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Friday, November 21, 2014

I SATURNALI DI MACROBIO

Speranza

Macrobio Teodosio

SATURNALI

Libro I

Prologo

Durante le feste dei Saturnali era consuetudine della nobiltà romana riunirsi in banchetti e svolgere conversazione culturali.

Così avvenne in casa di Vettio Agorio Pretestato.

Durante quelle tre giornate i convitati dedicarono la mattinata ai temi più impegnativi mentre l'ora dei pasti e le ore successive del pomeriggio e della sera furono destinate ad argomenti più leggeri e piacevoli.

Macrobio, nella premessa, paragona apertamente la sua opera con il "Simposio" di Platone e con le opere "conviviali" di Cicerone.

A giustificazione della cronologia non sempre coincidente dei propri personaggi porta l'esempio dei dialoghi platonici in cui gli interlocutori, nella realtà, non erano coetanei e, a volte, neanche contemporanei.

I personaggi Decio e Postumiano avranno la funzione di introdurre la narrazione, la funzione drammatica dei due personaggi corrisponde a quella di Apollodoro e di Aristodemo nel "Simposio" di Platone.

Postumiano racconterà le conversazioni delle tre giornate a Decio.

Decio chiede a Postumiano di raccontare il convito.

Postumiano dice che, impossibilitato da impegni forensi, aveva dovuto declinare l'invito ed era stato sostituito dall'oratore Eusebio che a sua volta aveva raccontato a Postumiano eventi e conversazioni.

Vigilia

16 dicembre, in casa di Vettio Agorio Pretestato a Roma.

Giungono in casa di Pretestato, verso la sera del giorno precedente, Aurelio Simmaco, Cecina Albino ed il governatore Servio.

Il padrone di casa li accoglie gentilmente e li invita ad unirsi alla discussione già in corso.

L'argomento è:

Quale ora deve essere considerata come inizio di una giornata?

Risponde Cecina citando Varrone che indicava la mezzanotte, mentre i greci misuravano il giorno da tramonto a tramonto ed i Babilonesi da alba ad alba, infine gli umbri da mezzogiorno a mezzogiorno.

Roma adotta la tesi di Varrone.

Il limite della mezzanotte era utilizzato per i rituali e per varie questioni giuridiche in cui avesse rilievo determinare con esattezza l'inizio e la fine di una giornata, ed esempio i tribuni della plebe, che non potevano allontanarsi da Roma per più di un giorno durante la carica, dovevano rientrare prima della mezzanotte.

Cecina conclude il suo discorso enumerando le parti di quello che veniva definito "giorno civile":
declino della mezzanotte, canto del gallo, silenzio, alba, mattino, mezzogiorno, pomeriggio, tramonto, sera o vespero, prima fiaccola notturna, ora di stare a letto, notte fonda o intempestiva.   Avieno chiede a Cecina spiegazione di alcune forme grammaticalmente insolite che egli ha usato nel suo discorso.

Cecina risponde con una lunga trattazione grammaticale riferendosi a vari autori antichi, fra cui Sallustio, Masurio Sabino, Verrio Flacco, Valerio Anziate, Asinio Pollione ed altri.

Avieno ribatte criticando Cecina per l'uso di parole desuete e sostiene la sua posizione citando il trattato sull'analogia di Giulio Cesare.

A sua volta Pretestato nota che anche Avieno ha usato una forma arcaica dicendo

"ci sono mille parole"

mille denique verborum talium est cum in ore piscae autoritatis crebro fuerint.

-- con il verbo "est" al singolare, e cita una serie di esempi in tal senso nella letteratura antica.

L'ora tarda induce gli interlocutori a separarsi, Pretestato li invita a pranzo per l'indomani e Simmaco propone di invitare anche Flaviano, Postumiano ed Eustatio.


Prima giornata
17 dicembre, in casa di Vettio Agorio Pretestato

Mattino

Avieno chiede a Pretestato (il cui nome deriva evidentemente dalla "pretesta") di raccontare l'origine di tale nome e come mai da altri indumenti come la toga o la trabeo non siano derivati nomi di persone.


Pretestato spiega: la pretesta, come altri usi etruschi, fu introdotta a Roma da Tullo Ostilio e fu inizialmente attributo dei magistrati fin quando Tarquinio Prisco ne donò una al figlio quattordicenne che in battaglia aveva ucciso un nemico.

Da allora prevalse l'uso di far indossare la pretesta ai ragazzi di condizione patrizia, in particolare era bordata da una striscia di porpora la pretesta dei figli di ex magistrati.

Ai tempi della seconda guerra punica anche i figli dei plebei, purché nati da matrimoni regolari, furono autorizzati ad indossare la pretesta.

Quanto all'appellativo "Pretestato", divenuto tipico della famiglia del personaggio, questi lo fa risalire ad un antenato di nome Papirio.

Da ragazzo Papirio aveva accompagnato il padre in Senato e gli era stato ordinato di non rivelare quanto aveva udito.

Poiché la madre lo interrogava insistentemente, Papirio aveva inventato una discussione del Senato per decidere se fosse meglio dare due mariti ad ogni moglie o due mogli ad ogni marito.

Scandalizzata la donna aveva informato le amiche organizzando una manifestazione davanti al Senato in giorno successivo.

Allora Papirio aveva svelato l'accaduto ed era stato premiato per la sua discrezione con l'appellativo di "pre-testato" che più o meno significa "saggio".

 Trovandosi in argomento, Pretestato racconta l'origine di altri nomi romani.

Gli Scipioni presero il nome da "Scipione" ("bastone") quando Cornelio funse da bastone per il padre omonimo che era cieco.

Messala prese il nome da Messina dopo aver partecipato alla conquista di quella città.

Giungono nuovi interlocutori: Evangelo, Disario ed Oro.

L'arrivo di Evangelo, scortese ed arrogante, non è molto gradito ma Pretestato si dimostra comunque ospitale.

Dopo qualche convenevole i nuovi convitati si uniscono alla compagnia e Pretestato, su richiesta di Oro, prende a dissertare sull'origine delle feste Saturnali.

 Fu antico re di Italia Giano (da cui Gianicolo) che regnò con Camese.


Giano, che alcuni descrivevano bifronte, ospitò Saturno imparando da lui i rudimenti dell'agricoltura. Per premiarlo del miglioramento apportato all'alimentazione del suo popolo, lo associò al regno. Giano fu anche il primo a coniare monete di rame, con queste onorò Saturno imprimendovi la sua immagine.

Dopo un periodo di regno felice e concorde, Saturno scomparve misteriosamente e fu divinizzato. In quell'occasione furono istituite le feste dei Saturnali.
Poiché ai tempi di Saturno non esisteva la schiavitù, durante i Saturnalia venivano concesse agli schiavi ampie libertà.
Secondo un'altra tradizione i Saturnalia erano stati istituiti dai compagni di Ercole rimasti in Italia.
Un'ulteriore tradizione riferita da Varrone faceva risalire i Saturnalia ai Pelasgi insediatisi in Italia dopo averne scacciato i Siculi.

In ogni caso le feste di Saturno risultavano molto antecedenti alla fondazione di Roma ed erano celebrate anche in Grecia, in particolare ad Atene con il nome di Feste Cronie.

 Il tempio di Saturno fu offerto da Tullo Ostilio dopo aver trionfato su Albani e Sabini, in quell'occasione si tennero i primi giochi saturnali. Tuttavia Varrone attribuiva la costruzione del tempio a Lucio Tarquinio. Gellio, invece, al Senato ed al tribuno militare Lucio Furio.
I Romani custodirono l'erario nel tempio di Saturno, forse perché ai tempi del mitico re non esistevano ladri. Figure di tritoni adornavano il frontale del tempio: le trombe dei tritoni rappresentavano la chiarezza con cui è nota la storia dei tempi posteriori a Saturno, le loro code di pesce immerse nel mnare rappresentavano i misteri che avvolgono i tempi precedenti a Saturno.
Sul mito di Saturno: egli nacque nel Cielo, evirò suo padre e dai genitali gettati in mare nacque Afrodite-Venere.
Il primordiale potere procreatore del cielo passò quindi, tramite l'azione di Saturno-Kronos (il tempo) ad Afrodite-Venere perché lo perpetuasse tramite gli accoppiamenti fra maschio e femmina.
La sua abitudine di divorare i propri figlio dimostrava come dal tempo tutte le cose vengano prima generate poi distrutte.

Giano, considerato come mitico re del Lazio, era stato il primo in Italia ad innalzare templi ed a fissare riti, da qui l'uso di invocarlo prima dei sacrifici. In questa forma umana lo si diceva bifronte come simbolo della sua conoscenza del passato e del futuro.
Come dio era a volte identificato con Diana e con Apollo, dei quali condivideva alcuni attributi come nume tutelare delle porte e delle strade.
Nel culto romano Giano era considerato divinità primordiale e quindi procreatore, iniziatore. Inoltre gli si tributavano gli appellativi di Patulcio e Clusivo con riferimento alle porte del suo tempio che restava aperto (patet) in tempo du guerra e veniva chiuso (clauditur) in tempo di pace.
Macrobio fa risalire questa usanza a una leggenda sulla guerra fra Romolo e Tazio: quando i Sabini stavano per irrompere in Roma dal tempio di Giano sarebbero uscite ondate impetuose di acqua bollente che avrebbero tenuto lontano gli assalitori.
Il diritto divino vietava di intraprendere guerre e di eseguire pene capitali durante i Saturnali. La festa, che in origine durava un giorno, era stata prolungata a tre giorni con il nuovo calendario introdotto da Giulio Cesare.
Si discorre dell'origine di alcune feste: il Lorintinale (20 dicembre, istituito da Anco Marzio in onore di Acca Larenzia, ex cortigiana poi ricca possidente che aveva lasciato i suoi beni al popolo romano).
Con varie argomentazioni Pretestato sostiene che anticamente i Saturnali si svolgevano il quattordicesimo giorno precedente alle calende di gennaio secondo il calendario di Numa, cioè il 17 dicembre, e che in quel giorno si festeggiavano sia Saturno sia la dea Opi, ritenuta sua moglie, antrambi divinità legate all'agricoltura, talvolta identificate con il Cielo e con la Terra.

Evangelo contesta due argomenti toccati da Pretestato nella sua esposizione: la libertà concessa agli schiavi durante i Saturnali e il carattere religioso dei Sigillari, feste immediatamente successive ai Saturnali.
Pretestato risponde citando vari episodi ed argomenti. L'episodio di uno schiavo frustato in pubblico dal suo padrone, nel circo, prima dell'inizio dello spettacolo suscitando l'ira di Giove, episodio citato anche da Tito Livio ma collocato circa due secoli prima, quindi Pretestato pronuncia una calorosa difesa della dignità degli schiavi contro i pregiudizi di Evangelo, e sostiene la sua posizione con alcuni esempi di schiavi leali verso padroni non arroganti, con esempi di schiavi arruolati nell'esercito in situazioni di emergenza e con quello delle schiave che nel 390 a.C. avevano aiutato i Romani a sconfiggere i Fidenati.
Approfittando della debolezza di Roma reduce dell'assedio dei Galli, il dittatore di aveva intimato al Senato di consegnargli tutte le matrone e le vergini romane. Le schiave, volontariamente, si erano sostituite alle loro padrone e, fatti ubriacare i Fidenati, avevano dato ai Romani il segnale di attaccare. Dopo la vittoria il Senato le aveva ricompensate con la libertà e l'episodio era ricordato con un sacrificio a Giunone Capitolina il 7 luglio di ogni anno (si confronti Plutarco, Camillo, 33).
Esempi di illustri filosofi di condizione servile: Fedone, discepolo di Socrate, Menippo, Pompilio schiavo di Teofrasto, Perseo schiavo di Zenone, Mis schiavo di Epicuro.
Anche Diogene cinico visse per un periodo in schivitù, e così Epitteto.
Quanto ai Sigillaria, feste in occasione delle quali si usava donare pupazzi ai bambini, Pretestato narra che l'uso risaliva ad Ercole che, giunto sul Tevere con la mandria di Gerione, gettò delle statuette nel fiume per commemorare i compagni perduti durante le sue imprese.

Ai tempi di Romolo l'anno iniziava con il mese di marzo e durava 304 giorni. Plutarco (Numa 18), parla invece di un anno di 360 giorni.
Che marzo fosse il primo mese nei tempi antichi era confermato da molte tradizioni, fra cui i riti di Anna Perenna, tipicamente riferiti all'inizio dell'anno.
Il secondo mese dell'antico calendario, aprile, prendeva nome dal greco Aphros (spuma) con riferimento ad Afrodite-Venere, madre di Enea.
Questa teoria, però, non era condivisa da Lucio Cincio e da Varrone che ritenevano l'istituzione del culto di Venere posteriore all'età romulea.
Per tali autori il nome di aprile deriverebbe dal concetto di "apertura" con riferimento alla fioritura primaverile.
Per alcuni, come Marco Fulvio Nobiliore, il nome del mese di Maggio sarebbe derivato da Majores (anziani) e quello del mese di Giugno da Juniores (giovani) in onore delle due classi di età indicate da Romolo nei suoi ordinamenti.
Per altri il nome Maggio deriva dalla dea Maia, madre di Mercurio. Altri autori, fra cui Cornelio Labeone, identificavano Maia con la Terra, altri ancora con Proserpina e Ecate. Per Varrone ed altri Maia fu figlia di Fauno, così pudica da non lasciarsi mai vedere dagli uomini, in alcune versioni inutilmente corteggiata dal padre.
Il nome di Giugno veniva derivato anche da Giunonio, nome dello stesso mese per Aricia e Preneste, quindi da Giunone. Altri attribuivano la parola a Giunio Bruto, primo console romano.
Luglio ebbe il nome da Giulio Cesare, nato in quel mese. In precedenza si era chiamato Quintile in quanto era il quinto mese nel calendario antico.
Il mese di Sestile si chiamò Agosto in onore di Augusto ed in memoria delle gesta da lui compiute in quel mese, fra le quali la conquista dell'Egitto.
I mesi da settembre a dicembre mantennero l'originaria denominazione numerale.
In conclusione il calendario di Romolo prevedeva un anno di 304 giorni, diviso in dieci mesi.

Per ovviare ai difetti del calendario di Romolo, Numa Pompilio istituì un anno di trecentocinquantaquattro giorni, diviso in dodici mesi. Dedicò il primo mese, Gennaio, al dio Giano, il secondo al dio Februo che sovrintende alle purificazioni.
Successivamente Numa aggiunse un giorno all'anno, nel mese di Gennaio. Il residuo errore del calendario rispetto al ciclo solare ed alle lunazioni venne in seguito corretto con l'inserimento di mesi intercalari ed altri provvedimenti.

La riforma completa e definitiva del calendario romano fu opera di Giulio Cesare. Prima di inaugurare il nuovo calendario romano Cesare aspettò parecchi giorni, in modo da ottenere la sincronia con l'anno solare, così l'ultimo anno precedente l'istutuzione del calendario giuliano durò 443 giorni.
L'anno istituito da Cesare durava 365 giorni e fu per compensare il quarto giorno di differenza rispetto all'anno solare che Cesare decretò che ogni quattro anni si contasse un giorno intercalare, dopo il sestultimo giorno di febbraio, che fu detto bisesto.
Per attuare la sua riforma Cesare aggiunse dieci giorni all'anno, inserendoli in alcuni mesi, sempre dopo le festività religiose, in modo da non alterare le ricorrenze di queste. Decretò inoltre che tutti i nuovi giorni venissero considerati "fasti", cioè adatti allo svolgimento delle attività giudiziarie.

Il convitato egiziano Oro osserva che il calendario giuliano coincide con precisione con quello in vigore in Egitto, interroga quindi Pretestato sull'uso di contare i giorni in base alla loro distanza dalle calende, none ed idi e sulla differenza fra giorni fasti e giorni nefasti.
La risposta di Pretestato è abbastanza complessa: ai tempi di Romolo si faceva iniziare il mese all'apparire della luna, il che comportava che alcuni mesi risultassero più lunghi, altri più corti. Per motivi religiosi si stabilì che ogni mese le idi cadessero il nono giorno a partire dalle none, ne derivò che in alcuni mesi le idi cadessero il 5, in altri il 7. Era il pontefice a fissare la ricorrenza delle none con un rito particolare in cui usava il vocabolo greco "calo" ("chiamo" dal quale derivò la parola "Calende". La parola "None" deriva appunto dall'indicare il nono giorno prima delle Idi.
L'origine della parola "Idi" è etrusca ("Itis") e significa "fiducia in Giove", in quanto Giove era considerato "autore della luce".
L'etimologia che Pretestato preferisce è quella che deriva dall'etrusco "Iduare" (dividere) in quanto il giorno delle idi divideva il mese in due parti.
Le idi erano sacre a Giove, le calende a Giunone.
Calende, none ed idi erano giorni non adatti alle nozze.

Numa Pompilio suddivise i giorni in festivi, feriali e interrotti. Nei giorni festivi si svolgevano riti e sacrifici, nei feriali le attività quotidiane, politiche, lavorative e belliche. I giorni interrotti erano considerati per alcune ore festivi e per il resto della giornata feriali.
Si avevano quattro tipi di feste pubbliche: fisse, mobili, comandate e per mercato.
Fisse: a date costanti iscritte nei fasti (Agonali, Carmentali, Lupercali).
Mobili: a date stabilite ogni anno dai magistrati o dai sacerdoti (Latine, Paganali, Compitali).
Comandate: le feste indette per volontà dei consoli o dei pretori.
Per mercato: i giorni in cui gli abitanti dei villaggi ed i contadini tengono mercato.
A queste feste pubbliche se ne aggiungevano alcune private delle singole Gentes ed alcune individuali.
Nei giorni festivi era vietato lavorare, con l'eccezione della cura di "ciò che sarebbe ucciso se venisse tralasciato". I trasgressori venivano multati.

Sono fasti i giorni in cui il pretore può pronunciare i termini rituali "do, dico, addico" (do, dico, aggiudico), cioè i giorni in cui si svolge l'attività giudiziaria. Si distingueva poi fra giorni comiziali, giorni di rinvio (a giudizio), giorni di scadenza, giorni di battaglia, con riferimento ai particolari aspetti della vita politica.
Tutti i giorni successivi alle festività erano considerati "neri" ed era vietato attaccare battaglia, arruolare truppe, celebrare matrimoni o sacrifici.
Sul fatto che i giorni di mercato fossero festivi gli autori erano discordi, così come sulla loro istituzione, da alcuni attribuita a Romolo, da altri a Servio Tullio.

Avieno chide a Pretestato di spiegare perché il sole venga venerato come Libero, come Apollo o come altre divinità.
La risposta di Pretestato chiama in causa la filosofia: se si considerano gli astri come regolatori ed annunciatori del destino umano è naturale che dalle varie caratteristiche del sole siano derivati miti relativi a vari aspetti del destino e della divinità.
Così Apollo rappresenta le proprietà divinatrici e curative del sole, Mercurio la funzione chiarificatrice del linguaggio.
Con molte citazioni, Pretestato parla di Apollo come dispensatore di malattie e di guarigioni; si riteneva infatti che il calore moderato del sole fosse benefico mentre l'eccesso di calore portasse la peste ed altre malattie.
I giochi apollinari, che si celebravano in estate, erano dedicati ad Apollo per propiziarlo nel periodo in cui il sole è più caldo. Furono istituiti nel 212 a.C. durante le guerre puniche.
La disanima prosegue spiegando l'origine etimologica dei vari appellativi di Apollo.
Il mito dell'uccisione del serpente da parte di Apollo rappresenta il dissiparsi delle nebbie primordiali operato dal sole.
Pretestato sostiene l'identificazione di Apollo con Libero, citando vari autori, fra i quali Varrone e Granio Flacco, ed alcuni casi di sovrapposizione dei culti tributati alle due divinità.
Se Apollo si identifica con il sole e con Libero, quindi, anche Libero si identifica con il sole: da qui un parallelo che a detta di Macrobio era tenuto presente in certe cerimonie sacre: Apollo rappresenta il sole visibile di giorno, Libero il sole assente di notte.
A sostegno di questa tesi vengono citati ancora vari autori latini e greci.

"Esculapio è la forza salutare che dalla sostanza del sole viene in soccorso all'anima ed al corpo dei mortali, Salute è invece l'effetto delle natura lunare da cui trae giovamento il corpo degli essere animati". Il Serpente, sempre presente nella raffigurazione di queste divinità, rappresenta, con la muta della pelle, il rinnovamento della guarigione.
Anche il mito di Eracle è connesso con il sole, egli "fornisce al genere umano il valore che lo innalza a somiglianza degli dei".
Macrobio riferisce un episodio non attestato in altre fonti: Terone, re della Spagna Citeriore, aveva tentato di conquistare il tempio di Ercole a Cadice ma l'impresa era falliti a causa dell'improvviso incendio delle vavi, provocato da raggi misteriosi che si ritennero provenire dal sole.
Proseguendo la rassegna delle divinità solari e lunari, è la volta degli egiziani Serapide ed Iside.

Anche il mito di Adone è connesso al sole ed il suo semestrale passare dalla dimora di Venere a quella di Proserpina rappresenta il cammino del sole attraverso lo Zodiaco.
Si riferiscono alla natura divina del sole tutti i segni dello Zodiaco: il leone rappresenta la sua potenza, l'ariete - la cui energia risiede nelle corna, attributo del di Ammone - compie un percorspo celeste simile a quello del sole, il toro è connesso alla religione solare tramite il culto egiziano del bue Api, i Gemelli - che nel mito vivono e muoiono alternatamente - rappresentano il quotidiano sorgere e tramontare del sole.
Il Cancro (granchio) rappresenta il movimento obbliquo del sole fra le costellazioni.
La vergine "che reca in mano una spiga rappresenta la potenza solare che ha cura dei frutti".
Lo scorpione (che comprende la bilancia) simboleggia con il suo torpore letargico nel periodo invernale e la sua aggressività estiva, il diverso vigore del sole durante le stagioni.
Il sagittario, che comprende il solstizio di inverno, è allegoria, con la sua forma ibrida degenerante verso il basso, del periodo "basso e ultimo" del ciclo stagionale.
Il capricorno, corrispondente al periodo in cui il sole passa dall'emisferio inferiore a quello superiore, imita il movimento della capra che, pascolando, tende ad andare verso l'alto.
L'acquario simboleggia il ciclo delle acque provocato dal calore del sole.
In fine i pesci rappresentano la potenza dell'astro che genera la vita anche negli abissi marini.

Dopo la digressione sullo Zodiaco, l'oratore riprende a parlare del sole.
Il sole che oscura gli altri astri ed illumina le cose più oscure è anche Nemesi che punisce la superbia.
Anche Pan, detto Inuo, è divinità solare portatrice di luce, nonché signore della materia.
Saturno-Kronos, signore del tempo, si identifica con il sole in quanto è il sole, con il suo moto, a scandire e misurare lo scorrere del tempo.

Lo stesso Zeus finisce per essere assimilato al sole (con opportune citazioni di Omero e Platone) ed il suo corteggio di divinità agli astri che seguono il sole nei suoi moti celesti.
Pretestato racconta di un tempio nella città di Eliopoli in Assiria (probabilmente Baalbek, ma Macrobio confonde la Siria con l'Assiria). In questo tempio si venerava una divinità importata dall'Egitto, poi identificata con Zeus. L'imperatore Traiano aveva consultato l'oracolo del tempio che aveva predetto correttamente la sua morte.

Pretestato ha finito di parlare e mentre tutti lo lodano per la memoria, la cultura, l'eloquenza Evangelo, provocatoriamente, denigra l'attendibilità di Virgilio e di Cicerone che Pretestato ha citato ripetutamente durante la sua esposizione.


 Le parole di Evangelo suscitano la generale indignazione. Confutato da Simmaco, Evangelo insiste a negare al poeta le qualità di filosofo e di oratore.
La discussione funge da pretesto per introdurre le opere di Virgilio e lo studio dei loro contenuti filosofici, retorici e religiosi.


 I convitati concordano di trattare i vari aspetti del sapere virgiliano: Vettio parlerà del diritto pontificale in Virgilio, Flaviano del diritto augurale, Eustatio dell'astronomia e degli aspetti filosofici dell'opera virgiliana, Rufio Albino e Cecina Albino parleranno della ricerca di Virgilio delle forme antiche.
Tutti concordano di affidare a Servio il compito di chiarire i passi oscuri.
Stabiliti gli argomenti e la sequenza degli interventi i convitati rinviano al giorno successivo la discussione. Un servitore li ha infatti avvertiti che ha sentito che la servitù aveva preparato la mensa dopo aver completato il proprio banchetto. Era infatti costume, durante i Saturnali, che i servi godessero di un banchetto in piena regola che si svolgeva prima di quello dei padroni.
Nel prendere posto a tavola Flaviano invita tutti a casa sua per il pranzo del giorno successivo.

Libro II


Prima giornata -

Pomeriggio

Dopo aver banchettato con moderazione i convitati riprendono la conversazione. Come è noto gli argomenti pomeridiani sono meno dottrinali di quelli del mattino. La conversazione inizia infatti con una considerazione di Avieno sulla sobrietà dei pasti tratta da versi di Virgilio.
Il pranzo appena consumato viene paragonato al Simposio platonico ai cui parteciparti Avieno dice di preferire i propri commensali. Tutto l'episodio costituisce il pretesto scenico per consentire a Simmaco di proporre un nuovo tema: le battute e le arguzie di personaggi famosi.
Furono noti per simili arguzie, fra gli altri, il commediografo Plauto, il famoso Cicerone e Marco Catone detto il Censore.

 Tutti accettano la proposta di Simmaco e la parola viene data per primo a Pretestato.
Pretestato racconta che Annibale, sconfitto, rifugiatosi presso Antioco III di Siria, a questi che gli mostrava la ricca eleganza dell'armamento delle sue truppe chiese "Credi che basterà per i Romani?", rispose "Certamente, anche se sono molto avidi".
Quindi a turno tutti i convitati raccontano facezie più o meno famose, molte delle quali di Cicerone o di Augusto.

 Gustosa una battuta riferita da Avieno, pronunciata da un provinciale ai danni di Augusto. Incuriosito perché il provinciale gli somigliava molto, Augusto lo fece convocare e gli chiese: "Dimmi, tua madre è mai stata a Roma?" e quello: "No, ma mio padre c'è venuto spesso".

Sera


Mentre si consuma il secondo pasto si discute ancora di autori antichi (Varrone, Platone, Aristotele) e delle loro opinioni sul vino e sui piaceri della tavola.



Libro III - Seconda giornata - Mattino

18 dicembre, in casa di Virio Nicomaco Flaviano


Le conversazioni di argomento virgiliano della seconda giornata sono lacunose nel testo tradito all'inizio di questo libro.
Si parla comunque di diritto pontificale e di costumanze religiose, basandosi su esempi di comportamento di Enea. Parla Pretestato, come era stato stabilito il giorno precedente.
Vengono citati vari passi dell'Eneide in cui si parla di purificazione tramite abluzione prima dello svolgimento dei riti e di precetti religiosi inerenti l'offerta di sacrifici.

 In particolare si approfondisce il concetto di toccare con le mani l'ara sacrificale come era previsto nei riti più antichi, stando a Varrone, e l'uso del termine vitula, canto di gioia, peana.
Il senso dell'esposizione consiste in linea generale nel dimostrare la grande proprietà di termini pontificali e la grande competenza nel diritto religioso posseduta da Virgilio.
Sempre a proposito della competenza in materia rituale di Virgilio si approfondisce l'analisi dell'uso che egli fa nelle sue opere dei termini sacro, profano, santo, religioso. Ne deriva questa speigazione: sacro è tutto ciò che si riferisce o appartiene agli dei, profano è tutto ciò che è estraneo al culto, cioè esterno al tempio (fanum), santo è ciò che pur non essendo di origine divina è puro ed incorrotto; il termine religione viene infatti fatto derivare da relinquere (abbandonare, isolare) per indicare la distanza che separa le cose religiose dagli interessi profani.

 Stante la premessa di cui sopra vengono ricordati i termini "sacri" usati in alcuni brani da Virgilio. In particolare si discute dei Penati trasportati in Italia da Enea che potrebbero essere gli stessi che Dardano aveva portato da Samotracia in Frigia prima della nascita di Troia.
I sacrifici nell'opera virgiliana, per esempio quello offerto da Entello dopo aver battuto Darete nel pugilato (giochi funebri per Anchise, Eneide 2, 702-717). Varie modalità e particolarità dei riti sacrificali.

 Quando Enea giunge a Delo non immola vittime, adeguandosi ai costumi locali; era infatti a Delo un altare di Apollo Genitore che Pitagora aveva venerato come "immacolato" perché non vi si svolgevano sacrifici cruenti.
Ercole è chiamato vittorioso nel poema virgiliano con riferimento ai due templi romani dedicati, appunto, a Ercole Vittorioso. Viene qui ricordata la gente dei Pinarii, custodi del tempo di Ercole del quale si diceva che avesse salvato l'Ara Massima da un incendio.
Dotto anche nelle scienze augurali, Virgilio non mancava di farvi riferimento nelle sue opere. Vengono citati esempi delle Bucoliche e dell'Eneide.
Interpretando opportunamente alcuni passi di Virgilio si scopre come la sua erudizione in materia religiosa arrivasse a tener conto di rare versioni in cui Venere era considerata non una donna ma un ermafrodito.

 Si passa quindi a discutere il nome di Camilla, l'eroina dell'Eneide.

Il nome significa "serva degli dei" come viene dimostrato con citazioni dei versi di altri autori antichi.


Commentando un passo dell'Eneide (2 - 351-352), si parla dell'antica usanza dei Romani di pronunciare particolari formule per chiamare fuori dalle città che stavano per conquistare gli dei protettori della città stessa. Per questo motivo i Romani tenevano segreto il nome del dio protettore di Roma ed il vero nome della città.

 Viene riportata la formula usata per l'evocazione degli dei fuori dalla città, la fonte di Macrobio è qui l'antiquario del secondo secolo d.C. Sammonico Sereno. Segue la formula della maledizione alla città ed ai suoi eserciti, che poteva essere recitata solo dai dittatori o dai generali.
Evangelo interviene interrompendo Pretestato e vuole negare la perizia di Virgilio in materia rituale. Cita perciò un passo dell'Eneide in cui veniva sacrificato un toro a Giove, contrariamente alla norma. Pretestato ribatte che l'errore è volontario, per giustificare il fatto che a quel sacrificio seguirono prodigi negativi.

Evangelo insiste con altri due esempi nel sostenere l'incompetenza di Virgilio, Pretestato confuta entrambi gli esempi con argomenti, in verità, un po' capziosi.

Evangelo insiste constatando la mensione dei Salii in un rito per Ercole e le fronde di pioppo sulle loro fronti. Evangelo sostiene che in tempi antichi i Salii erano sacerdoti del solo Marte e che nei sacrifici ad Ercole si usano le fronde di alloro e non di pioppo. Pretestato risponde che la scelta dei Salii dipende dalla dottrina di Virgilio in materia di riti arcaici e cita varie fonti antiche che identificavano Ercole con Marte. Quanto all'alloro, il suo uso sarebbe nato con il sorgere del boschetto sull'Aventino, evento molto posteriore al rito di Evandro di cui parla Virgilio.


A questo punto la discussione fra Evangelo e Pretestato si interrompe a causa di una lacuna.


Seconda giornata - Pomeriggio

Parla Cecina Albino, sul lusso dei Romani antichi. Si narrava che Quinto Ortensio Ortalo, il famoso oratore, fosse estremamente ricercato nel vestire e ostentasse volentieri un certo lusso. Fu il primo a servire carne di pavone nei banchetti ed innaffiava con il vino i platani della sua tenuta.
Quinto Cecilio Metello Pio offuscò la fama ricavata dai molti successi militari concedendosi i lussi più sfrenati.
Cecina Albino prosegue con vari esempi di personaggi illustri per dimostrare che anche in tempi antichi si dedicavano cure e mezzi notevoli alle "gioie delle mensa".
Rufio Albino interviene per appoggiare il discorso di Cecina citando altri esempi. Scipione Africano e Catone si scandalizzavano per il dilagare ai loro tempi della moda di imparare a danzare, a cantare e ad esibirsi in pubblico. Al contrario Cicerone non reputò scandaloso stringere amicizia con l'attore Roscio.

 Altra forma di lusso era costituita dal consumo di prodotti ittici raffinati. La moda era tanto diffusa da procurare ai consumatori di pesci pregiati soprannomi come Murena e Orata.
Ricche pescherie erano tenute dai cittadini più nobili e facoltosi.
Particolarmente pregiate erano le Murene provenienti dalla Sicilia.
Lo storione era rinomato già all'epoca della seconda guerra punica. Plauto lo lodava nella commedia Baccaria. Così Cicerone (De Fato) e così Plinio (N.H. 9.60).

 L'erudito Sammonico Sereno affermava che lo storione venina servito "a suon di flauto da camerieri inghirlandati".

 Molto rinomato era anche il pesce del Tevere.

 Ai tempi di Catone fu emanata una legge (Lex Orchia) tesa a limitare il lusso nei banchetti. Ventidue anni dopo la legge Fannia fissava la spesa massima per un banchetto. Seguì, diciotto anni dopo, la legge Didia che accentuava le limitazioni e le estendeva alle province. Seguì ancora la legge Licinia che ammetteva i banchetti solo in determinati giorni del mese ed indicava perfino cosa e quanto mangiare negli altri giorni.

 La legge Cornelia, emanata da Silla, impose un calmiere sui prezzi dei cibi.
Campioni del lusso furono Antonio e Cleopatra. Si raccontava che Cleopatra, per superare gli sperperi di Antonio, scommise di spendere in una sola cena almeno dieci milioni di sesterzi. Vinse la scommessa sciogliendo nell'aceto e trangugiando un'enorme perla che portava all'orecchio.


Seconda giornata - Sera

Viene servita una cena che fornisce ad uno dei convitati, Servio, l'occasione di parlare diffusamente di vari tipi di frutti, noci, pesche, fichi, olive, ecc. descrivendo l'etimologia dei loro nomi.



Terza giornata

19 dicembre -

In casa di Quinto Aurelio Simmaco


Si discute sugli artifici retorici di Virgilio.

 Vengono citati alcuni passi dell'Eneide e delle Georgiche particolarmente efficaci per esprimere situazioni di tensione, dolore o commozione.

 Precetti retorici per la commozione: le frasi devono suscitare sdegno se pronunciate da un accusatore, compassione se pronunziate da un accusato.

 Il discorso, soprattutto l'inizio, deve essere piuttosto concitato.

 Questi concetti vengono verificati nell'opera virgiliana tramite una serie di esempi (l'ira di Giunone, il dialogo fra Turno e Giuturna, ecc.).
Sulla commozione derivante dalla condizione dei personaggi, gli effettu ottenuti da Virgilio (infanzia, vecchiaia, rovina personale).
Sulla commozione derivante dalle causee della morte e delle sofferenze: vari esempi tratti dalle opere virgiliane.
Sulla commozione indotta tramite la forma retorica del "modo" (es. "uccise nascostamente") e della "materia" (es. "uccise con il veleno").
Altre forme retoriche per indurre compassione o commozione sono quelle "di relazione all'evento" (circa rem).
Il primo procedimento di questa forma è detto "a simili", se ne distinguono tre tipi: l'esempio, il paragone, l'immagine.

 Il secondo procedimento è detto "a minori".

Consiste nel paragonare qualcosa di per se grande definendo la minore di quelle che si vuole rappresentare (es. L'infelicità proverbiale di A è minore di quella di B).

Il terzo procedimento è detto "oltre la speranza".

Si suscita compassione partendo dalla delusione di una precedente speranza.

 Gli oratori chiamano poi omeopatia la commozione provocata da affinità di sentimento (per es. Didone paragona la propria sorte a quella di Enea in Eneide I,628).
Si ottiene ancora commozione rivolgendosi ad oggetti inanimati (es. "...e tu, ottima Terra, tieni stretto il ferro" - Eneide 12. 777-778).

 Viene quindi l'aporesis, cioè la domanda retorica dubitativa: "che fare? dove recarsi?"

 L'attestazione di quanto si è visto:

"Vedi che mostra le ferite ricevute dal figlio crudele" (Eneide 6 - 446);

 L'iperbole o esagerazione:

"avessi io dato la mia vita colpevole con ogni morte" (Eneide 10, 854);

 L'Ekphonesis o esclamazione e la figura contraria.

 L'Aposiopesis, cioè il tacere.

 L'Epanaphora o ripetizione dell'inizio della frase.

 L'Epitemisis cioè il rimprovero.

Libro V


Eusebio, che ha parlato nei paragrafi precedenti, ha completato la sua esposizione, ma Avieno gli chiede di confrontare l'arte oratoria di Virgilio con quella di Cicerone. Eusebio evita il difficile paragone portando il discorso sulle varie forme dell'arte oratoria.
Ci sono quattro tipi di eloquenza, dice: sovrabbondante come quello di Cicerone, coinciso come quello di Sallustio, scarno come quello di Frontone, fiorito come quello di Plinio il Giovane.
Quanto a Virgilio seppe inserire nelle sue opere esempi di tutti e quattro i tipi di eloquenza.
Evangelo, al quale è sempre affidato il ruolo di provocatore, afferma che Virgilio non conosceva a fondo la letteratura greca.
Per dimostrare il contrario Eustatio inizia una dissertazione in merito.
Tra i maggiori modelli di Virgilio furono, come è noto, Teocrito di Siracusa, Esiodo e, ovviamente, Omero.
Vengono dunque esaminate le principali analogia strrutturali fra l'Eneide e i poemi omerici. L'Eneide è paragonabile nella prima parte all'Odissea (il viaggio) e nella seconda all'Iliade (la guerra nel Lazio).
Come nell'Odissea la narrazione non segue un ordine cronologico ma parte da un punto intermedio e sfrutta un espediente narrativo per risalire all'inizio (Ulisse racconta le sue avventure ai Feaci, Enea le racconta a Didone).
L'Odissea è richiamata anche nel naufragio dell'eroe e nel soccorso di monarchi ospitali (Alcinoo e Didone), nella discesa agli inferi. L'Iliade è ricordata nella descrizione delle battaglie, nei cataloghi degli eserciti, nei giochi funebri (per Patroclo nell'Iliade, per Anchise nell'Eneide), nel duello finale (Achille-Ettore e Enea-Turno) ed in molti altri episodi.
Le analogie indicate sopra vengono dimostrate con numerose citazioni comparative.
Ora le comparazioni vengono scelte per dimostrare alcuni casi in cui lo stile di Virgilio supera quello di Omero o viceversa.
Virgilio imitò Omero anche nei "difetti", cioè in alcune costruzioni anomale del verso. Imitò anche il procedimento con cui Omero spesso inserisce nella narrazione eventi precedenti all'inizio della narrazione stessa, facendoli citare o raccontare dai personaggi.
Come Omero, Virgilio compone i cataloghi degli eserciti combattenti, ma a differenza di quello non elenca secondo un criterio geografico la loro provenienza.
Vengono elencate numerose imprecisioni dell'Eneide riferite a personaggi ed alle loro parentele, imprecisioni a noi note come probabili effetti della stesura non definitiva del poema.
Da Omero, Virgilio ereditò anche l'uso di inserire digressioni di argomento mitologico per interrompere la monotonia dei cataloghi, nonché l'uso di massime poi divenute famose.

 Una figura virgiliana assente in Omero è, invece, la Fortuna.

 In Omero Virgilio non trovò spunti per le causee della guerra e furono quindi invenzioni personali gli interventi di Giunone, il sogno di Turno, la furiosa follia di Amata, moglie di Latino.
Per la favola di Didone innamorata Virgilio si ispirò invece alla Medea delle Argonautiche di Apollonio Rodio, ma lo fece con tanta originalità ed abilità che la sua versione del tutto immaginaria della storia di Didone riscosse universale consenso.
Imitò anche Pindaro, per l'esattezza l'ode Pitica I, in una descrizione delle eruzioni dell'Etna (En. 3, 570-577). In generale Virgilio mostrò grande attenzione per la lingua greca di cui spesso imitò desinenze e costruzioni. Gli stessi nomi Bucoliche, Georgiche ed Eneide sono dei grecismi.
Il relatore passa ora ad esaminare una serie di riferimenti alla cultura greca presenti in Virgilio ma molto meno evidenti di quelli fin qui citati.
Nelle Georgiche (I, 7-9) Virgilio usa il termine Acheloo (fiume dell'Acarnania) per indicare genericamente l'acqua. Si riferisce ad un'antica usanza rituale e letteraria dei Greci attestata in Eforo, Didimo, Acusilao ed Euripide.
Nel VII libro dell'Eneide è scritto che gli Ernici usavano combattese con un piede calzato e l'altro nudo. Questa usanza, che viene correttamente attribuita agli Ernici ritenuti originari dell'Etolia, è attestata negli Etoli da Euripide nel Meleagro.
L'episodio del capello di Didone reciso da Iride in punto di morte è ripreso dall'Alcesti di Euripide.
Le erbe magiche con cui Didone cerca di lenire la propria passione amorosa richiamano un passo di Sofocle riguardante Medea.
In un passo dell'Eneide, Virgilio nomina il culto siciliano dei fratelli palici, figli della ninfa Talia e di Giove, erano stati paartoriti nel luogo sotterraneo dove Talia si era nascosta per eludere le gelosia di Giunone.

 In Sicilia il culto dei Palici era associato a due piccoli laghi di acqua sulfurea ai quali si attribuivano poteri magici e divinatori, i laghi Delli. Vengono citate varie fonti greche in proposito.

 Nel primo libro delle Georgiche, Virgilio parla del Monte Gargara, in Misia, e della città omonima ai piedi del monte stesso, come esempio di territorio proverbialmente fertile. Questa qualità del terreno della Misia è attestata da numerose fonti greche fra cui Omero ed Aristofane.

 Anche per termini molto comuni (coppa, boccale), Virgilio utilizza termini greci molto rari, reperibili in antichi autori come Asclepiade, Sofocle e Cratino.

 Nell'Eneide (II, 532-535), Virgilio parla di un'ancella di Diana di nome Opi, per i poeti greci (Alessandro Etolo) Opi era uno dei nomi della stessa Artemide.
Ad Euripide Virgilio doveva il concetto degli dei che abbandonano la città sconfitta.

Libro VI


Terminata la dissertazione di Eustatio sulle fonti greche di Virgilio, Rufio e Cecina vengono invitati a parlare di quelle romane antiche.

Rufio premette che le numerose citazioni non costituiscono plagio ma operazioni lecite di emulazione.

Inoltre Virgilio seppe ambientare le citazioni in un contesto che senz'altro le valorizza.

Segue un lungo elenco di versi di Virgilio comparati con quelli di Ennio, Lucrezio, Aulo Furio, Lucilio, Nevio, Catullo, Accio.

Rufio passa a puntualizzare come certi passi di Virgilio che si ritengono derivati da Omero siano in effetti citati per il tramite di autori latini.

Segue un altro elenco di citazioni del genere ancora da Ennio, Aulo Furio ed altri.

 La parola passa a Cecina Albino che disquisisce sulla ricercatezza di alcuni termini che Virgilio scelse ed inserì nei suoi versi, ancora citando poeti e scrittori precedenti come Lucilio, Cicerone, Sisenna.

 Prende a parlare Servio che tratta delle "figure sia di parole che di pensiero" originali ed innovative nell'opera virgiliana.

 Anche in questo caso segue un elenco di esempi.

Si tratta qui di costruzioni poetiche particolari, metafore, ecc. che non trovano origine o ispirazione in altri poeti latini o greci.


Servio risponde ad alcune domande di Avieno sui versi di Virgilio dove sembra che il poeta abbia usato termini inadeguati.

Ad esempio "indegno di lode" rivolto ad un criminale: nessuno, dice Servio, è così corrotto da non dire o non fare qualcosa di lodabile, la locuzione "indegno di lode", quindi, lungi dall'essere debole, si basa su un estremo.

 Forme ellittiche in Virgilio, esempi di eloquenza nella costruzione delle frasi, ecc.

Viene citata la frase "affrettati lentamente", tratta dall'epistolario di Augusto come esempio e paragone.

 Ancora prendendo spunto da un verso di Virgilio, si discute il significato del termine "vestibolo" che anticamente indicava un ampio spazio fronteggiante la casa che separava la casa stessa dalla strada.

L'appellativo bidenti delle pecore sacrificali in Virgilio viene spiegato da Avieno come corruzione di Bienni che indicava animali che avevano due anni di età.


Libro VII - Pomeriggio


Dopo il pasto si discute se sia corretto, in un simposio come quello che si sta svolgendo, discutere di filosofia. Eustatio sostiene che sia lecito solo quando la maggioranza dei convitati sia composta di persone esperte o almeno appassionate di filosofia. Anche in questo caso si dovrà evitare la trattazione di questione astruse e complesse, scegliendo argomenti più facili e utili.
Eustatio disquisisce di regole di conversazione: a molti è gradito di avere l'occasione di parlare delle materie nelle quali sono più esperte, di raccontare i propri successi e le proprie imprese. In genere può essere piacevole parlare di pericoli e disgrazie sopportate quando siano ormai superati, a meno che non si tratti di episodi infamanti. Agli anziani piace molto rievocare gli episodi della loro vita passata.

Eustatio parla delle varie forme di rimprovero, dell'ingiuria e dell'irrisione, dalle quali consiglia di astenersi nei conviti. Cita esempi tratti da Cicerone e da altri illustri personaggi.
Secondo la regola dell'opera per cui gli argomenti pomeridiani sono meno impegnativi di quelli del mattino, Pretestato propone di discutere di questioni e curiosità scientifiche approfittando della presenza di Disario che è medico.

Pretestato pone il primo quesito: se siano più digeribili i cibi semplici o quelli composti. Disario risponde che senz'altro i cibi semplici sono più salutari, come dimostrano anche gli animali. Segue una dettagliata descrizione delle varie fasi della digestione con la quale il medico spiega come cibi misti, il cui tempo di trasformazione è diverso, complichino lo svolgersi delle fasi fisiologiche della loro assimilazione.
Su provocazione di Evangelo, sempre polemico, Eustatio viene costretto a confutare la tesi di Disario, esercizio dialettico che egli sembra accettare solo per questioni di etichetta.

Eustatio contesta che gli animali si nutrino solo di cibi semplici, portando come esempio la varietà di erbe nei pascoli; contesta inoltre che la loro salute sia migliore di quella degli uomini, adducendo come prova il fatto che la vita degli animali è in genere più breve di quella umana. Infatti sostiene che se dall'alimentazione possono nascere disturbi e malattie, essi sono dovuti solo agli abusi e non alla varietà dei cibi.
Prende la parola Flaviano che introduce un nuovo argomento. Egli sostiene che il vino sia "freddo" e non "caldo" come ritenuto dai più. Nel corpo il vino si scalda assorbendo il calore dei visceri, ma all'esterno esso è un liquido "freddo". Flaviano chiede quindi a Disario perché gli effetti del vino siano minori nelle donne e molto più accentuati negli anziani. Il medico spiega il fenomeno con l'umidità del corpo, particolarmente alta nelle donne e particolarmente bassa nei vecchi. Tale umidità, "diluendo" il vino, ne mitiga gli effetti.
Simmaco ed Oro discutono sul "calore" del corpo femminile. Oro sostiene che il corpo della donna è più caldo di quello maschile a causa della maggiore quantità di sangue che viene infatti "spurgato" periodicamente. Simmaco, al contrario, sostiene che il corpo della donna sia freddo, quanto al ciclo mestruale lo attribuisce ad umori "malsani".
Simmaco passa quindi a chiedere al medico come mai il mosto non ubriachi quanto il vino. Disario risponde che ciò dipende dalla presenza di acqua in maniera maggiore e dal fatto che il sapore troppo dolce del mosto non induce a berne abbastanza per ubriacarsi.
Rufio Albino chiede a Disario perché il pasticcio di carne tritata detto isicium riesce difficile da digerire. Il medico spiega che la sua elaborazione rende questo cibo leggero e pieno d'aria, quindi difficilmente attaccabile dai processi digestivi. Analogamente le carni grasse e sostanzione del bue sono più digeribili di quelle di certi pesciolini. Cecina Albino chiede perché la senape ed il pepe possono irritare la pelle ma non lo stomaco. La risposta è che i succhi gastrici riescono a diluire e modificare le spezie prima che possano nuocere.

Evangelo chiede a Disario perché una persona che giri su se stessa viene colpita da vertigine: Disario risponde che il moto rotatorio causa un'agitazione degli "umori del capo".
Le parti molto secche (capelli, denti, ossa) e quelle molto umide (cervello e midollo) erano considerate insensibili al dolore, il mal di denti o il dolore provocato da una frattura dipende dalla carne circostante. Segue una descrizione relativamente esatta delle funzioni del cervello che governano i sensi e le principali attività vitali.
Con Eusebio il medico parla dell'età senile, attribuendo fenomeni come la canizie, la caduta dei capelli e l'insonnia all'alternarsi degli umori del corpo umano a causa dell'età.
Alla maggior quantità di "umori freddi" viene attribuita anche la voce acuta delle donne e degli eunuchi.
La domanda del timido Servio verte su quel fenomeno che fa arrossire le persone in imbarazzo ed impallidire quelle spaventate. Disario risponde che si tratta di movimenti del sangue provocati dalle varie situazioni emotive.

Avieno chiede perché il sale possa aiutare a conservare la carne.
Disario risponde che il fenomeno dipende dall proprietà del sale di disperdere l'umidità (in realtà il sale assorbe, non disperde l'umidità). Avieno chiede ancora perché il vino filtrato tenda più facilmente ad inacidire e Disario risponde che le proprietà della feccia, che viene rimossa filtrando, in qualche modo proteggono il vino.
La feccia affonda nel vino e negli altri liquidi e galleggia nel miele essendo di questa meno densa.
Il tempo migliora il vino privandolo di parte dell'umidità e, per lo stesso motivo, fa peggiorare il miele. Anche l'olio, perdendo di umidità, risulta migliorato.
Ancora l'accesso o la carenza di umidità nel corpo provoca la sete.
Si passa quindi a discutede del calore corporeo e dei danni che possono provocare cibi troppo caldi o troppo freddi, e di quelli che si subiscono bevendo neve sciolta.


I liquidi più fluidi sono quelli che gelano meno facilmente.
Oro chiede al medico perché la sete faccia soffrire più della fame. Ciò dipende, risponde Disario, dal fatto che il calore interno consumi per i primi i liquidi che, quindi, è più urgente reintegrare.
Si parla quindi del dito detto "medico" (l'anulare) e dell'uso di portarvi gli anelli. Viene esposta la teoria (presente anche in Gellio 10,10) che in questo dito termini un lungo nervo proveniente direttamente dal cuore. In tempi antichi gli anelli erano usati solo come sigilli per contrassegnare i documenti, si portavano alla mano destra ed erano usati solo da persone di condizione libera. Quando si formò l'usanza di ornare gli anelli con pietre preziose si prese a portarle a sinistra perché questa mano, muovendosi di meno, espone le pietre a rischi minori.
Oro chiede ancora perché l'acqua dolce lavi gli indumenti meglio di quella salata e Disario risponde che l'acqua dolce, essendo meno densa, penetra meglio fra le fibre. Dissente Eustatio che sostiene che l'acqua marina non è adatta a lavare non perché densa ma perché "grassa" a causa del grasso contenuto nel sale.

Eustatio chiede perché gli oggetti immersi nell'acqua sembrino più grandi. Disario da una spiegazione relativamente corretta del fenomeno della rifrazione. Sulla percezione visiva Disario sostiene la teoria dell'emanazione di un'energia visibile da parte degli oggetti, teoria risalente a Democrito ed Epicuro mentre Eustatio propone la teoria del "fuoco visivo", cioè di raggi emessi dagli occhi, già presente in Platone (Timeo, 45) che la riceveva da autori più antichi.
Disario, per sostenere la propria tesi, accusa la filosofia di occuparsi talvolta di dottrine che le sono estranee.

Lo stesso Platone aveva asserito assurdamente che mentre i cibi solidi raggiungono lo stomaco tramite l'esofago, i liquidi passando per la trachea vanno nei polmoni.

 Erasistrato, fisiologo greco, confutando Platone, aveva spiegato come cibi e bevande vadano nello stomaco tramite l'esofago mentre il fiato transita per la trachea. La valvola detta epiglottide provvede a separare opportunamente i due condotti.

Eustatio non demorde ed insiste con varii argomenti per sostenere le affermazioni di Platone.
Evangelo propone una questione canonica:

"E' nato prima l'uovo o la gallina?", evidentemente il suo intento è ironico ma Disario prende sul serio la questione.

Non potendo ovviamente fornire una risposta univoca, il medico espone gli argomenti pro e contro le due ipotesi.
A favore dell'uovo è la teoria che questo faccia parte dei principi primordiali creati dalla natura in origine.

E' invece favorevole alla precedenza del volatile chi invece sostiene che la natura crei solo cose in se perfette e compiute.

Evangelo propone un altro quesito.

Racconta di cinghiali cacciati di notte le cui carni si guastano più rapidamente di quelle di animali uccisi di giorno.

Disario risponde che il calore del sole, diminuendo l'umidità delle carni, ne rallenta la putrefazione.

Eustatio interviene per precisare meglio la spiegazione di Disario: egli sostiene che non tutto il calore sia originale e che la luce della luna abbia la particolare proprietà di infondere umidità. Da questa proprietà Eustatio deriva le usanze agricole connesse alle fasi lunari (l'epoca per seminare, quella per raccogliere, ecc.).

Il testo si interrompe per una lacuna.





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