Grice e Franchini: l’arguzia della ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale nell’età degl’eroi -- la gloria
d’Enea– la scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano.
Grice: “I like Franchini; for one, he wrote on the ‘metaphysics of love;’ for
another, he wrote on ‘historical reason’: I collect reasons, pure reason,
practical reason, communicative reason, historical reason…” Figlio di Vincenzo e Anna Scalera, si laurea sotto le
armi. Vive una drammatica esperienza bellica che lascia un segno per la vita.
Studia all’istituto italiano di studi storici, fondato da Croce a Napoli, dove
tenne in seguito conferenze e lezioni. Insegna a Messina e Napoli. Fonda la
Hegel-Internationale Vereinigung, è stato socio dell’accademie napoletane nella
Società nazionale di Scienze, Lettere e Arti e dell’istituto lombardo di
Milano. Intensa è la sua attività di pubblicista e di scrittore. Collabora
nell’immediato dopoguerra a giornali come “La Voce”, “L’Azione”, “Il Giornale”,
e in seguito al “Mattino” di Napoli, al “Tempo” di Roma e alla “Gazzetta di
Parma”. Scrive sul “Mondo” di PANNUNZIO (si veda), contribuì assiduamente alla rivista
di studi crociani. Dirige la nuova serie filosofica della rivista “Criterio”,
fondata a Firenze da RAGGHIANTI (si veda). Frequenta la casa di Croce,
scoprendone via via la lezione di alta umanità e di profondo significato
etico-politico. Une alla vocazione filosofica la militanza politica in nome dei
valori della liberal-democrazia. Partecipa attivamente a “Nord e Sud” di Compagna
e alla “Realtà del Mezzogiorno” di Macera. Cultore delle arti visive, di cinema
e di teatro, di musica e di poesia, si cimenta tra l’altro nella scrittura di
Aforismi, antologizzati nel volume degli “Scrittori italiani d’aforismi”. Redatta
nel preziose “Note biografiche di Croce”, raccolte dalla viva voce del
filosofo, che sono oggetto di alcune trasmissioni radio-foniche. La sua vasta
biblioteca è a Napoli. Il nocciolo della sua filosofia sta nel tema del
giudizio, storico, politico, prospettico. Alla lezione di Croce, che considera
un classico della storia delle idee, si e costantemente ispirato,
riconoscendogli il merito, per lo più sottaciuto, di aver calato il pensiero
nel vivo dell’esperienza storica. In “Esperienza dello storicismo” distingue,
in continuità ideale con gli studi d’ANTONI (si veda), lo storicismo di matrice
vichiano-crociana dal “Historismus” tedesco, prevalentemente filologico, nella
convinzione peraltro che la filosofia dello spirito non è una pura e semplice
ripresa dell’idealismo hegeliano. Indaga il nucleo logico della filosofia di
Croce individuando, nel nesso delle categorie conoscitive (teoretica, aletica) e
pratiche (buletica, volitiva), l’*uni*-cità or ‘aequi-vocalita’ della
dialettica, di opposti e distinti. È tra i primi a confrontarsi con le correnti
della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del neo-positivismo e la filosofia
analica del linguaggio ordinario, segnalando nel tema del nulla lo scacco
definitivo del sistema, insieme con il bisogno di qualificare l’irrazionale (il
pre-razionale), che è il vasto mondo della non filosofia. Elabora una esaustiva
storia del concetto di “dia-lettica” dai greco-romani ai contemporanei (Le origini
della dialettica – DA LEONZIO A NOI), approdando infine alla forma moderna
della filosofia nel passaggio dalla metafisica teologica alla metodologia della
storia. Apprende da Hegel che la dialettica *è* la logica della filosofia,
distinta dalla scienza. Alla tradizione del criticismo kantiano collega il
concetto di giudizio, in special modo nella forma della riflessione
estetico-teleologica della terza Critica. Gli si aprirono nel frattempo squarci
significativi sul fattore esistenziale e storico del non essere ancora (il
potenziale, l’attuale, il divenire) che lo induce ad analizare il concetto di progresso
tra la crisi del ideale dell’illuminismo e la dimensione etico-politica del
giudizio prospettico – il pre-spettico, lo spettico, il prospettico -- tra
passato, divenire, e avvenire. Il futuro è in qualche modo pre-vedibile nella
prospettiva individuale di chi è chiamato ad agire in una situazione in
sviluppo. Altra cosa sono l’astratta profezia, l’oracolo, le prassi
scientifica, la scommessa (the bet), il “caso” -- che sono forme di pre-visioni
utili, finanche necessarie, ma non trascendentale (pre-visione). Proclama il
diritto alla filosofia, la lotta per il diritto all’esercizio della ragione
contro il sofisma che limita la libertà, per ridare dignità alla ri-vendicazione
dei diritti umani (Il diritto alla filosofia). Tratta sul rapporto di filosofia
e scienza, riconoscendo a ogni sapere una funzione paritaria nella differenza
della materia e della forma. Non ha punti di partenza né approdi finali, ma
poggia sulla spontaneità creatrice del vitale nel quale Croce, in perenne confronto
critico con Hegel, indica l’origine della dialettica e una scoperta di alta eticità.
Nell’utile, da Croce elevato al livello dello spirito, indaga gl’aspetti
ineludibili di buona parte della vita umana (la volontà, la passione, la
classificazione), per una comprensione ad ampio raggio del senso del terrestre. Altre
opere: “Critica della ragione storica” (Giannini, Napoli); “Storicismo”
(Giannini, Napoli); “Metafisica e storia” (Giannini, Napoli); “La linea ed il
circolo -- Il progresso: storia di un’idea – storia lineale, storia ciclica --
La Nuova Accademia, Milano; L’idea di progresso. Teoria e storia, Giannini,
Napoli, “La dia-lettica e la co-loquenza”, Giannini, Napoli, La materia della filosofia,
Giannini, Napoli, Teoria della previsione, ESI, Napoli; seconda Giannini,
Napoli, “Croce interprete di Hegel” Giannini, Napoli); “Il concetto di storia
in Croce, Morano, Napoli; E.S.I., Napoli, Renata Viti Cavaliere La logica della
filosofia, Giannini, Napoli); “Il sofisma e la libertà” Giannini, Napoli, “Autobiografia
minima, Bulzoni, Roma, Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Giannini,
Napoli “Consenso e dissenso” (Sansoni, Firenze); Intervista su Croce, A.
Fratta, SEN, Napoli, Il diritto alla filosofia, SEN, Napoli, Critica delle
crisi: filosofia, scienze, rivoluzioni” (Cadmo, Roma); “Il progresso della
filosofia, Storia della filosofia con testi e ricerche, Ferraro Napoli, Eutanasia
dei principii logici, Loffredo, Napoli); “Il potere e l’ipotesi. Tappe di una
filosofia delle funzioni, Morano, Napoli, Pensieri sul “Mondo”, Cavaliere,
Gily,Melillo, presentazione di Cotroneo,
Luciano, Napoli); “Teoria della previsione, G. Cotroneo e G. Gembillo, Armando
Siciliano, Messina, Le origini della dialettica, F. Rizzo, Rubbettino, Soveria
Mannelli, Scritti su “Criterio”, Introduzione, testi e indici R. Viti Cavaliere
e Peluso, Scripta Web, Napoli. "Dizionario Biografico", su
treccani. quartotempoblog, Biografia di
Carmen Moscariello Quarto Tempo, altervista.org. critica M. Biscione,
Interpreti di Croce, Giannini, Napoli G. Gembillo, Un itinerario filosofico, La
Nuova Cultura, Napoli Coppolino, La “scuola” crociana, La Nuova Cultura,
Napoli, V. Mathieu, Storia della filosofia: La filosofia del Novecento, Le
Monnier, Firenze, G. M. Pagano, “Storicismo e azione” (Cadmo, Roma); G.
Cantillo, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, Napoli, E. Paolozzi, il
valore dei dettagli, in L'identità liberale di una società in trasformazione,
Napoli, La tradizione critica della filosofia. G. Cantillo e R. Viti Cavaliere,
Loffredo, Napoli, R. Viti Cavaliere, Postfazione, La teoria della storia di Croce,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, Viti Cavaliere, Profilo in Ead., “Il
giudizio e la regola” (Loffredo, Napoli); “Il diritto alla filosofia, Cotroneo
e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli R. Viti Cavaliere, Una scelta di lettere d’Antoni
in "Logos", Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. //store.rubbettinoeditorei/ Fondo F., Università
“L’Orientale” di Napoli. Una scelta di lettere di Carlo Antoni a
Raffaello Franchini a cura di Renata Viti Cavaliere Nota
introduttiva Si offre al lettore una scelta di lettere di Carlo Antoni a
Raffaello Franchini, tra le cui carte chi scrive ha rinvenuto una custodia, di
colore verde sbiadito, contenente la preziosa raccolta Sul risvolto di
copertina F. così annota. Sono lettere d’Antoni. Pubblicabili solo dopo molto
tempo: mutilarle sarebbe un grave errore. Poco più avanti aggiunge a mo’
di postilla: «+ 3 reperite in seguito. Sul non mutilarle farei riserve. +
1 reperita. In spirito di fedeltà, dunque, alla palese intenzione del mio
maestro di vedere un giorno stampate le lettere d’Antoni, e consapevole della
difficoltà a pubblicare ancor oggi integralmente il lascito epistolare,
preservo intatte alcune lettere ora destinate all’attenzione degli
studiosi, mantenendo la massima discrezione su quei contenuti riservati a cui
si allude nell’appunto manoscritto. Si è fatto in modo che non si perdesse -
nella scelta operata- il filo “logico” di uno scambio epistolare
intenso, che purtroppo conosciamo solo unilateralmente 3 , riguardante pensieri
e dottrine che in quegli anni avevano impegnato molto Antoni incidendo
non poco su F., che per tanti versi si considerò sempre idealmente
suo allievo. Proprio allo scopo di non interrompere il dialogo sotteso al
carteggio, non sono ovviamente state escluse, solo per il fatto di essere state
già edite, le 6 lettere di Antoni che Franchini riportò quasi per intero
all’interno del sag gio in memoriam , scritto nel ‘69 nel decimo
anniversario della morte dello studioso 1 Un sentito ringraziamento
ai figli Laura e Vincenzo per avermi messo a disposizione i materiali
dell’Archivio F. Su alcune buste compare l’indirizzo vomerese di Via
Michetti, ma per lo più le lettere sono indirizzate a «Il Giornale» in
via Roma, e poi in Via Nardones, nel cuore dei Quartieri spagnoli a
Napoli. 3 Non è stato in alcun modo possibile reperire le lettere
di Franchini. Esse non sono presenti nel Fondo Antoni conservato a Roma a Villa
Mirafiori, e si deve seriamente ritenere che siano andate perdutetriestino,
costruendo intorno ad esse per buona parte l’affettuoso ricordo di una
magistrale lezione 4 . Dieci anni addietro infatti, nel corso del 1959,
Franchini si era trovato ad intervenire sul pensiero e l’opera di Carlo
Antoni a distanza di appena un mese: nel mese di luglio aveva recensito
il volume La restaurazione del diritto di natura , edito con Neri
Pozza, in una lunga nota sul «Mondo» dal titolo Le leggi di
Antigone, e nell’agosto fu chiamato purtroppo a scrivere nel giro di
poche ore, con sincero rammarico, In morte di Antoni. Amico
della verità 5 , un corposo necrologio rivolto a celebrare la maestrìa del
grande discepolo di Croce, così fedele e al tempo stesso del tutto originale.
Le lettere qui pubblicate aiutano a focalizzare, per rapidi lampi di luce, quel
tratto di strada relativo ai precedenti anni Cinquanta, vissuti da
entrambi per lo più all’in terno della tradizione crociana, dalla quale sentirono
di non dover prescindere, a partire dagli ultimi anni di vita del
filosofo sino alla prematura scomparsa di Antoni. Sorprende per certi
aspetti l’ incipit della lettera di Antoni: «È da tempo che seguo
con vivo interesse la Sua attività di studioso, se si considera l’età di
F.. E’ pur vero però ch’egli puo già vantare una significativa
produzione scientifica, tra articoli di giornale e saggi, non soltanto di
esordio, e che i primi scritti risalgono già. F. infatti pubblicq una serie di saggi
su quotidiani napoletani come Il Corriere e «La Voce», e su riviste di pregio
come «Ethos» diretta da Pepe e «Lo Spettatore italiano» curato da Elena Croce e
Craveri Non credo si sbagli ad indicare nella recensione al volume di
Antoni Considerazioni su Il saggio dal titolo Antoni, lo
storicismo e la dialettica è nel volume F.,
Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers , Napoli, Giannini. È
già uscito, con titolo diverso, nella miscellanea, Umanità e Storia. Scritti in
onore di Attisani , Napoli, Giannini. Il testo di F. su Antoni appartiene ad un
legato non agevolmente reperibi le, per cui le lettere in esso contenute
risultano per i lettori d’oggi come se inedite. F. racconta nelle sue note
autobiografiche di aver redatto in breve tempo, rinunciando ad andare ai
funerali, l’ampio articolo commemorativo per Il Mondo. Cfr. R. F., Autobiografia
minima, Roma, Bulzoni, Sulla prima produzione di F. si veda il volumetto di
Pagano, Storicismo e azione. Gli scritti di F., Roma, Cadmo. Il periodo è
di formazione e di studio tra le difficoltà della guerra, privo però di
documentazione a stampa Hegel e Marx (pubblicata nella rivista
«Ethos») l’atto d’inizio di un dialogo filosofico che anda via via
intensificandosi. Si può presumere infatti che Antoni, nella prima delle
lettere da me rinvenute, esprimesse un giudizio assai positivo sul lavoro dello
studioso avendo anche chiaro il ricordo di quell’articolo di due anni
addietro, nel quale si traccia di lui un bel profilo con riferimento ai
precedenti volumi Dallo storicismo alla sociologia e La lotta contro la ragione. In
realtà F. da allora in poi, e in più d’una occasione, ebbe
sempre gran cura di rievocare i pensieri di Antoni sia in segno di
consenso sia comunque per un doveroso riconoscimento dei suoi meriti
d’interprete. Valga ad esempio la recensione allo Hegel
di De Ruggiero (in «Lo Spettatore Italiano») dove compare un significativo
riferimento alla lettura che Antoni aveva proposto circa il carattere
intellettualistico e astrattivo della dialettica hegeliana nella prima triade
della Scienza della logica . In quella occasione, peraltro, F. non si
limitò ad illustrare i termini di una questione dai risvolti complessi,
ma suggeriva d’intendere il rapporto dell’essere col nulla, reali solo
nel divenire, come la prova evidente dell’uscita dalla immobilità
tautologica della vecchia identit à senza vita. In altre parole egli non
mostrò di approvare del tutto l’idea di un “tradimento” della dialettica
operato da Hegel nei confronti della sua creatura più preziosa, perché
l’essere e il nulla in quanto opposti, o contrari, animano il movimento d ella
realtà lungi dal fissarlo per dir così in uno schema triadico posticcio. Non
per caso, nell’esaminare i saggi raccolti da Antoni, F. mirò subito al
problema -Hegel che per il filosofo triestino rappresentò a lungo un cruccio
insuperabile, anche negli anni a venire. Tra critiche all’illuminismo e
all’irrazionalismo romantico si può dire che Hegel abbia redatto la
magna charta della speculazione moderna che è la dialettica, quasi un
segreto di difficile decriptazione. Mentre, però, Antoni si arrovellava
sul “rompicapo” che è l’essere da cui sprizza la scintilla del divenire
vitale, cogliendo in Hegel il restauratore della metafisica tradizionale, F.
Ristampato nel volume Esperienza dello storicismo , Napoli, Giannini. Il
ricordo di Ruggiero: lo studioso e l’uomo sta nel
volumetto Dalla filosofia della storia alla ragione storica , Napoli,
Giannini] mostrava maggiore apertura alla nuova logica che di fatto assorbe la
metafisica in una logica non più matematizzante. Molto acuta gli era pertanto
sembrata la critica di Antoni al ritmo dialettico hegeliano come risultante da
una sorta di contaminazione tra sillogistica e dialettica degli opposti, perché
in tal caso cominciava ad emergere il problema di una preferenza del filosofo
di Stoccarda rivolta in ogni modo al sillogismo piuttosto che al giudizio. Il
tema della dialettica si trova al centro dello scambio epistolare. Croce,
nonostante l’età avanzata e gli acciacchi che lo assillavano, aveva
scritto nuove e profonde analisi intorno all’origine della dialettica in Hegel
e sul tema della vitalità che per un verso complicava il sistema, mentre,
peraltro, lo arricchiva ulteriormente dall’interno. Nella recensione
all’ultimo libro di Croce Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici Franchini aveva chiamato ancora una volta in causa Antoni,
attribuendogli finanche il merito di aver suscitato nel maestro il bisogno di
un ripensamento della questione della dialettica. Antoni ne è lusingato ma al
tempo stesso si preoccupa dell’opinione del filosofo. Scrive a Croce un
biglietto di scuse per avere impropriamente adoperato l’espressione dialettica
dei distinti, e a F. una lunga lettera in cui chiarisce forse anche a se
stesso che la differenza da lui messa in luce tra la dialettica hegeliana
della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione, comunicata
a Croce pur con molta discrezione, ha forse finito per condurre il
filosofo proprio là dove egli non avrebbe voluto e dove per la verità non si
sentì mai di seguirlo: vale a Cfr. F., Il razionalismo
hegeliano, in Id., Dalla filosofia della storia alla RAGIONE
STORICA Vedi F., La crudele dialettica, Il Mondo. Si chiede F.: che cosa è
accaduto nei quarantasei anni che intercorrono tra il Saggio sullo
Hegel e gli ultimi scritti crociani su Hegel? Cosa ha spinto Croce a
tornare sul tema della dialettica in Hegel? Certo non la pubblicazione degli
scritti di Hegel, neppure il cosiddetto rinascimento esistenzialistico-fenomenologico
del filosofo di Stoccarda, e neppure i brillanti saggi di Negri. Semmai è stato
Antoni a sottolineare l’aporia intellettualistica nella hegeliana
formulazione del movimento dialettico. Croce, pur non rispondendo
direttamente alla questione posta d’Antoni, aveva voluto infine includere
l’opposizione nella logica dei distinti in modo che non si perde di vista
la drammaticità dell’atto generativo del prodursi del reale nel suo
significato logico-spirituale dire ad una sorta di primato della vitalità nel
suo dialettico rapporto con la vita morale. Come si legge nelle lettere,
l’intreccio di varie vicende offre snodi teorici, e non solo teorici,
particolarmente interessanti. Direi che tre possono essere considerate le
questioni più significative, che di necessità coinvolgono filosoficamente
il lettore al di là dell’apparenza di alcune diatribe contingenti. In
primo luogo si deve collocare il fatto importante della pubblicazione del saggio
di Antoni Commento a Croce, coevo al Congresso di filosofia che si svolse
a Napoli (con la relazione introduttiva d’Antoni) sul tema della
“conoscenza storica”. Connessa alla stampa del saggio d’Antoni è la
vicenda relativa al caso Fiore, che com’è evidente molto amareggiò
l’Antoni, e, infine, la questione, aperta da Croce molti anni addietro
(che per ovvi motivi torna in queste lettere), intorno al significato
dell’insegnamento della filosofia della storia nelle università italiane.
Gustosa, infine, l’osservazione ironica di Antoni a proposito del libro
di S prigge dedicato a Croce, relativa al celebre saggio Perché non
possiamo non dirci cristiani. Val la pena, quando ancor oggi si torna
spesso a discettare sul senso e sul ruolo di questo scritto, commentare la
strana insinuazione sui motivi prettamen te politici, benché anacronistici, che
l’avrebbero, secondo lo studioso inglese, ispirato. La recensione di
Franchini al Commento a Croce uscì dunque sulla Nuova Antologia.
Non so se furono pochi i lettori che ne presero visione, come
ipotizzava Antoni; certo è che ampia fu l’analisi di quel libro all’interno
del puntuale racconto (non però un esaustivo resoconto) scritto da
Franchini sul congresso napoletano di Filosofia, racconto-resoconto che uscì
negl’Atti dell’Accademia Pontaniana.. L’illustre interprete di Croce
dichiarò poi onestamente, con l’umiltà dello studioso intelligente, di
aver potuto vedere con Rimando alla monografia di Sasso,
L’illusione della dialettica . Profilo di Antoni, Roma,
Edizioni dell’Ateneo. Si veda anche l’esauriente saggi o di Biscione,
Antoni interprete di Hegel , in «Filosofia, con particolare riferimento
al volume postumo di Antoni, Lezioni su Hegel, Napoli, Bibliopolis,
F., La conoscenza storica , in «Att i» dell’Accademia pontaniana,
N.S., V, Napoli (rist. in Metafisica e Storia , Napoli, Giannini,
da cui si cita) maggiore chiarezza i suoi pensieri, quasi in virtù del
diradarsi di una sorta di nebbia, attraverso l’illustrazione che ne
aveva fatta il giovane discepolo. Che posto ebbe dunque il Commento a
Croce nella discussione svoltasi durante il XVII Congresso di filosofia
intorno al cruciale problema della conoscenza storica? Anzitutto F. pone una
questione di politica culturale, assegnando alla relazione introduttiva di
Antoni il significato di un “riscatto” del valore filosofico dello
storicismo crociano rispetto alle posizioni sistematiche o, che è lo stesso,
problematicistiche, di coloro cioè che comunque presuppongono un
assoluto, sia esso raggiungibile oppure no. F. vide in Antoni una voce laica in
grado di contrastare dogmatismi annosi e quelle forze culturali poco sensibili
alle inquietudini dello spirito liberale anche nell’organizzazione degli
studi. La scelta di chiamare Antoni ad aprire i lavori del Congresso era stata
“politicamente” rilevante e teoreticamente acuta, perché si trattò del
riconoscimento di una linea di ricerca filosofica, tutt’uno c on la ricerca
storiografica, che appunto Antoni – così scrive F. - ha
spinto alle estreme conseguenze nei capitoli dedicati all’origine storica
della distinzione e ai RAPPORTI TRA L’ASSOLUTO E LA STORIA Il Commento a
Croce fu in quell’occa sione lo strumento di una militanza
filosofica di tenore essenzialmente etico-politico. Solo un filosofo
della storia, nel senso metodologico e non metafisico dell’espressione, puo
in piena consapevolezza gridare alto e forte il no dell’etica contro
le usurpazioni del politicismo comunista. Così F., forse con enfasi
eccessiva ma correttamente, collocava Antoni dalla parte dell’anti-totalitarismo,
anche memore degli studi da lui fatti sulla tragedia totalitaria della
Germania nazista. Sull’ibridazione di socialismo e liberalismo Antoni non è
d’accordo, come si sa, pur tuttavia mai egli nega il carattere
solidaristico di una politica economica curvata sul sociale, come infatti
emerge in alcuni tratti delle lettere a F.. Il Congresso affianca al tema
della conoscenza storica quello su Arte e linguaggio. È organizzato da
Battaglia e dalla SFI napoletana, e vide partecipi i principali esponenti degli
schieramenti filosofici del tempo, come Stefanini (si veda), Bontadini (si
veda), Spirito (si veda), Calogero (si veda), Fazio (si veda) Allmayer, Paci
(si veda), Filiasi-Carcano (si veda), e tra gl’organizzatori Carbonara (si
veda). Antoni è primo relatore e animatore, con numerosi interventi, delle
accese discussioni sino alla fine dei lavori. Antoni fu l ieto d’aver
partecipato al Congresso napoletano, sì da trarne soddisfazione morale e
politica, benché anche in seguito continuò a vedere nella cultura italiana
sempre e solo schiere di combattenti non proprio ad armi pari, specie là dove
le idee “confessionali” tornavano per lo più a compattarsi in vista
di un certo potere. La presenza di Antoni aveva ottenuto un esito importante:
aveva consentito agli esponenti di una tradizione storicistica sui
generis , alla quale Franchini si univa seguendo il cammino già di Ciardo,
Attisani, Parente, di testimoniare la volontà di un confronto con le
altre correnti della filosofia italiana e straniera. D’altronde, al
solito pregiudizio che tendeva a stanziare gli studi crociani nel
Sud dell’Italia, era stato p roprio l’Antoni, nel discorso di chiusura
delle sessioni del Congresso, ad opporre la realtà del pensiero di Croce, per
eccellenza europeo e mondiale nell’ispirazione e nei suoi fecondi risultati. F.
non si fa tuttavia sfuggire l’occasione di denu nciare i limiti di
presunte filosofie d’avanguardia. Tra l’altro lo stesso problema della
conoscenza storica, così posto nella sua purezza, poteva indurre nell’errore di
non considerarne il rapporto con la volontà e la vita morale, di
trascurare cioè il ruolo dell’individuo umano, che è un nulla se si vuole
rispetto all’infinito, ma è quel tutto che si realizza nell’opera singola e si
trasmette storicamente alle generazioni future in nome di una tradizione
critica. Non ha forse Croce detto chiaramente che storicismo è creare la
propria azione, il proprio pensiero, la propria poesia, muovendo dalla
coscienza presente del passato»? Chi, se non un individuo concreto e
responsabile, potrebbe essere mai l’artefice di tanta proprietà? Cos’è
lo storicismo se non il vero umanismo dei nostri giorni? Ad Antoni F.
tributa in definitiva il migliore degli omaggi sottolineando la teoreticità del
saggio su Croce, di quel “commento” messo lì a dissimulare forse con un
eccesso di pudore la nuova filosofia che nasceva dalla lettura intrinseca
del grande pensatore. I capitoli sulla Distinzione e sul Giudizio sono cruciali
nel libro di Antoni, profondi e utili quelli sull’individuo nella Storia
e sull’idea di progresso. Più d’ogni altro principio quello In
particolar modo Calogero e Attisani avevano messo in discussione la concezione
dell’individuo in Croce e Antoni. Croce, La storia come
pensiero e come azione, Bari, Laterza: Storicismo e umanismo, della distinzione
è appartenuto allo spirito italiano, da MACHIAVELLI (si veda) a BONAITUI (si
veda) Galilei, da VICO (si veda) a CROCE (si veda) attraverso LABRIOLA (si
veda) e SANCTIS (si veda). Nella logica crociana poi la distinzione correggeva,
secondo Antoni, gli effetti indebiti di una contraddizione perenne pur
nell’unità che ne è lo sfondo. L’identità allora diventa non già l’accordo
presupposto dei contrari ma il reale incontro dell’universale col concreto
nella forma conoscitiva del giudizio storico. Croce restaura così
– secondo Antoni - il principio d’identità,
rigenerandolo tuttavia nella nuova vita di un rapporto asimmetrico
racchiudibile nella formula a=A. E tra le categorie non passa spazio come per
un salto dall ’ uno all ’ altro contesto. «In realtà il sistema
– scriveva Antoni – è quello di
un’unica categoria reale e attiva, che è l’Io, di cui le categorie
sono articolazioni. Lo stesso trapasso della conoscenza nell’azione non può
essere inteso come un passaggio radicale da una categoria all’altra, quasi che
la conoscenza d’una situazione storica non fosse già guida ta da una
volontà e da un interesse e l’azione non fosse guidata, lungo l’intero
suo svolgimento, dalla conoscenza» La lettera è davvero illuminante a tal
proposito: Antoni, platonicamente, indicava nell’Idea del Bene l’idea
-guida dello spirito umano, incisa in noi per definirsi nel tempo in
quella che felicemente chiamiamo “storia della civiltà”. Profonda
fu l’amarezza di Antoni dopo aver letto la recensione di Fiore al suo
“Commento” nel Ponte. Il suo dispiacere nasceva anche dal fatto che i
direttori, succeduti al Calamandrei nella gestione della rivista, erano almeno
dichiaratamente suoi amici. Nella recensione non si sottolineavano, com’è
pur giusto fa re, eventuali spunti critici per una filosofica
discussione, ma si assumeva nei confronti dell’Autore un atteggiamento ostile
in partenza, probabilmente per motivi che non si direbbero solo di
carattere teorico. E difatti si accusava Antoni, «l’unico supe rstite del
crocianesimo in un mondo che crociano non è» (come se il mondo aspettasse di
assumere un colore politico o una preferenza culturale per decreto della
Storia) di aver discettato di problemi morali e F. cita da Antoni,
Commento a Croce , Venezia, Neri Pozza, Vedi T. Fiore, rec. a C. Antoni,
Commento a Croce, in «Il Ponte, Tumiati assunse la direzione della
rivista fondata da Calamandrei, in un primo tempo, dinsieme con Agnoletti politici
in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva
attratto e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal
recensore nei riguardi di Croce venivano prima denunciate in nome di un
crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e
poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato
gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo
sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti
che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non
stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva: “
ma quale crocianesimo è questo? ” se, difatti, Antoni si era permesso di
seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior
cattiveria nello scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad
Antoni una sorta di astenia emotiva, ben altra cosa rispetto alla
passione democratica del Ruggiero e al civismo mazziniano d’OMODEO (si
veda), entrambi già scomparsi . Eppure Tommaso Fiore era andato da amico e
sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso
nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del
movimento democratico meridionale con Martino, Dorso, in continuità con
Salvemini, Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si
videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da
Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà, per lui
superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono
probabilmente più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente
scientifica recensione che Fiore redatta sul libro di Antoni. Per una
curiosa ironia della sorte sia Antoni che Franchini hanno ricoperto, a
distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore
filosofico sulla disciplina della Filosofia della storia, tanto avversata da
Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel
’54 a cambiare titolarità (adempiendo ad un impegno preso col filosofo),
chiamato infine sulla cattedra di A Fiore è stato dedicato un intero
fascicolo della «Rivista Pugliese» di Bari, comprensivo del carteggio con
Rosselli e con Dorso. Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura
tedesca a Padova politici in maniera
distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto e
animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi
di Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo
fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi
segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato
gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo
sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti
che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non
stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva: ma
quale crocianesimo è questo? se, difatti, Antoni si era permesso di
seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior
cattiveria nello scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad
Antoni una sorta di astenia emotiva, ben altra cosa rispetto alla
passione democratica del De Ruggiero e al civismo mazziniano dell’Omodeo,
entrambi già scomparsi . Eppure Fiore era andato da amico e sodale ad
accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città
pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento
democratico meridionale con De Martino, Dorso, in continuità con Salvemini,
Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore , si videro
rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il
quale tendeva a separare il concetto di libertà, per lui superiore,
dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente più
del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione
che Fiore redatta sul libro di Antoni. Per una curiosa ironia della sorte
sia Antoni che F. hanno ricoperto, a distanza di un decennio, incarichi
universitari nell’ambito del settore filosofico sulla disciplina della filosofia
della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà
burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità
(adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra
di A Fiore è stato dedicato un intero fascicolo della «Rivista Pugliese»
di Bari, comprensivo del carteggio con Rosselli e con Dorso. Antoni
aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova Storia della
filosofia moderna e contemporanea nell’Università di Roma. Franchini ottenne
l’incarico didattico nell’Uni versità di Napoli dopo aver conseguito la
libera docenza, inaugurando il corso con una prolusione sulla
Filosofia della storia , materia che si accingeva ad insegnare. Antoni non
riuscì a recarsi a Napoli per assistervi, ma poté leggerne il testo su
«Criterio» con sincero compiacimento F. traccia in quell’occasione il profilo
storico della questione, dai pensatori cristiani fino a Hegel, a Spengler e
Toynbee, difendendo l’insegnabilità di una disciplina che mira a
conoscere un secolare bisogno dell’animo umano»rivolto a dare un senso generale
alle epoche storiche. S’intende che la filosofia della storia, in quanto
caso particolare della metafisica, anda svecchiata e in un certo senso
riformulata attraverso la metodologia storica non disgiunta dalle sempre
essenziali ricerche di storia della storiografia. Egli si appellava alla
tradizione “locale” ma europea di Vico, Sanctis, Spaventa, Omodeo. Non fa
però il nome di Labriola, ricordato invece da Antoni (lettera) insieme al caso
Ferrero e alla oramai lontana, nel tempo, battaglia contro la filosofia della
storia in un celebre discorso che Croce tenne al Senato del Regno. La
prolusione di F. si chiudeva con un omaggio «al primo docente ufficiale
che di questa materia l’Italia abbia avuto, il nostro Maestro ed Amico Antoni.
La recensione al libro di Sprigge merita qualche nota in margine, anche a
difesa dell’interprete inglese sul quale potrebbe pesare fin troppo
l’icastica osservazione di Antoni che gli attribuisce una lettura del
rapporto di Croce col cristianesimo sulla base di mere considerazioni
politicistiche. Franchini cercò allora La Prolusione uscì in due puntate
su «Criterio», la rivista diretta a Firenze da Ragghianti. «Criterio» fu poi
ripresa da F. nella Nuova Serie Filosofica, e da lui diretta Il discorso in
Senato non conteneva, contrariamente a quanto talvolta si è lasciato intendere,
alcun riferimento a Ferrero (per il quale si veda invece la nota di Croce
in Conversazioni critiche , serie I, Bari, Laterza. Il testo del discorso
in Senato si può leggere in Discorsi parlamentari , con un saggio
di M. Maggi, Bologna, Il Mulino. Su Croce e Ferrero si veda la nota
di F. Tessitore in «Rivista di Studi crociani. Sulla riconciliazione di Croce e
Ferrero, in nome di un comune sentire negli anni bui del fascismo, rimando a A.
Parente, Croce per lumi sparsi, Firenze, La Nuova Italia, La Prolusione è
poi ristampata in F., Metafisica e Storia , di dipanare la
controversa materia, riconoscendo allo Sprigge la buona fede pur nella ripetizione
del luogo comune per il quale si attribuivano a Croce inclinazioni e spirito
conservatori. In effetti Croce aveva mostrato sempre “comprensione” per
la Chiesa cattolica, ciò non pertanto lo scritto, che pure piacque molto
per evidenti ragioni a taluni cattolici, fu una risposta alla sfida dei
fatti sulla base di principi teorici che in ogni modo ispirarono il filosofo,
il cui sguardo per necessità mirava ad assumere connotati universali
“oltre” la mera contingenza delle circostanze politiche. E tuttavia il
contenuto di quel testo è sempre “presente” nel suo significato
inequivocabile. La figura di Gesù, al centro del cristianesimo, ha
rappresentato un messaggio ancora fermamente iscritto nel cuore della modernità
e dentro la storia del mondo contemporaneo, sia per gli appartenenti ad una
chiesa sia per i laici credenti e non credenti. Non in poco conto
pertanto dev’essere tenuto il plurale espresso in quel “noi” (
Perché [noi] non possiamo non dirci cristiani ), che difatti
esclude il discorso in prima persona, ed esclude che si tratti della
confessione di un sentimento segreto. Parimenti estranee all’argomento
crociano furon o le polemiche anticlericali, del tutto fuori luogo in un
contesto che, come può verificare ogni attento lettore, fu di carattere
teoretico e storiografico. Il cristianesimo non è stato un miracolo, ma un
processo storico; anche se proprio il fatto di aver intersecato profondamente
le vicende storiche di una così vasta parte del mondo lo rende una sorta di evento
straordinario, non però diversamente, in chiave ontologica, dal miracolo
che ogni ente è, e dall’eccezione che noi tutti siamo. Le lettere, fatt
esi più rare, raccontano di vicende accademiche e di fatti quotidiani, di
brevi viaggi e di alcuni malanni che affliggevano Antoni già da qualche tempo.
Al centro peraltro sta la figura di Scaravelli, scomparso tragicamente. Nella
Commemorazione pisana Antoni aveva tracciato dello Scaravelli, a pochi mesi
dalla morte, un profilo davvero La recensione al saggio di Sprigge,
Croce, l’uomo e il pensatore (Napoli, Ricciardi) apparve su Criterio con
il titolo Un profilo del Croce, ed è ristampata nel volume
L’oggetto della filosofia , Napoli, Giannini, La commemorazione letta
nella Sala degli Stemmi della Scuola Normale Superiore è nel volume di Antoni, Gratitudine , Milano-Napoli,
Ricciardi, Caro F., ho letto la recensione, che Le restituisco. Mi rallegro con
Lei per il fatto che il Suo libro sia stato recensito dalla «Historische
Zeitschrift», che resta tuttora la migliore rivista tedesca di studi storici. È
un onore per Lei. In quanto alla recensione stessa, essa ha il consueto
carattere informativo delle recensioni tedesche, nelle quali di rado si prende
posizione. Naturalmente noi, abituati allo stile delle recensioni crociane, ci
impazientiamo dinanzi a tanta acriticità. Ignoro chi sia questo Funke. Con i
più cordiali saluti Suo Antoni Ha visto il mio Tramonto delle
ideologie sul «Mondo»? Roma Mio caro F., Si tratta della recensione
di Funke al saggio di F. Esperienza dello storicismo , in
«Historische Zeitschrift», Antoni aveva
scritto sul «Mondo» un lungo e denso articolo sul volume di F., che si può
leggere nella raccolta Il tempo e le idee , a cura di M. Biscione,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Vedi «Il Mondo», in Il
Tempo e le idee , cpartecipe, in spirito di amicizia e di stima per un uomo
schivo e assai colto, conversatore brillante che sapeva «passare dalla musica
classica al romanzo francese, dalla pittura alla fisica nucleare». Giunto alla
filosofia da studi scientifici, di matematica e di medicina, Scaravelli si era
infatti misurato con i grandi della tradizione filosofica specie su temi di
logica pura per certi versi, ma in virtù dell’intento di far pre
valere il capire sull’esistere. A Croce e Gentile dedica con acume le sue
fatiche d’interprete, non meno che a Platone, Cartesio, Kant, Heidegger,
Heisenberg. In ogni modo egli aveva cercato di risolvere un suo problema
teoretico. Antoni scrive a F. (lettera): «Il problema di Scaravelli era
quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o capire come
la grande madre genera i suoi figli. Problema insolubile perché pur
muovendo dal principio d’identità indispensabile per la comprensione dei
significati, Scaravelli dovette infine arrendersi alla sua dissolvenza
aprendosi piuttosto al giudizio delle forme concrete dell’esistere
storico. Si trattava del problema della creazione del mondo, concludeva
Antoni, riassumendo così in una formula efficace le puntuali analisi contenute
nella Critica del capire, ch’ebbero il merito di rompere il
silenzio con cui il libro fu accolto, nonostante il parere molto
positivo espresso dallo stesso Croce. Manca, infine, il tempo
per discutere tra amici intorno all’ultimo libro di Antoni La
restaurazione del diritto di natura . F. ne aveva parlato nel numero di luglio
del «Mondo», accogliendo senza riserve la proposta, in apparenza assai
poco storicistica, di un “ritorno” al principio dell’etica universalmente
umana, la sola capace però «di evitare le pericolose conseguenze del
predominio della tecnica e della civiltà di massa». Egli ebbe forse bene a
mente le parole adoperate da Antoni in una lettera di qualche anno prima: alla
base del giudizio storico e dell’azione morale e politica sta la luce di
un concetto universale dello spirito umano che tuttavia, proprio nella forma di
un umanesimo rinnovato, non contrasta affatto con la visione Si veda la
lunga recensione di Antoni a Scaravelli, Critica del capire, Giornale
critico della filosofia italiana, Vedi lettera, più avanti riportata storicistica
e dialettica della vita con tutte le sue imprevedibili e particolarissime
circostanze. Roma Caro dott. F., è da tempo che seguo con vivo interesse la Sua
attività di studioso. Così ho letto la Sua bella recensione del libro del
Ciardo e il Suo articolo su GRAMSCI (si veda), comparso sullo «Spettatore. Ho
ricevuto oggi la sua memoria su Storicismo e relativismo, che
ho letto subito. Penso che il suo esame del rapporto e la differenza tra
“storicismo” e “istorismo” ossia relativismo storicistico sia molto opportuno
oltre che acuto. Ella mi muove un lieve appunto: quello di aver
attribuito al Troeltsch il merito di aver introdotto nell’uso comune il
termine di “storicismo”. Mi sembra però di aver detto una verità
incontestabile: anche se al termine il Troeltsch continuava a dare un
significato deteriore, tuttav ia egli ha introdotto l’uso del termine stesso
nel dominio della storiografia e della riflessione sui metodi della
storiografia. Soltanto dopo di lui si parla di storicismo moderno, di problemi,
crisi ecc. dello storicismo. Se Ella ha occasione di venire a Roma, sarò assai
lieto di vederla e di conversare con lei. Con cordiali saluti La recensione
al libro di Ciardo, Le quattro epoche dello storicismo , era uscita
in «La parola del passato», (rist. nel
volume F., Esperienza dello storicismo , Napoli, Giannini, Si tratta
dell’articolo La “metodologia dell’azione” di A. Gramsci , uscito
in Lo Spettatore italiano La rivista si pubblica a Roma per iniziativa di Elena
Croce, figlia maggiore del filosofo, e del marito Raimondo Craveri. Cfr.
R. Franchini, Storicismo e relativismo, in «Atti» dell’Accademia
Pontaniana (rist. in Esperienza dello storicismo) Roma, Caro F., di
ritorno da Bari, dove sono stato a tenere una conferenza agli “Amici
della cultura”, trovo la sua lettera e mi affretto a rispondere, ossia a
rilasciarle il “certificato” che desidera. Con cordialissimi auguri Suo Carlo
Antoni Roma, È da qualche anno che seguo con molta attenzione gli scritti che F.
va pubblicando nelle riviste. Alcuni di essi, infatti, hanno già recato un
contributo di chiarificazione e di critica assai notevole nel campo degli studi
storico- filosofici: Tutti, poi, indistintamente sono la testimonianza d’un
ingegno assai vivace, fine, sensibile ai più urgenti problemi della
filosofia e della vita. Oltre a rivelare una preparazione culturale
assai ricca e sostanziosa, essi indicano anche un raro senso di umanità.
Tra i giovani dell’ultima generazione il Franchini è certamente uno dei
più promettenti. Per le sue doti intellettuali e morali ritengo anche che
possa 32 Segue la lusinghiera lettera di presentazione di
Antoni sull’operosità di F., i l quale di lì a poco entra a far parte del corpo
docente del liceo classico della scuola militare napoletana essere un magnifico
insegnante, tale da mantenere alto il prestigio di cui ha sempre goduto
il collegio della Nunziatella. Carlo Antoni Roma Mio caro F., ho letto
con grande interesse il Suo saggio 33 e soprattutto la parte che mi
riguarda. Ella ha afferrato perfettamente il mio pensiero (La ringrazio anche
per averne messo in rilievo la novità), tanto perfettamente da trarne le
conseguenze, che io non avevo voluto trarne, malgrado che mi avvedessi
che c’erano. In effetti Le confesso che ho i miei dubbi intorno ad una
“dialettica” dei distinti. Di questo dubbio Lei trova traccia del resto
nella recensione che feci allo “Hegel” di Ruggiero. In ogni caso
sono assai lieto della penetrante attenzione che Ella dedica ai miei scritti.
Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., Il saggio è: Morte e
resurrezione della dialettica da Hegel a Croce , in «Letterature moderne (rist.
in Esperienza dello storicismo , cit.) il Suo articolo mi ha
fatto, com’è naturale, un immenso piacere. Attribuirmi il merito di aver
provocato in Croce il bisogno di riesaminare la questione della dialettica è,
non occorre dirlo, rendermi il massimo degli onori. Ma Croce stesso che ne
dice? Vorrei sapere se approva il Suo articolo. Con saluti cordialissimi Suo
Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La ringrazio per la Sua lettera e per le
notizie che mi dà. Come Ella può comprendere, la questione, da Lei sollevata
nel Suo articolo, ha per me una grande importanza. Le dirò come io veda
la cosa. Quando pubblicai il mio saggio sulla Dialettica di Hegel, in cui
ne denunciavo il carattere intellettualistico, saggio ri stampato nel ’46 nelle
mie “Considerazioni, Croce ne prese conoscenza, tanto che mi segnalò il Suo
articolo in proposito, ma non si propose il problema. Sono tempi in cui
Croce, tutto preso dall’attività politica, non ha probabilmente l’agio di
ritornare sulle sue idee intorno alla dialettica. Il mio saggio suscita
l’interesse di RUGGIERO (si veda), che lo cita con molta lode nel suo “Hegel”,
ma senza prender posizione. Per quanto riguarda questa mia prima
osservazione, penso che Croce abbia ragione nel negare che la sua revisione sia
stata provocata da me. 34 Il riferimento è al saggio:
La crudele dialettica , uscito su «Il Mondo. Tutti gli scritti di
Franchini che uscirono nella rivista di PANNUNZIO (si veda) sono raccolti nel
volume Pensieri sul “Mondo” , a cura di Cavaliere, Gily, e Melillo,
con una Presentazione di Cotroneo, Napoli, Luciano; Antoni, La dialettica
di Hegel, Poesia e verità; rist. in Id., Considerazioni su Hegel e
Marx , Napoli. Si ricorda che F. recensì le Considerazioni nella
rivista Ethos. Ma io giunsi all’altra osservazione e cioè alla netta
distinzione tra la hegeliana dialettica della contraddizione e la crociana
dialettica dell’opposizione. Essa si connetteva alla mia prece dente
attribuzione a Croce della restaurazione
del principio d’identità. Ero molto incerto se comunicare o no a Croce
questa mia osservazione, che avevo svolto nel corso universitario di
quell’anno. Mi rendevo conto, cioè, che essa avrebbe provocato un grave
turbamento ed un bisogno di una radicale revisione del pensiero crociano nei
confronti di Hegel e della dialettica in generale. Mi consultai con parecchi
amici. Tra costoro Bacchelli, al quale ricorsi e per la sua sensibilità umana e
psicologica e per la devozione che aveva per la persona di Croce, mi dissuase
dal farlo, dicendo che oramai era meglio lasciare tranquillo il glorioso
vegliardo e non costringerlo alla sua età a un siffatto sforzo. Tuttavia la
cosa mi tormentava, dato che ritenevo che Croce avesse attribuito a Hegel la
sua propria gloria e mi dispiaceva che potesse morire senza essersi reso conto
della propria originalità nei confronti di quel suo maestro. Dopo che si fu
ripreso dalla grave malattia, che lo colpì, mi feci coraggio e gli scrissi.
Croce mi rispose con una lettera che era un’accettazione di massima, ma
contenuta in termini un po’ generici. Si vedeva che si riservava di meditare
per suo conto l’intera questione. E infatti poco dopo cominciarono a
uscire i suoi nuovi scritti intorno alla vitalità e al suo carattere
dialettico, e in genere intorno a Hegel e alla origine della dialettica
hegeliana. Il punto di partenza di questi scritti, però, è fornito dal momento
della vitalità, al quale Croce riporta tutta la dialettica: sia la teoria
hegeliana per sé stessa, sia la dialettica della vita e dello spirito in sé. In
questo modo Croce andava, in certo senso, più in là della mia
osservazione, scavalcandola e prendendo tutt’altra direzione. Le dirò che,
invece, per mio conto ho proseguito in direzione ben diversa. Nel
corso di quest’anno ho svolto un esame dell’intera questione, che mi ha portato
a risultati che contrastano con le tesi recentissime espresse da
Croce.Per concludere penso che Croce, pur essendo stimolato dalla mia seconda
osservazione, a riproporsi lo studio della natura della dialettica, è stato
condotto alle sue nuove idee dal senso più accentuato dell’importanza
della vitalità. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro
F., La ringrazio di aver pensato a me in questi giorni. Come sempre succede,
nei primi momenti dopo la scomparsa di persona cara, non ci si rende conto del
tutto della perdita. Il senso di vuoto viene dopo. Così accadrà per noi tutti:
ma dovremmo anche cercare di restare uniti. Il Suo articolo comparso nel
«Mondo» mi è molto piaciuto. Vorrei vedere il fondo del «Times»: non potrebbe
spedirmelo in prestito? Glielo restituirei subito. Arrivederci tra breve Suo
Carlo Antoni Roma, F., Croce, Il Mondo Caro F., ho ancora sul mio
tavolo la lettera, che ho ritrovato al mio ritorno dalle vacanze. Vorrei che
Lei mi desse qualche notizia sul concorso, di modo che io possa eventualmente
intervenire presso i commissari. Ho letto con piacere i Suoi due articoli:
quello su Mann 37 e quello sul libro del Sainati 38 . Sulla personalità
di Mann faccio molte riserve. Si parlò di lui con Croce, l’ultima volta
che lo vidi, ed in fondo Croce era d’accordo, quando dicevo che dagli
scritti di Mann veniva su un certo lezzo di frollo, se non addirittura di
marcio. Attendo il Suo volume. Suo Carlo Antoni Roma, 11 aprile 1954 Caro F.,
con l’editore Pozza, che era qui in questi giorni, ho esaminato la questione
della traduzione d’una scelta di lettere di Hegel I due volumi della nuova
edizione Su Mann è uscito il saggio Nobiltà dello
spirito sia in «Il Giornale» sia in «Il Gi ornale di Trieste». Di Sainati
si parlava a lungo nell’articolo Studi crociani , apparso su Il Mondo. Il
progetto di curatela dell’epistolario hegeliano presenta più d’una difficoltà.
La nuova edizione dell’Hoffmeister avrebbe dovuto far fede, assai più
dell’edizione curata dal figlio del filosofo, ma è al momento incompleta.
L’idea allora di rifarsi alla precedente edizione, da integrare eventualmente
con le lettere ritenute significative, si mostrò impraticabile. F.
avrebbe dovuto occuparsi della traduzione di una scelta di lettere e
della stesura dell’introduzione storico -critica. Non se ne fece nulla,
nonostante la buona disposizione di Pozza e l’interessamento di
Ragghianti del Meiner, curata da Hoffmeister, arrivano. Sono previsti altri due
volumi. La nuova edizione reca il copyright con espressa riserva dei diritti di
traduzione. Per mia esperienza prevedo che le pretese di Meiner sarebbero
esose. Da un rapido confronto con la vecchia edizione curata dal figlio,
ho tratto l’impressione che la nuova non rechi molto di nuovo. In ogni
caso, se ci si volesse attenere a quest’ultima, si dovrebbe attendere
l’uscita dei due ultimi volumi, che chi sa quando si attuerà. Con Pozza
sono quindi giunto alla conclusione che ci conviene rifarci alla prima
edizione, che reca anche sufficienti note. Ove risultasse qualche nuova lettera
molto importante nella nuova edizione, il Pozza chiederebbe il diritto di
traduzione per essa. Ella dovrebbe quindi cominciare il lavoro di scelta. Non
le nascondo che dalla lettura delle lettere il compito della traduzione mi è
apparso molto arduo. Con cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma Caro F., grazie
per le Sue parole. Si tratta in fondo d’un semplice cambiamento del
titolo della mia cattedra, che era poi una sorta d’impegno che avevo assunto
con Croce. Ancora l’ultima volta che lo vidi, Croce mi raccomandò di fare
cambiare quel titolo di “filosofia della storia”, che proprio non
gli andava giù . Gli spiegai
allora Alla notizia dell’ottenuto conferimento della cattedra di filosofia
della storia nella facoltà di lettere di Roma, Croce nel congratularsi con
l’Antoni, così gli scriveva: «Se la parola sociologia è screditata
per la sua volgare origine positivistica, quella di filosofia della
storia è del pari screditata per la sua origine teologica e metafisica. Lei si
deve subito dar da fare per cangiarlo». Cfr. Lettera di Croce ad che la
procedura non era facile, ed infatti ci sono voluti parecchi anni, con
modifiche allo statuto, per raggiungere il risultato 41 . Sono ansioso di
leggere sulla Nuova Antologia la Sua recensione: peccato che sarà letta da
pochi! L’intervento di Tagliacozzo mi ha sorpreso: è un esempio del
cattivo modo in cui un discepolo può seguire un maestro, cui è
affezionato. Con cordialissimi saluti, Suo Carlo Antoni Roma, Mio Caro F.,
bellissima la Sua recensione, per cui Le sono molto grato Mi dispiace soltanto che essa compaia nella
Nuova Antologia, dove sarà letta da pochi. La Sua osservazione o previsione
sulla sorpresa di molti che scopriranno quanto complessa sia la filosofia
crociana, mi ha divertito e fatto ricordare come spesso mi sia toccato di
sentire che quella filosofia non è interessante, perché non è problematica.
Mi è piaciuto anche il modo, assai fine, con cui Ella sa definire la mia
posizione verso le dottrine del Maestro. Antoni, in Carteggio
Croce-Antoni , a cura di Musté, introduzione di Sasso, Bologna, Mulino, Antoni e chiamato alla cattedra di Storia
della filosofia moderna e contemporanea. La recensione al libro di
Antoni Commento a Croce uscì con questo titolo sulla rivista
Nuova Antologia. Ottimo pure l’articolo sulla Storia e conomica del
Kulischer, anche dal punto di vista giornalistico. Sarà bene che ci vediamo
prima della scadenza dei termini per la presentazione delle domande di libera
docenza. Mi reco a Firenze per incontrarmi con Ragghianti e Pozza, e sarò di
ritorno soltanto il 30. Cordialmente Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., una
bronchite con i fiocchi – si direbbe ch e quest’anno
sono iettato – mi ha tenuto a letto per una settimana e ancora non
so quando potrò uscire di casa. Prevedo che dovrò rinunciare al progetto di
venire a Napoli per la Sua prolusione: è un vero dispiacere per me, perché ci
tenevo ad essere presente. Il primo insegnante di “filosofia della
storia” è stato, a quanto mi consta, ROVERE (si veda), poi a Roma
LABRIOLA (si veda) tenne tale insegnamento per incarico, con Antoni si
rifere al saggio dal titolo Una storia del progresso uscito su Il
Giornale (rist. in F., L’oggetto della filosofia ,
cit.). Antoni si era prodigato l’anno prima per l’inserimento della
Filosofia della storia nell’elenco delle libere docenze. F. sostenne gli
esami di abilitazione alla libera docenza in Filosofia della storia superandoli
brillantemente. Tra i commissari Battaglia, Attisani e Falco. F. inaugura il suo corso di filosofia
della storia a Napoli con una prolusione dal titolo La
Filosofia della storia, il cui testo uscì poi sulla rivista «Criterio»
diretta da Ragghianti, in due puntate. Il testo della lezione inaugurale venne
infine ristampato nel volume Metafisica e Storia , molto successo. Nella
mia prolusione tenni ad accennare alla continuità ideale, tramite Croce. La
proposta di attribuire la cattedra a Ferrero, provocata da un clamoroso
intervento del presidente Teodoro Roosevelt, fu bocciata dal Senato. Croce
tenne allora un famoso discorso, che valse a far cadere la proposta, del resto
poco gradita dal mondo accademico di allora. Suo Carlo Antoni Roma Mio caro F.,
Ella può ben immaginare con quanto piacere ho letto e riletto la Sua memoria
alla Pontaniana. Anzitutto essa mi ha confortato confermando l’utilità del mio
intervento al Congresso di Napoli. Ma anche la parte che più propriamente
riguarda il mio “Commento” mi è stata di grande vantaggio. In fondo, si
guardano i propri scritti sempre un po’ attraverso una nebbia: un osservatore
acuto ed esperto , come Lei, è di grande aiuto a discernere le linee principali
del proprio pensiero. La ringrazio, dunque, con molto affetto La
Prolusione dal titolo La dottrina dialettica della storia è
nel volume postumo Storicismo e antistoricismo , a cura di M. Biscione,
introduzione di A. Pagliaro, Napoli, Morano, nella Collana di Filosofia diretta
da E.P. Lamanna e P. Piovani. Antoni si rifere al celebre discorso di
Croce al Senato del Regno, nella seduta, Sul disegno di legge
“Istituzione di una cattedra di Filosofia della storia presso la Università di
Roma” , che ora è possibile leggere nel volume Benedetto Croce. Discorsi
parlamentari , con un saggio di Maggi, La memoria accademica di cui si
parla riguardava l’ampio resoconto critico che Franchini scrisse intorno
al Congresso di Filosofia che si è tenuto a Napoli, dove Antoni è stato
invitato a tenere la relazione introduttiva sul tema della conoscenza storica.
Aliotta sul «Giornale d’Italia» sottolinea l’importanza di una tradizione
di storicismo crociano. La memoria di F., dal titolo La conoscenza
storica, uscì negli Atti dell’Accademia Pontaniana, (rist. in Metafisica e
Storia Roma Mio caro F., la Sua osservazione tocca un punto, che aveva già
suscitato le perplessità del mio amico Attisani. Nel mio articolo esso era
trattato troppo sommariamente. Bisognerà che ci ritorni sopra. In ogni caso
voglio subito avvertirla che non penso a qualcosa di medio tra conoscenza
storica e azione, ma al semplice fatto che noi pensiamo e
giudichiamo la storia alla luce di quel concetto universale dell’uomo o
dello spirito umano, che è il medesimo che orienta la nostra azione morale e
politica. Questo concetto, in quanto principio dell’azione morale, è
l’idea del Bene. Essa è vera, anzi è la verità che abita in noi, ma si va
definendo e chiarendo attraverso la storia, che per questo è storia della
civiltà. Aggiungo che non vi è distinzione tra categoria e coscienza della
categoria, anche se la prima appare eterna e l’altra storicamente
relativa: la categoria è sempre coscienza di sé, ma si va rendendo sempre più
cosciente, come, mi sembra, sia insegnato da Croce nelle parti storiche dei
suoi trattati. Ha fatto bene ad accettare l’invito al “Simposio”
laterziano. Sono curioso di sapere quali sono gli altri invitati. Ella
non manca di combattività, sicché sono tranquilli per la buona causa. Non sono
sicuro di resistere al caldo fino alla fine del mese. Tuttavia la prego di
telefonare a casa mia al Suo passaggio da Romagrazie per la Sua lettera di
consenso al mio articolo sul socialismo. È una conferenza, che tenni a
Zurigo e che poi fu raccolta in un volume pubblicato in Svizzera. Avendo avuto
una certa eco in Svizzera e Germania, pensai che era utile farla conoscere,
anche in relazione alla situazione dei radicali. In effetti mi sembra di
aver ottenuto qualcos a: un socialista come Silone ha sentito il bisogno
di telefonarmi per dirmi che era d’accordo. Come Ella si sarà accorto, la parte
più importante è l’ultima, dove io cerco di venire incontro alle “istanze”
sociali senza cadere nelle confusioni del liberal -socialismo calogeriano. Mi
sembra che proprio avendo attribuito al liberismo un carattere etico-politico,
si possa dargli anche un nuovo carattere positivo, liberatore,
sociale. In quanto all’indirizzo del Mondo, alcuni amici mi hanno fatto
osservare c he da alcune settimane era piuttosto moderato. Poiché le
critiche, che io Le esposi nella nostra conversazione per strada, le vado
facendo a Pannunzio appunto da alcune settimane, forse non è presunzione la
mia, se suppongo di aver ottenuto qualcosa anche in questo senso. Va benissimo
per la recensione a Sprigge, dove c’è da obiettare ad una sorta d’insinuazione
(Croce avrebbe scritto l’articolo sul perché non possiamo non dirci
cristiani – che sappiamo aver avuto carattere
anti-nazista – perché prevedeva l’alleanza con la
Dem. Cristiana!) Suo Antoni Roma, Le convinzioni di Antoni sul
socialismo, sul liberalismo e sulla incongruità di un liberalsocialismo furono
sempre chiare e lineari. Franchini concordava. Qui esse emergono nella
concretezza del dibattito politico che coinvolse gli intellettuali del «Mondo».
La recensione di F. alla traduzione italiana del saggio di Sprigge, Croce, l’uomo e il
pensatore (Napoli, Ricciardi) usce su Criterio con il titolo
Un profilo del Croce (rist. nel volume L’oggetto della filosofia
Caro F., l’infiammazione agli occhi, che mi aveva impedito di venire a
Napoli e che sembrava scomparsa, mi dà nuovamente fastidio, sicché devo
riguardarmi. Penso che Ella dovrebbe scrivere l’articolo sul primo
decennio dell’Istituto. Come forse Ella sa, nei tempi in cui Croce stava
progettandolo, io insistetti presso Mattioli, affinché scoraggiasse
l’iniziativa. Infatti non avevo nessuna fiducia nella utilità
dell’istituzione. Devo riconoscere che mi ero sbagliato, anche se difatti,
errori, inconvenienti non sono mancati. In complesso, mi sembra, il
nostro giudizio deve essere positivo. Anche se ne hanno profittato alcuni
furfante lli, se, cioè, l’eterogenesi dei fini o l’astuzia della ragione hanno
operato in senso negativo, parecchi bravi
hanno avuto modo di studiare e lavorare. In quanto all’indirizzo
“storico” dell’Istituto, esso non soltanto corrisponde al nome, ma al preciso
pensiero di Croce. Con i più cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F.,
purtroppo devo rinunciare definitivamente alla mia gita a Napoli: non sono
ancora completamente ristabilito e devo riguardarmi da una ennesima ricaduta.
Non [È pubblicato infatti sul Mondo il saggio di F. Dieci
anni nell’anniversario della fondazione dell’Istituto Italiano di
Studi Storici avvenuta nella s ede di Palazzo Filomarino in Napoli ho
ancora ripreso ad uscire di casa. Le faccio quindi per lettera gli affettuosi
auguri che avrei voluto farle a voce. Spero di leggere la Sua prolusione in
Criterio. Le sono grato per il Suo proposito di propormi per la
“Pontaniana”: onore che accetto e che mi è molto gradito. Eccole i miei
dati biografici: nato a Senosecchia (Trieste); volontario nella guerra, ferito,
medaglia di bronzo e croce di guerra; LAUREATO IN FILOSOFIA A FIRENZE;
professore nei Licei scientifici a Messina e a Roma; assistente
dell’Istituto Italiano di studi germanici. Libero docente di Storia della
filosofia; professore di Letteratura tedesca a Padova; membro della Giunta del
Partito Liberale, Consultore nazionale, Commissario dell’IRCE; chiamato
alla cattedra di Filosofia della storia di Roma. Premio Einaudi per la
filosofia; socio corr. dell’Accademia dei Lincei, dell’Arcadia, dell’Acc.
Peloritana, socio della Mont- Pelagia Society e dell’Archäologische
Institut. Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea. Suo Carlo Antoni Roma, Cosa che avvenne. F. è diventato socio
ordinario dell’Accademia Pontaniana di Napoli
su proposta di Nicolini. Rinvio per queste ed altre notizie
biografiche al volumetto R. F., Autobiografia minima, Roma, Bulzoni.
Antoni è socio della prestigiosa Accademia Caro F., sono lieto per
la notizia che ella mi dà: così ella potrà assumere l’incarico, che, mi
auguro, sia anche compensato. Lessi con piacere le notizie della Sua
prolusione. Esse mi diedero qualche conforto in un momento di amarezza, quando
cioè mi capitò di leggere sul «Ponte» la cattiva e balorda recensione di
Tommaso Fiore al mio Commento. E dire che costui, appena letto il
libro, mi scrisse una lettera entusiastica! Tumiati, al quale avevo espresso la
mia sorpresa per la pubblicazione di siffatta sconcezza, mi scrisse una lettera
piena di deplorazioni o scuse. Ma chi mi ha recato la serenità è stato
Ragghianti, che, dopo aver fatto un breve ritratto del Fiore, mi ha suggerit o
di seguire l’aurea massima di Flaubert: «Mon cul vous contemple». Ottimo
il Suo articolo in Criterio. Suo Carlo Antoni Roma, Caro F., non ho voluto che ella
attendesse il mio libro dalla ERI e Le ho spedito oggi una delle copie a mia
disposizione. Pannunzio accoglierà volentieri la Sua recensione La recensione
di Fiore al Commento a Croce di Antoni era uscita in «Il Ponte»,
Rivista mensile di politica e letteratura. Tumiati assunse la direzione del Ponte,
fondata da Calamandrei, direzione che condivide per un certo periodo con
Agnoletti. Antoni si riferisce all’artic olo di Franchini sul libro di Sprigge.
Si tratta del libro di Antoni Lo storicismo,
pubblicato dalle edizioni ERI, in cui sono raccolte le conferenze da lui tenute
nell’estate dell’anno precedente per il Terzo Programma della Radio italiana;
la Mio caro Franchini, è da un pezzo che non mi faccio vivo con Lei. Non
Le scrissi quando Ella mi annunciò la fine del «Giornale», ultimo quotidiano
liberale, che, oltre a tutto, era un bel giornale, assai bene redatto. Faceva
onore a Napoli. Per Lei, forse, l’esser costretto ad abbandonare una
continuata attività giornalistica è stato un vantaggio. Ella è ad un punto in
cui deve concentrare i suoi spazi. Non le ho neppure scritto che la prefazione
al Suo nuovo libro mi ha dato molta soddisfazione e mi ha trovato pienamente
consenziente. Attendo ora il libro, di cui voglio occuparmi in un articolo sul
«Mondo» oppure in «Criterio» (che, dopo un intervallo dovuto a indisposizioni
di Ragghianti, riprende ora ad uscire). Sono d’accordo con Lei anche per
quanto riguarda i collaboratori del «Mondo», tra i quali la qualità non
corrisponde spesso alla quantità. Tornato dalla villeggiatura
– sono stato sul lago di Como e in Svizzera -, ho avuto
la sessione d’esami e una sessione del Consiglio Superiore. Altra sessione
di detto Consiglio è prevista per il 23 c.m. Alla fine del mese sarò a
Marburgo, invitato dai filosofi tedeschi a partecipare ad un loro congresso e a
intervenirvi con una conferenza. Cercherò d’istruirli. Con
affettuosi saluti Suo recensione di Franchini dal titolo Una storia
dello storicismo uscì puntualmente su «Il Mondo» nel giugno del ’57
(rist. in Metafisica e Storia , cit.). Il Giornale, quotidiano
liberale come ben sottolineava Antoni, uscì a Napoli. E fondato da Quintieri e
Astarita. F. lavora nella redazione del Giornale: vi è entrato su pressione e
interessamento dello stesso Croce. 61 Il libro di Franchini in
uscita era Metafisica e Storia , edito poi presso l’editore
Giannini di Napoli. Caro F., La ringrazio per aver pensato a me per una
conferenza alla Società filosofica di Napoli e ringrazio pure l’amico
Carbonara e gli altri componenti del Consiglio. La prego, anzi, di
esprimere loro la mia più viva gratitudine per un invito che mi lusinga. Ma è
da un pezzo che non accetto di tenere conferenze. Esse mi recano, infatti,
molta tensione e fatica: non amo leggere, ma il parlare richiede uno sforzo,
che mi lascia prostrato. La prego quindi di scusarmi presso la Società
filosofica. Mi auguro di vederla tra breve qui a Roma. Con saluti affettuosi
Suo Antoni Roma. Caro F., ho una certa intenzione di muovermi per Pasqua, anche
per togliermi di dosso una certa malinconia e irritazione, ma penso che
sarò a Roma per l’assemblea dell’associazione. In caso contrario La avvertirei
in tempo. Ho un vivo desiderio di parlare a lungo con Lei di molte cose, anche
perché mi vado sempre più isolando: ciò che non fa bene alla salute. Con
cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma, Caro F., La ringrazio
anzitutto per il Suo interessamento al caso del ragazzo, che Le avevo
raccomandato. Ella ha fatto più di quanto potessi sperare. Il trafiletto mi
sembra andare benissimo: contiene alcune frecciate brillanti. Naturalmente
recherà un dispiacere al nostro Battaglia. Il quale potrà sempre
rispondere che l’organizzazione del congresso è stata diretta da un comitato,
che conteneva fior di laici e che costoro sono stati sempre consenzienti.
A mio avviso il difetto sta nell’assurdo di un congresso filosofico, dove
i filosofi laici, se decidono di intervenire, si presentano necessariamente in
ordine sparso, ciascuno con idee proprie, mentre le chiese vi inviano schiere
compatte e disciplinate. Ho pure qualche riserva da fare sulle parole
dell’amico Calogero, che hanno un significato che non condivido: dialogare
sta bene, ma bisogna guardarsi dal ridurre la filosofia a mero dialogo, ché si
rischia di ridurla ad un attualismo del dialogare, dove il dialogo stesso
diventa fine a sé stesso. Ma questo è un altro discorso. Con cordialità
Trovano in un certo modo conferma le consideraz ioni sulla nobile solitudine
tipica di uno studioso schivo e riservato come e Antoni. Rinvio alla
Introduzione di G. Sasso al carteggio Croce-Antoni. Ancora strascichi
polemici sui Congressi di filosofia in Italia. Mio caro F., in effetti
quella mia frase sull’insolubilità del problema di Scaravelli è p iuttosto
sibillina e può sembrare campata in aria. Mi piace molto che Ella me ne faccia
quasi un rimprovero. Tuttavia in una commemorazione non potevo passare ad una
critica e soprattutto non potevo affrontare per mio conto l’intera
questione. Il problema di Scaravelli era quello di dedurre il molteplice
dall’identico, cioè di scoprire o “capire” come la grande madre genera i suoi
figli. Era, insomma, il problema della creazione del mondo. Se vogliamo,
era anche il problema di derivare l’estetica dalla logica, l’individuale
esistenza dall’universale categoria. Questo, se non erro, era per lui il
problema del “capire”, che, come Ella ben vede, era insolubile. Ma Ella
vede anche che se avessi dovuto spiegare perché il problema era mal posto,
avrei dovuto tenere una vera e propria lezione. Con saluti cordialissimi Suo
Antoni Roma. Antoni aveva tenuto una splendida commemorazione di Scaravelli
nella Sala degli Stemmi alla Scuola Normale di Pisa Scaravelli è scomparso
tragicamente nella primavera di quell’anno. Così Antoni scrive a F.. Ella sa
della tragica morte del mio carissimo amico Scaravelli. Sono stato a Firenze ai
suoi funerali. È uno spirito amabile, brillante, fine, buono e un galantuomo
anche nelle cose filosofiche: è uno dei nostri ed io contavo su di lui. Per me
è una perdita dolorosissima. Caro F. , eccellente il suo articolo su Weber. Ella
ha indubbiamente ragione nel trovare un presupposto kantiano o neo-kantiano
nella sua teoria del tipo ideale. Io ne avevo avvertito la presenza, ma non vi
avevo insistito. Assai utile il suo articolo per quei fessi in mala fede che
pretendono di scoprire Weber e di utilizzarlo, assieme a Dilthey, contro CROCE
(si veda). Raramente il rancore, l’arrivismo, la petulanza hanno messo
insieme tanta stupidità. Ma che cosa credono di concludere con questa impresa
sballata? Suo Antoni Roma. Caro F., penso anch’io che la Sua appartenenza
alla Nunziatella possa essere d’ostacolo ad un alleggerimento dei suoi
incarichi scolastici, reso urgente dai suoi incarichi universitari. Ho ricevuto
il suo Kant, ma Le devo confessare che non ho trovato il tempo per
leggerlo. Lo farò nei prossimi giorni. Alla fine di gennaio sono stato a
Zurigo, dove ho tenuto una conferenza e ho parlato alla radio: è stata una gita
splendida, un tempo magnifico, nella Svizzera coperta di neve. Suo Antoni. L’articolo
di F. su Weber e il “regresso” è uscito su Il Mondo. Si
tratta del volume: I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di F.,
Bari, Laterza. Not to be
confused with F., author of ‘I gladiatori. Keywords: I gladiatori. vitale, avvenire, divenire,
storia, historismus, ragione storica, spirito, dialettica, opposti, l’opposto,
il distinto, aequi-vocalita della dialettica – dialettica come metodo della
filosofia, non della scienza; prospettico, prespetico, spetico, giudizio,
l’utile, storia ciclica, storia lineale, filosofia analitica, historimus
philologicus, critica della ragione storica; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Franchini” – The Swimming-Pool Library. Raffaello Franchini. Franchini.
Grice e Franci: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale degl’ostrogoti – scuola di Ferara – filosofia ferraese –
filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara). Filosofo ferrarese. Filosofo emiliano. Filosofo
italiano. Ferrara, Emilia Romagna. Grice: “I like Franci; for one, he
philosophises and calls his thing ‘studi linguistici,’ for another, he teaches
in a varsity older than mine!” Insegna
a Bologna. i suoi interessi si sono concentrati principalmente sullo studio
delle molteplici manifestazioni della spiritualità. Dopo essersi laureato a
Bologna con Heilmann, ha poi compiuto studi di perfezionamento a Roma sotto la
supervisione di Tucci. Direttore del Dipartimento di Studi Linguistici,
presidente dell'Accademia delle Scienze e direttore della Biblioteca di
Discipline Umanistiche presso l'Bologna. È stato inoltre Accademico effettivo
dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna; Socio ordinario
dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma; Membro dell'European
Society for Asian Philosophy, Nottingham, Socio Onorario e membro del Comitato
Scientifico dell'Associazione Italia-India; Consigliere dell'Associazione
Italiana di Studi Sanscriti; Vicepresidente del Centro di Documentazione e
Iniziativa per la Pace «Giovanni Favilli»; Membro del Comitato Direttivo del
Centro Studi, Iniziative e Informazioni «Amilcar Cabral»; Membro del
Coordinamento nazionale per l'insegnamento delle culture afro-asiatiche nella
scuola secondaria; Direttore della collana «Studi e testi orientali». Ha
inoltre insegnato presso le Calcutta per tre anni nei primi anni sessanta e di
Firenze. Insegna: Sanscrito Lingue Arie Moderne dell'India Storia dell'India
Moderna e Contemporanea Filosofie, Religioni e Storia dell'India e dell'Asia
Centrale. Gli interessi di Franci si rivolgano principalmente all'India
classica e, in particolare, allo studio del pensiero mistico (bhakti) e
dell'Advaita Vedānta shankariano. Egli non ha mancato comunque di approfondirne
anche gli aspetti moderni e contemporanei:
il ruolo dell'induismo nell'India d'oggi; problematiche relative alla
questione linguistica, con particolare attenzione alle letterature in bengali e
in inglese; studi sul pensiero classico nell'India d'oggi e i pensatori moderni
in generale come Aurobindo. Altre opere: L'Upadesasahasri (Gadyabhaga) di
Sankara: contributo allo studio del Kevaladvaita” (Bologna); “Recenti sviluppi
delle questioni linguistiche indiane, Bologna); “Alcuni problemi e tendenze
della filosofia comparata” (Bologna); “Yoga ed esicasmo, Trapani, “Saggi
indologici, Bologna, La Bhakti: l'amore di Dio nell'induismo, Fossano); “Studi
sul pensiero indiano, Bologna, Piero Martinetti e "Il sistema
Sankhya", Contributi alla storia dell'orientalismo, Giorgio Renato Franci,
Bologna, Luigi Heilmann linguista, indologo, umanista, Bologna, La benedizione
di Babele: contributi alla storia degli studi orientali e linguistici, e delle
presenze orientali, a Bologna, Bologna, L'induismo, Bologna, Il Mulino, Induismo,
prefazione di Gianfranco Ravasifotografie di Andrea Pistolesi, Milano, Touring
Club Italiano, Il Buddhismo, Bologna, Il Mulino, Yoga, Bologna, Il Mulino,
Filosofia indiana Induismo, Treccani L'Enciclopedia italiana".Ostrogoti
antico popolo germanico. Gl’ostrogoti (in latino Ostrogothi o Austrogothi) sono
il ramo orientale dei goti, una tribù germanica che influenza gl’eventi
politici dell’impero romano. Palazzo di Teodorico a Ravenna,
mosaico nella basilica di Sant'Apollinare Nuovo. Sconfissero Odoacre, che ha
deposto Romolo Augusto, ultimo Imperatore Romano d'Occidente, e si insediarono
in Italia. Sono poi sconfitti dai Bizantini. Identità con i Grutungi.
Fibula ostrogota a forma di aquila. La tribù degl’ostrogoti, o austrogothi,
viene citata per la prima volta all'interno della biografia dell'imperatore
CLAUDIO IL GOTICO, attribuita a Trebellius Pollio, appartenente alla raccolta
Historia Augusta. Essi sono ricordati fra le tribù della Scizia che invadeno e
devastarono allora l'impero (all'interno della biografia gl’ostrogoti sono
citati insieme con i grutungi, i tervingi e i visigoti. Secondo Wolfram
le fonti primarie parlano di Tervingi/Grutungi o di Vesi/Ostrogoti senza mai
mischiare le coppie. I quattro nomi vienneno usati contemporaneamente, ma sempre
rispettando le coppie, come in gruthungi, austrogothi, tervingi, e visi. Wolfram
e Burns concludono che il termine "grutungi" è un identificativo
geografico usato dai tervingi per descrivere un popolo che si autodefine ostrogoti.[
Questa terminologia spare dopo che i goti vennero fatti scappare dall'invasione
unnica. A suo supporto, Wolfram cita Zosimo che parla di un gruppo di sciti a
nord del Danubio chiamati grutungi dai barbari dell'Ister. Wolfram conclude che
questo popolo sono i tervingi rimasti dopo la conquista degli Unni. Secondo
questa concezione grutungi ed ostrogoti sono più o meno LO STESSO POPOLO. Che i
grutungi sono gl’ostrogoti è anche il parere di Giordane. Egli identifica i re ostrogoti
da Teodorico il Grande a Teodato come gl’eredi del re Grutungio Ermanarico.
Questa interpretazione, nonostante sia condivisa da molti studiosi, non è
universalmente condivisa. La nomenclatura di grutungi e tervingi cadde in
disuso. In generale, la terminologia di una tribù gotica divisa dagli altri
scomparve gradatamente dopo l'assorbimento fatto dall'impero romano. Heather
ritiene invece che l'identificazione tradizionale degl’istrogoti con i greutungi
è errata. Secondo Heather gl’ostrogoti nasceno dalla coalizione tra i goti Amal
in Pannonia, ex sudditi degl’unni, e i goti foederati dell'Impero in Tracia. I grutungi
che si stanziarono all'interno dell'impero come foederati, secondo Heather, non
sono lo stesso popolo che fonda un regno romano-barbarico in Italia sotto
Teodorico il Grande, ma i progenitori, insieme con i tervingi e i goti
superstiti dell'armata di Radagaiso, dei visigoti. Secondo Heather, i visigoti
nasceno dalla coalizione, sotto Alarico, di TRE gruppi gotici: i tervingi, stanziati
come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, i grutungi, stanziati
come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, ed i goti di
Radagaiso. INVASA L’ITALIA, vennero sconfitti da Stilicone e arruolati
nell'esercito romano; dopo l'uccisione di Stilicone, vi fu un'ondata repressiva
da parte dell'Impero contro i soldati di origine barbarica, che decisero dunque
di unirsi ad Alarico) Secondo Heather, dunque, i Grutungi sono i progenitori
dei visigoti, non ostrogoti. Genealogia mitologica e storica Þjelvar
(secondo la Gutasaga) Hafþi = Huítastjerna Graipr Guti ovvero
Gapt (o Gautr o Gautar) (anche Gaut, Goto, etc.) (cfr. Giordane) Hulmul
Gautrekr leggendario re dei Geati, Augis "Amala", capostipite
degl’amali, Hisarnis Ostrogota, primo re degl’ostrogoti Hunuil Athal Achiulf
Oduulf Ansila Edilf Vultuuf Hermanaric,
re della tribù gotica dei Grutungi; Valaravans Hunimund Vinitharius Thorismund
Vandalarius Beremund Thiudimer Valamir Vidimer Veteric = Erelieva Eutaric =
Amalasunta Teodorico Amalafrida = N.N.; Audofleda (o Audefleda) Atalarico
Matasunta = Vitige; Germano
Giustino Teodegota = Alarico II; Amalasunta = Eutaric Germano Stor; Posizionamento
degli Ostrogoti in Sarmazia. Il regno gotico in Dacia (Gutthiuda). Secondo
le loro stesse tradizioni erano originari dell'attuale isola svedese di Gotland
e la regione di Götaland. Nel 250 si divisero dai visigoti e nacque
appunto il regno ostrogoto. Il primo re si chiamava Ostrogota ed era della
stirpe degli Amali. Gl’ostrogoti uccideno l'imperatore Decio, più tardi saccheggiarono
alcune isole dell'Egeo e conquistarono la Tracia e la Mesia. La prima
menzione di Ostrogoti si ha nel 269, quando l'imperatore Claudio II li
riconobbe fra i barbari sciti. In quell'anno Claudio II riuscì a fermare
l'avanzata degli Ostrogoti. Nelle prime fasi della loro migrazione dalla
Scandinavia, gli Ostrogoti, o goti d'Oriente fondarono un regno a nord del Mar
Nero (Cultura di Černjachov). Ma ricominciarono le scorrerie e
conquistarono il regno vandalo (che prima della conquista del Nord Africa si
trovava in Dacia) e presero questa popolosa regione. Dopo queste vittorie
assoggettarono popoli slavi(sklaveni) e arrivarono fino al Mar Baltico, e
alcuni storici paragonarono le loro imprese a quelle di Alessandro Magno,
perché avevano creato un regno che partiva dalla Grecia e arrivava fino al mar
Baltico. Invasioni degli UnniModifica Incalzati dagli Unni che li avevano
scacciati dalla loro regione d'insediamento tra il Danubio e il Mar Nero, gl’ostrogoti
chiesero pressantemente asilo a Valente, accalcandosi ai confini dell'Impero,
precisamente lungo il Danubio. L'imperatore Valente accetta di accogliere le
popolazioni barbare come foederati, allo scopo di rafforzare il proprio
esercito e per aumentare la base imponibile del fisco. Gl’ostrogoti si
stabilirono così nel territorio della Mesia e della Dacia. Dopo le
invasioni degli Unni Travolti dall'invasione unna, numerosi nuclei d’ostrogoti
entrano a far parte dell'orda d’Attila. Dopo la morte del condottiero unno, il
popolo ostrogoto si ricostituì e si stanzia lungo il medio corso del Danubio,
in un territorio corrispondente grosso modo all'odierna Serbia. Dopo il
collasso dell'Impero degl’unni, molti ostrogoti vennero spostati
dall'imperatore Marciano in Pannonia con la qualifica di foederati. Durante il
regno di Leone I, dal momento che l'impero romano smise di pagare la quota
annuale, devastano l'Illiria. Venne firmata la pace in seguito alla quale
Teodorico Amalo, figlio di Teodemiro della dinastia Amali, venne mandato a
Costantinopoli come ostaggio, dove riceve un'educazione romana. Regno in Italia
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Regno ostrogoto
e Teodorico il Grande. Teodorico sconfigge Odoacre (Antica
pergamena). Estensione del Regno degli Ostrogoti. In Italia, il barbaro
Odoacre DEPONE L’ULTIMO IMPERATORE ROMANO ROMOLO AUGUSTO, DETTO AUGUSTOLO, e
non osando proclamarsi imperatore si proclama RE di un misto di popoli barbari:
eruli, sciri, rugi, gepidi, e turcilingi. Egli riscatta dai vandali con un
tributo la Sicilia, che rimane dunque unita all'Italia e ne segue le sorti.
Caduto l'Impero romano d'Occidente, è rimasto in piedi quello d'Oriente, il cui
imperatore Zenone intende riconquistare l'Occidente, in mano ai barbari.
L'imperatore è preoccupato dall'intraprendenza di Odoacre, che sa governare in
modo da non urtare la suscettibilità dei latini e da estendere i confini del
suo regno. Il periodo vide una lotta a tre tra Teodorico, che successe al
padre, Teodorico Strabone e l'imperatore bizantino Zenone. Nel corso di questo
conflitto le alleanze cambiarono più volte, e buona parte dei Balcani venne
devastata. Alla fine, dopo la morte di Strabone, Zenone scese a patti con
Teodorico. Parte della Mesiae della Dacia vennero cedute ai Goti, e Teodorico
venne nominato magister militum praesentalis e Console. Solo un anno dopo
Teodorico e Zenone ripresero il loro conflitto, e di nuovo Teodorico invase la
Tracia saccheggiandola. Fu allora che Zenone siglò un accordo con Teodorico,
invitandolo a invadere l'Italia in suo nome per scacciare il re degli Eruli
Odoacre che, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente Romolo
Augusto ed essersi proclamato rex Italiæ, amministra la penisola in totale
autonomia. In numero forse di 250.000 tra uomini, donne e bambini, da
Nouae risalirono la Sava condotti da Teodorico loro re, si scontrarono con
Odoacre ad Aquileia e lo batterono a Verona. Odoacre scese invano nell'Italia
centrale per ottenere aiuti da Roma. Riguadagnata Ravenna riuscì a battere
l'avversario e a chiuderlo in Pavia: ma i Visigoti, giunti dalla Spagna in
aiuto dei loro consanguinei, ruppero il blocco. La guerra continuò un altro
anno finché Odoacre fu sconfitto definitivamente sull'Adda e venne costretto a
rifugiarsi a Ravenna. Dopo un lungo assedio a Ravenna, Odoacre si arrese a
Teodorico con la promessa di aver salva la vita. Ma Teodorico, violando i
patti, uccise Odoacre a tradimento durante un banchetto, con le proprie mani, e
ne fece uccidere i parenti e i seguaci. Secondo altri, Odoacre fu invece
giustiziato dopo rapido processo condotto dallo stesso Teodorico, in quanto stava
tentando di indurre alcuni generali ostrogoti alla rivolta per riconquistare il
trono. Gl’ostrogoti costituirono un nuovo regno romano-barbarico in
Italia, che si estendeva fino alla Pannonia a nord est e alla Provincia, l'odierna
Provenza, a nord ovest. Come Odoacre, anche Teodorico poteva vantare il titolo
di patrizio e rispondeva all'imperatore di Costantinopoli con la qualifica di
viceré d'Italia, titolo riconosciuto dall'imperatore Anastasio. Il suo regno è
caratterizzato da un relativo ordine interno, anche se i luogotenenti reali
violano sovente le disposizioni di Teodorico di rispettare la popolazione
latina. Molti proprietari terrieri ancora fedeli al paganesimo sono eliminati
con l'accusa di schiavismo, ma in molte circostanze è un pretesto per
consentire ai possidenti barbari e collaborazionisti (tra cui Quinto Aurelio
Memmio Simmaco) di ingrandire le loro proprietà. Il regno sopravvive fino
all'intervento diretto in Italia dell'imperatore d'Oriente Giustiniano e alla
susseguente guerra goto-bizantina. La caduta Magnifying glass icon
mgx2.svg Guerra gotica. Impero di Teodorico - La mappa mostra i regni
germanici nel 526, l'anno in cui morì Teodorico. Oltre all'Italia, la Dalmazia
e la Provenza, regnò anche sui Visigoti. Dopo la morte di Teodorico del 30
agosto 526, le sue conquiste incominciarono a collassare. Successore di
Teodorico fu il neonato nipote Atalarico, tutelato dalla madre Amalasunta come
reggente. La mancanza di un erede forte portò a una rete di alleanze che
condussero lo stato ostrogoto alla disintegrazione: il regno visigoto
riconquista la propria autonomia sotto Amalarico, i rapporti con i vandali
divennero ostili, e i franchi incominciarono una nuova campagna espansionistica
sottomettendo i turingi, i burgundi e quasi sfrattando i visi-goti dalla loro
patria, la gallia meridionale. La posizione di predominanza che il regno
ostrogoto acquisì grazie a Teodorico in Europa occidentale passa ora ai franchi.
Non sopportando la reggenza di una donna, né l'educazione romana impartita al
ragazzo, né i rapporti ossequiosi d’Amalasunta verso Bisanzio e neppure il suo
spirito conciliante verso i Romanici, la nobiltà gota riusce a strapparle il figlio
e a educarlo secondo le usanze del suo popolo. Tuttavia Atalarico si da a una
vita di sperperi ed eccessi trovando una morte prematura. Allora Amalasunta,
che vuole mantenere il potere, sposa suo cugino Teodato, duca di Tuscia.
Costui, però, la relega in un'isola del lago di Bolsena, dove poi la fa
uccidere da un suo sicario. L'esilio e l'assassino d’Amalasunta è il casus
belli che permitte a Giustiniano di invadere l'Italia. Teodato tenta d’evitare
la guerra, spedendo messaggeri a Costantinopoli, ma Giustiniano è già pronto a
reclamare l'Italia. Solo la rinuncia al trono di Teodato, e la consegna del suo
regno all'impero, avrebbero evitato la guerra. Il generale incaricato di
dirigere le operazioni è BELISARIO (melodramma), che da poco aveva combattuto
con successo contro i vandali, a cui furono affidati 10.000 uomini tra
comitatensi, foederati e buccellarii. Il generale bizantino conquista
velocemente la Sicilia, per poi occupare Reggio Calabria e Napoliprima. È a
Roma, costringendo alla fuga il nuovo re dei goti Vitige che da poco è stato
chiamato a sostituire Teodato. Rimase fermo a lungo a Roma poi, grazie a
rinforzi giunti da Costantinopoli, il generale spedì Narsete a liberare
Ariminum (Rimini), e Mundila (che battè i Goti a Pavia) a conquistare
Mediolanum (Milano). I conflitti interni fra Narsete e Belisario fecero sì che
Milano, assediata, dovette capitolare per fame venendo saccheggiata da 30.000 goti
che, guidati da Uraia, trucidarono gli abitanti. Ritratto di
Teodato su una sua moneta. Nel frattempo erano arrivati in Italia anche i
Franchi e i Burgundi, discesi nella Pianura Padana al comando di Teodeberto.
Belisario riuscì a espugnare Ravenna, capitale degli Ostrogoti, e a catturare
Vitige, grazie a un'astuzia: finse di accettare l'offerta da parte dei Goti di
diventare loro re per farsi aprire le porte e conquistarla. In seguito alla
caduta di Ravenna, il tesoro regio e la corte furono trasferite a Pavia, dove
già Teodorico aveva fatto realizzare un Palazzo reale.Giustiniano, spaventato,
richiamò in patria Belisario lasciando campo libero ai Goti. Sale al potere
Totila, che ottenne l'appoggio della popolazione italica grazie a una politica
agraria di eguaglianza, in base alla quale i servi, affrancati, si arruolavano
in massa nell'esercito di Totila. Grazie a questo e ad altri fattori,
riconquistò l'Italia settentrionale. Totila arrivò fino a Roma assediandola e
conquistandola; per la sua difesa venne richiamato Belisario che la riprese.
Giustiniano, dopo aver richiamato Belisario, lanciò una nuova campagna di
conquista dell'Italia, con a capo Germano. Durante la riconquista di Roma
guidata da Narsete, Totila venne ferito e morì poco dopo. Il successore di
Totila fu Teia che, sconfitto velocemente, fu anche l'ultimo re dei Goti. La
sua sconfitta non determinò però l'automatica sottomissione delle guarnigioni
ostrogote, che, pur non eleggendo un nuovo re, continuarono avanti una lotta
disorganizzata, chiamando in loro aiuto i Franchi-Alamanni condotti da Butilino
e Leutari: Narsete, comunque, riuscì a sconfiggere i franco-alamanni,
spingendoli al ritiro e nello stesso tempo ottenne la sottomissione delle
ultime fortezze ostrogote della Tuscia, di Cuma e di Conza. Rimaneva però
ancora da conquistare la regione transpadana, in cui i goti, condotti da Widin,
non avevano intenzione di arrendersi e avevano ottenuto inoltre l'appoggio del
comandante franco Amingo: la loro resistenza durò fino a quando Narsete
sconfisse sia Widin sia Amingo e sottomise Verona, Pavia e Brescia, le ultime
sacche di resistenza. La Prammatica Sanzione del 554 ricondusse tutti i
territori dell'Italia sotto la legislazione dell'Impero bizantino, e reintegrò
tutti i proprietari terrieri delle terre alienate dall'"immondo" Totila
a favore dei contadini. Gli Ostrogoti, in seguito alla vittoria bizantina,
scomparvero praticamente come componente demica, venendo dispersi o arruolati
come mercenari per servire in Oriente nell'esercito bizantino, mentre pochi
rimasero in Italia; la Chiesa ariana venne perseguitata e molti Ostrogoti
vennero convertiti al cattolicesimo, salvo poi essere riassorbiti dai
Longobardi. CulturaOrecchini ostrogoti in stile policromo, Metropolitan
Museum of Art, New York. Architettura A causa della breve storia del regno,
l'arte d’ostrogoti e romani non sube una fusione. Sotto il patrocinio di
Teodorico e Amalasunta, comunque, vennero svolti numerosi restauri di edifici
dell'antica Roma. A Ravenna vennero costruite nuove chiese ed edifici
monumentali, molti dei quali sono tuttora in piedi. La Basilica di
Sant'Apollinare Nuovo, il suo battistero, e la Cappella Arcivescovile seguono
uno stile architettonico tardo romano, mentre il Mausoleo di Teodorico mostra
elementi puramente gotici, tipo il mancato uso di mattoni a cui vennero
preferiti blocchi di calcare istriano, o il tetto in monoblocco di pietra da
300 tonnellate. Buona parte dei lavori di letteratura gotica (redatti
durante il regno ostrogoto) sono IN LINGUA LATINA, nonostante alcuni dei più
vecchi siano stati tradotti in greco e IN GOTICO (ad esempio il Codex
Argenteus). Cassiodoro, provenendo da un contesto diverso, ed esso stesso
incaricato di compiti importanti nelle istituzioni (console e magister
officiorum), rappresenta la classe dirigente romana. Come molti altri con le
stesse origini, serve lealmente Teodorico e i suoi eredi, come descritto nelle
sue opere del tempo. Il suo Chronica, usato in seguito da Giordane per il
proprio Getica, e altri panegirici scritti da lui e da altri romani per i re goti
del tempo, vennero redatti sotto la protezione dei signori goti stessi. La sua
posizione privilegiata gli permise di compilare il Variae Epistolae, un
epistolario di comunicazioni di stato, che ci permette un'ottima conoscenza
della diplomazia gotica del tempo. Fibbia di cintura ostrogota da
Torre del Mangano, VI secolo, Pavia, Musei Civici BOEZIO (si veda) è un'altra
importante figura del tempo. Ben educato e proveniente da una famiglia
aristocratica, scrive di matematica, musica e filosofia. Il suo lavoro più
famoso, il De consolatione philosophiæ, venne scritto mentre si trovava
imprigionato con l'accusa di tradimento. Re ostrogoti Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sovrani ostrogoti. Dinastia
degli Amali Valamiro Teodemiro Teodorico AtalaricoTeodato Re successivi Vitige
Ildibaldo Erarico Totila (anche conosciuto come Baduela) Teia. Picotti,
Ostrogoti in Enciclopedia Italiana Treccani Trebellius Pollio, Historia Augusta
- Divus Claudius Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno Herwig Wolfram, Burns,
A History of the Ostrogoths (Bloomington: Indiana Wolfram Heather, Peter, The
Goths, Blackwell, Malden, Heather Heather Wolfram Giordane, Getica, Bury; AA.VV.,
Dall'impero romano a Carlo Magno, in La Storia, Milano, Mondadori, Settia, Il
fiume in guerra. L'Adda come ostacolo militare (V-XIV secolo)", Studi
storici, Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. Torino: Einaudi Bury Bury
History of the Later Roman Empire, Procopio di Cesarea, De Bello Gothico
Brandolini, Pavia: Vestigia di una Civitas altomedievale. Majocchi, Sviluppo e
affermazione di una capitale altomedievale: Pavia in età gota e longobarda,
"Reti Medievali – Rivista, rmojs.unina.it index.php/rm/article Reti
Medievali Fonti primarie Procopio di Cesarea, De bello Gothico, Giordane, De
origine actibusque Getarum ("Origine e azioni dei Goti"). traduzione
di Mierow Cassiodoro, Chronica Cassiodoro, Varia epistolae
("Lettere"), presso il Progetto Gutenberg Anonymus Valesianus,
Excerpta, Par. II Fonti
secondarieModifica In inglese Gibbon, History of the Decline and Fall of the
Roman Empire Internet Archive. Burns, A History of the Ostrogoths, Boomington,
Bury, History of the Later Roman Empire Macmillan Heather, The Goths, Oxford,
Blackwell Publishers, Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno, Amory, People
and Identity in Ostrogothic Italy, Cambridge Azzara, L'Italia dei barbari,
Bologna, il Mulino, Bordone; Sergi, Il medio evo, Torino, Einaudi I Goti. Catalogo della mostra, Milano, Electa, Pepe, Il Medio
Evo barbarico d'Italia. Torino, Giulio Einaudi, Tabacco, La Storia politica e
sociale, dal tramonto dell'Impero romano alle prime formazioni di Stati
regionali, in: Storia d'Italia, vol. I, Torino, Einaudi, Tamassia, Storia del
regno dei Goti e dei Longobardi in Italia, Heather, La caduta dell'Impero
romano, Milano, Garzanti. Fonti su Teodorico, Teoderico il grande e i Goti
d'Italia. Atti del XIII Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo
(Milano Spoleto, CISAM, Garollo, Teoderico re dei Goti e degl'Italiani,
Firenze, Tip. Gazzetta d'Italia. Ensslin, Theoderich der Grosse, München,
Bruckmann Lamma, Teoderico, Brescia, La Scuola Editrice, Moorhead, Theoderic in
Italy, Oxford, Oxford Amory, People and identity in Ostrogothic Italy,
Cambridge, Giovanditto, Teodorico e i suoi goti in Italia, Jaca Book, Milano; Saitta,
La «civilitas» di Teoderico: rigore amministrativo, «tolleranza» religiosa e
recupero dell'antico nell'Italia ostrogota, Roma, L'Erma di Bretschneider Goti
Sovrani ostrogoti Regno ostrogoto Lingua gotica Teodorico il Grande Grutungi
Ostrogoti, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Ostrogoti, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica; Ostrogoti, in Catholic
Encyclopedia, Appleton Portale Antica Roma Portale Medioevo Regno
ostrogoto regno ostrogoto in Italia; Tervingi Grutungi. Keywords: i ostrogoti, Staal,
Grice on Indian Philosophy – ‘the Indian philosophical culture” “The Western
European philosophical culture” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franci” –
The Swimming-Pool Library. Giorgio
Reato Franci. Franci.
Grice e Francia: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei centauri – scuola di Fiorenze – filosofia fiorentina –
filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo
toscano. Filosofo italiano. Fireze, Toscana. Grice: “Francia is a good one; for
one, he philosophised on ‘not’: “il rifiuto.”” Grice: “Italians use rifiute and confute – as we
do!” – Grice: “Ryle used to say, to provoke Popper, that ‘to refute’ is pretentious,
when “to deny” does!” Figlio del
generale e geografo Orazio e di Gina Mazzoni, dopo gli studi liceali si laurea
Firenze con Carrara, di cui diviene. Insegna a Firenze. Al contempo, svolse
attività di ricerca all'Istituto Nazionale d’Ottica di Arcetri, diretto da Vasco
Ronchi. Lavora presso il centro di ricerca ottica della Ducati di Bologna fino
a quando divennne professore straordinario di onde elettromagnetiche a Firenze,
quindi ordinario della stessa disciplina all'istituto nazionale d’Ottica
(Arcetri), dopo anni di ricerca e di insegnamento all'Rochester. Passa a Firenze,
come ordinario di ottica su una cattedra appositamente creata per lui.
Contemporaneamente, collabora con l'Istituto di ricerca sulle microonde del CNR
di Firenze, fondato da Nello Carrara. Fonda e diresse sia l'Istituto di ricerca
sulle onde elettromagnetiche, oggi Istituto di Fisica Applicata del CNR, che
l'Istituto di Elettronica Quantistica (sempre del CNR). Ordinario di fisica a Firenze.
Altresì presidente della Società italiana di fisica, della International
Commission for Optics della Società italiana di logica e filosofia della
scienza, del Forum per i problemi della pace e della guerra e della Scuola di
musica di Fiesole, oltre l'ambito scientifico F. ha vasti interessi culturali,
occupandosi approfonditamente tra l'altro di filosofia della scienza. Socio
nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei, è anche un appassionato
dantista. È padre dell'architetto Cristiano F.. Si occupa
variamente di fisica matematica, di ottica, di microonde, di laser, di
meccanica quantistica, di elettrodinamica, di fondamenti della fisica, di
epistemologia, di informatica. Tra i suoi contributi principali sono da
ricordare, nel campo dell'ottica, la formulazione del concetto di
super-risoluzione (Toraldo filters) e del principio dell'interferenza inversa (prodromico
alla nozione di olografia), nonché la dimostrazione sperimentale dell'esistenza
delle onde evanescenti (evanescent waves). I suoi contributi più recenti
hanno riguardato la didattica della fisica, la divulgazione della filosofia
della scienza e i rapporti tra scienza e società nonché tra cultura scientifica
e cultura umanistica. Tra l'altro, in collaborazione ha curato e tradotto in
italiano il noto trattato La fisica di Feynman, opera didattica di Feynman. Altre
opere: Fisica per architetti, Edizioni Universitarie, Firenze); “Onde
elettromagnetiche, Zanichelli, Bologna); “Radiazione, Istituto di Fisica,
Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Diffrazione” (Einaudi, Torino);
“Il fotone e l’elettrone”; Istituto di Fisica, Università degli Studi di
Firenze, Firenze, “L’accelerazione della particella” Istituto di Fisica,
Università degli Studi di Firenze, Firenze); “Elettrodinamica e radiazione” Istituto
di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze. “Il metodo geometrico ed
il metodo aritmetico della fisica” Istituto di Fisica, Università degli Studi
di Firenze, Firenze, “Radiazione”, Istituto di Fisica, Università degli Studi
di Firenze, Firenze, “Il fisico (Einaudi, Torino); “Il fisico” (Guaraldi,
Firenze-Rimini, Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di
oggi e di domani, Einaudi, Torino, Problemi dei fondamenti della fisica, Scuola
Internazionale di Fisica, Varenna sul Lago di Como, Società Italiana di Fisica,
Editrice Compositori, Bologna, Le teorie fisiche. Un'analisi formale (Bollati
Boringhieri, Torino); “L'amico di Platone. L'uomo nell'era scientifica”
(Vallecchi, Firenze); “Le cose e i loro nomi” (Laterza, Roma-Bari); Fisica per il licei” (La Nuova Italia,
Firenze); “La grande avventura della scienza, Istituto di Fisica, Università
degli Studi di Firenze, Firenze, “La scimmia allo specchio. Osservarsi per conoscere”
(Laterza, Roma-Bari); “Un universo troppo semplice. La visione storica e la
visione scientifica del mondo, Feltrinelli, Milano); “Tempo, cambiamento,
invarianza” (Einaudi, Torino, Dialoghi di fine secolo. Ragionamenti sulla
scienza e dintorni” (Giunti, Firenze); -- EX ABSURDO “Ex absurdo. Riflessioni
di un fisico, Feltrinelli, Milano); “In fin dei conti, Di Renzo Editore, Roma);
“Il pianeta assediato. Conversazione di fine millennio” Le lettere, Firenze, Nascita
di un uomo moderno, Edizioni CNSL, Recanati, Introduzione alla filosofia della
scienza” (Laterza, Roma-Bari, Metodi matematici della fisica, Edizioni IFAC,
Firenze,. Elettrodinamica e teoria della radiazione (Renzo Vallauri e Daniela
Mugnai), Edizioni IFAC, Firenze. Per le notizie biografiche qui riportate, ci
si riferisce a R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, "Breve nota sul contributo
scientifico di Giuliano Toraldo di Francia", Quaderni della Società
Italiana di Elettromagnetismo, cfr. anche aif/ fisico/biografia-f./ Elenco dei Professori di Firenze Archiviato, Florence, Italian
Physical Society, Editrice Compositori, Bologna, R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo,
Breve nota sul contributo, Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo,
E. Castellani, "Nodi d'invarianti:
l'eredità", scienziato umanista, Le Scienze, E. Agazzi, "Ricordo", Epistemologia,
Breve nota sul contributo, su elettromagnetismo. Angela, Dialoghi di fine
secolo: ragionamenti sulla scienza e dintorni, Giunti, In ricordo, Riccardo Pratesi, Società italiana
di fisica. Teatro dell'assurdo Lingua Segui Storia del teatro occidentale
Teatro greco Tragedia greca Commedia greca Dramma satiresco Autori classici
greci Teatro latino Atellana Cothurnata Fescennino Praetexta Palliata Satira
latina Togata Autori classici latini Teatro medievale Sacra rappresentazione
Mistero Moralità Masque Dumbshow Commedia elegiaca Teatro moderno Commedia
umanistica Teatro erudito Dramma pastorale Teatro rinascimentale Teatro
elisabettiano Commedia dell'arte Commedia ridicolosa Comédie larmoyante Dramma
romantico Dramma borghese Dramma politico Teatro contemporaneo Regia teatrale
Teorici del teatro Teatro epico Teatro dell'assurdo Varietà Storia della danza
Storia del mimo e della pantomima Storia del circo Visita il Portale del Teatro
Teatro dell'assurdo è la denominazione di un particolare tipo di opere scritte
da alcuni drammaturghi, soprattutto europei, tra gli anni quaranta e gli anni
sessanta, a volte prolungato agli anni settanta per quel che riguarda poi il
lavoro di alcuni autori particolari. Con lo stesso termine si identifica anche
tutto lo stile teatrale nato dall'evoluzione dei loro lavori. Etimologia Il
termine venne coniato dal critico Esslin, che ne fece il titolo di una sua
pubblicazione, The Theatre of the Absurd. Per Esslin il lavoro di questi autori
consiste in una articolazione artistica del concetto filosofico di ASSURDITÀ dell'esistenza,
elaborato dagli autori dell'esistenzialismo (si vedano ad esempio le tesi di
Sartre e quelle successive di Camus, esposte anche nelle proprie produzioni
narrative e appunto TEATRALE, oltre a quella consueta saggistica). Le
caratteristiche peculiari del teatro dell'assurdo sono il deliberato abbandono
di un costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio
logico-consequenziale. La struttura tradizionale (trama di eventi, concatenazione,
scioglimento) viene pertanto rigettata e sostituita da una successione di
eventi priva di logica apparente, legati fra loro da una labile ed effimera
traccia (uno stato d'animo o un'emozione), apparentemente senza alcun
significato. Il teatro dell'assurdo si caratterizza per dialoghi volutamente
senza senso, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare a volte il sorriso
nonostante il senso tragico del dramma che stanno vivendo i personaggi.
Tra i maggiori esponenti del teatro dell'assurdo (che potrebbe avere come
"padre" letterario Jarry) vanno ricordati Beckett, Tardieu, Ionesco,
Valentin, Adamov e Schehadé. Una seconda generazione ha avuto come protagonisti
Pinter, Pinget, Vian e Mrożek. Anche Genet, autore di Le serve, era stato
inizialmente inserito da Esslin nel gruppo originario. Fra gl’autori
italiani, è spesso accostato al teatro dell'assurdo CAMPANILE (si veda),
indicandolo come un precursore. Esslin, The Theatre of the Absurd, Garden City,
Doubleday & Company, Assurdo Esistenzialismo Generi teatrali Patafisica
Teatro dell'assurdo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Voce Teatro dell'assurdo nel Dizionario dello Spettacolo del '900, su Delteatro
Portale Letteratura Portale Teatro Esistenzialismo corrente di
pensiero Ionesco scrittore e drammaturgo francese Camus et la Parole manquante Langue Suivre
Camus et la Parole manquante est un essai de Costes consacré à Camus et publié.
Le
cheminement intellectuel de l'écrivain est étudié sous un angle
psychanalytique, et décomposé en trois cycles: le cycle de l'absurde, le cycle
de la révolte et le cycle de la culpabilité. Camus et la Parole manquante
Costes France Essai Payot Science de l'Homme Série Étude psychanalytique
modifier Consultez la documentation du modèle Camus parole.jpg Cadre conceptuel
Costes se propose de saisir le cheminement intellectuel d'un des écrivains
français les plus lus, aussi bien dans son pays que dans le monde. C'est à
dessein qu'il a placé cette citation de Camus en tête de son
ouvrage: Comme les grandes œuvres, les sentiments profonds signifient
toujours plus qu'ils n'ont conscience de le dire. Le Mythe de Sisyphe. Costes
fonde son étude sur une double approche, à la fois textuelle sur l'analyse des
textes de Camus -la plus exhaustive possible- et sur une approche biographique
de l'homme. Pour lui, les deux approches sont complémentaires pour rendre
compte le plus exactement possible de ce qui a fondé la démarche camusienne.
Son objectif est de rechercher ce qui fait le désir de création d'un écrivain
comme lui et de s'attacher à expliquer les modes de sublimation littéraire :
pourquoi est-il devenu écrivain, où puise-t-il son énergie créatrice? Il est
certain que dans son cas le fait parental est un élément évident. D'une part,
il n'a pas suffisamment connu son père, mort pendant la guerre, un an après la
naissance d'Albert, pour en garder la moindre image. D'autre part, sa mère,
douce et peu loquace, s'est toujours effacée derrière la figure autoritaire de
la grand-mère. L'enfant est donc rapidement confronté à une forte absence
parentale. Pour combler ce manque, il va rechercher en particulier des
substituts de père, qu'il va trouver chez son instituteur Germain puis chez
Grenier, son professeur de FILOSOFIA au LICEO LIZIO d'Alger (ce qu'Alain Costes
appelle des imagos). Il leur impute son amour pour le football, dont son
instituteur était particulièrement féru, de la nage et de la mer, qui lui
viendrait de son oncle tonnelier qui vivait avec eux chez la grand-mère, et de
l'écriture qu'il tiendrait du professeur Grenier. Son amour du théâtre en
découle largement. Le théâtre transportait Camus dans le monde qui était
exactement le sien du fait de ses identifications paternelles littéraires.
Cycle de l'absurdeModifier Sisyphe. L'homme que je serais si je n'avais
été l'enfant que je fus. Carnets. Apparemment, La mort heureuse son premier
roman, s'inscrit dans un cadre œdipien banal: Mersault entretient une liaison
avec Marthe qui va de temps en temps voir Zagreus, son ancien amant. Mais
Mersault tue Zagreus dans une crise de jalousie. Tout se complique cependant:
Mersault a surtout tué Zagreus pour le voler, Zagreus l'estropié, (comme
l'oncle de Camus) infirmité qu'il a rapportée de la guerre, cette guerre où son
père est mort. Voilà la raison essentielle du meurtre de Zagreus par Mersault,
cet homme silencieux qui rappelle à Camus cette mère absente et murée dans son
silence. L'analyse d'Alain Costes est confortée par un article où les
difficultés de Meursault se traduisent ainsi: échec du travail de deuil, perte
de contact avec la réalité et rupture des relations objectale. C'est en quelque
sorte le fantasme de Camus qui a pour titre L'Étranger. L’ambivalence de
Camus, le côté positif qu’il investit dans la Nature idéalisée et le côté
négatif d’une perte de contact avec la réalité, c’est d’abord son premier
recueil de nouvelles où l’on retrouve dans le titre cette dualité: l’endroit »
qu’il projette sur la Nature, sur l’amour et l’envers qui représente le monde
absurde et angoissant. Face à cette angoisse, à ses tentations suicidaires – le
suicide est « le seul problème philosophique - Camus veut exprimer son pari
pour la vie, par-delà l’absurde à travers l’analyse qu’il livre dans Le Mythe
de Sisyphe. Quoi qu’il en soit, écrit Costes, la pierre angulaire de la
pensée de Camus réside dans les silences de sa mère. Comme les mythes, les
silences sont faits pour que l’imagination les anime. Il rêve d’une philosophie
du minéral, à force d’indifférence et d’insensibilité, il arrive qu’un visage
rejoigne la grandeur minérale d’un paysage. C’est la bonne mère Nature
qui réapparaît mais sous une forme dénudée, hiératique, celle où il est souvent
question de pierre ou de désert. Le Malentenduaussi est une tragédie du
mutisme, de la non communication, comme toutes les œuvres du cycle de l’absurde.
Quand Camus termine Le Malentendu, il note dans ses carnets. C’est le goût de
la pierre qui m’attire peut-être tant vers la sculpture. Elle redonne à la
forme humaine le poids et l’indifférence sans lesquels je ne lui vois de vraie
grandeur. Comme le sculpteur qui fait parler la pierre, Camus peuple le silence
maternel de ses fantasmes ». C’est le mythe de Niobé, réduite au silence pour
avoir provoqué la mort de ses enfants. Ce silence qui fascine tant Camus et lui
renvoie l’image de sa mère, il va le vaincre par l’écriture, oralité du
langage, qui tient aussi à son père mort et à son oncle muet. Cycle de la
révolte La révolte selon Delacroix La conception de La Peste est difficile,
laborieuse, trois versions se succèdent pour composer, recomposer, peaufiner
son texte. Pour Alain Costes, ce long et pénible travail exprime la «
restructuration progressive du moi physique camusien. Camus précise ainsi son
objectif: Faire ainsi du thème de la séparation le grand thème du roman; c’est
le thème de la mère qui doit tout dominer. C’est un Camus recomposé en 4
personnages, expression de la restructuration de son Moi: le docteur Rieux est
le résistant Camus, Tarrou est le fils dont le père (comme celui de Camus)
assista à une exécution capitale, Rambert le journaliste que la peste sépare de
sa femme et Grand le long travail de création. Est jouée la première de
L’État de siège. Dans cette pièce, les habitants de Cadix vivent une vie
insouciante quand survient le tyran Peste et sa secrétaire. Seul Diego s’oppose
au tyran et se sacrifiera pour qu’il parte. Mais ici c’est l’image paternelle
du tyran qui est maléfique, alors que l’imago maternel est valorisé et Diego va
engager une lutte victorieuse contre le Père. Cette évolution indique selon
Alain Costes, que Diego-Camus « aborde très clairement la situation œdipienne
». Les Justes, cette pièce ou des révolutionnaires russes doivent tuer le
Grand-duc, représentant du tsar (donc le Père) repose sur l’histoire du meurtre
du père et l’histoire d’une passion avec Dora-Kaliayev. Les amants se
rejoignent enfin au-delà de la mort dans un acte qui transcende leur amour
contrairement à l’histoire de Victoria et de Diego dans L'État de siège. C’est
pourquoi Costes peut soutenir que pour la première fois, on y trouve une
problématique authentiquement œdipienne. Lors de la gestation de L'Homme
révolté, Camus prend ses distances vis-à-vis de ses premiers maîtres, André de
Richaud, André Gide, André Malraux, les philosophes allemand et même Grenier
dont il dit : rencontrer cet homme a été un grand bonheur. Le suivre aurait été
mauvais, ne jamais l’abandonner sera bien. L’Homme révolté, c’est la recherche
de la mesure, ce qu’il appelle la pensée de Midi. Camus veut dépasser le thème
de l’absurde en repartant du mythe de Sisyphe, je crie que je ne crois à rien
et que tout est absurde, mais je ne puis douter de mon cri et il me faut au
moins croire à ma protestation. C’est ce dépassement qui devient révolte.
Touche après touche, Camus trace à partir des faits accumulés (le recours au
rationnel) ce qu’il appelle la mesure, qui doit permettre de concilier
dimensions personnelle et collective, justice et liberté. On assiste selon
Alain Costes au « passage d’une pensée antithétique à une pensée dialectique,
La Pensée du Midi, synthèse de liberté et de justice, de culpabilité et
d’innocence, d’individuel et de collectif, de personnel et de
lucide. Cycle de la culpabilité Schéma de la culpabilité Dans L'Exil et le
Royaume, aussi bien Janine La Femme infidèle dépressive qui, dans le Sahel loin
de chez elle, perd ses repères et sa confiance en elle-même que dans Le
Renégat, cet « esprit confus qui cherche une rédemption masochiste jusque dans
le désert saharien, ces deux héros dépressifs se vivent en tant qu’objet, « en
état de totale dépendance », en quête d’un objet perdu (le mari pour elle et le
père pour lui). On retrouve cette tendance dans la nouvelle Retour à
Tipasa où Camus est effectivement retourné, mais en hiver cette fois, contraste
marquant avec le Tipasa de Noces écrasé de soleil. Il y trouve un temps de
mélancolie et la frustration du retour à Paris car « il y a la beauté et il y a
les humiliés ». Il emportera « une petite pièce de monnaie, beau visage femme
côté pile et face rongée de l’autre côté. La dépression latente,
l’extrême difficulté à écrire s’inscrit dans les deux Jonas. La nouvelle conte
l’histoire –très autobiographique- d’un peintre qui laisse envahir sa vie et ne
parvient plus à exercer son art. Il en arrive à vivre dans la gêne, à se
réfugier dans une espèce de cagibi dans lequel Costes voit comme un rappel de
l’utérus, régression ultime de la dissolution du Moi. Dans la seconde version
plus optimiste, un mimodrame, Jonas se reconstruit en peignant une immense
toile mais sa prise de conscience sera fatale à son 'objet', à sa femme qui
dépérit et finit par mourir. Dans la seconde version, Camus est dans son
élément, la réalité théâtrale où il va désormais se réfugier pour quelques
années, échappant dans l’adaptation théâtrale au contenu, au fond qu’il
emprunte aux auteurs qu’il adapte. La seule nouvelle de L'Exil et le
Royaume qui soit plus « optimisme (porte ouverte au Royaume) s’intitule La Pierre
qui pousse. Cette pierre rappelle bien sûr le rocher de Sisyphe mais ici le
héros d’Arrast va se débarrasser de sa pierre en la déposant chez son ami le
coq. Selon Alain Costes, ce n’est qu’en retrouvant la parole par sa discussion
avec le coq que d’Arrast va pouvoir « évacuer son objet persécuteur (jeter sa
pierre) et clore son travail de deuil. Dans La Chute, son héros Clamence
va s’infliger un châtiment radical pour apaiser sa culpabilité, devenir sourd à
ce cri, ce corps qui tombe à l’eau et le poursuit depuis si longtemps. Il
s’installe dans cette ville de canaux et de brume, lui qui n’aime que le soleil
de la Méditerranée, dans le « malconfort », « cette cellule de basse-fosse »,
comme Jonas va s’isoler dans sa soupente. De là, il va pouvoir prendre à témoin
le monde entier, s’auto accuser, « projeter son surmoi sur le monde extérieur
», se réfugier dans ce personnage double de juge-pénitent. Ces années
cinquante sont les années où Camus se lance dans l’adaptation et la direction
théâtrale. Il y a, comme le note Quilliot, des raisons objectives, le décès de
Marcel Herrand, la crise physique et morale confinant à la dépression qui
mobilise une partie importante de ses forces. Mais Costes y voit surtout
l’omnipotence des images du père, retour au théâtre, retour aux grandes
admirations adolescentes, retour au Père. Camus tourne une nouvelle page. C’est
en janvier, la première des possédés qui lui a coûté tant de temps et
d’efforts, en novembre il commence à écrire Le premier homme, double quête de
la mère et du père où Camus avait retrouvé sa créativité à travers la
sublimation par l’écriture. Références psychanalytiques Camus aborde
plusieurs concepts psychanalytiques dans son œuvre: Surmoi: phase
postérieure à la liquidation de l'Œdipe, trouvant sa source dans
l'intériorisation des interdits parentaux et constitue le représentant
psychique de la réalité extérieure ; Désintrication: arrêt d'une situation
entremêlée; Parents combinés: fantasme très archaïque, précédant la scène
primitive, défini par Mélanie Klein où les parents apparaissent confondus dans
une relation sexuelle ininterrompue; Processus primaire : Ensemble des
mécanismes de l'appareil psychique de l'inconscient, produisant rêve et
symptôme, lapsus et œuvre d'art. Les processus principaux sont le déplacement,
la condensation et le retournement dans le contraire; Processus secondaire:
Mécanisme qui joue sur le pré conscient et l'inconscient avec révision du désir
après examen de la réalité extérieure. Germain à qui il dédiera ses Discours de
Suède, donc d'une certaine façon son prix Nobel de littérature. Image
fantasmatique des représentations des deux sexes avec qui le sujet a vécu une
relation affective durable. On peut ainsi discerner d'une façon très générale:
l'imago de la bonne mère ou l'imago de la mauvaise mère (même chose pour le
père. Camus sera d'abord un gardien de buts accompli au Racing club d'Alger
puis un supporter assidu à Paris. Pour un portrait de cet oncle qui vivait avec
eux à Alger, voir la nouvelle Les Muets dans le recueil L'Exil et le Royaume.
Voir ses nouvelles autobiographiques dans L'Envers et l'Endroit. Pichon-Rivière
et Baranger, Répression du deuil et intensification des mécanismes et des
angoisses schizo-paranoïques, Revue française de psychanalise. Ne pas confondre
Mersault héros de La Mort heureuse et Meursault héros de L'Étranger. Perte du
réel qui finit par une stupeur catatonique. Dont le fantasme se focalise sur un
objet. La pièce de Ben Jonson qu’il donne avec sa troupe du Théâtre du travails’intitule
La Femme silencieuse. Carnets, édition de la Pléiade. Voir les nouvelles La
Halte d’Oran ou le Minotaure et Le Désert. La tragédie n’est-elle pas toujours
“malentendu” au sens propre du terme, stupeur et pour tout dire, surdité »
commente Quillot dans son essai sur Camus La Mer et les Prisons. Morvan
Lebesque écrivait déjà dans son essai sur Camus: En Rieux, en Tarrou, voire en
Joseph Grand ou en Rambert, c’est Camus lui-même qui se rassemble. Carnets. Costes
résume ainsi ces nouvelles : « Janine en quête d’un homme, le Renégat courant
de père en père, les muets réduits (eux aussi) au silence par leur patron, Daru
dans L’Hôte rendu étranger à son pays du fait de la loi, d’Arrast, Jonas et
Clamence ulcérés par les exigences de leur surmoi, tous sont torturés par une
problématique dont la plaque tournante est l’imago paternelle Nouvelle intégrée
au recueil L'Été. Cette disparition prématurée oblige Camus à prendre la
direction du festival d’Angers. Camus recherchera la tombe de son père avant
d’aller s’y recueillir à Saint-Brieuc. Chasseguet-Smirgel, Dépersonnalisation,
phase paranoïque et scène primitive, Revue française de psychanalyse, Camus et
la Parole manquante. Pichon-Rivière et Baranger, Notes sur l'Étranger de Camus,
Revue française de psychanalyse; Durand, Le Cas Camus, Fischbacher, Luppé,
Camus, Universitaires, Simon, Présence de Camus, Nizet, Grenier, Les Îles,
Gallimard, Onimus, Camus, Desclée de Brouwer / Fayard, Ginestier, Pour
connaître la pensée de Camus, Gallimard, Boone, Camus, coll. La Plume du temps,
éd. Henri Veyrier, Liens internes Société des études camusiennes Culpabilité
(psychanalyse) icône décorative Portail de la littérature française Le Mythe de
Sisyphe ouvrage d'Albert Camus Cycle de l'absurde La Mort heureuse livre
de Camus. Keywords:
i centauri, ex absurdo; scientific realism, philosophy of physics, foundations
of physics; geometry and arithmetics as the methods in physics; observation and
perception, ‘what the eye no longer sees’ – ‘we see with our eyes”; Eddington’s
two tables – teoria relativistica, theory of relativity – theory of the
absolute, particella, relativita, assoluto/relativo – relative-assoluto –
Galilei – H. P. Grice’s discussion of the ‘relative-absolute’ distinction
vis-à-vis R. M. Hare (‘there are no absolute values’) as cited by colonial
philosopher J. L. Mackie in ‘Inventing right and wrong’ ‘absolute value’
‘relative value’ , Lemarchand, theatre, not Esslin. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francia” – The
Swimming-Pool Library. Giuliano
Toraldo di Francia. Francia.
Grice e Franzini: la ragione conversazionae e l’implicatura
conversazionale dell’espressione – scuola di Milano – filosofia milanese –
filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo.
Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Franzini; for one, he
philosophised on aesthetics and passions (‘passioni’). Sir Geoffrey [Warnock] and I
philosophised on the former, if not the latter!” Si laurea con Giovanni Piana e Dino Formaggio.
Insegna a Milano e l'Udine. Studia Husserl e la fenomenologia, nonché della
filosofia francese, ha indagato sul fronte storico e teoretico alcuni temi
cruciali dell'estetica, quali la “creazione”; “simbolo” (‘to throw two things
together, so that the recipient compares them!); “immagine”; “experienza estetica inter-soggetiva”. Sulla
scorta di una ricognizione della genesi settecentesca dell' “estetica”, vista
quest'ultima come punto di incontro tra doxa ed episteme, fra sentimento e
ragione, fra il noetico e l’estetico, -- “La noetica di Grice” -- indaga lo
statuto dell’estetica e della noetica, approfondendo il valore
volitivo/giudicativo (noetico, contenuto, p) della dimensione pre-categoriale
dell'esperienza (l’estetico). Questo percorso trovato una sintesi che mira alla
definizione di una "fenomenologia del noetico”, no dell’estetico; ossia di
una ‘noesi’ che sappia de-cifrare la ricchezza simbolica dell’estetico –
rappresentazione, immagine. Altre opere: “Dall’estetico al noetico” (Milano,
Unicopli); “Sul bello naturale” (Milano, Guanda); “Il bello naturale creato di
Dio (phusei); il bello ART-ificiale creato dall’ART-ista Vinci (thesei – ex
positione)” (Milano, Unicopli); La figura del diavolo, il discorso del diavolo”
(Milano, Mimesis); “In principio erat verbum” Favola: dal mito al logos
(Milano, Guerini); “In-scriptum, De-scriptum, ex-criptum – (Milano, Cuem); “Le
leggi del cielo, l’estetico e il patico (Milano, Guerini); “Metafora, mimesi,
morfo-genesi, progetto. Architettitura filosofica (Milano, Guerini). La
Fenomenologia” (Milano); “Differenze nello spirito romano” (Milano, Edizioni
dell'Arco); “Mondo possibile: l’interpretazione dell’espressione comunicativa
(Milano, Guerini); “Il senso, il sensibile, il sentimentale, l’ingenuo”
(Milano, Mondadori); “Il senso, sentire, sentimento” (Milano, Bruno Mondadori);
“Percezione e immagine” (Milano, Il Castoro), “Piacere, dispiacere, Gusto e
disgusto” (Milano, Nike); “Fenomenologia pura, fenomenologia impura,
fenomenologia mista – il misto, il puro, l’impuro (Einaudi, Torino); “Cezanne a
Liguria”; “Fenomenologia del noetico: Al di là dell'immagine” (Milano,
Cortina); “Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli
enciclopedisti, Palermo, Aesthetica; "Estetica del bello, noetica del brutto,
Palermo, Aesthetica, Immagine e verita: e vero che il sole si ferma) (Milano,
Il Castoro); “L’estetico dell’espressione comunicativa” (Firenze, Monnier);
“L’unicita della ragione; La cosedetta “altra ragione” – il buletico e il creditum:
sensibilità, immaginazione, forma naturale, forma artificiale, forma create
dall’art-ista, Milano, Il Castoro); Il simbolico e il noetico (to throw to
things to be compared, say an Italian flag, and the love of country); Simbolo: figura, materia, e
forma – simbolo materiale – forma noetica – hyle-morphismo” (Milano, Il
Saggiatore); “La lume dell’altre ragione” (Milano, Bruno Mondadori); La
rappresentazione dello spazio – spatium (Milano, Mimesis); ntroduzione
all'estetica, Bologna, Mulino); “Arte, bello e interpretazione della natura”
(Milano, Mimesis); Non sparate sull'umanista. La sfida della valutazione (Milano,
Guerini e Associati); “Filosofia della crisi” (Milano, Guerini e
Associati, pre-moderno, Moderno e
postmoderno. Un bilancio, Milano, Raffaello Cortina Editore, ti dà il
benvenuto, su eliofranzini. L'estetica aujourd'hui. Conversazione» Il rasoio di
Occam MicroMega Estetica, filosofia,
vita quotidiana. Conversazione in MicroMega, su unimi Entra in carica oggi, il
rettore su unimi, contiene l'articolo Il
nuovo rettore della Università Statale di Milano prevede di mantenere a Città
Studi un polo di dipartimenti scientifici Husserl Fenomenologia Scuola di Milano SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove
vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo,
e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là
seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno
mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice,
tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene,
amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì , alloggia da
Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE:
E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i
suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino.
SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire
come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni
negozio»? FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza
dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo
intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel
giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche
questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna
compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto
che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto
che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di
voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora
ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino
a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non
rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da
profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più
bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo
agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE:
Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera
né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non
l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di
ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure
questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che
più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal
mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo
d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo
lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in
uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è
rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad
accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si
è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche
a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro,
pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me,
veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace,
poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia
parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò
così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola:
ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali
lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non
ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però,
carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho
l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente che
io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione
di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila!
Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove
vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo
l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto
pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre.
Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non
spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora. SOCRATE: Fa' da guida
dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo
platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su
cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici.
FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che
a quanto si dice Borea ha rapito Orizia? SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio
da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle
fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù,
dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: appunto là c'è un
altare di Borea. 2 Platone Fedro FEDRO: Non ci ho mai fatto caso.
Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero?
SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona
strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la
spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così
si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago, poiché
c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro,
considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo
valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo
gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera;
quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi e un gran
numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno,
non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che
fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho
proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono
ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso; quindi
mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora
questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto
comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non
queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più
intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più
semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa. Ma
cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci?
FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo
platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua
ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato.
Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come
si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra
essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è
amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva
risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba,
poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e
appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero
in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona
davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una
guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre
confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami,
carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono
insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia
trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli
animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto,
così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi
porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì
l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione
in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque.
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli
altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno
benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente,
per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che
amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i
benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano
pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece
coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle
proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né
incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo
tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà
loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in
grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado
di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi
agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il
vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è
chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male.
D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha
una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di
allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che
assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza,
una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui
decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei
disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più
speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per
di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il
carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato,
così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro
passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal
momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile
che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso
rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare
migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le
azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di
diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per
via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non
hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre
spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di
piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se
dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del
piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone
di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma
irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe
involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove
di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non
possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo
tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci
amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale
passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi
ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai
migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno
la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private
è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di
essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno,
verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca
gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi
è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo
chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua
giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno
partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne
vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non
coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo
stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga. FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16)
FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io
scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma
dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra
i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli,
Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha
tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che
nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle
dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e
sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per
farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato
cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro
che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da
qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In
qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire
cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me
niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo,
che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un
vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite.
FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi
riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo
proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno
diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime;
quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una
statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei
carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha
sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò,
credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per
incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo
che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia
ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli
uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma
credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e
di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre
degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla
disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri
aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di
stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al
resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di
queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta
votiva dei Cipselidi! SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io,
scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente
a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui?
FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale
presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da
non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si
rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase:
«Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o
quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non
ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel
petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più
giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non
parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi
coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da
profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la
questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa
che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela!
FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti
giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti
giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano,
non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno.
SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo
amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti
giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla!
SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo
essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile
e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO:
Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla
voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate
dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il
racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto,
fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto:
bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai
più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro
cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio
della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si
accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò
che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se
si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama,
stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza
abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento,
esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia
appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri
le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non
ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi
che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno,
innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira
al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano
d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta
l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e
prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio
trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene
chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte
membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a
chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né
meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla
ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà
sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che
tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro
quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi
che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è
ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato
fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente
più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio
irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una
volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente
dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo
trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros». Ma caro
Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino?
FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola,
contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo
sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso
sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono
lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la
causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente
potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare
col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui
bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente
questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno
presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi
favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile
rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò
che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari
a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore
o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è
l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa
parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi
è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci
sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri
altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì
inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da
molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo,
danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie
alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina
filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di
essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in
modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa
condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo
danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova
amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve
considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne
diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché
il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta
alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di
secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di
colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle
attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori
discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un
corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i
nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò
questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare
invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai
nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma
soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che
l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe
che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa
d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se
possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da
conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente
che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze,
e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza
moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di
cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6 Platone Fedro
sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior
parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia
terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere
non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o
molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono
essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante
è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una
libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le
proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più
assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai
ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto,
ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante
non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi;
come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo
è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il
discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso
uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e
indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non
ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi,
proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa
credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle
quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico
che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad
essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo
discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che
gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di
essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate,
non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno,
l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo
detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi
sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i
discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te,
o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a
pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci
di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo
discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo
discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è
manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene
sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa
voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se
avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino,
per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo
per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche
l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche
prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice
Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece
tra gli umani». Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici?
Platone Fedro SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu
hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché?
SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe
essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E
allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina?
FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo
discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se
Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male,
e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un
male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre
la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di
vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni
omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la
necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti
del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro
sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne
ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito
compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi
ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto
l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io
pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di
incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la
mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna.
FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE:
Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i
due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile
e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in
precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi
inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati,
non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai
marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal
convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse
sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore
dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio
udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il
più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un
amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai
pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da
me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in
ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla.
SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche
questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per
non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto
vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni
presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di
Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio
di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo
il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non
ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è
assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice,
sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto
in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di
Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi
vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o
nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi
dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi
indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose
note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto
che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una
cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato
"manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro,
applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca
per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti
del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica".
Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il
volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite
l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè
alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i
contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano
oionistica. Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica,
e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più
bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio
rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e
profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche
dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su
alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto
degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la
possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai
mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo
giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse,
che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore
bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere
degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia
senza 8 Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un
poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è
oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora,
sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare.
Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che
cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo
assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare
la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato
dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo
invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la
nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i
valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna
intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana,
considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è
il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è
immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita
quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento
che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di
movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però
non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un
principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un
principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio
perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa
deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se
stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la
terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da
cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si
muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è
l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in
movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà
proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura
dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può
essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.
Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire
quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina
sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di
un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si
immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata
e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati
da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi
guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli
d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la
guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi
bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e
immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto
il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in
alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù
finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e
assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da
sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il
soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato
con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera
adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di
un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si
dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita
delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca
questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è
pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa
del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente,
buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e
accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è
brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo,
procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si
prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici
schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi,
quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la
propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e
i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente
felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi
sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando
poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità
della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da
guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo
che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso
l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la
prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte
alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui
rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta
fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in
modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti
avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità):
l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può
essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale
verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la
mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella
di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo
un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché
la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel
giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la
scienza, 9 Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e
neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da
quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che
è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri
che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del
cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i
cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere
del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una,
seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il
capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua
rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora
solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a
forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che
aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono
sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e
cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una
lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli
aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne;
tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la
contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo
dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è
sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore
dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura
dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35)
L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non
subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta
intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non
abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia
appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è
legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima
generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si
trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del
bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda
si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e
al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato
o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o
degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad
avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà
confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano
dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino,
all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella
di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia
partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una
peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila
anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella
di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli
secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto
per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al
compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono
al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state
giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro
pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il
tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al
millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della
seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche
finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da
bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a
tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto
idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal
pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra
anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che
ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò
giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo,
secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù
delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali
reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo
realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e
si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più
che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il
discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza
di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi
in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi
di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di
mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha
comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le
persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è
detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non
si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri
procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle
che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute
qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie
all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche
nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora
vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in
sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione
sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose
che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù,
ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso
i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si
poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al
seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una
contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più
beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova
di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando
nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e
10 Platone Fedro beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non
rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi,
incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al
ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è
parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava
tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo
colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo
più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che
riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza
(poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le
offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore.
Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di
tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è
corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in
sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando
guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e
a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha
timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato
di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto
d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di
corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di
allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata
tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza
si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata
per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a
smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno
restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere
colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del
flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato
e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il
frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e
non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri,
fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze
vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e
le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato
e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile
al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede
la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui
si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros,
gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età,
ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo
presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e
non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano
Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si
può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama
è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di
Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome
dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a
lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato,
sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così
ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace,
onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e
vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione
con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il
suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una
specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus
cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto
guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato
e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se
prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi
mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da
soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del
proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo
verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e
tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è
possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono
la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus
come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo
rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito
di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse
cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo
secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e
una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la
persuasione e 11 Platone Fedro l'ammaestramento portano l'amato ad
assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno
senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza,
ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e
con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente
amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle
e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in
stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo.
Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna
anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga,
questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli
diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il
vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque,
quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e
ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli
occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama
veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e
la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio
e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di
sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede
a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la
visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed
è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce
docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si
trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i
pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con
violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga
li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri
d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti
ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al
male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare
quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione
folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla
natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo
assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che
le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le
redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno,
spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro
voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta
l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla
caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare,
coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e
debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di
nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di
rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi
fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e
trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i
medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la
coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora
più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al
cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del
cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a
terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo
malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza,
umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo,
muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante
segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere
pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non
simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico
di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone
che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a
chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del
tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia;
infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un
buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere
accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza
dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che
tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a
confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò
nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri
luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di
Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante
dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un
soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là
dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo
attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto
la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle
crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama,
ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di
dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in
grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso
nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa
esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed
è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è
sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno
come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo,
giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando
dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire
all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante
fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio
e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua
grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da
rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare;
ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12 Platone Fedro si
oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti
migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia,
essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono
padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male
dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e
leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la
temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più
grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di
filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro
momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le
anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la
scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che
l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente,
poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono
in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne
sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più
grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe
all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col
desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro
mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il
cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino
sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il
viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme
per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti
darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama,
mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere,
dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù,
la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila
anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa
palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a
causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole
poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per
queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera
l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei
fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo
detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del
discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla
filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo
amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros
in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera,
Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il
tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che
Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso.
Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo
proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò
forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo,
la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi
che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava
dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva,
Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il
massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a
lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere
chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso
il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli
uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare
propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a
tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li
devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non
capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico
per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il
consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o
entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita
se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare,
mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto
assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso
scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge,
l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo
scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi
compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa
attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o
un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario
(45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse
egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la
stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi
allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia,
lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO:
Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il
proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé
lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe
questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e
disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene
e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo
proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia
pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore?
FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire,
vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui
bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi
tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente
chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che
in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e
discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi
due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci
lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci
deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in
questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la
fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle
Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel
dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è
questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si
addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46)
Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che
nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di
loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di
cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine
la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver
bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare
senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire
chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore
riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più
graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre,
secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che
viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei
discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per
molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E
allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo
proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è.
FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e
decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero
riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho
sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di
apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla
moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che
sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla
verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono
i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per
questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione.
SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi
persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non
conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro
reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi...
FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso
che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino
chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di
essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile
per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in
molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è
forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO:
Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il
male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni,
facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma
l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni
della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi
che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO:
Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico,
abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto?
Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno?
Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE:
Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle
stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no?
SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora
buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che
il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli
ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in
movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova
solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che
si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno
sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili
e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa
cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se
cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica
di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di
pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che
non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che
se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione
di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con
precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è
necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado
di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con
le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno
opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa
impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così
. SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco
la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da
ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione
di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque,
amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci
offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO:
Pare di sì . 15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso
di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che
definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa,
poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati.
SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due
discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le
parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne
attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle
Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono,
poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia
come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del
discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui
sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse
evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste
cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma
esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola
"ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa
cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto"
e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e
siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO:
Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO:
è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la
retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è
evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve
innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere
peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi
nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo,
Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che,
nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba
percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende
parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore
appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni
controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello
che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia
l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo
eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo
ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione
dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè,
quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo
e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una
sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha
costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in
relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente?
Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò
che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO:
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per
noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE:
Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al
discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende
le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di
amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è
certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE:
E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla
rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche
necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli
argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia
detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza
di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto
questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se
credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso!
SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere
costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non
essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle
estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO:
Come no? SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto
così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che
secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio. FEDRO: Qual è
questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine
bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi
verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi
passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è
alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu
ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere,
così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali
gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e
passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per
chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa
alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve
compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE:
Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto
questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì
. SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane,
l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO:
Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a
quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella
iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros,
e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando
con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero,
dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto
incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e
pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e
protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non
spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come
il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire
con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco;
ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non
sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO:
Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici
modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle
una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per
esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a
prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa
definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO:
E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al
contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni
naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo
macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza
dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine
membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due
discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per
sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e
poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni
un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato;
l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha
trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo
aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi
beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi
procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado
di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura
capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme
come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa
un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo
dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è
discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei
discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a
parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni
come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi
procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze
dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una
narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le
verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che
dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il
valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno
fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il
bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi
indiretti; alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in
poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo
riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere
in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che
è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario
nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità
infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me
queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi
di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto
sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite
eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei
Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il
parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui
Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere
di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una
certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai
discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che
l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario
nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto
adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e
sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra
tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di
riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli
ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE:
Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei
discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE:
Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale
potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una
potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE:
Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra
anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora
dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e
dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e
raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e
persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho
queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico
un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero
dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e
quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se
allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso
queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»?
FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero
con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di
essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a
produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente:
«Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più
affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che
conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non
sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e
preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che
conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una
tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina,
non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che
direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica,
non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa
condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno
creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di
averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli
debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste
cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera
da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del
genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per
iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come
e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica
e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della
retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri
campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto
d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità,
resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il
metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il
metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato
probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE:
Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla
natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre
tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre
alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo,
in Anassagora, uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla
natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora
si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei
discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte
medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna
dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se
tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare
all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere
all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e
occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così , Socrate.
SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in
modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si
deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo
metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice
bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma
Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora
esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna
forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si
deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di
rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve
esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita,
o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme
bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità,
cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in
virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate.
SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare
di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da
rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere
ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della
natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo
l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo,
poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è
chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della
retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima,
se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo;
diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO:
Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura
portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da
che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei
discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause,
adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando
quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa,
quale invece non viene persuasa. FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a
quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro
modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro
argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai
ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a
dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non
lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è
questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile;
ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende
farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta
nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che
sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e
di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato
che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime
anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli
uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un
certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre
per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare
retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi,
osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in
grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non
avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E
quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da
quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a
se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano
a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi
discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta
che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti
giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia
discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o
indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è
realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi
di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte,
vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro
scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro
modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo,
Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per
questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche
parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non
procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne
una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato
da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo.
FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso.
SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni
che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro,
si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così
anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e
levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come
abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere
sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità
circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione,
poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su
queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui
si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna
neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile,
ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi
parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità;
poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta
quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono
quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono
ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e
sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose.
SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci
dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che
sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a
quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e
coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il
mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve
dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo
uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli,
e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia
condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non
ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà
subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le
cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro?
FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero
sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque
luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o
no... FEDRO: Cosa? SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu
venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più
per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità
sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire
sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che
abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che
lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e
di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei
discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste
capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi
sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano
gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle
sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto
deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo
accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la
strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi
bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso,
anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo
vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se
davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è
bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro.
SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel
fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la
questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando
essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai
allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di
un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io
posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E
se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni
degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici
di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in
Egitto, c'era uno degli antichi dèi del
luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità
era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e
l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la
scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città
della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il
suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che
dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse
l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo
ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza,
o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa
è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re
rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa
giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi
intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il
contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di
esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la
dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori
mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai
scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della
sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando
per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte
cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché
sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu
pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E
pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel
tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato
che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità,
ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te
fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente
a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e
mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe.
SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua
volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di
chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente
il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più
del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per
la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di
fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in
venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti
anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se
domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo
qualcosa suona sempre e 21 Platone Fedro solo identico. E, una
volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra
le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da
spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso
e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non
è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche
queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un
altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per
sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e
come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la
conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e
sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente
e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire
un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha
senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone i semi che gli
stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli
crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa,
quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul
serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto,
sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi?
FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli
altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle
cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue
sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente
nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di
difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la
verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a
quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li
scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso
giunga «alla vecchiaia dell'oblio», e per chiunque segua la sua stessa orma, e
gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi,
ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli
allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò
di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro
che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie
sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti,
caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando
uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi
semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in
aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano
una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi
capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia
felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più
bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare
quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e
per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero
rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero
scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non
lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è
parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno
non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è
in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non
sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più
divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura
dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il
discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima
variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non
sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe
dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in
precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così
. SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e
scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no,
non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo
detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti
d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica,
nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il
biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà
e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di
essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di
certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi
argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio
di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche
pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere
sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22
Platone Fedro ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per
aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei
discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo
scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza,
compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano
essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca
in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli
di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il
loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro,
è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io
voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per
quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da
Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e
abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi
altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o
lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia
scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste
opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene
messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la
debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere
chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è
dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo
sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un
dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più
adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece
non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto,
rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o
separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore
di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno!
FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno.
SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate?
Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio
dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti
naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia
temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da
meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora
pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai
discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo
spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro
amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose
da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo
Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più
mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di
metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di
questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di
fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il
sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante,
possa prendersi e portar via.Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte
mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le
cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! Platone Fedro. Celebre oratore ateniese
vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano orazioni
giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è
probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una
fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. Noto
medico dell'epoca. Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il
proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue
ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4)
Pindaro, Isthmia. Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era
un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo
menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. I Coribanti erano i sacerdoti
della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza
orgiastica. Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. Il dialogo è immaginato
in piena estate, a mezzogiorno. Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di
Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle
battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la
fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. Letteralmente 'colle di Ares', era
un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato
dagli arconti usciti di carica. Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri
o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà
cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra
spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno,
Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il
potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo.
Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da
Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. Conosci te stesso è
appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. Tifone o Tifeo,
figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo
e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto
l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha
avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste.
Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale
Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho"
('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a
"tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa
uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella
traduzione, per creare paretimologie.Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei
fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre
ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una
locuzione simile ricorre in Omero, Iliade. Saffo è la famosa poetessa lirica di
Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi
soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di
essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti
di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu
autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi
frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel
passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se
avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua
d'oro della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto
secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era
forse una statua. Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a
sua volta ha offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento Snell-Maehler
(citato anche in Meno). Il testo greco gioca sull'assonanza tra ligús, dalla
voce melodiosa, e ligús, Ligure, con lambda maiuscolo. Questo gioco
paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri
erano amanti del canto. Socrate istituisce un nesso paretimologico tra
"èros" e "róme, forza. Il ditirambo, componimento lirico corale
associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui
il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non
ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. L'immagine è ricavata da un gioco fatto con
un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori,
divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che
risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora
significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima
pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone.
Ibico, frammnto, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui
restano un'ode e pochi frammenti. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel
sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena
di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia
(la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la
vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu
ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa,
rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del
discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli
aveva mosso. ACCADEMIA Platone Fedro A Delfi, in Beozia, c'era il più
famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua
sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus.
Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di
cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma,
in Campania. L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta
derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto
"oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris,” opinione, credenza, e accostato a "oionistike", ovvero
l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco
paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è
importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da
Lisia. È il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e
non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la
ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco
soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero
rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e
l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che
Platone teorizza nella Repubblica. Infatti nel Timeo si dice che anima
concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno
parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto
che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale
struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile
pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque
all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un
equilibrio. Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva
identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica
tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici
schiere sono probabilmente quelle olimpiche. L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo',
è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera
dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile,
esso è raggiungibile solo dell'anima. Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile',
in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica impersonifica
invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la
teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il
mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della
vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno
contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad
esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36)
Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros"
('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-,
radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di
"méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé"
('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la
tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i
poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è
un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente
coniato da "pterós,” alato, probabilmente suggerito da quei passi omerici
(Iliade) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli
uomini. È impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo
"Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso
con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di
Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE, bellissimo fanciullo frigio, in forma di
aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fa il coppiere degli dèi. Per il gioco
linguistico su "imeros", la nota 36. L'espressione significa che né
la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a
costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta
mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del
mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare,
allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare
l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle
persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. Ad Atene la frequenza dei
processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o
l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la
professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su
commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono
appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel
contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a
sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i
sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica,
significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile.
Figura storicamente indeterminata, Licurgo è, secondo la tradizione, il
legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi,
Solone attua, durante il suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che
prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo,
re di Persia, fu il promotore della prima guerra greco-persiana) Il mito che
segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora
dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte
dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico,
un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e
le Muse, non approvano) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75
seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che
gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce',
Urania 'la celeste'. ACCADEMIA Fedro Omero, Iliade) Per Spartano qui si
intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e
lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli
altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era
famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore
era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di
Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità
oratorie) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo
dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è
dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi
ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel
quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo
combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di
Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato
di retorica) Allusione ironica a Zenone di VELIA (si veda) e ai paradossi con i
quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e
movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga)
Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e
ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché
anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di
liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di
Lindo, uno dei sette saggi. Poeta e
sofista contemporaneo di Socrate. Tisia è maestro di Gorgia da LEONZIO (si
veda) e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. Prodico
di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di
Protagora e maestro di Socrate. Ippia di Elide, il celebre sofista da cui
prendono il titolo due dialoghi di Platone. Polo di Agrigento e Licimnio di
Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di
LEONZIO (si veda) di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di
retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. Protagora
di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età
periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato
soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per
empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima l'uomo è misura di
tutte le cose. Nulla ci rimane delle sue numerose opere. Adrasto, il re di Argo
che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle
Supplici come abile oratore; l'epiteto voce di miele gli è già riferito da
Tirteo (frammento, Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un
personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista
ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis
portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le
sue capacità oratorie. Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per
molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate.
Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà
ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). Ippocrate di
Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della
medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della
medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti
riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. Città sul delta del Nilo, sede di
un emporio commerciale greco. Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione,
che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era
scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura
un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero
supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero
sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. «La regione superiore» è l'alto corso del
Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello
stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente
casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la
risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». I giardini d’Adone sono recipienti in cui
d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano;
il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato
d’Afrodite. Allo stesso modo i giardini di scrittura, ovvero i discorsi
scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi
latori di verità sono affidati alla dimensione orale) Citazione poetica di
autore ignoto.Il retore Isocrate fondò ad Atene una scuola in competizione con
l'Accademia platonica; di lui restano orazioni. Isocrate è fautore di
un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in
vista di una spedizione contro i Persiani. Pan, figlio d’Ermes, era la
principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in
Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con
sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle
Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da
intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza. Keywords:
espressione, Sibley, Strawson, ‘Bounds of Sense” -- simbolo, rappresentazione,
immagine, noetico, estetico, natura, bello, forma, materia, arte, platone,
dialogue d’amore, bello, comunicazione, rappresentazione, forma. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Franzini” – The Swimming-Pool Library. Elio Franzini. Franzini.
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