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante attività meditativa. Si
sposa con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli, uno dei quali morto in tenera
età. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono sulle orme paterne una
personalissima riflessione esistenzialista che svilupparono nell'ambito della
produzione artistica e letteraria. Questo nonostante fosse contrario alla
famiglia tradizionale e alla visione idealizzata della donna: «O ciniche prostitute,
o espropriatrici audaci, ergetevi sopra la putredine ove il mondo sta immerso e
fatelo impallidire sotto la luce perversa dei vostri grandi occhi profondi. Voi
siete il sole più bello che oggi il sole bacia. Voi siete di un'altra
razza. E l'anima vostra è un canto, un sogno la vostra vita. Scardinate il
mondo o libere prostitute, o espropriatrici audaci. Io canterò per voi. Il
resto è fango!” (Le mie sentenze) L'anarchico disertore La prima volta in
cui le cronache s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un incendio
distrusse la chiesa della Madonna degli Angeli nella notte: le indagini dei
regi carabinieri portarono infatti a identificare i responsabili del gesto in
un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i quali anche Ferrari.
Contrario alla guerra, venne richiamato sotto le armi ma si rese irreperibile.
Venne dunque imputato di diserzione e condannato in contumacia alla pena di
morte. Sarà poi arrestato e scarcerato in seguito ad amnistia. “E le rane
partirono... Partirono verso il regno della suprema viltà umana. Partirono
verso il fango di tutte le trincee. Partirono.... E la morte venne! Venne ebbra
di sangue e danzò macabramente sul mondo. Danzò con piedi di folgore... Danzò e
rise... Rise e danzò... Per cinque lunghi anni. Ah, Come è volgare la morte che
danza senza avere sul dorso le ali di un'idea... Che cosa idiota morire senza
sapere il perché.” (Dal poema Verso il nulla creatore) Anarchico
individualista, assunto lo pseudonimo di Renzo Novatore, è protagonista con i
suoi compagni Dante Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di alcuni dei più
importanti episodi della lotta operaia del biennio rosso nella Provincia della
Spezia: episodi la cui importanza non si comprende se non tenendo conto che
allora La Spezia era una delle più importanti roccaforti militari italiane,
circondata da una serie di forti e polveriere che ne dominavano il golfo, e
caratterizzata dalla presenza di un arsenale militare e di alcune delle più
importanti industrie belliche. In quel periodo molti lavoratori anelavano a
"fare come in Russia", tanto che era in molti anarchici, come Errico
Malatesta, la convinzione che la rivoluzione fosse dietro l'angolo e bastasse
dare solo una spallata decisa. L'antifascismo e la morte Coerente fino
alla fine nella prima lotta al nascente fascismo, entrò nel mirino delle
camicie nere, coadiuvate dalla polizia di Stato, e dovette fuggire per
garantirsi l'incolumità; per sopravvivere si unì al bandito piemontese Sante
Pollastri che era noto anche per proteggere e finanziare gli anarchici con la
sua banda di rapinatori, data la simpatia politica che aveva per loro e il suo
odio per il fascismo. Qualche tempo dopo la banda di Pollastri rapinò un
importante cassiere di una banca, che portava una borsa piena d'oro: durante la
colluttazione il ragionier Achille Casalegno venne colpito da un proiettile e
morì; sebbene probabilmente fu Pollastri, che aveva già diversi omicidi di
poliziotti e fascisti alle spalle, ad esplodere il colpo, al processo costui
avrebbe accusato il defunto Novatore. Le forze dell'ordine, su incarico
del governo Mussolini, intensificarono la caccia alla banda Pollastri. Un mezzogiorno,
il maresciallo Lupano e i carabinieri Corbella e Marchetti entrarono in abiti
civili nell'Osteria della Salute di Teglia, nel genovese, perché avevano
individuato Pollastro ed intendevano arrestarlo. Novatore era seduto accanto al
celebre bandito e ad un altro componente del gruppo, e probabilmente fu proprio
lui il primo a sparare sui carabinieri, scatenando la risposta di quest'ultimi.
Nello scontro a fuoco rimasero uccisi il maresciallo Lupano e un amico del
bandito, il cui corpo crivellato di colpi si rivelò essere quello
dell'anarchico Ricieri Ferrari, noto come Renzo Novatore, ricercato per
attività sovversiva e antifascismo, mentre Pollastri e l'altro compagno
riuscirono a scappare. Novatore, al momento della morte, aveva con sé una
pistola Browning, due caricatori di riserva, una bomba a mano ed un anello con
spazio nascosto contenente una dose letale di cianuro, per suicidarsi se fosse
caduto vivo nelle mani dei fascisti, oltre ad un documento falso recante il
nome di Giovanni Governato. Si define anarchico individualista. Lotta per
la libertà e per i diritti delle masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento
delle insurrezioni del 1919, che non si potesse fare affidamento sul
popolo: «Le masse che sembrano adoratrici di Errico Malatesta sono vili e
impotenti. Il governo e la borghesia lo sanno e sogghignano.» «Io so, noi
sappiamo, che cento uominidegni di questo nomepotrebbero fare quello che
cinquecentomila "organizzati" incoscienti non sono e non saranno mai
capaci di fare.» Il suo pensiero nichilista, anticlericale, anarchico e
iconoclasta si caratterizzava soprattutto per il fortissimo individualismo, un
individualismo fine a sé stesso che lo pose spesso in conflitto con altri
membri del movimento anarchico di quegli anni, come Camillo Berneri (di
ispirazione anarco-comunista). «L'individualismo com'io lo sento, lo
comprendo e lo intendo, non ha per fine né il Socialismo, né il Comunismo, né
l'Umanità. L'individualismo ha per fine sé stesso.» (Dallo scritto Il mio
individualismo iconoclasta in Iconoclasta!) «L'anarchia è per me un mezzo per
giungere alla realizzazione dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la
realizzazione di quella. Se così fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se
i deboli sognano l'anarchia per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia
come un mezzo d'individuazione.» «Nella vita io cerco la gioia dello
spirito e la lussuriosa voluttà dell'istinto. E non m'importa sapere se queste
abbiano le loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi
abissi del male. Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo e nessuna
anarchia valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto
ho considerato me stesso come meta suprema.» Rimaneva salda nel suo
pensiero la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessità
irrinunciabile tanto che di lui si disse che scriveva come un angelo,
combatteva come un demonio. Su di lui restò sempre fortissima
l'ispirazione di Max Stirner e di Nietzsche. Opere scritte Le opere
e il ricordo del Novatore sono state in gran parte distrutte dal regime
fascista e sostanzialmente a lungo dimenticate anche da alcune parti del movimento
anarchico. Le sue firme compaiono con molti pseudonimi diversi (oltre al
già citato "Renzo Novatore", anche "Mario Ferrento",
"Andrea Del Ferro", "Sibilla Vane", "Brunetta
l'Incendiaria") su svariate pubblicazioni anarchiche dell'epoca, tra cui
Il Libertario (pubblicato a La Spezia), Gli Scamiciati (Pegli), Cronaca
Libertaria (Milano), Il Proletario (Pontremoli), Pagine Libertarie,
Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico, Vertice (La Spezia), Nichilismo,
L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia (Parigi). Da ricordare
inoltre due libri di pubblicazione postuma: "Verso il nulla creatore"
e "Al di sopra dell'arco". Libri ed opuscoli Renzo
Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, Siracusa,
"Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro
d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra
dell'arco, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di
Virginio De Martin e Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo
Novatore, prefazione di Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze,
Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario
Senigallesi, Polemica, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni
di Totò Di Mauro, Tito Eschini e Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al
di sopra dell'arco, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazione
biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G.
Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino, Reprint Assandri, “Verso il nulla
creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti
scelti e note biografiche, Pisa, BFS Edizioni, Renzo Novatore, Toward the
Creative Nothing, Portland, Venomous Butterfly Publications, Renzo Novatore,
introduzione di Alfredo M. Bonanno, Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni
Anarchismo. Renzo Novatore, Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose,
dove sono le rose?, Gratis Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres, Lisbona,
Textos Subterraneos. Novatore: una biografia Archiviato iRenzo
NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal personaggio di Sybil Vane,
presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Wilde Maurizio Antonioli (diretto da), Dizionario
biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, Massimo
Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, Scritti,
citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di testi di Renzo Novatore. Ricerca
Anarchismo filosofia politica Lingua Segui Modifica L'anarchismo è definito
come la filosofia politicaapplicata o il metodo di lotta alla base dei
movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento
dell'anarchia come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia
indesiderabile, non necessario e dannoso o in alternativa come la filosofia
politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione gerarchica nello
svolgimento delle relazioni umane. La A cerchiata, il più celebre simbolo
anarchico I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono società
senza Stato basate sulle associazioni volontarie e non gerarchiche. Il termine
inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques
Pierre Brissot nel 1793, definendo negativamente la corrente politica degli
enragés o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma
d'autorità. Nel 1840 con Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos'è la
proprietà? (Qu'est-ce que la propriété ?) i termini anarchia e anarchismo
assumeranno una connotazione positiva. Ci sono alcune tradizioni di
anarchismo e sulla base della storia del movimento transitata attraverso il
dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi. Le scuole di
pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale,
spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo. Le tipologie di
anarchismo sono state suddivise in due categorie, ovvero anarchismo sociale e
anarchismo individualista, tuttavia compaiono anche altre suddivisioni basate
comunque su classificazioni dualiste simili. L'anarchismo in quanto movimento
sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La tendenza
centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si è
avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre l'anarco-individualismo
è principalmente un fenomeno letterario, che tuttavia ha avuto un impatto sulle
correnti più grandi. La maggior parte degli anarchici sostiene l'autodifesa o
la nonviolenza(anarco-pacifismo) mentre alcuni anarchici hanno approvato l'uso
di alcune misure coercitive, tra le quali la rivoluzione violenta e il
terrorismo, per ottenere la società anarchica. Chomsky descrive l'anarchismo,
insieme al marxismo libertario, come "l'ala libertaria del
socialismo". Come padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno,
troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che, con le sue
riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina,
precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX secolo.
Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail
Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai
quattro principali teorici di questa corrente di pensiero. Per quanto riguarda
Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo
praticamente sconosciuto fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in inglese
come The Ego and Its Own e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche) e
totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto,
ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai
movimenti più o meno di massa dell'epoca. Quanto a Proudhon, che può essere
considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo
pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed è stato oggetto, in alcuni
casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte
asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla proprietà. Per quanto riguarda
Bakunin, se la sua influenza è diretta e decisiva sul movimento libertario,
almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il
suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte. In
realtà, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera
di Pëtr Kropotkinche non esita su punti importanti a modificare, precisare,
allargare l'eredità bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo
libertario. Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere
considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del
pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o
superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di
tutti i principi che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati
utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul
resto della popolazione. Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si
ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli
errori ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto
all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale;
eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro
il capitalismo e per l'abolizione del salariato. A questa visione è
contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di
proprietà e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo Stato
non è più necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di
ciò che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come
una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di
scelta. Da questo punto di vista è considerato scorretto pensare di poter
formare l'anarchia in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire
una cornice dentro la quale ogni individuo può cercare liberamente di
realizzare la propria volontà ma senza mai cercare di imporla agli altri
(principio di non aggressione). Il comunismo, allora, può diventare una delle
opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire
in una cooperativa), ma mai un'imposizione su altri individui, in quanto con
un'imposizione non si avrebbe più un'anarchia. Etimologia Modifica I
termini anarchia e anarchismo derivano dal greco αναρχία, ovvero senza archè
(principio regolatore). La parola anarchia per come è utilizzata dalla maggior
parte degli anarchici non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia e
rappresenta piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed
effettuate intenzionalmente. Origini dell'anarchismo Modifica
Storicamente, il movimento anarchico si è sviluppato in seno al movimento
operaio in quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della
protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso
può essere considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del
XIX secolo, caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla
netta divisione in classi della società. Dalla loro nascita, tuttavia le idee
anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo
(che sostenevano la possibilità di cambiare "progressivamente" le
basi inegualitarie della società capitalista) che con le concezioni marxiste,
in particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo
rivoluzionario. Specificità della dottrina anarchica Modifica L'obiettivo
della teoria anarchica è la nascita di una società di uomini e donne liberi e
uguali dal punto di vista dei diritti. Libertà ed eguaglianza dei diritti sono
i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti
libertari. Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza:
mentre infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile
e perseguono l'eguaglianza considerata come uniformità dal punto di vista dei
mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le
correnti che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto
"socialismo di mercato") considerano l'uniformità come un'utopia che
oltre ad essere indesiderabile è, a causa della naturale diversità degli
individui, irraggiungibile. In quanto socialisti, tutti gli anarchici
sostengono il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione.
In quanto libertari, essi pensano che la libertà dispieghi il suo reale
significato in quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza
devono essere "concrete", cioè sociali e fondate sul riconoscimento
uguale e reciproco della libertà di tutti. Mentre il pensiero borghese
liberale aveva come motto "la mia libertà finisce dove inizia la
tua", per gli anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la
libertà dell'individuo non è limitata ma confermata dalla libertà altrui.
"Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica e sociale – scrive
Bakunin – perché so che al di fuori di questa eguaglianza, la libertà, la giustizia,
la dignità umana, la moralità e il benessere degli individui così come la
prosperità delle nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto
partigiano della libertà, questa condizione primaria dell'umanità, penso che
l'eguaglianza debba stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro
e della proprietà collettiva delle associazioni dei produttori liberamente
organizzate e federate nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare
dello Stato". Per realizzare una tale società, gli anarchici
ritengono indispensabile combattere non solo le forme di sfruttamento economico
ma anche quelle di dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli
anarchici, tutti i governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro
composizione, origine e legittimità, rendono materialmente possibile la
dominazione e lo sfruttamento di una parte della società sull'altra. Secondo
Proudhon, lo Stato non è che un parassita della società che la libera
organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e può rendere inutile. Su
questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente divergenti dalle
concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario ad assicurare la
pace civile. Per la critica anarchica, il ricorso ad una dittatura,
definita proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e alla sua
"estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una enorme
burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera iniziativa
individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale burocrazia
venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est dove pure
avevano abolito la proprietà capitalista. Come già aveva sottolineato Bakunin
nella sua polemica con Marx "La libertà senza eguaglianza è una malsana
finzione. L'eguaglianza, senza libertà, è il dispotismo dello Stato e lo Stato
dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere almeno una
classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia". Al modo di
organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i libertari
oppongono un modo di organizzazione federalista che permetta di sostituire lo
Stato, e tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso la presa
in carico collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le funzioni
inerenti alla vita sociale che si trovano precedentemente monopolizzate e
gestite da organismi statali, posti al di sopra della società. Il
federalismo, in quanto modo di organizzazione, costituisce il punto di
riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul quale si
costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così inteso ha ovviamente
ben poco a che vedere con le forme conosciute di federalismo politico praticato
da un buon numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una semplice
tecnica di governo ma di un principio di organizzazione sociale a sé stante,
capace cioè di inglobare tutti gli aspetti della vita di una collettività
umana. Organizzazione anarchicaModifica Il pensiero anarchico è dunque ben
lontano dal negare il problema dell'importanza dell'organizzazione, ma esso si
pone come obiettivo un'altra forma di organizzazione con la quale rispondere
agli imperativi collettivi. Gli uni e le altre si associano per garantirsi
vicendevolmente e per provvedere ai bisogni individuali e collettivi. Così, se
l'autogestione nelle imprese rende possibile la sostituzione del salariato con
la realizzazione del lavoro associato, l'organizzazione federativa dei
produttori, delle comuni, delle regioni permette la sostituzione dello
Stato. Essa intende presentarsi come il complemento indispensabile per la
realizzazione del socialismo e la migliore garanzia della libertà individuale.
Il fondamento di tale organizzazione è il contratto, uguale e reciproco,
volontario, non "teorico" ma effettivo, che si può modificare per
volontà dei contraenti (associazioni dei produttori e dei consumatori, ecc.) e
capace di riconoscere il diritto di iniziativa di tutti i componenti della
società. Così definito, il contratto federativo permette di precisare
anche i diritti e i doveri di ciascuno e di sviluppare i principi di un vero
diritto sociale in grado di regolamentare gli eventuali conflitti che possono
sorgere tra individui, gruppi o collettività, o anche fra regioni, senza per
altro rimettere in causa l'autonomia dei suoi componenti, il che permette
all'organizzazione federalista di opporsi tanto al centralismo che al
"lasciar fare" dell'individualismo liberale. Secondo gli anarchici
tuttavia una tale organizzazione non può pretendere di sopprimere tutti i
conflitti ed essi potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella
società federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per
risolvere le questioni sociali nel rispetto della massima libertà di ciascuno
senza dar ricorso ad arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi.
Inoltre gli anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione
socialista verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non
semplicemente repressi come è solito fare lo Stato (quando addirittura non li
favorisce per aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorità
regolatrice). Azione anarchica Modifica
Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i
metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non
giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del
possibile, essere in accordo con il fine perseguito. Lo scopo dell'azione
anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista" del potere o
la gestione dell'esistente. Il Congresso di Saint-Imier, in Svizzera, dette
ufficialmente vita alla branca antiautoritaria dell'Associazione internazionale
dei lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi marxiste. In quella sede si
affermò che il primo dovere del proletariato non è la conquista del potere
all'interno dello Stato ma la sua distruzione. L'approccio dei libertari
è quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni politiche dimostrandosi
con ciò non politici ma antipolitici. D'altra parte, storicamente, i libertari
hanno sempre considerato almeno con scetticismo l'idea di poter utilizzare
l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le condizioni di vita in seno
alle democrazie borghesi. All'azione politica e parlamentare, tesa alla
conquista del potere, essi preferiscono l'azione diretta di massa, vale a dire
l'autogestione generalizzata e senza deleghe di potere. I libertari
ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione diretta, e in particolare
dello sciopero, sia anche il migliore e più efficace mezzo di lotta. Essi
propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione collettiva e autonoma dei
lavoratori. Gli anarchici non sono e non aspirano a divenire
un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poiché ritengono che non esista
nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio dell'interessato stesso.
Ma perché ciò sia possibile occorre che i lavoratori prendano coscienza di ciò
che Proudhon ha definito la "loro capacità politica". I lavoratori
rappresentano la forza reale di una società e solo da essi può venire una sua
trasformazione profonda. L'azione anarchica ha sempre mirato, prima di ogni
altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia tutte le rivendicazioni che
vanno nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita e del progresso
sociale. Numerosi libertari hanno visto nelle organizzazioni sindacali
non soltanto degli organismi di difesa degli interessi dei salariati, ma anche
una potenziale forza di trasformazione sociale. Da questo punto di vista, il
federalismo libertario non può essere realizzato senza il concorso attivo dei
sindacati operai poiché, da una parte, questi ultimi sono qualificati ad
organizzare la produzione e, dall'altra, essi hanno il vantaggio di raggruppare
i lavoratori in quanto produttori. Da un punto di vista libertario,
un'organizzazione sindacale deve, nel suo funzionamento come nei suoi
principi: cercare di mantenere la sua autonomia nei riguardi di tutte le
organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla e nei riguardi dello
Stato; praticare il federalismo e una vera democrazia diretta dal basso, sole
garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione; darsi
contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle
rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare
la gestione della produzione nel futuro. Quest'ultimo punto è assai importante
poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non
possono essere considerati come una finalità in sé. La sua autonomia non deve
significare "neutralità" nei riguardi del potere o dei partiti perché
ciò significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialità di
cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol
cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e
di una pratica conseguente. L'azione sindacale non è tuttavia il solo
mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le
circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro
utili e opportune. Dottrine di carattere libero-mercatista. Le teorie
anarchiche di impronta individualistaamericane, come quelle di Benjamin Tucker,
che in un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si
definiva socialista[31], convergono sulla necessità di una prospettiva di
eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un
mercato libero[32] e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici[33],
convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si
distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a giustificare la
proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che
possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme
conseguenze, cioè alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di queste ultime
che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due
corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro. «Cos'è la
proprietà? La proprietà è un furto» (Pierre-Joseph Proudhon) Proudhon,
noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra
lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della
proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è libertà".
L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto
non la proprietà individuale, ma quella proprietà che seppur utilizzata da
altri individui è fonte di profitto o rendita per il proprietario mentre come
libertà quella proprietà, chiamata "proprietà-possesso", frutto del
proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza
determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel
mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come
scopo. Anarchismo di ieri e di oggi. Anche se oggi viene trascurata,
l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato
sul movimento operaio è stata notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a
sé stante del movimento sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza
si rintraccia in tutti i movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come
la Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile
spagnola del 1936. L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto
manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come
la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma
anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la
SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei
Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che
avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un
milione di aderenti. L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli
anni '20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e
nel mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche
in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo
fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un
doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi
staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento
operaio e sindacale anche negli altri Paesi. Il mito della rivoluzione
bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano
una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove
le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi
nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri
paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al
silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio.
In generale si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre
più isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco
solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti. La rivoluzione di
Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di
rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie
anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle
organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione
storica più importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni
del movimento anarchico nella Spagna di quel periodo. All'inizio della
guerra civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale
anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel
maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595
aderenti, la Federazione Anarchica Iberica e la Federazione Iberica delle
Gioventù Libertarie(FIJL). Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due
blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno
ridotto le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra
lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha
marginalizzato sempre più le correnti anarchiche. Dopo il Sessantotto,
tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le
idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del
movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come
"autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre
aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione contro
la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista" (in
realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia,
anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio
dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno
coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando
non addirittura al marxismo-leninismo. Oggi il movimento anarchico è
ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del
nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui
nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle
nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e
dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche,
nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche
il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto
protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in
seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel
maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca.
L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado
di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del
nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli
armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie,
inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza
istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del
lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali
ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e libertà. L'anarchia
è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, così come non si raggiunge
mai la linea dell'orizzonte, l'anarchismo è il metodo di vita e di lotta e deve
essere dagli anarchici praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilità,
variabili secondo i tempi e le circostanze. Errico Malatesta, Repubblicanesimo
sociale e anarchia, Umanità Nova, Roma, 1922. Siri Agrell, Working for The Man,
in The Globe and Mail, 2007. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall'
url originale il 16 maggio 2007). Anarchism, su Encyclopædia Britannica, 2006. URL
consultato il 14 aprile 2012. ^ ( EN ) Anarchism, in The Shorter Routledge
Encyclopedia of Philosophy, 2005, p. 14. «Anarchism is the view that a society
without the state, or government, is both possible and desirable.» ^ ( EN
) Paul Mclaughlin, Anarchism and Authority, Aldershot, Ashgate, 2007, p.
59, Johnston, The Dictionary of Human Geography, Cambridge, Blackwell
Publishers, Slevin, Carl. "Anarchism." The Concise Oxford Dictionary
of Politics. Ed. Iain McLean and Alistair McMillan. Oxford University Press, 2003 ^ a b «L'Internazionale
delle Federazioni Anarchiche lotta per: l'abolizione di ogni forma di autorità,
sia essa economica, politica, sociale, religiosa, culturale o sessuale». Vedi:
( EN ) I principi dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato il 14 aprile 2012
(archiviato dall' url originale il 3 aprile 2012). ^ «Anarchism, then, really
stands for the liberation of the human mind from the dominion of religion; the
liberation of the human body from the dominion of property; liberation from the
shackles and restraint of government. Anarchism stands for a social order based
on the free grouping of individuals for the purpose of producing real social
wealth; an order that will guarantee to every human being free access to the
earth and full enjoyment of the necessities of life, according to individual
desires, tastes, and inclinations.» Emma Goldman, "What it Really Stands
for Anarchy" in Anarchism and Other Essays ^ L'anarco-individualista
Benjamin Tucker ha definito l'anarchismo come opposizione all'autorità nel
seguente modo: «They found that they must turn either to the right or to the
left, — follow either the path of Authority or the path of Liberty. Marx went
one way; Warren and Proudhon the other. Thus were born State Socialism and
Anarchism...Authority, takes many shapes, but, broadly speaking, her enemies
divide themselves into three classes: first, those who abhor her both as a
means and as an end of progress, opposing her openly, avowedly, sincerely,
consistently, universally; second, those who profess to believe in her as a
means of progress, but who accept her only so far as they think she will
subserve their own selfish interests, denying her and her blessings to the rest
of the world; third, those who distrust her as a means of progress, believing
in her only as an end to be obtained by first trampling upon, violating, and
outraging her. These three phases of opposition to Liberty are met in almost
every sphere of thought and human activity. Good representatives of the first
are seen in the Catholic Church and the Russian autocracy; of the second, in
the Protestant Church and the Manchester school of politics and political
economy; of the third, in the atheism of Gambetta and the socialism of the
socialism off Karl Marg». Benjamin
Tucker, Individual Liberty, su theanarchistlibrary.org. URL consultato il 29
aprile 2019 (archiviato dall' url originale il 3 maggio 2012). ^ Colin Ward, Anarchism as a
Theory of Organization, su panarchy.org, 1966. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ Lo storico
anarchico George Woodcockriferisce dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine
mostra la sua opposizione alle forme di autorità statali e non statali nel
seguente modo: «All anarchists deny authority; many of them fight against it»
... «Bakunin did not
convert the League's central committee to his full program, but he did persuade
them to accept a remarkably radical recommendation to the Berne Congress of
September 1868, demanding economic equality and implicitly attacking authority
in both Church and State» ^ città Susan L. Brown, Anarchism as a Political
Philosophy of Existential Individualism: Implications for Feminism, in The
Politics of Individualism: Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black
Rose Books Ltd. Publishing, 2002, p. 106. ^ «ANARCHISM, a social philosophy
that rejects authoritarian government and maintains that voluntary institutions
are best suited to express man's natural social tendencies», George Woodcock,
"Anarchism" in The Encyclopedia of Philosophy ^ «In a society
developed on these lines, the voluntary associations which already now begin to
cover all the fields of human activity would take a still greater extension so
as to substitute themselves for the state in all its functions». Pëtr
Alekseevič Kropotkin, "Anarchism" in Encyclopædia Britannica ^ «That
is why Anarchy, when it works to destroy authority in all its aspects, when it
demands the abrogation of laws and the abolition of the mechanism that serves
to impose them, when it refuses all hierarchical organization and preaches free
agreement — at the same time strives to maintain and enlarge the precious
kernel of social customs without which no human or animal society can exist».
Pëtr Alekseevič Kropotkin, Anarchism: its philosophy and ideal, su
theanarchistlibrary.. ^ «anarchists are opposed to irrational (e.g.,
illegitimate) authority, in other words, hierarchy — hierarchy being the
institutionalisation of authority within a society». B.1 Why are anarchists against
authority and hierarchy?, in An Anarchist FAQ. Ostergaard, Anarchism, in The
Blackwell Dictionary of Modern Social Thought, Blackwell Publishing, p. 14. ^
Peter Kropotkin, Anarchism: A Collection of Revolutionary Writings, Courier
Dover Publications, Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in
Western Political Quarterly, Skirda, Facing the Enemy: A History of Anarchist
Organization from Proudhon to May 1968, AK Press, Lo storico catalano Xavier
Diez riporta che la stampa anarco-individualista spagnola fu ampiamente letta
da membri di gruppi anarco-comunisti e da appartenenti al sindacato anarchico
CNT. Ci furono anche casi di
anarco-individualisti di spicco come Federico Urales e Miguel Gimenez Igualada
che furono membri del CNT e come J. Elizalde che fu un membro fondatore e primo
segretario della Federazione Anarchica Iberica. Vedi Xavier Diez, El anarquismo individualista en
España: Resisting the Nation State, the pacifist and anarchist tradition"
by Geoffrey Ostergaard, su ppu. Woodcock, Anarchism: A History of Libertarian
Ideas and Movements, 1962. ^ R. B Fowler, The Anarchist Tradition of Political
Thought, in The Western Political Quarterly, Chomsky, On anarchism, Woodcock,
L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli Editore,
1966. Max Stirner, trad. Steven Tracy Byington, The Ego and Its Own, 1st engl
ed. New York, 1907 ^ Con l'esclusione della
prima edizione, incompleta, francese del 1899: Max Stirner, trad. R.L. Reclaire L'Unique et sa
propriété, P.V. Stock, Éditeur, 1899, ma riedito l'anno successivo, Max
Stirner, Trad. Henri Lasvignes, L'Unique et sa propriété, Éditions de La Revue
Blanche, 1900 ^ Prima edizione, incompleta italiana, 1902: Max Stirner, trad.
Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito completo per i tipi della
Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History
of Anarchism, PM Press, Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org.
^ Brown. Susan Love. 1997.
The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the Market: The
Free Market in Western Culture. p. 107. Berg
Publishers. Voci correlate: Anarchia Economia anarchica Anarcopunk
Anarco-capitalismo Anarco-comunismo Anarco-individualismo Anarco-femminismo
Anarco-pacifismo Anarco-sindacalismo Anarco-socialismo Bakunin Mutualismo
(economia) Pananarchismo Possibilismo libertario FaSinPat (Fabbrica senza
padroni) Christiania Stati per forma di governo Radio Libertaire Radio Blackout
Radio Canut Radio Zinzine Radio Klara Radio Primitive Radicali Anarchici
Umanità Nova A/Rivista Anarchica contiene il testo completo di alcuni canti
sull'anarchismo Wikizionario contiene il lemma di dizionario «anarchismo»
anarchismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
anarchismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Anarchismo,
su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Anarchismo, su
Enciclopedia Britannica. Opere riguardanti Anarchismo, su Open Library,
Internet Archive. Portale Anarchia Portale Filosofia Portale
Politica. Socialismo libertario Anarchismo sociale forma di socialismo
anti-statalista e libertaria, che vede la libertà individuale interconnessa
all'aiuto reciproco e la cooperazione Scuole di pensiero anarchico
correnti di pensiero riguardo l'anarchismo. BIBLIOTECA Luparini ANARCHICI
DI MUSSOLINI rali vere SETTIMANALE ANARCHICO INTERVENTISTA Ta”
Pisetemenzar via Garibaldi A | assonimion i Ami 13]
CRITNTEINTA] Ù o f= Niue] | Senesi Aia MILANO - Dc t9rs. |
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d'agnt fiomposità retorien, agli anici ed agli nv- vornarl not ci
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devanazione; len. 3 dite bed | ed incitare. all'azione: ta ‘entitoto le
oc DALLA SINISTRA AL FASCISMO TRA RIVOLUZIONE E
REVISIONISMO M.IL.R. EDIZIONI. Fenomeno spesso rimosso, quando non del
tutto ignorato, in sede d'indagine storiografica, l'interventismo
di matrice anarchica costituì un filone, minoritario ma non trascurabile,
del variegato movimento interventista rivoluzionario ed ha una
significativa appendice nel dopoguerra, allorché numerosi anarchici
interventisti confluirono nei Fasci di combattimento fondati da MUSSOLINI.
Tra questi, Gioda, Malusardi e Rocca rivestirono un ruolo di primo piano
nel fascismo delle origini. Pur nella sostanziale diversità delle
esperienze e degli approdi politici (dal sindacalismo integrale e di
sinistra del repubblicano Malusardi al revisionismo conservatore e
filo-liberale di Rocca), la loro azione all'interno del fascismo è caratterizzata
da uno spirito affine, almeno in parte riconducibile alla comune
formazione anarcoindividualista: una residua eredità “libertaria”
inevitabilmente destinata ad esaurirsi con il consolidarsi al Pptes
della “rivoluzione” fascista. Questo libro ne
ripercorre la. "comlilisa Niiindi politica, dall'anarchismo al
fascismo, ‘attraverso i decisivi passaggi dell'interventismo e della
guerra, sullo sfondo di uno dei periodi più intensi‘ e più
drammatici della storia d'Italia. Mita. Luparini è nato a Firenze. Si è
laurea in Scienze Politiche presso la Facoltà “Cesare. Alfieri” dell'Università
di Firenze e consegue il dottorato di Ricerca presso il Dipartimento di
Scienze della Politica dell'Università di Pisa, ove svolge cone la su
tività O didattica e di ricerca. di Lineta. M.I.R. EDIZIONI. Via
Montelupo, Montespertoli (Fi) Italy Finito di stampare dalla
Litotipografia SAMBO s.n.c. e Luparini ANARCHICI DI
MUSSOLINI Dalla sinistra al fascismo, tra rivoluzione e
revisionismo M.I.R. EDIZIONI. Quanto a quello che succederà domani,
caro Berneri, non è a noi, ultimi venuti, senza responsabilità per
il passato e, se non erro, abbastanza coerenti e fermi sinora, che
si possono muovere rimproveri in anticipo o intentare processi alle
intenzioni. Plechanov, teorico bolscevico, Kropotkin, teorico anarchico,
si pronunciarono in Russia per la guerra; altrettanto fecero il
socialista MUSSOLINI e gli anarchici e sindacalisti Rocca e Corridoni in
Italia, E” consigliabile dunque che nelle discussioni relative al
domani ci mettiamo su piede di parità, con lo stesso coefficiente di male
e di bene, di deviazioni possibili e di fedeltà irriducibili. Gli uomini
passano, le idee e anche i movimenti restano (Rosselli, Discussione
sul federalismo e l’autonomia, «Giustizia e Libertà»). Così, in una
garbata polemica a distanza con l’anarchico Berneri (che aveva avanzato
dubbi sulla possibile tenuta antifascista di Giustizia e Libertà), Rosselli
poneva l’accento su un principio spesso ignorato: l’inopportunità in
politica (nonché - potremmo aggiungere - nelle vicende umane in
generale), specie in epoche di grande travaglio, di porre ipoteche sul
futuro, semplicemente sulla base di memorie e di tradizioni più o meno
consolidate, di preconcetti ideologici o di appartenenza. L’interventismo
di matrice anarchica, richiamato dallo stesso Rosselli quale esempio
di variabile imprevista, rappresentò senz'altro, considerato nel quadro
storico del movimento libertario italiano, una “deviazione”, ma fu, per
l’appunto, una deviazione “possibile”. Non già, dunque, un’astrusità
incomprensibile, prodotto di frange corrotte e malvissute, a stento
collocabili nella famiglia anarchica, ma un evento - sia pur
anomalo e, al cospetto dell’ortodossia libertaria, scabroso -
riconducibile all’anarchismo e, come tale, appartenente di diritto alla
sua storia. Allo stesso modo, per restare in ambito interventista, la
“conversione” di MUSSOLINI, tenuto conto dell’anima volontaristica e
sostanzialmente antidogmatica, non solo del socialismo mussoliniano, ma
anche di larga parte del socialismo italiano tout court, non costituì poi
una così grande eresia ed anzi ebbe, in questo senso, una certa sua
coerenza. Nondimeno, proprio a causa della sua “scabrosità”,
l’anarcointerventismo è stato a lungo trascurato, quando non del tutto
rimosso, in sede d’indagine storica, e solo in anni recenti un ottimo
studio di Antonioli ha restituito visibilità e, per così dire, dignità
storiografica, ad un fenomeno che, se non fu certo tale da smuovere
grandi masse (ma tutto l’interventismo rivoluzionario fu, a conti fatti,
espressione di una minoranza), ebbe tuttavia, oltre che una sua
specificità, una sua rilevanza, non soltanto in ordine alla vicenda
interna dell’anarchismo. Intento di questo libro vuol essere, perciò,
quello di ricostruire la genesi e gli sviluppi della corrente
anarcointerventista (sia come fatto in sé, sia in rapporto al più vasto
schieramento dell’interventismo rivoluzionario), per poi, in un secondo
momento, provare a rintracciarne l’eredità nell’Italia del dopoguerra, in
relazione all’avvento e all’ascesa del fascismo. Molti anarchici
interventisti, infatti, confluirono nei Fasci di combattimento fondati da
MUSSOLINI (altro motivo per cui l’anarcointerventismo è stato il più
delle volte espunto dai trattati di storia dell’anarchismo), e alcuni di
loro, come Rocca, Malusardi e Gioda, vi ebbero un ruolo tutt’altro che
marginale. Questi tre nomi, pur ricorrendo sovente (soprattutto il primo)
negli studi sul fascismo iniziale, restano tuttavia, a. nostro avviso,
ancora avvolti in una coltre d’indeterminatezza. In queste pagine si
cercherà pertanto di ripercorrere la complessa vicenda postbellica di
Rocca, Gioda e Malusardi — dall’immediato dopoguerra sino alla vigilia
del delitto Matteotti -, senza mai perdere di vista i loro trascorsi
anarchici; un’eredità forte, conseguenza di un altrettanto forte senso
d’identità, che - ci sembra di poter dire - sopravvisse almeno in parte
alle radicali trasformazioni indotte dalla guerra, finendo per
condizionare, ancorché in misura e su piani diversi, il grado di adesione
al fascismo di questi uomini. Per questa ragione, ad esempio, ci è parso
che il caso di un altro anarchico interventista passato al fascismo,
Arpinati, il cui nome è senza dubbio più noto dei tre sopra citati, non
potesse a pieno titolo rientrare nelle finalità e nella ratio di questo
volume. In altri termini, mentre Arpinati (anarchico sì, ma senza alcun
peso reale nel movimento) acquisì una compiuta coscienza politica — sia
pur in qualche maniera caratterizzata in senso
anarcoindividualista - con il fascismo e grazie al fascismo; Rocca, Gioda
e Malusardi approdarono al fascismo al culmine di un’effettiva e sentita
militanza libertaria (anche se, nel caso di Rocca, vissuta in modo
decisamente eterodosso), sì che nel fascismo essi portarono una precisa
connotazione ideologica, quantunque, e non avrebbe potuto essere
diversamente, filtrata e rivissuta alla luce delle cruciali esperienze
dell’interventismo e della trincea. . In definitiva, quindi,
un’opera su più livelli, che — così almeno speriamo - dovrebbe consentire
di far luce su una componente poco conosciuta dell’interventismo
rivoluzionario prima, del fascismo poi, sullo sfondo di uno dei periodi
più intensi e più drammatici della storia
d’Italia. INTERVENTISMO Eretici tra gli eretici: gli anarchici
interventisti fra apostasia e presa di coscienza Pe Lo scoppio
della guerra europea sorprese il movimento anarchico italiano in un
momento di grande sforzo organizzativo. Il tentativo, avviato già
all'indomani dell’impresa libica, di collegare i diversi gruppi anarchici
della penisola intorno ad un programma comune, allo scopo di frenare le
spinte centrifughe interne al movimento e di non perdere i contatti con
le masse (proprio mentre lo spostamento a sinistra del Partito Socialista
e la nascita dell’Unione Sindacale Italiana rischiavano di ridurre
ulteriormente lo spazio di manovra degli anarchici), fu vanificato dal
precipitare della situazione internazionale. Il progettato congresso
nazionale anarchico di Firenze, che doveva sancire questo nuovo
orientamento, non ebbe mai luogo, e il successivo convegno di Pisa,
riunitosi poco tempo dopo l’entrata in guerra dell’Italia, avrebbe
lasciato cadere ogni ipotesi costruttiva per far argine all’incalzare
degli eventi bellici". Sul piano esterno, sul piano, cioè, dei
rapporti con gli altri partiti dell’estrema sinistra, che dopo la settimana
rossa avevano lasciato intravedere la possibilità di un’intesa d’azione
con le forze più autenticamente rivoluzionarie (soprattutto repubblicani
e sindacalisti), la guerra rappresentò, anche per gli anarchici, la
caduta delle illusioni. Ancora il primo agosto, in un articolo
pubblicato da «L’Iniziativa», organo nazionale del PRI, il giovane
anarchico Mario Gioda aveva sostenuto la necessità del “blocco rosso”,
ovvero l’unione di tutti i partiti sovversivi”. Nato a Torino il 7 luglio
1883, operaio tipografo’, Gioda era un autodidatta Su questi punti v.
soprattutto ANTONIOLI, // movimento anarchico italiano, in «Storia e Politica»,
Sulle vicende dell’anarchismo italiano nei mesi precedenti alla settimana
rossa v. GINO CERRITO, Dall'insurrezionalismo alla settimana rossa. Per
una storia dell'anarchismo in Italia, Firenze, CP, GIODA, La necessità della
repubblica. Io difendo il blocco rosso, «L’Iniziativa», Cfr. ARCHIVIO
CENTRALE DELLO STATO, CASELLARIO POLITICO CENTRALE [d'ora innanzi ACS,
CPC], Busta [Gioda]. con la passione per le belle lettere e le scienze
filosofiche (un «pensatore... proletario», come sarebbe stato
efficacemente definito molti anni dopo) ‘, poco incline, in verità,
all’attività politica-di propaganda. Negli anni prima della guerra aveva
scritto per numerose riviste, non solo di orientamento libertario,
cimentandosi nei campi più disparati, dalla filosofia alla critica
letteraria e di costume, e guadagnandosi una discreta popolarità. Di
temperamento schivo e riflessivo‘, dotato malgrado ciò di una buona vena
polemica, Gioda era in buona sostanza un intellettuale, non riconducibile
ad alcuna specifica corrente del pensiero anarchico, sincreticamente
aperto anche ad altre suggestioni culturali, con in più, sotto il profilo
strettamente politico, una spiccata e mai celata propensione al
repubblicanesimo. In ogni caso, se è vero che Gioda era - per sua stessa
ammissione - un “quasi-repubblicano”‘, convinto quanto meno che la rivoluzione
dovesse prima di tutto avvenire sul «terreno istituzionale»”, è
altrettanto vero che, specie dopo 4 Così scriveva Ferrara, introducendo la
prefazione di Gioda — allora segretario del Fascio di combattimento
torinese - al volume di Enrico Portino Quattro anni di passione (Torino,
Valentino), un'antologia di scritti e di vignette dai giornali satirici
fascisti «Il Pettine» e «Il Sonaglio». * Poeta dilettante, il
giovane anarchico esprimeva nei suoi versi sentimentali una sensibilità
quasi crepuscolare. Ancora in età matura, ormai affermato dirigente fascista,
Gioda coltivava l’ambizione di veder pubblicate le sue poesie. Non visse
abbastanza a lungo, ma alcune sue rime giovanili apparvero postume in
Vita di Mario Gioda narrata da Croce, a cura del Gruppo rionale fascista
“Mario Gioda”, Torino, Stabilimento grafico Impronta. Gioda era in rapporti
d’amicizia con importanti esponenti del repubblicanesimo italiano, fra i
quali il vecchio garibaldino Ergisto Bezzi, che ne aveva grande stima. Alcune
lettere di Bezzi a Gioda si trovano in BEZZI, /rredentismo e interventismo
nelle lettere agli amici, Trento, Museo trentino del Risorgimento e della
lotta per la libertà, 1963. Per comprendere in cosa consistesse il
repubblicanesimo di Gioda se ne vedano gli articoli Del XXIX luglio e per
un cencio di repubblica, e Il mio repubblicanesimo, apparsi sulla rivista
repubblicana torinese «La Ragione della domenica». Nel primo di essi,
scritto subito dopo l’assassinio di Umberto I, Gioda aveva deplorato il
«conformismo monarchico» dei partiti estremi, che non avevano esitato a
commuoversi per la sorte del re, e aveva affermato l'imperativo morale, per
i «rivoluzionari d’ogni scuola o tendenza», di essere «settariamente
repubblicani». Nel secondo, Gioda aveva precisato i contenuti della
propria fede repubblicana, sostenendo di rimanere prima di tutto
anarchico, ma di ritenere la repubblica — la repubblica sociale — un
passaggio necessario sulla via della rivoluzione, il solo mezzo per
giungere a trasformazioni più radicali e definitive, «senza il pericolo di
sfasciare la rivoluzione in braccio alle evoluzioni riformistiche della
democrazia sociale». Le opinioni espresse dall’anarchico torinese su «La
Ragione della domenica» avevano incontrato la disapprovazione di molti
suoi compagni. Ancora a distanza di tempo, il ferrarese Poledrelli aveva
definito «tisico e spurio» l’anarchismo di Gioda, e bollato come una
«balordaggine politica» l’idea di un fronte unico anarchico/repubblicano
(POLEDRELLI, In ritardo? Anarchici e repubblicani, «L’Agitatore», 18
febbraio 1912). Qualche anno dopo Poledrelli avrebbe partecipato
alla campagna interventista a fianco proprio dei repubblicani e dello
“scomunicato” Mario Gioda. la settimana rossa, molti anarchici, non
escluso Errico Malatesta, LA con favore crescente all’elemento giovanile
e proletario del PRI, e i . apprezzavano e condividevano
l’intransigentismo Lila emi diffusione dell’appello della DE pel 3
repubblicana per la mobilitazione contro gli Imperi i ppi far quale
riaffiorava prepotentemente l’anima mazziniana de Lira sog riproponevano,
attualizzati, temi e suggestioni dell niet seg n fatto la fine delle
aspettative rivoluzionarie . Ad esso sarebi ero segu sa conferenza
milanese di Alceste De Ambris, punto d nuvia di sa + i decisiva che
avrebbe portato alla spaccatura dell’USI e all’adesione di larg;
_/parte del sindacalismo rivoluzionario italiano alla tesi dell’intervento
(tanto Te i ; ; li È che Felice faceva risalire proprio al
discorso di De Ambris la - d’inizio dell’interventismo rivoluzionario) ‘,
e una serie di altri i sà non meno traumatici, fino alla clamorosa
“conversione” di Benito Mussolini. isleri i
’Iniziativa» del 15 agosto e * Il manifesto, redatto da Arcangelo
Ghisleri, fu pubblicato da PL pa Hb ripreso nei giorni seguenti da tutta
la stampa repubblicana. irc: a on si a anarchici a questo riguardo si
veda l’articolo di ri vie [af Aaa % i Volontà», 29 agosto , nel q r
i repubblicano e la guerra (« 3 Z reti cc A icani di i lla causa
della rivoluzione, per egli repubblicani di aver abdicato al : izione
rp iti bbri replicò il repubblic: i sperava definitivamente
tramontate. A Fal i ibblicano © Me Larini del PRI anconetano, a sua volta
accusando gli anarchici di siente si Lac i politica (cfr. Anarchici e
socialisti, «Il tig 6 Sene ati ; sai pei pipi inelli i i più ivi trema
sinistr: , que @ due dei nomi più rappresentativi del es ù £ peri
ohba Halo ad Ancona, città simbolo della settimana LA san 5 ) .i giorni
gli ambienti sovversivi. a del clima di forte tensione agitante in quei
gi i : cine par iù n quanto inattesa, ripropi a ‘odotta dalla
guerra, tanto più dolorosa i I |‘ i divisioni del srt che la comune
battaglia sa coord pa via utili panta ui is, segretario della
Camera agosto Alceste De Ambris, segi della (T n an Sirigenti del
sindacalismo rivoluzionario italiano, intervenendo ad peri pe ema “I
sindacalisti e la guerra”, presso la sede milanese dell USI, sostenne coi
fn della erra rivoluzionaria. Fra il 13 e il 14 settembre si riunì il
consigl e sn AA dell'Unione La maggioranza votò un ordine del giorno di
AO ERA A i Cat io alla tesi interventista di De E : Carrara,
nettamente contrario al i A Di Borghi, principale esponente della
corrente ni A su merita re i o di i i Ambris e i suoi seguaci (il
fratello ; otti, ”USI, in luogo di Tullio Masotti. De b i a ne) Em
" Coni, Rossi, Bianchi, Rossoni) pe prio Di pia de
«L’Internazionale», organo dell’Unione. Dalla successiva LS cppora n
opera della frazione interventista, l'Unione Italiana del artt iaia eri sn
di i i ioni si li repubblicane. , rimas seguito anche le
organizzazioni sindacali ì : i ufficiale prese a pubblicare «La Guerra di
com a sta o se Di > rd ? i is è ri to in « i; k conferenza di De
Ambris è riprodoti vin internazio: ; sto | . n sn commento di parte
repubblicana, significativo in vista o ge So dell’interventismo
rivoluzionario, si veda l’articolo Una voce sindacalista, «L’Inizia ;
agosto 1914. Li H x) rs sian Belgio € n Francia ad opera dei
tedeschi determinò la 1 posizione a favore dell’Intes i i Sr a da
parte di alcuni degli ini più rappresentativi dell’anarchi “qualiv
iS chismo, non ‘solo fi i i Pi Db? 9 10, rancese, tra i quali
Piotr Fnac Jezn n James Guillaume e l’italiano Amilcare ppi il rio
“colonnello” della Com ichi o) e 1 une. Le loro dich ioni Poni a Cc
€ ichiarazioni, che a i la naturale e antica simpatia dei rivoluzionari
europei verso di E ella Grande Révolution e che, a distanza di un anno e
mezzo, ag ubi espressione definitiva nel cosiddetto “Manifesto dei
» suscitarono polemiche e divisioni i dici” ni anche tra gli anarchici
italiani primo intervento eterodosso di ico i dia i 1 segno
anarchico in materia di i neutralità fu opera proprio di io Gi Reit i
io di Mario Gioda. Ad ui i i ì fu o c i na settimana dal on \ suo
articolo BIO Gioda, scrivendo per «Volontà» (il principale
periodico go ita iano), rilevò il fallimento improvviso e
devastante He age D sostenne la necessità che, in caso d’invasione
austriaca , anche gli anarchici impu i i i } >, pugnassero le
armi per difendere il È ici i il suolo azionale ‘. «La Folla», la
rivista di Paolo Valera di cui Gioda era da tempo Sì »8
assiduo collaboratore li offrì, a breve distanza, I Opportunità di
precisare In i pieni torinese interpretando lo sbigottimento di
molti — è ello e troppo forse si è sognato. La guerra è il ri Wi
Intanto, il fallimento dell’o) izi e A en i ILL pposizione socialista e
democratica ne’paesi I social esi dell FEFUIONIA imperiale e delle
quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i prebiaia
S : Ag its do FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale Italiana.
HI, in® Rec ana ngi ni Vac i due volumi di FELICE Mussolini il
nario, , Einaudi, , p. 235 ss., e Sindacalismo riv N zii i rig nel heidi;
De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si , per il
valore della testimonianza, ARM o di (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp v
[BORGHI, Mezzo secolo di anarchia dat Psa reo) be fog la luce il 28
febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di sti (cfr. Gli anarchici
intelligenti son “dichiarazione” storica, «L’Internazion: linate j
ale», 25 marzo 1915), fu i da parte del movimento anarchico itali i i
GATE ROMEA taliano (si veda, in particol: ’arti i nba } _In
particolare, l’articolo di ERRICO ; governo, «Le Réveil communiste- i
i N g ‘ uniste-anarchiste», 1 maggio 1915 si n arts rie sea Li n.
ee della grande guerra, ai pagina a 14. 9 re di Valera, aveva contribuito
alla ri; ita di e 1912, e vi scriveva regolarmente, iù so imi ai
12, » per lo più sotto pseudonimi (l’ Amico di Vautrin, i I torinese).
Fondamentali, per capire il raj *anzi sat rese). mentali, per pporto tra
l’anziano scrittore e agitato! iali Porlinia gli articoli di quest’ultimo
Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai Fa = inni i ll o 1911. Su
questo punto v. altresì Miano i LI, rchici italiani e la prima guerra
mondial 1 ici interventisti (1914-1915), in «Rivista Storica dell’
Anarchismo», 1995, TCA ig 14 di difendere domani la
nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la integrità di essa,
nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla monarchia [...],
reclamiamo e vigiliamo per la assoluta neutralità" Gli
articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una netta presa di
posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a distanza
fra l’autore, il direttore dell’ «Avanti!» Benito Mussolini e Nella
Giacomelli, una delle voci più autorevoli di «Volontà»! In essa s’inserì
ben presto anche l’anarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e
amico di Gioda, recandovi nuove e più profonde inquietudini".
In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese
del compagno. GIODA, Mentre trionfa la guerra, «La Folla», 9
agosto 1914 U Sul numero di «Volontà» dell’8 agosto era apparso
anche un contributo di Petit Jardin (pseudonimo di Nella Giacomelli),
intitolato La più grande mistificazione: da Hervé a .. Mussolini. In
esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di Mussolini che
lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal neutralismo assoluto,
aveva paragonato il dubbioso direttore dell’«Avanti!» a Gustave Hervé,
l’araldo dell’antipatriottismo estremo, arruolatosi volontario
nell’esercito francese subito dopo la dichiarazione di guerra della
Germania alla Francia. Mussolini aveva replicato con una lettera nella
quale, rifacendosi a sua volta all’articolo di Mario Gioda, rimarcava
l’incoerenza di «Volontà», che, nel mentre accusava lui di aver tradito
le sue idee internazionaliste, non aveva esitato a pubblicare una pagina
di quel tenore. La replica di Mussolini trovò spazio in un secondo
articolo della Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Hervé a Mussolini:
da Mario Gioda a Oberdan Gigli, «Volontà»), molto critico nei riguardi
di Gioda e degli altri sovversivi “guerrafondai”. Infine, il 29 agosto,
il giornale ospitò una lettera dello stesso Gioda, che, respingendo
l’accusa di patriottismo, affermava però il dovere degli anarchici,
proprio in quanto tali, di difendere la causa della libertà - rappresentata
dalla Francia e dai popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In
merito a questi avvenimenti v.ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la
prima guerra mondiale. Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a
Giacomelli «Rivista Storica dell’ Anarchismo». Il ragioniere Oberdan (in
realtà Oberdank) Gigli era nato a Gallarate nel 1883, ma si era formato a
Genova, dove la famiglia Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il
carattere mite e la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano
più il tipo dell’intellettuale che dell’uomo d'azione, non gli avevano
impedito di farsi strada con sicurezza negli ambienti anarchici del
capoluogo ligure, con i quali era entrato in stretti rapporti ancora
giovanissimo. La prefettura genovese ne aveva tracciato questo breve
profilo: «Individualista, professa con ardore i principi extralegali,
riuscendo ad avere non poca influenza sui correligionari, non solo in
Genova e Sanpierdarena, ma anche in provincia [sell instancabile nella
propaganda delle teorie da lui con calore professate, esplicando tale
propaganda con buon profitto, specialmente fra la classe operaia». ACS, CPC,
Busta [Gigli]. 15 I problemi dello spirito — affermava — sono
tramontati per ora: forza e della razza e della nazionalità ritornano a
predominare coi ferocia. I valori sociali hanno subito un'inversione.
L’internazion spezzato [...]. Chi doveva non ha fatto il suo dovere; neppure
noi'° i problemi della n raccapricciante alismo
operaio è Agli anarchici - concludeva Gigli - restava da riscoprire la
loro «comune anima umana», non escludendo l’opportunità di combattere gli
invasori austriaci (quantunque, come suggeriva, «in libere schiere non
governative»), il giorno in cui questi avessero minacciato l’integrità
territoriale italiana!” i Ai primi di settembre «Volontà» pubblicò una
nuova lettera di Gi li Il concetto fondamentale espresso dal giovane
anarchico era che il crohn della rivoluzione sociale non potesse.essere
posto dove fossero ancora ai rt le questioni della libertà e
dell’indipendenza nazionali. son L’anarchismo — sosteneva l’autore
— non rinnega, ma supera il concetto di patria: rinnega però il
patriottismo, che è concezione perfettamente borghese e sibi la
rivoluzione liberatrice anche contro i connazionali. Ma l’anarchismo
curdo me, è una filiazione della filosofia e delle istituzioni borghesi:
perciò esso Fon presupporre una società borghese dove possa svilupparsi
fino alla vittoria. La storia ela tradizione sono quindi progenitrici non
ripudiate. Ritengo quindi che i roblemi essenziali della borghesia
debbano essere risolti per poter liberamente clara verso sistemi
libertari. E fra tali problemi v quello delle nazionali la risolvere
libert: fr: I bi è Ilo dell pi Il lità, da risol A Tar n
1 Un eventuale Vittoriosa invasione delle armi austro-tedesche non
solo cn lasciato drammaticamente irrisolta la questione nazionale,
ma, sotto . TEC . . Z il profilo delle conquiste politiche e
sociali, avrebbe altresì determinato un «Volontà», un Pot in riferimento all'articolo di Mario
Gioda dell’8 agosto, era inserita insieme que ‘a di Mussolini nel citato
articolo di Nella Giacomelli, /n pieno patriottismo!!! dr parole di Gigli
la redazione di «Volontà» (retta allora da Cesare Agostinelli, trovandosi
esu rilusi i fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi
Fabbri) fece seguire una de i aperto disappunto. «A noi pare — vi si
leggeva — che la situazione di quelli che, come io x e Gigli, si lasciano
trasportare dal sentimento patriottico sia la medesima di quegli E rici
che, tempo addietro, andarono volontari a combattere per le patrie dei greci,
dei cubani, dei boeri, degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche
riuscire simpatico; ma esso esula dal compito specifico degli
anarchici divi ‘on questo incoerente se si arriv: i anarchici, e può
‘entare c P qi Incoe; si ‘a regresso: l'avvento, anche in
Italia, di un sistema «feudale e militaristico» sul modello di quello
degli Imperi Centrali. Impedire che ciò avvenisse aveva di per sé un
valore rivoluzionario; significava combattere per la causa anarchica e,
allo stesso tempo, salvare l’anarchismo dall’isolamento, riportarlo a
contatto con le masse, ravvivato «alla fiamma dell’umanità
dolorante»!?. La condanna fatta seguire dalla redazione di «Volontà» alle
parole di Gigli hiuse definitivamente la polemica, almeno per quel che
riguardava il giornale di Ancona. Nondimeno, le “defezioni” di Gioda ed
Oberdan Gigli, considerati fra i migliori giovani ingegni dell’anarchismo
italiano”, segnarono un passaggio doloroso nella storia del movimento
libertario. Rygier, intanto, già paladina dell’antimilitarismo e, in
assoluto, una delle personalità più stimate del campo rivoluzionario”,
aveva firmato un sorprendente ‘articolo per «Il Libertario» di La
Spezia”, nel quale, richiamandosi alle «tradizioni garibaldine del
Risorgimento», aveva plaudito alla fine della Triplice Alleanza, il
«patto infame» già vincolante l’Italia agli Imperi Centrali, auspicando
la guerra liberatrice contro gli Asburgo, «i carnefici di Oberdan»?
Rygier era da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove era
stata sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i
suoi legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria
francese (con cui sembra fosse in rapporti già dall’anno precedente),
legami comunemente ritenuti la ragione principale della sua — invero
repentina — conversione |a stessa Giacomelli, nell’articolo del 22
agosto, li aveva definiti «i nostri migliori uomini»; mentre Errico
Malatesta, nella suà prima affermazione ufficiale contro la guerra
(l’articolo Anarchists have forgotten their principles, pubblicato sul numero
di novembre della rivista londinese «Freedom», poi ripreso dai principali
giornali libertari italiani), si rammaricava che tra gli anarchici
interventisti vi fossero dei «compagni che amiamo: € rispettiamo profondamente». Rygier,
nata a Firenze, aveva militato nelle fila del sindacalismo
rivoluzionario. Nel 1907, con Corridoni, aveva dato vita al giornale
antimilitarista «Rompete le file!». La sua fervida propaganda (culminata,
dopo la guerra di Libia, con la campagna in favore di Augusto Masetti, di
cui era stata la principale agitatrice) le era valsa il carcere e
numerosi processi, contribuendo ad accrescerne la fama negli ambienti
sovversivi. Nel 1909 era passata al movimento anarchico. Cfr. ANDREUCCI,
DETTI, // movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943),
Vol. IV, Roma, Editori Riuniti, ad nomen. Per una breve
storia de «Il Libertario» v. BIANCO, COSTANTINI, Per la storia
dell'anarchismo. «Il Libertario» dalla fondazione alla prima guerra mondiale,
in «Movimento Operaio e Socialista in Liguria», RYGIER, La bancarotta
della politica monarchica in Italia, «Il Libertario»,
all’interventismo. «Nei mesi che intercorrono tra la settimana rossa e il suo
ritorno in Italia nelle vesti di propagandista dell’intervento — ha scritto
a questo proposito uno storico dell’anarchismo — Maria Rygier trova la
sua strada proprio con l’aiuto dei circoli herveisti parigini e del
Grande Oriente di Francia, che l’accoglie nelle sue logge istruendola nel
compito che dovrà assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del
direttore dell’ Avanti!”»?, A sua volta un altro autore, in uno dei rari
studi dedicati al fenomeno dell’anarco-interventismo, riferendosi ai
motivi determinanti la svolta della Rygier e degli altri anarchici
favorevoli alla guerra, ha scritto né più né meno di «tradimento nero,
mercanteggiato, prezzolato»”?. In quest’ottica, anche in considerazione
del ruolo che molti anarchici interventisti ebbero nel fascismo, non è difficile
capire il perché, a posteriori, si sia finito semplicemente per negare
loro il diritto di cittadinanza nella storia dell’anarchismo italiano.
Senza dubbio, al di là delle durissime e CERRITO, L'antimilitarismo
anarchico nel primo ventennio del secolo, Pistoia, RL, 1968, p. 34.
È Quello dei finanziamenti, più o meno occulti, della massoneria al
movimento interventista, fu uno dei motivi dominanti della polemica che
precedette l’entrata in guerra dell’Italia (e basti pensare alla nota
questione dei fondi de «Il Popolo d’Italia»). Nel caso di Maria Rygier,
quel che è certo è che ella era da tempo in stretto contatto con gli
ambienti dell’emigrazione italiana in Francia, specialmente con i gruppi
socialisti e anarchici di Marsiglia, città dove la questione dei rapporti
tra le frange interventiste di estrema sinistra e le logge massoniche era
sentita in modo particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dell’anarchico
Raffaele Nerucci, si costituì un agguerrito Fascio rivoluzionario
interventista italiano, accusato dagli avversari, fin dal suo apparire,
di loschi connubi con la massoneria. Un anonimo articolista
dell’«Avarti!», commentando la pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia
di un numero unico a sostegno dell’intervento («La nostra guerra», 21
marzo 1915), rimproverò a Nerucci e agli altri interventisti
rivoluzionari marsigliesi d’essersi serviti del denaro dei massoni,
nonché del sostegno del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli
interventisti a Marsiglia, «Avanti!). Personaggio ambiguo e contraddittorio,
Nerucci era nato a Castelfranco di Sotto, in provincia di Firenze (oggi Pisa).
A Marsiglia, dov’era emigrato nell’aprile del 1901 e dove gestiva un
ristorante, Nerucci aveva a lungo esercitato una grande influenza,
conseguenza di un carattere che l’ambasciata italiana aveva definito
«audace e pronto», ma anche della sua spregiudicatezza (pare, del resto,
che egli fosse in qualche modo legato alla malavita locale). Nerucci era
stato corrispondente da Marsiglia de «La Protesta Umana», de «Il Libertario»
e de «L'Avvenire Anarchico». Nel dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio
di combattimento marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel 1927 «per
indegnità morale e politica». Condusse il resto della sua vita sotto
l’attenta sorveglianza delle autorità fasciste. ACS, CPC, Busta 3526
[Nerucci Raffaello]. MASINI, Gli anarchici italiani fra interventismo e
disfattismo rivoluzionario, in «Rivista Storica del Socialismo», comprensibili
polemiche del momento”, che hanno spesso sisi anche nel tono, i giudizi e
le interpretazioni successive, la scelta i campo c Maria Rygier, per
quello che il suo nome evocava nell immaginario simbolico dell’estrema
sinistra italiana, rappresentò un trauma n pe riassorbito, cui può essere
paragonato (ma solo in minima parte) quello a fece seguito alla
professione di fede interventista di un altro protagonis delle battaglie
antimilitariste d’inizio secolo: Antonio Moroni ; Lbatnn Circa le ragioni
ideali, se non devono essere sottovalutati, ne i inire il mutato
atteggiamento della Rygier — che prima di aderire all anaro ismo e stata
sindacalista rivoluzionaria —, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga
46he ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti
rivoluzionari, non solo del campo interventista), ben più rilevanti, come
emerge dalla febbrile attività propagandistica della stessa Nico vr
precedenti e immediatamente successivi all entrata in guerra o alia,
appaiono i riferimenti al mazzinianesimo. Non è certo un eri pe Pan veste
della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n lei
medesima finisse vieppiù per accostarsi al dpi . ni repubblicano, fino
- 2a n la confluenza di tutte le [
*interventismo rivoluzionario ne È i manifestazione ufficiale
dell’interventismo della Rygier Li lettera di adesione alle tesi di
Ambris, che ella pn 20 agosto, all’indomani della discussa conferenza
milanese del dirige i i i i i in «Volontà» del
19 2° Basti, al riguardo, ciò che della Rygier preti slo sini
settembre 1914: «Io trovo in te solo un merito: que î i i al tuo
dnerottiio d’occasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli per
morbosità di i i; inti i spirito». NOILIA . sentimenti; per
intima debolezza di spiri G i RG 27 Il caso del giovane militare di leva
Antonio Moroni, nie su vela di pria i i impatie anarchiche,
eri San Leo di Romagna a motivo delle sue simp: T i Ma i imilitari
È inistra (battaglia che egli stesso avi battaglia antimilitarista
dell’estrema sinis ‘negre i ie di l carcere, regolarmente
pubblicat limentare con una lunga serie di lettere dal ere, )
d ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto Masetti, era sa
DRSAATE campagna da cui ebbe origine la settimana rossa. Congedato il no
A vs ci de i del sovversivismo; il che pu era stato accolto
come un vero e proprio eroe de ) E i i vecchi compagni allorchè egli, al
Ì » della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec T di A E i i ì
tari garibaldini (a ti dove finì per arruolarsi fra i voloni I
prese la via della Francia, i i $ I IN Arti i *arti i l'i L’Avvenire
Anarchico», 8 g 6 lempio v. l’articolo Moroni l'ingrato, « i
Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol.
III, ad Oltre i Iniziati i ì ropria penna a 28 Oltre che all’organo
nazionale del PRI, «L Iniziativa», la Rygier 9 la pi sa pci molti altri
giornali repubblicani, tra cui principalmente «La Libertà» (Ravenna),
Repubblicano» (Roma) e «Il Lucifero» (Ancona). sindacalista
Ma la Rygier fu anche i ratrice del Manifesto yg spirat le ‘anife
degli anarchici Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di
lei 3 gli di ‘anifesto ne quale egli VI ‘orma di programma,
le manif riprende a, ordinandole in fi d prog! 8 Si 5) = 1
gia espresse nelle su ue lettere a «Vo lontà» ppello, steso 1 tesi già
espresse nell ed Vol ); L’a Il t 120 sette re e diffuso alla fine de
(ese, critto da alcuni noti e meno ne del mese, era sottosi
ettembre e diff Ila f I tt tto d. 1 noti esponenti dell anarchismo
italiano Insieme a sindac. I 1 ns d t tal ; sinda alisti,
socialisti dissidenti e repubblicani , e non fu un caso ch Ve pressi
In e vedesse la luce essoché contemporanea a un manifesto
Intransigentemente neutralista diramato dalla e: s Quasi ad anticipare la
nascita (; C lavi Direzione del PSI d I anche in chiave anti nu
ista) del primo Fascio rivoluzionario d azione internazionalista’’. el
testo di Gigli, accanto a Immagini e richiami della simbologia
libertaria, SI trovavano, confusi in un unico disegno, concetti
apertamente democratici e mazziniani («noi riteniamo che |
Internazionalismo sarà possibile solo q o nazioni saranno libere, P' iché
là dove odio divide l’Irredento uando le na: i, po là di l’odio divid I
‘eden dall’o, ressore, ogni altro problema economico e politico no! può
trovare ppi p! P' liti n ti SO uzione»), romantiche visioni camicie
rosse («la ri Li I, è per mi isioni di camici («l I neutralità. 088
P' utti solamente un a ‘0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni lett
‘gO. ional p legazione tutti solamente ui bbie iazionale; essa è la
recisa neg dello inter nazionalismo mater iato di solidarietà e
sacrificio, che ci ha spinto sui campi della Francia, della Grecia, del
Messico, della Serbia») e roboanti ! p proclam di stampo roto-mussoliniano
(«I Inerzia è vigliaccheria e la neutralità, che ancora disconosce
la volontà po olare, è trad mento. E? l’ora ) pop: , ti 1 I 29 ì n
E, n kia pon fn «L’Internazionale», Edizione Nazionale [d’ora innanzi
Ed.Naz.], 12 4. La lettera si trova riprodotta anche in MARIA R
soglia t i i YG ia di Lana nostra patria, Roma, Libreria Politica,
1915. pp. 19-24 drain questo scopo ella si era segretamente in ’ n Gigli
più di cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli più di una volta. Cfr.
ACS, pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.25 e firme
apposte al manifesto erano i: e igli i 1 ap al m quelle di: Oberdan
Gigli, Maria Rygi i pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi, Gino Tenerani,
ta elit Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo Piermattei,
Len } I ‘asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini
eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle
63 ai DIE i ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici
caiser, Inizi », 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i sui
intervenzionisti a suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA appello della
Direzione socialista, opera prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato
dall’«Avanti!» del 22 settembre 1914 i rivolazionario, ite pp,
250251, colato FELICE, Miasolini:1 L'invito finale, rivolto a tutti
i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la “loro” Francia, la Francia
«della libertà e della rivoluzione»**. Gigli, in verità, avrebbe voluto
inserire nel testo almeno un accenno alle terre italiane Irredente, ma ne
fu dissuaso dalla Rygier, convinta che non fosse ancora il momento per
un’esplicita dichiarazione in senso nazionale”. In calce al
manifesto degli anarchici interventisti figurava anche la firma di
Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca. Se i casi di Gioda, di Gigli, di
Rygier — e di altri che ne sarebbero seguiti — destarono lo stupore e il
rammarico di molti, il fatto che Rocca si schierasse per l'intervento non
sorprese quasi nessuno: fu visto, anzi, come una logica cofiseguenza
degli atteggiamenti da lui presi in passato, specie in relazione alla
guerra di Libia. Un giudizio di Berneri del 1924 (mentre volgeva al
termine la parabola di Rocca come dirigente fascista) racchiude in poche
parole il comune sentire degli anarchici italiani e si può dire riassuma
buona parte della successiva riflessione storiografica sul personaggio.
«Massimo Rocca — scriveva Berneri — non è mai stato anarchico. Fu
individualista; il che non è la stessa cosa». Comunque si voglia vedere,
è però indiscutibile che fu nel clima culturale e politico
dell’anarchismo V Per il testo completo del manifesto del 20 settembre v.
RYGIER, Sulle soglie di un'epoca, cit., pp. 27-29. Il
manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”, fu pubblicato a
stralci su «Il Resto del Carlino» del 21 settembre 1914 (Un manifesto di
anarchici e di rivoluzionari a favore della guerra), su «Il Corriere
della Sera» del 23 e su «L’Iniziativa» del 26. Eloquente il commento del
quotidiano liberale bolognese: «Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani
si levano in piedi a respingere la neutralità e a richiamare il soccorso
di tutti gli uomini di libertà, per dar mano alla Francia, per
schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio
della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella
dell’individuo e della nazione: la nostra!» Per le
ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli / sovversivi
guerrafondai, «Avanti!», 23 settembre 1914 (cui fece seguito una risposta di
Gigli a Mussolini, pubblicata dall’organo nazionale socialista quattro
giorni dopo), e // manifesto dei falliti, «Volontà», 3 ottobre 1914.
Sull’intera vicenda v. altresì FEDELI. Note su! 1914- 1915. Gli anarchici
e la guerra, in «Volontà», 1950, n. 10, pp. 622-628. 35 Cfr.
RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26 36 CAMILLO BERNERI,
Uomini e idee. Libero Tancredi, «La Rivoluzione Liberale», 18 marzo
1924. Il profilo tracciato da Berneri non nasceva unicamente da una
valutazione di carattere personale, ma sinseriva in una lunga
consuetudine di pensiero. A proposito della campagna interventista
intrapresa da Rocca, «Volontà» del 5 settembre 1914 lo definiva «un
anarchico che... non è mai stato dei nostri»; e Luigi Molinari, uno dei
padri dell’anarchismo italiano, in suo intervento su «L’ Avvenire
Anarchico» del 15 ottobre, gli contestava fermamente il diritto a dirsi
anarchico, almeno «nel senso scientifico della parola». Su Massimo Rocca si
veda anche la voce corrispondente in ANDREUCCI, DETTI, gra n. che si
formarono uomini come Massimo Rocca e che questi Icolare si pone come una
delle fi iù i x i igure più controverse e a tutt’oggi cin definite
della storia politica italiana del Novecento. seal so n° ‘è fon il 26 ni
1884 da una famiglia di modeste condizioni , operaio tipografo come il
compagno Mario Gi i i ; io Gioda, Rocca accostato all’anarchismo
agli inizi del ‘ ù ole ‘ lel ‘900, nel momento in cui, insi prime
suggestioni nietzschiane e all’inqui IRR € Inquieta poesia di Henrik
Ibsen, si TARA ni nel nostro paese le idee di Johan C Schmidt
mosciuto con lo pseudonimo di M i il fil ueglicicoa i ‘ax Stirner), il
filosofo de n x Attratto dalle teorie degli individualisti, che a quelle
idee e a iaia i 5 apici Rocca si era contraddistinto per un’intensa
nferenziere, collaborando nel frattem i gi i ttività d ere, collal po a
numerosi giornali o anarcoindividualista, fra i quali «Il Grido della
Folla» di ip ; Pi 1906 al 1911, con l’amico Alfredo Consalvi”, aveva dato
vita PR lata rino del «Novatore», rivista improntata a un marcato
alismo intellettualistico; esperienza che gli d | istici e gli era valsa
lunghe ed acri polemiche con gli ambienti dell’anarchismo ufficiale’,
Agli eccessi 37 è Pics E ; a Gipi ear opera di
Max Stimer, L'Unico e le sue proprietà, apparve nel P i Torino, a cura
del tipografo modenese Ettore Z. i, già i gruppi anarchici degli Stati
Uniti e l°o, i i ua FR pera di Max Stirner, una i i i del Geni met
1a d ner, prima introduzione al pensiero Ì $ ; pali divulgatori delle
teorie individualiste i i libertario italiano furono - con i i an
eri Nella Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e Leda Sulle
fortune ‘e le diverse correnti dell’indivi i ell’individualismo anarchico
nel nostri DA A ’ pu Pena piace alla settimana rossa. Per una
storia dell Di. Italia (1881- , Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M.
i i ici vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf
perg « rido della Folla» fu il primo giornale ‘a hico italia i «Il
( fuvil narchico italiano di schietta int i HR ino acri ni sia del 1902
da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad i ovanni Gavilli, cessò le
pubblicazioni cinque anni più tardi i i 7 Vai toi PIER. . ardi. T
CAS ira din videro la luce in quegli anni, i più Sposi frico » (Firenze,
5), «La Protesta Umana» (Mil: 3 1 i ire 1907-1908), «Sciarpa Nera»
(Milano, 1910 veli Gil INIT A | , -) e «La Rivolta» (Milano, 1910
ueste pubblicazioni ebbero fra i | iù assidui i si i 9 i loro più assidui
collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi i loda. V a ale a i. nel ve
Anarchico individualista, stretto collaboratore oca, 1 protagonisti
dell’anarcointerventismo. Nel do) ì convinzione al fascismo e nel 1929,
anche in virtù ' fottla chi paria ; i ; rtù della stretta amici
Rossoni, fu radiato dall’elen i ivi Mir gira gs co dei sovversivi. Cfr.
ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi 40 : . 13 Ra SS anni (poi
semplicemente «Novatore») uscì in tre serie successive: la Lr n Pose A
psi ottobre 1906; la seconda — dopo che Rocca e Consalvi ‘alia per gli
Stati Uniti — a New York, dal 15 ottobri i i a i 7 i } e 1910 al 4
de Wperzia di nuovo in Italia (prima a Milano, poi ancora a Roma), dal 29
luglio al « Nel 1907 il giornale anarchico romano «La Gioventù
Libertaria» accusò MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR polemici,
che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano d’altra parte il
carattere irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della
sua formazione di autodidatta. Lo scoppio della guerra libica lo
aveva visto a fianco di Arturo Labriola e degli altri sindacalisti
rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali si sentiva affine per
vocazione ideale), su posizioni decisamente “tripoline”’'. Con la sua
propaganda a favore dell’avventura coloniale, il solco che già lo
Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile. Nell’estate
del 1914, tuttavia, grazie anche all’interessamento di Mario Gioda, aveva
tentato di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche
speranza, di poter prender parte al progettato - e presto abortito -
congresso di Firenze®. Con ostinazione, cui non era stata estranea una
buona dose di autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari,
Rocca aveva continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a
considerarsi anarchico. Rocca e Consalvi d’essersi
appropriati dei fondi raccolti in Italia e all’estero per finanziare la
rivista. BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, ad indicem.
dl Sul “Tibicismo” di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una conquista
rivoluzionaria. In pro e in contro la guerra di Libia, Napoli, Editrice
Partenopea. Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del sindacalismo
rivoluzionario. Tra il 1909 e il 1911 suoi scritti erano comparsi su
«Pagine Libere» di Paolo Orano e Angelo Oliviero Olivetti e su «La Lupa»,
la rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena d’incontro fra
sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra l’altro, scrisse la prefazione al
volume di Rocca La tragedia di Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto
al nazionalismo, bisogna dire che Rocca ne aveva seguito con grande
interesse l’avventura politica, come anche testimoniato dall’articolo. //
neo nazionalismo, scritto per il «Novatore» di New York nel dicembre del
1910, all’apertura del congresso nazionalista di Firenze che decretò la
trasformazione del movimento in Associazione. «E’ notevole — aveva
scritto Rocca in quell’occasione — che nell'Italia democratica del
presente, tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini
abbastanza coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il
nazionalismo in Italia è un fenomeno nuovo, che sconvolge molte
teorie, ma che comincia ad imporsi e col quale bisognerà
confrontarsi. Bisognerà, se non altro, considerarlo come un’onda di
sincerità lia, e che non manca d’un lato che avvolge gli
ultimi residui virili deila borghesia d’Ital onorevole e
grandioso». #? Gioda (un intervento del quale — figurava nel
programma congressuale) av “Gli anarchici di fronte agli altri
partiti sovversivi” — eva accompagnato una nota di raccomandazione
alla lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso
fiorentino. In quella lettera - che «Volontà» rifiutò di pubblicare —
Rocca aveva auspicato che il congresso potesse servire «di spiegazione
fra compagni e di mezzo di pacificazione» e aveva chiesto d’esservi
ammesso come relatore sul tema “Guerra e militarismo”, al riguardo assicurando
che la sua tesi era «meno eterodossa» di quanto potesse sembrare € di
essere in grado di spiegarsi «fraternamente su Tripoli». Cfr. ANTONIOLI,
Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici
interventisti Nelli 7 f 4 7 ell’introduzione a un suo libro di quel
periodo, che possiamo leggere come La programmatico del suo modo di
interpretare l’anarchismo, aveva ritto: i Dal momento ch’io
persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico senza curarmi dell’altrui
divieto o permesso [...], credo e persisto a credere che l’anarchismo
quale energia. critica di pensiero e di temperamento individuale, e le
affermazione ribelle di valori etici nuovi, possa avere una vasta ed îm
Bi funzione da compiere, a lato dei movimenti pratici: credo anzi che
dell'anfchismo ve ne sia molto oggidì — fuori degli anarchici ufficiali —
nelle minoranze ch formano la parte più viva e suscitatrice della vita
pubblica odierna i A ; questa visione concettuale, estetizzante e
fortemente elitaria dell anarchismo, inteso più come uno stato
d’animo che come un corpo certo di dottrine e di programmi, Rocca restò
in definitiva sempre fedele, pur nel mutare delle esperienze politiche e
personali, e ad essa si sarebbe fiheli richiamato, negli anni
della sua adesione al fascismo, a motivare le posizioni assunte all’inti
del ito! interno del partito". E È n 5 È RSA ott ;
“regni; contro l'anarchia. Studio critico-documentario, Pistoia, Il Punto
focale della riflessione di Rocca era la contrapposizione fra la rigidità
formale dell anarchia, intesa come dottrina politico-filosofica, e
l’energia liberatoria dell’anarchism Se l’anarchia rappresentava il mito
elevato a dogma, «una concezione trascendente [ n superiore e padrona
anche di chi vi crede»; l’anarchismo era invece più propriamente 104
disposizione dello spirito «l’eterna sete di progresso, di libertà, di novità»,
incarnantesi nell: rivolta, «nel senso più puro ed etico del termine», al
punto che «tutte le rivolte passate è future, tutti gl’ideali nel loro
senso dinamico» potevano considerarsi sue mai istazioni AI libro di Rocca
era premessa una breve lettera di Arturo Labriola (a riprova dei legami
esistenti ia individualista torinese e il mondo del sindacalismo
rivoluzionario), che Gol da È ci Sia ammirazione per l’autore,
definendolo «uno degli scrittori politici più Nel 1924, in una
lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi articoli
revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: «Tu, Gioda, sei tra i pochi che
mi furono compagni di spirito anche prima che il fascismo sorgesse: tra
quel gruppo di sovversivi che volevano esser tali per disprezzo delle
classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della nazione, ma che
affermavano ereticamente la realtà della patria fra le masse sovversive
di allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio libro
L'anarchismo contro l'anarchia [..] ein quelle cinquecento pagine, ho
ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ciò che è oggi il fascista
che ti scrive. Vi ho ritrovato cioè [...] il riconoscimento del
sentimento nazionale quale dato integratore dell’individuo e quale spinta
indispensabile al progres umano; l'immortalità dellò stato e del diritto,
pur attraverso le sue trasbordo fol organo necessario a consolidare e
conservare le conquiste operate dalla società su se ‘stess concretandone
la coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le
Pisi veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini
dissolventi; il diritto alla libertà Non mancherà di stupire chi conosce
qual sia la concezione politica per la quale io milito — scriveva Rocca
all’esordio della sua campagna interventista - sebbene sia coerentissimo
con ciò che penso da dieci anni e che da tre anni sostengo apertamente,
nella previsione dell’attuale catastrofe». Fulero della nuova impresa
polemica di Massimo Rocca era la rivendicazione, ribadita fra il
settembre e l’ottobre in numerosi altri interventi”, della natura
sostanzialmente anarchica della lotta contro il militarismo e
l’espansionismo desco in difesa dei popoli latini, dal momento che
«Ia latinità aveva sempre rappresentato la libertà, il progresso e la
rivoluzione»*”. Alla maggioranza degli anarchici rimproverava perciò di.
aver tradito l’eredità e il messaggio ideale del vero anarchismo, «quello
che combatteva Mazzini per completarlo, più che per negarlo»'*, e di
essersi messi al giogo dell’opportunismo ministerialista e del complice
“teutonismo” dei socialisti ufficiali”. interiore
per chi è capace di foggiarsi nel proprio spirito una legge, e la legittimità
della coazione su chi non si eleva a tanto» ROCCA, Idee sul fascismo,
Firenze, La Voce, TANCREDI, // dovere della guerra, «L’Iniziativa», 29
agosto 1914. Questo e altri scritti del periodo sono anche contenuti (ma
spesso in forma incompleta o rimaneggiata) nel volume di Rocca, Dieci
anni di nazionalismo fra i sovversivi d'Italia, Milano, Il Rinascimento, Oltre agli articoli direttamente citati v.
anche L'accordo che commuove, «L’Iniziativa», Gli eterni vinti, «Il Resto del Carlino», 3
ottobre 1914, e Gli anarchici, i sindacalisti e la situazione
internazionale, «Il Lavoro», TANCREDI, // dovere della guerra, cit.
4" Ip., Gli anarchici del kaiser, «L’Iniziativa», L'organo del PRI
pubblicò la seconda parte di quest'articolo il 26 settembre. La
controversia che ne seguì coinvolse soprattutto Ottorino Manni, indicato
da Rocca fra gli anarchici favorevoli alla guerra contro gli Imperi
Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni Canapa), per via
di due suoi interventi apparsi su «Il Libertario» del 27 agosto e del 10
settembre (Gli eroi della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva
effettivamente ammesso di trovare «realistiche e più positiviste»,
rispetto alle astratte prese di posizione dell'ortodossia anarchica, le
considerazioni di Mario Gioda e di Oberdan Gigli a proposito
dell’eventualità della difesa in armi del territorio nazionale, respinse però
ogni addebito Interventista, dapprima con un nuovo articolo su «Il
Libertario» del 24 settembre (La guerra no!), poi con una lettera di poco
successiva a «Volontà». A parte il caso di Manni, bisogna dire che gli
esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non erano granché probanti.
Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunetto
D’Ambra) era un nome noto dell’anarchismo italiano, altrettanto non si
poteva dire di Lato Latini. Il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della
provincia di Arezzo, esercita il mestiere di tipografo - aveva informato
la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di non averne fino ad allora
segnalato il caso, perché «modestissimo gregario della setta anarchica».
ACS, CPC, Busta 2729 [Latini Lato]. 4° Per un giudizio di Rocca sulla
politica del Partito Socialista si veda la sua prefazione al volume di
LASKINE, / socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno,L’ardente propaganda di
Rocca per la guerra, propaganda che egli (come del resto gli altri
anarchici interventisti) riteneva potesse indurre la base del movimento
ad abbandonare la ferma pregiudiziale neutralista, contribuì a esacerbare
gli animi, mentre si moltiplicavano le provocazioni e le intemperanze, da
una parte e dall’altra. La sera del 4 ottobre Rocca e Maria Rygier
s’incontrarono alla Società Operaia di Bologna per una conferenza sulla
“Morale della guerra”, ma la decisione non si rivelò molto felice, vuoi
per la sede prescelta — il pubblico essendo costituito per lo più da
operai anarchici e socialisti — vuoi per il momento poco propizio”, e
l’annunciata discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto
di lancio di sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate
guardie del corpo (fra cui il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero
inevitabilmente la peggio”. Si era tenuto a Bologna un comizio del
deputato belga Lorand — in Italia allo scopo di sensibilizzare l’opinione
pubblica alla causa del proprio paese — in occasione del quale gli
organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si affermava che
«i repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici più colti e intelligenti
erano per la guerra all'Austria». Il Fascio Libertario bolognese e il
gruppo del foglio antimilitarista «Rompete le file!» avevano reagito con
sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli anarchici
tra i fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata
pubblicata dall’«Avanti!» il 3 ottobre). ®! Cfr. La
conferenza di un anarchico sospesa con una sedia in testa, «Il Secolo», 5
ottobre 1914, e Violenze e tumulti di socialisti ad un comizio di
anarchici, «Il Corriere della Sera», 6 ottobre 1914. Sul
periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra l’azione
politica di Arpinati durante il fascismo e le sue radici
anarcoindividualiste, v. WHITAKER, Arpinati anarcoindividualista,
fascista, fascista pentito, in «Italia Contemporanea». Per il resto, le poche
notizie sulla formazione politica di Leandro Arpinati sono mediate dal
vecchio volume di NANNI, Leandro Arpinati e il fascismo bolognese
(Bologna, Edizioni Autarchia7), un’opera agiografica, scritta nel pieno
delle fortune politiche dell’Arpinati fascista, alla quale occorre guardare con
molta cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la
pubblicazione (sembra per volontà dello stesso Arpinati) e mai più
ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di Arpinati, da
SUSMEL (Arpinati, in «La Domenica del Corriere», 1967, n. 36 pp. 16-20) a
IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato a
Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, Arpinati si era trasferito a
Torino giovanissimo, lavorando prima come sguattero d’albergo, poi come operaio
alla fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre
Sante era stato uno dei maggiori esponenti della sezione socialista di
Civitella), il giovane Arpinati si era avvicinato all’anarchismo intorno
al 1910, restando affascinato dalle teorie degli individualisti e
divenendo, a quanto pare, grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a
questo periodo anche il primo contatto di Arpinati con Mussolini,
all’epoca direttore de «La Lotta di Classe», chiamato a inaugurare il
nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad Andrea Costa. Nell'occasione,
gli anarchici locali, con alla testa Arpinati, avrebbero inscenato una
dura contestazione, suscitando il risentimento di Mussolini (ma non v'è
traccia di quest’episodio nelle pagine dell’organo socialista forlivese).
Da quel momento - secondo gli autori sopra PPANTPP 777 VIP
PRRPPIA Le seggiolate rimediate alla Società Operaia bolognese non Fine
Rei effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar — -
campo, né gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n
proselitismo, pur in un clima di sempre maggior tensione”. % si g D i
dopo l’episodio di Bologna — e un momento prima di lasciare sn ia o ;
Francia alla volta delle truppe garibaldine - Rocca, che era da an >
rapporti con Mussolini e l’«Avanti!» , ottenne anzi il suo per più
yritido e importante, firmando i celebri e controversi articoli su « ua
Carlino» che forzarono il futuro “duce” del fascismo ad accelerare i
temp: del suo strappo interventista"‘. citati Arpinati e
Mussolini sarebbero comunque rimasti in seria Fata sunt î E) ri . .
A icizi è ipazione di Arpinati alla vita politica amicizia. Quel
che è certo è che la partecipazi T a Fi i ico itali i ionale
collaborazione con un giorn: ino, anarchico italiano, fatta eccezione per
un'occasi x DE dpr arti i i Socialismo e anarchismo («L’ Alleanz ;
che aveva fruttato l’articolo in due parti 4 % nt gent i he rilevante, e
che solo l’intervei), era stata tutt'altro cl ] ) i re ) A ità di i
notare. Secondo la figlia, autrice anc! futuro gerarca l’opportunità di
farsi noi rice | na iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i
iscutibile biografia, l’anarchico romagno i ima 4 a Fira dopo quello
famoso della Società Operaia, in papea RE incidenti, al punto da assumere
un nome falso - Vittorio Neri -, da saga panda all'oscuro la madre delle
sue disavventure» (Oo Cari erinen ‘eigen i r ittari ttera a firma È
io padre, Roma, Il Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O ( Civitella che
si proclama «al fianco» di Mussolini «per la A i verso sa rr, i i Italia»
del 25 novembre . Impiegato , comparve in effetti su «Il Popolo d Ita i È
| pi aopinti fu riformato dal servizio militare perché figlio maggiore di
madre vedova, rese parte alla guerra. i iris fi ida A I} GIà i 6
ottobre, la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i gii
artecipò ad una conferenza, indetta dall’ Unione Repubblicana bolognese Ure
SR ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice Alleanza. Cfr.
«L’Inizi: n ail il i izioni Librarie Italiane, 1954), Rocca S In
Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni Librarie » anni
cbr scrisse di aver conosciuto Mussolini nell’estate del 191 pra a pa dr
n del fi i À i lini direttore dell’«Avanti!», Rocc: i ì del futuro
“duce”. Divenuto Musso! ‘ V HAN gie zi ialista (firmandosi con gli pseudonimi
a collaborazione con l’organo social 1 i i juidi il l’articolo 4/
rimorchio dei ciechi. , «ve Guidi), conclusasi 1°8 agosto 1914 con colo i
c Sligo soin isagli i P in Dieci anni di nazionalismo — di ui 2g (
avvisaglia — ricordava l’autore in n eta A is la censura di Mussolini,
allora fe; t d'interventismo», non aveva passato la cei h IR M Si i
articoli // direttore dell’«Avanti!» smascherato. 9 i Si tratta degli
articoli / » ‘ato. U xa aperta a Benito Mussolini, e La polemica fra
Benito Mussolini e Libero patata ; ed del socialismo contro la guerra. Un
uomo di bronzo, «Il Resto del Carlino», 7 e sd Ai abissi è. nÎ, , o
9 ‘sì questa vicenda v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit, p. 255
ss., € Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, I casi fin qui
considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello del famoso
pubblicista Roberto D’Angiò) 5 sono sicuramente i più noti ed
emblematici, ma l’irrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare gli
anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto
guerresco, suscitò anche nel movimento libertario non pochi dubbi e
ripensamenti, che, se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di
sostegno all’intervento, fermandosi a volte al limite dell’ “eresia”, o
non andando oltre un generico - e del resto largamente condiviso -
sentimento di simpatia per la causa dell’Intesa, testimoniavano di
un’incertezza diffusa e sotto molti aspetti inevitabile, considerata
l’asprezza della prova, capace di segnare in modo indelebile la coscienza
di molti. Così, via via che gli eventi bellici maturavano e si modificava
la situazione politica interna, numerosi altri anarchici (alcuni dei
quali, allora semplici gregari - come Arpinati e un altro giovane romagnolo,
Edmondo Mazzucato?” -, si sarebbero fatti le ossa Angiò, nato a Foggia,
era stato redattore de «Il Libertario». La sua attività si era dispiegata
per la maggior parte all’estero: in Egitto, dove aveva soggiornato per
quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo, grazie soprattutto a due giornali
da lui fondati e diretti («L’Operaio» e «Lux»), a rinsaldare la già
fertile comunità anarchica italo-egiziana; e a Montevideo, in Uruguay,
dove era giunto nell’aprile del 1906 e dove aveva dato vita al foglio «La
Giustizia». A differenza di Rocca e degli altri esponenti di punta
dell’anarcointerventismo, D’Angiò non ebbe un ruolo determinante nella
propaganda per l’intervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a favore
della guerra contro gli Imperi Centrali destarono egualmente sconcerto.
Nel dopoguerra - come vedremo -Angiò avrebbe rivendicato con pervicacia
la scelta interventista, tentando anche, senza successo, di raccogliere i
superstiti dell’anarcointerventismo intorno ad un progetto politico autonomo.
Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D°Angiò Roberto]. Sulla figura e l’opera di Roberto
D’Angiò v. altresì BETTINI, op. cit., ad indicem. 5° Il
percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile a quello di
Leandro Arpinati. Nato a Forlì nel 1887, il repubblicano Edmondo
Mazzucato si era trasferito a Milano appena diciottenne, in cerca di
miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato dapprima lavoro
nell’ufficio pubblicitario del giornale socialista «Il Tempo», poi, come tipografo,
presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava l’anarchico «Il
Grido della Folla». Risalivano dunque a quel periodo i primi contatti di
Mazzucato con l’anarchismo, testimoniati dalla sua collaborazione ai
fogli libertari milanesi, «La Protesta Umana» e «L’Operaio». Nel gennaio
del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in arresto per aver preso
parte a una manifestazione commemorativa della “domenica di sangue” in
Russia. Tre anni più tardi, militare di leva, era stato condannato a un anno di
reclusione per aver percosso un superiore e internato nel carcere
napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del 1910 aveva assistito come
osservatore al congresso milanese del PSI, durante il quale - come sembra
- conobbe il conterraneo Mussolini. Nove anni dopo, scrivendo per
l’organo dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia, Mazzucato avrebbe
rievocato quell’episodio con queste parole: «Lo ricordiamo fin dalle
giornate del congresso socialista di Milano nel 1910, quando con la sua eloquenza
incisiva e tagliente sferzò tutto un sistema di obbrobrio, di
patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte cosiddetta intellettuale
del Partito Socialista. Fu una rivelazione» MAZZUCATO, Governo di pigmei,
«L’ Ardito», proprio nella lotta interventista) si lasciarono attrarre dal
fascino e dalle ragioni della guerra. Fra questi dovevano emergere due
uomini, diversi per indole e per esperienze di vita (e ai quali il
dopoguerra avrebbe riservato opposti destini), ma uniti allora nella comune
battaglia interventista, nella quale avrebbero riversato tutte le loro
energie. Erano Attilio Paolinelli, di Grottaferrata?”, e il lodigiano
Edoardo Malusardi, entrambi firmatari del manifesto del 20
settembre. Lo stuccatore Edoardo Malusardi, che all’epoca dei fatti
aveva appena venticinque anni (era nato il 30 agosto 1889), era poco
conosciuto negli ambienti anarchici nazionali. La sua esperienza di
maggior rilievo era stata la collaborazione con il foglio bolognese
«L’Agitatore», per il quale aveva curato una rubrica di corrispondenze da
Lodi, firmandosi con gli pseudonimi ‘Turbolente e Odroade, e rivelando,
già allora, una naturale propensione per la polemica giornalistica”.
Attivo nella propaganda spicciola, specie in ambito sindacale, e noto
alle autorità di Pubblica Sicurezza per l’irruenza dei comportamenti, il
contributo di Malusardi alla vita politica del movimento libertario era
stato comunque limitato (sembra anzi che molti compagni lo tenessero in
conto di buono a nulla) e la sua sola uscita pubblica di una certa
importanza risaliva ad un comizio “pro scioperanti di Piombino e Isola
D'Elba”, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il quale aveva
avuto il compito d’introdurre l’oratore principale, che nell’occasione
era stato Massimo Rocca”. ; i Benché influenzato dalle teorie dei
sindacalisti rivoluzionari, l’anarchismo di Malusardi appariva
intensamente venato d’individualismo. L’anarchia -). Allo scoppio della guerra
europea Mazzucato seguì dunque Mussolini nell'avventura interventista e
si arruolò volontario, combattendo negli arditi. Nel opoguerra wi rese
protagonista nelle file del fascismo. Cfr. ACS, CPC, Busta [Mazzucato], e MAZZUCATO, Da anarchico a
sansepolcrista, MRO EEgIeTE 1934 (per quanto edulcorata questa breve autobiografia
di Mazzucato A si n; “i rappresentazione significativa non solo ne av
politico dell’autore, ma anche del cl >) a il primo movimento
fascista). È È Matino iaia db nel 1882. Approdato all’anarchismo dopo
travagliate esperienze personali (nel 1898 era stato condannato a 11 anni
e otto mesi di carcere per aver a la matrigna), fu uno dei grandi
protagonisti dell’anarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi
Paolinelli Attilio]. 7 liaison che Ho vita, con qualche
interruzione, dal maggio 1910 al luglio E nta stato uno dei più
importanti periodici anarchici italiani, potendo contare sul contri uto
di alcuni tra i nomi più rappresentativi dell’anarchismo, da Luigi Fabbri
a Domenico Li da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre che al
settimanale bolognese, Malusari i aveva occasionalmente collaborato a «Il
Grido della Folla», a «L’Avvenire Anarchico» e alla sindacalista
«L'Internazionale», sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana. Cfr,
ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. aveva scritto in polemica con
un foglio cattolico di Lodi ai tempi della sua collaborazione a
«L’Agitatore» - «è un sublime Ideale di redenzione proletaria», avente
per seguaci «tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli nazioni» e per
compito quello «di combattere ogni tirannia”. Noi però — aveva
concluso Malusardi — non ci illudiamo, lo sappiamo che la realizzazione
di quest’Ideale è molto lontana, ed ecco perciò che, basandoci sulla
realtà, benché siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli atti di
violenza diretti contro l’autorità, le alte personalità e l’ordine
costituito, poiché fintantoché voi adoprerete la violenza per sopprimerci, e
fintantoché vi cardio diseguaglianze, esisteranno sempre individui
risoluti, i quali, facendo getto della propria vita, emergeranno dalle
moltitudini belanti per vendicare la propria classe”! La realtà
opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice e pedagogica,
la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle, l'individuo eroicamente
consapevole, erano motivi ricorrenti nella simbologia e nella fraseologia
dell’individualismo anarchico e già contenevano, in potenza, il germe
dell’anarcointerventismo. Nel caso specifico di Edoardo Malusardi, si può
affermare che ne avrebbero accompagnato, segnandolo profondamente.
l’intero percorso politico. i Nella propaganda per l’intervento Malusardi
manifestò un’ancor più spiccata vis polemica e una notevole
intraprendenza organizzativa rendendosi sin dall’inizio protagonista di
un vivace dibattito, nientemeno che con Luigi Molinari®?. La contesa
sollevata dal giovane anarchico lombardo. che investiva proprio la
consistenza e la misura dell’adesione anarchica alle tesi interventiste,
finì per coinvolgere il direttore de «Il Libertario», Pasquale Binazzi.
Malusardi, infatti, aveva citato alcuni articoli filo intesisti apparsi
sul giornale spezzino (uno dei più diffusi e autorevoli dell’anarchismo
italiano) come segno dell’orientamento tutt’altro che univoco degli
anarchici in merito alla guerra europea. Binazzi fu costretto a replicare
che «il condannare e disprezzare fatti odiosi compiuti dagli aggressori
austro- TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera aperta al direttore del
giornale «Il Cittadino» di sal «L’Agitatore», La prima sortita
interventista di Malusardi apparve su «L’Iniziativa» del 12 settembre
1914 (i articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre sulle
pagine dell’organo nazionale repubblicano, Malusardi si scagliò contro
Luigi Molinari, il quale, sull’ «Avanti!» del 25 settembre, aveva
definito «bugiarda ed interessata» l’opinione, diffusa soprattutto negli
ambienti borghesi e democratici, che gli anarchici italiani fossero per lo più
favorevoli all intervento. La polemica fra i due si trascinò per diversi
giomi. Molinari aveva conosciuto Malusardi tre anni prima, in occasione
di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta a Lodi il 26 ottobre
1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi]. tedeschi contro i serbi, i
belgi e i francesi»? era cosa assai diversa dal far attiva propaganda per
l’intervento, con ciò riaffermando l’indirizzo indiscutibilmente
anarchico del suo giornale. In verità, la condotta de «Il
Libertario», improntata, rispetto a quella di «Volontà» e de «L'Avvenire
Anarchico», a una maggiore elasticità, costituiva di per sé la spia di un
non trascurabile disagio. Non si può negare, infatti, che il foglio di
Binazzi — che, come si è visto, aveva pubblicato il primo articolo
“revisionista” di Maria Rygier — concedesse ampio spazio ad enunciati e
proposte che, agli occhi dell’ortodossia anarchica, dovevano apparire
quanto meno discutibili. Negli scritti di Tanini, di Baldassarre e del
socialista-anarchico Francia (collaboratori di lunga data del giornale e
figure non marginali dell’anarchismo italiano) ci, scritti ispirati ad un
radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto violento per
1’ Austria e la Germania, non si esitava a parlare di «nuove orde di
Attila» che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civiltà
occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal «pangermanesimo
delirante, negatore violento delle razze e del genio latini»; di
Francesco Giuseppe e Guglielmo II come di due «semi umani [...]
avvinazzati, due bruti appestati di grandezza imperialista e di delirio
militare»; e si evocava «il tragico lievito rosso» della guerra, da cui
sarebbe dovuta scaturire, sulle rovine delle antiche tirannie, la
palingenesi rivoluzionaria”. Il fatto che, col passare del tempo,
queste posizioni si andassero mitigando*° è che Binazzi (come anche ebbe
modo di chiarire nel dibattito a distanza con BINAZZI, Non equivochiamo,
«Il Libertario» Tanini, in particolare, in virtù della sua costante attività
politica e propagandistica € nonostante la giovane età (era del 1889),
godeva di molta considerazione. Costretto a riparare In Svizzera per
sottrarsi alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato
una rubrica per «Il Libertario»), era rientrato in Italia alla vigilia
della settimana rossa. Cfr. ACS, CPC, Busta 5023 [Tanini
Alighiero]. © le citazioni sono tratte, nell’ordine, da: TANINI, La
guerra dei titani, «Il Libertario», 20 agosto 1914, e La triplice
alleanza è morta per il bene del mondo,BALDASSARRE, /mperialismo barbaro,
Ivi; FRANCIA, l.'apocalisse
storica, Ivi. ® Forse per non dar adito ad altre divisioni,
Alighiero Tanini e Marino Baldassarre chiarirono che la loro manifesta
simpatia per la Francia e per il Belgio non celava assolutamente il
desiderio di vedere l’Italia in guerra a fianco delle Democrazie, e
riaffermarono in più di una eircostanza la loro fede internazionalista.
Tanini s’ingegnò anche a mostrare la via per una soluzione pacifica della
questione nazionale: fare di Trieste una città libera e del Trentino una
provincia indipendente (si vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli //
nostro pensiero pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale
pacifista, «Il Libertario; e, per quel che attiene a Baldassarre, l'articolo /
tocchi dell'agonia). Malusardi) fosse personalmente del tutto
contrario al coinvolgimento degli anarchici nel nascente movimento
interventista rivoluzionario, non toglie che il suo giornale, si
consideri o no un segno di «discutibile larghezza», rappresentò, almeno
sino alla fine del 1914, una tribuna affatto secondaria di confronto,
anche estremo, sui temi della guerra. Fondamenti ideologici e
riferimenti politici dell’interventismo anarchico Patrimonio di
tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era - come si è
già più volte accennato - l’eredità dell’individualismo. Poiché
l’individualismo fu fenomeno complesso e variegato, è indispensabile
cercare di definire i contorni di questa comune matrice
dell’interventismo anarchico e, più in generale, provare ad evidenziarne
i tratti caratterizzanti. A tale proposito, considerata la sua influenza,
è il caso di soffermarsi ancora una volta sul pensiero di Massimo Rocca,
per il quale, nonostante l’iniziale infatuazione per Stirner,
l’individualismo non s’identificava - e non si era mai del tutto
identificato - con lo stirnerismo, quanto meno nella sua accezione più
diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla volgarizzazione di Stirner e
alle sue conseguenti degenerazioni “metafisiche” (di cui egli imputava la
responsabilità a giornali come «Il Grido della Folla» e che non riteneva
meno dannose per l’anarchismo dell’utopia comunista kropotkiniana) Rocca
opponeva una valutazione storica e “sentimentale” dello stirnerismo, che
sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato e che costituirà il substrato
culturale dei suoi futuri approdi politici. AI contrario di Tanini e
Baldassarre, l'avvocato Francia (che era nato nel 1869 a Minervino Murge,
in provincia di Bari, e vantava una lunga militanza nelle file
dell’estrema sinistra pugliese) non tornò affatto sui propri passi.
Smessa la collaborazione con «Il Libertario», si schierò senza esitazioni
per l’intervento e si arruolò volontario nei reparti garibaldini impegnati
sulle Argonne. Nel dopoguerra aderì al movimento fascista e prese parte,
in rappresentanza dei Fasci di combattimento pugliesi, al primo congresso
nazionale fascista (cfr. «Il Popolo d’Italia», 11 ottobre 1919). Rimasto
fedele all’idea socialista- anarchica, si distaccò dal fascismo non
appena questo ebbe assunto una marcata coloritura di destra. Pur senza
mai assumere un atteggiamento di netta opposizione al regime (anche in
virtù di un carattere eccentrico e incline alla misantropia, che lo spingeva all’isolamento)
Francia visse il resto della sua vita sotto la stretta sorveglianza
dell’autorità di Pubblica Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta 2155 [Francia].
CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, cit.,
p.37. Sull’atteggiamento de «Il Libertario» riguardo alla guerra europea
v. anche COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima guerra mondiale,
in «Movimento operaio e socialista in Liguria», Egli — aveva scritto di Stirner ai tempi del
«NOVATORE» — non predica il delitto pel delitto, la forza bruta per la
forza bruta, ma le invoca perché nella Germania profondamente statica ne
rappresentavano lo sfasciamento. La sua “potenza”, il suo “sacrilegio”,
il suo egoismo hanno un’intenzione, un significato, una portata non
Individuale, ma sociale [...]. L’individuo di Stirner non è dunque lo
scialbo calcolatore egoistico del giorno per giorno o dei quattro soldi
per truffare. E’ l’uomo che si erge di fronte al sole e al mondo, pieno
di tutta l’umanità che il passato gli ha trasmesso, ma innalzato a questa
base di ereditarietà, comune a tutti i suoi simili, dalla gigantesca
statura della sua personalità individuale” Rocca sottolineava
pertanto la grandezza “passionale” della filosofia di Stirner, di cui
intravedeva la forza trainante e rivoluzionaria nell’esaltazione del
sentimento e dell’istinto. Ammettere questo significava riconoscere,
accanto all’individuo, «ogni entità collettiva, dalla famiglia, alla classe,
alla nazione, cementate e fondate da una comunanza sentimentale»;
significava, in una parola, «negare l’astratto a favore del reale».
Muovendo da queste premesse, Rocca era approdato a quello che definiva
“liberismo rivoluzionario” o “novatorismo”, che era poi «l’individualismo
anarchico ampliato e confrontato con la realtà». Noi — sono ancora
sue parole — affermiamo altamente l’importanza dell’individuo singolo,
quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma comprendiamo pure le folle
che rovesciano impetuose un ostacolo al progresso dietro la spinta di una
minoranza rivoluzionaria; comprendiamo la classe che si materia
soggettivamente dell’avversità sorda verso la classe opprimente;
comprendiamo la nazione che si forma per lunga eredità storica e si
afferma contro lo straniero o contro lo stato suo Interno che la sfrutta
e la trascina alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le rivolte [...];
comprendiamo tutte le volontà di affermazione e di dominio e le esaltiamo
quando sono sorrette da una fede sincera d’entusiasmo che le innalza al
di sopra del meschino determinismo quotidiano. Per noi gli statisti che
tiranneggiano in nome di un principio confessato e francamente servito
sono infinitamente più nobili e rivoluzionariamente più fecondi dei
Giolitti che inaugurano l’accordo delle classi corrompendole nella
generale mangiatoia” TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo
democratico, «Novatore», New York,
Ivi Ivi, "Ivi, A proposito
dell’individualismo di Rocca si veda anche il lungo articolo
auto-apologetico, Una difesa postuma (agli ex amici della «Vir»), in
«Quand-meme» (un numero unico pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su
interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel quale Rocca difendeva
la propria interpretazione dello stirnerismo dall’accusa di «morbosità»
Solo tenendo presente questo punto di vista è possibile comprendere
i presupposti teorici dell’interventismo di segno
anarchico-novatoriano (quanto meno nei suoi artefici più consapevoli,
come Gigli) e le ragioni profonde della successiva adesione al fascismo
di molti dei suoi protagonisti. Quantunque il “novatorismo”
fosse il tratto saliente dell’interventismo anarchico, pure quest’ultimo
non può non esser considerato nell’ambito di quella vera e propria
esperienza di sincretismo politico e ideologico che fu l’interventismo
rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle passioni risorgimentali e
dell’utopia garibaldina fece da ponte tra le forze dell’estrema sinistra
sindacalista e anarchica ed il Partito Repubblicano”, i miti dell’azione
e della violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo, rimandavano a
un linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti quanto ai
discepoli di Massimo Rocca”, Lo stesso individualismo, per la sua carica
eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici
propugnatori della guerra e le correnti più radicali della cultura italiana
del tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte
non trascurabile nella campagna interventista”.
mossagli dalla rivista fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli
(cfr. Per l individualismo, «Vir»). Fondamentali, per una
testimonianza diretta a questo riguardo (prescindendo dagli
inevitabili accenti propagandistici e agiografici), le pagine dell’allora
segretario del PRI Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito
Repubblicano e la guerra d'Italia, Roma, Edizioni de «L’Iniziativa»,
1916. ?° Circa i legami fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di
Georges Sorel — e, in senso più ampio, l’ideologia e la prassi politica
sindacalista — v. FURIOZZI, Socialismo, anarchismo e sindacalismo
rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981. Sul nesso tra anarchismo e
sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione alla nascita e all’attività
dell’USI, v. anche l’introduzione di Maurizio Antonioli a LEHNING,
L'anarcosindacalismo. Scritti scelti, Pisa, BFS, 1994, pp. 11-27, e
EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici italiani, Urbino,
QuattroVenti, 1992, p. ll ss. A partire dal numero del 15 agosto
1914, la rivista fiorentina «Lacerba», fondata l’anno precedente da
Giovanni Papini, assunse un contenuto esclusivamente politico, dando un
appoggio incondizionato alla propaganda per l’intervento. Nel quadro di un
indirizzo sostanzialmente nazionalista, le pagine di «Lacerba» non
disdegnarono di accogliere posizioni di segno rivoluzionario. Valga per
tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo settembre, Per la guerra,
nel quale l’artista sposava la tesi della guerra rivoluzionaria e tesseva
l’elogio di Hervé. Sui rapporti tra anarchici e futuristi v.
soprattutto CIAMPI, Futuristi e anarchici. Quali rapporti? Dal primo
manifesto alla prima guerra mondiale e dintorni, Pistoia, Archivio
famiglia Berneri, Le differenti impostazioni ideologiche, cui però sottostava
una molteplicità di riferimenti culturali comuni, s’intrecciavano dunque
nella complessa trama dell’interventismo rivoluzionario, del quale gli
anarchici novatoriani andarono a costituire uno degli elementi formanti.
“Guerra e Germinal” (ovvero guerra e rivoluzione sociale, guerra come
mezzo per l’abbattimento violento del militarismo e delle strutture
politiche ed economiche borghesi), la meta additata da Ottavio Dinale ai
sovversivi italiani in un’intervista a «Il Resto del Carlino», divenne il
tema dominante della campagna interventista dei partiti estremi”; e il
“mito” della guerra rivoluzionaria - come lo ha chiamato Renzo De Felice
- s'impadronì anche dell’interventismo anarchico. Massimo Rocca firmò il
famoso “appello ai lavoratori italiani”, lanciato a Milano, per la
costituzione di un Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista,
punto d’inizio di un movimento che, di lì a pochi mesi, avrebbe messo
radici in tutta l’Italia centro-settentrionale”?. Da quel L'intervista a
Dinale (Ottavio Dinale dice «guerra e germinal») si trova in «Il Resto
del Carlino. La biografia politica di Dinale offre un esempio
emblematico del clima culturale nel quale prese forma e maturò la
corrente interventista rivoluzionaria. Inizialmente ‘socialista,
organizzatore e agitatore sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era
stato tra i promotori del sindacalismo rivoluzionario in Italia e
fondatore del primo giornale ufficialmente sindacalista, il settimanale
«La Lotta proletaria». Quattro anni più tardi aveva Iniziato la
pubblicazione — prima a Nizza, poi a Milano — del periodico «La
Demolizione, caratterizzato da un’impostazione marcatamente
antilegalitaria e da frequenti richiami sia all'individualismo
stirneriano, sia al nascente movimento futurista. Interventista, attivo
collaboratore del mussoliniano «Il Popolo d’Italia», nel dopoguerra sostenitore
dell’impresa fiumana e candidato repubblicano alle elezioni del 1921,
Dinale si avvicinò infine al fascismo, diventando amico intimo (e poi
persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu nominato Prefetto del Regno.
Cfr. ANDREUCCI, DETTI, op. cit., Vol. II, ad nomen, € CIAMPI, op. cit.,
ad indicem. "3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario
(sottoscritto, oltre che da Massimo Rocca, da Decio Bacchi, Michele Bianchi,
Ugo Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris, Attilio Deffenu,
Aurelio Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi,
Silvio Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima battuta da «La Folla»
del 4 ottobre 1914, quindi, sei giorni dopo, dal primo numero della nuova
serie di «Pagine Libere» (la rivista quindicinale di Olivetti, che si
stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo articolo, Inchiesta
sulla guerra europea, contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo
Rocca e di Maria Rygier. Sulla nascita, la diffusione e il
significato politico dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il
classico VIGEZZI, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Vol. 1,
L'Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di quest’ultimo autore v.
altresì il breve saggio L 'interventismo rivoluzionario, in Il trauma
dell'intervento, Firenze Vallecchi, Infine, per una riflessione sui primi
giorni dell’interventismo rivoluzionario v. SERENI: alle origini
dell’interventismo rivoluzionario, in «Ricerche Storiche», 1981, nn.
2-3, pp. 525-574. momento gli anarchici interventisti furono parte
integrante dei Fasci, collaborando attivamente ad essi e intensificando i
rapporti con le testate dell’interventismo rivoluzionario. Nondimeno,
essi avrebbero sempre conservato una loro specificità. Alla fine di
ottobre Attilio Paolinelli, con Rocca, la Rygier, Antonio Agresti” e
Torquato Malagola””, pubblicò «La Sfida», “giornale di polemica
anarchica”, un numero unico che, se testimoniava dell’organicità del
manipolo anarcointerventista in grembo al neonato movimento dei Fasci,
voleva anche dar prova di una peculiarità ideologica rivendicata con
fierezza e destinata, più tardi, a trovare eco nelle pagine de «La Guerra
Sociale»”*. Poco dopo la nascita de «Il Popolo d’Italia», Paolinelli (che
peraltro auspicava per il nuovo giornale di Mussolini il ruolo di
portavoce ufficiale dell’interventismo rivoluzionario) scrisse al
direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un certo qual modo,
addirittura un precursore Il fiorentino Agresti (1864-1926), incisore,
anarchico vicino al sindacalismo rivoluzionario, collaboratore de «La
Lupa» di Paolo Orano, fu autore di uno dei pochissimi contributi di parte
anarcointerventista sul conflitto mondiale, il pamphlet Perché sono
interventista. Risposta all’opuscolo “La guerra europea e gli anarchici”, Roma,
L’Agave, 1917 (l’opuscolo citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri,
pubblicato a Torino per la Tipografica Editrice). Nel corso della
campagna interventista, come altri suoi compagni, a cominciare dalla
Rygier, Agresti finì per accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a
questo proposito, una sua lettera pubblicata da «La Libertà», organo del
PRI ravennate). Nel dopoguerra, pur mostrando simpatia per il fascismo, si
ritirò sostanzialmente dalla vita politica. «Da molti anni- annotava nel
marzo del 1925 la Prefettura di Roma, proponendone la radiazione dal
registro dei sovversivi — si è allontanato dai compagni di fede e non
professa più principi anarchici. E’ un valoroso pubblicista, redattore de “La
Tribuna”, uomo d'ordine». ACS, CPC, Busta 31 [Agresti Antonio].
7 Il sarto Torquato Malagola, di S.Alberto in provincia di Ravenna, era
nato nel 1876. Come Agresti, anch’egli nel dopoguerra si allontanò
dall’impegno politico, rompendo i ponti con l’anarchismo. /bidem, Busta
2946 [Malagola Torquato]. 7 «La Sfida» si apriva con una
dichiarazione programmatica — a .firma «gli anarchici indipendenti
d’Italia» - e si componeva di cinque articoli (PAOLINELLI, Comunismo e
individualismo. Ideologie metafisiche e realtà anarchiche;
TANCREDI, Dell’anarchismo; AGRESTI, Oggi e domani; RYGIER, Per la civiltà
contro la barbarie; MALAGOLA, Alle armi!), più alcuni estratti da Lectres
à un francais sur la crise actuelle, un testo di Bakunin del 1870 sulla
guerra franco-prussiana (dal quale trasparivano le simpatie del vecchio
cospiratore per la patria dell’ “Ottantanove”), comunemente citato dagli
anarchici interventisti a sostegno delle loro posizioni filo-intesiste.
Per le reazioni in campo anarchico ufficiale all’iniziativa di Paolinelli v.
Accettando «La Sfida». Ritratto del grafomane pseudo-anarchico Libero
Tancredi, «L’ Avvenire Anarchico», 12 novembre 1914, e BERTONI, Agli
“sfidatori”, «Volontà», 28 novembre 1914. ?° «Caro Mussolini —
scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi ti presento a traverso un
foglio «La Sfida», del quale ti mando alcune copie [...]. Il nostro numero
unico di Roma, come vedi, precorre il tuo bel quotidiano» («Il Popolo
d’Italia», 19 novembre 1914). Inesorabilmente, più gli schieramenti si
andavano definendo e più l’accanimento col quale il gruppo degli
anarchici interventisti reclamava il diritto alla qualifica anarchica
doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La sera del primo novembre, al
Teatro Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe luogo un comizio dei Fasci,
cui presero parte i redattori de «La Sfida» ed altri anarchici
dissidenti. «A proposito di questi ultimi — commentava quasi divertito un
quotidiano liberale — occorre notare che essi sono invasati dall’idea che
la guerra si debba fare; il che desta alquanta meraviglia e stupore»®°.
Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali non si fecero attendere”,
mentre già da tempo, nel fluire ininterrotto delle questioni di principio
e delle polemiche verbali, il movimento libertario si trovava di fronte
alla spinosa e assai più concreta questione dei volontari.
Anarchici o garibaldini? ] Errico Malatesta, pur
riconoscendo a Garibaldi e ai patrioti del Risorgimento la nobiltà
dell’ispirazione e alla loro opera disinteressata il merito di aver
educato le future schiere rivoluzionarie allo spirito di sacrificio, non
nutriva però gran simpatia per il garibaldinismo. Nella definizione del
celebre capo anarchico, che pure da giovane, come quasi tutti i
protagonisti del primo internazionalismo italiano, aveva pagato il suo
tributo di affetti al mazzinianesimo, lo spirito garibaldino era la
“malattia infantile” dell’estrema sinistra italiana, retaggio di un’epoca
‘lontana, sentimento generoso ma sterile, tanto più pernicioso in quanto
distoglieva i partiti popolari da quello che avrebbe dovuto essere il
loro solo scopo, la rivoluzione sociale”. Certo è che, come
il patrimonio storico e ideale del pensiero democratico risorgimentale
continuò ad esercitare un forte ascendente anche sui più
0° Un comizio al Testaccio in favore della guerra. Gli anarchici vogliono
diventare soldati, «Il Giornale d’Italia», 2 novembre 1914.
Alla fine di novembre si costituì anche a Roma un Fascio rivoluzionario
d’azione Internazionalista, che ebbe proprio in Attilio Paolinelli e
Torquato Malagola due dei più attivi propugnatori (cfr.
«L’Internazionale», Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i ' Al riguardo
v. Soprattutto TONIETTI, Alienazione mentale o mistificazione,
«L'Avvenire Anarchico», 5 novembre 1914, e la lettera di protesta del gruppo
libertario romano “Martiri di Chicago”, pubblicata dall’ «Avanti!» del 7
novembre. "? Per l'opinione di Malatesta su Garibaldi e le
forze della Democrazia risorgimentale se ne veda la prefazione a NETTLAU,
Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il Risveglio, accesi
internazionalisti, che non di rado su di esso si erano formati, così il
garibaldinismo costituì, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima
guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un po’ ingenua, del
sovversivismo italiano. Se ciò non sorprende affatto per i repubblicani,
i quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta alle questioni
di politica sociale, non avevano mai abbandonato le idealità mazziniane,
non deve del pari sorprendere per quel che riguarda il Partito
Socialista, quanto meno in alcune sue correnti, quelle più vicine al
socialismo delle origini. Allo stesso modo, sebbene gli anarchici
indulgessero assai meno alle suggestioni della camicia rossa, anche in
seno al movimento libertario sopravviveva, qua e là, un residuo di
mentalità risorgimentale, in cui - com’è stato scritto - «libertà dei
singoli e libertà dei popoli si intrecciavano e si confondevano e in cui
la pianta dell’internazionalismo affondava le sue radici in un terreno
impregnato più del volontarismo mazziniano che del determinismo del
socialismo scientifico». L’esempio più noto e certamente più
suggestivo di questo modo di concepire l’anarchismo è senz'altro quello
di Cipriani; ma egli era, in fin dei conti, un uomo d’altri tempi, di
quell’epoca di mezzo che aveva visto germogliare l’idea internazionalista
dal tronco del mazzinianesimo, sotto il pungolo della predicazione di
Bakunin®'. Quel medesimo clima ideale che aveva generato uomini come il
romagnolo PCeccarelli, compagno di Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda
del ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.
Lettere di anarchici interventisti Su «L’Internazionale» del 5
dicembre 1914, per la rubrica “Lettere dalla Francia in guerra” -
inaugurata il 21 novembre — comparve un'intervista di Alceste De Ambris ad
Amilcare Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza in tutto il campo
dell’interventismo rivoluzionario (fu ripresa anche da «Il Popolo
d’Italia»), Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo- intesismo. Commentando
le dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico Boldrini tracciò un
acuto profilo del vecchio rivoluzionario. «Cipriani — scrisse Boldrini —
è l’uomo che sintetizza l’avvenire, ma con sistemi e con emotività
passate. Non siamo feticisti: Amilcare Cipriani è dominato da quella
psicologia da cui furono dominati tutti i grandi uomini del risorgimento
italiano; il suo socialismo d’oggi, come il suo anarchismo del processo
di Roma, è infarcito di repubblicanesimo e la sua rivoluzione sociale è la
rivoluzione dell’indipendenza italiana, che, con l’idealità umana di
Mazzini, fu prima del °70 come oggi, per gli uomini d’azione
repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libertà di tutti i
popoli oppressi, al di fuori d’ogni preconcetto, sotto però qualunque forma di
stato» (BOLDRINI, A proposito di un'intervista di De Ambris a Cipriani,
«L’ Avvenire Anarchico» ibdiaibbici. Matese (di cui era stato
l’ideologo militare), un anarchico che aveva vestito la camicia rossa dei
Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione®. Ma qui è più che altro
importante ricordare come giovani volontari anarchici, senza legami
diretti con il garibaldinismo delle origini, non avevano esitato a
seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e all’anarchico Filippo
Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna, sarebbe stato persino
intitolato un circolo libertario della capitale, proprio com’era nel
costume e nella tradizione del martirologio repubblicano) ‘, e poi di
nuovo, nnon ancora spentasi l’eco per le agitazioni antimilitariste
contro la guerra di Libia, a riprendere le armi contro i turchi!” Sulla
scelta di questi giovani, accanto alle memorie risorgimentali, aveva
pesato in modo determinante la concezione (tipica, come si è visto, Sulla
figura di Ceccarelli v. ANDREUCCI, DETTI, 0p. cit., Vol. II, ad nomen. In
merito alla sua importanza quale teorico militare dell’anarchismo
v. PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma, Editori
Riuniti, 1973, ad indicem. “© Cfr. «L’ Alleanza Libertaria»,
27 luglio 1911. Per il rientro in Italia delle spoglie di Filippo
Troja, alla fine di agosto del 1912, i gruppi libertari romani, riuniti
in un apposito comitato, avevano addirittura organizzato solenni onoranze
funebri. Il funerale dell’anarchico garibaldino era stato motivo di gravi
incidenti fra gli anarchici e gruppi di nazionalisti che manifestavano a
favore della guerra libica. Il racconto che di quell’episodio aveva dato
«L’Agitatore» di Bologna è sintòmatico del favore e del rispetto con i
quali, anche in taluni ambienti dell’estrema sinistra libertaria, si
guardava al garibaldinismo. «Cosa non può aspettarsi —aveva scritto
l’anonimo articolista de «L'Agitatore» - il buon pubblico italiano in
questo quarto d’ora di solenne e malefica sbornia di fesso patriottardume
poliziesco? Tutto. Anche l'impossibile. Infatti si piglia qualunque
pretesto [...] per inscenare della manifestazioni nazionalistoidi [...]. La
canaglia studentesca del nazionalismo da vedova allegra pretende d’impossessarsi
dei resti mortali d’un nostro eroico compagno, Filippo Troia, caduto
gloriosamente a Zaverda, insieme ai suoi commilitoni della leggendaria
camicia rossa, per l’indipendenza del popolo ellenico oppresso dalla
dominazione turca. Ma il generoso popolo di Roma [...] non à permesso una
profanazione e violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti
del cittadino romano, cittadino del mondo, appartenevano al popolo,
perché egli aveva combattuto, si era volontariamente sacrificato, per la
libertà e l'indipendenza del popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista,
un propugnatore dell’idea anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di
popoli oppressi, e cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto
del suo meglio per donare la tanto desiata libertà a quel popolo
torturato dalla barbarie turca. Quel giovane è nato in Italia, a Roma.
l'ornando le sue ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...]
pretendono di servirsi del ricordo terreno di chi per la libertà morìa,
per dimostrare alla Turchia, da loro oggi combattuta, che anche uno di
quelli odiatori di guerre e di qualsiasi forma di governo combatté contro
di loro» (SPARTACO, // caso Troja, «L’Agitatore»). N Le insegne
rosso-nere dell’anarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la
guerra d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario
l’anarchico napoletano Oreste Ferrara. Cfr. TAMBURINI, L'indipendenza di
Cuba nella coscienza dell'estrema sinistra italiana, in «Spagna Contemporanea»,
PROPONI PORNIA dell’anarchismo individualista) dell’azione anarchica
anzitutto come ribellione istintiva: una concezione assai poco dogmatica
ed anzi intrisa di spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con
l’epica del garibaldinismo. Pochi giorni dopo l’inizio della
guerra, mentre prendevano corpo i primi confusi progetti di una
spedizione garibaldina in Francia e si preparavano le infuocate polemiche
dell’autunno, sette giovani italiani, raccolto l’appello di Ricciotti
Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla volta
della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco*. «Erano
repubblicani? Erano anarchici? — commentò un foglio repubblicano qualche
tempo dopo — Non importa sapere: erano italiani e seguivano una tradizione
che è gloria d’Italia: quella garibaldina»*”. Con loro, tutti militanti del
PRI, si trovava in effetti anche l’anarchico Cesare Colizza, di Marino
Laziale, un veterano della camicia rossa (aveva preso parte come
ufficiale alla seconda spedizione garibaldina in Grecia, nel 1912,
combattendo a Drisko). Cinque dei sette volontari, fra i quali lo stesso
Cesare Colizza, erano caduti nello scontro di Babina Glava, presso
Visegrad, il 20 agosto 1914”. «Era anarchico — scrisse di Colizza
l’organo romano del PRI — il suo ideale muoveva verso l’ universalità, ma
la sua anima ribelle sentiva la protesta contro ogni ingiustizia»”'.
Molti anni dopo il repubblicano Aldo Spallicci, che lo aveva avuto
compagno a Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo ideale che
merita di esser ricordato perché rivelatore del modo d’intendere
l’anarchismo cui si è più volte accennato. «Il suo dio — ricordava Spallicci
— era Max Stirner e sulla sua opera, L'Unico e le sue proprietà, aveva
fondato il suo credo. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in
pace e sul campo di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie
sociali come contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo
sfruttatore, come contro il L'appello di Ricciotti Garibaldi [si veda],
incitante «la gioventù italiana a prendere posizione di difesa e, in
caso, di offesa», fu diffuso a mezzo stampa dal giornalista ed ex garibaldino
Ravasini. Lo si veda in «Il Fascio Repubblicano», 2 agosto 1914. Su tutta la
vicenda v. MANNUCCI, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914: nel
solco della prima guerra mondiale, Roma, Associazione nazionale veterani
e reduci garibaldini, [s.d.]. MENEGHETTI, La Serbia bagnata dal sangue
italiano, «La Libertà», 12 settembre 1914. °° Gli altri
membri della spedizione erano Ugo Colizza, fratello di Cesare, Nicola
Goretti, Arturo Reali, Vincenzo Bucca, Marino Corvisieri e Francesco
Conforti. Nella sostanza, la loro fu un’iniziativa personale, priva di
referenti politici veri e propri. Ricciotti Garibaldi, infatti, dopo aver
inizialmente accarezzato l’idea di una spedizione di camicie rosse in
Serbia (e dopo aver preso contatti, a questo fine, con l'ambasciata serba
a Roma tramite Ravasini), già il 9 agosto aveva diffuso una nota,
pubblicata da «Il Fascio Repubblicano», con la quale sconsigliava
apertamente l’invio di volontari. °! Eroi italiani caduti in
Serbia, «Il Fascio Repubblicano», 6 settembre 1914. turco che aggrediva la
Grecia e, come nell’ultima sua trincea, contro l’austriaco che aggrediva
la Serbia»? La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro agli
interventisti rivoluzionari per una delle loro prime uscite pubbliche. Il
14 settembre i garibaldini caduti in Serbia erano stati commemorati alla
Casa del Popolo di Roma, in via Capo d’Africa, su proposta della locale
sezione del Partito Repubblicano”. A quella celebrazione, che fu la prima
manifestazione di un certo rilievo dell’interventismo di sinistra
(anticipante, non solo sul piano simbolico e iconografico, ma anche su
quello più strettamente politico, le assemblee dei Fasci rivoluzionari),
avevano preso parte anche alcuni anarchici, fra i quali Rygier e
Paolinelli”. E’ indice ulteriore delle incertezze e delle ambiguità di
quel momento il fatto che la Rygier avesse il giorno innanzi presieduto a
una riunione indetta dai gruppi anarchici capitolini, conclusasi con la
votazione di un ordine del giorno nettamente contrario all’iniziativa
repubblicana” , e che, ciononostante, ella fosse convinta di poter avere
con sé la maggior parte del movimento. «I miei compagni — aveva detto
anzi nel suo applauditissimo discorso alla Casa del Popolo — saranno ove
occorra, ‘ al fianco di quanti soffrono e gemono sotto le percosse di
secolari violenze». L’episodio aveva profondamente turbato
l’ambiente anarchico della capitale, suscitando in particolare la dura
reazione di Ceccarelli, personalità di spicco dell’anarchismo romano”, e
la risposta non meno infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una
lettera a «Il Giornale d’Italia» aveva affermato essere ormai la Rygier
lontanissima dai suoi trascorsi anarchici e antimilitaristi’”, Paolinelli
aveva replicatà, in questo modo: n MANNUCCI " Cfr.
«Azione Socialista», e «Il Fascio Repubblicano. I due soli superstiti della
spedizione,Colizza e Reali, erano rientrati in Italia da ochi giorni.
Cfr. «Il Corriere della Sera», 5 settembre 1914 e «Il Lavoro», 9 settembre
1914. “ «Il Giornale d’Italia» del 15 settembre e «Il Fascio Repubblicano»
del 20, nel riportare la cronaca della commemorazione, sostenevano
essere presenti anche i gruppi anarchici “Arganti”, “Salucci” e
“Martiri di Chicago”. Cfr. «Volontà», L’Iniziativa Ceccarelli era il
fondatore del gruppo libertario “Martiri di Chicago”, operante nel rione
Esquilino, gruppo che alcuni giornali avevano indicato tra gli aderenti alla
commemorazione del 14 settembre " Polemiche fra
anarchici, «Il Giornale d’Italia», 17 settembre 1914. In quanto [...]
alla scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro
l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte alla realtà della guerra,
si convinca il Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di
quelle che possono lanciare i papi veri. L’anarchismo non è disciplinato,
interpretato e letto da alcun dittatore, né il Ceccarelli può arrogarsi
il diritto di parlare a nome di tutti gli anarchici, come se egli fosse
l’unico depositario della verità e della coerenza?” Se la
spedizione in Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato
clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor più ne sollevò quella in
Francia, ben più consistente e organizzata. Essa fu il definitivo canto
del cigno della camicia rossa (che peraltro non venne nemmeno
utilizzata), ultimo bagliore di utopie ottocentesche prima che la moderna
guerra tecnologica e le mutate condizioni della lotta politica facessero
piazza pulita d’ogni residuo romanticismo. Già ai primi
d’agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si ritrovavano a
Parigi per discutere sul da farsi, «diversi, fra anarchici, sindacalisti,
socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia, ad
agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari
con organizzazioni proprie»', Dalla metà di settembre, operanti in
molte località del centro nord dei comitati di arruolamento repubblicani,
erano cominciate le prime partenze di volontari italiani per la Francia.
L'indirizzo all’impresa, tanto sul piano militare quanto su quello
politico vero e proprio, era dato dal Partito Repubblicano, il quale,
sopravvalutando l'appoggio inizialmente ricevuto dalle autorità francesi,
mirava ad organizzare una spedizione per la liberazione di Trento e
Trieste, nonché a strappare l’iniziativa dalle mani della diplomazia sabauda,
così accelerando la formazione di un vasto moto insurrezionale
all’interno del Paese e la caduta della monarchia'. All’intransigenza dei
dirigenti repubblicani (soprattutto di Eugenio Chiesa, il più risoluto
sostenitore della spedizione adriatica, mentre il segretario del partito
Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato più possibilista) '°°, avrebbe
fatto da contraltare la disinvolta malleabilità di Peppino Garibaldi, il
maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza perpiessità (legate più
che altro alle ambiguità ideologiche del personaggio), in molti
riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino VIGEZZI, A
questo riguardo v. ZUCCARINI, Storia della vigilia, cit. 12 Per
quanto attiene al ruolo e alla centralità del PRI nelle vicende descritte v.
anche CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la Grande Guerra,
in Atti del XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano, Roma,
Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, 1965, p. 86
ss. Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese
alla costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per
accettare il semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione
Straniera. Era dunque nata la Legione Italiana, composta di tre
battaglioni, con sede a Montélimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo
di Mailly all’inizio di novembre), mentre una compagnia “Mazzini”, di
netto orientamento repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di
settembre e forte di trecento uomini, era stata sciolta già il 14 ottobre
dietro una precisa disposizione del Comitato Centrale del PRI". La
maggior parte dei suoi membri aveva fatto ritorno in Italia; altri, come
Massimo Rocca (che aveva raggiunto la compagnia il giorno stesso del suo
scioglimento) 104. si erano aggregati alla Legione Italiana di Peppino
Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi combattimenti delle
Argonne nel dicembre-gennaio. Oltre a Rocca (che, a quanto risulta
dalla carte di Zuccarini, fu tra coloro che più si adoperarono perché la
Legione fosse inviata al fronte) !%, facevano parte di quel corpo di
volontari altri anarchici, fra i quali sono certi il veneto Gino Coletti,
autore fra l’altro di una breve storia della spedizione", i
romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!°”, Pezzi Su tutti questi punti v.
VIGEZZI La fine della compagnia “Mazzini” non significò solamente il tramonto
del progetto politico repubblicano, ma fu, in un certo senso, la.
dimostrazione dell’impossibilità, per l'interventismo rivoluzionario, di
costituire un movimento davvero autonomo, in grado d’influire in modo
determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento
all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali
molti sovversivi erano partiti volontari, quelli di loro che avevano
scelto di rientrare in Italia avevano agito correttamente (cfr. GioDA, A
proposito del battaglione Mazzini, «La Folla). 104 |a data del 14
ottobre è sicura. A quel giorno, infatti, risale una nota (sottoscritta anche
da Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti a Nizza, preso atto
della comunicazione ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta la compagnia.
Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS MAZZINIANA DI Pisa (d’ora innanzi ADM), Fondo
Zuccarini, FI e 3/18. 08 La Legione Italiana lasciò il campo di
Mailly solo il 17 dicembre, dopo un lungo temporeggiamento, dovuto ai
molti contrasti che dividevano il Comando francese da Peppino Garibaldi e
quest’ultimo dalla dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto
un accordo con gli uomini a lui più vicini (fra i quali citava Libero
Tancredi) «per partire al fonte da soli», qualora l’ordine di partenza
non fosse giunto per la fine dell’anno, V. ZUCCARINI, La missione a
Parigi, i Garibaldi e il corpo volontari, ADM, Fondo Zuccarini, FI e 1/3.
+ ì 10 Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina,
Bologna, Stabilimento Poligrafico Emiliano, 1915. Sulla
figura di Gino Coletti (che nel dopoguerra assurse a breve fama come segretario
dell’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia) ci permettiamo di
rimandare a LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il fascismo. Il caso
di Gino Coletti in una lettera a Mussolini, in «Nuova Storia
Contemporanea», e Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a Parigi)
» e un certo Perati, descritto proprio da Coletti come anarchico
romagnolo profugo della settimana rossa, che perde la vita nello scontro delle
Argonne. A tal episodio partecipò anche Rocca, che pare vi rimanesse ferito. Di
sicuro egli si trovava ricoverato in un ospedale francese quando «La
Folla» pubblica un suo articolo presentandolo quale «eminente anarchico
disilluso, andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un
ospedale Cfr. «Il Resto del Carlino», 16 ottobre 1914 (recante una lettera
di Masetti dalla Francia, nella quale l’anarchico romagnolo si lamentava
del trattamento al quale i volontari italiani erano sottoposti dalle
autorità militari francesi e, in particolare, del fatto che la Legione
Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera). Masetti era nato
a Ravenna. Tra i rappresentanti più in vista dell’anarchismo ravennate
d’inizio secolo, collaboratore assiduo de «L’Agitatore», amico di Fabbri,
di Zavattero e di Borghi, Masetti, già prima della guerra, aveva avuto
motivi di forte attrito con i suoi compagni di fede politica. All’epoca
dell’aspro conflitto per il possesso delle macchine trebbiatrici, che aveva a
lungo insanguinato la Romagna mettendo gli uni contro gli altri lavoratori
socialisti e lavoratori repubblicani (i “rossi” e i “gialli”, secondo la
terminologia del tempo), Masetti, pur parteggiando per la causa dei
primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici in quella
lotta, temendo che ciò potesse significare la compromissione dell’anarchismo
con il riformismo socialista, che egli detestava. Il dissenso con gli
anarchici ravennati (alimentato dalle simpatie di Masetti per certo
repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre Masetti a
dichiarare di non aver «più nulla in comune» con loro («L’Agitatore» 21
agosto 1910). In realtà, la separazione era stata di breve durata e
Masetti era rientrato a pieno titolo nel movimento. Direttamente
coinvolto nei tumulti della settimana rossa, e accusato di omicidio,
Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero.
Terminata l’esperienza nella Legione Italiana, poté far ritorno a
Ravenna, dove fu tra i promotori del locale Fascio rivoluzionario
d’azione internazionalista (cfr. «La Libertà», Ravenna). Richiamato alle
armi, cadde in battaglia. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti]. ‘°8
Cfr. «Il Popolo d’Italia», 12 febbraio 1915. Panzavolta e Pezzi
militavano da anni nel movimento anarchico, all’interno del quale
godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza. Era
espatriato in Francia, da dove non avrebbe più fatto ritorno e dove, almeno
sino all’inizio del conflitto mondiale, aveva mantenuto i contatti con
gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto costantemente sotto controllo
dalle autorità di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la guerra,
progressivamente abbandonato l’impegno politico — dietro sua esplicita istanza — fu
cancellato dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre cose,
dimostrato «buoni sentimenti patriottici». ACS, CPC, Busta [Panzavolta]. Domenico Pezzi, al
contrario del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le proprie
origini, segnalandosi anzi per l’impegno antifascista, sia pur modesto.
Dalle informazioni della polizia doveva risultare iscritto alla loggia
massonica “Italia” (nota come focolaio di opposizione al regime),
sostenitore della Concentrazione antifascista nonché regolarmente
abbonato a «Giustizia e Libertà». Cfr. /bidem, Busta [Pezzi Domenico].
!°° Cfr. «L’Internazionale», 27 gennaio 1915. !!° Cfr.
«L’Iniziativa», gravemente ferito». Intorno a questa vicenda si
scatenarono in realtà le ipotese e le illazioni più svariate. L’episodio
aveva invero del misterioso, se le stesse autorità - come sembra - non
erano in grado di far piena luce sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in
una nota indirizzata alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del
Ministero degli Interni, la Regia Ambasciata d’Italia a Parigi segnalava
Rocca tra i feriti nei combattimenti delle Argonne, salvo comunicare,
dieci giorni dopo, che egli si trovava ricoverato perché «ammalato di
febbri»!!?. Il nuovo caso legato al nome di Massimo Rocca trovò eco sulle
pagine della stampa anarchica italiana. Ancora a distanza di due mesi
dall’episodio, scrivendo sotto pseudonimo (Dyali) per la milanese «La
Libertà», la nota scrittrice e propagandista libertaria Leda Rafanelli
negò che Rocca fosse stato ferito in battaglia e affermò trovarsi egli in
ospedale vittima di una angina pectoris, non avendo preso parte ad alcuno
scontro ed essendosi limitato a prestare servizio nella Croce Rossa.
«Libero Tancredi — ironizza Dyali — fino a oggi ha portato alla Francia
un aiuto un po” discutibile: ha occupato un letto che poteva servire a un
ferito di guerra; a un francese»!!?. A Leda Rafanelli, prima ancora del
diretto interessato, replicò Edoardo Malusardi sul foglio
anarcointerventista «La Guerra Sociale», sostenendo che, se
effettivamente Rocca si trovava ricoverato per l’acuirsi di una malattia
respiratoria che da tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli
scontri, restando ferito a una mano. Fu lo stesso Rocca, in una lettera
da Parigi, a chiarire definitivamente la questione. Egli — racconta -
ammalato realmente di angina pectoris, cui in Francia si era aggiunta una
stupidissima bronchite, era stato ricoverato per motivi di ll
L'articolo, intitolato La rejetta, un’accorata difesa di Maria Rygier, sortì
come effetto di far nascere nuove discussioni. In risposta alle parole di
Rocca, Ceccarelli serisse fra l'altro: «Costoro [gli individualisti] —
hanno arrecato danno al nostro movimento più di quanto non gliene abbiano
fatto tutte le polizie del mondo messe insieme» (CRCCARELLI, 4/ garibaldino
ferito in Francia, «La Folla», 31 gennaio 1915). !!? ACS, CPC,
Busta 4362 [Rocca Massimo]. !!! «La Libertà», Milano.
Il «La Guerra Sociale. Il trafiletto di Malusardi era firmato con
uno pseudonimo (Emme). ] La polemica tra Malusardi e la
Rafanelli aveva avuto un prologo qualche tempo prima, rincora a proposito
di Massimo Rocca e del suo ruolo nella campagna per la guerra. Ad un
intervento della Rafanelli sul giornale milanese «Il Ribelle», nel quale
l’autrice aveva riconosciuto la «figura morale» di Rocca, «il babau dei
pontificanti dell’anarchismo», sostenendo però essersi egli, mercé il suo
acceso interventismo, del tutto isolato dal resto del movimento
anarchico, Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno —
e quindi a sé stesso e a tutti gli altri anarchici interventisti — il
diritto a dirsi anarchico (cfr. EipoARDO MALUSARDI, Per la verità,
«L’Iniziativa»). MA A A Ai salute il 9 gennaio. Non
era dunque mai stato ferito sul campo, ma aveva nondimeno preso parte ai primi
tre combattimenti sulle Argonne ed era anzi stato proposto per il grado
di sergente'!. La lettera di Rocca precedette di poco il suo rientro in
Italia, a Milano, il 18 marzo 1915"!9, Durante il soggiorno
nella clinica militare di Guyon, Rocca aveva inviato a «Il Resto del
Carlino» una lunga corrispondenza. In essa, prendendo a pretesto la
propria esperienza come volontario garibaldino, era giunto, in mezzo a
reminiscenze ed abusate affermazioni di sapore “libico” (per le quali il
garibaldinismo era «l’espressione più genuina e più profonda del
rinascente imperialismo italiano» e quest’ultimo altro non era che
«l’esuberanza delle forze vitali») !!”, ad evocare una sorta di
sovversivismo nazionale permanente e, per così dire, istituzionalizzato,
di cui vedeva il modello proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto
costituire, perfetta combinazione tra libertà del singolo ed esigenze
nazionali, lo spirito di una nuova Italia. Il fenomeno
garibaldino — aveva scritto, in questo modo definendo le coordinate del
proprio “anarco-nazionalismo” — è un egoismo intimo, perché lungi
d’imporsi collettivamente dalla nazione all’individuo, trova l’origine e
la spinta nell’individuo singolo che sente, da solo, tutta la propria
nazione!" E ancora: Io sogno ed io scorgo una
nuova Italia [...]; una più grande e consapevole Italia garibaldina, ove
la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dell’azione, della
disciplina e della libertà, raggiunga la sua massima espressione di forza nella
nazione interamente padrona de’suoi destini [...], nell’individuo eternamente
libero, pur nei limiti della compresa e voluta, perché necessaria,
disciplina Una rettifica di Tancredi, «La Guerra Sociale», Fatto rientro a
Milano, dove — come si affrettava a comunicare la Prefettura — era
«convenientemente vigilato», Rocca riprese subito la sua propaganda
interventista. Il 30 marzo era alle scuole comunali di via Circo per una
conferenza sul tema “Classe e nazione”. ACS, CPC, Busta
[Rocca]. TANCREDI, L'imperialismo garibaldino, «Il Resto del Carlino», 10 marzo
1915. L’articolo recava la data del 15 febbraio. 18
Ivi, 19 Ivi. In questo stesso periodo la rinnovata
collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi fruttò a Rocca altri
tre articoli, dedicati a questioni di politica internazionale. Il rapporto fra
Rocca e «Il'Resto del Carlino» si nutriva evidentemente di stima
reciproca. Poco tempo prima della pubblicazione di detti articoli,
l’autorevole quotidiano bolognese aveva favorevolmente recensito l’ultimo
libro di Rocca, Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici per
Sono parole, quest'ultime, nelle quali si può ragionevolmente
cogliere un’anticipazione delle future battaglie revisioniste condotte
dal Rocca in seno al fascismo. Le vicende dei volontari
italiani caduti in Francia ebbero larga eco in patria, destando anche a
sinistra un’ondata di commozione (non si deve dimenticare che sulle
Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in grado di
risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Così, un foglio anarchico
di Senigallia che si definiva «giornale razionalista» indirizzava «ai
volontari italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libertà, il saluto
di tutti i militi di un’Idea»'°°, mentre il segretario della Camera del
Lavoro di Carrara Alberto Meschi, d’indiscusso credo neutralista, pur non
approvando «le idee guerraiole di parecchi suoi amici e compagni», non si
sentiva per questo di ritenerli dei «rinnegati e dei venduti», e si
augurava comunque la sconfitta degli Imperi Centrali, «causa di tanti
mali e di tanto danno»!?!. Persino «Volontà», nel momento in cui ribadiva
la propria totale avversione alla guerra, non poté evitare di esprimere
simpatia e financo «ammirazione sincera» per quei sovversivi, pure
anarchici, andati a morire sui campi di Francia'”°. Sono esempi
importanti, che attestano di un malessere vero, a riprova che spesso,
anche tra gli anarchici più intransigenti, le posizioni erano ben più
sfumate e problematiche di quanto già allora si volesse far
credere. La conquista di uno spazio politico Quando si esuli
dai casi più noti, la diffusione delle idee e degli argomenti
interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse
di fissarne le responsabilità (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i
caratteri di originalità e di onestà intellettuale (cfr. VALORI, Un
volume di Libero Tancredi sulle due guerre della vigilia, «Il Resto del
Carlino). «Il Resto del Carlino» occupò un posto di primo piano tanto
nella “direzione” della campagna per l’intervento, quanto nel dibattito
politico del dopoguerra, seguendo con interesse il processo di ridefinizione in
senso nazionale dell'estrema sinistra interventista (a cominciare dal
“caso” Mussolini). A tale riguardo (in merito, soprattutto, al ruolo di
Naldi) v. MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere politico ed economico a
Bologn, Milano, Guanda. «Il Solco», 17 gennaio 1915. «Il Solco» era
diretto da Ottorino Manni. !:! MESCHI, Contro la guerra, «Il
Cavatore», «Il Cavatore» era l’organo della USI carrarese. 12
Ancora dei volontari e la guerra, «Volontà» quella corrente politica, in genere
refrattaria a precise regole d’inquadramento e di organizzazione, è
difficilmente quantificabile. Un aiuto ci viene senz'altro dalle pagine
dei giornali"? e soprattutto dalla rubrica “Adesioni” de «Il Popolo
d’Italia», che ci offre uno spaccato significativo delle divisioni in
atto nel campo libertario. In appena dieci giorni il nuovo organo
socialista mussoliniano, che aveva iniziato le pubblicazioni il 10 novembre
del 1914, riportava le adesioni di quattordici anarchici!”, svelando una
realtà altrimenti destinata all’oblio e aprendo uno scorcio su alcune
realtà locali particolarmente interessanti!”’. A titolo di esempio si
considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio Lotti, di
Fucecchio, al centro di un’accesa polemica con il gruppo libertario di Santa
Croce sull’ Arno (cfr. Ad un emerito girella, «L’ Avvenire Anarchico»), e
Baronti, di Firenze. In una lettera a un foglio liberale fiorentino,
Baronti si dissociò peraltro dall’anarchismo, dichiarandosi di «idee
nazionaliste» (Una lettera significante, «L’ Alfiere»). L’individualista Baronti,
un violento con numerosi precedenti penali (e senza alcuna influenza nel
partito, secondo quanto scriveva di lui la Questura fiorentina) si fa strada
nel fascismo. S’iscrisse al Fascio di combattimento di Bettolle, in
provincia di Siena, dove si era trasferito alla fine della guerra,
divenendo capo squadra della milizia. È addirittura chiamato alla segreteria
dei sindacati fascisti di Sinalunga e l’anno successivo, descritto ormai
nelle carte della Pubblica Sicurezza come «un puro fascista», venne
radiato dal registro dei sovversivi. ACS, CPC, Busta [Baronti]. Nell’ordine: Pietro
Battaglino, «anarchico liberista» milanese (19 novembre); Bernardo
Pieraccini, «anarchico individualista» di Genova; Navacchio, «operaio
anarchico individualista» di Pisa; Farè e Franceschelli «anarchici
novatori» di Milano (24 novembre); Pietro Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro
Clelotti, Lorenzo e Torquato Pasquinelli, Amerigo Lodenzetti e Monaci,
tutti piombinesi (25 novembre); Ferrari, «anarchico non fossilizzato»
milanese; Facchini, del «gruppo anarchico bresciano. Sfortunatamente, con
l’eccezione di Battaglino, la sommaria testimonianza de «Il Popolo
d’Italia» è tutto ciò che ci è stato tramandato di questi uomini.
Battaglino, nato a Novara, di professione venditore ambulante, aveva
collaborato a «La Protesta Umana». Operoso nel campo dell’organizzazione
sindacale aveva dato vita a una “lega di miglioramento fra venditori
ambulanti”, aderente alla Camera del Lavoro di Milano, e n’era stato
eletto segretario. Nel dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al
Fascio di combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel
1923. Cfr. ACS, CPC, Busta 407 [Battaglino]. 125 E? il caso
di Piombino, città a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra
tra neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di
anarcointerventisti piombinesi citati da «Il Popolo d’Italia» il più
conosciuto era senz’altro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del Piano in
provincia di Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico “L’Alba
dei liberi” e si era guadagnato una certa notorietà grazie all’intensa
partecipazione agli imponenti scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu
quindi tra gli iniziatori del fascismo piombinese, ma venne allontanato
dal Fascio nel marzo del 1923 perché iscritto alla massoneria. Cfr. ACS,
CPC, Busta [Monaci]. Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle
controversie ad esso legate fossero niente affatto marginali (pur non
potendosi certo sostenere; come fece ad esempio l’organo del partito
Social Riformista con chiaro intento provocatore, che la maggior parte
degli anarchici italiani fosse per l’intervento) lo dimostrano anche il
rinfocolarsi delle polemiche e il fatto che i nomi più autorevoli
dell’anarchismo italiano sentissero la necessità d’intervenire
personalmente nel dibattito. In particolare, prima con una vibrante
lettera pubblicata su un numero unico dei sindacalisti parmensi!””, poi
con una serie di articoli su «Volontà», Luigi Fabbri dovette ribadire le
motivazioni ideali e politiche dell’opposizione anarchica al conflitto in
corso, contestando una ad una le affermazioni degli anarcointerventisti,
ai quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata
puntigliosità'?8. Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra
fautori e detrattori dell’intervento, l’accanimento della lotta, non di rado
alimentata da amarezze e da rancori personali, contribuivano del resto a
tener alta la tensione!”?. E’ in questo 10 «Egli [I «Avanti!»] —
scrisse «Azione Socialista»- ci accusa
di malafede perché abbiamo contato gli anarchici e i sindacalisti tra gli
antineutralisti e porta in campo il deliberato dell’Unione Sindacale. La
metà più uno! E” questa la norma valutatrice di questi rivoluzionari
dell’età della pietra! Noi invece, con buona pace dell’organo milanese,
crediamo di non commettere un falso annoverando tra i nostri vicini in questo
momento i sindacalisti e gli anarchici; quando tali si vogliono
considerare quasi tutti coloro che rappresentano un pensiero e che a
queste correnti d’idee danno importanza nella vita nazionale». ; Ù
127 Si tratta di «Contro la guerra!», edito a Parma il 6 febbraio 1915 «a cura
di un gruppo di sindacalisti», in aperta contrapposizione alla linea
politica di De Ambris. 28 Si veda in particolare l’articolo in
cinque parti Le idee anarchiche e la guerra («Volontà»). Gli
scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea con l’uscita de «La Guerra
Sociale», furono bersaglio di molte e appassionate repliche da parte
della redazione del nuovo giornale anarcointerventista (nell’ordine:
RYGIER, Coerenza verbale o azione liberatrice, «La Guerra Sociale»;
POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO Giona, Contro una stupida
speculazione; GIGLI, Anarchismo: concezione storica e concezione
razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita e nella teoria, Ibidem, 10
aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi; TANCREDI,
Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don Abbondio
e c.,). ubi, Circa la posizione di Fabbri v. altresì ANTONIOLI, Gli
anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Il diario di Fabbri, in
«Rivista Storica dell’ Anarchismo», Un ulteriore motivo di contrasto fra
le opposte tendenze scaturì dalla diffusione di un manifesto anarchico
contro la guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: «Che
ben vengano i tedeschi in Italia. O essi sono più civili di noi e che vengano a
portarci questa civiltà, o sono più barbari e che vengano a
civilizzarsi». Mario Gioda lo definì un «documento clima e su questo
sfondo di passioni che dev’essere inquadrata la violenta aggressione
subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa Finalese, una frazione
di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove l’anarchico genovese
risiedeva ormai da undici anni e dove era conosciutissimo, per avere tra
l’altro a lungo diretto la locale Camera del Lavoro!” Il fatto,
condannato dalla redazione di «Volontà»!!, fu invece accolto con
soddisfazione sia da «Il Libertario», che anzi deplorava il “buon cuore”
del foglio anconetano", sia da «L'Avvenire Anarchico», che
laconicamente commentava: «Di fronte a tanto strazio di vite non ci
debbono essere rispetti umani», Nel frattempo il processo di
organizzazione dell’interventismo rivoluzionario e della sua
frazione anarchica non aveva subito rallentamenti. Si era riunito a
Milano il primo convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari d’azione
internazionalista, al ipa avevano preso parte, applauditi protagonisti,
la Rygier e Paolinelli. L'impegno penoso», esortando gli anarchici «più
consapevoli» - fra i quali annoverava lo stesso Luigi Fabbri, che infatti
non aveva esitato a manifestare le proprie perplessità al riguardo - a
non farsene complici con un «ancor più penosissimo silenzio» (GIODA, Ben
vengano?, «Il Popolo d’Italia». Per la cronaca degli avvenimenti v.
Oberdan Gigli ferito da’ neutralisti, «Il Popolo d’Italia», e Argomenti
neutralisti, «L’Internazionale». Il giornale di Mussolini pubblica una «lettera
aperta» di Gigli al deputato socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio
elettorale si era verificata l’aggressione. In tale missiva, scritta
all’indomani dell’infelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori,
in maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. «In questa
folla feroce — scriveva — non vi è più, se mai v’è stata, l’anima
socialista». In conseguenza di questi fatti la maggioranza socialista al
Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle
dimissioni (cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza
intervenzionista, «Il Resto del Carlino). Cfr. «Volont Alla
riprovazione per la manifestazione d’intolleranza da parte degli irruenti
neutralisti finalesi, «Volontà» aggiunse comunque un commento
significativo. «Oberdan Gigli — sostenne l’organo anconetano — che è persona di
cuore e ragionevole deve pure rendersi conto dei moventi più intimi del
fatto lamentato. Pensi egli all’impressione che deve fare nelle anime
primitive e nelle menti incolte questo fenomeno, di vedere proprio uno
che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore dei loro
interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore della massima
libertà individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e mettersi a
fare una propaganda che, se ascoltato, avrà per risultato l’abdicazione
d’ogni libertà individuale nelle mani dello stato, la guerra e la
chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai». 12
L’UoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, «Il Libertario», CHELOTTI, Giuste
argomentazioni, «L’ Avvenire Anarchico», A questo riguardo v. FELICE, Mussolini
il rivoluzionario, cit., pp. 305-306. Per il resoconto del
congresso si vedano principalmente «Il Popolo d’Italia» e «L’Internazionale» del 30 (ma anche
gli articoli di «Azione Socialista» e de «L’Idea degli anarchici nella
campagna a sostegno dell’intervento italiano trovò la definitiva
consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de «La Guerra
Sociale». Il primo numero del nuovo «settimanale anarchico interventista»
uscì il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a «La Guerre
Sociale», il noto foglio antimilitarista di Gustave Hervé, mentre il
motto, rubato a Giuseppe Garibaldi («E’ inutile sperar alustizia se non
dall'anima di una carabina»), testimoniava una volta di più della
commistione, in seno all’interventismo anarchico, di elementi eterogenei,
tratti tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e
risorgimentale. Il compito nostro — recitava l’articolo di fondo
della redazione — è ben preciso: rivendicare cioè ad alta voce il nostro
diritto di cittadinanza nel campo anarchico che i teologhi dell’anarchismo, in
nome di non sappiamo quale “sacro comandamento” ci vogliono negare;
prepararci ad incitare all’azione la parte migliore degli anarchici
d’Italia: quegli anarchici cioè che non sono infarciti di femmineo
sentimentalismo, ma che bensì son convinti che l’umanità non può
camminare verso la civiltà se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. “La
Guerra Sociale” dunque sarà anarchica, prettamente
anarchica" In prima pagina, Gigli riassumeva a titolo programmatico
i fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche
dell’anarcointer- ventismo. Nazionale», organo ufficiale
dell’Associazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi contemporaneamente
all’assise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, si era
riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa. «Il Popolo
d’Italia» del 10 febbraio 1915 fornì la cronaca di una riunione degli
anarchici interventisti milanesi, avvenuta la sera prima al circolo
repubblicano Cattaneo di via Sala (che era sede del Fascio). Nel corso di
quell’incontro era stata decisa la pubblicazione di un giornale di segno
anarcointerventista, che, «oltre che propugnare le tesi dell’intervento
dal punto di vista anarchico», proponesse anche «di iniziare una sana ed
audace discussione d'idee nel campo stesso, onde salvarlo dall’ondata di
ridicolo in cui l'avevano trascinato i pontificanti dell’anarchismo
ufficiale». NES Rui Hervé era stato il simbolo stesso dell’antimilitarismo
e dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del «La Guerre Sociale»,
aveva condotto una feroce battaglia contro le istituzioni militari. E”
singolare che gli anarcointerventisti italiani si richiamassero a quella
storica testata dell’estremismo antimilitarista (che aveva avuto
un'inconcludente edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Hervé,
passato alla causa dell’Intesa, l’abbandonava per dar vita a «La
Victoire», organo del nuovo Movimento Socialista Nazionale da lui
fondato. Sulla diffusione e la fortuna dell’herveismo nel nostro pnese v.
GIACOMINI, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo
Bartalini e «La Pace», Milano, Angeli, La Guerra Sociale», SI Vi sono
guerre e rivoluzioni liberatrici — scriveva — e accettiamo la guerra per
evitare una oppressione. Noi vediamo l’anima anarchica in ogni rivolta
liberatrice. Noi siamo gli eterni rèvoltes, e nel secolo scorso avremmo
cospirato con Mazzini per l’unità d’Italia e oggi, nell’India, saremmo
coi nazionalisti nella rivolta contro gli inglesi. Noi riteniamo che la
vittoria degli Imperi Centrali sarebbe un enorme male per la civiltà
nostra. Sarebbero prevalenti i focolai dell’autoritarismo cattolico più
inflessibile, dell’imperialismo più pazzesco, del militarismo più prepotente:
sarebbe rimandato di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel
riaffacciarsi dei problemi democratici e nazionali. Noi vogliamo al
contrario che tutti i nostri sforzi siano volti a preparare le basi
storiche della rivoluzione proletaria. Noi manteniamo integro e purissimo
il nostro ideale anarchico!» Più oltre, in una lettera indirizzata
al direttore Edoardo Malusardi, lettera che esprimeva il comune sentire
di tutti gli anarchici interventisti, Mario Poledrelli negava di sentirsi
un revisionista dell’anarchismo per il fatto d’essere favorevole alla
guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco della migliore
tradizione libertaria!”. «La Guerra Sociale», che uscì con
una discreta diffusione‘, compendiava quindi, per la prima volta in
forma unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i motivi, le
tematiche e le passioni proprie dell’interventismo anarchico. Molto
importante, sotto questo profilo, la rubrica “Dagli amici”, dalla quale
apparivano nitidamente, nelle varie coloriture, gli umori della “base”.
Così, fianco a fianco all’anziano «anarchico rivoluzionario» Alfeo
Davoli, già garibaldino, che da Milano esortava alla guerra
rivoluzionaria che abbattesse per sempre «qualunque sia forma di
governo»"‘', si schieravano il maestro elementare GIGLI,
Perché siamo interventisti, POLEDRELLI, Revisione?, Ivi. Poledrelli
si era formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nell’aprile del 1912 si
era trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio
libertario. A Milano aveva anche progettato la pubblicazione di un
periodico, che avrebbe dovuto intitolarsi «L’ Adunata», ma era stato
fatto rimpatriare a Ferrara su ordine della Questura milanese, perché
disoccupato. Arruolatosi volontario, cadde in combattimento il 3 giugno
1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 4053 [Poledrelli Mario]. 10
Nell’arco dei suoi due mesi di vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui
dieci a Milano, e beneficiò di 157 sottoscrizioni (la maggior parte provenienti
dal capoluogo lombardo, fra le quali due a nome di Mussolini), per un
totale di 251, 56 lire. Non erano grandi cifre — tanto che il 10 aprile,
in un trafiletto indirizzato «ai compagni», la redazione invitava
apertamente i lettori ad essere più generosi, pena la sospensione delle
pubblicazioni — ma in linea con la media degli altri fogli anarchici
editi nello stesso periodo (fatta ovviamente eccezione per le tre grandi
testate a diffusione nazionale La Guerra Sociale», Salvadori, ammiratore delle
teorie di Francisco Ferrer, che si dichiarava per l’intervento, a
dispetto dello «slombato anarchismo menefreghista»!!, e l’anarchico
individualista Costa, di Verona, il quale affermava di desiderare la
guerra semplicemente in virtù dei propri «convincimenti catastrofici»;
mentre il genovese Ciotto chiama a fondamento del proprio interventismo
entrambe le eredità del bakuninismo e del mazzinianesimo!‘*.
Sulle pagine de «La Guerra Sociale» si avvicendarono dunque i
principali portavoce della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier,
da Paolinelli a Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui
testimonianza resta però non meno significativa. Non di tutti, purtroppo,
ci è stato possibile ricostruire la biografia politica. Dalle
informazioni raccolte emergono comunque alcune caratteristiche
ricorrenti: l’origine proletaria, la cultura approssimativa, la fede
individualista, il “ribellismo”, vissuto talvolta nelle sue
manifestazioni più eccessive (requisiti, questi, comuni del resto alla
maggioranza dei semplici militanti del movimento anarchico), ma anche il
valore successivamente dimostrato sui campi di battaglia. Quanto
all’adesione al fascismo di alcuni di tali uomini, essa fu conseguenza,
non automatica né tanto meno ineluttabile, di scelte personali, diverse
caso per caso. Ciò a conferma che la semplicistica equazione
anarcointerventisti prima-fascisti poi, non è motivo sufficiente -
e d’altronde nemmeno Davoli era nato a Reggio Emilia
nel 1849. Morì nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630 Davoli Alfeo].
4° «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915. Alceste Salvadori,
nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa, nel 1884, insegnava
a Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le sue idee libertarie,
antimilitariste e radicalmente anticlericali (era membro di un’
“Associazione Razionalista”), e in virtù del suo ruolo di educatore, era
dalle autorità considerato «estremamente pericoloso in linea politica».
Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi col grado di
sottotenente) Salvadori vestì la camicia nera del fascismo. Nell’aprile
del 1921 s’iscrisse infatti al Fascio di Castelfiorentino (del quale, per
breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche anno più tardi,
alla direzione della locale organizzazione sindacale fascista. ACS, CPC, Busta
4543 {Salvadori Alceste]. 4 «La Guerra Sociale», Cfr. /bidem,
10 marzo 1915. Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi
volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse persuaso che la divisa non
avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifestò la
speranza di tornare, un giorno, a fianco dei «compagni in buona fede contro la
guerra» per combattere insieme «le future battaglie» (// saluto di un
anarchico interventista, «Il Popolo d'Italia», 5 luglio
1915). ragionevole. - per disconoscere l’appartenenza all’anarchismo
degli interventisti di estrazione libertaria!” Scrissero per «La
Guerra Sociale»: Consalvi, Canapa (Ambra), Rivellini, Fraschini, M.Benedetti,
Effebo Scaramelli, Armando Senigallia, Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e
Raffaele De Rango. Canapa, che di mestiere era rilegatore di libri, era
nato a Firenze. La sua partecipazione alla vita del movimento anarchico
era stata contrassegnata da numerose disavventure giudiziarie. La
Prefettura fiorentina lo aveva dipinto «tra i più entusiasti seguaci
delle dottrine libertarie a Firenze, assiduo a tutte le riunioni e
manifestazioni proletari», ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli
anarchici, «attesa la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura». In
realtà, Canapa aveva collaborato a numerosi fogli anarchici, specie
d’indirizzo individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto
D’Ambra. Nella campagna interventista l’anarchico fiorentino — che fu membro
del Fascio rivoluzionario del capoluogo toscano — dimostrò un particolare
accanimento, per lo più ricorrendo al consueto pseudonimo e solo
occasionalmente servendosi del suo vero nome (come nel caso del lungo
articolo polemico Anime di fango, «L’Iniziativa). Canapa si arruolò volontario
(cfr. «Il Popolo d’Italia») e cadde sul Carso. ACS, CPC, Busta 992
[Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne celebrò la figura di «eterodosso
dell’anarchismo, eretico impenitente, scomunicato del “Santo Sinodo”»
(ODROADE, Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, «L’Iniziativa); mentre
Massimo Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe richiamato
il nome nell’introduzione al suo Dieci anni di nazionalismo. Rivellini era
nato a Milano, da famiglia poverissima. Carattere «fra i più irrequieti e
impulsivi» - come scrive di lui la Prefettura milanese n -, Rivellini,
nonostante la giovanissima età, era assai noto negli ambienti libertari del
capoluogo lombardo e aveva subito già numerosi arresti per attività
sovversive. Allo scoppio della guerra fece da subito lega con gli
interventisti, ritenendo, com’ebbe a scrivere a Mussolini, di difendere
così «i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo» («Il Popolo
d’Italia). Si arruolò volontario nel giugno 1915 (nel 68° reggimento fanteria,
lo stesso di Malusardi) e combatté valorosamente, guadagnandosi una
medaglia di bronzo e un encomio solenne. Si congedò con il grado di
tenente degli arditi. Nel dopoguerra prese parte all’impresa di Fiume (e
come delegato fiumano presenziò al congresso nazionale fascista),
conclusasi la quale si ritirò sostanzialmente dalla lotta politica. Risulta
iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo].
Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di
Cascina, provincia di Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e
propagandista anarchico Giovanni Gavilli, che spesso ebbe modo di
accompagnare e di assistere nei suoi giri di conferenze (Gavilli era non
vedente), Scaramelli aveva collaborato saltuariamente a «Il Grido della Folla».
Nel dicembre del 1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico
di Pontedera. Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava
come un soldato «disciplinato, rispettoso e contento della vita
militare». Dismessa la divisa, lasciò l'impegno politico e muore. /bidem, Busta
4662 [Scaramelli Effebo]. Armando Senigallia era nato ad Ancona nel
1883. Ritenuto anarchico «molto pericoloso», Senigallia, pur senza mai
abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva collaborato
assiduamente a «Il Grido della Folla», a «La Protesta Umana» e al romano
Il Pensiero Anarchico», subendo, in virtù della sua prosa infuocata,
numerose condanne per «istigazione a delinquere». Attivo nel campo
dell’organizzazione di partito, Senigallia aveva pPAT TEST PRIA
TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO
MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777 Grazie a «La Guerra Sociale», per
un periodo di tempo tanto breve quanto decisivo, gli anarchici interventisti
poterono dunque disporre di uno spazio autonomo ed ebbero modo di
precisare, una volta per sempre, il proprio particolare punto di vista
all’interno della multiforme realtà dell’interventismo
rivoluzionario. La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci
risultò comunque assai intensa, specie là dove il movimento era più
forte. A Parma gli anarchici collaborarono fattivamente al quindicinale
«Guerra alla guerra» (24 gennaio- I maggio 1915), edito a cura del Fascio
locale, roccaforte della politica deambrisiana e fra i principali centri
propulsivi dell’interventismo rivoluzionario. All’incirca nello stesso
periodo in cui vedeva la luce il giornale di Malusardi, era anche degno
di nota (vuoi per il rilievo dei protagonisti, vuoi perché Pisa era una
delle città italiane dove il movimento anarchico era maggiormente
radicato) il contributo degli anarchici Alberto Fontana e Ruffo Sarti
alla nascita e alla diffusione de «La Guerra del Popolo», organo del
Fascio rivoluzionario pisano!‘. preso parte al congresso
interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al convegno
anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo temi
relativi alla struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre
forze operaie. Nel gennaio del 1914 la Prefettura di Ancona annotava sul
suo conto: «E’ sempre uno dei più ferventi anarchici di Ancona, prende
parte a tutte le riunioni del partito ed è iscritto al Circolo anarchico
“Studi Sociali”». Nell'agosto del 1916, «avendo fatta dichiarazione
scritta dalla quale si rilevava la mitezza delle sue idee politiche e la
completa adesione alla guerra», fu inviato al fronte con una squadra di
lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comportò
coraggiosamente, finché non cadde prigioniero degli austriaci. Aderì al
fascismo e, nel gennaio del 1935, divenne membro e fiduciario del
sindacato provinciale fascista dei venditori ambulanti. Ibidem, Busta
4746 [Senigallia Armando]. Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era
assai noto negli ambienti dell’estrema sinistra parmense, in quanto
segretario di un “Circolo socialista antimilitarista rivoluzionario”
intitolato ad Amilcare Cipriani. Divenuto interventista, Colla si arruolò
volontario, combattendo negli arditi ed ottenendo ben due medaglie al
valore. Cfr. Ibidem, Busta [Colla]. Di Rango, nato a Rende in
provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben poco, se non che egli, dopo
la parentesi interventista, che lo aveva visto magnificare la guerra come
mezzo per far piazza pulita di tutti «i rivoluzionari di carta e da comizio»
(Liquidazione di rivoluzionari, «La Guerra Sociale», 10 marzo 1915),
riallacciò i rapporti col movimento libertario. Nel dopoguerra, De Rango
emigrò negli Stati Uniti (prima a Chicago, poi a Oakland in California),
dove prese parte attiva alla vita della numerosa comunità anarchica
italiana, collaborando al foglio di San Francisco «L’Emancipazione». Da oltre
oceano l'anarchico calabrese mantenne regolari contatti con i compagni
italiani, non escluso Errico Malatesta, col quale era anzi in amichevole
corrispondenza. Cfr. ACS, CPC, Busta 1739 [Rango]. 14% 1] primo
numero de «La Guerra del Popolo» uscì. L’iniziativa di Ruffo Sarti e
Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in
particolare D'altra parte, i Fasci compivano il massimo sforzo di
coordinamento. Pur nella diversità di vedute, la preoccupazione
principale di tutte le forze che componevano lo schieramento
interventista rivoluzionario era allora quella di affrettare l’ingresso
dell’Italia nel conflitto europeo, anche a costo di dover accantonare le
pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il 10 aprile
«L’Internazionale» pubblicò una “Dichiarazione”, con la quale il gruppo
dirigente dei Fasci s’împegnava ad una tregua “rivoluzionaria” se la
monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di
quel documento. figuravano anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24
aprile l’organo sindacalista ricevette le adesioni di Rocca e Malusardi)
Commentando lo sciopero generale indetto a Milano il 14 aprile per
protestare contro l’uccisione del giovane operaio elettricista Innocente
Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della polizia durante una
manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale avevano aderito
anche i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli oratori
principali), Rocca auspica che non si verificassero più simili
episodi, temendo altrimenti ch’essi potessero trasformarsi in «un
pretesto per una manifestazione neutralista, comunque un tentativo per
intimidire il Governo l’articolo in tre parti di OTONIETTI, Aberrazione
mentale collettiva, «L'Avvenire Anarchico», 1, 8 e 16 aprile 1915), che
tenevano soprattutto ad affermare la sostanziale estraneità dei due
interessati alla vita del movimento libertario pisano. Quello di negare
ai compagni passati all’interventismo ogni parentela, anche trascorsa,
con l’anarchismo era una delle scappatoie di cui gli anarchici si
avvalevano con più frequenza. Del pari, la storiografia ha
sostanzialmente accolto quest’indirizzo, che potremmo definire “negazionista”.
Così, nel caso specifico di Sarti e Fontana, è stato scritto che i due
rappresentavano «poca cosa, politicamente e quantitativamente, nei confronti
del vasto movimento cittadino» SACCHETTI, Sovversivi in Toscana, 1900-1919,
Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realtà, Sarti e Fontana erano
entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto la
Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza. Fontana
era stato redattore de «L’Avvenire Anarchico. Cfr. ACS, CPC, Busta [Fontana]. Sarti era noto anche a
livello nazionale, avendo collaborato a «Il Libertario» e al milanese «Il
Grido della Folla» e potendo vantare, come sembra, stretti rapporti di
amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori. Nell'ottobre del
1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei
carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio l’intero l’ambiente
anarchico e che gli era costato lunghe disavventure giudiziarie e due
mesi di carcere. «Durante la detenzione — annotava la Questura — fu
largamente aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono anche le
spese occorrenti per la sua difesa». /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo].
14” Il testo completo della “Dichiarazione” si trova in appendice a
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 695-697. ‘®
Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le dimostrazioni dell'altra
sera, «Il Corriere della Sera», 13 aprile 1915. con disordini
interni e farlo tentennare nella risoluzione di decidere la guerra»; ed
esortava gli interventisti rivoluzionari a «tutto subordinare»
all’eventualità del conflitto!‘ Il periodo bellico A
poco più di un mese dalla proposta de «L’Internazionale» per la tregua
“rivoluzionaria”, la dichiarazione di guerra dell’Italia all’ Austria realizzò
gli auspici di tutti gli interventisti. La partenza per il fronte dei
principali esponenti dell’interventismo rivoluzionario e la situazione di
eccitazione e di generale incertezza determinata dagli avvenimenti
bellici, situazione non certo propizia al normale dispiegarsi
dell’attività politica, contribuirono peraltro a sfaldare
progressivamente il movimento dei Fasci. ua Anche Rocca, Gigli e Malusardi,
si arruolarono volontari". L'altro grande protagonista
dell’anarcointerven- tismo, Gioda, che a suo tempo era stato riformato,
partì per il fronte soltanto nell’estate del 1916". Prima di allora,
incalzato dalle accuse d’imboscamento, Gioda (che era membro del “Gruppo
di Azione Civile” di Torino, avente lo scopo di assistere i combattenti e
di svolgere propaganda a 4° TANCREDI, A proposito di
sciopero generale, «La Guerra Sociale Rocca si arruolò volontario ai primi di
luglio del 1915, prestò giuramento in una caserma milanese il giorno 11
(cfr. / volontari del 7° reggimento fanteria prestano giuramento, «Il
Corriere della Sera) e fu inviato al fronte alla fine del mese. Cfr. ACS,
CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali
di complemento nel 2° reggimento artiglieria campale pesante di Modena,
partì per la zona di guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407
[Gigli Oberdan]. Edoardo Malusardi si arruolò nel 68° reggimento fanteria
il 12 agosto. Cfr. Ibidem, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. mia i o
Mentre l’esperienza di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero
parte all intero svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del
diario di guerra di Malusardi - un memoriale di un certo interesse, anche
se, con tutta probabilità, rielaborato ad arte dall autore - si trova in
EDOARDO MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma, Torino,
Druetto, Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e
destinato al 7° reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. «Il Popolo
d’Italia», e «L’Iniziativa). Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia,
Gioda rimase al fronte solo pochi mesi. favore della guerra) ‘°° si
batté con passione, che non c’è motivo di non ritenere sincera, per la
revisione dei riformati!”, Insieme ai nomi più celebri
dell’anarcointerventismo, partirono, volontariamente o perché richiamati
alle armi, la maggior parte degli altri anarchici interventisti. In
taluni casi la frenesia delle armi raggiunse livelli quasi parossistici.
L’anarchico romagnolo Ghetti, ad esempio, riformato per evidenti
questioni di salute, passò gli anni di guerra nell’estenuante tentativo
di farsi arruolare. Cosa c'entra la visita — scrisse ad un
periodico fiorentino alla fine del 1917 — l’abilità o l’inabilità, quando
uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei difetti organici,
tutto sé stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che oggi
minaccia più che mai l’intera umanità? Per la mia libertà, che è la libertà di
un popolo, dell’umanità [...], voglio dare il mio sangue, la mia vita
contro l’oppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza far
sfoggio di coraggio, così è il mio sentimento di libertario Qualche
giorno dopo Ghetti si presentò in zona operativa vestito da bersagliere,
ottenendo soltanto di essere arrestato Il “Gruppo di Azione Civile” si era
costituito ad opera del tipografo mazziniano Grandi e di altri esponenti del
repubblicanesimo torinese e restò in vita sino all’agosto del 1917,
quando confluì nella ricostituita “Fratellanza Artigiana” di Torino (cfr.
«L’Iniziativa», 1 settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di
Gioda a Grandi (pubblicate in Vita di Gioda narrata da Croce, cit.), i
due si conoscevano da tempo ed erano in ottimi rapporti. In una
lettera al giornale di Mussolini, Gioda respinse l’accusa d’essersi imboscato
e spiegò la propria intenzione d’impegnarsi affinché fosse al più presto
riconsiderata la posizione di tutti i riformati. «Io poi — scrisse —
prima categoria della classe 1883, sono stato [...] riformato...per
deficienza toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, d’accordo con gli
amici del “Popolo d’Italia”, la revisione dei riformati» (Per /a revisione dei
riformati, «Il Popolo d’Italia). In autunno, dopo che il Governo ebbe
annunciato l’intenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda tornò
decisamente sull’argomento. «E un’umiliazione — affermò — inflitta a
tutti i cittadini che sono stati scartati alla leva militare, è quasi un
bollo, che contrassegnerà, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante
e discutibile. Noi avremmo capito la revisione dei riformati — da noi
ardentemente sollecitata — e poscia magari — se necessità assoluta l’avesse
richiesta — la tassa applicata ai veri riformati, a quelli cioè che non
potendo offrire alla patria tributo di sangue avrebbero rassegnatamente
accolto l’imposta, onde contribuire in qualche modo per la salvezza
nazionale» GIODA, A proposito della tassa dei riformati. La revisione doveva
avere la precedenza, Il Nuovo Giornale» Ghetti era nato a Dovadola, nel
forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato in Germania, poi in
Svizzera, cambiando più volte residenza, e stabilendosi infine a Berna.
In quella città Ghetti aveva svolto un’intensa propaganda anarchica, facendosi
anche promotore D'altra parte, anche al di fuori della corrente
anarcointerventista vera e propria, l’entrata in guerra dell’Italia
provocò, in seno al movimento libertario italiano, reazioni emotive
contrastanti. Ai primi di giugno del 1915, amplificata dal quotidiano
romano «Il Messaggero», si diffuse la notizia (parallelamente alla voce,
subito smentita, di contatti segreti tra anarchici ed emissari degli
Imperi Centrali a Villa Malta) che i gruppi libertari capitolini “Sante
Caserio” e “Francisco Ferrer” avrebbero invitato i propri aderenti ad
arruolarsi volontari nella Croce Rossa. In una cartolina riportata da «L’
Avvenire Anarchico» del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non si corrompono),
Ceccarelli condannò senza mezzi termini quell’iniziativa, negando
l’esistenza di un circolo anarchico intitolato a Francisco Ferrer.
Ciononostante, il 24 giugno, il foglio pisano pubblicò una dichiarazione
degli anarchici Luigi Pallotta, Ettore Piattini e Giuseppe Frate, a nome
dei gruppi “Caserio” e “Ferrer”, nella quale si affermava che «il
comunicato apparso su “Il Messaggero”, invitante gli anarchici a
inscriversi nella Croce Rossa, doveva interpretarsi nel senso che i
compagni soggetti al richiamo avrebbero dovuto scegliere, indossando la
divisa del soldato, quella della suddetta istituzione, sempre umanitaria,
per quanto militarista»; e dunque ch’era «erroneo il commento dei
compagni che avevano creduto sottolineare tale invito come addirittura un
reclutamento anarchico ced adesione di anarchici alla Croce Rossa».
Sebbene rimasto senza seguito, quest’episodio è a nostro avviso
indicativo dell’incertezza che colse parte degli anarchici all'indomani.
i Nonostante il clima di eccezionalità seguito allo stato di
guerra, la ténsione tra gli opposti schieramenti della vigilia non
diminuì che in minima parte (ed è significativo che persino
l’arruolamento di Rocca, il cui nome bastava evidentemente ad evocare
malumori e risentimenti, suscitasse una coda di di un “Comitato di difesa
sociale pro Masetti” (ma pare che i suoi rapporti con la comunità
anarchica italo-svizzera, e in particolare con Luigi Bertoni, fossero
tempestosi). Un suo articolo violentemente antimilitarista (Cos'è /a caserma?,
«L'Avvenire anarchico) gli era valso un’incriminazione per istigazione a
delinquere. Due mesi più tardi Ghetti era rientrato in Italia, a Milano,
ed era stato arrestato perché trovato in possesso di numerosi ordigni
esplosivi. Condannato a dieci mesi di carcere, beneficiò dell’amnistia
concessa la momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Non si hanno notizie
di un suo coinvolgimento nella campagna interventista, ma sappiamo che
egli fu di nuovo arrestato (questa volta a Torino) per aver causato gravi
incidenti durante un comizio di Rygier. Ghetti riuscì infine ad
arruolarsi in fanteria. Cfr. ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti
Domenico]. è 156 dea SPERO da 9 polemiche) ‘°°. La verità è che la
frattura tra neutralisti e interventisti non si sarebbe mai più
ricomposta, protraendosi anzi, come noto, ben oltre la fine delle
ostilità. La crisi dei Fasci, seguita all’entrata in guerra
dell’Italia, non valse affatto a rasserenare gli animi, aggravando semmai
i motivi di attrito, dentro e fuori il movimento. L’involuzione subita
dall’interventismo rivoluzionario, d’altronde, prima ancora che la sua
capacità di sopravvivenza politica, in ogni caso compromessa (i Fasci,
come tali, si sarebbero compiutamente ricostituiti solo alla fine del
1915) '5”, investiva la sua stessa ragion d’essere. Così, lungo tutto
l’arco della guerra, si assistette al tentativo (non sempre fruttuoso) da
parte degli interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie fila
e, soprattutto, di non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli
avvenimenti, la propria specificità ideale. In questo senso, anche
la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di Filippo Corridoni, una
delle figure più carismatiche di tutto l’interventismo rivoluzionario,
acquistò un significato che trascendeva l’episodio in sé, per assumere
una valenza quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse a eroe-
simbolo dell’interventismo rivoluzionario, che al nome dell’”’arcangelo”
sindacalista si sarebbe più volte richiamato, nel prosieguo della guerra,
come a un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di
ricordare le parole di Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23
ottobre, perché specchio di quella concezione volontaristica dell’azione
politica che ich questo riguardo, si veda l’articolo // giuramento di
“managgia” («Il Risveglio Comunista-Anarchico», Ginevra), nel quale il
giuramento di Massimo Rocca era fatto oggetto di commenti particolarmente
malevoli. Sull’altro versante, un ottimo esempio di questo stato
d’animo è rappresentato da un saggio di Nerucci, pubblicato su
interessamento di Fontana e con prefazione di Malato (Da/ di là del Rubicone,
Pisa, Tipografia Mariotti). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi
abituali della propaganda anarcointerventista (la contrapposizione fra
anarchismo “reale” e anarchismo “ideale”, la necessità di difendere la
civiltà latina, culla della rivoluzione, dalla minaccia del
pangermanesimo ecc.) e si scagliava violentemente contro gli avversari.
L’apologia interventista di Nerucci, scritta in una prosa magniloquente
infarcita di citazioni latine, appariva ancor più incongrua in quanto
giungeva a quasi un anno dall’entrata in guerra dell’Italia. In ogni
caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di là del Rubicone, Nerucci
abiurò all’anarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di
Marsiglia, annunziò di aver preso la tessera del Partito Repubblicano
(cfr. «L’Eco d’Italia). Nonostante la conclamata fede interventista,
Nerucci fece di tutto per evitare la trincea, ottenendo di essere
chiamato sotto le armi a guerra quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta 3526
[Nerucci Raffaello]. !57 Per un quadro complessivo delle traversie
dell’interventismo rivoluzionario negli anni della guerra, v. soprattutto
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al quale si
rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte. aveva animato
la condotta degli interventisti rivoluzionari nell’ora della vigilia, e
che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella tragica
sorte di Corridoni. Egli è — scriv Gioda ricordando il compagno
scomparso - la nostra gioventù, tutta la nostra vagabonda, ardente
gioventù balzata fuori tra gli sterpi d’una bassa politica e il
dissolvimento de’partiti, tra l'impotenza de’dogmatici e la ribalderia
de’mercanti !5 AI combattimento che costò la vita a Corridoni
prese parte anche Edoardo Malusardi. Il racconto di quell’episodio che
l’anarchico lombardo inviò all’organo mussoliniano è interessante sia
come esempio di autorappresentazione politica (l’interventista
rivoluzionario che, ricolmo di fede nelle proprie idee, combatte con
grande sprezzo del pericolo), sia come prima elaborazione del mito
“corridoniano” (Corridoni che cade eroicamente, intonando un canto
patriottico), un mito destinato a crescere in breve tempo', e al quale
avrebbe attinto anche il sindacalismo fascista, Malusardi in
testa. Mi trovo degente in un ospedale da campo — riferiva dunque
Malusardi — ferito in quattro parti del corpo, per fortuna non
gravemente. Sono caduto in un assalto alla baionetta, in primissima fila;
fui fatto prigioniero dagli austriaci perché impossibilitato a fuggire.
Fuggii da questi attraverso a peripezie che hanno del romanzesco ed a
torture inenarrabili [...]. Tra i morti si conta anche Filippo Corridoni,
comportatosi da prode. Quest’ultimo, anzi, è caduto vicino a me cantando
l’inno d’Oberdan'° 158 «Il Popolo d’Italia Sulla figura di Corridoni
v. il contributo di MELOTTO, Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in
«Storia in Lombardia», Gia pochi giorni dopo la morte di Corridoni, «Il Popolo
d’Italia» avviò una sottoscrizione er l'erezione di un “ricordo marmoreo”
dell’eroe. © «Il Popolo d’Italia La battaglia detta della “trincea
delle frasche è fatale anche ad un anarchico interventista toscano di
nome Contini. «Egli era - scrive di lui Malusardi - un ANARCHICO
NOVATORE. Un eretico su cui grava l’anatema del “Sinedrio Anarchista.. Il
suo anarchismo, come il mio, non è la fronzuta elucubrazione di qualche sofista
a spasso, ma bensi la teoria di tutte le libertà e sintesi di ribellione
fattiva contr’ogni oppressione. I suoi precursori, come i nostri, erano
due eroi: Troja, caduto per 1 indipendenza ellenica, e Colizza, la
maschia figura di spartano, caduto sotto gli spalti di Seraievo in difesa
della Serbia aggredita L’Iniziativa. RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV
FOVGPRATA IMRE 97 RG "N Sul piano della concreta
riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative più interessanti fu la
proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti - di far
confluire tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario nel Partito
Repubblicano. Rygier (che dallo scoppio della guerra era andata sempre
più accentuando la sua vicinanza al mazzinianesimo) '°, reputando
fondamentale — anche in vista delle sfide politiche del dopoguerra —
rinsaldare l’unità del fronte interventista rivoluzionario, propose
apertamente che gli interventisti rivoluzionari, di ogni scuola e
partito, s’iscrivessero al PRI!9. L’invito di Rygier fu raccolto da
Malusardi. In una lettera inviata a «L’Iniziativa» l’anarchico lodigiano
si disse persuaso della necessità di unificare tutti i partiti della
sinistra interventista e d’accordo con Rygier nel ritenere che ciò
potesse concretamente realizzarsi nel segno dell’ ’’ Edera”, a
condizione, però, che questo non significasse un appiattimento sui
programmi repubblicani. Gli unici che potrebbero trovarsi a
disagio — notava a questo proposito Malusardi — saremmo noi anarchici
novatori: per quanto anche noi, non essendo degli impenitenti utopisti
della società paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo molto d’accordo. Noi
siamo degli esaltatori dell’individuo, non nel senso esageratamente
Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi in mezzo al falso ed
imbelle umanesimo grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi
codardi capeggiatori. Mentre i repubblicani subordinano la volontà
individuale a quella collettiva, quella delle minoranze a quella delle
maggioranze, noi anarchici, Il definitivo approdo di Rygier al
mazzinianesimo era avvenuto con l’articolo L'ombra sua ritorna ch'era
dipartita («L’Internazionale», 1 gennaio 1915), una lunga e sentita
celebrazione di Mazzini. La svolta della Rygier aveva trovato consensi e
destato speranze negli ambienti repubblicani. «Si auspica che l’esempio della
Rygier — aveva scritto Alfredo Poggiali sull’organo del Partito
Mazziniano Italiano — ch’era partita, ne’suoi primordi, da premesse non
esatte, possa far breccia anche fra gli altri anarchici» (Lettera
politica dalla Romagna, «La Terza Italia», 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio
della guerra, Maria Rygier, la cui opera di propaganda non conobbe soste,
intensificò, se possibile, la collaborazione con la stampa repubblicana,
massime con «L’Iniziativa». L’infatuazione della Rygier per Mazzini e il
mazzinianesimo trovava del resto concordi numerosi altri interventisti
rivoluzionari (a cominciare da Ambris) e anarcointerventisti. Mario Gioda,
in particolare, il quale - come si è visto - nutriva già una viva
simpatia per le idee e per i programmi repubblicani (si veda, a titolo di
esempio, l’articolo Mazzini e l'ora storica, «Il Popolo d’Italia», 11
marzo 1915, in cui Gioda aveva tra l’altro sostenuto che tutti i
sovversivi, «non schiavi dello sterile dogmatismo, non avvelenati dalle
secche teorie tedesche o intedescate», avrebbero dovuto riconoscere la
grandezza di Mazzini), rafforzò negli anni di guerra il proprio filo-repubblicanesimo.
" Cfr. RyGIER, / partiti di domani. Prepariamoci per le lotte
future, «L’Iniziativa», pur coadiuvando in tutte le contingenze l’azione
collettiva, non intendiamo che si È RA ERI F 16 debba tarpare le
ali alle iniziative individuali e le minoranze Il rispetto delle
minoranze e delle singole individualità era stato a fondamento
dell’azione dei Fasci interventisti: qualora il PARTITO REPUBBLICANO avesse offerto le stesse garanzie politiche,
nulla - concludeva Malusardi - avrebbe potuto impedire il confluire in
esso di tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario, anarchici
compresi'‘. Il progetto avanzato da Rygier rimase lettera morta, ma il
problema dell’unità tra le forze della sinistra interventista si sarebbe
ripresentato più volte, durante come dopo la guerra. In ogni caso, quale
che fu l’esito della sua proposta, il cammino personale di Maria Rygier
verso le “idealità nazionali” non subì inversioni di rotta. Ella è al
congresso nazionale repubblicano di Roma. Non ho ancora la tessera
— disse in mezzo agli applausi dei congressisti — ma voglio confermare
che la guerra ha fatto maturare in me, come in altri, una coscienza
nuova, perché ha disvelato effetti deleteri d’una propaganda basata sul
determinismo economico più gretto. E noi torneremo al vostro
Mazzini L’ex madrina dell’antipatriottismo “tornò” in effetti a
Mazzini, e quella tessera che ancora non poteva esibire al Congresso
romano l’ebbe in realtà pochissimo tempo dopo!. Il prolungarsi
oltre ogni previsione delle ostilità, il malumore ognora crescente delle
masse e il conseguente, nuovo slancio assunto dalla propaganda
neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli interventisti
rivoluzionari. L’esigenza di opporsi alla presunta opera disgregatrice
del neutralismo “socialista-cattolico-giolittiano”, un'esigenza molto
spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu all’origine della
nascita e della diffusione, un po” in tutta Italia, di leghe e di comitati per
la “resistenza interna”. Nell’ambito di queste iniziative, tuttavia,
gli interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero
ritrovati il e su AI congresso giunsero anche i saluti di Gioda,
che diceva di seguire «con vivissima simpatia il lavoro dell’unico
partito che la guerra e le rivendicazioni nazionali non avevano
sconvolto»; di Rocca, il quale auspica che l’assise repubblicana potesse porre
le basi «per un sovversivismo nazionale, meno settario, più serio, più
vasto d’idee e profondo di sentimento»; e di Lotti. più delle volte
in minoranza (tipico il caso del “Fronte Interno”, costituitosi a Roma ad
opera di forze prevalentemente democratiche, che finì assai presto per
essere egemonizzato dalle destre). L’interventismo di destra, infatti, e
in particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla
radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico,
prese senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa
azione delle sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti
scenari. La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e quella,
più o meno consapevolmente avvertita, di salvaguardare la “purezza” dei
propri ideali, dominarono il convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari,
che si riunì a Milano. Pochi giorni prima dell’inizio di quel
congresso, Gioda si era fatto interprete dello stato d’animo di grande
perplessità che attanagliava l’interventismo rivoluzionario. Prendendo
spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e
Austria, agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a
esempio dell’insofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilità,
Gioda si era augurato che l’Italia rimanesse al di fuori dell’ondata di
malcontento che stava attraversando gli altri paesi belligeranti e s’era
detto convinto del buon senso e delle virtù patriottiche del popolo
italiano. Malgrado ciò, l’anarchico torinese aveva avvertito la necessità
di ribadire la ragionevolezza della guerra in atto. La guerra - aveva affermato
Gioda - era giusta perché «risolutiva» e perché avrebbe schiuso la via
«per maggiori conquiste, in un ambiente europeo non più accidentato da
agguati tedeschi e da barbarie prussiana. Per la cronaca del convegno v.
«Il Popolo d’Italia», 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altresì Le
dichiarazioni del Congresso dei Fasci, «L’Iniziativa», 27 maggio 1916, e La
grande adunata di Milano e la parola dei nostri compagni,
«L’Internazionale», GIODA, Perché questa guerra è giusta, «Il Popolo d’Italia»,
17 maggio 1916. Qualche giorno prima, in occasione della festa del
lavoro, Gioda aveva manifestato a chiare lettere quale fosse ormai il
proprio pensiero riguardo alle questioni economiche. «Mentre il mondo —
aveva scritto - si dibatte nella tragica convulsione d’una rivoluzione decisiva
per l’avvenire dei popoli, è per lo meno fatuo il voler cianciare ancora
di garofani rossi e di feste di primo maggio per quella ascensione
economica di classe che il proletariato non conquisterà se non a
condizione di essersi reso degno di rimanere libero entro libere nazioni»
(GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di maggio,
«L’Iniziativa», 1 maggio 1916). Del resto, in un articolo intitolato
Valori e limiti della lotta di classe, pubblicato da «Il Popolo d’Italia»
del 22 febbraio 1915, Gioda aveva sostenuto che il materialismo non
avrebbe mai potuto offrire una chiave interpretativa univoca dei grandi
fenomeni storici e che lo stesso socialismo, se avesse voluto mantenere
la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto risolversi, edonisticamente,
in una mera questione economica. La lotta di classe, perciò, non avrebbe
dovuto porsi come fine del socialismo, ma come semplice mezzo, da
valutare secondo le circostanze. Nel caso contrario, «l’organizzazione di
classe sarebbe diventata fine AI convegno milanese presero parte Maria
Rygier, che vi svolse una relazione sul tema “Neutralismo e
neutralisti”!’°, eRocca, in licenza dal fronte!”. Proprio Rocca si fece
portavoce di una convinzione che, in forma più o meno velata, cominciava
a circolare anche tra gli interventisti di sinistra: la convinzione,
cioè, che il Governo dovesse adottare dei provvedimenti, i più severi
possibili, per eliminare il pericolo neutralista. L’azione contro i
neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di due tipi: «positiva» e
«negativa». Positiva, nel senso che gli interventisti avrebbero dovuto
intensificare l’opera di propaganda tra le masse, negativa, perché era
giunto il momento, nell’interesse del Paese, di rispondere con misure
energiche alle provocazioni dei “nemici di dentro”. Noi — afferma Rocca -
dobbiamo avere il coraggio di dire: contro i neutralisti abbiamo fatto
tutto quello che si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di
domandare che il Governo faccia un’opera che sia di repressione, che sia capace
di porre un freno. La posizione di Rocca, per quanto radicale, era
coerente con quanto da lui sostenuto alla vigilia della guerra in merito
all’opportunità di una condotta realmente unitaria della crisi bellica.
Non per niente, in risposta a quanti, in a se stessa, e nessun alito di
umanità e di generosità avrebbe animato il popolo, rinchiuso nelle sue
ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe». La classe - aveva concluso
Gioda - non doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini
«economici», ma un insieme complesso di individui, formanti una comunità
con più alte e profonde aspirazioni; ed era pertanto «inutile, sciocco e
disonesto il ripetere al popolo che solo la lotta di classe lo avrebbe
dovuto interessare», ogni altro problema essendo problema «borghese». Questi
î passaggi sono — a nostro avviso — di capitale importanza. E” infatti in
questa visione dei rapporti sociali, intrisa tanto di misticismo
mazziniano quanto di elitarismo individualista, che deve rintracciarsi il
motivo dell’adesione di Mario Gioda e di tanti anarcointerventisti alle
ideologie del sindacalismo nazionale e del produttivismo fascista, nonché, per
successive corruzioni dell’impostazione originaria, la ragione del
passaggio di molti di loro dall’antisocialismo all’antioperaismo tout
court. In «Il Popolo d’Italia» sati !! «Il Popolo d’Italia»
riporta le adesioni al convegno di altri due anarcointerventisti: Fanelli
e Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo qui per la prima volta, può
esser preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci è
giunta notizia. Il panettiere Fanelli è nato a La Spezia. Anarchico
convinto, che prende parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito
(come lo descrive un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto),
Fanelli è gerente responsabile de «Il Libertario. Divenuto interventista,
fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio d’azione internazionalista di
La Spezia. Nel dopoguerra adere al fascismo, iscrivendosi al PNF.
ACS, CPC, Busta [Fanelli].«Il Popolo d’Italia sede di discussione,
avevano affermato l’opportunità di scindere nettamente l’operato dei
Fasci da quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore realismo
politico) sostenne che l’interventismo rivoluzionario doveva assumersi
per intero le proprie responsabilità riguardo alla monarchia, con la
quale, e non contro la quale, la guerra era stata decisa!”?. Nei
restanti due anni di guerra Rocca è, insieme alla Rygier, il più attivo
del gruppo degli originari anarchici interventisti. D'altronde egli venne
ricoverato all’ospedale militare di Milano per una grave forma
d’ipertrofia tonsillare, ottenendo così una licenza di sei mesi
(rinnovata nel marzo dell’anno successivo) !” che gli consentì di
dedicarsi a pieno ritmo all’opera di propaganda e di organizzazione
politica’. Vede altresì la ripresa, da parte di Rocca, della sua antica
predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come
attestato dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro
// Mare Adriatico, volume nel quale l’autore sposava le rivendicazioni
dei nazionalisti sull’Istria e la Dalmazia. Non si trattava di un
interesse passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a
segnare in modo drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata -
insieme ai temi di politica economica. - la nota predominante
dell’attività di Massimo Rocca nel biennio 1918-1920. Nel febbraio del
1918, del resto, Rocca entrò nella redazione del quotidiano milanese «La
Perseveranza», avviando, sulle pagine di quel giornale, una serrata
campagna a sostegno dell’italianità della Dalmazia, campagna che gli
attirò gli strali polemici di Salvemini. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362,
[Rocca]. L’operato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un
attivismo capillare che non disdegnava la propaganda spicciola (lo
troviamo, ad esempio, oratore principale alla riunione indetta dal Fascio
interventista milanese, per salutare i “fascisti” della classe 1897 in
procinto di partire per il fronte. Cfr. «Il Popolo d’Italia). Ancora la
Prefettura romana annota che Rocca, «pur conservando le sue idee
sovversive», continua a svolgere attiva propaganda a favore della guerra.
ACS, CPC, Busta [Rocca]. La posizione di Salvemini (espressa a chiare
lettere nel volume La questione dell'Adriatico, pubblicato all’inizio del
1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di nazionalità, e che gli
avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di Massimo
Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista
settimanale, «L’Unità», Salvemini accusò Rocca di essersi appiattito
sulle tesi dei nazionalisti. Rocca, dal canto suo, non risparmiò le
critiche a Salvemini (si vedano, in particolare, gli articoli Per
l'onestà politica e la Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e
nazionalismo, «La Perseveranza). L’approdo di Rocca al giornale del
conte Giangaleazzo Arrivabene, un foglio di chiaro orientamento
conservatore, non deve sorprendere. Infatti, sebbene Rocca avesse già in
passato manifestato simpatie per la destra, fu in questo arco di tempo,
compreso tra il congedo dalle armi e la fine della guerra, che si consumò
la sua definitiva trasformazione politica; fu allora, per meglio dire,
che l’ex anarchico maturò un completo distacco, non tanto dal movimento
libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni residuo
sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale, passando
attraverso le decisive esperienze dell’interventismo e della guerra,
Massimo Rocca finì dunque per virare decisamente a destra, verso
posizioni che — semplificando - potremmo definire di conservatorismo
“illuminato” sul piano politico; di liberismo radicale, con forti inflessioni
produttiviste, sul piano economico. In entrambi i casi, però, i legami
con il fondo elitario del novatorismo restavano evidenti.
L’individualismo di Rocca, rafforzato dalla . sua personale convinzione
di appartenere a un’ “aristocrazia”, alla parte nobile - più meritevole
perché più capace - del popolo italiano (proprio in quegli anni, d’altra
parte, l’ex tipografo autodidatta compiva con successo il suo ciclo di
studi) '”, giunse in pratica al suo esito naturale. In questo passaggio
era già compreso, in potenza, tutto il futuro politico di Rocca, dalla
riscoperta della Destra storica alla rivalutazione dell’istituto
monarchico, dal programma economico del 1922 ai Gruppi di Competenza,
fino alla “trincea” revisionista. In ultima analisi, infatti, il fascismo di
Rocca non fu mai, nella sostanza, granché diverso dal suo liberalismo. Rocca
aderì al “Comitato d’azione per la resistenza interna”, sorto a Milano su
iniziativa di Dinale allo scopo di coordinare tutte le forze
interventiste e d’infondere nuovo vigore alla loro opera'??. In qualità
di delegato di quell’organizzazione, Rocca partecipò al secondo convegno
nazionale dei Fasci d’azione internazionalista, convocato a Roma
all’inizio di luglio, il quale si concluse con l’approvazione di una Rocca
conseguì la licenza tecnica superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi
quindi alla facoltà d’ingegneria del Regio Politecnico di
Milano. Quale fosse lo scopo principale di questa nuova associazione
patriottica, bene lo illustrava un ordine del giorno votato a una
riunione del Comitato: «Reclamare dal. Governo provvedimenti immediati
contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci che infestano il
nostro Paese» («Il Popolo d’Italia). Alla fine del mese il Comitato inviò
un memoriale al Presidente del Consiglio, nel quale, dipinta a tinte
fosche l’azione destabilizzatrice del neutralismo disfattista, s'invocava
un’azione draconiana contro tutti i “nemici di dentro”. Il memoriale,
pubblicato in parte anche da «Il Popolo d’Italia» del 27 maggio, si trova
in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. GUERRA EUROPEA, Fascicolo
[Movimento interventista]. sorta di documento programmatico
dell’interventismo rivoluzionario!”?. Nonostante il tentativo d’imprimere
all’azione dei Fasci un indirizzo certo, tanto sul piano politico quanto
su quello delle rivendicazioni sociali, le grandi questioni delineatesi
nel corso dei due anni precedenti, quella delle misure da opporre alla
ripresa del neutralismo, e quella (per così dire relativa all’indole
stessa del movimento) della salvaguardia della propria identità
rivoluzionaria, rimanevano, complice l’inasprirsi delle tensioni interne
al Paese, più che mai aperte!*°. La tragedia di Caporetto, con ciò che ne
seguì, a livello politico-militare come a livello emotivo, e la
conseguente demonizzazione dei cosiddetti disfattisti, avrebbe
contribuito non poco a mischiare le carte in tavola, spostando
decisamente a destra l’asse della politica interventista. Le divergenze
tra le diverse forze dell’interventismo finirono per appianarsi, a tutto
vantaggio della destra nazionalista, salvo poi riproporsi, ma in un
contesto nel frattempo profondamente mutato, alla fine della
guerra. V. «Il Popolo d’Italia e
l’articolo // Congresso Interventista di Roma in difesa degli operai e
della pace giusta, «L’Internazionale» (l’organo sindacalista parmense
riprese le pubblicazioni dopo una sospensione di quasi un anno). E°
molto difficile, per l’assoluta mancanza d'informazioni, sapere cosa gli
anarcointerventisti pensassero riguardo a queste due tematiche, ma è
ragionevole credere che la loro opinione non differisse da quella degli
altri protagonisti dell’interventismo rivoluzionario, sempre più
orientati verso una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza importante,
anche per l’estremismo del linguaggio usato, è quella di Edoardo Malusardi,
il quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni generali
avanzata ai sindaci e agli ‘amministratori socialisti da Lazzari (un
gesto che, nell’opinione del segretario del Partito Socialista, si
sarebbe rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe
potuto accelerare l’uscita dell’Italia dalla guerra), si appellava direttamente
al popolo italiano perché facesse alfine giustizia «di un così ributtante
fenomeno di perfidia e di vigliaccheria (EMME, Son
purl.). FASCISMO L’anarcointerventismo alla prova della nuova
Italia Ripercorrere le tracce dell’anarcointerventismo nel caos del
dopoguerra non è impresa facile. Già nei mesi successivi all’armistizio,
il blocco dell’interventismo rivoluzionario cessò di esistere come un
tutt'uno, per disperdersi e riaggregarsi in mille rivoli, mentre la
nascita di nuove formazioni, che pure ad esso si richiamavano (fra tutte
i Fasci di combattimento), aggiungeva imprevedibilità a un’atmosfera
politica di per sé già molto fluida. L’anarcointerventismo, che non aveva
mai posseduto, per sua stessa natura, una rigidità organizzativa e
ideologica, non sfuggì a questo processo dissolutivo. Nondimeno, se non
ha più molto senso, dopo Vittorio Veneto, parlare di interventismo
anarchico come corrente politica in sé, è tuttavia possibile — come si
accennava nell’introduzione -, attraverso la vicenda personale dei suoi
maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne i segni nella politica
italiana del dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti, alcuni, come
Gigli e Rygier, finirono per isolarsi progressivamente dal gioco politico
e per non avere che una parte di secondo piano nella tormentata stagione
del prefascismo'; altri, come Attilio Paolinelli, riallacciarono, sebbene
a fatica, i legami con il movimento anarchico, rientrando a pieno titolo
nell’ “ortodossia”. Altri ancora, infine, Nel caso di Gigli, si può
affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto termine
la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandonò la
politica, tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. ANTONIOLI, Gli
anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici
interventisti. Più complesso l’iter politico di Maria Rygier. Negli anni
successivi alla guerra la Rygier si ivvicinò all’Associazione
Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo, un atteggiamento
sostanzialmente ambiguo. È comunque costretta ad espatriare in Francia,
dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in Italia, concluse la
sua travagliata milizia politica nelle file del Partito Liberale. Muore a
Roma. (fr. FRANCO ANDREUCCI,
DETTI, Paolinelli è arrestato con l’accusa di aver preso parte al
complotto di Pietralata, allorché un gruppo di anarchici, insieme a
repubblicani e arditi, tentò d'impadronirsi dell'omonimo forte militare.
Amnistiato, aderì poi - in rappresentanza degli anarchici individualisti
- a un comitato romano “di difesa proletaria” in funzione
antifascista. come Gioda, Malusardi e Rocca, si guadagnarono un
posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale divennero,
quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro vicenda
all’interno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel
prosieguo di questo lavoro) può, a nostro giudizio, essere considerata in
relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se è arbitrario ricercare
in essa un medesimo filo conduttore, immediatamente e
coerentemente riconducibile alla doppia e complessa eredità
dell’individualismo anarchico © riconoscervi, pur |
nell’eterogeneità delle esperienze e delle posizioni ideali e politiche, non
| e dell’anarcointerventismo, è però possibile pochi punti di
contatto con quel pensiero e con quella tradizione. Nel valutare
l’apporto della cultura anarcointerventista al movimento mussoliniano (un
contributo minoritario, ma non per questo trascurabile), occorre
poi tener presente che il fascismo iniziale, lungi dal formare un |
monolito impenetrabile, orbitante attorno alla tetragona figura di
Mussolini, si distingueva piuttosto - come lucidamente nota Felice
nell’introduzione al primo volume della
sua biografia mussoliniana - per essere una «serie di stratificazioni»ì,
un accumulo di passioni e d’idee diverse, non di rado in contrasto
tra loro. Di questo multiforme e | contraddittorio universo che fu il
primo fascismo, la vena. anarcointerventista, proprio in ragione della sua
disorganicità — evidente nei diversi orientamenti di Gioda, Rocca e
Malusardi -, costituisce inoltre, per così dire, un modello in scala
ridotta. La storia dell’anarcointerventismo nel dopoguerra (la si
consideri o meno in ordine al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia
d’individualità, anche se, ancora per qualche tempo, nei mesi successivi
all’armistizio, si verificarono, qua e là, sporadici tentativi di
raccogliere i superstiti della corrente anarcointerventista intorno a un
progetto politico ben definito, in grado di misurarsi autonomamente con
le forze nuove emerse dal rivolgimento bellico. A prescindere da
alcune iniziative isolate, come quella | partita da Domenico Ghetti‘,
l'esperimento di maggior sostanza in questa | È condannato a quattro anni
di confino. Il secondo dopoguerra lo vide ancora attivo nelle fila del
movimento libertario. Cfr. ACS, CPC, Busta 3711 [Paolinelli]. i
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. XXII. 4 Il 17 maggio
1919, sulle colonne de «Il Popolo d’Italia», apparve un appello di Ghetti agli
«anarchici interventisti milanesi» perché facessero giungere la loro adesione
alla nuova iniziativa patrocinata da Mussolini. Ghetti era un
mussoliniano convinto (nel giugno del 1919 la Prefettura di Milano, città
nella quale l’anarchico romagnolo si era trasferito alla fine del
conflitto, lo segnalava tra i più accesi propagandisti dei «principi
mussoliniani» in seno al «partito» anarchico). ACS, CPC, Busta 2355
[Ghetti]. direzione fu quello tentato da Roberto D’Angiò. Nella primavera
del 1919, gli ambienti anarchici liguri (D’Angiò si era trasferito a La
Spezia a guerra in corso) furono messi in subbuglio da una circolare,
firmata appunto dal noto propagandista, nella quale si dava per imminente
la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico d’ispirazione
interventista. Le concezioni di D’Angiò sull’anarchia — annota il
31 marzo il Prefetto di Genova — non collimano con quelle del Binazzi
Pasquale, direttore e gerente del periodico anarchico “Il Libertario” che
si pubblica a La Spezia, ed ha pertanto deciso di fare uscire
prossimamente colà un nuovo giornale anarchico intitolato «La Protesta»,
che vorrebbe pubblicato quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione
avrebbe come programma l’illustrazione del principio anarchico adattato ai
nuovi tempi sortiti in seguito all’opera di rivoluzione fatta dalla
guerra” Il prestigio che ancora ispirava il nome di D’Angiò e il
ricordo, sempre vivo, delle dure polemiche d’anteguerra, indussero «Il
Libertario» a prendere nettamente le distanze da quell’iniziativa.
Parecchi compagni da varie località — ammoniva il foglio di Binazzi - ci
chiedono spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto D’Angiò,
colla quale si annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a
Spezia. Rispondiamo in blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo
non ha più nulla di comune cogli anarchici di Spezia e tanto meno con noi
del «Libertario»® Alla fine di maggio, «Il Popolo d’Italia» -
ormai organo ufficioso dei nuovi Fasci mussoliniani - ospitò un accorato
appello di D’Angiò a tutti i «libertari interventisti», affinché dessero
il loro contributo, anche economico, alla realizzazione de «La
Protesta». Ciò che io desidero — scriveva D’Angiò, precisando il
proprio punto di vista — è che tutti gli anarchici d’Italia, i quali si
dichiararono contro il militarismo prussiano, abbiano il coraggio civile
di affrontare la situazione da noi creata. Non è lecito star zitti quando
ci definiscono ex anarchici, volta gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo
reagire, dobbiamo esprimere le nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre
le nostre idee per snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare
che noi, che ci opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo
e rimaniamo i veri anarchici” + Ibidem, Busta [Angiò]. Il
Libertario»,Il Popolo d’Italia» IPO VRE PERI PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA
Il primo numero de «La Protesta» uscì. «Noi — si afferma nell’editoriale
— facciamo qui una pubblicazione anarchica, né più né meno». Come prima
della guerra, dunque, obiettivo principale degli anarchici interventisti
era quello di rivendicare la propria appartenenza alla famiglia
anarchica, nella convinzione, semmai, che i tempi fossero più che mai
propizi per una riforma radicale dell’anarchismo; riforma che doveva
passare attraverso una “selezione” delle migliori energie rivoluzionarie.
Lo sconvolgimento europeo — sosteneva un anonimo articolista de «La
Protesta» - ha insegnato qualche cosa all’operaio. Noi anarchici, che a
costui predichiamo di emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel
passato, non seguire il sistema del socialismo ufficiale, per il quale il
numero, o meglio una somma di numeri, è tutto. Noi, nel rivolgerci alla massa,
dobbiamo parlare all’individuo Nonostante l’iniziale sostegno di Mussolini, e
nonostante i favori raccolti in ambito anarcointerventista'’, il giornale
di Roberto D’Angiò non sopravvisse al secondo numero, e il suo
fallimento convinse lo stessoAngiò a ritirarsi a vita privata. Lo sforzo,
tentato da Angiò con «La Protesta», di connettere gli anarchici
interventisti, come entità politica autonoma, alla più vasta corrente |
“rinnovatrice” del dopoguerra, restò un caso isolato, ma il contatto tra gli
. narchici e le forze superstiti dell’interventismo rivoluzionario fu
fecondo anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso
diretto con | l’anarcointerventismo, è doveroso richiamare
brevemente. E’ nota, ad esempio, l’attenzione con la quale, nel confuso
biennio, gli interventisti rivoluzionari - e in parte gli stessi
Fasci di combattimento - guardavano al movimento libertario. D'altronde, se le
divisioni tra i due schieramenti erano molte e insanabili, non mancavano
tuttavia i motivi d’incontro, particolarmente la comune ostilità
nei confronti dei socialisti “bolscevizzati” e del loro
inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e “parolaio” (Malatesta
manifesta a più riprese le sue riserve nei confronti dell’esperimento
leninista) '’. Sul piano puramente strategico non 8 «La Protesta
? Le coscienze volitive, Dopo il numero saggio del 16 luglio, il giornale
di D’Angiò raccolse oltre 30 sottoscrizioni - per un totale di 240,45
lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de «La Protesta»
ritroviamo alcuni dei nomi più noti dell’anarcointerventismo, da Gigli a
Sarti, da Fontana ad Senigallia. Cfr. /bidem. È Angiò muore a
Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angiò Roberto]. © L’iniziale
cautela con cui Malatesta accolse le notizie provenienti dalla Russia lasciò
gradualmente - ma inesorabilmente - il posto a una condanna senza appello del
comunismo era quindi irragionevole pensare, da entrambe le parti, ad
un’intesa d’azione in chiave rivoluzionaria; e basti qui ricordare la
vicenda del progettato tentativo insurrezionale che, auspice Alceste De
Ambris, avrebbe dovuto estendersi da Fiume, occupata dai legionari di
Gabriele D’ Annunzio, a tutta la Penisola. Il piano, che vide
direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in Italia nel dicembre 1919,
grazie all’interesse del segretario della Federazione dei lavoratori del
mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto favorevolmente dalla
stampa filo-fiumana), fallì, a quanto pare, solo per la ferma opposizione
dei socialisti a dare un appoggio anche solo indiretto
all’impresa'‘. La presenza anarchica nel nebuloso quadro politico
del dopoguerra si manifestò anche per altre vie e in altri modi, che,
sebbene inconsueti, non devono però meravigliare più di tanto, quando si
tenga conto. della multiformità delle posizioni all’interno del mondo
anarchico. D’altra parte, il processo di ridefinizione degli spazi
politici si prestava a favorire la nascita di connubi apparentemente
improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de autoritario e
soprattutto della dottrina della dittatura del proletariato. Per valutare la
posizione di Malatesta riguardo al bolscevismo è essenziale la lettura
dei molti articoli da lui dedicati all’argomento. Una scelta
significativa di questi scritti (originariamente apparsi su «Umanità
Nova» e «Pensiero e Volontà») si trova in MALATESTA, Individuo, società,
anarchia. La scelta del volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma,
Edizioni e/o, 1998. ! Il 27 dicembre, «Il Popolo d’Italia», che
seguì con simpatia e partecipazione il rimpatrio di Malatesta, rilevò, a
proposito dei rapporti di questi con l’interventista Giulietti, ch’egli
era forse «meno intransigente dei tenenti idioti e nefandi del PUS». Gli
apprezzamenti dell’organo mussoliniano, in verità, non piacquero a
Malatesta, consapevole del loro valore strumentale (al riguardo v.
BORGHI). Del resto, l’infatuazione del fascismo per il vecchio capo
anarchico fu di breve durata (a questo riguardo si veda il duro articolo
Una leggenda che si sfata, in «Il Fascio», 6 marzo 1920), e tuttavia,
l’antibolscevismo di Malatesta fu spesso opportunisticamente richiamato,
dai iornali fascisti, in aperta polemica con i “pussisti”. Su
questi fatti v. FELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel
carteggio Ambris — Annunzio. Tra gli esempi più significativi di questa sorta
di diaspora anarchica dev’essere ricordato quello degli anarchici
triestini Andriani e Ukmar. Dopo il crollo della monarchia asburgica, Andriani
e Ukmar (che sono membri di riguardo del gruppo libertario “Germinal”, il
più importante di Trieste) entrano nel Fascio Nazionale, costituito dalle
forze politiche italiane allo scopo di garantire l’unione della città irredenta
alla madrepatria. «Dimentichi di ogni divergenza di programmi — recitava
il manifesto del Fascio Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci
italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo costituiti in Fascio
Nazionale, sintesi ed espressione di quanti consentono ad un’unione con
la Patria [...], che ogni altro ideale comprende ed ammette» (/taliani!,
«La Nazione). Su Andriani e Ukmar v. MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante
il dominio asburgico, Milano, Giuffrè La Testa di Ferro», l’organo dei
legionari fiumani diretto dall’ardito e futurista Mario Carli!’, che fu,
per circa un anno, luogo d’incontro e di confronto tra le frange estreme
del combattentismo e del futurismo politico e certo anarchismo
violentemente individualista, gravitante attorno a riviste dal titolo
emblematico, come «Nichilismo» e «L’Iconoclasta»!”. Attraverso la rubrica
“Polemiche d’anarchismo”, il giornale di Carli, che iniziava le Carli,
nato in provincia di Foggia ma fiorentino d’adozione, è uno dei
protagonisti delle avanguardie futuriste. Verso la fine della guerra, Carli,
con il gruppo del giornale «Roma Futurista» (Settimelli, Marinetti,
Rocca, Bottai, ecc.) è tra i fondatori del Partito Politico Futurista. Il
futurismo politico, al quale dettero un apporto considerevole gli
ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano degli arditi, si fece
promotore dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia), è decisamente orientato a
sinistra e costituì una delle assi portanti dei primi Fasci mussoliniani,
contribuendo altresì ad influenzarne gli orientamenti. «Il programma dei Fasci
di Combattimento creati da Mussolini — commenta «Roma Futurista» -
è sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista.
Forse, le due istituzioni finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima
è uno. E” lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei combattenti. Sulla
figura e l’opera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20,
Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen, nonché
il contributo di SCARANTINO, L'Impero. Un quotidiano
reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12 ss.
Sul futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista,
Bari, Laterza, 1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla
personalità e al ruolo di Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e
fascismo in Italia, Ravenna, Longo. Li «Nichilismo», diretta da Molaschi,
uscì a Milano; «L’Iconoclasta», fondata da Gozzoli, vide la luce a Pistoia.
Cfr. BETTINI, op. cit., ad indicem. Per capire di quale tipo
di idee fossero portavoce queste riviste, si veda l’articolo // mio
individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo Martucci), comparso su
«L’Iconoclasta» (ma se ne potrebbero citare molti altri). Quale differenza — vi
si legge corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il
patriotta che si fa uccidere pel suo paese, e il sovversivo che cade
evocando la redenzione collettiva? Nessuna! Nella stessa guisa han
perduto la coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma
irraggiungibile. Sono dei deboli. Essi non sentono la propria
individualità che vuole affermarsi, godere, vivere. E vorrebbero che io
li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico. Vorrebbero che mi
sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare. Io che voglio bere
il profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare
l’aere della Libertà sconfinata, per ricevere infine il bacio della
Morte. Io tanto superiore alla mediocrità. Io lotto per me, unicamente
per me. Sono al di la del Bene e del Male. In ogni caso, posizioni di
questo tenore suscitarono critiche all’interno della stessa rivista di Gozzoli
(che - come recitava il sottotitolo - era «aperta a chiunque»). In un
articolo significativamente intitolato /ndividualismo o futurismo?,
Berneri definì «deliri letterari», «prose pazze e vuote», gli scritti di
Villafiore e compagni, e «pazzoidi» e «megalomani» i loro
autori, pubblicazioni, si aprì ai contributi di quegli anarchici
individualisti, per lo più molto giovani, che, suggestionati dalla
retorica “demolitrice” e anticonformista del futurismo, vi scorgevano
un’arma potente di rinnovamento della società e, allo stesso tempo, un
mezzo di realizzazione personale"8. In polemica con
«Umanità Nova» (il primo quotidiano del movimento anarchico italiano,
fondato da SUCKERT Malatesta), che guardava con naturale diffidenza alla
“rivoluzione” fiumana e alle velleità sovversive dei futuristi”, Carli
affermava recisamente il carattere proletario e progressista del
futurismo e definiva in questo modo il proprio rapporto con l’anarchismo.
Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista
del mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le
dinastie e i carceri, il papato e i tribunali, il parlamento e i
privilegi, l’archeologia e i corrieri della sera, E° per questo che, non
potendo più accettare il dominio dell’attuale classe dirigente, né avendo
fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino
alla concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un
tipo di uomo libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri
destini” A sua volta, Marinetti, rispondendo a un anarchico che,
pur plaudendo all’opera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il
sostegno dato alla causa fiumana e il loro sentimentalismo patriottico”!,
invitava gli anarchici a lasciarsi dietro le spalle «il pessimismo vano»,
per aderire alla lotta propositiva del futurismo. Il punto era - secondo
Marinetti - che, mentre gli anarchici erano «tutti più o meno dei
futuristi antipratici, platonici e pessimisti», i futuristi erano «degli
anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con un campo determinato per le
Zoro demolizioni e bonifiche, cioè la patria. Tra gli anarchici collaboratori
de «La Testa di Ferro» si contava anche Ghetti, responsabile dell’ufficio
di corrispondenza del giornale a La Spezia. !9 Si veda, in modo
particolare, l’articolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Damiani), in
«Umanità Nova» CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, «La Testa di Ferro Cfr.
BrUTNO. 22 Ivi. In quegli stessi giorni, Marinetti
pubblicava, per le edizioni de «La Testa di Ferro», l'opuscolo A/ di là
del comunismo, che può considerarsi il manifesto del suo “sinistrismo”.
In esso, il poeta passava in rassegna, criticandole, tutte le
incarnazioni, vecchie e nuove, della sinistra, e definiva le coordinate
del suo individualismo futurista rivoluzionario. Vogliamo — afferma tra
l’altro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie
e dei carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la
maggior quantità possibile di individui liberissimi, forti, laboriosi,
novatori, veloci». K } Sisonialitga al quale facevano riferimento
Carli, Marinetti e u uristi de «La Testa di Ferro» era il medesimo
c in l’individualista Abele Ricieri F. ov. o ETTARI FRI 3
atore, descriveva come agilità volitiva, poesia i gli
altri he, in quello stesso meglio noto come Renzo violenza
creatrice [ dl . »_ x . O . uo: 4 ca di ei o minoritario, puramente
concettuale, pio Ismo nietzschiano, che niente a 6 $ d F Veva a che
veder il movimentismo malatesti ì sconti stiano, così pervaso di i
È i mala umanesimo, né con il comunismo libertario di «Umanità x
i ità Nova (col qual i, si i munism i i quale, anzi, si poneva in
netta antitesi) ‘’, ma che era, innegabilmente, frutto di quel periodo
storico I primi contatti col fascismo. Chiusa questa parentesi, è dunque
il momento di tornare alle vicende dei protagonisti dell’anarco-interventismo
in procinto di vestire la cami ta nese di seguirne il cammino
nell’immediato dopoguerra, a Jomiigii re di Rocca. i vandi. In
questo periodo - come si accennava - l’interesse di Rocca è per lo più
rivolto alla bruciante questione adriatica. In essa, allora al pui di sd
dibattiti, egli riversò tutto il suo virtuosismo polemico e la sua abilità
di propagandista, con il puntiglio e la caparbietà che gli erano propri
Sebb Vicino ai nazionalisti, alla cui Associazione aderì subito dopo la
vera. Rocca non ne condivide le smodate mire imperialiste. Come si cilea
dai MANTRA TORE: Oltre ogni confine, «La Testa di Ferro. Bocea È,
pag Leni Nazi i tra i più assidui collaboratori de «L’Iconoclasta». sponenti
della corrente anarco-individualist: i È Una raccolta dei suoi scritti si
trova i Vila ae eri; va in F. UN FIORE SELVAGGIO, Pi A pr E;
beds seal con una breve nota biografica e bibliografica a cura di Cimmii
o ui fr vm Testa di Ferro, un certo Atomon ribade che i futuristi
Ri nino ma sh individualisti, bollando come anti-anarchica l'Unione
Anarchica ‘a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i
limi e À comuniste, si limita a fare della a , la vera anarchia non
dove dare al i fattore economico dell’esistenza, ma rici i FI nat) ;
ercare «la perfezione dell’individuo nella vi i sopra di ogni pregiudizio
o di ogni do, Ò ITA a opr ] gma». Al contempo, però, l’anonimo
futuri distinguere il gruppo di «Umanità Ni i pic ae a s ova» dal
Partito Socialista, mostrando di ire i primo al secondo, e define
Malatesta, d i quaglie do, lel I morale», un «agitatore e
apostolo». - AE Rocca è membro del “Fascio delle iazioni iotti 2€1
ro. dels associazioni patriottiche” e del “Comitat i L'ing irredente” di
Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca] Faggi Cfr. Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura. suoi numerosi articoli per «La Perseveranza», a cui
continua a collaborare fino a quando il mutamento della linea
editoriale, sopravvenuto a un cambio di proprietà, gli consiglia
l’abbandono), la sua posizione non anda oltre la rivendicazione
dell’Istria e della Dalmazia, che egli non dubitava essere
geograficamente, culturalmente e politicamente italiane. Una certa
moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli impedì di attaccare
violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da Leonida
Bissolati, sia dopo l’intervista da questi rilasciata al «Morning Post»,
sia dopo il suo celebre discorso alla Scala?”. Rocca prende parte
all’imponente comizio milanese “pro Fiume e Dalmazia italiana”, che fu la
risposta data dai “dalmatofili” all’iniziativa del Zeader
socialriformista, comizio nel quale - secondo Renzo De Felice - ebbe il
compito di sostituire Mussolini, che preferì non intervenire «per evitare
incidenti»”8. Ai primi di marzo, Rocca intraprese un viaggio di studio
lungo la costa orientale italiana, da Venezia a Brindisi, giungendo
quindi a Spalato, sulla sponda opposta dell’ Adriatico. Dalla cittadina
dalmata, dove si trattenne qualche giorno, fece pervenire al suo giornale
un esteso reportage, nel quale si prodigava, con la consueta e un po’
pedante ricchezza di argomentazioni, a dimostrare l'italianità della
Dalmazia”. AI suo rientro in Italia fu protagonista di due nuove
manifestazioni patriottiche, a Milano e Torino”; quindi, all’inizio di
aprile, partì per Parigi, inviato speciale de «La Perseveranza», a seguire
da vicino i lavori del congresso di pace”. Dopo il messaggio di Wilson
agli italiani e il conseguente ritiro della nostra delegazione dalla
capitale francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto, nei confronti
del wilsonismo, un atteggiamento prudente e non del tutto ostile*”,
abbandona 7 A questo riguardo v. TANCREDI, // ministro della piccola Italia,
«La Perseveranza», e Una pace di menzogna per un nuovo giolittismo. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491. Per la cronaca del
congresso v. «Il Popolo d’Italia», 18 gennaio 1919. 29 Cfr.
TANCREDI, La passione di Spalato, «La Perseveranza», Cfr. «Il Popolo d’Italia»,
e «La Perseveranza», ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p.
77. 32 In occasione del viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur
vagheggiando una sorta di lega latina, fondata sull’alleanza
Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo “imperialismo”
anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le tesi del presidente
americano, dicendosi favorevole ad una partecipazione italiana alla
Società delle Nazioni. Essa sola — scrisse - avrebbe potuto garantire
«giustizia per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani
dell'Istria e della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi
tedeschi» (LIBERO TANCREDI, L'Italia e la Società delle Nazioni, «La
Perseveranza). ogni remora, schierandosi senza riserve con il partito
dell’annessione, ormai - a suo dire - «l’unica via percorribile». AI
congresso “per l'annessione di Fiume e della Dalmazia”, che si tenne a
Milano, su iniziativa del “Fascio delle associazioni patriottiche”, Rocca
non lesina le accuse a Wilson, denunciando il torbido «retroscena
bancario internazionale che si nascondeva dietro la figura del presidente
filosofo». Da questo momento i toni della propaganda estera di Rocca
si fecero sempre più intransigenti. In un fondo per l’organo
torinese dell’Associazione Nazionalista, egli giunse addirittura a
prefigurare «la necessità di un imperialismo senza confini», qualora la
crescente ostilità internazionale e «Ia fantastica corsa allo sciopero»
all’interno del paese, con i suoi effetti negativi sul livello di
produzione, avessero a tal punto danneggiato le esportazioni e fiaccato
la ricchezza nazionale da impedire di provvedere pacificamente
all’acquisto delle materie prime indispensabili”. Questi ultimi accenni
alla situazione interna dell’Italia ci consentono di soffermarci sugli
aspetti più propriamente economici del pensiero di Rocca. La sua visione
economica, infatti, che rimarrà pressoché inalterata negli anni a venire,
si veniva proprio allora configurando come una mistura di liberismo,
sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano. Così, a proposito
della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca esprimeva
l’esigenza che ad essa si accompagnasse «tutto un sistema otganico di
educazione ed istruzione professionale che accrescesse il rendimento
degli operai»; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo economico
della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro accresciute
responsabilità”. Ciò presupponeva una matura collaborazione tra capitale
e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - l’emancipazione dei
lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. «l’estraniarsi dalla storia
e dal divenire sociale, dai problemi, dai doveri e dalla
responsabilità ch’essi comportano»””, ma solo attraverso la piena
compartecipazione al ciclo produttivo, secondo il modello del
sindacalismo nazionale. Quanto alla borghesia industriale, suo compito
doveva essere, da un lato quello di comprendere il cambiamento introdotto
dalla guerra, ossia di prendere consapevolezza dell’ormai inscindibile
legame tra politica ed economia; dall’altro, quello di dimostrarsi
autentica classe dirigente, in grado sia di Audacia (appunti per l'On.
Orlando), Il Popolo d’Italia TANCREDI, Per il nazionalismo proletario. Un
fenomeno d ‘impotenza, «La Riscossa Nazionale». Le otto ore
internazionali di lavoro, «La Perseveranza», ID., Assenteismo e collaborazione
di operai e di industriali, opporsi con fermezza al bolscevismo dilagante, sia
di provvedere all’integrazione e all’educazione del proletariato”.
«Occorre che la classe dirigente - scrive Rocca - od almeno i suoi
elementi migliori, comprendano che il loro ufficio non è solo di
“resistere” o di “concedere”, ma di persuadere e di guidare. Questo modo
di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale, nel
frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano “giornale dei combattenti
e dei produttori” e promosso, con i Fasci di combattimento, una
formazione che aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare
la “demagogia bolscevica”. Rocca, del resto, ricordava di aver aderito ai
«Fasci di combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la loro nascita”.
Questa affermazione, con tutta probabilità rispondente al vero, non è però
altrimenti accertabile; quel che è sicuro è che Rocca - almeno per tutto
il 1919 - non dimostrò, a differenza di molti suoi compagni, un grande
interesse per l’iniziativa di Mussolini. Di Il Popolo d’Italia»
lancia un invito per la costituzione di un nuovo movimento politico
d'avanguardia. Tra le molte adesioni pervenute al giornale prima della
data fatidica del 23 marzo, ritroviamo i nomi di alcuni anarchici
interventisti: il «vecchio anarchico» Vittorio Boattini (che si dice
«toto corde» con Mussolini, «per le sante bastonature interventiste ed
anti-bolsceviche») Rivellini e Ghetti. «Gli anarchici coscienti —
scriveva quest’ultimo al suo conterraneo Mussolini — non potranno che
aderire al vostro appello» “. i Alla riunione milanese di Piazza san
Sepolcro fu senz'altro presente Mario Gioda, che aveva da subito aderito
all’appello di Mussolini i Secondo Mario Giampaoli (che peraltro, pur
essendo stato testimone diretto dell’accaduto, fa riferimento alla
cronaca de «Il Popolo d’Italia»), vi avrebbe preso parte Cfr. Ip., Un po'
di cannibalismo economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919.
sig In., La svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919.
7 4° Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura,
cit., p. 31. "i olo d’Italia», 9 marzo 1919. SIAT i è nato
a Meldola, nei pressi di Forlì. Manifesta idee anarchiche. Si trasfere a
Milano, dove aveva a Li collaborato a «Il Grido della Folla». la
Prefettura milanese scrive che, avendo egli, durante la guerra, militato
nel campo interventista, si dimostra un fervente nazionalista, in tal
senso svolgendo attiva propaganda. Il figlio di Boattini, pe è per
qualche tempo segretario politico del PNF per la provincia di Milano. ACS,CPC,
Busta 679 [Boattini]. #2 Il Popolo d’Italia», anche
Malusardi*, ma il fatto non è certo. Malusardi stesso, in un telegramma
di adesione a «Il Popolo d’Italia», si era detto dispiaciuto, trovandosi
ancora sotto le armi, di non poter partecipare personalmente, limitandosi
a garantire la sua presenza «in ispirito», per «riaffermare recisamente
il suo interventismo e la sua apostasia»‘* - Il fatto che, anni dopo,
Malusardi rivendicasse la patente di “sansepolcrista”‘, non è affatto
probante, vista la tendenza di molti fascisti, anche della prima ora, a
retrodatare il più possibile il momento della loro “presa di coscienza. GIAMPAOLI,
Roma, Libreria del Littorio. In base alla ricostruzione di Giampaoli (che, in
ogni caso, si limita a citare «Il Popolo d’Italia), Malusardi sarebbe
stato presente in rappresentanza di Milano e di Bologna. * 4
«Il Popolo d’Italia Si vedano gli articoli di Malusardi Cose a posto e
Commiato, in «Audacia», 28 maggio e Degli anarchici interventisti che sposarono
la causa fascista, uno fra i più intraprendenti è Arpinati. Il futuro gerarca,
peraltro, adere al Fascio di Bologna a più di sei mesi dalla sua costituzione.
Nel primo Fascio bolognese - nato nell’aprile ad opera del repubblicano
Pietro Nenni e di altri interventisti di parte democratica - Arpinati
ebbe sempre, a quanto pare, un ruolo del tutto marginale, nonostante la
notorietà conquistata, allorché un comizio elettorale fascista al Teatro
Gaffurio di Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed
egli, che faceva parte del servizio d’ordine, fu arrestato insieme ad
altri cinquanta “camerati” (cfr. «Il Popolo d’Italia»). È in parallelo
con l’involuzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del
Fascio bolognese (culminata con la fuoriuscita degli elementi democratici
e di sinistra), che Arpinati iniziò una spregiudicata ascesa politica.
L’11 aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli affidò
la responsabilità per l’Emilia centrale; quindi, in occasione del congresso
fascista di Milano, nel maggio, entrò a far parte dello stesso organo
direttivo del movimento (cfr. «Il Popolo d’Italia). Tra il settembre e
l’ottobre successivi, Arpinati, complice il subbuglio seguito
all’occupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria
riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare,
guadagnandosi il sostegno, anche finanziario, degli ambienti più
conservatori. Il Fascio di Bologna, così ricostituito, accrebbe
enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di
primo piano, divenne una delle centrali dello squadrismo
emiliano-romagnolo, rendendosi protagonista di un’impressionante
escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le elezioni
amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a
Palazzo D’Accursio, che consegnò il Comune di Bologna nelle mani dei
fascisti. Su tutti questi punti v. TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio
di combattimento: note sulle origini del fascismo a Bologna, in Bologna
Le origini del fascismo, a cura di Casali, Bologna, Cappelli, e ONOFRI, La
strage di Palazzo Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese,
Milano, Feltrinelli, Gioda: il difficile equilibrio tra reazione e
operaismo A differenza di Massimo Rocca, che si avvicinò al fascismo
gradualmente e con un certo distacco‘, Gioda si gettò anima e corpo nella
nuova avventura. Due giorni dopo l’adunanza di Piazza San Sepolcro,
Gioda, con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i
promotori del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la
segreteria‘. Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda
- come avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva «un
ometto dalle grosse lenti e dall’eloquenza inesperta, vestito con un
inelegante abito marrone»; piuttosto il tipo dell’intellettuale - si
direbbe - che quello del tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi
ufficialmente prese sede nei locali della “Lega d’azione anti-tedesca”,
un’associazione patriottica di destra sorta ad opera del nazionalista
Cian. Il fascismo torinese - al cui sviluppo iniziale contribuirono in
misura notevole gli ex combattenti (Gioda cercò in ogni modo di venire
incontro alle esigenze e alle richieste dei “trinceristi”, sforzandosi di
far apparire il fascismo come il legittimo rappresentante dei loro
interessi) nacque dunque con il concorso e sotto gli auspici della
destra, distinguendosi da Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia
di Rocca nell’accostarsi al fascismo fu dovuta anche ai non ottimi
rapporti tra quest’ultimo e Mussolini, il quale non avrebbe avuto granché
in simpatia «colui [Rocca] che lo aveva violentemente attaccato,
obbligandolo, nei confronti dell’intervento, ad una presa di posizione che egli
avrebbe preferito assumere senza sollecitazioni esterne» (YvoN DE BEGNAC,
Palazzo Venezia. Storia di un regime, Roma, Editrice La Rocca).
Cfr. «Il Popolo d’Italia. AVENATI, Dodici anni dopo. Com'è nato il Fascio di
Torino, «La Stampa In seguito il Fascio si trasferì nei locali della “Pro
Torino”, in Galleria Nazionale, un'associazione patriottica di stampo
sabaudo presieduta dal CONTE BARBAVARA DI GRAVELLONA. Contemporaneamente al
lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti torinesi iniziarono
un’opera di penetrazione nella provincia. In una delle primissime riunioni del
Fascio, il 29 marzo, l’anarchico “trincerista” Boario recò le adesioni
dei gruppi fascisti del Canavese, di Ciriè, di San Maurizio e di Caselle.
Cfr.GIODA, Il fervido lavoro dei fascisti a Torino, «Il Popolo
d’Italia) La coscienza combattentistica di Gioda, benché
inevitabilmente ammantata di retorica, appariva sincera. Già prima della
nascita dei Fasci di combattimento, l’anarchico torinese si era fatto
promotore di una campagna per il pieno riconoscimento dell’indennità di
congedo agli smobilitati, rappresentanti «l’Italia più vera e coraggiosa,
quella in grigio verde» (ID., Sino all'ultimo sussidio militare e
l'indennità di congedo non viene, Ibidem, 16 marzo 1919). PORT PI CTPTPM PIO VT
PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA PAPA
subito per le forti venature non solo antisocialiste”*, ma,
spesso, antipopolari tout court. Ciò divenne ancor più evidente dopo
l’avvento di Vecchi, un tipico esponente della borghesia conservatrice
piemontese («cattolico militante e monarchico senza riserve», secondo la
definizione che egli da di se stesso) ‘, il quale, entrato nel Fascio
alla metà di aprile, ne divenne in breve, a dispetto di Gioda, il vero
deus ex machina. La convivenza tra i due uomini forti del fascismo
torinese, così diversi per indole, per estrazione sociale e per
esperienze politiche, si rivelò subito molto difficile. Emblematico, a
questo riguardo, il giudizio, sospeso tra l’ironia e la commiserazione,
che Vecchi, nella sua autobiografia, ci ha lasciato di Gioda: «un povero
diavolo dalle molte vicende». Il giovane Fascio torinese fu quindi
immediatamente attorniato dalla simpatia e dalla complicità dei ceti più
tradizionalisti. Se Torino - come rimarcava l’organo del nazionalismo
piemontese - era «stanca di essere diffamata da chi voleva farla credere
bolscevica e giolittiana»*, allora il fascismo poteva segnarne la
definitiva rinascita, poteva rivelarsi un elemento d’ordine, «più che mai
indispensabile» a svolgere una decisa azione «di vigilanza e di
controbatteria»’”. Così, già alla fine di aprile, il Fascio di
combattimento poteva vantare l’adesione di ben 31 associazioni liberali
torinesi”, e non v'è dubbio che, nonostante gli impedimenti inizialmente
frapposti dall’autorità prefettizia”, l’apporto delle destre valse a favorire
la graduale espansione del fascismo nel capoluogo piemontese. «Il lavoro
— Sul piano della stretta organizzazione antisocialista i fascisti
torinesi si dimostrarono molto efficienti. In un telegramma del 22 maggio
al Ministero degli Interni, il Prefetto di Torino riferiva dell'avvenuta
costituzione, in seno al Fascio, di un «ufficio [...] con mandato di
seguire e segnalare le manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed
anarchico», vale a dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS,
MINISTERO DEGLI INTERNI, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora
innanzi Dir. Gen. PS), Affari generali e riservati (d’ora innanzi Affari
gen.e ris.), 1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. Wp DE VECCHI, //
quadrumviro scomodo, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia,
»p.I/. Sulla figura di De Vecchi v. Dizionario biografico degli
italiani, cit., Vol. 39, ad nomen. VECCHI, La Riscossa Nazionale Cf. «Il
Popolo d’Italia», Al Fascio aderì anche il comitato “madri dei combattenti”,
presieduto dalla contessa Eleonora Contini di Castelseprio.
Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a lamentarsi in più di
un’occasione, sulle pagine de «Il Popolo d’Italia» (per il quale curava
la cronaca di Torino), del trattamento riservato ai fascisti torinesi
dalle autorità cittadine, nonché della presunta campagna diffamatoria
della giolittiana «La Stampa» nei confronti del Fascio di combattimento.
scriveva Gioda a Bianchi a un mese dall’entrata in funzione del Fascio -
procede benissimo e tra molto entusiasmo». «Il Fascio si è imposto —
confermava di lì a poco a Mussolini — e se noi non ci lasciamo sfuggire
il momento opportuno, otterremo risultati incalcolabili»®!. Ma qual
era, in tutto questo, il vero ruolo di Gioda? Se egli era senz'altro
consapevole dei vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino
dall’accordo con l’oligarchia conservatrice piemontese, ci sembra però
scorretto affermare - com’è stato fatto - che egli ritenesse quella della
reazione antipopolare «l’unica strada da battere». In realtà, l'approccio
dell’ex tipografo alla questione delle alleanze politiche, così come a
quella, più complessa, dell’orientamento generale del fascismo, era - e
sempre sarebbe rimasto - ben più problematico. Gioda, infatti, pur
difendendo il carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur
desiderando che ad esso accorressero tutte le forze «sane, giovani,
italiane», senza distinzione di parte o di colore politico (perché il
fascismo doveva essere — anarchicamente - l’”antipartito”), teneva
comunque a distinguere tra antibolscevismo e antioperaismo e ribadiva che
i fascisti non dovevano passare per «dei nemici del proletariato». Questa
stessa esigenza fu da lui espressa al primo convegno regionale dei Fasci
piemontesi, all’inizio del giugno 1919%, e a ACS, MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE
FASCISTA (d’ora innanzi MRF), Carte del Partito Nazionale Fascista,
Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta, Lettera di Gioda a Bianchi,
Lettera di Gioda a Mussolini, MANA, Origini del fascismo a Torino, in Torino
fra liberalismo e fascismo, a cura di Nicola Tranfaglia e Ugo Levra,
Milano, Angeli, L'idea di antipartito era già da tempo al centro della
riflessione politica di Mario Gioda. L’avversione alle forme tradizionali
di organizzazione politica, già tipica dell’anarchismo individualista,
trovava del resto un corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e
antiparlamentari del dopoguerra. «L’antipartito — aveva scritto Gioda — vuol essere il sunto della nausea che
in Italia nutrono combattenti e produttori verso i politicanti». Contro
il «feticcio partito», ormai incapace di conciliarsi «coll’elettamente
dinamica modernità civile» (la nuova società scaturita dalla guerra), occorreva
suscitare «l’idea sovvertitrice dell’antipartito», un'iniziativa
«iconoclasta e squisitamente anarchica», in grado di restituire dignità e
centralità ai singoli individui (GIODA, L'antipartito, «Il Popolo d’Italia).
AI di là dei riferimenti ai temi del reducismo e del produttivismo,
tipici dell’aumus del periodo e dai quali il “trincerista” e prossimo
fascista Mario Gioda non poteva prescindere, la radice libertaria e
individualista di una simile impostazione di pensiero appare comunque
evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik Ibsen uno dei padri
spirituali dell’antipartito). Sul concetto di antipartito nel primo
fascismo v. GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, GIODA, Aspetti
del fascismo torinese, «Il Fascio Cfr, «Il Popolo d’Italia riaffermata poi in
più di un frangente. Ad esempio, «Il Popolo d’Italia» riportava
un’intervista di Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto, che l’autore
stesso definiva «un saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel campo
dell’organizzazione e del socialismo italiano». L’intervista verteva
sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle
otto ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che
«l’approvazione, da parte del Governo, di concedere altre migliorie ai
ferrovieri» non poteva non destare «un senso di legittima soddisfazione»,
dal momento che vedeva tutelati «i sacrosanti diritti dei lavoratori». Il
fatto che poi, in occasione dello “scioperissimo, il Fascio di Torino
assumesse, nei confronti degli scioperanti, una posizione di aperta
sfida‘, non muta i termini del problema, in quanto l’iniziativa dei
fascisti era ancora indirizzata contro la politica “irresponsabile” dei
bolscevichi (ed era pienamente condivisa da tutti i partiti della
sinistra interventista) e non contro la totalità dei lavoratori!”.
E’ però vero che, di fronte al primo programma fascista, fortemente
sbilanciato a sinistra‘î, Gioda - come ricorda Felice - espresse qualche
perplessità, soprattutto, lui repubblicano, in merito alla cosiddetta
pregiudiziale istituzionale. «Qualcuno -- scriveva il 6 giugno ad Attilio
Longoni —- è rimasto male poiché ha intravisto tra le riforme anche
quella definitiva della monarchia. Forse è necessario mettere i puntini
sugli “i” e Un manifesto, fatto circolare dal Fascio torinese in
quell’occasione, faceva intendere senza mezzi termini che i fascisti,
qualora fosse stato necessario, sarebbero intervenuti a tutela
dell’ordine, onde salvare il paese dal «tragico caos bolscevico». Allo stesso
tempo, il manifesto ricordava ai lavoratori che «nessun partito
socialista ufficiale aveva scopi violentemente innovatori come i Fasci di
combattimento, e di immediata attuazione. Sullo “scioperissimo” a Torino, che
si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. «La Stampa». L’atteggiamento
dei fascisti nei confronti dello “scioperissimo” è ben rappresentato
dalle lettere di due anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo
Mazzucato, che lavorava alla redazione de «L’Ardito», il giornale
dell’Associazione fra gli arditi d’Italia, scrisse a Mussolini (che ne
definì la lettera «un gesto di fierezza e di dignità») di non aver alcuna
intenzione di «subire supinamente» le imposizioni della Federazione del libro,
il sindacato a cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul
posto di lavoro («Il Popolo d’Italia). Su «Il Giornale del mattino» del 30
luglio (organo ufficioso del Fascio bolognese, diretto da Pietro Nenni)
comparve una lettera non meno polemica del ferroviere Arpinati. Secondo
il suo primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica proprio
in occasione dell’assemblea generale dei ferrovieri del compartimento di
Bologna, il 20 luglio, allorché si sarebbe scontrato duramente con i
colleghi favorevoli all’astensione dal lavoro (cfr. NANNI programma,
elaborato da Agostino Lanzillo e intitolato / postulati dei Fasci. Per la
rappresentanza integrale, fu reso noto da «Il Popolo d’Italia», chiarire i
nostri rapporti coi fascisti “monarchici”. La preoccupazione di Gioda era
dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i delicati equilibri
interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici erano in
netta preminenza, e non è difficile leggere nel qualcuno della sua lettera
a Longoni un esplicito riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come avrebbero
dimostrato le vicende successive alle elezioni politiche, non aveva
rinnegato il proprio repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi
dettate da considerazioni di ordine strategico e in questo senso,
piuttosto che in quello di un suo personale mutamento di rotta, devono
essere interpretate le sue pur numerose concessioni alla destra.
La questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto
con la sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI,
socialisti riformisti), si presentò con sempre maggior forza in
previsione delle elezioni politiche dell’autunno. Si trattava di un
problema che coinvolgeva tutto il movimento fascista (e basti pensare al
travaglio che colse il fascismo romano a ridosso del voto) ”, ma che, a
Torino, prendeva un significato particolare. Già il primo agosto 1919, in
una nuova lettera all’amico Longoni, Gioda definì l’eventualità che si
addivenisse a un blocco elettorale di tutto l’interventismo di sinistra —
la soluzione preferita da Mussolini - «una sterile palla di piombo»”!. E’
chiaro che Gioda pensava a salvaguardare l’unità del Fascio da lui
guidato, dove le forze di destra, che erano preponderanti, non avrebbero
mai condiviso una piattaforma programmatica che ponesse tra i propri
obiettivi quello della costituente. Non a caso il direttore de «La
Riscossa Nazionale» espresse il proprio rammarico per le ripetute
dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi se anche i
fascisti torinesi intendessero seguire il loro “duce” in quella china”.
Gioda, consapevole di doversi misurare con le ubbie monarchiche di De
Vecchi, intervenne a dissipare le perplessità dei “destri”. Mussolini —
sostenne - esprimeva una posizione del tutto personale, che tale sarebbe
rimasta, almeno sino alla convocazione del primo congresso nazionale
fascista. Quanto al Fascio di Torino, esso non aveva, e non poteva avere,
pregiudiziali di sorta. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. A Roma,
la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e Giuseppe Bottai si oppose
alla decisione, votata dalla Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di
aderire alla “Alleanza Nazionale”, l’intesa elettorale promossa dai
liberali di destra e dai nazionalisti (cfr. Dichiarazioni futuriste sulla
situazione elettorale romana, «Roma Futurista», 2 novembre FELICE,
Mussolini il rivoluzionario RAVA, Posizione di battaglia, «La Riscossa
Nazionale», 3 agosto 1919. Se fuori dal Fascio — affermava Gioda - stimo
politicamente certi nazionalisti di indubbio valore e intelligenza, al
Fascio io non ne conosco nessuno. Così come ignoro repubblicani,
monarchici, socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI Fascio,
che non può essere un partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su
un dato programma di realizzazione immediata. Tra parentesi, sono stato
proprio io, anarchico, a proporre a suo tempo di includere [Angelo]
Cavalli, nazionalista, e Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo del
Fascio” Ora, ciò che queste parole mettevano in evidenza non era soltanto
uno scrupolo elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel difendere il
carattere antidogmatico dell’idea fascista; una presa di posizione tipica
della vocazione movimentista del primo fascismo, ma nella quale, nel
caso specifico di Mario Gioda, è possibile scorgere (almeno in qualche
misura) anche il retaggio dell’anarcoindividualismo. Non è privo di
significato, d’altronde, che il fascista Gioda, consapevole della novità
rappresentata dal fascismo rispetto alle categorie politiche
d’anteguerra, richiamasse tuttavia la propria identità di anarchico, e
non già come semplice attitudine o abitudine mentale, ma come un dato di
fatto politico. In ogni caso, chiarito che il fascismo, quanto meno in
Piemonte, non nutriva propositi sovversivi, Gioda poté confermare che il
Fascio di Torino avrebbe davvero costituito «l’asse per una grande intesa
degli interventisti» in vista delle elezioni; ma che questa. sarebbe
appunto avvenuta «fascisticamente», fuori dagli schemi destra-sinistra,
ormai superati, astraendo dal «colore della tessera di partito».
La “marcia di Ronchi” e l’occupazione militare di Fiume da parte di
Gabriele. D’Annunzio parvero poter accelerare questo processo di
unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore
di in “comitato pro Fiume” (ne sorsero di analoghi un po’ in tutta
Italia), nel quale erano rappresentate tutte le forze “nazionali”, di
sinistra e di destra, dai repubblicani ai nazionalisti”. Ma si trattava
di un entusiasmo passeggero, che avrebbe ben presto ceduto il passo a una
più grande incertezza.GIODA, / nazionalisti e l'intesa di sinistra, tai Ip.,
Gli aspetti del fascismo torinese, cit. Nel corso di un’adunata del
Fascio torinese alla presenza del segretario politico generale del
movimento Pasella, Gioda ribadì che a Torino i fascisti si sarebbero
battuti per un’intesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr.
«Il Popolo d’Italia Cfr. Il Fascio. Dal congresso fascista di Firenze non venne
affatto, contrariamente alle aspettative del segretario del Fascio
torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo defilato), un’indicazione univoca
in senso elettorale. Alla relazione di Bianchi, fautore di una linea
politica possibilista (la politica del “caso per caso”), fece da
contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in modo non esplicito,
lasciò però trasparire l’intenzione di perseguire l’accordo con le
sinistre interventiste”’. Quel che ne uscì fu un ordine del giorno
compromissorio, che, di fatto, lasciava libertà di azione ai singoli
Fasci. Questa libertà, venuta meno ogni possibilità di accordo a sinistra,
finì per concretarsi nell’alleanza con la destra liberal-nazionale (nella
sola Milano, infatti, il fascismo riuscì nell’intento di presentare una
lista autonoma) 7”. I deliberati del congresso di Firenze,
nella loro elasticità, andavano sostanzialmente nella direzione auspicata
da Gioda, il quale, libero da condizionamenti di sorta, poté rivolgersi
alle forze politiche torinesi con l’invito ad abbandonare «le fazioni» e
a dar corpo ad «un potente fascio di energie», in funzione antibolscevica
e antigiolittiana”. Per questa via si addivenne infine alla costituzione
di un “Blocco della Vittoria”, peraltro chiaramente orientato a destra,
quanto meno nella sua composizione. Ne facevano parte, infatti, radicali,
liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali alcuni membri del
disciolto “Fascio Parlamentare” (Daneo, Sull’occupazione di Fiume e le sue
ripercussioni sul movimento fascista v. VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e
l'avvento del fascismo Dalla fine della guerra all'impresa di Fiume,
Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, LEDEEN, D'Annunzio a Fiume,
Bari, Laterza, PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, e
OSTENC, Si veda inoltre l’introduzione di Renzo De Felice a ANNUNZIO, La
penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, Cfr. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, Il congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in
via dei Cimatori, nei giorni (per la cronaca v. «Il Popolo d’Italia). Vecchi
entra a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza
dei Fasci piemontesi. Di tale lista faceva parte Edmondo
Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di combattimento di Milano al
momento della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori della
sede dell’ «Avanti!. «La sua candidatura — scriveva «Il Popolo d’Italia»
— significa elevazione delle classi lavoratrici, lo sforzo per formare
tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di azione. Nella lista dei Fasci
egli rappresenta l’operaio onesto e che non usurpa il nome di
lavoratore». Mazzucato risultò 14°, su un novero di 19 candidati, con 56
voti di preferenza. GIODA, La piattaforma elettorale piemontese, «Il
Popolo d’Italia», 24 ottobre 1919, e «Il Fascio», Bevione e l’ex
Presidente del Consiglio Boselli), mentre il Fascio vi era rappresentato
da quattro combattenti: De Vecchi, il generale Etna, già comandante del
corpo d’armata di Torino (deposto su ordine di Nitti nel settembre), il
maggiore degli alpini Garino e il capitano Revelli”. L’Unione Socialista
Italiana, che in un primo momento sembrò poter entrare nel “Blocco”, se
ne tirò fuori quasi subito, per far causa comune con i repubblicani nella
“Alleanza Elettorale”®°. A questo punto, Mario Gioda parve rendersi conto
di aver imboccato una strada a rischio. Si nota infatti, nella sua
attività politica prima delle elezioni, la preoccupazione ricorrente di
non far apparire la lista del “Blocco della Vittoria” troppo sbilanciata
a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo illustrativo per «Il
Popolo d’Italia» - era «la più organica», la più rappresentativa anche
delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un contenuto sociale
«notevolissimo»? In particolare, egli rimarcava ancora una volta che il
fascismo intendeva combattere il bolscevismo, non i lavoratori nel loro
insieme, ed operava altresì una netta distinzione tra “pussisti” e
socialisti rivoluzionari. Un accenno alla lotta contro il
bolscevismo — scriveva Gioda a commento di un passo della piattaforma
elettorale del “Blocco” - non è troppo felice. Si confuse, da Cfr. «Il
Popolo d’Italia», 25 ottobre 1919. AI “Blocco della vittoria” non
aderì la sezione torinese dell’ Associazione Nazionale Combattenti, che
si pronunciò a favore dell’astensione. Nel corso di un'assemblea del
Fascio, Gioda critica duramente la scelta dei combattenti, non tanto
perché non ne condividesse le ragioni ideali (la volontà, cioè, di non
compromettersi nella lotta parlamentare), quanto, piuttosto, perché la
riteneva controproducente sul piano tattico. «I fascisti — disse Gioda —
hanno accettato anche la lotta schedaiuola per rintuzzare, ovunque e
comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali dei socialisti ufficiali». Si
noti che, nel testo originale autografo del discorso di Gioda, la parola
anche è sottolineata, a evidenziare il carattere strumentale attribuito
dallo stesso Gioda alla battaglia elettorale fascista. ACS, MRF,
Esposizione, Busta[Documenti]. Il Fascio — commentava a questo riguardo
Gioda — non ha potuto far blocco con l’Unione Socialista Italiana, cioè
con i bissolatiani, non tanto per divergenze programmatiche, quanto per
la diffidenza di questi ultimi verso i nazionalisti ed anche perché la USI
vorrebbe impostare la campagna elettorale “prescindendo”
dall’interventismo e dal neutralismo. GIODA, /nsinuazioni gesuitiche dei
socialisti rinunciatari contro i fascisti, «Il Popolo d’Italia). Il programma
elettorale del Blocco della Vittoria. Tra i postulati del programma elettorale
del “Blocco della Vittoria” figuravano: l’introduzione di una tassa sui
sovraprofitti di guerra, la riforma scolastica, quella del sistema
doganale (per abbattere «parassitismi e monopoli») e della burocrazia,
l’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità, la vecchiaia e la
disoccupazione, una riforma degli organi legislativi che garantisse «alla
classe lavoratrice [...] una diretta e specifica rappresentanza». nisticntiititnm parte
dei redattori del programma, “socialismo rivoluzionario” e “bolscevismo”.
Ora, i maggiori e migliori esponenti internazionali del socialismo
rivoluzionario sono antibolscevichi per eccellenza. Gli interventisti
italiani della prima ora, da Cipriani a Corridoni a De Ambris, sorsero
appunto dalle file del socialismo rivoluzionario. Le elezioni del 16
novembre videro, come noto, la sonora sconfitta dei fascisti. A Torino
risultarono eletti nelle file del “Blocco della Vittoria” i soli Bevione
e Boselli; primo dei fascisti in ordine di preferenze riuscì Vecchi, seguito da
Etna, Revelli e Garino. Rispetto alla vera e propria débacle registrata
dal fascismo in altre parti d’Italia, non si trattava di un esito
disastroso, ma occorre tener presente che i fascisti in quanto tali non
ottennero alcunché (Bevione e Boselli, anzi, finirono per entrare nel
gruppo parlamentare giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle
urne, sottolineava il rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva
di «brillante risultato»**, ma si trattava di un mero artificio tattico,
0, se vogliamo, di una ben magra consolazione . su In verità,
la sconfitta bruciava e fu anzi l’occasione per un chiarimento
all’interno del Fascio di Torino. Si riunì l'assemblea generale dei
fascisti torinesi. Gli operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo Ruggeri,
spalleggiati da Gioda, criticarono l’involuzione conservatrice del
Fascio, sostenendo la necessità di un più stretto rapporto con i lavoratori
delle fabbriche??. Riguardo all’alleanza con le destre, Gioda dichiara Per
l’esattezza, il “Blocco della Vittoria” riporta 23.321 voti, contro i 116.409
dei socialisti unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista
giolittiana dell’Aratro, i 10.093 del Partito Economico, i 6.547
dell’Alleanza Elettorale, e i 1.642 del Partito Agrario. Per un quadro
esauriente dei risultati elettorali nel capoluogo piemontese v. «La Stampa». GIODA,
/ risultati elettorali ottenuti dal Fascio di Torino, «Il Popolo d’Italia»,
28 novembre 1919. #5 Cfr. «Il Fascio», 20 dicembre 1919. Mi
l Pilo Ruggeri, che aveva militato nelle file della USI, era un tipico
rappresentante dell ala operaista del fascismo. Quali fossero le sue
convinzioni è ben testimoniato da un suo discorso al Teatro di Pinerolo,
innanzi a una platea composta per lo più di socialisti. Nel suo
intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare l'essenza rivoluzionaria
e proletaria del programma fascista, evidenziandone le differenze ma
anche le affinità con quello socialista, in ciò rivelando il timore —
comune anche a molti altri fascisti - che una troppo accentuata politica
antisocialista potesse condurre all’isolamento del movimento fascista
dalle masse. E’ significativo del clima politico di quei giorni che, nonostante
le aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio si fosse concluso con
gravi incidenti tra fascisti Io stesso propugnai i blocchi a larga base,
ma credo che oggidì occorra molta, ma molta circospezione prima di
avventurarsi ancora in altri blocchi, se non vogliamo [...] negare sempre
la nostra giovinezza d’idee e la nostra combattività a beneficio dei
vecchi partiti e dei vecchi loro rappresentanti. Nella nuova Commissione
Esecutiva del Fascio, eletta subito dopo, entrarono quattro operai (oltre
a Lelli e Ruggeri, Cantinetto e Giraudo) L’allargamento della base del Fascio -
come auspicava Gioda (che fu riconfermato segretario politico) - avrebbe
dovuto favorire la ripresa, in vista di «nuovi cimenti» e di «più
gagliarde lotte politiche e sociali»**. Tuttavia, la decisione di
recuperare spazio e credibilità a sinistra restò senza seguito. L’assenza
di una base reale tra i lavoratori (a fronte di un movimento operaio
forte e, a Torino più che altrove, schierato su posizioni di avanguardia),
le irrisolte contraddizioni della politica fascista - rese ancor più
stridenti dalla nascita e dalla diffusione del fascismo agrario - e le
resistenze della destra interna, determinarono la sconfitta (ma sarebbe
più opportuno parlare di mancata realizzazione) di questo progetto. Nella
prima metà del 1920 il fascismo torinese attraversò quindi una fase di
ristagno, per non dire di vera e propria crisi, che parve poterne
compromettere le sorti”, tanto che l’unico successo ottenuto da Gioda in
questi mesi fu la costituzione, accanto al Fascio, di una “Avanguardia
Studentesca”, In occasione di una nuova assemblea generale dei fascisti
torinesi, nel maggio, Gioda pronunziò un importante discorso, che,
sebbene non si discostasse granché da quanto egli professava fin dal
1915, lasciava presagire un nuovo mutamento di prospettiva politica, nel
senso di un’attenuazione delle velleità operaiste. L’insuccesso della
linea di sinistra propugnata da Gioda e il prevalere, in seno al
movimento fascista nazionale, di un indirizzo e socialisti. Cfr. ACS,
MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta
112 [Fascio di Torino]. 80 «Il Fascio», cit. n Cfr. «Il Popolo
d’Italia», 25 dicembre 1919. Di GiODA, Un appello ai fascisti torinesi,
Ivi. AI riguardo v. EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss. 2 bt
“Avanguardia Studentesca” torinese, nata alla fine di aprile del 1920, era
presieduta dallo studente d’ingegneria e mutilato di guerra Carmelo
Cimino, già membro della nuova Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. «Il
Fascio. Sul fenomeno delle avanguardie studentesche e, in generale, sui
rapporti tra fascismo e associazionismo giovanile, l’opera più
circostanziata rimane quella di NELLO, L'avanguardismo giovanile alle
origini del fascismo, Roma-Bari, Laterza marcatamente reazionario, limitavano
del resto i margini di manovra del fascismo torinese. Ancora nell’aprile,
in risposta della grande agitazione dei metallurgici (il cosiddetto
“sciopero delle lancette”), un manifestino del Fascio, vergato a mano da
Gioda, invitava gli operai torinesi a rinnegare il bolscevismo - che
aveva corrotto «l’idea socialista di giustizia e di libertà» -, per
stringersi fiduciosi intorno ai fascisti, i quali «erano per le più
ardite riforme e le più audaci rivendicazioni dei lavoratori», purché
queste non significassero «la rovina e il sabotaggio degli interessi
della Nazione»?!. Nel discorso del maggio l’accento si spostò
(mazzinianamente, potremmo dire) dal piano dei diritti a quello dei
doveri del proletariato, con un’accentuazione dei temi più strettamente
produttivistici. I fascisti — dice Gioda — sono delle volontà e delle
capacità che seguono direttive senza dogmi e senza battesimi politici. Per
questo sono, all’occorrenza, rivoluzionari e conservatori. Vogliamo tutti
i diritti rivendicati al popolo lavoratore, se questo sa assolvere tutti
i suoi doveri. Un proletariato educato solo al culto del bel vivere è una
bestia da soma che qualsiasi governo o classe capitalistica o chiesa politica
possono asservire. La questione del proletariato, invece, è un altra cosa. E’
una questione innanzitutto di capacità, all’infuori delle ciance
rivoluzionarie e parlamentari. E” una questione di volontà superiori
maturate attraverso l’esperienza produttiva di tutte le energie
nazionali”? Gioda prese parte al secondo congresso nazionale
fascista, che si riunì a Milano, quello della svolta a destra e
della °! ACS, MRF, Esposizione, Busta [Documenti]. Il Fascio,
cit. Il dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in
parte dal suo passato anarchico e repubblicano, e le ragioni del
compromesso (senza però tralasciare di considerare che la disinvoltura
programmatica era un aspetto non secondario del cosiddetto problemismo
fascista), accompagnò tutta l’opera di Gioda. Durante l’adunata provinciale dei
Fasci piemontesi, ch’ebbe luogo a Torino il 27 febbraio 1921, Gioda,
commentando la relazione di Umberto Pasella sulla questione sindacale,
difese il principio, in essa affermato, della legittimità dello sciopero
economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte, «un
cattivo padrone e un pessimo amministratore». 1 Fasci di combattimento, per
Gioda, non dovevano essere «organizzazioni di guardie bianche o comitati
di difesa civile» e avevano il dovere di battersi per qualsivoglia
riforma, «sia pur audace», quando essa avesse arrecato beneficio ai
lavoratori, nel rispetto degli interessi generali. Riprendendo un concetto
caro all’ala sindacalista del fascismo, il segretario del Fascio torinese
auspicò la trasformazione del movimento politico e sindacale fascista in
un unico “partito del lavoro”. ACS, MRF, Esposizione, Busta [Documenti].
Sui presupposti ideologici del “partito del lavoro”, €, più in generale, sugli
orientamenti “laburisti” all’interno del fascismo. GENTILE., e soprattutto
NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader fascista, Bologna, Il
Mulino, conseguente trasformazione del movimento”. D’altro canto, l’ingresso
di Gioda nel Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di De
Vecchi, rappresentò - come ha sottolineato Felice - l’unico
successo dell’ala sinistra del fascismo”. Al riconoscimento di Gioda sul
piano nazionale non corrispose però il rafforzamento della sua
leadership nell’ambito del fascismo torinese. Alla fine di luglio, anzi,
le elezioni per il rinnovo della Commissione Esecutiva del Fascio videro
la netta affermazione della destra’””. De Vecchi, chiamato a presiedere
la Commissione, accrebbe sensibilmente il proprio prestigio e la propria
influenza, mentre i primi sintomi di una grave malattia costringevano
Gioda a forzati periodi di assenza dalla scena politica cittadina. Da
questo momento, insieme al progressivo dilagare dello squadrismo, di cui
Vecchi seppe essere un abile manovratore, il Fascio di Torino riprese la
sua espansione’. Gioda, dal canto suo, recuperò il proprio ruolo soltanto
a I nuovi “Postulati” programmatici del movimento fascista,
approvati a Milano, modificavano radicalmente — in senso conservatore -
il programma fascista. Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale
antimonarchica e la richiesta dell’assemblea costituente (l’anarchico
Ghetti, rappresentante del Fascio di La Spezia, fu tra i pochi a
pronunciarsi per la repubblica). In polemica con il nuovo corso del
fascismo, Marinetti e il gruppo dei futuristi abbandonano il
movimento. Per il resoconto del congresso v. «Il Popolo d’Italia», e «Il
Fascio. Sull’intera vicenda v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario Cfr. «Il
Fascio». Il ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro favorito dalla nuova
crisi che colse il fascismo torinese nella tarda primavera del 1920. Il
12 giugno si era riunita un’assemblea straordinaria del Fascio per
decidere circa l’atteggiamento da assumere di fronte alla crisi di
governo. Caduto il secondo gabinetto Nitti, si prospettava infatti
l’eventualità di un esecutivo affidato a Giolitti: una soluzione che
trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso dell’assemblea, che
raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente contrario a ogni
intesa con i giolittiani, definendo «un’ingiuria alla nazione vittoriosa» il
rientro sulla scena nazionale dell’uomo politico di Dronero, e
minacciando addirittura di dimettersi qualora i fascisti di Torino
avessero dato il loro assenso alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata
assemblea generale del Fascio di Combattimento di Torino Un ordine del giorno
contro Giolitti, «Il Fascio). Di fronte alle resistenze incontrate
all’interno del Fascio e, soprattutto, di froni. alla risolutezza dei
vertici del movimento, decisi a perseguire l’accordo con Giolitti, Gioda
si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilità di
affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si decise a
convocare la nuova assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo
della Commissione Esecutiva. Su questi avvenimenti v. MANA. Con
l’occupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le
violenze fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del
settembre contribuirono a legare il fascismo torinese agli ambienti del
grande capitale (che si erano visti minacciare nei setter
cirrretricdatietnttittztt sac , allorché assunse la direzione del
nuovo settimanale del fascismo torinese: «Il Maglio»””. Rocca: il
fascismo come nuova élite AI congresso fascista di Milano
assistette anche Massimo Rocca. Le sue conclusioni non dovettero
dispiacergli, se è vero - come ha lasciato scritto - che egli non si era
entusiasmato all’originario programma sansepolcrista, giudicandolo troppo
«impeciato di socialismo. Ma Rocca, sia pur attento osservatore delle
traversie del fascismo, era ancora prevalentemente un giornalista. Inizia
le pubblicazioni la rivista settimanale «Il Risorgimento». L’intendimento
della redazione, guidata dal conte Arrivabene, ex direttore de «La
Perseveranza», era chiaro: occupare lo spazio lasciato vuoto dal vecchio
quotidiano milanese dopo la sua conversione al “nittismo”, fare un
giornale che riflettesse le idee e le aspirazioni della borghesia
conservatrice. Poiché Rocca ne divenne uno dei più continui e più stimati
collaboratori, le credenziali dell’ex novatore anarchico quale neofita
del liberalismo ne uscirono senz'altro irrobustite. Sulle pagine de «Il
Risorgimento» Rocca riprese la polemica adriatica. E’ indispensabile
ritornare sull’argomento, perché fu proprio su tale delicata questione
che si venne realizzando l’incontro definitivo tra Rocca e Mussolini.
Inizialmente, Rocca parve non recedere dalla sua intransigenza, scagliandosi
contro la «Lissa diplomatica», cui, a suo parere, la politica dei
rinunciatari avrebbe condotto il Paese”. Quasi nello stesso tempo,
tuttavia, prese ad emergere, dai suoi scritti, una posizione diversa, più
conciliante e realistica. Di fronte alle mille difficoltà frapposte dagli
Alleati e dalla Jugoslavia alle rivendicazioni italiane, Rocca si
persuase che la sola via loro interessi e non si sentivano adeguatamente
tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul iano dei finanziamenti e del
sostegno politico e organizzativo. «Il Maglio», fondato dal capitano Pietro
Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel gennaio, evolvendo
dal quotidiano «La Patria», un foglio interventista vicino ai
nazionalisti. Per l’esattezza, Gioda ne ereditò la direzione a
partire dal sesto numero, inaugurando la rubrica “Senza guanti”
(che usava firmare con il vecchio pseudonimo l’Amico di Vautrin), una
finestra polemica sulla realtà nazionale e cittadina che lo vide impegnato in
schermaglie a distanza con la stampa avversaria, in particolare con
«Ordine Nuovo», organo del PCdI torinese. 9 Massimo
Rocca, Come il ‘fascismo divenne una dittatura TANCREDI, La lingua nostra, «Il
Risorgimento», Milano, d’uscita fosse quella dell’applicazione integrale
del patto di Londra del 1915. Consapevole che ciò sarebbe equivalso a
rinunciare a Fiume, Rocca (che pure aveva avuto una breve esperienza come
legionario dannunziano) !° si disse convinto che la città, «confinante
con un'Italia signora del Carso, delle Alpi Giulie, dell’Istria e dell’
Adriatico», si sarebbe sentita «infinitamente più forte», che se fosse
stata abbandonata, senza continuità territoriale, «ad una larva di
sovranità italiana»'”. Dopo l’avvenuta autoproclamazione di Fiume in stato
indipendente, Rocca si rafforzò nella convinzione che l’Italia non
dovesse legare i propri destini a quelli della città “martire”. In un articolo
gli elogi di prammatica al coraggio e alla “fede” della popolazione
fiumana non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano d’Annunzio. Noi
- scrive Rocca - rimaniamo convinti e tenaci fautori dell’annessione di
Fiume all’Italia. Ma non abbiamo mai nascosto ai fiumani che, oggi,
l’Italia non può contemporaneamente annettere la città del Quarnaro e
realizzare il Patto di Londra: anzi, che nella nostra lotta diplomatica
in difesa dell’ Adriatico e contro gli Alleati, l’eroica passione di
Fiume è più d’impaccio che d’aiuto. Il giudizio lusinghiero riservato da Rocca
alla Carta del Carnaro (contemplante in effetti alcune delle soluzioni da
lui stesso auspicate sul piano dell’ordinamento politico), non ne
scalfiva l’opinione che la reggenza dannunziana costituisse un serio
ostacolo alle aspirazioni internazionali dell’Italia. L’ambizioso
esperimento fiumano era, in ogni caso, votato al fallimento. Il Trattato
di Rapallo, stipulato 100 a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi Rocca, giunto a Fiume
subito dopo la “marcia di Ronchi”, vi era rimasto per circa tre mesi,
durante i quali aveva gestito l’ufficio di propaganda estera di
D’Annunzio. A Fiume si erano ritrovati anche altri anarchici
interventisti, fra i quali Mazzucato e Malusardi. !°! LiBeRO
TANCREDI, La sfîda di Nitti, «Il Risorgimento», 20 maggio 1920. !°2
Ip., L'Adriatico e l'Europa. In particolare, Rocca disse di apprezzare che
nella carta dannunziana (redatta d’Ambris e messa in bello stile d’Annunzio)
fosse sancito il dovere di produrre, quale requisito fondamentale per il
godimento dei diritti politici. A parte questo, egli condivideva
l’abolizione del Senato e l’istituzione di un camera tecnica, espressione
delle diverse corporazioni professionali. Le corporazioni, secondo Rocca,
erano «l'istituto fondamentale», il solo in grado di «raccogliere e
disciplinare» le masse e di dar loro «una norma e un’idea». (ID., La
costituzione di Fiume). Nondimeno, al di là delle convergenze formali, il
produttivismo meritocratico e sostanzialmente conservatore di Massimo
Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo integrale deambrisiano.
Sulla costituzione fiumana si veda La Carta del Carnaro nei testi d’Ambris
e d'Annunzio, a cura di Felice, Bologna, Il Mulino, eli ita tra l’Italia e
la Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse un duro colpo alle
velleità indipendentiste del “comandante”. In due suoi interventi su «Il
Popolo d’Italia», scritti a ridosso dell’accordo italo-jugoslavo,
Mussolini mostrò di accettare sostanzialmente l’esito dei negoziati!”. Si
trattava di una mossa a sorpresa, spregiudicata, frutto di un preciso
calcolo politico (in questo modo il “duce” avrebbe realizzato «il suo
inserimento nel gioco politico-parlamentare a livello nazionale») ', che
disorientò la maggior parte dei fascisti ma trovò consenziente Massimo
Rocca. Il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento si riunì per
discutere della questione. Rocca, presente come semplice osservatore (e
perciò senza diritto di voto), si schierò apertamente dalla parte di
Mussolini, imitato dal solo Rossi. Il Trattato di Rapallo - dice Rocca -
risolveva il problema adriatico dal lato di terra, mentre lasciava
insoluta la questione dell’ Adriatico centrale e meridionale. Riguardo a
quest’ultimo punto, il suo parere era che i fascisti dovessero far buon viso
a cattiva sorte, senza perdersi in uno sterile massimalismo e soprattutto
senza assecondare improbabili disegni di sedizione militare. Non si
trattava - sostenne ancora Rocca riecheggiando le tesi espresse negli
articoli di Mussolini!” - solo di una ragione di opportunità, in quanto
«il problema marittimo per l’Italia non si fermava all’ Adriatico», ed
era quindi uno sbaglio ostinarsi a considerare Fiume e la costa Dalmata
come l’unico obiettivo. Occorreva guardare oltre, avere una visione più
ampia dei problemi di politica estera. O noi — concluse
Rocca con una provocazione - riusciamo ad essere i padroni d’Italia e
facciamo la politica interna ed esterna che ci piace, oppure
persuadiamoci che impiantare una politica estera armata accanto a quella
ufficiale, senza essere capaci di annullare quella ufficiale, potrebbe
forse essere un male gravissimo MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, «Il
Popolo d’Italia», 12 novembre 1920, e Ciò che rimane e ciò che verrà,
. Su questi fatti v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. Gioda,
che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto ammalato e
fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei Fasci italiani di
combattimento. Il Fascismo innalza la bandiera della Dalmazia Italiana,
«Il Popolo d’Italia», Gli italiani — scrive Mussolini nel suo fondo — non devono ipnotizzarsi
sull’Adriatico. C'è anche — se non ci inganniamo — un vasto mare di cui
l'Adriatico è un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le
possibilità vive dell’espansione italiana sono fortissime. La discussione
e il voto dei Fasci italiani di combattimento, cit. Dopo accese
discussioni, la riunione terminò con l’approvazione di un ordine del
giorno unitario, largamente compromissorio, che, se «snaturava
completamente la primitiva mozione di Mussolini»! apparendo come un
successo della corrente filo-dannunziana, in realtà non andava oltre una
generica dichiarazione di solidarietà a D'Annunzio e non comprometteva
affatto la strategia del duce, come gli avvenimenti delle settimane
successive, culminati con il non intervento fascista in occasione del
“Natale di sangue”, avrebbero ampiamente dimostrato. Il giorno dopo la
riunione del Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini di non aver
votato contro l’ordine del giorno (come aveva fatto Rossi) solo in quanto
non ne aveva «legalmente» diritto, riconfermando la propria solidarietà
al duce. Da quel giorno Rocca entra a pieno titolo nei ranghi del fascismo.
Non soltanto, infatti, riprese la collaborazione con «Il Popolo d’Italia»
(per il momento continuando ad occuparsi del problema adriatico,
sempre nell’ottica mussoliniana) !'?, ma iniziò l’ascesa politica che,
nel giro di pochi mesi, lo avrebbe portato ai vertici del movimento.
D'altronde, le idee di Rocca si rispecchiavano ormai in gran parte nella
nuova fisionomia assunta dal fascismo all’indomani del congresso di
Milano. Col tempo, infatti, egli era andato sviluppando posizioni sempre
più conservatrici. Nella sua riflessione, le ragioni immediate del difficile
momento politico ed economico attraversato dall’Italia andavano
rintracciate, oltre che nell’ignavia e nell’incapacità dei suoi
governanti, nell’irresponsabilità delle classi operaie. Queste, incapaci
di assolvere ai propri doveri e dedite allo sperpero, erano schiave di un
socialismo degenere, alfiere di un «gaudentismo sfarzoso e
gastronomico»"!. Da qui - secondo Rocca - il dilagare degli
scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole manovre politiche che
mettevano a repentaglio l’integrità della produzione. A fronte di tutto
questo, una borghesia laboriosa, avente «il dovere di resistere e di
FELICE, Mussolini il rivoluzionario 1 ’intesa italo-jugoslava - recita
l’ordine del giorno ispirato dalla destra fascista (Pietro Marsich, De
Vecchi, ecc.) - era «insufficiente per Fiume», nonché «deficiente ed
inaccettabile per la Dalmazia». !!! «Il Popolo d’Italia !2
gi vedano, in modo particolare, gli articoli Dopo Rapallo. Il problema
terrestre e quello marittimo, e Il trattato di Rapallo, pubblicati dal
giornale di Mussolini il 18 e il 25 novembre 1920. Questi e altri scritti
di analogo contenuto furono raccolti da Rocca in un volume dal titolo //
trattato di Rapallo: una pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano
nell’estate del 1921 per le edizioni de «Il Popolo d’Italia».
!!3 Massimo Rocca, La crisi maggiore, «Il Risorgimento Gli articoli
citati facevano parte delle rubrica “Pagine economiche”, di cui Rocca è
il principale curatore. vincere»"!, ma troppo spesso
paralizzata dalla bassezza dei ceti dirigenti, burocratici e parassitari,
assolutamente non in grado di comprendere «i fenomeni sociali ed
economici del regime capitalistico industriale»!!5. Il nodo ultimo della
crisi italiana risiedeva pertanto, a detta di Rocca, «nella perdurante e
anacronistica separazione netta fra la casta burocratica e la classe
borghese, e nella sopraffazione della prima sulla seconda, mentre
l’economia andava sempre più controllando la politica, fino ad imprimerle
le sue necessità e direttive» '!°. A questo stato di cose occorreva
rispondere con la «rivoluzione della competenza»: la rivoluzione della
classe borghese. La borghesia produttiva, la sola capace di gestire «con
criteri tecnico- produttivi» tanto il potere economico quanto il potere
politico, aveva l’obbligo morale di realizzare «un rivolgimento
aristocratico» della società italiana. Solo così, contro ogni utopia
egalitaria, le leve del comando effettivo sarebbero tornate in mano «ai
migliori, anziché ai molti, ai capaci e ai competenti». Alla borghesia,
finalmente consapevole della propria autorità, sarebbe spettato il
compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in questo processo la parte
migliore e più responsabile del proletariato”. In attesa che ciò
avvenisse, Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a suo modo di
vedere, avrebbero dovuto correggere le storture del sistema economico, a
cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. «Se si vuole che
si lavori — scriveva Rocca - bisogna tornare allo stimolo dell’interesse
e del puntiglio individuale, alla precisione ed all’accrescimento delle
responsabilità singole, a misura che i diritti e gli stipendi aumentano;
all’abolizione radicale dei privilegi di cui godono i funzionari
pubblici»!!8, Dopo l’occupazione delle fabbriche, Rocca giunse a
invocare ferree misure “draconiane” contro gli eccessi del
bolscevismo!"°. Il primo obiettivo di un governo che avesse a cuore
le sorti della nazione doveva essere quello di reintegrare «il pieno
dominio della legge», senza indulgere a pietismi TANCREDI,
Scioperi politici. L'articolo in questione fu scritto da Rocca a seguito della
vertenza dei metallurgici torinesi. ROCCA, La crisi maggiore, ID., La
disperazione dei servizi pubblici, si In seguito, Rocca tornò più di una
volta sulla convenienza di restituire ai privati l’esercizio dei servizi
essenziali (si veda, a titolo di esempio, l’articolo / servizi che non servono
il pubblico). La privatizzazione avrebbe costituito uno dei cardini
del programma economico fascista, elaborato da Rocca con Corgini. Cfr, ID., La
vertenza dei metallurgici, democratici. Come si rileva da un articolo Rocca
pensa a una qualche forma di “dittatura”; a «un uomo nuovo», che avesse
già fornito prova di «volontà e di giustizia», il quale avrebbe potuto
far cessare l’orgia di tutti i disordini. Non è chiaro se egli si
riferisse direttamente a Mussolini, ma è molto probabile. E’ comunque
significativo - come si evince da quello stesso articolo - che Rocca
ritene l’assunzione dei pieni poteri una soluzione eccezionale, destinata
a rientrare una volta passata l’emergenza bolscevica. Allo stesso modo
egli giustificava lo squadrismo, ma solo in quanto strumento temporaneo
dell’azione politica fascista, utile a frenare le prepotenze e le
intemperanze dei rossi, Quando la violenza fosse diventata la
consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non avrebbe indugiato - come
fece - nello schierarsi anche contro l’estremismo squadristico, in difesa
della legalità. Non riteniamo esservi contraddizione nel diverso
atteggiamento - di legittimazione e di condanna - assunto da Rocca nei
confronti dello squadrismo prima e dopo la “marcia su Roma”. Certamente,
egli non seppe o non volle vedere la gratuità e la scelleratezza delle
violenze fasciste del periodo “eroico”, e, in senso più ampio, che quelle
violenze erano il frutto di una visione totalitaria della lotta politica,
visione connaturata all’essenza stessa del fascismo, che nello squadrismo
(e prima ancora nella mentalità squadristica, esprimente non soltanto un
disegno rivoluzionario ma, spesso, un ri verso la vita in generale)
aveva il proprio stile politico qualificante‘; ma occorre tener presente
che Rocca si poneva, appunto, dall’angolo visuale del fascismo, vale a
dire da una prospettiva di parte, prigioniero di quella che potremmo
definire sindrome da guerra civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che
la violenza delle camicie nere fosse la risposta più che legittima alla
violenza antinazionale dei i Ip., Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare),
Ibidem, 21 ottobre 1920. In un commento a margine dell’assalto a Palazzo
D’Accursio guidato dalla sua ex guardia del corpo Arpinati, Rocca
espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo squadrismo. «I
fascisti — scrisse — costituiscono oggi un comodo paravento per scusare
alle masse l’inanità anche della violenza [...]. E costituiscono anche un
pietoso alibi per giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al
codice penale non ancora abolito, una propaganda ed un’azione da veri
delinquenti. Ma è troppo noto che, senza i fascisti, la violenza delle
masse abbrutite ad arte si scatenerebbe più indisturbata e non meno
atroce» (Ip., Bologna, Sulla violenza come aspetto caratterizzante della cultura
e dell’azione politica fascista v. il fascicolo n. 6, 1982, di «Storia
Contemporanea», per la maggior parte dedicato all’argomento,
particolarmente il saggio di NELLO, La violenza fascista ovvero dello
squadrismo nazionalrivoluzionario, Dello stesso autore v. anche le
riflessioni in merito contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini
del fascismo, cit., e Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di
Pisa, Pisa, Giardini, “pussisti”. Ciò non toglie che egli, dopo l’ascesa
al potere di Mussolini, reputando esser venute meno, con la sconfitta dei
socialcomunisti, le ragioni dello squadrismo, fosse in buona fede nel
denunciare il perdurare dell’illegalità fascista. Rocca consolida
la sua già rilevante posizione all’interno del movimento fascista. Un suo
articolo in difesa della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il
giornale di Mussolini, contribuì a rinfocolare il dibattito circa
l’orientamento istituzionale del fascismo. I fascisti - sostenne Rocca -
dovevano schierarsi a tutela dell’istituto monarchico, non solo per
motivi di opportunità strategica (una rivoluzione repubblicana avrebbe
infatti rimesso in gioco le forze del sovversivismo, a tutto danno degli
equilibri interni del Paese e del fascismo stesso), ma anche in ossequio
a più complesse valutazioni politiche (monarchico di ragionamento, si
autodefine Rocca molti anni dopo) 1a, che investivano l’intero assetto
della realtà nazionale. La società economica e politica che va sotto
l’appellativo convenzionale di borghese - scrive Rocca - si è capovolta
nel suo contenuto produttivo ed ideologico. Economicamente essa è
sindacalista e non più individualista: tanto che l’economia tende ad
assorbire la politica, compresa quella estera. Se una rivoluzione è
matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e non di rissa da
arena diurna, è quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di
forza se divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed
operai, e gli organismi sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai
politicanti, ai demagoghi. La funzione dei Parlamenti è oggi totalmente
diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi erano le
rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove é/ites in cui
il popolo rispecchiava se stesso. Oggi il Parlamento [...] è diventato
pur esso una casta chiusa [...] non meno delle più diffamate monarchie. E
allora resta da chiedersi se alle minoranze giovani e volitive della
Nazione convenga meglio aver di fronte una sola casta, quella parlamentare,
o non sia meglio averne due, cioè anche quella monarchica, per usare
dell’una qual mezzo di controllo e di pressione sull'altra. ROCCA, La
realtà italiana, «ABC. ALTAVILLA, Repubblica e monarchia, «Il Popolo
d’Italia» (anche in ROCCA, /dee sul fascismo). L'articolo di Rocca,
scritto in forma di lettera a Mussolini, fa parte della rubrica
“Orientamenti e discussioni”, inaugurata da «Il Popolo d’Italia» in previsione
delle adunate regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato
Centrale del movimento nel gennaio, avrebbero dovuto fare il punto sullo
stato del fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee orientative
dell’azione politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su
cui era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre,
curate rispettivamente da Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e
Pasella, concernevano il problema agrario, i A prescindere dai cenni di
natura tecnico-politica, ciò che ancora una volta emergeva da queste
frasi era il contenuto fortemente elitario della riflessione di Rocca.
Non deve perciò stupire più di tanto il fatto che egli, dopo aver
rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente,
riscoprisse il carattere “esclusivo” della tradizione monarchica (così
come, più tardi, avrebbe riscoperto l’importanza etica del cattolicesimo)
Del resto, in un articolo dello stesso periodo, ricco d’implicazioni
psicologiche e di riferimenti autobiografici più o meno espliciti, Rocca
espresse il convincimento che «l'elevazione umana fosse sempre un
fenomeno parziale, d’individui singoli o di piccoli gruppi», e che
«l’ascesa e l'emancipazione, come la istruzione, fossero sempre, e per
nove decimi, un’auto-ascesa, un’auto-emancipazione, un auto-insegnamento.
Era dunque necessario - chiude Rocca (con parole dalle quali traluceva in
modo inequivocabile la matrice individualista della sua cultura politica)
- “tornare agli individui” e farla finita una volta per sempre con il
culto demagogico della massa. Malusardi: il mito del fascismo
libertario” Il 1921 vide inoltre l’ingresso nelle fila fasciste di
Malusardi. Conclusa una breve militanza nell’ Associazione Nazionale
Combattenti!?”, rapporti con lo stato, la politica estera e il movimento
sindacale), costituiva uno dei punti chiave del dibattito interno. La
riunione dei Fasci lombardi, cui prese parte anche Rocca, ebbe luogo al
Teatro Lirico di Milano il 20 febbraio (cfr. La grandiosa adunata lombarda dei
Fasci “ i combattimento, «Il Popolo d’Italia. ROCCA, Una questione da non
risolvere, «Il Risorgimento», 14 luglio 1921. La questione
menzionata nel titolo era quella “romana”, che Rocca riteneva non dovesse
essere risolta, nell’interesse d’Italia e dello stesso papato, altrimenti destinato
a smarrire il proprio carattere di universalità. L’articolo conteneva un
giudizio altamente positivo della «funzione storica e persino politica»
del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la Chiesa e la dottrina
cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire. E’ probabile che
quest’interesse fosse da attribuirsi ad un’autentica conversione
personale; tuttavia, come vedremo meglio in seguito, Rocca pare interessato
al cattolicesimo più e altro come a un elemento di autorità e di
disciplina interiore. te ID., Quarto e quinto stato. La seconda parte di
questo lungo articolo comparve sul numero successivo della rivista, il 3
marzo. In esso Rocca ribadiva l’idea che fosse doveroso, oltre che utile,
“educare” il proletariato, così da poterne estrarre un nucleo scelto,
un’é/ite responsabile in grado di cooperare con la borghesia alla
gestione della produzione. Spintovi dalla passione trincerista, Malusardi
adere entusiasticamente all’ ANC (per qualche tempo ricoprendo la carica
di redattore capo de «L'Eco della Vittoria», organo della sezione monzese
di quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al Congresso
nazionale di Napoli perché contrario ai ventilati propositi di
trasformazione Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con
«Il Fascio» e (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale)
una altrettanto frammentaria attività di propagandista per conto del
Comitato Centrale fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove era
stato designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa
anche quell’esperienza Malusardi giunse a Verona, chiamatovi da Italo
Bresciani, segretario politico del locale Fascio di combattimento (nonché
ex anarcointerventista) '’’, noto per rappresentare l’ala di estrema
sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e apprezzava le
doti di organizzatore di Malusardi, gli affidò l’incarico di segretario
propagandista del Fascio. La scelta si rivelò azzeccata, poichè
l’anarchico lodigiano riuscì ad imprimere al fascismo veronese non solo
un maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilità politica. Come
prima cosa Malusardi dette vita a un giornale («Audacia»), che
doveva immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero,
contribuendo al graduale inserimento del Fascio nella realtà scaligera.
Egli, in particolare, vi affinò le proprie qualità giornalistiche,
rispolverando tra l’altro una rubrica dei tempi de «La Guerra Sociale»
(“Foglie d’ortica”), che divenne un punto di riferimento importante nella
dialettica politica cittadina. Come si è detto, Malusardi proveniva da
Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla fede repubblicana e
a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni libertarie,
retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la Carta del
Carnaro e il sindacalismo nazionale di Corridoni — il suo compagno di trincea -
e Alceste De Ambris. Nel Fascio veronese, dell’Associazione in partito. A
parte i suoi articoli per «L’Eco della Vittoria», per lo più improntati
al tema dell’apoliticità del movimento combattentistico, l’attività di
Malusardi in seno all’ ANC non è agevolmente documentabile.
28 Anche sulle date dell’arrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume
vi è incertezza. «Il Fascio» riporta un «avviso ai Segretari e Fiduciari
dei Fasci e delle Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di
corrispondere con la Segreteria Politica», annunciando che Malusardi non
ricopriva più l’incarico di segretario propagandista del Comitato
Centrale, in quanto, già da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella
città “olocausta” Malusardi diresse altresì il foglio sindacalista «La
Conquista», del quale non ci è stato possibile reperire una collezione
(lo stesso Felice, dal cui Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel
carteggio De Ambris-D'Annunzio traiamo questa informazione, cita da fonte
indiretta). n Bresciani, classe 1890, già convinto militante
anarchico, è fra i promotori del Fascio veronese di azione
internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta [Bresciani]. Cenni alla formazione
sindacalista di Malusardi si trovano in MALUSARDI, Elementi di storia del
sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico
Commerciale, PIPTREIPPRRA \PPPTPOT” VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE
PP decisamente orientato a sinistra, Malusardi trovò l’ambiente ideale
per portare avanti le proprie idee. Si riunì a Venezia l’adunata
regionale dei Fasci del Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del
segretario generale del movimento Umberto Pasella e del vecchio compagno
Massimo Rocca, Malusardi ebbe modo di esporre il proprio programma.
Riguardo alla controversia repubblica/monarchia, egli formulò l’auspicio
che i fascisti si facessero portavoce di un «fiero atteggiamento antimonarchico».
La monarchia sabauda — affermò - aveva tradito in più di un’occasione:
prima della guerra perché favorevole al “parecchio” giolittiano, durante
perché colpevolmente “latitante”, dopo perché sostenitrice della politica
rinunciataria di “Cagoja” Nitti, a Fiume perché’ complice della
repressione sanguinosa dell’insurrezione dannunziana'”. Noi,
che siamo repubblicani e libertari — concluse Malusardi - in determinati
momenti avremmo, quando il governo non agiva e l’Italia sembrava essere gettata
nel caos, accettata anche una dittatura monarchica [...]. Ma quando una
monarchia esiste solo di nome ed avalla tutte le infamie che si
commettono nel suo nome, non è per noi che un anacronismo inutile e
ingombrante! AI termine della discussione, Malusardi e Bresciani
presentarono un ordine del giorno repubblicano, che raccolse però
soltanto nove voti (quanti erano i | delegati del Fascio
veronese), contro gli oltre venti ottenuti da una mozione Pasella,
rivendicante il carattere «antidogmatico e antipregiudiziale del
fascismo» in materia di regime. È sulla questione sindacale, cui egli era
particolarmente sensibile, che Malusardi ottenne i maggiori
riconoscimenti. In quei mesi il problema dell’organizzazione sindacale
era oggetto delle preoccupazioni della dirigenza fascista. Nel novembre
del 1920 era sorta infatti la Confederazione Italiana dei Sindacati
Economici” (CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati autonomi,
d’ispirazione fascista più o meno accentuata, operanti - come si usava dire
- sul terreno nazionale!*. Il nodo gordiano dell’intera vicenda, Per Ja
cronaca v. La grande adunata fascista di Venezia, «Audacia Si noti la
determinazione con cui Malusardi teneva a precisare l’essenza libertaria del
proprio fascismo Pi n toda re: 4 det H rado In
occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei ferrovieri, il
fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente anti-operaio. Poiché la
UIL, il sindacato interventista, aveva invece appoggiato gli scioperi, i
fascisti ritennero giunto il che avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi
del sindacalismo fascista, era se l’azione sindacale dovesse avere natura
politica oppure apolitica, vale a dire se i Sindacati Economici dovessero
agire in stretto accordo con i Fasci di combattimento, seguendone i
programmi e le direttive; 0, al contrario, se dovessero essere svincolati
dalla tutela del fascismo, liberi, perciò, di agire nel campo delle
rivendicazioni del lavoro con la più ampia autonomia. Nel suo intervento
al convegno veneziano, Pasella afferma che i fasci dovevano ostacolare
con ogni mezzo gli scioperi nei servizi pubblici. Malusardi - facendo
così intendere quale fosse il proprio pensiero riguardo ai Sindacati
Economici - gli oppose che le lotte del lavoro andavano valutate “caso per
caso”. Infatti — rileva -, se i fascisti avevano il dovere di contrastare
gli scioperi dichiaratamente politici, non dovevano però opporsi alle
legittime richieste dei lavoratori, quando questi reclamavano «un più
ampio diritto alla vita, e quando le loro aspirazioni potevano essere
armonizzate con «gli interessi superiori della Nazione. Le preoccupazioni
operaiste di Malusardi si rivelarono ancor più manifestamente allorché
egli dichiarò che, «quando i lavoratori avessero saputo dimostrare una capacità
tecnica intellettuale ed una preparazione morale superiore agli attuali
dirigenti delle fabbriche e delle officine», i fascisti (che non dovevano
essere «la guardia bianca di una classe, ma i difensori della Nazione»)
avrebbero dovuto riconoscere loro «il diritto di gestire direttamente il
frutto del proprio lavoro»!°. L'ordine del giorno votato dall’adunata
accolse le tesi di Malusardi, anche nella parte relativa agli scioperi
nel pubblico impiego, riguardo ai quali — recita - i fascisti, pur non
condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di prendere
posizione “volta per volta”, in base alle circostanze. Anche in materia di
politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze dalla linea
ufficiale del movimento. Egli, che era stato testimone del “Natale di
sangue”, non poteva ammettere che i fascisti avessero abbandonato
D'Annunzio al suo destino. Perciò, pur dichiarando -la propria stima a
Mussolini, Malusardi tenne a precisare di non indulgere ad alcuna forma
di momento di misurarsi direttamente nel campo
dell’organizzazione del lavoro. I nuclei sindacali fascisti trovarono il
loro modello in quelle formazioni indipendenti, per lo più di modeste
dimensioni, che, sorte numerose dopo la guerra, si proclamavano apolitiche. Il
primo sindacato autonomo di marca fascista, il Sindacato Economico
Ferrovieri, si formò a Roma il 16 febbraio, dalla fusione dell’
Associazione Movimentisti e del Fascio Ferrovieri. In ordine a questi
argomenti v. principalmente CORDOVA, Le origini dei sindacati fascisti,
Roma-Bari, Laterza, e ERFETTI, // sindacalismo fascista. Dalle origini
alla vigilia dello stato corporativo, Roma, Bonacci, La grande adunata fascista
di Venezia, feticismo» e non esitò a rimproverare al “duce” di aver
ingiustamente sacrificato Fiume sull’altare della ragion di stato”.
Le prese di posizione di Malusardi all’adunata di Venezia gli valsero
severe critiche da parte sia di Pasella, sia di Freddi (il
segretario generale delle Avanguardie studentesche), che gli
rimproverarono di fare della demagogia. In un fondo per «Audacia»
Malusardi, quasi lusingato di aver suscitato tanta apprensione nei piani
alti del fascismo, replicò ai suoi detrattori con queste parole:
Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E’ un
aggettivo che _ non mi spaventa, quando penso poi che dai su
citati è prodigalmente distribuito a tutti coloro che si permettono di
pensare con la propria testa Riaffiora - come si può notare - lo spirito
polemico che aveva contraddistinto il giovane anarchico nei giorni
dell’interventismo; riaffiora, soprattutto, l’orgoglio individualista, la
presunzione di sentirsi | fuori dal “gregge”, senza curarsi (ma
anzi compiacendosi) di essere tacciato come “eretico”. Pochi
giorni dopo le sue dichiarazioni su «Audacia», Malusardi è comunque indotto a
dimettersi dalla carica di segretario propagandista del Fascio di Verona.
L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi d’urgenza, respinse
all’unanimità le sue dimissioni". I fascisti | veronesi
apparivano compatti intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato di
dimostrarlo, già in occasione dell’appuntamento elettorale. Queste affermazioni
di Malusardi sul “feticcio” Mussolini rimandano significativamente a
quanto Rocca ebbe a scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e
il fascismo. «Per provare poi — annota Rocca - che non tutti i primi
fascisti erano mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che entrarono
nel movimento, quasi tutti, e che non furono pochi; io solo ne conosco
una trentina. La maggior parte si dedicò all’organizzazione operaia, come
Malusardi ed altri. Degli anarchici di cui mi ricordo nessuno è stato
squadrista, nessuno entrò nel partito dopo la marcia su Roma, parecchi
anzi si ritirarono prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di
gente disposta a servire la Patria o un’idea, ma non ad incensare
un uomo; la mentalità di questi anarchici era l’antitesi di quella dei
socialisti passati al fascismo. I primi non conoscevano
l’intransigenza settaria dei secondi: ma possedevano una coscienza morale
solida e indipendente» (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura MALUSARDI, /n margine all’adunata, «Audacia», cit.
L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia
al nostro direttore. Dalle elezioni alla “marcia su Roma Le
consultazioni generali, mercé l’inclusione dei Fasci di combattimento nei
cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono l’ingresso del fascismo nel
cuore della vita politica e parlamentare italiana. Una riunione straordinaria
del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche Mario Gioda) ratificò la
decisione — che Mussolini aveva preso già da tempo - di dar corpo ad
un'intesa elettorale con le altre forze “nazionali. Il giorno successivo,
a un’assemblea del Fascio milanese, Massimo Rocca difese la
legittimità di quella scelta. Non è colpa nostra — dice — se quei
perfetti reazionari che sono i socialisti e i comunisti malgrado il rosso
di cui s’incipriano, ci hanno imposto di scegliere fra l’Italia com’è,
con certe sue caste dirigenti e le incapacità e le brutture che ne
derivano, e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata
alla Russia. La nostra scelta è dunque doverosa, anche se non lieta:
salvare ad ogni costo, in qualunque modo l’Italia. Però sia ben chiaro
con questo che noi non rinunciamo a nulla delle nostre idee e del nostro
programma conservatore e rinnovatore nello stesso tempo. Soprattutto non
rinunciamo alla nostra lotta contro la proprietà e il capitale
improduttivo, quando è tale veramente e non secondo le ciarle dei
demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le forze produttive della
Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la burocrazia parassitaria [...] né
contro lo Stato a tipo puramente parlamentare-burocratico, incapace di
adempiere le funzioni di cui s’incarica, mentre lega le mani alle energie
private, individuali e collettive, capaci di esercitarle con utilità e
convenienza!‘ Del pari, a Torino, Gioda acconsentì a sostenere la
politica bloccarda, giustificando l’intesa elettorale tra fascismo e
liberalismo con l’esigenza di salvare l’Italia dal pericolo
bolscevico'‘”. Nondimeno, la formazione del Cfr. / Fasci di Combattimento
per la costituzione dei Blocchi Nazionali, «Il Popolo d’Italia Su questi
punti v. soprattutto FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere,
Torino, Einaudi, 1! «n Popolo d’Italia», Rocca riprende questi concetti in un saggio
per «Il Maglio», intitolato Arrestare la dissoluzione. La decisione del
Fascio milanese fu salutata con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. Il programma
dei fascisti e l'adesione al Blocco, «Il Corriere della Sera. Cfr. Movimentata
Assemblea del Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali, «Il Popolo
d'Italia. Nel corso dell'assemblea generale dei soci del Fascio, riunitasi
sabato 9 aprile, Gioda faticò a imporre la linea della collaborazione
elettorale. Alle perplessità della sinistra interna — che (Ai li A
A ici Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivelò
tutt'altro che agevole. I fascisti torinesi inaugurano la campagna
elettorale con un comizio di Rocca. Gioda annunciò l’avvenuto
raggiungimento di un accordo di massima - sulla base di alcune condizioni
poste dai fascisti!" - tra il Fascio di combattimento,
l'Associazione Nazionalista, 1’ Associazione Radicale, il Partito
Socialriformista, 1’ Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri
e l'Associazione Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio
lasciò trapelare la possibilità che il Blocco comprendesse anche
l'Associazione Liberale Democratica, tenendo però a sottolineare come la
fermezza antigiolittiana dovesse rimanere il criterio orientativo
dell’azione politica fascista. Ora, era evidente che trattare con i
giolittiani dell’ Associazione Liberale. Democratica e,
contemporaneamente, pretendere di fare dell’antigiolittismo, era un
controsenso, tanto più a Torino, dove un Blocco che prescindesse dal
sostegno di Giolitti aveva scarse probabilità di affermarsi ed era perciò
nell’interesse dei fascisti non tirare troppo la corda. Il 21 aprile, a
conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda definì “penoso” e
“difficile”, si giunse alla costituzione del Blocco, con
l’inclusione dell’ Associazione Liberale Democratica. Così, non soltanto i fascisti
accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma, nonostante Gioda
lamentasse l’ingerenza «immorale» da parte del Governo, il Fascio accolse
il veto imposto dal Presidente del Consiglio alla candidatura
dell’ex parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore del responsabile
dell’Ufficio i egli personalmente condivide — riguardo all’opportunità di
far blocco anche con gli odiati giolittiani, il segretario oppose
la necessità di far fronte all’avanzata delle forze antinazionali i
e, riprendendo un concetto proprio dell’impostazione antidogmatica del
fascismo, rivendicò il carattere aperto del Fascio, che non doveva
conoscere «né radicali, né liberali, né anarchici», | ma solo
fascisti, uniti nell’interesse del Paese (// Fascio di Torino prende posizione
nella lotta elettorale, «Il Maglio» Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta
elettorale a Torino, «Il Popolo d’Italia«, 15 aprile 1921, e Un poderoso
discorso di Libero Tancredi, «Il Maglio», 16 aprile 1921. Rocca si
dimostrò, come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo
l’apparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio
inaugurale della campagna elettorale fascista (cfr. Il primo comizio
elettorale a Milano, «Il Popolo d’Italia). Queste prevedevano: «schede
elettorali con il Fascio dei Littori; un programma che comprendesse la
valorizzazione della guerra e della vittoria, l’assistenza ai combattenti,
la tutela dell’italianità all’estero; il riconoscimento dell’opera di
salvamento nazionale compiuta dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e
di fede per le candidature; la difesa e la valorizzazione dell’impresa
fiumana e dalmata; la lista bloccata» GIODA, Un primo accordo fra
i vari partiti a Torino. Sarà possibile il “blocchissimo"? Trattative e
moniti. Stampa presidenziale, Luigi Ambrosini". Nel Blocco erano compresi
— unici candidati fascisti — Vecchi e Rocca, che fa così il
suo ingresso nella lotta elettorale. Dove la linea bloccarda incontra
fortissime resistenze fu a Verona. Il 10 aprile, nel corso della prima
riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti della provincia, Edoardo
Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi non avrebbero rinnegato
le loro origini rivoluzionarie e non si sarebbero compromessi in
un’alleanza elettorale con le forze della borghesia moderata e
monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da parte dello
schieramento governativo (l’organo del liberalismo veronese, arrivò a definire
l'eventuale accordo con i fascisti una «necessità sacra») ‘’, il Fascio
di Verona si attenne alla linea indicata da Malusardi e disertò il
Blocco. Così, unico caso in Italia, nel collegio Verona/Vicenza i
fascisti presentarono una lista autonoma!‘’. Va detto che Mussolini non
negò il proprio assenso all’operazione e che anzi, in una lettera aperta
ai fascisti di quel collegio, si congratulò con loro per aver agito
«fascisticamente», giacché, ove mancavano «certe elementari condizioni di
probità politica», occorreva «non 50 bloccare ma sbloccare. Cfr.
Ibidem. pl so Giretti fu costretto a rinunziare al suo posto in lista per
non compromettere la formazione e Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una nobile
rinuncia dell'On. Giretti). la candidatura di Rocca è particolarmente spinta da
Gioda. «Rocca — scrisse quest’ultimo, presentando l’amico agli elettori
torinesi — è stato un novatore e un divinatore. Ha veduto chiaramente il
futuro quando tutti brancicavano nel buio. Per questo è Stato scomunicato
quale eretico dai pontefici rivoluzionari» (ID., Il Blocco Nazionale a Torino.
I candidati fascisti). “ Cfr. «Audacia A questo proposito v.
anche / fascisti veronesi lotteranno da soli, «Il Popolo d’Italia. I DTA
148 La costituzione del Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune
nemico: fascisti a voi!, «Arena», 24 aprile 1921. : i fo La
composizione della lista appariva comunque nettamente orientata a destra.
Eccezion fatta per Italo Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne
facevano parte il generale Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe
Serenelli e Cesare Piovene, l’ex parlamentare Giberto Arrivabene (uno dei
fondatori del Fascio Parlamentare del 1917) e il professor Alberto De
Stefani (che risultò l’unico eletto). Cfr. «Audacia» i 150 «11
Popolo d’Italia», 3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata 29 aprile, si
trova anche in MussoLINI, Opera omnia, a cura di SUSMEL (si veda) e
SUSMEL (si veda) Susmel, Firenze, La Fenice). Mussolini si reca a Verona per la campagna
elettorale e riconfermò l'apprezzamento per la decisione dei fascisti
veronesi di affrontare da soli il cimento delle urne. Cfr. «Il Popolo
d’Italia. Rocca figura dunque candidato fascista a Torino. La Giunta
Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione Milano/Pavia decise
di candidarlo anche in quel collegio", in quanto egli - come scrisse
«Il Popolo d’Italia» - conferiva «un tono e un colore patriottico e
passionale alla listay. Rocca espone le linee del suo programma
elettorale a cavallo tra l’aprile e il maggio, in una serie di articoli
per “Il Risorgimento”. Nel primo di essi (importante soprattutto alla
luce di ciò che sarebbero stati i Gruppi di Competenza) Rocca riprendeva
un’idea a lui cara: quella della riforma tecnocratica della
rappresentanza parlamentare. Una riforma seria e duratura — scrive -
dovrebbe consistere nel riconoscere l’impossibilità della politica
astratta, l’immoralità parassitaria dei politicanti puri, e nel
sostituire loro i valori fondamentali che l’economia addita attraverso le
sue organizzazioni, di ceto, di mestiere. Distinguere gli uomini per quello che
fanno e non per quello che dicono; e quindi togliere alle mandrie
elettorali l’incarico di eleggere chi sa parlare, mentire e intrigare di
più, per affidarlo alle collettività ed ai nuclei organizzati sulla base
di un’attività specifica a profitto della vita sociale, attività alla
quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile
allora che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero
parte alla Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui è
competente: e i Parlamenti tecnici così formati conoscerebbero meglio il
lavoro fecondo e pratico e meno le disquisizioni politiche mascheranti i
settarismi e i puntigli. A questo intervento ne seguirono altri, più specifici
(una sorta di vera e propria piattaforma elettorale in tre parti), nei
quali Rocca suggellava i princìpi fondanti del suo rinnovato credo
politico: libertà economica, decentramento, rispetto della legge.
L’economia liberista - argomentava Rocca nel primo di questi articoli
programmatici - veniva accusata di essere «caotica, anarchica,
antisociale ed egoista, ma ciò non rispondeva a verità, poiché il vero
liberismo non si risolveva nell’individualismo fine a se stesso. Esso,
infatti, trascende e comprende tanto l’individualismo quanto il
collettivismo; racchiudeva, cioè, tutti i sistemi di vita, tutte le forme
economiche (tranne le improduttive), di volta in volta selezionate e messe
in atto dalla società umana. In altri termini, il liberismo era
«l'economia spontanea di per se stessa». Per questo motivo, tornare al
liberismo significava, né più né meno, tornare all'economia naturale della
vita Cir. / candidati per il Blocco, «Il Corriere della Sera». ne «Il
Popolo d’Italia» ROCCA, La riforma fondamentale, «Il Risorgimentosociale», al
libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'”. Le affermazioni di
Rocca in materia economica, come del resto l’intero suo pensiero, avevano
ormai un evidente contenuto conservatore, e, in questo senso, non v’è
dubbio che la sua propaganda contribuisse a rassicurare i ceti moderati
sulle buone intenzioni del fascismo. E’ però interessante vedere quanto
anche la concezione liberista di Massimo Rocca (soprattutto Ja
definizione del liberismo come organizzazione spontanea della vita
economica) discendesse almeno in parte dalla formazione anarco-
individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilità anarchica
verso lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore, pareva
emergere là dove Rocca, nella seconda parte del suo “manifesto”
elettorale, additava la necessità del decentramento amministrativo e
politico quale condizione essenziale per una maggiore libertà e una
miglior gestione delle risorse nazionali'?°. - Nel terzo ed ultimo
articolo, infine, Rocca affrontava la questione della legalità. La
legalità — scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto
esercizio della libertà, la quale, se svincolata da regole e da limiti
preordinati, si risolveva in «un non senso, una negazione di se medesima,
attraverso l’arbitrio individuale e il disordine generale». L’Italia, quindi,
non sarebbe stata realmente libera fintanto che non fosse stata
restaurata la disciplina, in tutti i settori della vita civile e
politica: «disciplina di governo, di vita pubblica, di nazione, di vita
privata». Disciplina era anche sinonimo di gerarchia; infatti - sosteneva
Rocca - bisognava ripristinare «Ia gerarchia in ogni campo», affinché il
«valore cosciente» tornasse a primeggiare sul numero. L’articolo
terminava con l’auspicio che finalmente, in Italia, fosse ristabilita la
legge «contro tutti !59, i Simili affermazioni imponevano equanimità di
giudizio; imponevano, in altre parole, che quella stessa legge che egli
pretendeva applicata contro gli scioperanti socialcomunisti, valesse
anche nei confronti delle camicie nere. In futuro - come si accenna -
Rocca non avrebbe esitato a prendere posizione contro la perdurante
illegalità fascista; ma allora anch’egli riteneva che lo squadrismo fosse uno
strumento più che legittimo di lotta politica. Così, ad appena due giorni
di distanza dal suo articolo su «Il Risorgimento», commentando un
gravissimo episodio di Ritorno all'economia) y “Tornare al
liberalismo” era anche il titolo di una conferenza tenuta da Rocca il 6 maggio
nei locali dell’Associazione Commercianti Industriali Esercenti di Milano
(cfr. «Il Popolo d'Italia» ROCCA, Ritorno alla semplicità, «Il
Risorgimento». Ritorno alla disciplina. a A mm PPTIPONI violenza
fascista a Torino (l’assalto e la devastazione della Casa del Popolo),
Rocca lo definì una sacrosanta «vendetta» contro il dispotismo comunista,
«dopo mesi e mesi di longanimità»!?. In circostanze misteriose, l’operaio
fascista Odone è assassinato da un militante comunista. All’alba del
giorno seguente, bande armate di fascisti prendeno d’assalto la Casa del
Popolo. Nel terribile conflitto che ne segue restarono gravemente feriti
tre comunisti e un studente fascista di Reggio Emilia, Maramotti, che muore
poco dopo in ospedale. La Casa del Popolo e i locali annessi, invasi dai
fascisti, sono prima completamente devastati, poi incendiati. Gli
squadristi - riporta «La Stampa» - impedirono ai vigili del fuoco di
avvicinarsi alle fiamme e gli edifici andarono quasi del tutto distrutti.
I danni provocati dall’assalto fascista sono stimati intorno ad un
milione di lire!°. Nei giorni successivi, l’autorità giudiziaria ordina
il fermo di nove fascisti, tra i quali il segretario della sezione
torinese dell’Associazione Arditi, Bruno Ricolfi, mentre gli stessi Gioda
e Vecchi sono denunciati con l’accusa d’istigazione e complicità morale (senza
peraltro che la denuncia sorte alcun effetto). Non è affatto chiaro se
Gioda è coinvolto nella decisione di assaltare la Casa del Popolo (la
spedizione - a quanto rifere il Prefetto di Torino Taddei al Ministero – è
organizzata prontamente e nel massimo riserbo), ma appare evidente dal
suo comportamento di quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca,
fosse prigioniero di un equivoco di fondo: quello di considerare la
violenza un ll Che cosa è
“già” il controllo operaio a Torino, «Il Popolo d’Italia», 7 maggio 1921.
® Cfr. Operaio fascista e mutilato di guerra ucciso da un comunista, “La Stampa
Per le versioni di parte fascista e comunista v. rispettivamente Giona, Un fascista mutilato di guerra
assassinato da un comunista a Torino, «Il Popolo d’Italia», 27 aprile
1921, e Tragico epilogo di una rappresaglia fascista, «L'Ordine Nuovo Cfr.
La funesta notte e le sue conseguenze, «La Stampa» L'organo del PCdI torinese
riferì che le guardie regie di presidio alla Casa del Popolo (quaranta,
secondo i documenti di PS), non solo non avevano ostacolato gli assalitori, ma
gli avevano persino assecondati (cfr. Come è stata incendiata e saccheggiata
la Casa del Lavoro di Torino, «L'Ordine Nuovo). Il comportamento delle
guardie regie fu oggetto, nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga
polemica. Un'apposita inchiesta, voluta dall’energico Prefetto Paolo
Taddei, escluse che i militari avessero preso le parti degli squadristi,
ma accertò altresì - come lo stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio
- la «deplorevole negligenza» degli ufficiali preposti al servizio
d’ordine, dimostratisi incapaci di fronteggiare adeguatamente e con
fermezza d’animo l’offensiva fascista. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir.
Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 112 [Fascio di Torino]. Cfr. «Il
Popolo d’Italia». !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS,
Affari gen. e ris., cit, aspetto importante ma tutto sommato transitorio
(quindi, in un certo senso, accessorio) del fascismo, mentre essa ne era
un elemento coessenziale imprescindibile, oltre che difficilmente
addomesticabile. Un esempio di questo ambivalente stato d’animo si trae
da un articolo di Gioda di poco precedente ai fatti narrati. In esso,
commentando l'aggressione subita da GRAMSCI (si veda) ad opera di alcuni
squadristi, il segretario del Fascio torinese define sacrosante le
ritorsioni fasciste contro le vili imboscate e la violenza liberticida
dei pussisti, ma, al contempo, vivamente deplora quell’episodio, del quale non
comprende la necessità. Nel caso poi della drammatica rappresaglia alla
Casa del Popolo, Gioda mostrò, almeno all’apparenza, di non averne intesa
la reale portata politica, allorché ebbe a dichiarare, contro l’evidenza
dei fatti, che essa aveva avuto natura anticomunista ma non
antiproletaria tout couri n Fino a che punto Gioda fosse consapevole
della contraddittorietà della propria posizione non è dato sapere, ma è
certo che egli non aveva la forza sufficiente per opporsi ad uno stato di
cose che sfuggiva ormai al suo controllo, costringendolo ad improbabili
equilibrismi. All’indomani della prova elettorale (che vide il fascismo
conquistare 35 seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblicò una
lunga intervista a Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti
avrebbero o no preso parte alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura
alla presenza di re Vittorio Emanuele III, il duce risponde. IL FASCISMO
NON HA PREGIUDIZIALI MONARCHICHE O REPUBBLICANE -- ma è tendenzialmente
repubblicano. In ciò differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che
sono GRAMSCI (si veda) è aggredito all’uscita dalla sede di «one
Nuovo». Il leader comunista non sube in realtà alcuna violenza, mentre l’ardito
del polo Torrero, accorso in suo aiuto, resta gravemente ferito. Cfr.
Ibidem. GIODA, in tema di violenza, «Il Popolo d’Italia. E
Che Gioda non nutre molta simpatia per gl’eccessi degli squadristi è me
provato dall’impegno che egli mise nel cercare di frenarne le
intemperanze nel pesi c pipa Lo recrudescenza dello squadrismo torinese,
ossia nei mesi immediatamente precedenti i pe fo pacificazione.
Alla fine di giugno, ad esempio, dopo un ennesimo cruento scontro i fascis
e comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente alle camicie nere, rilevò !
urgenza li ata fine una buona volta» a quella fosca teoria di violenze,
destinata «ad attizzare MEA ‘odio olitico» (ID., Un monito opportuno dopo
una lotta sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921). to Ip., Un rilievo
opportuno dopo l'incendio vendicativo. Rocca non è eletto. Soltanto 18° su 28
candidati a Milano, con 5.897 voti di preferenza (cfr. «Il Corriere della
Sera», 24 maggio 1921), ottenne un miglior risultato in FERIRE 35,282
voti a Torino città e 88.670 nell’intera circoscrizione (cfr. «La Stampa»). pregiudizialmente
e semplicemente monarchici. Il gruppo fascista si asterrà ufficialmente dal
prendere parte alla seduta reale!$ Le dichiarazioni filo repubblicane di
Mussolini scossero profondamente tutto l’ambiente fascista. Dinanzi al
putiferio da esse suscitato in molti Fasci, è stabilito di rimandare ogni
decisione in merito a una riunione congiunta dei deputati fascisti, dei
membri del Comitato Centrale e dei segretari delle Federazioni regionali,
al Teatro Lirico di Milano. Tra i Fasci dove la questione ha un'eco
maggiore vi sono quello di Verona e quello di Torino. Un editoriale di
«Audacia» (poi rivendicato da Malusardi) fa giungere a Mussolini il
consenso dei fascisti veronesi. L’originario programma fascista - vi si
legge - quello di piazza San Sepolcro, intransigentemente repubblicano, è
stato purtroppo messo in disparte, mentre è giunto il momento di
rinverdire lo spirito rivoluzionario del fascismo. Le dure apostrofi
dell’organo fascista destano viva apprensione negl’ambienti moderati di
Verona, al punto che, rispondendo all’articolo di «Audacia», il liberale
Carli lascia addirittura intendere che la borghesia veronese non esita a
difendersi con le armi da un’eventuale insurrezione repubblicana fascista.
L’assemblea generale del Fascio si chiude con l’unanime approvazione di
un ordine del giorno Malusardi. Il Fascio Veronese di Combattimento
— recita il documento - richiamandosi alle origini eterodosse del
fascismo, qui nel veronese mai smentite, dichiara la propria incondizionata
solidarietà con Mussolini nella tanto dibattuta questione della
tendenzialità repubblicana e riafferma essere inconcepibile che i fascisti
facciano parte anche di altri partiti. Dopo che la riunione milanese del 2
giugno, protrattasi fino al giorno successivo, si fu risolta in un nuovo
compromesso (una «soluzione molto confusa e contraddittoria», secondo la
definizione di Felice Il Giornale d’Italia, L'intervista a Mussolini fu
riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia Sulle conseguenze dell’intervista di
Mussolini v. FELICE, Mussolini il ‘fascista, Cfr. NOI, Cose a posto, «Audacia»,
CARLI, Difendo il Re, «Arena, Audacia», FELICE, Mussolini il fascista, che
eludeva l’essenza del problema, Malusardi non nascose il proprio malumore
e manifestò la speranza che il prossimo congresso nazionale sciogliesse
definitivamente il nodo dell’indirizzo istituzionale del fascismo. «E?
ora di finirla — scrisse tra l’altro — di vedere e liberaloni e nazionalisti
e rancidi conservatori insinuarsi nelle nostre file coll’unico scopo
di rimorchiare al loro partito il nostro movimento. Ed è ora di finirla
anche con questi Fasci Agrari o d’Ordine, che snaturano il nostro
programma e mascherano gretti interessi individuali o di
classe»!”?. La vicenda ebbe conseguenze assai più traumatiche a
Torino, dove portò a un nuovo aspro scontro tra Gioda e De Vecchi.
Quest'ultimo, infatti, in un’intervista rilasciata a un quotidiano
locale, dichiarò che i deputati fascisti del Piemonte avrebbero
senz'altro presenziato alla seduta reale. Per testimoniare il proprio dissenso
da De Vecchi, Mario Gioda si dimise dalla carica di segretario politico
del Fascio di Torino e dalla direzione de «Il Maglio»'”. La Commissione
Esecutiva del Fascio, riunitasi il giorno seguente, ne rigettò tuttavia
le dimissioni, inviando altresì un voto «di piena, assoluta solidarietà»
al “duce”. In un articolo di commento alla vicenda, Gioda, rinfrancato
dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si lasciò andare a
valutazioni ottimistiche. Nessuno — scrisse - aveva il diritto di
meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da Mussolini.
Ben più strano, infatti, sarebbe stato se «il fascismo, il giorno dopo le
elezioni, fosse diventato tanto opportunista da velare, o tacere, o
sorvolare su una delle sue principali caratteristiche»; quella, cioè, di
essere un movimento tendenzialmente repubblicano. L'intervista del “duce”
- secondo Gioda - era giunta a proposito, così da smontare una volta per
sempre «la favola di un fascismo antiproletario e incatenato al servizio
della borghesia agraria e L’ordine del giorno approvava l’operato di
Mussolini e decretava la nascita del gruppo parlamentare fascista,
riproponendo in sostanza la tesi della non partecipazione alla seduta
reale, ma non faceva menzione della questione istituzionale. MALUSARDI,
Vogliamo il congresso nazionale!, «Audacia». Cfr. «La Gazzetta del popolo. Nel
corso di un comizio al teatro Trianon per la ricorrenza dell’entrata in
guerra dell’Italia, il futuro quadrumviro riconferma quanto dichiarato il
giorno prima al quotidiano torinese (cfr. «Il Popolo d’Italia»). Nelle
sue memorie, De Vecchi si compiacerà di ricordare che Gioda,
nell’ascoltarne il discorso, era diventato sempre più pallido, finché,
esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr. VECCHI). Cfr. «Il Popolo d’Italia»,
cit. In conseguenza dell’abbandono di Gioda «Il Maglio» sospese le
pubblicazioni per quasi un mese. Cfr. «Il Popolo d’Italia»,
industriale»'”°, Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana
e libertaria di Mario Gioda, e non v’è dubbio che egli fosse in buona
fede. Ciononostante, le sue posizioni non trovavano corrispondenza
nella situazione generale del fascismo, sul piano locale come su quello
nazionale, ed erano, perciò, fatalmente destinate a soccombere.
Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo l’assemblea
del Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non
edulcorata, de «Il Popolo d’Italia» - si risolse in un duello personale
tra Gioda e De Vecchi. Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu
licenziato un ordine del giorno anodino (sottolineante il carattere
unitario del programma politico fascista) che, in definitiva, suonava
come un’attenuazione della linea intransigente sostenuta da Gioda'”. La
riunione al Teatro Lirico, nel corso del quale De Vecchi non mancò di
fare «una manifestazione di fede monarchica»!?8, confermò la vittoria
dell’indirizzo moderato. A distanza di pochi giorni De Vecchi prese
l’iniziativa - del tutto personale - di convocare un vertice dei
segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose all’invito e non si
recò all’incontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che riuscì a far
passare una mozione rivendicante il più assoluto agnosticismo in materia
di regime. L'assemblea conferì a De Vecchi l’incarico di designare il
nuovo direttore de «Il Maglio» e la scelta, com’era logico, cadde su un
uomo di sua fiducia, l’avv. Ruella'” Torna a riunirsi la
Commissione Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si dimise per la seconda
volta, lasciando capire di non aver intenzione di recedere dalla propria
decisione'*°. Dieci giorni più tardi, un’ennesima assemblea
straordinaria dei soci del Fascio ‘| provvide all’insediamento di una
nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua | volta, riunitasi il 4
luglio, designò segretario politico un altro fedelissimo di De Vecchi, il
capitano Aurelio, di Novara, già comandante della legione dalmata a Fiume
Gioda appariva sconfitto su tutti fronti. Nel giro di un | la disciplina
fascista, All’assemblea del Fascio torinese prese parte anche Massimo Rocca,
senza tuttavia intervenire nella discussione. LOI ‘imponente
convegno fascista a Milano. Cfr. «Il Maglio Cfr. «Il Popolo d’Italia La
segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria dal capitano
degli arditi Mario Gobbi. Cfr. «Il Maglio», e «Il Popolo
d’Italia, I membri della Commissione Esecutiva furono portati da
cinque a sei. Cfr. «Il Maglio», GIODA, Le dichiarazioni di Mussolini e la
speculazione idiota degli avversari. Per mese, tuttavia, mercé i contrasti
suscitati dal patto di pacificazione nel frattempo stipulato con i
socialisti, la situazione mutò ancora una volta. Il 6 agosto, a riprova
della gravità della crisi, «Il Maglio» interruppe nuovamente le
pubblicazioni (le avrebbe riprese soltanto il 26 novembre). Trascorsa una
settimana, Gioda fu richiamato alla segreteria del Fascio, quindi, l’assemblea
generale fascisti torinesi votò la nomina di un’altra Commissione
Esecutiva. La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte, anche
Edoardo Malusardi. Si svolge un’adunata provinciale straordinaria dei Fasci e
dei Nuclei fascisti del veronese. Al centro del dibattito, una volta
ancora, il tema dei Sindacati Economici. Alla tesi facente capo a
Giuseppe Serenelli, contraria alla costituzione di detti sindacati, e a
quella di Alessandro Melchiori, favorevole alla formazione di
organizzazioni sindacali ad autonomia “ridotta”, si oppose l’idea di
Malusardi, per il quale, mentre la prima rivelava chiaramente la «qualità
di agrario» del suo suggeritore, la seconda era troppo generica e
parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il fascismo doveva adottare
il programma di sindacalismo integrale contenuto nel “testamento
politico” di Filippo Corridoni". Ma la grande novità dell’adunata
furono le dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico all’interno del
Fascio veronese, «per motivi di salute e non politici. Al riguardo
mancano purtroppo notizie certe, ma non è da escludere che la sua
decisione, anziché a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne,
più o meno indirette. D’altra parte, leggendo il saluto indirizzato da
Malusardi ai suoi lettori, l'impressione che se ne trae è quella di un
uomo tutt’altro che dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo
da parte e che, persuaso della bontà dei propri convincimenti,
riaffermava la propria indipendenza di giudizio. Su tutta questa
vicenda v. MANA. Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di Brescia)
aveva già espresso il proprio punto di vista in un precedente intervento
su «Audacia». I sindacati - aveva rilevato - dovevano mantenersi il più
possibile indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano rinunciare al
sostegno e alla protezione del fascismo, se necessario anche contro gli
stessi interessi padronali. Come fino ad oggi — aveva scritto Melchiori -
i nostri camions sono serviti per punire i calunniatori del fascismo,
essi serviranno per prelevare a domicilio quei proprietari che volessero
ad ogni costo andare contro corrente. MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati
Economici, «Audacia», 11 giugno 1921). 185 Alla fine dei lavori l’adunata
approvò un ordine del giorno, formulato da Italo Bresciani d’intesa con
il presidente dell’assemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato
Centrale), per la costituzione, anche nel veronese, di Sindacati
Economici «nazionali», aventi autonomia «finanziaria e politica. Ho
sempre pensato — scriveva Malusardi - come meglio mi è parso. Non ho mai
avuto alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da qualunque
parte venissero. Perché io non sono di quelli che marciano sulle rotaie
dell’anchilosi cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno portato su
tutte le contrade. Sempre ho irriso, anzi, a tutte le botteghe
multicori politiche che pretendono d’aver la privativa dell’infallibilità.
E interessante, in questa lunga “confessione” di Malusardi, il modo in
cui egli tornava ad illustrare la propria concezione sindacalista. Il
tono e i contenuti - come si può vedere - non erano granché mutati
dai tempi de «L’Agitatore. Benché sono [sic] orgogliosamente
individualista — affermava - fui tra le masse lavoratrici e per esse
lottai, pugnai di persona. Non perché io credessi o creda nella
elevazione collettiva della massa [...], ma per staccare da essa delle individualità
e delle minoranze intelligenti e volitive, capaci d’innalzarsi realmente
ad un più alto livello di comprendonio e di personalità. Poiché io non
dimentico che la storia è sempre stata scritta dagli individui e dalle
minoranze [...]. Il sindacalismo, quale io lo intendo [...] è
individualista ed è una realtà avveniristica nella quale predomina il
“mito” della singola responsabilità. Il sindacalismo è logicamente per un continuo
superamento e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed il
comunismo statali rappresentano invece il livellamento e la massima
proletarizzazione di tutti!8* Infine, Malusardi rilasciava una
dichiarazione dall’evidente sapore programmatico. lo non
sarò mai per il conservatorume rancido e vilissimo che, passata la bufera
bolscevica, spazzata via dal salutare vento fascista, si è riverniciato a nuovo
e pretende rimerchiare la nostra gagliarda giovinezza. Io sono
orgoglioso, anzi, di aver molto contribuito a mantenere al fascismo
veronese la sua caratteristica sbarazzina e ardita, tanto da essere
chiamato la punta estrema del movimento fascista!*” In definitiva,
l’allontanamento di Malusardi da Verona - cui fece seguito il suo
temporaneo “esilio” in provincia - pareva dettato, più che da cattive
condizioni di salute, da valutazioni di opportunità “ambientale”. Egli,
del resto, non abbandonò affatto l’attività politica. Al congresso
provinciale MALUSARDI, Commiato A seguito delle dimissioni di Malusardi
la direzione di «Audacia» fu ereditata da Grancelli. fascista, Malusardi è
infatti presente in rappresentanza dei piccoli Fasci di Legnago e di
Cologna Veneta, figurando altresì quale segretario generale della
Federazione fascista intermandamentale del basso veronese. In quel
frangente egli si fece promotore di una mozione favorevole al patto di
pacificazione, da poco stipulato con i socialisti, «per ragioni di ordine
nazionale»'”°. L'ordine del giorno Malusardi fu approvato con 14 voti a
favore, il doppio di quelli ottenuti da una proposta di Bernini, del
Fascio di Verona, per l’accettazione condizionata del patto. Ci sembra
significativo che, proprio nel momento in cui il Fascio veronese
manifestava al riguardo molte perplessità, Malusardi appoggiasse la
strategia distensiva di Mussolini. Senz'altro, com’è anche possibile
desumere dalle sue future prese di posizione in tema di violenza,
Malusardi riconosceva il bisogno di una “tregua d’armi” con le sinistre
(la sua intransigenza sui principi non dev'essere confusa con
l’estremismo squadristico), ma è anche presumibile che egli mirasse in
parte a recuperare credito agli occhi delle gerarchie!”, Tra l’agosto e
il settembre, Malusardi s’impegnò in un’intensa opera di propaganda a sostegno
del patto di pacificazione, girando tutta la provincia di Verona, con
esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a collaborare con
«Audacia», di cui riassunse la direzione, poco tempo prima del III congresso
nazionale fascista Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche
Massimo Rocca, benché, in un articolo di poco precedente alla firma del
patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta di un eventuale
accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta politica
aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la pace interna,
«Il Risorgimento). Dopo che l’accordo fu denunciato - in conseguenza dei
gravi incidenti scoppiati al margine de! III congresso nazionale fascista
-, Rocca attribuì la responsabilità del suo fallimento ai socialcomunisti
(cfr. Ip., La commedia di una pacificazione Su tutte le questioni
connesse al patto di pacificazione v. FELICE, Mussolini il fascista. Audacia
A questo proposito, il responsabile per la propaganda del Comitato Centrale,
mentre rimproverava a Grancelli e agli altri dirigenti del Fascio di
Verona, il loro «semplicismo politico», si disse piacevolmente sorpreso
che «l'ex anarchico Malusardi» condividesse l’iniziativa di Mussolini per
la pacificazione (MARINONI, Dopo il Congresso Provinciale). In
preparazione dell’assise nazionale di Roma, i Fasci del veronese si
radunano a congresso. Tra i temi dibattuti, oltre a quello dell’annunciata
trasformazione del movimento in partito (che avrebbe dominato i lavori
dell’ Augusteo ), vi fu nuovamente quello dei Sindacati Economici.
Infatti, dopo la nascita e la diffusione dei “Gruppi dei ferrovieri
fascisti”, organismi di categoria dipendenti dai Fasci, che lasciavano
intravedere la possibilità di un sindacalismo integralmente fascista, si
andava vieppiù riconsiderando la funzione dei Sindacati Economici, la cui
pretesa apoliticità era ormai oggetto delle critiche di autorevoli Il
congresso fascista, che si riunì al Teatro Augusteo di Roma tra il 7 e il
10 novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo
Rocca. Questi si preparò all’appuntamento con una serie di articoli
d’indubbio interesse, nei quali — per la prima volta in modo compiuto -
formulò la sua proposta per un fascismo “liberale”. Nell’opinione di
Rocca, i Fasci avrebbero dovuto essere un movimento di élite, di
avanguardia politica e ideale, come lo era stata la Destra storica
cavouriana. La vita politica italiana, costretta in avvilenti compromessi,
aveva bisogno di «un eccesso di spiritualità», tale da bilanciare
l’eccesso «di politicantismo mercantile» che la sommergeva; e solo una
destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi della cultura e dello
spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe potuto svolgere
questo «compito di equilibrio e di correzione». In quella tradizione
risiedeva del resto un «grande insegnamento realistico e morale» dal
quale il fascismo non avrebbe potuto prescindere, vale a dire che «non le
masse, ma le minoranze rinnovavano il mondo» e che il progresso
consisteva nel «succedersi di aristocrazie libere»'. I fascisti - Rocca non
ne dubitava - avevano le carte in regola per guidare quest'opera di
rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima definirsi come forza
politica. Il fascismo, infatti, era nato prevalentemente ad opera di
sovversivi, alcuni dei quali non avevano mai del tutto rotto i ponti con
il proprio passato. Erano coloro che difendevano la pregiudiziale
repubblicana e i Sindacati Economici (forse Rocca pensava agli amici
Gioda e Malusardi) e rappresentavano la tendenza «filoproletaria» del
movimento: una tendenza, sia pur degna del massimo rispetto, che
rischiava di ripetere gli errori storici della sinistra, plasmando una
sorta di «demagogia fascista», non meno deprecabile di quella
socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva esponenti della
gerarchia fascista, da Bianchi a Grandi, da Rocca allo stesso Mussolini
(su questi punti v. CORDOVA). Al congresso veronese Malusardi si
pronunciò contro la costituzione di sindacati «prettamente fascisti» e
difese il principio dell’apoliticità dell’azione sindacale (la tesi patrocinata
a livello nazionale da Edmondo Rossoni). I sindacati “di partito”, rilevò
Malusardi, avrebbero ostacolato l’unità di tutte le forze sindacali
nazionali, ch'egli riteneva indispensabile, anche per contrastare il
monopolio dei sindacati socialcomunisti. «Se in politica — affermò — le
divergenze son profonde, sul terreno economico son facilmente colmabili.
Il lavoratore credente e quello miscredente, il monarchico ed il
repubblicano sono tutti d’accordo nel volere il proprio miglioramento
economico e morale». Di concerto con Bresciani, Malusardi presentò dunque
un ordine del giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinché sorgesse,
«all’infuori dello stesso Partito Fascista, un forte organismo sindacale
che raccogliesse sotto il suo vessillo di battaglia tutti i lavoratori
che non rinnegavano la realtà Nazione («Audacia ROCCA, Pér una nuova destra,
«Il Popolo d’Italia, anche in Idee sul fascismo. la destra
reazionaria, formata da certa borghesia, specialmente terriera, e da
residui d’aristocrazia decaduta», che vedeva nel fascismo «l’arma di difesa
e di offesa da sfruttare al minor prezzo possibile», ed era responsabile
del carattere «offensivo e violento» assunto dai Fasci in talune zone del
Paese, Tra le due ali estreme del fascismo si situava tuttavia un folto
centro moderatore, che Rocca riteneva essere il legittimo erede del
primo nazionalismo, come questo lo era stato del primo liberalismo di
destra, del liberalismo, cioè, non ancora “inquinato” dall’utopia
demo-sociale. Una zona media del fascismo, dunque, fondata sulla
«disciplina verso la Nazione, al di sopra degli esclusivismi ideologici e
degli interessi particolari», che Rocca confida sarebbe infine prevalsa
sugli opposti estremismi, fino a costituire il perno della “nuova destra”
di governo!” Nel suo intervento al congresso di Roma Rocca riprese uno ad
uno questi temi. Il fascismo — disse - doveva innanzi tutto svolgere
«un’opera di educazione sulle masse», per volgersi infine alla
trasformazione degli organi legislativi, in quanto la crisi italiana era
una crisi d’incompetenza e le questioni economiche e amministrative, per
le quali lo stato politico non era adatto, dovevano essere demandate ai
tecnici. In quest'opera di riforma, le organizzazioni sindacali avrebbero
potuto giocare un ruolo importante, a condizione che i sindacati
divenissero strumento «di selezione delle élites proletarie. L’assise
dell’ Augusteo decretò la nascita del Partito Nazionale Fascista. Sia
Rocca (che a Roma rappresentava il piccolo Fascio lombardo di
Castellanza) sia gli altri ex anarcointerventisti Malusardi e Gioda,
presenti anch’essi al Un neo liberalismo?, “Il Risorgimento” anche in
Idee sul fascismo Su questo aspetto del pensiero politico di Massimo
Rocca v. altresì GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista Il Popolo
d’Italia. L'intervento di Rocca al congresso dell’ Augusteo fu per la maggior
parte incentrato sui problemi di ordine internazionale. A questo riguardo
Rocca confermò la convinzione che l’Italia dovesse avere una politica
estera «rettilinea e chiara», senza le incertezze del passato, e che
spettasse al fascismo far sì che ciò avvenisse. Il discorso, con i suoi
richiami alle glorie e alla potenza d’Italia, vibrava di forti acc>nti
nazionalistici e non fu un caso che l'organo dell’Associazione
Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /! discorso polemico di Massimo
Rocca, «L’Idea Nazionale Cfr. «Il popolo d’Italia» Il Fascio di Castellanza, un
piccolo centro in provincia di Milano (oggi Varese), era stato inaugurato
alla presenza di Rocca, che aveva fatto da padrino. Ne è segretario
Schejola e conta 67 soci, in prevalenza operai e impiegati. L'assemblea
generale dei soci designa Rocca a rappresentare il Fascio al congresso
nazionale di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del
Comitato Centrale con i Fasci di combattimento,Busta
[Castellanza]. congresso, votarono a favore della trasformazione del
movimento in partito!” Dal congresso scaturì inoltre il nuovo
organigramma fascista: Massimo Rocca entrò a far parte della Commissione
Esecutiva del PNF°%, mentre De Vecchi, a testimoniare la definitiva virata
a destra del fascismo, rilevò Gioda nel Comitato Centrale?”
Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in un lungo
articolo celebrativo, significativo per i numerosi richiami al
problema dell’organizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai
Consigli ; A Errante " Si raduna l’assemblea generale dei
fascisti torinesi. Nella sua relazione Gioda si era pronunciato a favore
del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare - la stessa parola
partito gli ripugnasse «istintivamente». Il fatto era - aveva sostenuto - che
il movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava,
perciò, soltanto di ratificarne ufficialmente l’esistenza. La creazione
di un partito fascista era altresì indispensabile per imprimere un
carattere nazionale al fascismo, di per sé troppo frammentato, troppo legato
alle singole realtà provinciali; e per porre un freno alle «lotte
infeconde» tra le sue diverse correnti, espressione, nella maggior parte
dei casi, d’interessi localistici o addirittura personali. Si noti, a
questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di
Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista
Italiano, «Il Popolo d’Italia». Anche Malusardi, in occasione del già
menzionato congresso provinciale veronese del 30 ottobre, si era detto
favorevole alla trasformazione del movimento fascista in partito, a patto
che la nuova compagine politica ereditasse «il patrimonio ideale del vecchio
partito d’azione mazziniano, plasmandolo, con la concezione sindacalista
della Costituzione Fiumana, alle esigenze della vita moderna»
(«Audacia»). In seguito, Rocca riferì che Vecchi, «a nome di amici
nazionalisti e sindacalisti», gli aveva offerto la segreteria del partito,
da egli rifiutata, «malgrado le insistenze», per non venirsi a trovare in
una situazione difficilmente gestibile. «Qualunque segretario del partito
— scrive Rocca ricordando l’episodio — avrebbe dovuto scegliere fra il
ritirarsi in un compito amministrativo e di adulatore, o diventare dopo
qualche settimana il rivale e poi il nemico del Duce» (Rocca, Come il
fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del PNF fu
quindi nominato Michele Bianchi. Per la cronaca del congresso
dell’Augusteo v. «Il Popolo d’Italia. Sulle vicende legate a questa importante
tappa della storia del fascismo v. FELICE, Mussolini il fascista. Stando
al resoconto de «Il Popolo d’Italia» del 10 novembre, al momento del voto pro
0 contro il partito Rocca manifestò l’intenzione di dimettersi dall’
Associazione Nazionalista. In base a quanto da lui stesso riferito anni
dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la doppia tessera (cfr.
Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura). Il tema dei rapporti col
nazionalismo domina a lungo il dibattito interno fascista all’indomani
del congresso di Roma. In un'intervista concessa all’organo dell’ANI, Rocca,
dopo aver sottolineato lo «spirito aristocratico» che animava il nuovo
Partito Fascista, si disse «convinto che il fascismo, il nazionalismo e
il risorgente liberalismo di Destra stessero preparando qualcosa che, un
giorno o l’altro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi», ed auspicò
la formazione di un unico partito nazionale (Il fascismo e la crisi
italiana in una nostra intervista con Tancredi, «L’Idea
Nazionale), Tecnici. Rispetto ai sindacati - rileva il neo dirigente
fascista -, il partito poteva scegliere di prevalere «aristocraticamente»
su di essi (come egli si augurava), oppure di farsene soggiogare,
soccombendo a una visione demagogica della lotta sindacale. Alla
necessità di delineare gli orientamenti sindacali del fascismo si
accompagnava quella di riformare gli organi elettivi, in armonia con la
economia sindacale moderna». Secondo Rocca, un primo passo verso questa
riforma era rappresentato dalla decisione, presa in ambito congressuale,
di dar vita a organismi professionali ristretti - i consigli tecnici
appunto -, da affiancare ai Parlamenti generici e politici, inadatti per
loro stessa natura a decidere su argomenti che richiedessero competenze
tecniche specifiche. Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto
dei deliberati del congresso nazionale fu Malusardi. In primo luogo -
com’ebbe a scrivere su Audacia - egli dissentiva da Mussolini in merito
alla concezione statale. Il ritorno al liberismo e l’accantonamento della
Carta del Carnaro, sanciti a Roma, gli apparivano difatti come la
negazione dello spirito originario del fascismo. Quando egli
[Mussolini] — rileva Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,
superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici
nella vita della Nazione, ecco che viene ad ammettere che dalla Carta del
Carnaro possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di più,
poiché appunto nella Carta del Carnaro vi è moltissimo di quella
ideologia mazziniana che il fascismo, secondo lo stesso Mussolini, non
deve ignorare ma integrare Quanto all’annosa questione
istituzionale, Malusardi ribadì il proprio repubblicanesimo, solo in
parte stemperato da considerazioni di opportunità politica. Rocca, Un
congresso di vivi, «Il Risorgimento» (anche in ‘cismo). DIE n
prete anre ie del PNE, accolge le indicazioni del congresso circa
l’opportunità di dar vita a dei Consigli Tecnici (o Gruppi di Compare).
Questi, che venivano al terzo posto nella struttura gerarchica del partito,
subito dopo gli organi dirigenti (Consiglio Nazionale, Comitato Centrale,
Direzione e Segreteria Generale) ei Fasci, avrebbero dovuto raccogliere
tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in materia di servizi
pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto
sul piano nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere
possibile ! analisi di ogni problema politico, economico e sociale secondo
criteri di competenza professionale. Cfr. Programma e Statuti del Partito
Nazionale Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico Berlutti, (lo
statuto/regolamento del partito è pubblicato in prima battuta da «Ii Popolo
d’Italia» MALUSARDI, /n margine al congresso, «Audacia», Anche Mazzini —
scrive - pur mantenendo intatta la sua FEDE REPUBBLICANA, per raggiungere
l’unità d’Italia, scrive la famosa lettera a Carignano e non ostacola di
salire al trono Vittorio Emanuele SAVOIA (si veda). Ma il veggente ligure,
però, mai si adatta a servilismi o incensamenti cortigianeschi. Così,
pure noi fascisti, pur riconoscendo inopportuno attualmente qualsiasi
tentativo repubblicano, perché verrebbe sfruttato dagli elementi
antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente la nostra originaria
tendenzialità repubblicana? Infine, Malusardi deplorò la scarsa
attenzione volta dai congressisti ai problemi sindacali e alla questione
agraria, attribuendo la ragione di questa grave lacuna programmatica alla
presenza, in seno al fascismo, di «agrari dalla mentalità antiquata». Per
contro, egli affermò la necessità di combattere il latifondo, per
giungere alla «sproletarizzazione» delle campagne, incrementando la
piccola proprietà e la cooperazione, L'ultimo atto pubblico di Malusardi a
Verona è la partecipazione al congresso provinciale fascista. Anche in
quella circostanza egli non tralasciò di riaffermare la propria fede
sindacalista e di celebrare il «sindacalismo/corporativismo dannunziano
genialmente dettato nella Carta di Fiume». Due giorni dopo, il congresso
nazionale delle organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a Bologna,
sancì la fine dei Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita
della Confederazione Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale
fortemente ideologizzato’”. Il sindacalismo “puro”, nella tradizione
corridoniana e Malusardi abbandonò la direzione del giornale (che
fu rilevata da Grancelli). Intorno a questi avvenimenti v. CORDOVA. AI
congresso di Bologna, punto d’arrivo di un lungo e tortuoso dibattito, si
scontrarono tre posizioni: quella di Rossoni, sostenitore della tesi
autonomista (cui era propenso Malusardi), quella del neo segretario del
PNF, Bianchi, per l’istituzione dei sindacati “di partito”, e quella,
mediana, di Grandi e Rocca, a favore di
un’autonomia “controllata”, che finì per prevalere (a questo riguardo si
veda NELLO, Grandi: la formazione di un leader fascista, Bologna, cit.).
Nel corso della discussione Rocca sostenne che il sindacalismo apolitico
avrebbe avuto senso solo dopo l’entrata in funzione dei Gruppi di
Competenza. Prima di allora - data «l’immaturità delle masse» -, era vano
sperare di sottrarre i lavoratori al controllo pervasivo dei
socialcomunisti, semplicemente lasciando loro la facoltà di organizzarsi
in modo autonomo. D’altro canto, creare dei sindacati fascisti, come
proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF al rischio della demagogia. Per
questi motivi Rocca si espresse - con Grandi - per l'istituzione di
sindacati semplicemente deambrisiana, usce dunque dall’orizzonte
programmatico del fascismo, ma Malusardi pare non rendersene conto.
Lasciata Verona per Brescia, dove rileva la direzione del locale organo
fascista, Malusardi si presenta ai camerati bresciani con queste parole. Se
noi dichiariamo senza indugi che, come nel passato, siamo contro a
qualsiasi dittatura bolscevica, ciò non significa che siamo dei
conservatori e dei reazionari. Noi siamo, invece, profondamente NOVATORI.
Se Malusardi si considera ancora e sempre un NOVATORE, Rocca, ch’è
l’iniziatore e il maestro” del NOVATORISMO ANARCHICO, è ormai un
integerrimo conservatore. Nel suo cammino di riscoperta delle radici del
liberalismo si spinse anzi sempre più a fondo, giungendo, in un articolo carico
di reminiscenze sonniniane, ad invocare la restaurazione di tutte le
prerogative della corona, usurpate dal parlamento, secondo la lettera
dello statuto albertino. Di pari passo con la maturazione conservatrice
di Rocca crescevano le sue responsabilità politiche e organizzative
all’interno del Partito Fascista e aumentavano, con esse, il suo
prestigio e la sua influenza, come l’esplosione, in marzo, del caso legato
a PMarsich, avrebbe pienamente rivelato. A ridosso del
drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un giornale vicino a
Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra oltranzista e
rivoluzionaria), rese nota una lettera di quest’ultimo alla Segreteria
del partito, nella quale egli lamentava la “degenerazione”
parlamentarista del nazionali, guidati da fascisti e da uomini della cui
fede patriottica non fosse possibile dubitare» («Il Popolo d’Italia. Rocca
prende parte anche al congresso nazionale delle Corporazioni (Milano), durante
il quale svolge una relazione sull’emigrazione italiana all’estero (cfr.
Il Lavoro d’Italia). 208 Malusardi arrivò a Brescia, dopo un breve
soggiorno a Milano, nei primi giorni di febbraio. In origine il suo
compito avrebbe dovuto limitarsi all’organizzazione del locale sindacato
fascista postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la segreteria del
partito (rispondendo alle richieste che già da due mesi giungevano dal
Fascio bresciano) ne aveva sollecitato il trasferimento da Verona. Cfr.
ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i
fasci di combattimento, Busta
[Brescia]. MALUSARDI, A guisa di presentazione, «Fiamma» ROCCA, La
più grande crisi, «Il Risorgimento», 9 febbraio 1922. 2!! 11 3
marzo 1922, col pretesto di vendicare l’assassinio del fascista ed ex
legionario Alfredo Fontana, le camicie nere di Fiume, guidate da
Francesco Giunta, rovesciarono il governo autonomista di Riccardo Zanella
e presero possesso della città. La nuova crisi fiumana si concluse dopo
dieci giorni di trattative, con la nomina di un fascista, Giovanni Giurati, a
capo provvisorio dell’esecutivo. fascismo e si scagliava contro
l’«infausta egemonia» di Mussolini, contrapponendogli la figura
incorruttibile di Gabriele D’Annunzio?!. Il “duce”, a sua volta, in una
secca replica al suo censore, ne definì lo sfogo nient’altro che una
tragicommedia, Lo scontro tra Marsich e Mussolini, che, ben lungi
dall’esaurirsi in un contrasto personale, concerneva l’indirizzo politico
del partito, innestò una lunga serie di polemiche, a tutti i livelli (a
Brescia, ad esempio, contrappose Malusardi al segretario provinciale
uscente, Minniti) °!*. Dei dirigenti del PNF, Rocca fu tra i primi a
prendere posizione. Quella della presunta egemonia mussoliniana - scrisse
in una lettera a «Il Popolo d’Italia» - è una leggenda priva di
fondamento. Quanto alla “deriva” legalitaria che negli ultimi tempi,
secondo Marsich, si sarebbe venuta a creare nel fascismo (una situazione
che Rocca si vantava di aver contribuito a determinare), essa era
destinata a durare ancora a lungo, dal momento che l’Italia stava
attraversando una fase di assestamento e non aveva, perciò, alcun bisogno
di rivoluzioni. A che pro, inoltre - si domandava Rocca -, levare la
bandiera dell’antiparlamentarismo una volta SIRO Gebo a : Il fascismo
nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Marsich, «La
Riscossa dei legionari fiumani», (la lettera è ripresa anche
dall’«Avanti!» del giorno seguente). La filippica di Marsich,
già da tempo molto critico nei confronti dell’orientamento politico del
fascismo, fu originata da un’intervista rilasciata da Mussolini (I! pensiero di
Mussolini sulla crisi ministeriale, «Il Resto del Carlino», 3 febbraio
1922), nella quale il duce”, commentando la caduta del governo Bonomi, si
era detto ben disposto verso un eventuale rientro in scena di
Giolitti. Sul caso Marsich v. FELICE, Mussolini il fascista, cit.,
p. 197 ss. us «Il Popolo d’Italia. Nel corso di un convegno straordinario
dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi prese le difese di
Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo Malusardi,
tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto nell’essersi colpevolmente
adeguato alle regole e ai “sotterfugi” del parlamentarismo, quanto
nell’assenza di un orientamento politico univoco; una lacuna grave, in
ragione della quale «in alcune zone i fascisti erano elementi novatori e,
senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i diritti del
lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti inconsci di reazione e
di corruzione». Il dibattito di Brescia riveste un’importanza notevole,
soprattutto perché la discussione intorno alla vicenda Marsich toccò
anche il tema della violenza. Turati affermò che i rilievi contro il
parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ciò,
soprattutto dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del
Veneto, notoriamente “feudo” di Marsich, non conducesse all’apologia dei
metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato al “manganello”, affermò il
futuro segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe
fatalmente condotto all’isolamento politico. Il convegno si chiuse con
l’approvazione di un ordine del giorno unitario, col quale i fascisti
della provincia di Brescia, «non riconoscendo nelle critiche contenute
nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio dissenso»,
reclamavano la «purificazione» del fascismo e facevano auspicio che alla lotta
politica fosse «restituita la forma di un civile contrasto»
(«Fiamma»). entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema
rappresentativo, semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ciò sarebbe
senz’altro avvenuto, grazie al fascismo e all’istituzione di parlamenti
tecnici. Riguardo a Gabriele D’Annunzio - proseguiva Rocca -
l’atteggiamento di Marsich era poi del tutto irragionevole: non solo
perché, dopo le infinite vicissitudini dei legionari dannunziani, nessuno
era in grado di dire quali fossero le idee politiche del “comandante”, ma
anche, e soprattutto, perché era privo di senso attaccare Mussolini per
poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle seduzioni del
dannunzianesimo. «Il fascismo — concludeva Rocca — dev'essere anzitutto
un’accolta di uomini liberi, sia pur disciplinato ad una causa ed
un’azione liberamente scelte: non un plotone di soldati al servizio di un
uomo. La Direzione del partito votò una mozione di biasimo a Pietro
Marsich°!°, poi riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal
Consiglio Nazionale del fascismo. Rocca conosce forse il suo periodo di
maggior popolarità come dirigente fascista. In quei mesi, che prepararono
l’ascesa al potere di Mussolini, sembra per molti versi che le idee di
Rocca potessero concretizzarsi in un progetto politico di ampio respiro.
Parve, cioè, che il fascismo (com'era nelle aspirazioni dell’ex
anarchico) potesse davvero configurarsi come élite ROCCA, Chiarificazioni,
«Il Popolo d’Italia». nonna Poco tempo dopo, ancora in riferimento alla
vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge «lo in politica non concepisco la
disciplina cieca e inconsapevole alla militare, ma quella intelligente e
consapevole che viene accettata dagli uomini liberi» (MALUSARDI, Sincerità
delle sincerità [cf. GRICE, APING COOPERATIVE PRINCIPLE], «Fiamma», 1 aprile
1922). Lo spirito individualista di Rocca e Malusardi — se così si può
dire - era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn politiche dei
due ex anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti,
È; fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione più o meno
aggiornata del tiberalismo i destra (come appunto credeva Rocca), ma
doveva provare a recuperare l’ispirazione i ionaria e i programmi del
Partito d’ Azione mazziniano. una pr direzione del partito. L'On. Piero
Marsich deplorato, «Il Popolo "Italia). ù dI Of La prima pra
del Consiglio Nazionale Fascista; Il Consiglio, riunitosi a Milano, si
protrasse per tre giorni, durante i quali furono Pv temi importanti, dalla
vicenda di Fiume all’indirizzo politico del partito. SNA lo a
quest’ultimo punto, Rocca si schierò una volta ancora tra i moderati. Si poteva
(miti cdi - affermò provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero
1 azione. extra] lega " rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la
perdita della credibilità, si doveva avere il coraggio di fare la
rivoluzione sul serio, non limitandosi ad “adorarla” (cfr. La seconda giornata
del Consiglio Nazionale Fascista. Rocca dirige anche la Federazione
provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. PARETI RIE
IPP IRT OT PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT dirigente, capace
di raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra e di
guidare una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. All’inizio
di luglio Rocca ricevette dalla Direzione del partito l’incarico di
procedere alla costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene
contemplati dallo statuto/regolamento, erano rimasti sulla carta) ‘!;
quindi nel settembre, fu chiamato a presiedere un apposito Segretariato
nazionale. Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva «coordinare
l’opera dei singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali», in modo
tale ch’essi servissero «da legame e da organi d’informazione fra il
Partito Nazionale Fascista e le Corporazioni sindacali», e facessero da
punto di raccolta dei «nuovi valori intellettuali e tecnici» destinati a
formare la classe dirigente del futuro - Per l’ex operaio tipografo,
orgoglioso e tenace autodidatta, che da anni andava predicando l’urgenza
di una rivoluzione dei competenti, si tratta di un riconoscimento
personale importantissimo e di una grande occasione politica. Anche per
questa ragione, il fallimento dei Gruppi di Competenza (al quale dovevano
contribuire le resistenze opposte dalla “oligarchia” fascista e dai «capi
locali più ignoranti») ?”, rappresentò, per Rocca, una cocente
delusione, che ebbe un peso non secondario nel definirne | il
mutato atteggiamento riguardo al fascismo. A fine agosto «Il Popolo
d’Italia» rese noto un programma in due parti “per il risanamento
finanziario” dello Stato e degli Enti Locali”, Il documento, che doveva
dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia
economica, era redatto da Massimo Rocca e dall’on. Ottavio Corgini, ed
era, in massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista.
Proprio a motivo della sua “classicità”, il programma Rocca/Corgini
suscitò commenti benevoli nel mondo borghese e imprenditoriale italiano”?
e valse, insieme Cfr. «Il Popolo d’Italia». Gli unici due Gruppi di
Competenza operanti nei mesi successivi all’entrata in vigore dello
statuto risultavano essere quello degli “ingegneri fascisti” e quello degli
“assicuratori fascisti triestini” (cfr. CORDOVA). «Il Popolo
d’Italia Su tutti questi punti V. principalmente AQUARONE,
Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», nonché
CORDOVA, Ka cit., p. 101 ss. si Massimo Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura pì Detto programma aveva avuto un’anticipazione
nell’articolo di Rocca Disavanzo cronico, pubblicato dall’organo
mussoliniano il 18 luglio. «Il Corriere della Sera», in un fondo
del 6 settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente (senza firma, ma
opera di Luigi Einaudi), formulò un giudizio addirittura entusiasta sul
programma economico fascista. Esso - osservò Einaudi - aveva il merito di
risalire alle «sorgenti liberali dell'economia classica», senza niente concedere
alla facile demagogia alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in tema di
regime?”4, a spazzar via le residue diffidenze dell’opinione pubblica
moderata nei confronti del fascismo, nel momento in cui esso si candidava
scopertamente a forza di governo. AI centro della riflessione di
Rocca e Corgini è l’idea che il Parlamento italiano è ormai diventato un
organo di sperpero, in balia di gruppi parlamentari irresponsabili, e che
occorresse per questo abolire l’iniziativa parlamentare a proporre nuove
spese. Tra i provvedimenti atti a risanare l’erario, il programma
annovera: la riforma della burocrazia (affinché gli uffici pubblici
cessassero di essere un ricettacolo di tutti «i vinti anticipati nella
lotta per l’esistenza e l’elevazione»); la cessione ai privati delle
industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali “inutili”; la
soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici,
ai privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione
all’essenziale dei lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che
“inceppavano” la produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dell’intero
sistema tributario, nel senso di una riduzione delle imposte dirette, le
quali andavano a detrimento della produzione, e di un corrispondente
aumento di quelle dirette, che, colpendo il consumo interno, lasciavano
ampio margine alle esportazioni”, La seconda parte del programma,
dedicata alla situazione degli Enti Locali, era senz'altro molto più
“politica”. La responsabilità prima del dissesto dei Comuni e delle
Province italiane - affermavano infatti gli estensori del “socialistoide”.
Rocca stesso, riandando con la memoria agli avvenimenti di quell’estate,
scrisse che il programma «incontrò un successo rilevante», sebbene esso
«andasse oltre l’ideologia liberale. Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura,). nell’ambito di un intervento al Teatro Sociale di Udine,
Mussolini afferma che la rivoluzione fascista non insidia il trono dei
Savoia. Lasceremo in disparte — dice —, fuori del nostro gioco, che ha
altri bersagli visibilissimi e formidabili, l’istituto monarchico, anche
perché pensiamo che la gran parte dell’Italia vede con sospetto una
trasformazione del regime che anda fino a quel punto (Un forte e chiaro discorso ammonitore
di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle necessità
storiche della Nazione, Il Popolo d’Italia. Il discorso di Mussolini è molto
apprezzato — e non puo essere altrimenti — da Rocca, che, in un
telegramma al duce, dichiara di condividerne entusiasticamente ogni parola. Più
sfumata la reazione di Gioda. Le considerazioni di Mussolini in ordine
alla questione istituzionale - scrive il segretario del Fascio torinese -
doveno essere valutate serenamente. Dopo tutto, osserva Gioda, anche REPUBBLICANI
INTRANSIGENTI come Mazzini e Crispi si sono piegati, nell’interesse
d’Italia, ad accettare la monarchia. (GIODA, Il discorso di Udine, «Il
Maglio. ROCCA, CORGINI, Pel risanamento finanziario dello stato
italiano. Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale
Fascista, «Il Popolo d’Italia», Ae documento - era delle
amministrazioni di sinistra, socialiste e popolari dell’azione «immorale,
disordinata e dilapidatrice dei sovversivi». Un rimedio poteva consistere
nell’obbligare gli amministratori rossi a preparare e fare approvare i
bilanci comunali e provinciali nei modi e nei tempi stabiliti dalla
legge» (a costo di agire «fascisticamente, senza mezzi termini ed
eufemismi»), ma, ancora una volta, la soluzione vera del problema doveva
passare attraverso la riforma tributaria, in attesa della quale Rocca e
Corgini auspicavano la costituzione, in ogni capoluogo di provincia, di
un «comitato centrale di difesa dei contribuenti Dalla metà di settembre sino
alla vigilia del congresso fascista di Napoli Rocca è impegnato a dirigere la
campagna di comizi per il risanamento finanziario, che attraversò tutta
l’Italia. Quattro giorni prima dell’inaugurazione del congresso
partenopeo «Il Popolo d’Italia» pubblica lo statuto/regolamento dei Gruppi
di Competenza. Lo statuto (che possiamo a ragione considerare il maggior
contributo di Rocca ai programmi del primo fascismo) era preceduto da una
lunga relazione introduttiva, nella quale l’autore esponeva in modo
lineare la propria dottrina della competenza. Per prima cosa Rocca
sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti e i sindacati
nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti gli
effetti, formazioni di massa, all’interno delle quali «i produttori
restavano raggruppati più con riguardo al numero che alle capacità
singole», al fine di salvaguardare «interessi particolari e soprattutto
economici»; i primi dovevano configurarsi come «nuclei esigui di
persone», le quali, in quanto «partecipanti ai gruppi medesimi», non
dovevano avere «alcun interesse specifico, né personale né di classe» da
tutelare. Ai Gruppi doveva quindi competere una funzione eminentemente
«consultiva e di studio», ma anche una funzione, per così dire, di
“armonizzazione” dei diversi interessi, un’opera «il cui precipuo
carattere spirituale» fosse quello di favorire «la concordia fra le
diverse classi e categorie produttive», così come fra il partito e le
corporazioni. Poiché, secondo Rocca, tutte queste caratteristiche non
erano compatibili «né col numero né con i metodi democratici di elezioni
e i Lo (1g ARA ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali.
Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale
Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922. Entrambi i programmi furono in
seguito pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza pubblica.
Relazioni di Massimo Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione
finanziaria dello Stato e degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922.
Rocca era a capo di una commissione finanziaria, incaricata di
organizzare i comizi. Rocca è l’oratore principale a Genova, Livorno,
Savona, Alba - dov’è previsto un suo contraddittorio con Sturzo, saltato
all’ultimo momento (cfr. «Il Popolo d’Italia») - e Palermo. di
discussioni», i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto «la
diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito. Nella sua relazione al
congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato per discutere i
problemi del Mezzogiorno, Rocca illustrò dettagliatamente il progetto di
statuto/regolamento, dicendosi altresì convinto che i Gruppi di Competenza
avrebbero recato un contributo alla soluzione della questione
meridionale?””. Sul “meridionalismo” di Rocca, che egli avrebbe in
seguito rivendicato come un titolo di merito, è necessario aprire una
parentesi. Già da qualche tempo prima del congresso napoletano, il
fascismo, che al sud mancava di una robusta struttura organizzativa,
mirava a mettere radici nel meridione. D’altronde, l’ipotesi - ormai
sempre più concreta - di una “marcia su Roma” presupponeva, per la sua
attuazione, una penetrazione politica e militare anche nei territori a
sud della capitale. Si è riunita la Direzione del PNF, «per studiare
l’organizzazione fascista in rapporto ai bisogni delle regioni
meridionali e delle isole», e definire l’ordine del giorno della prevista
adunata partenopea. Nel corso della discussione Rocca si era mostrato
scettico sull’opportunità di considerare la questione meridionale — anche
in relazione alle tematiche riguardanti l’ordinamento del partito — un
problema a se stante, slegato dalla più complessa realtà nazionale, e
aveva espresso il timore che il congresso potesse risolversi in una
contrapposizione artificiosa tra nord e Il Popolo d’Italia A norma dello
statuto, che ottenne l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre,
i Gruppi di Competenza (ripartiti in sette «rami» principali: industria,
commercio, agricoltura, trasporti, amministrazione pubblica, scuola e
difesa) si dividevano in locali, provinciali e nazionali, nominati
rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni provinciali e dal
Segretariato nazionale. Il numero dei componenti i singoli gruppi non
doveva eccedere i venti elementi, scelti, secondo il criterio della
capacità professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni caso,
iscritti al Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi doveva essere
quello di offrire un sostegno tecnico qualificato agli organismi
dirigenti del fascismo; e, a tal fine, di «compiere indagini, raccogliere
materiale di studio, emettere pareri, compilare proposte e relazioni»,
che servissero «di guida» al partito e ai sindacati. Ai Direttori
fascisti dei capoluoghi di circondario e a quelli provinciali era fatto
obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual volta avessero
dovuto assumere decisioni «su problemi anche solo in parte tecnici», e
quando si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In
questo caso lo statuto prevedeva che i Gruppi, o parte di essi, potessero
essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a comporre i
conflitti tra capitale e lavoro. Lo statuto/regolamento dei Gruppi
di Competenza, con l’annessa relazione, si trova anche in Rocca,
Relazione al Gran Consiglio Fascista sui Gruppi di Competenza. Relazione
introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di Competenza nella nuova
vita nazionale. Discorso pronunciato all’adunata di Napoli: vigilia della
Marcia su Roma, Milano, Imperia, Cfr. «Il Popolo d’Italia», sud del
Paese, o, peggio, in una guerra di frazione o di campanile tra le diverse
regioni del Mezzogiorno. Nell’insieme, si può dire che il torinese Rocca
non manifesta una particolare sensibilità verso i problemi del meridione.
Eppure, nei mesi che seguirono la nomina di Mussolini a capo del Governo,
egli è uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Rocca compe un
viaggio di studio in Sicilia per conto della Direzione del partito, e ne
rifere al Gran Consiglio. Sembra peraltro che nel corso delle sue
frequentazioni siciliane egli rimane invischiato in affari torbidi
(connessi alla gestione del consorzio zolfifero), che ne hanno in qualche
misura condizionato il futuro politico. Il punto è oscuro, ma deve essere
richiamato, dal momento che, tra le accuse mosse a Rocca da Farinacci e
dagli altri ras provinciali nel pieno della polemica revisionista, quelle
di corruzione hanno un peso non secondario. Stando a quanto ammesso dallo
stesso Rocca al segretario del Fascio di Londra (dove Rocca si trova per
seguire i negoziati in atto tra i produttori di zolfo italiani e
nordamericani), egli ha i primi contatti con i responsabili del consorzio
zolfifero siciliano alla vigilia del congresso di Napoli, in occasione di
un suo comizio palermitano nell’ambito della campagna fascista per il
risanamento finanziario”? Il Governo Mussolini - dichiara Rocca al suo
intervistatore - doveva impegnarsi a fondo per risollevare le sorti
dell’industria zolfifera siciliana, da tempo alle prese con una grave
crisi, anche «attenuando» il proprio intervento «nelle faccende del
Consorzio». Ora, a quanto risulta da un documento conservato nelle
carte di PS (un dattiloscritto anonimo), alla sollecitudine dimostrata da Rocca
verso le sorti dell’industria zolfifera sarebbe in realtà
corrisposta una ricca contropartita. I produttori di zolfo, riuniti in
consorzio, avevano dato vita a un “comitato di agitazione”, allo scopo di
esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore
del settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva
prelevato Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, «Il Popolo
d’Italia» Cfr. PNF , Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista,
Roma, Editrice Nuova Europa, Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca,
egli avrebbe individuato nella «regolazione delle acque e nel
miglioramento delle vie di comunicazione» la «misura immediata e
necessaria, sebbene non sufficiente» per attenuare i disagi delle
popolazioni meridionali (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura PELIZZI,
La questione degli zolfî e altre cose. Un'intervista con Massimo Rocca,
«Il Popolo d’Italia arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo
assicurazioni del sindacato zolfatari, senza farne menzione nell’obbligo
di rendiconto. La decisione, chiaramente illegale, aveva incontrato
l’opposizione tanto del Ministro del Lavoro del Governo Facta, quanto del
suo successore nel nuovo esecutivo a guida fascista, il popolare Stefano
Cavazzoni. A questo punto - secondo la medesima fonte -, sarebbe entrato
in gioco Massimo Rocca, il quale, dietro adeguata “ricompensa”, avrebbe
fatto valere il proprio peso politico, intercedendo con successo a favore
del consorzio zolfifero. Le informazioni contenute nella relazione citata
rispondevano probabilmente al vero, ma non è da escludere, tenuto conto
del momento in cui il documento in questione vide la luce (al termine,
cioè, della seconda “ondata” revisionista), che esse fossero montate ad
arte nel tentativo di screditare Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un
oppositore dichiarato del Governo. AI di là dei proclami ufficiali,
l’assise napoletana servì quale adunata generale in vista della “marcia
su Roma”. Già da tempo, e precisamente dopo la prova di forza offerta
dalle camicie nere in occasione dello sciopero “legalitario” indetto
dall’ Alleanza del Lavoro alla fine di luglio, molti capi fascisti
meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori del fascismo,
riunitisi a Milano, a pochi giorni dalla conclusione dello sciopero,
avevano discusso a lungo sull’eventualità o meno di un'insurrezione
armata”. Insieme a Grandi, Rocca è il più convinto fautore della via
legalitaria, mentre la linea insurrezionale aveva trovato i suoi
propugnatori soprattutto in Farinacci, Balbo e lo stesso segretario del partito
Bianchi”. Dopo la “marcia Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca].
L’importante vertice romano (erano presenti i membri della Direzione, del
Gruppo parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della
Confederazione delle Corporazioni) era stato dominato dalla relazione di
Bianchi sulla situazione politica. Il segretario del PNF aveva
chiaramente lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di
forza offerta nei giorni dello sciopero “legalitario”, non era più
disposto a tollerare lo sfacelo del Paese e si sarebbe impadronito del
potere con le buone o con le cattive. Rispetto alle due tendenze, la
legalitaria e l’insurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno
alla relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a
mezza via, e i due ordini del giorno votati il 13 agosto (il primo, per
l’istituzione di un comitato militare ristretto; il secondo, firmato
anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della
Camera e l’indizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente
del “duce”. Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale
Fascista, «Il Popolo d’Italia Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano,
Rizzoli, su Roma” (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini
alla Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre più che l’ascesa
al potere del fascismo, con l’assunzione di responsabilità ch’essa
comportava, dovesse chiudere per sempre la fase “eroica” della
rivoluzione e inaugurare quella della ricostruzione, in spirito di
concordia nazionale, e — soprattutto - nell’assoluto rispetto della
legalità. L’esigenza di porre un freno alle intemperanze dello
squadrismo era del resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da
molti fascisti della “prima ora”, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle
sue continue peregrinazioni (egli stesso amava definirsi un “nomade”),
dopo aver retto per qualche tempo la Federazione Sindacale padovana??”,
Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in provincia di Genova, dove aveva
assunto il duplice incarico di segretario politico del Fascio e di
direttore del locale organo fascista” I fascisti di Sestri Ponente si
radunarono in assemblea straordinaria. È in discussione il tema della
violenza, reso scottante a motivo dei reiterati episodi di squadrismo
verificatisi in molte zone del genovese Malusardi, secondo l’impostazione
cara anche a Rocca, a Gioda e ai fascisti più moderati (una forma mentis
di cui abbiamo già rimarcato i limiti intrinseci), rilevò che la violenza
squadrista, utile e legittima fintantoché si manteneva «chirurgica e
cavalleresca», non era giustificabile quando assumeva i caratteri
della prevaricazione. Inoltre, dopo l’ascesa al governo del fascismo, le
camicie nere avevano l’obbligo, insieme morale e politico, di essere
disciplinate. Su questo punto di grande importanza v. altresì CHIURGO,
Storia della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, e NELLO,
Dino 4 Grandi: la formazione di un leader fascista Cfr. ACS, CPC,
Busta [Malusardi]. Malusardi
è chiamato a Padova e vi si è trattenuto, contribuendo, grazie alle sue
capacità di organizzatore e di propagandista, e alla vena popolare del
suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il suo maggior successo
è il raggiungimento di un concordato con la locale Associazione Agraria,
alla fine di giugno. L'accordo è tendenzialmente favorevole ai lavoratori
(prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative, l’imponibile di mano
d’opera e la creazione di commissioni paritetiche per dirimere i
conflitti d’interesse), e Malusardi, ligio ai propri convincimenti
sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto agli agrari, anche
i più riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di boicottaggio da parte
dell’associazione padronale, il congresso sindacale provinciale si conclude con un ordine del giorno molto
duro, nel quale s’invocava un’«opera decisa ed inesorabile, per far
piegare, innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...]
datori di lavoro» («Il Lavoro d’Italia». Malusardi rimase a Sestri
Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi
Edoardo]. Noi non possiamo più — sostenne Malusardi a proposito dell’autorità
politica I scavalcarla ed esautorarla, bensì la dobbiamo coadiuvare e
vigilare perché applichi inflessibilmente lo imperio della legge. E
conclude: Lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio di
ricino, la gradassata inutile, e chiedete invece delle biblioteche e
delle scuole di cultura Aspettative e delusioni
Nonostante gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza
del Consiglio non attenuò affatto le brutalità fasciste, che anzi
subirono un’impennata, culminando nella strage di Torino.
L'episodio è fin troppo noto e costituisce una delle pagine più fosche
nella storia del fascismo, che qui giova rievocare soprattutto per le
conseguenze che ebbe sulle sorti politiche di Gioda e di Rocca. Accampando
come d’abitudine il pretesto di vendicare l'uccisione di due camerati,
gli squadristi torinesi, capeggiati da Brandimarte, scatenarono una sanguinosa
rappresaglia contro le organizzazioni socialcomuniste. In quella che
Salvemini define una vera orgia di sangue trovano la morte una ventina di
persone, tra le quali l’ex anarchico Berruti, consigliere comunale
comunista e noto L'assemblea straordinaria del Fascio, «Giovinezza.
sn «i pa del dicembre è solo l’apice di una lunga teoria di fatti di
sangue. In un telegramma al Ministro Di Interni, il Prefetto di Torino
mostrava di aver perfettamente compreso la situazione («Articoli comparsi
su ultimi numeri del giornale fascista «Il Maglio» - O rivelano
chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro organizzazioni
comuniste accendono rancori di parte che potranno esplodere in forma
violenta ed improvvisa») e chiedeva l’invio di rinforzi. ACS, MINISTERO
DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris., Busta [Fascio di Torino]. : It
i La ricostruzione più accurata di questi drammatici avvenimenti si trova
in FELICE, I fani di Torino in «Studi Storici», SALVEMINI, Scritti
sul fascismo, Milano, Feltrinelli, esponente del Sindacato Ferrovieri. Gioda,
il cui potere effettivo all’interno del Fascio torinese era andato
vieppiù scemando (tanto che, negli ultimi mesi, la sua attività si era
limitata a curare le corrispondenze per «Il Popolo d’Italia»), non ebbe
alcuna responsabilità nell’accaduto?‘* ed anzi, al pari di Rocca, non si
fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi. Vecchi, al
contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti, se ne
attribuì la paternità”, a nessun altro scopo - come sembra - se non
quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che
aveva incaricato una commissione d’inchiesta di far luce
sull’accaduto), «la sua | figura di ras di Torino e del Piemonte»?
Con una mossa a effetto, carica però di significati politici - e non solo
per quanto atteneva agli equilibri interni del fascismo torinese -, Rocca
e Gioda fecero giungere una corona di fiori sul feretro di
Berruti, loro amico di gioventù ‘‘?. Gli squadristi - nota Rocca a
distanza - non gli avrebbero mai perdonato quel gesto. Episodi come
quello di Torino contrastavano drammaticamente con la | necessità - posta
in evidenza da Rocca e non da lui soltanto - di una | normalizzazione del
fascismo. I primi mesi di vita del governo Mussolini Sulla figura di Berruti v.
ANDREUCCI, DETTI, Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era stata
ordinata a sua completa insaputa. Cfr. FELICE, / fatti di Torino
Popolo» FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 82.
% Cfr. GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del comunista Berruti, «Il
Popolo d’Italia. Gioda scrive di Berruti ch’egli era «indubbiamente un
uomo in buona fede e dotato di qualità intellettuali non comuni. Cfr.
MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura L’inchiesta ordinata da
Mussolini, affidata a Giunta e Gasti, accerta le gravissime
responsabilità degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle
indagini, il Gran Consiglio si limitò a statuire lo scioglimento del
Fascio di Torino, delegando l’incarico della sua ricostruzione allo
stesso De Vecchi, nominato fiduciario con pieni poteri, mentre Gorgolini
e Gobbi (due dei più stretti collaboratori di Mario Gioda), autori di un
memoriale contro il quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per
esservi riammessi solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista,
chiaramente compromissorio, non significava che Mussolini avesse
perdonato a Vecchi la sua indisciplina. Di lì a pochi mesi, infatti, il
quadrunviro fu dapprima allontanato dal Governo, ove ricopriva il ruolo
di sottosegretario alle pensioni e all’assistenza militare, quindi, dopo
la sua nomina a governatore della Somalia, costretto a lasciare
l’Italia. In una vibrante lettera a Mussolini, poi allegata agli atti
dell’inchiesta, In un discorso al Teatro
Ambrosiano, il quadrumviro difese l’operato di | Brandimarte e si assunse
la responsabilità politica e morale della strage. Cfr. «La Gazzetta del
| furono segnati da questa stridente contraddizione, in un
difficilissimo equilibrio tra disordine e legalità, spinte eversive e
propositi riformatori, ricerca del consenso e violenza indiscriminata.
Sebbene funzionale agli interessi del partito, il dibattito sulla legge
elettorale, che monopolizzò la vita politico/parlamentare italiana è UNO
DEI POCHI MOMENTI REALMENTE COSTRUTTIVI DEL FASCISMO. Rocca, già da tempo
schierato per il ritorno al sistema maggioritario”, entrò nella speciale
commissione per la riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio,
primo passo verso quella che sarebbe diventata la legge Acerbo”. Per un
certo MITA] riguardo si veda l’articolo // processo alla proporzionale,
in «Il Risorgimento. Sulla delicata questione del sistema
elettorale Rocca ha un vivace scambio di vedute con Farinacci, fautore di
un ripristino dell’uninominale puro. In una lettera a Farinacci, Rocca
definì un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema proporzionale
vigente (che se non altro aveva avuto il merito di immettere «sangue
nuovo» nell’asfittica vita parlamentare italiana), un’eventuale
reintegrazione del collegio uninominale; una formula dominata «dalle
aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre
con mezzi leciti ed onorevoli», e che per di più aveva il difetto di
acutizzare «Io spirito campanilistico» (La discussione sul sistema
uninominale. Una lettera di Massimo Rocca all'on. Farinacci, «Cremona
Nuova). Nella sua pronta replica, Farinacci obietta che la rivoluzione
fascista ha a tal punto innovato i costumi politici degl’italiani che il
ristabilimento dell’uninominale non puo considerarsi un semplice ritorno
al passato. «Se allora, nel passato — sosteneva Farinacci — sono le
clientele che decideno, adesso
sarebbero da una parte il criterio e il giudizio della Federazione
provinciale fascista e dall’altra la conoscenza personale del corpo elettorale
e il suo giudizio, non più formulato in virtù della potenza della
clientela, ma in forza del valore del candidato, facilmente apprezzabile
dagli elettori per la loro educazione fascista». Quanto al problema del
campanilismo — questione niente affatto trascurabile, soprattutto qualora la
si consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e Farinacci in
merito al fascismo provinciale -, il ras di Cremona fu ancora più
esplicito. «Tu — rimprovera infatti a Rocca — prescindi dall’efficacia
del nostro movimento, che ha allargato la visione dei singoli i quali
sono inclinati, mercé l’opera nostra, a conciliare l’interesse della provincia
con quello della nazione, subordinando l’uno all’altro» (FARINACCI, //
perché del ritorno al collegio uninominale). a conclusione dei suoi
lavori, la commissione (di cui facevano parte, oltre a Rocca, Michele
Bianchi, Roberto Farinacci, Rossi, Maraviglia, Bastianini e Sansanelli) si
pronuncia ufficialmente per il sistema maggioritario — secondo uno schema
elaborato da Bianchi — e contro l’uninominale. Rocca, che si trova in
Sicilia e non poté esser presente alla riunione, invia una lettera di piena
adesione, di cui da conto lo stesso Bianchi (cfr. «Il Popolo d’Italia).
Il Gran Consiglio accettò le decisioni della commissione (il progetto Bianchi
raccolse 21 voti a favore, contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, //
Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista), dopodiché il
sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giacomo Acerbo, fu
incaricato di stendere il relativo disegno di legge. Questo, sottoposto
all’esame preventivo di una commissione parlamentare interpartitica (la
cosiddetta commissione dei VIT PATTI VENI "TV ZO E TOPO
VOTO VI VITTI E PP TI periodo, parve che alla riforma elettorale —
com'era negli auspici di Michele Bianchi e dello stesso Rocca - potesse
accompagnarsi una più ampia azione di rinnovamento istituzionale.
Nell’ultima seduta della sessione di aprile il Gran Consiglio deliberò la
creazione di un Gruppo di Competenza per la riforma costituzionale,
affidandone la presidenza proprio a Rocca?!. Dinanzi all’allarme
suscitato negli ambienti liberali da queste manovre Rocca si affrettò ad
«assicurare ogni patriota in buona fede» che né l’istituto monarchico, né
i principi informatori dello Statuto sarebbero stati messi in
discussione”. In realtà, proprio la diffidenza manifestata dagli altri
partiti della maggioranza e il timore che essa potesse incidere
negativamente sul cammino della legge elettorale, indussero Mussolini a
lasciar cadere ogni velleità riformatrice. Rocca, che finalmente intravede
la possibilità di legare il proprio nome - e la funzione stessa del
fascismo - ad un’opera propositiva di riforma, ne resta
amareggiato. Questa volta — scrive a distanza di tempo — la delusione è
profonda. Il movimento fascista, che da quattro anni parla senza tregua
di rivoluzione e già ne invocava i pretesi e illimitati diritti contro
ogni critica, non osava intraprendere la più modesta riforma, meno
radicale di quella “corporativa” attuata d’ANNUNZIO (si veda) a Fiume;
una riforma capace di giustificare, dinanzi ai contemporanei e ai posteri,
le gesta passate del fascismo, il dominio presente, la chiara intenzione
di prolungarlo nel futuro, la retorica sulla nuova era dischiusa al
Paese, le eccessive intemperanze verbali e le violenze illegali. La sua
rivoluzione si riduceva dunque ad un'etichetta, dal significato puramente
negativo, comodo pretesto per trascurare la legalità | vigente, senza
però curarsi di foggiarne un’altra qualsiasi. Mussolini trascurava
diciotto) - che lo approvò -, fu ratificato dalla Camera il 21 luglio,
dopo una lunga discussione. Su tutti questi punti v. FELICE,
Mussolini il fascista Cfr. PNF, I! Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era
fascista Il Gruppo comprendeva anche: Bianchi (presidente), Costamagna
(segretario), Corradini, Maraviglia, Casalini, Rossoni,
Tamaro, Panunzio, Lolini, Gatti e Vecchio. «Il Popolo d’Italia»,
FELICE, Mussolini il fascista Fedele a una visione tecnocratica della politica,
Rocca si apprestava a presentare uno schema di riforma i cui punti chiave
erano: il riconoscimento giuridico dei sindacati «d’ogni categoria e
d’ogni classe»; l’elezione, da parte dei dirigenti e delle federazioni
sindacali, di consigli tecnici dell'economia, «comprendenti tre
classi», a livello locale, provinciale e — nazionale; il divieto di
sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al Senato
vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, «per togliere loro ogni
preoccupazione elettorale ed assicurare il contributo dei migliori uomini
agli affari pubblici»; il divieto al Parlamento di proporre nuove
spese; l’approvazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come
il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138). un'occasione unica
di mostrarsi grande e d’imporsi, col suo prestigio di riformatore, ai
capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti
esteriori La delusione di Rocca fu tanto più grande in quanto all’accantonamento
dei disegni di riforma costituzionale si aggiunse il concomitante
naufragio dei Gruppi di Competenza, l’iniziativa nella quale egli aveva
riposto le maggiori speranze. In un’intervista a un quotidiano
romano (riprodotta in parte anche da «Il Popolo d’Italia»), Rocca, pur
ribadendo che i Gruppi di Competenza, «nati da un’idea prettamente
aristocratica», rappresentavano la maggior novità del fascismo, riconobbe
che la loro attuazione dipendeva «dalla volontà del Governo di
utilizzarli»?9°. Dietro questa semplice constatazione si nascondeva
l’amara consapevolezza delle grandi difficoltà fin lì incontrate dai
Gruppi all’interno stesso del fascismo (si tenga presente che, a quasi
quattro mesi dall’entrata in vigore dello statuto/regolamento, i soli due
Gruppi realmente funzionanti erano quello per la pubblica amministrazione
e quello per l’educazione, quest’ultimo, peraltro, in pessimi rapporti
con il ministro Gentile) AI Gran Consiglio del 17 marzo, Rocca, dopo aver
riferito sulla situazione generale dei Gruppi, affermò la necessità di
riconoscere loro una «franca autonomia», sola condizione per garantirne
un'effettiva operatività”. Nei mesi successivi qualcosa parve smuoversi,
al punto che, al Gran Consiglio del 28 luglio, Rocca poté annunciare
l'avvenuta costituzione di 178 Gruppi di Competenza provinciali,
ottenendo l’assicurazione che gli organi direttivi del partito avrebbero
fatto il possibile per promuoverne lo sviluppo”. Nonostante le apparenze,
tuttavia, i Gruppi di Competenza conducevano un’esistenza stentata, senza
un reale collegamento gli uni con gli altri e con la segreteria
nazionale, mal visti e spesso dichiaratamente osteggiati dai fiduciari
del partito e dalle stesse corporazioni”! L’insorgere della prima
crisi revisionista, conclusasi con l’insuccesso di Rocca, diede loro il
definitivo 255 Ibidem, pp. 140-141. 256
NicoLA Pascazio, /l Gran Consiglio, i Gruppi di Competenza, la burocrazia, la
scuola, l'Istituto delle Assicurazioni. Intervista con Rocca, «Il
Giornale d’Italia». A questo riguardo v. CORDOVA, op. cit., pp. 166-167.
258 PIF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista V.
altresì / gruppi di competenza e la riforma della scuola nella relazione di
Rocca al Gran Consiglio Fascista, «Il Popolo d’Italia», 24 marzo
1923. 259 Cfr. PNF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era
fascista E? estremamente significativo, ad esempio, che il primo consiglio
nazionale delle Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno 1923, non
avesse minimamente affrontato il tema dei Gruppi di Competenza. Cfr.
CORDOVA, op. cit., p. 164. colpo di grazia”. Complessivamente, quindi, il
primo anno di vita del governo Mussolini non rispose alle aspettative,
personali e politiche, di Massimo Rocca e non v’è dubbio che fu proprio
la disillusione a indurre l'ex anarchico alla sua ultima battaglia
polemica. Fatale alle aspirazioni rinnovatrici di Rocca, mentre
Mario Gioda tornava faticosamente alla vita politica (il Fascio di
Torino, sciolto in conseguenza dei fatti del dicembre, fu ricostituito),
il biennio vide la consacrazione di Malusardi come dirigente
sindacale; e tuttavia — non sembri un paradosso -, proprio nel 1924 la
carriera dell’ex stuccatore rischiò di spezzarsi per sempre. AI pari dei
suoi vecchi compagni — sebbene su un piano diverso -, anche Malusardi si
trovò a dover fare i conti con la trasformazione del fascismo in
regime. Malusardi lasciò Sestri Ponente, per dirigere la
Federazione sindacale di Firenze”. In pochi mesi egli seppe conferire
all’organizzazione corporativa dell’area fiorentina maggiore stabilità ed
efficienza”. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi fu
nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da poco
costituita”, Quali fossero gli orientamenti generali del fascismo in
materia sindacale e quanto essi si discostassero dalla concezione
operaista di Malusardi, alimentata dai miti corridoniano e dannunziano,
lo mostrò chiaramente il cosiddetto patto di Palazzo Chigi, stipulato tra
la Confederazione delle Corporazioni e la Confindustria, un accordo che
segnò «il fallimento, almeno nell’industria e in quel momento,
dell’ipotesi di In seguito alla sua sospensione per tre mesi da ogni
attività di partito, Rocca lascia la segreteria dei Gruppi di Competenza al suo
vice Costamagna, che la assunse a titolo definitivo. Nel frattempo, il
Gran Consiglio daveva disposto la trasformazione dei Gruppi in Consigli Tecnici
nazionali, organismi ancor più evanescenti, dei quali ben presto non sarebbe
rimasta traccia. Cfr.AQUARONE al Teatro Scribe, ha luogo l'assemblea del Fascio
per l’elezione del nuovo Direttorio. Questo, radunatosi quattro giorni
dopo, riconfermò segretario politico Mario Gioda. Cfr. «Il Maglio», 2
giugno 1924, e «Il Popolo d’Italia. Cfr. MALUSARDI, Elementi di storia del
sindacalismo fascista, E A n past p In base alla relazione
presentata da Malusardi al primo consiglio nazionale delle Corporazioni,
le corporazioni operanti nella provincia di Firenze sei mesi dopo il suo
arrivo a Firenze – erano XIV (I agricoltura, II commercio, III industria, IV impiego,
V professioni intellettuali, VI scuola, VII sanità, VIII dipendenti monopoli e
aziende statali, IX stampa, X teatro, XI trasporti e comunicazioni, XII ospitalità
nazionale, XIII industrie artistiche, e XIV belle arti), per un totale di
circa 50.000 iscritti. Cfr. «Il Lavoro d’Italia», Ctr. sindacalismo
integrale»’’. L’intesa, fondata sul principio della collaborazione e
raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo, sollevò tensioni e
contrasti all’interno del sindacalismo fascista. Si riunì a Roma il consiglio
nazionale delle Corporazioni, nel corso del quale si manifestarono due
tendenze: la prima (più conciliante e che finì per prevalere) facente
capo a PANUNZIO (si veda) e sostenuta dal segretario generale Rossoni,
per il sindacato unico obbligatorio e il riconoscimento giuridico dei
contratti collettivi di lavoro; la seconda, rappresentata da Bagnasco e
Malusardi, a favore dell’azione diretta contro gl’industriali. Nel clima
di confusione seguito al rapimento e all’assassinio di Matteotti,
Malusardi si dimise dalla segreteria dei sindacati fascisti fiorentini
(dove è sostituito da Lusignoli) 2°. È un primo atto di ribellione, al quale fa
seguito la costituzione - con Galbiati (segretario della Corporazione
nazionale dell’arte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi - d’un comitato
d’azione per rigenerare le Corporazioni, Nell’ordine del giorno diramato
a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la debolezza, l’incertezza
programmatica e l’autoritarismo che contraddistinguevano l’opera delle
Corporazioni fasciste, e s’invoca un totale revisionismo, nei metodi, nei
programmi e nel gruppo dirigente. Le Corporazioni — proseguiva il
documento - dovevano agire «in senso nettamente sindacalista», avendo
presenti gli «interessi effettivi della classe produttiva», senza
lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici («di lotta di classe e di
collaborazione aprioristica») e politici, ma anzi ricercando l'intesa «con
le masse e le organizzazioni che si muovevano sul terreno nazionale».
Quanto ai rapporti con il Partito Fascista, questi dovevano essere
fissati «in forma di libera e consapevole alleanza»?”°. Pochi giorni
dopo, PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Su questi punti v. CORDOVA. PERFETTI,
Il sindacalismo fascista. Per la cronaca del congresso v. «Il
Popolo d’Italia», e «Il Lavoro d’Italia.
Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, «La Giustizia». Cfr. Un sintomatico
pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, «La Voce
Repubblicana. AEREI ; i i Dal 13 settembre il Comitato iniziò le
pubblicazioni di un proprio settimanale: «L’Idea Sindacalista». Jai
Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni
milanesi, cit. («La Voce Repubblicana», che, da sempre ferocemente
critica nei confronti degli orientamenti sindacali del fascismo, seguì
con grande attenzione gli sviluppi della crisi, definì una «diagnosi perfetta»
quella contenuta nell’ordine del giorno del Comitato milanese). Direttorio
nazionale delle Corporazioni sanzionò l’allontanamento «dal movimento sindacale
fascista» di Galbiati e Malusardi?”!, il quale però, all’inizio di
ottobre, dette le dimissioni dal Comitato, ottenendo il ritiro del
decreto di espulsione”. Non è chiaro per quale motivo Malusardi si decise
a quella mossa, ma è certo che, così facendo, egli salvaguardò la
propria carriera politica. Pertanto, pur senza mai rinnegare del tutto le
proprie radici anarcosindacaliste (si può dire infatti che la sua azione
nell’ambito del sindacalismo fascista continuò a vivere di
velleità operaiste) ?”?, Malusardi la cui fedeltà al fascismo non fu comunque
mai in discussione - rientrò | disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi
sempre più ai modelli imposti dal regime. Nell'autunno del 1924, preludio
all’avvento di una lunga dittatura, si concluse quindi — almeno
formalmente — la vicenda “libertaria” di Malusardi: un’uscita di scena meno
appariscente di quella toccata in sorte a Massimo Rocca e a Mario Gioda,
ma egualmente emblematica. Si riune a Roma il Direttorio nazionale
delle Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati fu liquidata
come l’atto «di quattro persone che non avevano alcuna autorità e alcun
seguito». Cfr. «Il Popolo d’Italia Hi Provvedimenti del Direttorio delle
Corporazioni. Sull’intera vicenda v. CORDOVA 2a Dimissioni!, «L’Idea
Sindacalista Un mese dopo Malusardi presenzia regolarmente al secondo congresso
nazionale delle Corporazioni (Roma). Cfr. «Il Popolo d’Italia. Esemplare,
a questo proposito, l’esperienza di Malusardi come segretario dell’Unione
provinciale dei sindacati fascisti di Torino, segnata dai continui contrasti
con l'Unione industriale fascista, e la FIAT in particolare (al riguardo
v. SAPELLI, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino, Milano,
Feltrinelli. Le aspirazioni libertarie di Malusardi trovano un
ultimo rifugio nell’utopie socializzatrici della Repubblica Sociale, nella
quale egli ha — comunque un ruolo defilato e la cui funesta parabola non
gli risparmia dolori e amarezze (uno dei suoi figli, divenuto partigiano,
è fatto prigioniero dai fascisti e condannato a morte, Malusardi si rivolge
a Mussolini, il quale intervenne personalmente affinché al ribelle è risparmiata
la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA, Segreteria particolare
del duce. Nel dopoguerra, nonostante la non più verde età, Malusardi
partecipa attivamente alla vita politica e sindacale nelle file della CISNAL.
Il suo approccio alle questioni del lavoro resta di fatto immutato,
sentimentalmente ancorato alle memorie di Corridoni e Annunzio (a titolo
di esempio si vedano i saggi Corridoni e Socialità di ANNUNZIO (si veda),
pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de «Il Maglio. Muore a
Torino. Sulla figura e l’opera di Edoardo Malusardi, quale rappresentante
dell’ala sinistra del fascismo, v. infine PARLATO, La sinistra fascista. Storia
di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad indicem. L’inizio
della polemica revisionista è giustamente fatto coincidere # L
pubblicazione su «Critica Fascista», dell articolo Rocca Fascismo e paese
. Già da qualche mese, tuttavia, dinanzi al protrarsi delle illegalità
fasciste, i settori più lungimiranti del PNF -e I ambienti ad essi vicini
- avvertivano con crescente inquietudine l urgenza di un cambio di rotta,
di una nuova fase che segnasse il definitivo inserimento del fascismo
nell’ordine statutario. Intervenendo alla Camera, l’on. Misuri, già
parlamentare fascista, anticipa, di fatto, alcuni dei temi poi sollevati
da Rocca nel suo celebre articolo. In RT Misuri chiede la smobilitazione
delle squadre e | inclusione le ; MVSN nell’esercito regolare; la
cessazione, da parte del segretario si Partito Fascista e dei
responsabili dei singoli Fasci, d ogni ingerenza srt; i affari di
competenza dell’esecutivo e delle prefetture; ! allargamento va base del
Governo a tutte le «sane correnti nazionali». Il discorso kr deputato
perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di breve stagione
del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ché Di furono
altri tipi di dissidentismo) ‘, fenomeno parallelo — e in un certo sen
L’articolo uscì simultaneamente anche sulle pagine de «Il Giornale
d’Italia», che lo definì «notevole». Lira : Epi ? Alfredo Misuri,
di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn i fasciste,
dovette abbandonai Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f , d a r i
ua ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li 1922 a seguito
di duri contrasti personali con al sa 1 di i P ta nel PNF rientrò per
bre i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr
| lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi
di a. MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un
uinquennio di vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924. i i i
95-122. | testo completo del discorso v. /bidem, pp. ar È ‘ , hà
vira ore dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni
sgherri fascisti, guidati dall’ufficiale della Milizia Arconovaldo
Bonaccorsi, e malmenato Cs sull’episodio v. Per l'aggressione all’on.
Misuri, «Il Giornale d Italia», 31 maggio 1 i ) Il dissidentismo
conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trovò lun pun concreta
nel gennaio 1924, con la nascita dell’associazione “Patria e Libertà”,
evocante, gi: speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le
riserve espresse dai dissidenti - e da Misuri in particolare — sul
revisionismo e su Massimo Rocca , tra le due “eresie” fasciste correva
una differenza sostanziale. Come già notava acutamente Giacomo Lumbroso
nel 1925, mentre i dissidenti non nutrivano grandi speranze circa la
capacità del fascismo di autoriformarsi (tant'è che finirono per distaccarsene
quasi subito), Rocca s’illudeva di far trionfare la propria idea “da
dentro” il partito”; credeva, in altri termini di poter cambiare il
fascismo dal suo interno, nella convinzione - per dirla con le sue parole
- che esso potesse realmente diventare «l’ala marciante e riformatrice
del liberalismo»”. In questo “vizio d’origine”, prima ancora che nei
mutevoli umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e
«degli altri ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo
(che avrebbe fatto della battaglia revisionista un’estenuante e
infruttuosa «lotta di posizione») *, devono essere ricercate le ragioni
ultime della sconfitta di Massimo Rocca. Come detto,
l’articolo di Rocca vide la luce su «Critica Fascista», la nuova rivista
di Giuseppe Bottai, che aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno
nel nome, taluni circoli monarchici piemontesi di fine
Ottocento. Dopo il delitto Matteotti I associazione prese a pubblicare il
settimanale «Campane a stormo» (poi riesumato da Misuri nell’immediato
secondo dopoguerra). n Sul dissidentismo fascista, la sua complessa
vicenda politica e le sue diverse coloriture e ramificazioni, v.
principalmente LOMBARDI, Per le patrie libertà: la dissidenza fascista
tra mussolinismo e Aventino, Milano, Angeli, ma anche con più esplicito
riferimento all’operato di Misuri e Corgini, ZANI, L'Apsocio4iali
costituzionale “Patria e Libertà, in «Storia Contemporanea», ‘ondamento delle
loro critiche al revisionismo i dissidenti di “Patria e Libertà” ponevano
la considerazione che fosse ormai necessaria «la liquidazione, non la revisione
del fascismo». Pisi «caotici costruttori di teorie», in quanto convinti
di poter salvare qualcosa del ‘ascismo, lavoravano «inconsciamente» per
esso (Revisionismo, «Campane), PSR A E e Cfr. LUMBRO050, La crisi del
fascismo, Firenze, Vallecchi, Lumbroso (già nella fiorentina “Banda dello
sgombero”, una delle prime manifestazioni del dissidentismo fascista) era
stato tra i promotori in Toscana dei Fasci Nazi nali, formazioni autonome
che pretendevano riallacciarsi al fascismo “puro” delle origini.
«Fascista di animo e di azione sin dalla vigilia — scriveva Lumbroso nelle
pagine ug se suo da Ta sono rimasto tale perché non credo che la dottrina
e lo spirito del cismo debbano confondersi collo scempio che ne è stato
compi i inetti i f ì iu indegni. RIA: dae Re) 2a ” Massimo
Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. ZANI. Fin dai primi numeri, il
periodico romano si era fatto interprete di una concezione legalitaria,
costituzionale del fascismo. Sebbene muovendo da premesse culturali e
politiche molto diverse, anche Bottai - come Rocca - riteneva finito il
tempo della “rivoluzione” e chiedeva il rinnovamento del partito, la
sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista «con una nuova élite»
che fosse in grado di guidare la ricostruzione del Paese. Un mese e mezzo
prima che Rocca aprisse ufficialmente il fronte revisionista, un altro
collaboratore di Bottai, l’ex sindacalista corridoniano Marsanich, chiara in
modo inequivocabile l’orientamento della rivista. Noi — scrive
Marsanich - diciamo che il nostro partito deve iniziare subito un’opera
di revisione, anzi di liquidazione, di certi suoi precetti e di certi
suoi metodi, che se furono utili prima, oggi non servono più, se non ad
intorbidire le fonti della nostra forza ideale e politica. Intanto
dobbiamo dire alto e forte che proprio uno dei nostri compiti necessari,
in quanto l’Italia è nata dal liberalismo e cresciuta nel parlamentarismo,
è quello di ridonare al Parlamento il suo valore di massimo istituto
storico e politico dell’età nostra, di riconciliare insomma la Nazione
col Parlamento. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire la necessità
di smobilitare e di proporsi nettamente, con un superiore obiettivo di
sintesi nazionale, l'eventualità di avvicinarsi a molti, se non a tutti,
i suoi nemici di ieri"! Essendo queste le premesse, era quasi
inevitabile che Rocca, il quale da tempo esorta alla normalizzazione, trova
in Bottai e nella redazione di «Critica Fascista» degli interlocutori
attenti e ben disposti. Ma ? Sul ruolo avuto da Bottai e da «Critica
Fascista» nel dibattito interno al fascismo durante il primo scorcio
degli anni venti (con particolare riferimento al revisionismo) v.
soprattutto MANGONI, L ‘interventismo della cultura. Intellettuali e riviste
del fascismo, Bari, Laterza, GENTILE, GUERRI, Bottai fascista critico,
Milano, Feltrinelli, BOTTAI, Disciplina, «Critica Fascista. Che il fascismo,
compiuta la sua “rivoluzione” e conquistate le leve del potere, dovesse
por mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo un
programma propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti
più “politici”. Lo stesso Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata
sul secondo numero di «Critica Fascista» (e riprodotta anche da «Il
Popolo d’Italia» del 30 giugno), aveva scritto: «Caro Bottai, prima
ancora che il programma, mi piace il titolo della tua rivista, titolo che mi
appare come un gesto di consapevole orgoglio e come un privilegio del
nostro movimento. Il quale, raggiunto il suo secondo tempo costruttivo,
deve affinare le sue capacità di controllo e di critica». !!
Augusto DE MARSANICH, Revisione Su MARSANICH (si veda), figura di rilievo del
regime mussoliniano e quindi, nel secondo dopoguerra, uno dei
protagonisti del movimento neo-fascista, v. Dizionario biografico degl’italiani.
cosa scrive Rocca che desta tanto clamore? La “rivoluzione” fascista —
questo in sintesi il suo pensiero — aveva avuto il merito di strappare l’Italia
al baratro del bolscevismo, ma una rivoluzione aveva ragion d’essere
soltanto se finalizzata al bene della Nazione, di “tutta” la Nazione, e
non alla propria autoconservazione. Il fascismo - spiega Rocca – dove servire
il Paese e non viceversa, come preteso dai capi provinciali, i quali,
interessati solo a perpetuare il loro piccolo potere, erano i primi
responsabili del perdurare dell’illegalità e del clima di tensione, da
guerra civile permanente, che ancora dominava in certe regioni"’.
Ora, nella battaglia intrapresa per la sprovincializzazione” del
fascismo, Rocca era convinto di trovare in Mussolini un alleato naturale,
ma quest’opinione, se non mancava di riferimenti nella realtà, non teneva
nel dovuto conto la spregiudicatezza tipica del modus operandi del
“duce”, ed era perciò, in definitiva, frutto di una valutazione
decisamente ottimistica. Scorrendo l’articolo di Rocca si ha I
impressione che l’autore tendesse a sopravvalutare certe prese di
posizione di Mussolini é che, più o meno inconsapevolmente, finisse per
attribuire al duce” la propria personale visione del fascismo. I segni
più evidenti della volontà conciliatrice del Presidente del
Consiglio - scriveva Rocca - erano stati: la promessa,
lanciata nel primo discorso in Parlamento, di utilizzare a servizio del
Paese tutti gli elementi di valore, persino se provenissero dall’estrema
sinistra: l’appoggio dato alle Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle
di fatto, se non di diritto, sebbene ospitassero nel loro seno vaste
masse di non tesserati; I incoraggiamento ai Gruppi di Competenza, destinati a
completare e correggere l’opera sindacalista compiuta nei ceti proletari;
la costituzione di un governo non esclusivamente fascista; l'immissione di ufficiali dell’esercito nei
quadri della Milizia, per maturarne la futura fusione con l’esercito
medesimo; il rifiuto ostinato, intelligente ed onesto, di soddisfare alle
pretese d’impiegati e di favori da parte di troppi procaccianti in veste
fascista, specie dell’ultima pes; Se pensiamo alla sorte
ingloriosa che, complice proprio la caduta in disgrazia del loro mentore,
sarebbe spettata di lì a poco ai Gruppi di Competenza; all’effettivo
strapotere della Milizia e, soprattutto, al vero e proprio esercito di
profittatori, d’intriganti e d’incapaci che affollava l’entourage di
Mussolini (uno stato di cose a cui egli, forse per effetto della Cfr.
MassIMo Rocca, Fascismo e paese, «Critica Fascista. L’articolo, con altri due
dello stesso periodo, si trova ri ilti i STE , con , prodotto — sotto il
titolo // l'Italia - anche in Idee sul fascismo. pan sua sfiducia
negli uomini, trovò sempre inutile opporsi), abbiamo la misura di quanto
Rocca s’ingannasse. In ogni caso, il suo articolo fu bene accolto da «Il
Popolo d’Italia», che anzi ne fece pubblicamente l'elogio", e nel
complesso, lungo tutta la durata della prima crisi revisionista, il
giornale diretto dal fratello del “duce”, Arnaldo, ne incoraggiò
apertamente le fatiche. Mussolini stesso, del resto, sebbene senza mai
esporsi in prima persona, dette una mano alla campagna revisionista, ma
la ragione di questo suo favore non derivava tanto, come crede Rocca, da
un’intima convinzione ideale, bensì - come ha ben sottolineato Felice (e
com'era, d’altronde, nel carattere del duce) - da considerazioni di
opportunità politica. L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti,
è quello di una graduale apertura verso le forze costituzionali
(liberali, cattolici, ma anche socialisti riformisti), che consentisse un
ampliamento — e dunque un consolidamento — della sua maggioranza. A
questo progetto si opponevano scopertamente gli intransigenti alla
Farinacci, ed ecco, perciò, che l’esistenza di una corrente revisionista,
moderata, all’interno del fascismo, poteva servire a un duplice scopo: a
rassicurare gli altri partiti e l'opinione pubblica sulle “buone
intenzioni” del governo e a tenere a freno i ras, in vista di un
possibile compromesso! Fu quindi grazie a Mussolini che il
dibattito inaugurato da Rocca sulle pagine di «Critica Fascista» poté
uscire «dall’ambito piuttosto limitato» della rivista di Bottai per
diventare, grazie al coinvolgimento di altri organi di stampa, «un fatto
politico di portata nazionale»'”. Per rimanere all’ambito strettamente
fascista, i giornali che più degli altri si fecero carico di assecondare
i disegni dei revisionisti furono tre: «Il Corriere Italiano» di
Filippelli, «L'Impero» di Carli e Settimelli, e, inizialmente in misura
più sfumata, «Il Nuovo Paese» di Carlo Bazzi. Si trattava di fogli dalla
linea editoriale incerta e contraddittoria e - ciò che più conta - legati
a interessi equivoci'5; così, se è innegabile che il loro sostegno Su
questo aspetto non secondario della personalità mussoliniana v. RENZO DE
FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. FROMBOLIERE, Un monito fascista:
basta con gli pseudo-Mussolini!, «Il Popolo d’Italia Cfr. Renzo DE
FELICE, Mussolini il fascista. «Il Corriere Italiano» era sorto grazie a
finanziamenti di origine imprecisata ed era, a ragione, considerato
l'organo ufficioso del Governo, essendone diretti ispiratori due uomini
molto vicini a Mussolini: Finzi, sottosegretario al Ministero degli
Interni, e Rossi, capo dell’ufficio stampa del “duce” e membro del Gran
Consiglio del fascismo. «L'Impero» aveva anch'esso iniziato le
pubblicazioni e si distingueva per l'accento smaccatamente reazionario,
spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi dette a Rocca
l’opportunità di far giungere la propria voce a un pubblico più vasto, è
altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non giovò affatto
alla serietà della campagna revisionista, e che anzi, l’essersi trovato
Rocca anche solo indirettamente coinvolto in certe mene affaristiche,
offrì a suoi avversari il destro per muovergli accuse, più o meno
esplicite e motivate, di corruzione. Rocca — rileva al riguardo
Lumbroso puo ridersi di certe accuse poiché la sua probità privata era
inattaccabile; ma sta di fatto che i giornali di cui egli si serviva e
anche taluni degli uomini che lo incoraggiavano nella sua campagna non
erano certo i più indicati a parlare di epurazione del Partito; ed è
innegabile che certo fascismo provinciale, illegalista, dispotico e violento,
in del sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista,
oltre che nei vincoli strettissimi con Filippelli e il suo giornale
(«L’Impero» apparteneva alla stessa cordata economico/finanziaria
editrice de «Il Corriere Italiano», la società “La vita d’Italia”, di cui
Filippelli era amministratore delegato), andavano ricercati nel loro
esasperato “mussolinismo”, nell’ammirazione, certo non disinteressata, per
il “duce”, verso il quale i due | reduci del futurismo, un tempo
cantori dell’anticonformismo e dell’individualismo anarchico, tenevano un
atteggiamento adulatorio, sconfinante nel ridicolo, che più di una volta mise
in imbarazzo lo stesso Mussolini. A riprova dell’incostanza e
dell’opportunismo che caratterizzava la redazione de «L’Impero» si
ricordi che, nel corso della crisi Matteotti, il giornale, già
revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere il “giro di vite” e
la soppressione violenta delle opposizioni; e che, a conclusione di
quella dolorosa vicenda, Carli pubblica un saggio, con la prefazione di
Farinacci, (Fascismo intransigente. Contributo alla fondazione di un
regime, Firenze, Bemporad), che è tutto un panegirico del ras di Cremona
e dei suoi epigoni. Il Nuovo Paese» apre i battenti su iniziativa di
Bazzi. Questi, che ècompagno di Rocca nelle Argonne, proveniva dal PRI ed
apparteneva a quelle frange del movimento repubblicano che, in polemica
con l’orientamento antifascista prevals o in seno al partito d’origine,
se n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome fiancheggiatrici
del fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore di una Unione
Mazziniana Nazionale). Anche «Il Nuovo Paese» non era al di fuori di loschi
giri d’affari, essendo legato «a quel vasto ed equivoco mondo affaristico
che subito dopo la marcia su Roma si annida ai margini del fascismo al governo»;
una lobby multiforme «che aveva tutto l’interesse che il fascismo
rimanesse al potere» e mirava, per questo motivo, a «una normalizzazione
che rafforzasse la situazione», da cui il contributo recato dal giornale
di Bazzi alla causa del revisionismo FELICE, Mussolini il fascista.
Su «Il Nuovo Paese» e «Il Corriere Italiano» si veda CANALI, Cesare Rossi:
da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino. Il
medesimo autore ha efficacemente ricostruito l'intreccio affaristico
sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in // Delitto Matteotti: affarismo
e politica nel primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino. Su Bazzi
in particolare v.SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla liquidazione
dei residuati bellici, Storia Contemporanea.Infine, a proposito de
«L’Impero», v. SCARANTINO. complesso si era mantenuto puro dalla piaga
dell’affarismo, e non vi ha dubbio che ci erano dei ras, tipo Farinacci,
persuasi in buona fede di giovare alla causa del fascismo e dell’Italia,
dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed
incontrollabili e riducendo a zero l’autorità dei funzionari
governativi"? Il giorno dopo la comparsa dell’articolo di
Rocca su «Critica Fascista», «Il Corriere Italiano» prese di petto la
questione e, in un fondo che avrebbe sollevato l’indignazione di
Farinacci, si scagliò senza mezzi termini contro «l’arbitrio capriccioso
e tirannico» dei capi provinciali, arrivando a prospettare, neanche troppo
velatamente, la possibilità di uno scioglimento del PNF, il quale,
vivendo ormai di rendita alle spalle di Mussolini, costituiva «l’inciampo
più grave» all’azione del Governo”. L’ipotesi insinuata dal quotidiano di
Filippelli destò, com’era prevedibile, un nugolo di polemiche.
«L'Impero», per tramite dei suoi condirettori, affermò che il «feticismo
ostinato» nei confronti del partito non aveva più alcuna giustificazione
e che, essendosi chiuso il «periodo eroico» della “rivoluzione” fascista
ed essendo stati «lo spirito e la mentalità» del fascismo «gradualmente
ma rapidamente assorbiti dall’intera Nazione», non vi era più ragione di
conservare in vita il partito. Nel frattempo, Rocca non perde occasione per
riaffermare il proprio punto di vista. Personalmente contrario, almeno
nel breve periodo, allo scioglimento del PNF, il leader revisionista
prosegue imperterrito lungo la via intrapresa. I problemi più gravi del
fascismo - insiste Rocca - consisteno nell’equivoco perdurante tra
partito e governo, vale a dire nell’identificazione del primo col i
secondo; nell’irresponsabilità e nella prepotenza dei fiduciari
provinciali; nella LUMBRO50 Cfr. Governo e fascismo, «Il Corriere
Italiano». SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, «L'Impero»Così, ad
esempio, a Torino, in sede d’inaugurazione dei nuovi locali dei Gruppi di
Competenza. Nel suo discorso, che riceve il plauso dGioda, Rocca non
tralascia di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le
proprie critiche agl’intransigenti (cfr. Il discorso di Rocca sulle funzioni
dei Gruppi di Competenza, «Il Piemonte»). In una lettera pubblicata da
«L'Impero» (Partito e Governo fascista), Rocca scrive non essere ancora
giunto il momento in cui l’Italia, pienamente e consapevolmente fascista,
si sarebbe potuta sostituire al partito. Con questo egli non esclude che,
in un futuro più o meno prossimo», ciò sarebbe potuto accadere, e indicò nei
Gruppi di Competenza e nei «sindacati d’ogni ceto produttivo gli
strumenti necessati di questa trasformazione. Il giorno seguente Rocca
ribade i medesimi concetti in un’intervista a «Il Corriere
Italiano», parodia d’una disciplina formale senza norme né garanzia;
nel predominio degl’organi esclusivamente politici di partito su tutto
ciò che pur rientrando nella vita corrente del fascismo, non è
strettamente ulivo (ad esempio i Gruppi di Competenza) e che, per questa
ragione, il partito ostacolava in ogni modo. Tutto ciò - secondo Rocca -
conduce ad una vera forma di nuovo bolscevismo, DISSOLVITRICE DELLO STATO
E DELL’ITALIA, cui si dove assolutamente porre rimedio. Contro la campagna
revisionista, che raccolge i favori dell’opinione pubblica moderata
variamente filo-fascista, insorsero invece gl’intransigenti. Nell’ambito
di una riunione del Consiglio Provinciale di Cremona, Farinacci difende
il principio dell’intransigenza, si disse contrario all'inserimento della
milizia nell’esercito regolare e minacciò una «seconda ondata»
rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori «senza fede» che si
servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici, Più avanti, in un
editoriale per il suo giornale, il ras cremonese replicò seccamente alle
accuse dei revisionisti. Non era affatto vero — scrisse - che Mussolini
non dovesse niente al fascismo provinciale, il quale, al contrario.
costituiva la vera forza, il fondamento del partito e aveva contribuito
in modo schiacciante al trionfo. Se si distrugge il fascismo delle provincie
— si domanda Farinacci — che cosa resterebbe del fascismo? Io non ho
l’acume di Massimo Rocca, ma come caffoncello” di Provincia mi permetto
di fare uno sforzo mentale — pari a quello di he pero della terza
elementare — calcolando che Provincia più Provincia fa ‘azione!” ROCCA,
Partito e Governo fascista, cit. Tra gli organi “indipendenti” che
offrirono spazio e considerazione alla campagna revisionista, oltre a «Il
Giornale d’Italia», tradizionalmente vicino alla destra liberale, si
segnalarono soprattutto «La Tribuna», l’autorevole quotidiano romano diretto da
Olindo Malagodi, «Il Corriere d’Italia», organo ufficioso della destra
cattolica ex popolare, e «L’Epoca», un giornale d’ispirazione
combattentistica. Proprio «L’Epoca» pubblicò un’intervista di Montalto a Rocca
(Il momento attuale e il fascismo), dando modo all’ex anarchico di
esporre le proprie idee revisioniste a un pubblico non strettamente
fascista. di Un forte discorso dell'on. Farinacci, «Cremona Nuova» FARINACCI,
/n difesa dei cafoni di provincia. Il giorno avanti, il quotidiano farinacciano
aveva ospitato un intervento del bolognese Baroncini, membro del Comitato
Centrale, una delle figure più note del fascismo emiliano/romagnolo (su
di lui v. NELLO, Grandi: la formazione di un leader fascista, cit, ad
indicem). L’articolo (intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in
contemporanea anche da «La Scure» di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese
«L’ Assalto») era una difesa appassionata del fascismo di provincia
contro il fascismo “spurio”, interessato e Il ragionamento di
Farinacci, nella sua schematicità, non mancava di logica e di veridicità
e coglieva un aspetto essenziale del problema, andando al cuore delle
contraddizioni della politica revisionista. Il fascismo delle provincie,
caotico, brutale e intimamente sovversivo, costituiva davvero, assai più
del fascismo “addomesticato”, costituzionale e legalitario di Roma e di
Milano, l’anima del movimento”. Mussolini ne era ben consapevole, tant'è
vero ch’egli non pensava affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una
liquidazione in tronco del “rassismo”, ma, casomai, ad un suo opportuno
ridimensionamento, che lo svuotasse dei contenuti più radicali e più
difficilmente gestibili; alla qual cosa, come già si è detto, la
propaganda senza anima, propagandato dai revisionisti. Di analogo tenore -
e spesso ben più sbrigative e violente - le reazioni degli altri fogli
intransigenti. L'organo del fascismo trevigiano, per mano del suo
direttore, lasciò intendere che Rocca avrebbe meritato lo stesso trattamento
riservato a Misuri, in quanto il suo l’articolo su «Critica Fascista» era degno
«di far pari col famigerato discorso» dell’ex deputato fascista
(PEDRAZZA, Polemica fascista. Rispondiamo a Massimo Rocca, «Camicia Nera.
A Piacenza, IL CONTE BARBIELLINI (si veda) punta l’indice contro le trame
affaristiche sottostanti alla campagna revisionista. Per quali anonimi
lestofanti — tuona il ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di
torbidi nel fascismo? Vi secca la attività fascista di provincia? Vi secca che
dai ras provinciali si siano mandati all’aria diversi grossi affari che
gruppi capitalisti avevano qui realizzato ai danni dell’Erario Nazionale?
(BARBIELLINI, Perché non molliamo, La Scure). Circa le radici e le
ragioni culturali e politiche dell’estremismo provinciale fascista — con
particolare riguardo a Farinacci — v. GENTILE. E” interessante, a questo
riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della cultura
antifascista, Gobetti, secondo il quale non già i revisionisti ma Farinacci e
gli altri ras del suo stampo erano gli autentici e più genuini
rappresentanti del fascismo. In due articoli non certo teneri nei
confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrive di
preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di «senso di dignità» e di
spirito di sacrificio, al politicantismo senza pudore e al «trasformismo,
senza decoro e senza intransigenza» dei vari Rocca, Bottai e Grandi,
«professionisti della politica» il cui revisionismo era nato in mezzo
alle «mollezze romane», confortato «da ricche prebende». A parte gli
aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte la
predilezione, tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale
dell’intransigenza), l’intellettuale torinese coglieva nel segno allorché
metteva in risalto la maggior rappresentatività sociale - e culturale in
senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce
di sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive,
aspirazioni palingenetiche, e godeva di un seguito che mancava invece
completamente alle fredde teorie dei revisionisti. Dietro ai vari ras di
provincia - notava lucidamente GOBETTI (si veda) - vi erano «centomila giovani,
che al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il
problema della propria disoccupazione, ma vi avevano portato la loro
disperata aberrazione, la repugnanza per i compromessi e gli
opportunismi» (la prima citazione è tratta da Elogio di Farinacci, La
Rivoluzione Liberale; le restanti da Secondo elogio di Farinacci. Anche in
GOBETTI, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi. revisionista
(anche attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata minaccia di
scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio. Queste
considerazioni parevano sfuggire a Rocca, il quale, vittima forse anche
della propria presunzione, era invece convinto di avere al suo arco più
frecce di quante non ne avesse in realtà. Per niente intimorito dalla
reazione di Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista,
perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui
stesso suscitato, Rocca alzò il tiro delle sue accuse. Non ci si è
ancora accorti, evidentemente — scrisse in un nuovo articolo per «Critica
Fascista» — che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia più salda
che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare e rafforzare
e ingrandire un’Italia unitaria, ove la forza armata, anche solo di
manganello, dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone, e uno
solo il governo che fa le leggi e le applica attraverso i prefetti, dando
a questi ultimi il diritto di mettere in galera anche i più autorevoli
fascisti locali se contravvengono alla legge. Non si adattano ad essere
cittadini pur essi come tutti gli altri, nella loro provincia? Ebbene,
facciano essi i prefetti, e pongano nella legalità il loro dominio personale
e continuino pure l’opera meritoria compiuta nel fascismo. Ma quest’opera
è indipendente dalla loro prepotenza personale nelle cose che il partito
non riguardano; ma per continuare tale funzione non è necessario
instaurare repubbliche dittatoriali o vicereami con feudi annessi o
diarchie lillipuziane. Non basta federare degli staterelli autonomi, ove
l’augusto signore sentenzia “qui comando io” e fabbrica una legge
speciale per lui, senza controllo; non basta federarli platonicamente
sotto l’egida di Mussolini, sopporta col platonico omaggio di un alalà.
Bisogna disfarli.Tutto ciò per la fronda fascista, nuova specie di
sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico sovversivismo attivo
e ingombrante oggigiorno. Tutto ciò per la Fronda insorta personalmente
contro una mia tesi impersonale, a minacciare col seguito dei suoi
vassalli un modestissimo, ma convinto pensiero individuale, che non
riconosce altro ordine se non quello del Duce, né altra legge se non
quella raccolta nel codice e applicabile dal procuratore del Re [...]. Ma
la Fronda si piegherà?” La “fronda” non si piegò. A distanza di
soli tre giorni dalla pubblicazione di questo articolo, la Giunta
Esecutiva del PNF - istigata da Farinacci - decretò l’espulsione di Rocca
dal partito «per grave Rocca, Diciotto brumaio, «Critica Fascista» (anche
in ID., Idee sul fascismo). Questo saggio di Rocca è preceduto da una
significativa postilla della redazione. Siamo perfettamente solidali con
l’autore — vi si legge - e con gli scopi altissimi della sua battaglia,
che è anche la nostra battaglia. VIPATTTTRA VENTO ile
A indisciplina e indegnità politica. MUSSOLINI RICEVE ROCCA in
qualità di vicepresidente dell’istituto nazionale dell’assicurazioni,
ufficialmente per trattare di questioni riguardanti l'ente ma in realtà per
aver modo di esprimergli la propria solidarietà. La sortita del duce, da
cui egli si aspettava le dimissioni dell’intera Giunta Esecutiva, ebbe
invece come effetto di provocare quelle della Segreteria Generale (cioè
di una parte soltanto della Giunta), il che — rilevava prontamente «Il
Popolo d’Italia» - «non risolveva affatto la questione». Era in atto,
come ben notava «Il Giornale d’Italia», un vero e proprio regolamento di
conti. Ora — si domanda il quotidiano romano — è per le espressioni crude
ed aspre adoperate da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che
la espulsione è dn stabilita? Se è vero che il “Cremona Nuova” di
Farinacci sarebbe dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale
ufficioso del partito, sarebbe da dedurre che le lamentate tendenze,
diremmo così, provinciali, localistiche avrebbero prevalso?” E prosegue: La
lotta è precisamente tra i “revisionisti” tipo Rocca e gli ioni ono
Farinacci, tra i politici e i “selvaggi”, tra i “romani” e i “provinciali
IRPROI Crisi i coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la lotta
di due opposti elementi: quelli che vogliono avvicinare il fascismo
all’anima, del Paese e quelli che vogliono mantenerne la formazione
chiusa e intransigente La Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista
riafferma la necessità della manetta compattezza nell'interesse della
Nazione ed a sostegno del Governo, «Il Popolo d’Italia. tif, side Hib: La
Giunta Esecutiva del PNF, istituita in luogo della disciolta Direzione,
sa composta da: Farinacci, Lantini, Bianchi, Marinelli, Sansanelli,
Teruzzi, Bolzon, Bastianini, Maraviglia, Caprino, Dudan, Zimolo e
Starace. La decisione contro Rocca è presa all’unanimità. i i
31 Rocca ricopre la carica di vicepresidente dell’INA. Cfr. Ibidem. TSI
VII j; La Segreteria Generale era formata da Bianchi, Marinelli,
Bastianini, Sansanelli, Teruzzi, Starace e Bolzon. bri Bata La
Giunta esecutiva del PNF espelle Rocca il revisionista. Mussolini intende
che tale decisione è ri-esaminata. La Segreteria Generale del partito presenta
le dimissioni al duce, «Il Giornale d’Italia gii vl Nell’insieme,
l’espulsione di Rocca solleva un’ondata di sdegno Si scrive di
procedimento sommario, di decisione grottesca che ha il sapore della
rappresaglia, mentre anche il consiglio bazionale dei gruppi di competenza
fa sentire la sua voce, votando un ordine del giorno di pieno sostegno al
proprio segretario. A Torino, Gioda, che fin dall’esordio della polemica
revisionista aveva preso le parti di Rocca” si dimise dalla segreteria
del Fascio in segno di solidarietà con il suo vecchio compagno. Fu un
atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati contrasti tra Gioda e De
Vecchi (quest’ultimo simpatizzante degli intransigenti) e delle
mai sopite tensioni in seno al fascismo torinese, si colorava di un forte
significato politico. Non è la prima volta — riconosceva a questo
proposito l’organo mussoliniano — che, durante clamorose polemiche, Gioda
si schiera apertamente per la corrente temperata del Partito Nazionale
Fascista, ed è ancora ricordato a Torino l’omaggio di fiori che,
unitamente al comm. Massimo Rocca, tributò al comunista Berruti,
consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso
dicembre‘' Qualche giorno dopo, nel dare l’annuncio delle proprie
dimissioni anche dalla direzione de «Il Maglio», Gioda fu al proposito
più che esplicito, con parole che non lasciavano spazio a
fraintendimenti. Li «L’Epoca L'Impero Cfr. «Il Giornale d’Italia. In un
fondo per il nuovo quotidiano torinese «Il Piemonte» (Papà buon senso),
Gioda define i saggi revisionisti di Rocca un meraviglioso, poderosissimo
quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo. In un articolo di poco
successivo, il segretario del Fascio torinese chiarì il proprio punto di vista,
perfettamente in linea con gli assunti dei revisionisti. «I fasci — scrive
tra l’altro Gioda — non sono sorti per soddisfare le ambizioni militari o
politiche di TIZIO, CAIO, O SEMPRONIO, ma per l’Italia, unicamente per la
salvezza e le fortune d’Italia (GIODA, Corfù, Roma e il Fascismo, Il
Maglio). Cfr. «Il Popolo d’Italia Gioda riassume la carica di segretario
del fascio e la direzione de «Il Maglio» da pochi giorni, dopo essersene
allontanato per qualche mese a seguito del riacutizzarsi della sua grave
malattia. Il posto di Gioda, dopo le sue dimissioni, è rilevato da Bardanzellu,
già presidente della sezione torinese dell’ Associazione Nazionale
Combattenti. Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino
Mongini, un suo fedelissimo, ufficialmente «per ragioni di
carattere famigliare» («Il Maglio»). Mongini è sostituito dal milanese
Rossi. Il Popolo d’Italia. Le polemiche de’ passati giorni — scrisse - mi
hanno trovato pienamente, apertamente, risolutamente favorevole alla
corrente cosiddetta revisionista capeggiata da quella catapulta cerebrale
di grande anarchico che è Rocca. Mi sono dimesso dalle cariche [...] perché mi
parve inconcepibile che si potesse appartenere ancora un minuto ad un
partito ridotto a defenestrare i suoi uomini più formidabili [...],
mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta gramigna Mussolini
convoca Bianchi a Palazzo Venezia. Questa volta Il duce richiede
espressamente le dimissioni della giunta esecutiva, decide il rinvio del
convegno dei Fiduciari provinciali e decreta la prossima convocazione del Gran
Consiglio del fascismo. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini,
ai membri della Giunta non restò altro da fare che obbedire. Rocca, dal
canto suo, non aveva disarmato. Colto di sorpresa (così almeno rivelava
«Il Giornale d’Italia) dal provvedimento disciplinare comminato nei suoi
confronti, era subito passato al contrattacco, dichiarando in
un’intervista che la Giunta, essendo parte in causa, non aveva diritto
alcuno di decidere della sua espulsione e che, in ogni caso, egli non
sarebbe indietreggiato di un millimetro. A primi di ottobre Rocca si
ritirò nella sua Torino" e lì, accanto alla moglie (si era sposato
da pochi mesi) e ai familiari, attese la pronuncia del Gran Consiglio.
Dal suo ritiro torinese l’ex anarchico inviò a Critica Fascista un nuovo
articolo, dai toni fortemente retorici, col quale auspicava una
ricomposizione dei contrasti in nome e in ossequio alla grandezza
d’Italia. MagriO Giona, Commiato, «Il Maglio. L'articolo di Gioda usce
accompagnato da una nota redazionale, opera probabilmente di Colisi
Rossi, che definiva “inopportune” e ”intempestive” le parole del direttore
uscente. Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923. In un
editoriale (/ncoscienza?) «Il Popolo d’Italia» plaudì alla richiesta di
dimissioni avanzata da Mussolini alla giunta esecutiva. Quest'ultima - secondo
l’organo milanese - manca di rispetto al duce, il quale, oltre a non
esser stato messo al corrente del proposito di mettere fuori gioco Rocca,
è allora interamente assorbito d’impellenti questioni d’ordine
internazionale e non dove essere trascinato in polemiche artificiose.
«Egli — scrive il giornale diretto da Mussolini (A) — ha altro da fare. I
capi fascisti delle provincie devono finalmente intenderlo. Se i fascisti
locali non intendono ciò, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono
indegni di appartenervi. La giunta esecutiva si dimise infatti. Cfr. «Il Popolo
d’Italia». «L’Epoca», Cfr. «Il Piemonte», Cfr. ACS, CPC, Busta 4362
[Rocca]. AI cospetto di un fatto così grandioso — scrive -, noi, uomini
che alla nuova creazione abbiamo con devota umiltà collaborato, dobbiamo
sentire la nostra pochezza individuale al confronto con la creatura che
non è soltanto nostra e ci sovrasta nello spazio e nel tempo; dobbiamo
comprendere che nulla sarebbe più folle, più sterile del voler
monopolizzare l’Italia nuova per noi. Dobbiamo sentire che anche il
Fascismo è una parte, certo la migliore, ma non il tutto del fenomeno
storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza
del ai è possibile solo in quanto s’inquadra nella grandezza d’Italia e le
serve di ase Nelle intenzioni dell’autore queste parole avrebbero
dovuto «placare ogni dissenso personale». In realtà, trascinato dal suo
temperamento, Rocca si era ormai invischiato in una fitta ragnatela di
polemiche. Tipica, in questo senso, la controversia che lo oppose in quei
giorni a LANTINI (si veda), uno dei maggiori esponenti del fascismo
ligure. Sulle colonne del suo giornale Lantini — ch’era membro della
Giunta Esecutiva - aveva duramente attaccato Rocca, definendo la campagna
revisionista «denigratrice, svalorizzatrice ed offensiva, e denunciandone
la «ben meschina» origine, «di carattere prematuramente e comicamente
elettorale». In una lettera di poco successiva, Rocca replica al suo
detrattore con una serie di accuse minuziose, in particolare
rinfacciandogli di «aver disertato la battaglia fascista» nei giorni
infuocati dello sciopero “legalitario””, salvo poi ROCCA, L ‘intangibile
grandezza, «Critica Fascista», 8 ottobre 1923 (anche in ID. Idee sul
fascismo). f L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi
anche da «Il Piemonte» (10 ottobre) e «L’Impero» (11 ottobre). di
ID., /dee sul fascismo, LANTINI, Dichiarazione, «Il Giornale di Genova. AI
breve editoriale di Lantini fa seguito una chiosa di Pala, il fiduciario
provinciale per la Liguria (nonché condirettore del giornale), che si
professa completamente solidale con l’autore. Fin dal suo apparire Il
Giornale di Genova suscita sospetti circa i suoi finanziamenti. In
polemica con «Il Messaggero», che in un articolo svela i legami esistenti
tra il nuovo quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale, Pala
smente [cf. GRICE DISIMPLICATURA] seccamente, dichiarando che la proprietà
del giornale appartene alla società anonima Compagnia Editrice, di cui
egli è presidente (cfr. «Il Popolo d’Italia»). A Genova, tradizionale
roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero legalitario” aveva avuto
pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle agitazioni, il
Fascio genovese da corpo a un comitato d'azione, del quale fanno parte,
tra gli altri, Lantini, gli onorevoli Torre e Stefani, e Rocca, il cui nome è
però del tutto assente dalle dettagliatissime cronache de «Il Popolo
d’Italia», la qual cosa fa pensare ad un coinvolgimento minimo del
futuro isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS servirsene,
accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere Consigliere
Comunale”. La diatriba Rocca/Lantini si trascina a lungo, in un intreccio
di querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello (peraltro
sempre “onorevolmente” risolte, senza bisogno d’incrociare le armi) *, a
tutto scapito della credibilità complessiva della campagna revisionista.
Come previsto, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo. Al termine di una
lunga seduta fu votato un ordine del giorno che tramutava l’espulsione di
Rocca in una ben più blanda sospensione di tre leader revisionista nei
disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri scontri, i
fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure. Obiettivo principale
della violenta offensiva fascista è stato il Consorzio autonomo
portuario, cuore del potere socialista a Genova, che riuniva le
cooperative portuarie “rosse” e aveva di fatto il controllo del porto. Dopo
che i capi fascisti lanciano un manifesto contro la camorra portuaria dei
vigliacchissimi socialisti («Il Popolo d’Italia), le camicie nere genovesi, con
il concorso di squadre giunte da Carrara, da Alessandria e da Torino,
assaltano Palazzo San Giorgio, sede del consorzio (nell’attacco, che fa
numerose vittime, rimane ucciso lo squadrista carrarese Martini, poi entrato
trionfalmente nel martirologio fascista. Il senatore Ronco, presidente
del Consorzio autonomo, è stato costretto a firmare una dichiarazione
capestro, con la quale si impegna a revocare le concessioni di lavoro
alle cooperative socialiste. Per la versione di parte fascista, v. La
cronaca delle giornate di Genova, «Il Popolo d’Italia. Su questi avvenimenti v.
altresì REPACI. La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima
lettera di Massimo Rocca a Ferruccio Lantini, «Il Secolo XIX (anche in
«Il Giornale d’Italia»). «Il Secolo XIX» segue con partecipazione le
polemiche tra revisionisti e intransigenti, mostrando di parteggiare
chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risente dell’avvenuta
pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire «non destinata alla
pubblicità» - e ne chiese “soddisfazione” al direttore del quotidiano
genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza cavalleresca, «Il Secolo XIX». A
un certo punto, come riferiva il 6 ottobre «Il Giornale d’Italia», la vicenda
assunse i contorni di un vero e proprio «torneo». Si aggiunga che
anche il dissidio tra Rocca e Lantini cela un più vasto conflitto
d’interessi (di cui la vicenda dei finanziamenti a «Il Giornale di Genova»
costituiva un risvolto), riguardante i grandi gruppi economico/finanziari
che si contendevano il controllo di Genova: da una parte il trust formato
dall’Ansaldo, dai fratelli Perrone e dalla Banca di Sconto (allora in via
di liquidazione), sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente
capo a Mastromattei, amico di Rocca; dall’altra la potente azienda
armatoriale Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva
l’appoggio di Lantini e dei suoi (su questi punti v. LYTTELTON, La
conquista del potere. Il fascismo, Bari, Laterza). Tale contrapposizione
travagliò a lungo il fascismo genovese, ‘dando luogo a laceranti lotte
intestine. Il primo atto della crisi fu il pestaggio, ad opera di alcuni
squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, Loiacono, di cui
erano note le simpatie revisioniste (cfr. «Il Giornale d’Italia), +55 de i
fee . mesi”. Tutto, dunque, com’era nella volontà di Mussolini, si
risolveva in un accomodamento, e bene rimarcava «Il Giornale d’Italia»
allorché scriveva che: Senza esaminare il merito delle polemiche da
questi Rocca sollevate, è certo che tra la prima condanna all’espulsione
per indegnità politica e la sospensione per tre mesi inflittagli ieri
sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere all’intervento di un
compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili
contingenze che essa impone, i compromessi diventano non di rado
inevitabili Il Gran Consiglio decretò altresì un vero e proprio
riordinamento del partito, nonché la nomina di Cesare Maria De Vecchi a
governatore della Somalia. L’allontanamento del futuro conte di Val
Cismon dall’Italia (un provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di
doversi misurare con le irrequietezze del quadrunviro), fu una grande
vittoria di Mario Gioda, il quale - come si è visto - aveva avuto il
coraggio di esporsi personalmente nel dibattito sul revisionismo e poteva
ora, mercé la messa in disparte del suo rivale, aspirare a recuperare
credito all’interno del fascismo subalpino. Ai primi di dicembre, con la
rielezione a segretario politico del Fascio di Torino”, ebbe inizio l’ultima
fase della sua vicenda politica. In un'intervista di quel periodo,
Gioda espose il suo progetto per la “normalizzazione”. Occorre — dichiara
- puntare sullo sviluppo dei sindacati e delle cooperative, in modo da
allargare la base effettiva del fascismo e porre le condizioni per una
piena collaborazione con le altre forze sociali (al riguardo Gioda si
disse convinto della possibilità di realizzare una federazione di
cooperative di tutti i colori e di tutte le tinte politiche. Come a
livello sindacale, così anche sul piano politico i fascisti avrebbero
dovuto ricercare «un insieme di aperta, onesta, equilibrata concordia» con Per
l’esattezza, il testo dell’ordine del giorno recita.Il gran consiglio prende
atto delle dimissioni della giunta esecutiva, revoca l’espulsione di
Rocca e, per le degenerazioni polemiche alle quali il Rocca stesso ha
contribuito, lo sospende per tre mesi da ogni attività di partito a
cominciare dalla seduta odierna («Il Popolo d’Italia»). Una nuova fase,
«Il Giornale d’Italia». V. anche Le importanti deliberazioni del Gran Consiglio
fascista, «Il Nuovo Paese»e l’articolo di Carli Il palladio della rivoluzione,
«L’Impero» La Giunta Esecutiva è sostituita da un direttorio di IX membri, V
con funzioni politiche e IV con funzioni amministrative. Giunta divenne il
nuovo segretario generale del PNF. Cfr. «Il Piemonte». Gioda
non riassunse la direzione de «Il Maglio», che resta a Rossi, tutti gl’elementi
politici nazionali. Relativamente ai temi della violenza e del rassismo,
Gioda è perentorio. È oggi doveroso per i fascisti — afferma - orientarsi
verso un'attività più Sa ai tempi. A tutelare l’ordine bastano le
disciplinatissime forze della milizia a Fascio può svolgere la più
intensa e doverosa attività per il suo Caveta nie cli È è rappresentato
unicamente dal Prefetto. Essendo paladini le 1A ri fascisti sono e devono
essere i primi a dare luminoso esempio. De n ci br grande partito moderno
come il nostro non può reggersi unicamente sulle Vi o qualità politiche
suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi vitali e poter
operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo’ DE Mussolini in
sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea organizzazione
che possa esprimere suna élite di dirigenti. Non dunque nu compagnia di
guitti attorno all’attore di cartello, ma un insieme di squisite cap: che
troveranno tutte una dura parte da reggere Il programma illustrato da
Gioda nella sua intervista fu in seguito sottoposto al giudizio del nuovo
Direttorio del Fascio e approvato a voti unanimi. Oltre il
fascismo La sospensione di Rocca attenua ma non pose fine alla poni
revisionista, che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse:
Ha le elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad
pi c iosa per soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno
i un ie sà Il fascismo, del resto (in ciò davvero svelando l’anima
dinamica Hd decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua
trasformazione e le circostanze che avevano reso possibile 1 pr
delle teorie revisioniste e l’affermarsi intorno ad esse di un intenso i % Ù
n — per quanto funzionale e condizionato -, non si sarebbero più simonos
e pel mesi successivi. Mutata la situazione politica, venuta meno, res
me ma inesorabilmente, la “benevolenza” di Mussolini, i sostenitori di
suse defilarono (chi per calcolo, chi — come Bottai — perché ormai
persua i i i i itico GALETTO, Problemi e propositi del fascismo
torinese. Intervista col segretario pol io Gioda, «La Gazzetta del
popolo», 12 dicembre 1923. È o ; ca parzialmente anche su «Il Maglio») fu
rilasciata da Gioda all’ospedale San Giovanni, durante una delle
sue ormai abituali degenze. Il Direttorio era entrato in carica. IRE
SRPORT TE VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT
dell’inanità della lotta), mentre i giornali che gl’avevano dato man
forte manifestarono tutta la propria ambiguità, dapprima servendosi
della copertura revisionista nella logorante campagna diffamatoria contro
il ministro Stefani, quindi, girato il vento, non esitando a passare
dall’altra parte della barricata. Così, quasi senza rendersene conto (e
forse, come al solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca s’infilò in
un cu/ de sac vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in
poco tempo mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a
fattori esterni certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi
errori personali. Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto
della propria cultura, Rocca conferì un tono sempre più concettuale e
filosofico al suo revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppiù
cervellotici, colmi di citazioni libresche, in uno sfoggio di erudizione
spesso fine a se stesso, con la conseguenza — inevitabile - di
distogliere il grande pubblico dal cuore del problema e di stancare anche
gli osservatori più benevoli, facendo apparire la polemica revisionista —
in confronto alle concrete argomentazioni di un Farinacci - poco più che
una bizzarria intellettuale. Scontato il provvedimento di
sospensione, Rocca riprese - inizialmente con cautela — l’ordito dei suoi
disegni. In una sequenza di nuovi articoli, pressoché concomitanti, per
«Il Nuovo Paese», per «Il Popolo d’Italia» e per «Critica Fascista», l’ex
anarchico torna sul tema della legalità. Sebbene “paretianamente”
convinto che «l’indifferenza e la diffidenza nel Paese verso il
Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo (in virtù della
degenerazione dell’istituto parlamentare) e dunque che la responsabilità
della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla
“rivoluzione” delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico
irreversibile di cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante,
Rocca non cullava sogni palingenetici e restava assertore di un
liberalismo restaurato, restituito dalla cura fascista alla sua forza
originaria. Dai ripetuti episodi di squadrismo, e in particolare
dall’aggressione ad Amendola, Rocca trasse motivo per ribadire l’urgenza di
ristabilire il confronto politico entro i confini della normale
dialettica costituzionale, e l’obbligo, per il fascismo, di abbandonare
le pratiche extralegali. Solo così si sarebbe giunti «ad una nuova e più
alta normalità», fondata sull’imperio della legge, di cui il Governo a
guida fascista avrebbe dovuto farsi garante Rocca, Fascismo e
Costituzione, «Il Popolo d’Italia (anche in Idee sul Fascismo). Cfr.
«Il Nuovo Paese (anche in Idee sul Fascismo), nel suo stesso interesse. Il
primo segnale che i rilievi critici di Rocca cominciavano ad esser mal
tollerati, oltre che dagli irriducibili del manganello, anche dai suoi
alleati di settembre, si ebbe dal dietrofront de «L’Impero». In un
editoriale ispirato dagli articoli di Rocca, Settimelli si chiese se, alla luce
delle sue più recenti affermazioni, egli potesse ancora esser considerato
un fascista o non, piuttosto, un liberale a tutti gli effetti. Nella sua
replica, che non si fece attendere, Rocca non dissimulò affatto il
proprio filo-liberalismo. Il fascismo — scrive - è un superatore più che
un negatore assoluto dei principi liberali. Infatti, fatto salvo il dogma
della Nazione, la cui accettazione era il requisito essenziale per
potersi dire fascisti, tutte le libertà che non avessero minacciato quel
dogma e che non si fossero risolte «in una negazione della Patria, doveno
essere rispettate. Sul piano strettamente politico, il torto maggiore del
liberalismo è - secondo Rocca - quello di voler ancora comprendere da
solo tutta la società, assai più complessa e articolata che in passato,
così come il difetto di fondo del parlamentarismo era quello di voler
fare del Parlamento, un puro organo politico € generico», uno strumento
tuttofare. È dunque necessaria un’inversione di rotta e l’esecutivo
fascista ne possede i mezzi nei consigli tecnici, l’unico proposito
veramente rivoluzionario» scaturito dal fascismo, la pietra angolare di
ogni autentica riforma in senso tecnocratico. A parte l'enfasi posta sui
Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione psicologica a fronte
del naufragio dei “suoi” Gruppi di Competenza, dei quali essi avrebbero
dovuto raccogliere l’infruttuosa eredità), l’essenza delle considerazioni
di Rocca non si discostava da quanto egli aveva più volte sostenuto in
passato, con la differenza che nel fascismo pareva non esservi più posto
per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea alla s Ip., Tornare
alla normalità, «Il Nuovo Paese», (anche
in Idee sul Fascismo,). SETTIMELLI, Fascista o liberale energico?
(Risposta a Rocca), «L’Impero. Più tardi, conclusasi la polemica
revisionista con la definitiva espulsione di Massimo Rocca dal PNF,
Settimelli, in risposta all’accusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte
socialista (cfr. La ritirata dell'Impero, «Avanti!), avrebbe rievocato
proprio quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr.
“L'Impero e Massimo Rocca ”, «L'Impero»). Ciò non toglie che, nel giro di
poco più di tre mesi, l’organo romano avesse completamente mutato
la propria linea editoriale riguardo al revisionismo, passando
dall’iniziale sostegno alla decisa ostilità. Rocca, Fascismo e
liberalismo (anche in ID., Idee sul Fascismo). a i idee
pubblicazione della risposta di Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del
Partito Fascista diramò un comunicato nel quale s’informava che il
Direttorio Nazionale aveva inviato «una lettera di deplorazione» a Rocca
a motivo dei suoi ultimi saggi. Forse per evitare altri inconvenienti, il
testo di un discorso che Rocca pronuncia al Teatro Scribe di Torino
è sottoposto alla preventiva approvazione del duce, Ciò che colpiva nel
lungo intervento torinese di Rocca (un vero e proprio compendio della sua
dottrina dello STATO, quale anda formandosi negli anni) è l’assenza -
certo non casuale - di qualsiasi riferimento al partito fascista. Perciò,
nonostante il discorso dello Scribe non contene cenni al revisionismo,
pure, in un certo senso, ne costituiva lo scheletro, il fondamento
concettuale. Nella FILOSOFIA di Rocca, sintesi delle tre grandi direttive
della sua esperienza politica, individualismo, liberal/nazionalismo e
fascismo, non c’è più spazio per la mediazione del partito. LO STATO,
vertice della piramide, è il dogma intangibile e indiscutibile, superiore
ad ogni temporanea formazione e vicissitudine partigiana, superiore,
quindi, allo stesso fascismo. Il discorso è l’ultima uscita pubblica di
Rocca prima dell’appuntamento elettorale. Egli, tuttavia, non disarma
affatto e anzi lavora ad un volume antologico dei suoi saggi
“revisionisti” (il più volte citato “Idee sul fascismo”), che vede la
luce dopo le elezioni, nell’ambito della collana “I problemi del
Fascismo” diretta da SUCKERT (si veda). Il saggio, significativamente dedicato
a Gioda («un fratello che sa valutare e comprendere la testimonianza d’un
travaglio spirituale) contene anche due inediti di grande importanza. Nel
primo di essi, intitolato Una legge agl’italiani, Rocca invoca l’avvento
di una legge che è inattaccabile nella sua imparzialità serena,
amministrata da uno stato capace di farne sostanza della Il Nuovo Paese»,
Cfr. Il discorso di stasera del comm. Rocca, «Il Piemonte. Il testo completo
del discorso si trova anche in MAssIiMO Rocca, Idee sul Fascismo, come La
ricostruzione morale della Nazione. Le considerazioni di Rocca riceveno
commenti benevoli da «La Stampa» (Il discorso di Rocca), da «Il Nuovo
Paese» (Il discorso di Rocca a Torino) e financo da «Il Maglio», che ne
definì l’intervento un mezzo di lento riavvicinamento all’anima del
fascismo (Il discorso di Rocca). ROCCA, Idee sul Fascismo sua
eternità, al di sopra degl’uomini e dei governi e dei partiti e delle
classi. Il secondo inedito, Il Fascismo nel pensiero moderno,
rivela pienamente i segni dell’involuzione concettualistica che
contraddistingue la ripresa della campagna revisionista. Perno di questa
lunga e spesso contorta digressione storico-politico-FILOSOFICA è la
condanna della modernità, di cui Rocca — come altri anti-modernisti -
individua l’origine nella riforma protestante e di cui segue le
successive incarnazioni, dal razionalismo allo scientismo, per giungere,
sul terreno politico, all’astrazioni della democrazia demagogica e del
socialismo. Contro la decadenza e la dissoluzione d’ogni gerarchia
innestate dalla critica moderna, si leva, in passato, la rivolta isolata
d’alcuni spiriti liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma - è in Italia -
prosegue Rocca - che la reazione anti-intellettuale da i frutti migliori e più
durevoli, generando prima la riscossa nazionalista, poi quella futurista
e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra, quella fascista. Ma il
fascismo, pur nella sua grandezza, è ancora, per il teorico del
revisionismo, una energia formidabile ma grezza, contenente i germi d’una
creazione grandiosa, ma solo abbozzata nelle linee principali. La
pienezza restauratrice del fascismo - conclude Rocca - dove passare
attraverso la riscoperta della centralità e della missione della chiesa cattolica
romana, unica depositaria della certezza del dogma. Negli ultimi due
paragrafi del suo saggio - Il valore del Cattolicesimo e Fascismo e
religione -, Rocca immagina un ritorno al dogmatismo cattolico (un altro
ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura,
quale approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo
sotto l’egida della Chiesa. La critica di Rocca al moderno e la sua
rivalutazione della tradizione mostrano non pochi nessi con la
contemporanea riflessione di Suckert, senza tuttavia possederne né
l’originalità, né tanto meno l’anima romantica e sostanzialmente
rivoluzionaria. Puramente e Il riconoscimento del cattolicesimo romano
come base fondante dell’unità nazionale e, più in generale, della
religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica, è al centro
della riflessione di Rocca anche nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di
ABC, la rivista fondata da Bottai, Rocca ampiamente tratta questi temi,
sia sotto un’angolatura puramente storico-FILOSOFICA, sia in riferimento alla
nuova situazione politica italiana, indicando nell’autorità e nella
dottrina della Chiesa cattolica l’unico vero antidoto alla degenerazione
partitocratica caratterizzante l’Italia repubblicana. DA proposito
dell’antimodernismo quale componente dell’ideologia fascista e della sua
centralità nella riflessione di Curzio Suckert, v. GENTILE, €
MICHEL deliberatamente conservatrice, la concezione politica dell'ex
anarchico lo fa dunque assomigliare più a Maistre che a MAZZINI. AI di là
di queste considerazioni, è ormai chiaro che Rocca esprime
posizioni personali, che difficilmente, con l’eccezione di pochi
intellettuali, trovano nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a
caso Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non esita
a farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo avversario. Le elezioni e
la crisi del fascismo torinese Rocca e Gioda parteciparono alle elezioni
nelle file del listone governativo”. La candidatura di Rocca incontra
invero moltissime difficoltà. Apertamente osteggiato dagl’intransigenti,
il leader revisionista dove rinunciare a correre nel sicuro collegio di
Torino (dove è invece candidato Gioda), per accontentarsi di un posto in
1 quello di Milano/Pavia, non senza incontrare le forti resistenze di
Farinacci. Sembra, peraltro, che Gioda condiziona la propria candidatura
alla presenza nel listone dell’amico Rocca. Avendo Rocca — rileva infatti
un giornale torinese -, con cui Gioda è pienamente solidale, accettato la
candidatura in Lombardia, OSTENC. Sul pensiero politico
dell’intellettuale toscano v. la monografia di PARDINI, SICKERT (si veda) Malaparte.
Una biografia politica, Milano, Luni. Non solo Farinacci, a dire il vero. E’
singolare che quasi a voler rinverdire le polemiche d’anteguerra, la
comunità anarchica di New York, gravitante attorno al giornale «Il
Martello» (uno degli organi più autorevoli dell’anarchismo italiano
all’estero), da alle stampe un saggio intitolato Dio e patria nel
pensiero dei rinnegati, che, accanto a vecchi scritti anti-clericali di
Mussolini e di Hervé, riproduce il testo di una conferenza tenuta da
Rocca a Providence allo scopo di dimostrare che il mangiapreti d’un tempo
è in realtà un voltagabbana. Due anni dopo, peraltro, il foglio anarchico
italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello
stesso Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei
confronti di Mussolini (cfr. Rocca, La verità su Mussolini, «Il
Martello»). Su tutte le vicende legate alla decisiva consultazione
elettorale v. FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. «Il Piemonte. Il ras di
Cremona non fece mistero di non condividere la candidatura Rocca. Solo dopo
la diramazione della lista ufficiale dei candidati, Farinacci si rassegna
ad accettare il fatto compiuto. Ora che le liste sono approvate, col sigillo
del duce e del PNF - scrive con evidente disappunto - , dev’essere
bandita ogni discussione, anche se nel listone. V'è qualcosa d’indigesto; vi è
il nome di qualcuno che credevamo che la rivoluzione nostra avesse sepolto
per sempre (FARINACCI, Ora basta!, «Cremona Nuova). il Segretario politico
del fascio di Torino rimane candidato nella lista nazionale.
Quella di Rocca è, necessariamente, una campagna elettorale in tono
minore, né molto diversa — a causa della salute malferma — è quella di
Gioda; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla Camera. Il dopo
elezioni apre un’ennesima deflagrante crisi all’interno del fascismo sub-alpino;
crisi significativa perché, a prescindere dai fattori di ordine
ambientale, s’inscrive nel più generale contrasto tra revisionisti e
intransigenti. La Stampa» pone l’accento sui contrasti tra la tendenza
transigente filo-liberale del fascismo locale, rappresentata da Rocca, e
l’ala più, giottosa e ribelle, nostalgica dei metodi squadristici,
arroccata in provincia. Come effetto di queste lacerazioni intestine, la
formazione della lista nazionale era stata difficoltosa e,
complessivamente, la percentuale di voti ottenuta.In Piemonte da tale
schieramento era risultata la più bassa d’Italia (il 43 12%). A una settimana
dalle votazioni si riunì a Torino l’assise dei Fasci provinciali. In
un’atmosfera satura di tensione (il discorso Il Piemonte», cit.
?° «Io — rinfaccia più tardi Rocca a Farinacci -, per disciplina verso il
duce, ho accettato di abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie
conferenze a pagamento; e in Lombardia, quando ho visto che i tuoi amici
boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono andato,
infischiandomi dei voti» (ROCCA, All'onorevole Farinacci despota e
censore, «Il Nuovo Paese. La propaganda elettorale fascista fu inaugurata
domenica 2 marzo con una serie di comizi per la proclamazione dei
candidati. Gioda non era presente al comizio torinese, ch’ebbe luogo al
Teatro Regio il martedì successivo, ma fece giungere all’assemblea una
lettera “programmatica”, nella quale si augurava che il confronto
elettorale in Piemonte si mantenesse nell’ambito della correttezza, come
si conveniva ad una «lotta d’idee e non di uomini», e professava
«disciplina e fedeltà assoluta a Benito Mussolini» (// messaggio di Mario
Gioda ai fascisti torinesi, Il Popolo d’Italia. Anche in «Il Piemonte). Il
segretario del fascio torinese ebbe modo di illustrare direttamente il
proprio pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu
l’unica sua uscita pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. il
forte discorso di Gioda al Teatro Alfieri, «Il Maglio»). Nelle 328
sezioni di Milano/città Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza.
Miglior risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. «Il
Popolo d’Italia»). Di gran lunga più cospicuo il “bottino” elettorale di Mario
Gioda: 5.694 preferenze in Torino/città, 10.439 in provincia (cfr. «La
Stampa»). 82 Posizioni politiche e questioni di uomini in tema
elettorale. A confondere ulteriormente le acque, accanto alla lista ufficiale
si era presentato anche un raggruppamento di fascisti “dissidenti”,
guidato da Cesare Forni e Raimondo Sala, che vantava un largo seguito tra
gli agrari e gli squadristi più facinorosi e che pare godesse delle
simpatie di De Vecchi. Su tutti questi punti v. MANA del segretario federale,
Rossi, fu interrotto più volte), il congresso si risolse in un tumulto
generale, con violenti scontri tra i membri del Fascio del capoluogo e i
rappresentanti delle province”. Il punto era - come ancora evidenziava
«La Stampa» - che, dopo l’entrata in carica del nuovo Direttorio,
all’inizio di dicembre, e la svolta “normalizzatrice” avviata da Gioda, 1
margini per una ricomposizione fra le due anime del fascismo subalpino si
erano definitivamente assottigliati. di fascismo nella provincia —
registrava l’organo giolittiano - tende ad avere una Cuggino diversa da
quella dell’attuale Direttorio, un carattere, cioè, legalitario ma rude,
antidemocratico ma ossequente delle gerarchie, quasi intransigente,
del tipo, insomma, che fu gi. è i L de , È già ed è ancora definito coi
i schiettamente piemontese st GR Nonostante da parte
fascista si cercasse di minimizzare®, la gravità della situazione era
sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva preso parte alla concitata
assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla Direzione del partito,
«per chiarire la vicenda di Torino»®”. Le decisioni più importanti, in
realtà, erano già state prese, indipendentemente dalle valutazioni di
Gioda Sabato 19 aprile, Colisi Rossi annunziò lo scioglimento del
Direttorio del Fascio torinese e la nomina, in sua vece, di un
triunvirato composto da Brandimarte, Orsi e Gorgolini. Il provvedimento colse
di sorpresa Gioda, il quale, in un’accorata lettera a «Il Popolo
d’Italia», lo definì un «atto inconsulto e provocatore» e dichiarò di non
riconoscere «nel modo più assoluto lo scioglimento del Direttorio del
glorioso e laborioso Fascio di Torino». La Segreteria Federale,
forte dell’approvazione dei vertici nazionali del partito, non si curò
minimamente pie È si “a Incidenti ad un convegno fascista. Qualche
contuso, «La Stampa». x tt n : In una lettera della Segreteria del
Fascio di Torino al Prefetto (riportata da «Il Popolo d Italia») l’organo
giolittiano veniva accusato di «subdole esagerazioni». «Il Maglio»
attribuì la responsabilità dell’«indegna gazzarra» a misteriosi
provocatori esterni, «elementi incoscienti, operanti per conto terzi».
«Il Popolo d’Italia», 18 aprile 1924, Rs; situazione del fascismo
torinese. Una vivace lettera dell'On. GiodaIl giorno prima il segretario del fascio
torinese invia un telegramma ancor più duro a Mussolini, definendo lo
scioglimento del direttorio un imbecillesco provocatore colpo di mano e
chiedendo la nomina di un «commissario avente pieni poteri» che facesse
piena luce su ; pasa na $ quanto accaduto a Torino. ACS, MIN/S7%
DEGL’INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta e delle rimostranze
di Gioda ed anzi ne riprovò la lettera come una manifestazione di
«deplorevole indisciplina»”. Giunge a Torino Starace, in qualità di
supervisore, Su decisione di Starace il decreto di scioglimento del direttorio
cittadino è esteso all’intero fascio, la cui ricostituzione venne in
seguito demandata a un commissario straordinario, nella persona del ras
Lantini. La nomina dell’intransigente Lantini, uno dei più accaniti
avversari del revisionismo, ad arbitro delle sorti del fascismo torinese
aveva un evidente significato ammonitore”. Gioda, ormai sfinito dalla
lotta contro la malattia, uscì definitivamente di scena, assistendo
impotente alla rovina politica dell’amico Rocca”. Minato dalla leucemia, l’ex
tipografo si spende in un ospedale torinese. Quale che sia il
giudizio sulle sue idee e sulla sua azione (che avrebbe forse potuto
essere più incisiva ed influente, se le tortuosità programmatiche del
fascismo, le difficoltà incontrate nella gestione del Fascio di Torino -
in particolare l’annosa contrapposizione con Vecchi — e le sue
stesse esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e sorvolando sulle
celebrazioni postume dell’oleografia fascista”, è certo che con Gioda Il
Piemonte Cfr. «La Stampa, e «Il Piemonte. Cfr. «La Stampa», e «Il Piemonte». Non
a caso, l’arrivo di Lantini a Torino fu salutato con soddisfazione da «Il
Maglio». In un precedente fondo, l’organo fascista - che significativamente
non da spazio alla nuova crisi del
Fascio torinese - aveva aspramente criticato i revisionisti, affermando
di non credere «alla utilità di mutamenti programmatici nei postulati
fondamentali del partito e negando addirittura l’esistenza del fenomeno
“rassismo” (Rassismo, revisionismo e speculazioni
avversarie. Sull’intera vicenda v. anche MANA. Dopo l’espulsione di Rocca
dal PNF, l° «Avanti!» s’interroga su quali sarebbero state le reazioni di
Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come già avvenuto in occasione della
prima crisi revisionista (cfr. Le ripercussioni a Torino per l'espulsione
di Rocca. In realtà, come riferì a Finzi il Prefetto di Torino dopo un
colloquio con lo stesso Gioda, questi reagì «serenamente», ormai
rassegnato, consapevole forse di non poter cambiare il corso degli
avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Gabinetto Finzi, Busta.
si Esemplare, a questo proposito (oltre agli articoli commemorativi de
«Il Popolo d’Italia», de «Ii Piemonte» e de Il Maglio, pubblicati
all’indomani della sua morte), il già citato volumetto La vita diGioda
narrata da Croce. Nel secondo dopoguerra, la memoria di Gioda fu
recuperata nella cerchia del sindacalismo di estrazione fascista (più
propriamente salodina), organizzato nella CISNAL. «Fondatore Gioda»
campeggiava sul frontespizio della nuova serie de «Il Maglio», come
“periodico del sindacalismo nazionale”, In uno dei suoi primi numeri
comparve un sentito ricordo di Gioda, firmato da siii. ef
.1.} scompare un protagonista appassionato di una fase cruciale della
storia politica italiana, una figura complessa e contraddittoria, in un
certo senso simbolo dell’irriducibilità del fenomeno fascismo ad
un unico criterio interpretativo. Pa seconda campagna revisionista e
la definitiva sconfitta di Rocca. Mentre si consuma la crisi del fascismo
torinese. Rocca riapre formalmente il fronte revisionista, con
l’intenzione come confessò più tardi di giungere ad un risultato pratico di
epurazione e di chiarificazione. In una lucida intervista a “L’Epoca”,
che riattizza immediatamente il fuoco delle polemiche, il neo-deputato
ribadì uno ad uno i capi-saldi del revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse
un esplicito attacco contro quelle «classi industriali». che, prive
d’ogni idea generale nobilitante, s’illudevano «di assolvere ogni loro
dovere verso la patria e la civiltà foraggiando i vari capetti fascisti,
in cambio di utili tranquilli. Alla domanda, conseguente, se egli
ritenesse possibile e opportuno un «orientamento verso sinistra» del
fascismo, Rocca replica. Verso una sinistra politica, democratica o
liberale d’idee, no. Verso una democrazia di fatto, nel senso di
appoggiarci su larghi strati di popolazione, si». Il governo
fascista - osserva Rocca -, uscito rafforzato dalle consultazioni
politiche, aveva il dovere, e insieme la necessità, di ampliare la propria
base favorendo, a tal scopo, «una profonda collaborazione» tra le
diverse componenti della società civile e del mondo del lavoro. Una
collaborazione Malusardi, che di quel giornale fu usuale
collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando Gioda, «Il Maglio»). a
MAassIMO Rocca, A Farinacci despota e censore, cit. Il nuovo
orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» con l'on. Massimo
Rocca, «L’Epoca». Rocca riprende questi concetti in un saggio su «Il
Nuovo Paese» (// bolscevismo degli industriali). Il fascismo - scrisse in
quella circostanza - non era nato per tutelare gli interessi delle
«cricche industriali/finanziarie». AI contrario, «troppi nuovi e vecchi
imprenditori vedevano nell’Italia un paese di conquista economica, proprio come
certi “ducini” pseudo-fascisti vedevano nelle città e nelle provincie un
terreno di conquista politica e militare». Tra i due deprecabili fenomeni
- aggiunse Rocca — vi era un nesso profondo, in quanto gli squadristi
«dell’ultima ora» erano sovente finanziati da industriali e proprietari
«senza scrupoli». Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista
dell ‘«Epoca» all'on. Massimo Rocca, cit, di questo tipo, fondata sulla
«solidarietà nazionale» e non «isterilita da pure considerazioni
economiche o da un’opera di gendarmeria a favore di una classe sola»,
poteva darsi soltanto a condizione che il Partito Fascista abbandonasse
ogni residuo settarismo per divenire finalmente parte integrante della
Nazione”. A queste considerazioni Rocca, incurante dell’invito alla
prudenza fattogli pervenire dallo stesso Mussolini!” fece seguire altri
interventi - soprattutto su «Il Nuovo Paese»! -, ogni volta tornando
sugli stessi concetti. In un articolo particolarmente duro per il
giornale di Bazzi (una sferzante requisitoria contro le «camarille
locali» fasciste), Rocca, quasi presentendo la resa dei conti finale,
sostenne che la normalizzazione non poteva più esser rimandata. «Dopo le
elezioni — scrive - , il Paese ha diritto di pretendere un assetto
definitivo del Fascismo. Il 1924 dovrà assolutamente assistere
all’inquadramento completo del partito nella Nazione, Com’è lecito
attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una pronta levata di
scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta, però, Farinacci e
gli altri ras trovarono un insperato alleato nel ministro delle Finanze
Alberto De Stefani, una delle figure di maggior prestigio del governo
Mussolini!?. E’ noto, infatti, che la seconda “ondata”
revisionista L’Epoca», diretta allora da Madia (subentrato a Falbo),
dedicò — almeno inizialmente — molta attenzione alla seconda fase della
polemica revisionista. Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’intervista
a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospitò un’altra, anch'essa molto
importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalità del
revisionismo. Intervista dell'«Epoca» con l'on. Bottai). 100
«Mussolini — ricorda Rocca a questo proposito - mi fa pregare, da Paolucci
de’Calboli Barone, di abbandonare la polemica. Rifiutai qualsiasi impegno
in merito, perché volevo giungere ad una chiarificazione definitiva (Rocca,
Come il fascismo divenne una dittatura). Il Nuovo Paese» prende, di
fatto, il posto che è stato de «L'Impero» e de «Il Corriere Italiano». Il
favore accordato dal giornale di Bazzi al revisionismo era però
caratterizzato da un’ambivalenza di fondo. Tipico, sotto questo profilo,
un editoriale del 7 maggio (Polemica revisionista), in cui, agli elogi a
Massimo Rocca si accompagnavano critiche all’eccessiva «astrattezza
filosofica» delle sue tesi, il tutto in una cornice di disinvolta
celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque, apparve
chiaro che «Il Nuovo Paese» mirava a garantirsi una via di fuga, nell’ipotesi,
rivelatasi realtà, che i revisionisti finissero per soccombere.
102 MassIMO ROCCA, Politica interna e disciplina nazionale, Questo articolo
apparve nel contesto di una rubrica dal titolo programmatico di “Mezzi
per normalizzare” veronese Stefani, deputato (è eletto - come si è visto -
nell’ambito della lista fascista patrocinata da Malusardi), era entrato nel
governo Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte
del popolare Vincenzo s’intrecciò con la violenta campagna scatenata
contro Stefani da «Il Nuovo Paese» nel tentativo di sottrarre i propri
equivoci giri d’affari alla temuta opera moralizzatrice del ministro'.
Secondo Felice, il coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del
tutto chiarite - manovre fu probabilmente il prezzo che egli dovette
pagare per conservare il sostegno di Bazzi, ma è certo, in ogni caso, che
il leader revisionista ha in tutta quella vicenda una parte solo
marginale. Rocca, del resto, nega sempre di esser sceso in polemica
personale con Stefani; e in effetti, sfogliando i suoi articoli di quel
periodo, non vi troviamo che sporadici accenni a questioni
economico/finanziarie e mai un riferimento diretto al ministro!””. E’
bensì vero che Rocca (il quale era convinto che il programma elaborato
con Corgini fosse il migliore possibile e non aveva mai digerito il suo
accantonamento da parte di Mussolini) pubblicò un intero volume contro la
politica economica di De Stefani, ma è anche vero che il saggio uscì
quando della polemica montata da «Il Nuovo Paese» non resta che l’eco!?.
D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale Tangorra, anche il
Dicastero del Tesoro. La sua azione di governo, sostanzialmente
improntata ai postulati del liberismo classico, si articolò lungo tre
direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio
drastico della spesa pubblica e all’introduzione di nuove imposte);
contenimento della dinamica salariale; ripresa di un liberismo doganale
“controllato”. Cfr. Dizionario biografico degl’italiani, fe Su
questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista. Il Nuovo Paese» rimproverava al
ministro l’ostinazione nel voler perseguire a tutti i costi l’equilibrio
del bilancio, una politica definita esiziale per le risorse economiche della
Nazione; ma questa era - per così dire - l’accusa nobile, “di facciata”,
essendo ben altri, in realtà, i motivi dell’ostilità del giornale nei
confronti di Stefani. Tra le principali imputazioni mosse al ministro, la
più importante - perché più strettamente connessa agli interessi della
lobby sottostante all’iniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi
presunti favori alla potente Banca Commerciale (accusata di mirare al
monopolio di tutte le attività industriali, bancarie e finanziarie), a
discapito soprattutto della Banca di Sconto, già in via di liquidazione
(ofr. Per gli uomini di buona fede, «Il Nuovo Paese»). si Cfr.
Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 597. In una
lettera successiva alla sua espulsione dal Partito Fascista (pubblicata il 27
maggio 1924 da «Il Corriere della Sera»), Rocca si sarebbe detto
amareggiato del fatto che il suo nome fosse stato collegato alla diatriba
«Nuovo Paese»/De Stefani, sottolineando di non aver «mai attaccato» il
ministro. 1°? Una sola volta, con l’articolo La tirannide finanziaria
(pubblicato da «Il Nuovo Paese» il 14 maggio), Rocca prese ufficialmente
posizione nella polemica contro la Banca Commerciale. Ra Cfr.
Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. Si tratta di Fascismo e Finanza
(Napoli, Ceccoli). Il saggio, che fa parte della collana Pagine
Politiche diretta d’Angiolillo, raccoglie il testo di un dai suoi
ripetuti e spesso triviali attacchi a Stefani ha un riflesso del tutto
negativo sull’azione di Rocca. Se per i fascisti delle province
l’integerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento nella
lotta contro gl’affaristi” romani, all'opinione pubblica moderata, che
aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore della
normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva considerato
il principale organo revisionista ad un conservatore come Stefani (il
quale godeva, tra l’altro, della stima di eminenti personalità del mondo
politico ed economico liberale, come Einaudi) apparvero incomprensibili
e gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe
mai accondisceso a liquidare uno dei suoi più validi
collaboratori. discorso pronunciato da Rocca alla Camera dei Deputati
(anch'esso, dunque, posteriore alla sua radiazione dal PNF) e una serie
di note nelle quali l’autore illustrava dettagliatamente i motivi del suo
dissenso dalla linea politica di De Stefani, ribadendo peraltro la
propria estraneità alla polemica tra il ministro e Il Nuovo Paese, e
definendo una leggenda l’opinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso
dal Partito Fascista a motivo di essa. Quanto alla sostanza delle sue
critiche a Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva
nell’imputare al responsabile delle Finanze il suo economismo professorale
- troppo legato all’arida teoria e perciò fine a se stesso - e la sua
incapacità, per converso, di valutare l’evoluzione sindacalista della
produzione, colta invece dal programma economico fascista. Per un economista
di tal razza — argomenta Rocca — esiste soltanto la libertà economica,
cioè della classe borghese, ma non la libertà politica, cioè delle altre
classi, con la conseguenza di favorire il dominio della plutocrazia
bancaria e affaristica, la quale rappresentava l’applicazione quotidiana,
esagerata e unilaterale della scienza economica classica e borghese. Pi «La
lotta contro Stefani — scrive Farinacci in tono minaccioso - deve cessare.
Il Direttorio del Partito deve intervenire e sconfessare ancora una volta
il Nuovo Paese e i suoi collaboratori fascisti. Un ministro fascista come
l’on. De Stefani non può essere lasciato aggredire da chi è privo di ogni
diritto e autorità morale» (FARINACCI, Solidali con Stefani, «Cremona
Nuova). !!! palla giolittiana «La Stampa» (CABIATI, Il ministro
Stefani) ai filo-fascisti «Il Giornale d’Italia» (Polemiche interfasciste
sul “revisionismo” e pro 0 contro De Stefani) e «Il Resto del Carlino»
(FLORA, Per l'onorevole Stefani), la stampa liberale prese, compatta, le
difese dell’uomo di governo veronese, l’energico restauratore delle
finanze pubbliche. Il commento di Flora per il quotidiano bolognese è
forse il più indicativo di questo comune sentire. Nulla di più enigmatico
e di più doloroso per il pubblico italiano — scrisse l’articolista de «Il
Resto del Carlino» — della campagna ostile contro il ministro De Stefani,
riuscito in soli due anni con una politica finanziaria coraggiosa e
sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino Sella, a salvare le
finanze italiane dal fallimento e il credito della nazione dall’estrema rovina.
I revisionisti, complice la campagna de «Il Nuovo Paese» contro De
Stefani, apparivano dunque, alla maggioranza degli osservatori liberali,
per sostenitori della finanza “allegra”, al punto che tutti gli altri
argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il ripristino della
legalità ecc.), che costituivano la vera essenza del revisionismo, finirono per
passare in fe TE avitbicee In un’atmosfera carica di equivoci
e di tensioni, Massimo Rocca si avviò incontro alla sua fine politica. Le
diverse posizioni, ancora incerte al momento della sua intervista a
L’Epoca, si andavano d’altronde sempre più definendo. «L’Impero», dopo un
lungo silenzio, scese in campo a dar manforte a Farinacci. In un
editoriale Il pugno e la
biblioteca -, Settimelli prende le difese dei selvaggi delle province (il
pugno), accusando i revisionisti (la “biblioteca”) di filosofare vanamente
sui massimi sistemi, tradendo l’anima guerriera del fascismo. A parte la
disinvoltura dei suoi ex alleati, è però indiscutibile che Rocca si
compiacesse troppo di se stesso, abbandonandosi sovente a virtuosismi da
erudito (come testimoniato da scritti del tipo di La rivoluzione e le
fonti del Fascismo, uscito su L’Epoca in contemporanea all’articolo di
Settimelli), col risultato — come si diceva - di togliere mordente e
immediatezza alla polemica revisionista, facendola apparire, appunto, uno
sterile e noioso esercizio di critica filosofica. A strappare
definitivamente Rocca alle sue speculazioni provvide Mussolini (A) con un fondo
durissimo per «Il Popolo d’Italia. Gli onorevoli Rocca e Bottai — scrive il
fratello del duce -, ai quali non si può negare perspicacia nello studio
di grandi problemi, si sono dati a demolire, a precipitare ciò che anda
semplicemente attenuato. I patriarchi non si mettono a fare la boxe coi
capi di provincia. Se non ci fossero stati gli squadristi, se non ci fosse
stata la violenza, l'ordine, la disciplina, la ripresa di tutta la
nazione italiana sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili
critici secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembra infine un
mezzo necessario per salvare l’integrità dei bilanci. Persino Il Mondo,
l’organo dell’opposizione costituzionale amendoliana, che pure precisa di
non tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni caso, non ha mai
risparmiato critiche all’operato di Stefani, convenne sull’inopportunità
della campagna contro il ministro. Indifferenti come noi siamo a
qualsiasi esito - scrive infatti il giornale diretto da Cianca — di una
cosa sola possiamo rallegrarci: che non ha vinto una campagna che appare
troppo minata da rancori e da vendette d’uomini o di gruppi che si sono
trovati in contrasto con le ragioni dell’erario, ed hanno sferrato contro
l'ostacolo Stefani attacchi di stile inusitato perfino nell’attuale
depressione del costume politico (Il caso Stefani. La logica del pugno in
opposizione alla biblioteca - replica Rocca a Settimelli -, l’esaltazione
cieca della forza, il mito dell’ITALIANITÀ, conduce il fascismo alla
dissoluzione morale (Rocca, Il problema morale del fascismo, «L’Epoca»). Il
problema d’educare — e quindi di responsabilizzare — i quadri fascisti è
avvertito dai dirigenti più accorti. Dopo la marcia su Roma, nel pieno delle
polemiche sullo squadrismo, Malusardi - allora a Sestri Ponente - si batte
per l’apertura, nei locali del fascio, di una biblioteca di cultura
varia, in modo da offrire ai fascisti un'opportunità di crescita “etica”
e “intellettuale” (cfr. «Giovinezza»). di oggi puo parlare da Roma,
sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il tono ieratico degl’eunuchi.
Le brusche parole di Mussolini (A), in perfetto stile farinacciano,
colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche all’improvviso - ancorché
non imprevedibile — voltafaccia de Il Nuovo Paese, Rocca prova dapprima a
parare il colpo con una dichiarazione nella quale precisa di non aver mai
inteso offendere l’eroiche camicie nere. Quindi, di fronte agl’insistenti
affondo di Farinacci, si decide a pubblicare una lettera aperta al
proprio rivale. Benché traboccante di retorica, la lettera di Rocca è un
fiero atto d’accusa a Farinacci (il viceré spagnolesco di Cremona) e al
fascismo provinciale che egli rappresenta, degenerante nella volgare
brutalità del cazzotto o del randello. È stato scritto, molto
suggestivamente, che in questo modo Rocca ridiventa l’anarchico Libero
Tancredi esi prepara a riprendere la via dell’esilio. Non sembra,
tuttavia, che Rocca si è del tutto reso conto d’esser giunto al capo-linea
della sua avventura fascista, sebbene non è difficile prevedere, come
riuscì a un giornale MUSSOLINI, La Fronda, «Il Popolo d’Italia. Lo stesso
giorno, con grande tempismo, L'Impero titola: Gridiamolo ancora: il fascismo
ha fatto la rivoluzione per avere uno STATO FASCISTA, non per appuntellare lo stato liberale.
3 ‘gu i i ni C'è una fronda in giro? — si chiede il giornale di Bazzi,
riecheggiando il titolo del saggio d’Mussolini (A). Non ci riguarda. Noi
chiediamo anzi che è spezzata. La dichiarazione di Rocca è pubblicata da «Il
Nuovo Paese» e ripresa, il giorno seguente, anche da «Il Popolo d’Italia»
e da «Il Giornale d'Italia». Farinacci, sul suo giornale, si dice
indignato per quella che considera un’autentica virata di bordo da parte
del suo avversario («Cremona Nuova»). In realtà, Rocca si era DERER a
esprimere il proprio apprezzamento per gli squadristi della vecchia guardia
(come sO resto aveva sempre fatto), senza giustificare in alcun modo le
violenze dei teppisti pc quelli di tutte le seste giornate, ma anzi
sottolineando che egli continua a attersi per l’epurazione all’interno
del panic affinché questo puo realizzare il suo genuino di disciplina
legale e materiale. Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la
lettera si trova riprodotta anche in Come il fascismo divenne una
dittatura). Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffunde un
comunicato con il cbr no notizia delle proprie dimissioni da
vicepresidente dell’INA, nonché da membro del consiglio d’amministrazione
della Società Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica
che ricopriva da qualche mese (cfr. «Il Giornale d’Italia», e «Il Nuovo
Paese»). BEGNAC, è ti 18 In. effetti, ancora dopo che il direttorio
fascista ne sanziona il definitivo allontanamento dal PNF, Rocca nutre la
speranza che il suo caso è ri-esaminato, come già è avvenuto in occasione
della sua precedente espulsione. Ed ora — dichiara il dell’opposizione,
che la sua lettera a Farinacci ne ha con tutta probabilità determinato
l’espulsione dal partito. La sera stessa il direttorio fascista, riunito a
Palazzo CHIGI alla presenza di Mussolini (precipitosamente rientrato da una
visita ufficiale in Sicilia), DECRETA L’ESPULSIONE DI ROCCA dal PNF. Essa,
commenta «Il Popolo d’Italia», non è solo: la punizione ad un sedizioso,
ma un monito severo e una minaccia solenne a tutti quegli PSEUDO fascisti
o FALSI fascisti che rinnegano la fede, offendendo la patria e turbano
colla smania e la follia dell’arrivismo quel che è il dovere fascista più
grande: la ricostruzione nazionale. Il direttorio decide altresì l’espulsione
di Bottai, ma questi, grazie all’intercessione di Marinelli (non si sa a
quali eéindizioni probabilmente la promessa di rientrare nei ranghi),
ottenne la revoca del provvedimento, cosicché Rocca si trova, di fatto, a
sostenere da solo il peso dell’epurazione. Nel giro di pochi mesi,
dunque, il revisionismo passa d’una concreta, benché ingannevole,
speranza di successo al più cocente fallimento, mentre a «Il Giornale
d’Italia» — più fascista che mai, se il fascismo è legge statale e
disciplina spirituale, non mi resta che tornare ad attendere un po’ di
giustizia, non Importa se più tardiva che nello scorso
settembre. Avanti!: Cfr. «Il Popolo d’Italia. Ogni commento da parte
nostra - rileva Farinacci trionfalmente — è superfluo. Costui [Rocca], da
noi, è considerato fuori del fascismo già da un anno (FARINACCI Virando
di bordo, Cremona Nuova. GUERRI. La marcia indietro di Bottai addolora Rocca,
che ne attribuì la ragione alle preoccupazioni carrieristiche del intellettuale fascista. Bottai — scrive
Rocca --, teme di veder spezzata per sempre la sua carriera. Rocca, Come
il fascismo divenne una dittatura. Il punto è che il revisionismo di
Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muoveno da premesse
culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario di Rocca,
infatti, che vanta una militanza politica pre-fascista di tutto rispetto,
Bottai, fatta eccezione per la sua breve stagione futurista, si e form politicamente
col fascismo, al quale dedica tutto se stesso, e di cui — se così si può
dire - puo considerarsi l’unico vero intellettuale organico. Nonostante
l’approccio critico, quindi, la fedeltà fascista di Bottai non è
assolutamente in discussione. È così — come sottolinea efficacemente Guerri -
che Bottai, il quale crede nel FASCISMO COME TEORIA POLITICA, non volle
rinunciarvi sempre ripromettendosi di migliorarne la prassi, mentre
Rocca, assai meno fascista e anebra molto anarchico, piuttosto che
accettare la disciplina di un partito che considera irrimediabilmente
marcio, prefere rinunciarvi del tutto (GUERRI. Rocca vienne abbandonato al
proprio destino”. Perché MUSSOLINI decide di sacrificare Rocca, di cui aveva
personalmente preso le difese meno di un anno prima, è questione di non
facile interpretazione. La risposta può essere ancora una volta ricercata
nella duttilità strategica del duce. Mussolini, infatti, coltiva ancora
il disegno d’un allargamento della maggioranza, da realizzarsi
soprattutto grazie a un’intesa con la CGL -- un progetto a cui il capo
del fascismo tiene in modo particolare e che, se non è sopraggiunta la
vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in porto.
Un'operazione tanto importante — scrive Felice — dove essere realizzata
con le minime possibili scosse interne. Gl’intransigenti dovevano essere
convinti ad accettarla. Se il prezzo o una parte del prezzo da pagar loro è
la fine del revisionismo e la testa di Rocca, Mussolini non puo certo
esimersi da Rocca è quindi vittima d’intricate manovre politiche, ma è
giusto ripetere che egli sconta anche gravi errori personali. Con la sua
definitiva espulsione | commenti della stampa italiana sono variamente ma
unanimemente favorevoli alla decisione del direttorio. Settimelli, su
L'Impero ha parole di stima per Farinacci (il suo programma semplice e
schietto, energico e fiducioso, è il nostro programma) e di riprovazione
per Rocca (Rocca non ha una visione chiara e sintetica della situazione. È
farraginoso e analitico). «Il Resto del Carlino», che vede con favore la
battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarca la degenerazione
personalistica della polemica revisionista — concretatasi negl’attacchi a
Stefani - augurandosi che Rocca si convince dell’opportunità di rientrare
in un completo silenzio (Il provvedimento contro l'on. Rocca). Con
argomenti simili, «Il Giornale d’Italia», pur riconoscendo la validità
del revisionismo degl’inizi, ne critica l’involuzione dottrinale (non si
capisce quale è la meta, per quali vie concrete raggiungibile, che i
nuovi San Paolo si proponeno) ed espressa soddisfazione per l'avvenuta
risoluzione della crisi (Nube risolta). FELICE, Mussolini il fascista. A
una successiva riunione del gran consiglio del fascismo (in piena crisi
Matteotti), Mussolini si mostra ancora moderatamente ben disposto verso certe
tematiche revisioniste. Dichiaro — dice il duce -- che io non ho ben
capito ancora dove i revisionisti vogliono andare a parare. Bisogna che
questi nostri amici specificano. Si tratta di una ricaduta nello STATO democratico/liberale
con tutti gl’annessi e connessi? Si vuole invece rivedere i quadri ed i
gregari? O si vuole — come è logico — ri-vedere le posizioni morali e
politiche del fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del
potere politico? In quest’ultimo caso, il revisionismo ha una reale
utilità. E evidente che, assunto il potere, bisogna diventare dei
legalitari e non continuare ad essere dei ribellisti. Oppure il
revisionismo vuole condurci ad un ri-esame delle nostre posizioni
programmatiche? Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro, o è un
ritorno al passato? (PNF, Il Gran Consiglio nei primi danni dell'ERA
FASCISTA). dal PNF, Rocca (che non si dimise da deputato e presenzia
regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera) ©’ concluse la
propria militanza politica. Senza mai sviluppare una precisa coscienza
anti-fascista, per tutto il resto della sua vita Rocca mantenne, riguardo
al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo dire di odio/amore),
di cui è testimonianza il suo saggio, Come IL FASCISMO divenne una
dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo
momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tenta la via
dell’opposizione interna; quindi lascia l’Italia per la Francia, dove vive
a lungo come appartato in rapporti di reciproca diffidenza con la
concentrazione anti-fascista e in ristrettezze economiche, scrivendo
saltuariamente per Il Pungolo, il giornale diretto dal socialista Lemmi
che raccoglie anche molti ex fascisti espatriati in seguito alla vicenda
Matteotti (fra i quali Rossi e lo stesso Bazzi) !°8. Dalla Francia Rocca passa
in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a 15 Cfr. «Il Giornale
d’Italia. Rocca, PRIVATO DELLA CITTADINANZA ITALIANA dopo l’espatrio in Francia, è dichiarato
decaduto dal mandato parlamentare. Cfr. Atti Parlamentari, Camera
dei Deputati, Legislatura, Discussioni, Rocca è aggredito più volte: le
più gravi a Roma, tre giorni dopo la sua espulsione, ad opera di Bonelli,
Masini e Nardo (rispettivamente il segretario del fascio di Genova e i
comandanti delle squadre d’azione genovesi), indignati per i riferimenti
contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami tra il fascismo
genovese e i gruppi armatoriali liguri (cfr. «La Tribuna»,); e in
Galleria a Milano da parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr.
ACS, MINISTERO DEGL’INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 7
[Rocca comm. Massimo]. Un telegramma del prefetto di Verona al ministero
degl’interni informa d’una riunione in una trattoria di Peschiera, nel
corso della quale Rocca, illustrando il programma revisionista, propugna
la formazione di fasci autonomi, che avrebbero dovuto raccogliere tutti
gl’elementi dissidenti degni di militare nel fascismo (a questo proposito
Rocca lesse le adesioni di Forni, Padovani, Sala e Marsich) e ricercare
la collaborazione dei combattenti e dei mutilate. Il progetto, caldeggiato da
Rocca, di radunare tutte le diverse espressioni del dissidentismo
fascista intorno a un programma e a degl’obiettivi comuni, prende corpo nella
Lega Italica, sorta su iniziativa del gruppo di Patria e Libertà — e
sotto l’egida del poeta e drammaturgo BENELLI (si veda), figura, se
possibile, politicamente ancor più contraddittoria di ANNUNZIO (si veda). La
Lega Italica, che avrebbe dovuto costituire l’embrione di un vero e
proprio partito dei dissidenti, si dissolve però nel giro di pochi mesi,
vittima dell’eccessiva eterogeneità e della fumosità dei programmi. ZANI. Cfr.
ACS, CPC, Busta [Rocca]. Per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblica il saggio
“Le fascisme e l'antifascisme en Italie,” anticipante molti dei temi da
lui in seguito sviluppati in Come il fascismo divenne una
dittatura. ci giornali e riviste — soprattutto di lingua francese -
e sempre mantenendo, nei confronti del regime, un contegno
altalenante (lex anarchico approva pubblicamente l’impresa d’Etiopia, ma
non ha esitazioni, in seguito, a prendere posizione contro le leggi
razziali). Rientra in patria soltanto dopo un periodo di detenzione nelle
carceri belghe, riprendendo a pieno ritmo la sua attività di pubblicista.
Muore a Salò. Tra questi spiccavano il settimanale Cassandre e il
quotidiano Le manna entrambi editi a Bruxelles. I saggi di Rocca, per lo
più firmati con pseu toni il più ricorrente), vertevano
principalmente su questioni di politica RENO È RAT. Rocca è arrestato subito dopo la sesta di sg Ù
tgp ° so ta I È Il suo nome appare nella lista egl de ni
iale». L'ex anarchico nega sempre di aver avuto a che fare con nig
ela aa e, su ricorso del figlio, St cancellato dall’elenco (al
riguardo v. Rocca, Come il dae pri, i dittatura). Ciononostante — a
quanto i; a un FOA È documentatissimo studio (FRANZINELLI, I tentacoli
dell OVRA. Seen co ADEN e viftime della polizia politica fascista,
Torino, Bollati Boringhieri, ta pare ani Rocca fa effettivamente parte
dei quadri dell OVRA, celato sotto il nome di Omero. Le battaglie
perdute sono generalmente dimenticate, poiché i vincitori non sentono
alcun interesse a ricordarle, almeno quando si sono svolte entro uno
stesso partito o una stessa nazione. Ciò non toglie che, se non gl’uomini,
almeno le cose e le verità sconfitte alla lunga si vendichino, attraverso
le conseguenze del loro disconoscimento. Nulla è più facile, ad esempio,
che deridere e sopprimere certi valori spirituali, quando si dispone
della forza sufficiente per impedirne la affermazione e persino il ricordo.
Nei giorni della sventura tuttavia, cioè quando la forza vien meno,
si misura l’importanza negativa della loro assenza, e meglio ancora la
misureranno coloro che, più tardi, cercheranno una spiegazione obiettiva
agli avvenimenti (Rocca, Una battaglia perduta: il revisionismo, «ABC»). Con
l’uscita di scena di Rocca, coincidente con il fallimento della linea
revisionista, ha termine questo saggio. La caduta in disgrazia di Rocca
(cui si accompagnarono, pressoché contemporaneamente, la scomparsa
di Gioda — e, prima ancora, la sua sconfitta politica - e il brusco
ridimensionamento delle residue velleità libertarie” di Malusardi), può
infatti essere assunta a limite cronologico della parabola storica
dell’anarco-interventismo, quanto meno di quella parte dell’anarco-interventismo,
qui presa in esame attraverso le vicende incrociate dei suoi principali
esponenti, che confluì nel movimento fascista. Se infatti, come giova
ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della correttezza
storiografica, considerare l’anarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e
Malusardi come fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto
(perché il conflitto mondiale comportò un’effettiva trasformazione della
società italiana, contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie
politiche prebelliche; e perché il fascismo, al di là delle sue molte
anime, fu comunque un fatto nuovo, impensabile senza la svolta epocale
della guerra), pure, come crediamo di aver illustrato, l’atteggiamento di
fondo con cui questi personaggi si accostarono al fascismo può in qualche
modo esser ricondotto alla loro formazione anarcoindividualista. In questo
senso, riteniamo si possa parlare della presenza, nel fascismo delle
origini, di una piccola vena anarchica, che, innestatasi in esso tramite
l’interventismo, si esaurì, progressivamente ma in modo inesorabile, con
il consolidarsi al potere della rivoluzione” fascista. ‘Renzo
Novatore’ (Arcola) filosofo. ‘Renzo Novatore’. Keywords: implicatura,
l’anarchismo di Humpty Dumpty, la scusa anarchista dei fascisti, I anarchici di
Mussolini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari” – The Swimming-Pool
Library. Abele Ricieri Ferrari. Ferrari
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