Speranza
“IL GIASONE”
Cavalli
su libretto di Cicognini
tratto da
Valerio Flacco, “Gl’argonauti”.
prima: 5 gennaio, 1648, Teatro San Cassiano,
Venezia.
PERSONAGGI
GIASONE, capo degl’argonauti
ERCOLE, uno
degl’argonauti
BESSO, un argonauta, capitano della guardia di
Giasone
EGEO, re d’Atena
ORESTE, confidente della regina ISIFILE
DEMO,
schiavo
ISFILE, regina della isola di LEMNO
MEDEA, regina della isola di
COLCO
DELFA, nutrice di MEDEA.
ALINDA,
dama
DEI:
GIOVE
APOLLO
CUPIDO
APOLLO
(alla marina con veduta dell’isola di COLCO) Questo è il giorno prefisso alle
grandezze mie, oggi il tessalo eroe GIASONE il forte il vello rapirà d’ELLE e
di FRISSO, oggi della bellissima MEDEA, di mia divinità chiara nipote, sarà quel
trionfante, sarà quel glorioso, non più furtivo amante ma fortunato fortunato
sposo. Crescete pur, crescete su quest’ardenti rote lucidissimi abissi tutta in
COLCO vibrate la gran lampa febea e le nozze illustrate di regia semi-dea, di
regia semi-dea.
CUPIDO: Affrena pur affrena questi fulgor nascenti arcier
lucido e biondo troppo in van t’affatichi ad arricchir di nuovo lume il
mondo.
APOLLO: Anzi tutto vorrei oggi poter dai cardini celesti alla reggia
di COLCO il regno trasportar de’ sommi dèi per onorar di mia real nipote
gl’altissimi imenei.
CUPIDO: Imenei senza me si stabiliro in terra qual è
qual è quel dio così stolto e sfacciato ch’al gran nume d’amor vuol muover
guerra.
APOLLO: Il fato, amore, il fato così gradito ardore cosi felice nodo
ne i volumi immortali ha registrato soffrir convien per questa volta amore
dell'amato regnante sarà moglie MEDEA adorata adorante e in orrida tenzone dopo
fatiche gloriose e belle il guerriero GIASONE il vello acquisterà di FRISSO e
d’ELLE. CUPIDO: Segui. APOLLO: Termina qui l’alta sentenza. CUPIDO: Assai vi
manca. APOLLO: E che? CUPIDO: La mia licenza.
APOLLO: Fate largo ad amore
che de i fatal decreti è fatto il correttore.
CUPIDO: Scriva ciò che
gl’aggrada l’inesorabil nume ne i sempiterni annali che poi vedrassi al fin se
meglio tempri la penna il fato o pur amor li strali, nella reggia di LENNO io
con uno di questi il più pungente che dall'arco divino uscisse fuori d'ISIFILE
e GIASONE l'anime penetrai trafissi i cori questa questa è la coppia saettata da
me d'ISIFILE GIASON sarà ’l marito s’io son qual fui dell'universo il re.
APOLLO: Non può 'l fato giammai restar bugiardo. CUPIDO: Né schernito sarà
questo mio dardo.
APOLLO: Fanciullo tu deliri. CUPIDO: Apollo in van
t’aggiri. APOLLO: Chi col destin combatte. CUPIDO: Chi con amor contrasta.
APOLLO: Caderà. CUPIDO: Perirà. APOLLO: Cedi cedi, non pugnar. CUPIDO:
Voglio voglio trionfar. APOLLO: Non vincerai no no.
CUPIDO: Io vincerò sì
sì. APOLLO: E che no? CUPIDO: E che sì? APOLLO: Io scorro il ciel, tu le tue
forze adopra. CUPIDO: Io scendo a terra e mi preparo all'opra.
[CD-1 –
TRACK 4] ERCOLE, uno degl’argonauti al giardino con palazzetto: Dall’oriente
porge l’alba a i mortali il suo dorato lume e tra lascive piume avvilito GIASONE
ancor ancor non sorge come potrà costui disanimato dai notturni amplessi
animarsi a gl'assalti alle battaglie donne co’ i vostri vezzi che non potete voi
fabbricate ne i crini laberinti a gl’eroi solo solo una lacrimetta che da
magiche stelle esca di fuore fassi un EGEO cruccioso che sommerge l’ardir
l’alma e’l valore e ’l vento d'un sospiro esalato da labbri ingannatori da i
campi della gloria spiantò le palme e disseccò gl'allori.
BESSO, capitano
della guardia di Giasone: Sotto vario ascendente nasce l’uomo mortale e perciò
tra gl’umani evvi il pazzo il prudente il prodigo l'avaro e ’l liberale, ad
altri il vin diletta, un altro il gioco alletta altri brama la guerra altri la
pace altri è di MARTE, altri d'amor seguace.
ERCOLE: Il saggio puote dominar
le stelle. BESSO: Sì se la stella del saper gl’assiste.
ERCOLE: L’uso della
ragion comune è a tutti. BESSO: Ciascun d’oprar con la ragion presume.
ERCOLE: Chi segue il senso alla ragion diè bando. BESSO: Il senso è la
ragion di chi lo segue.
ERCOLE: Fu sempre il senso alla ragion nemico.
BESSO: Ma però vince chi di lor prevale. ERCOLE: Arbitro in questa pugna è 'l
voler nostro.
BESSO: GIASON è bello ha senza pel la guancia è bizzarro e
robusto di donar non si stanca onde per possederlo ogni dama le porte apre e
spalanca bellezza, gioventù oro occasione come può contro tanti fortissimi
guerrieri contrastar il voler o la ragione no no no non a fé resister non si può
credilo credilo a me.
ERCOLE: Sei troppo effemminato. BESSO: Di femmina son
nato. ERCOLE: Tu per femmina sei. BESSO: Rispondete per me o membri miei.
ERCOLE: O come ben seconda l’adulator del suo signor gl’errori ma su la
porta dell’albergo indegno pur riveder si lascia il notturno guerriero carco di
gioia e di cervel leggero.
[CD-1-TRACK 5] GIASONE [‘aria antica’
recorded by Beniamino Gigli]
-----------------I
----------------------------------------------------II
delizie contenti che
l’alma beate --------- in grembo a gl’amori fra dolci catene
fermate fermate
---------------------------- morir morir me conviene
su questo mio core deh
più --------------- dolcezza omicida a morte
deh piu non stillate le gioie
d’amore ---- a morte mi guida in braccio al mio
bene.
-----------RITORNELLO: delizie mie care fermatevi
qui
-------------------------------non so più bramare mi basta così.
-------------------------------non so più bramare mi basta
così.
-------------------------------delizie mie care fermatevi
qui
-------------------------------non so più bramare mi basta
così.
ERCOLE: E così ti prepare alla pugna, GIASONE, né temi a far
passaggio dall'amoroso al marziale agone.
GIASONE: ERCOLE, amore è un dio
che a noi mortali ed a i divin sovrasta se tu sapessi o dio di quai tesori
m'arricchì l'alma adorata mia diresti che gl’amori aprono il varco ch’alle
glorie invia. ERCOLE: Ti si scoperse ancor questa tua diva?
GIASONE: Ancor
non so chi sia, basta ch'è tutta mia.
ERCOLE: Se ancor non la vedesti e amor
per gl'occhi fere dimmi che amor son questi com'hai potuto amar senza
vedere.
GIASONE: ERCOLE credi a me non han bisogno della luce gl'amanti basta
per ben gioire riconoscer tra l'ombre il corpo amato e rassembra a chi gode un
vantaggioso patto toccar con gl'occhi e rimirar col tatto.
ERCOLE: O GIASONE
o GIASONE o gran figlio d'ESONE alto nipote a PELIA al re che la TESSAGLIA
affrena non ti bastava in LENNO di Troante la figlia alta regina ISIFILE
donzella di te gravida e madre aver già resa di gemella prole se ancora in COLCO
divenuto amante di beltà non veduta non davi un nuovo segno di troppo molle
effeminato ingegno quest’è il giorno prefisso oggi tu dèi affrontar assalir
gl’orridi mostri e per rapire il custodito vello del munito castello sbarrar le
porte e penetrar i chiostri dimmi come t'affidi snervato da i piaceri pensieroso
di donna di poter adoprar l'armi e 'l coraggio posa l'armi GIASON vesti la gonna
o per far da guerrier divien più saggio.
GIASONE: Dolor ahi non m'uccidere
così l'alma dal seno oh dio dovrò divider non so non so per me se meglio sia o
la vittoria o la caduta mia.
[CD – 1 – TRACK 6] MEDEA, regina di
COLCO, nella sala reale:
ARIA DI MEDEA:
I
Se dardo
pungente d’un guardo lucente
il sen mi ferì
se in gioia d’amore si
strugge il mio core
la notte ed il dì
se un volto divino quest’alma rubò
se amar è destino
resista chi può
se allor ch'io vi vidi,
begl'occhi omicidi, io persi il vigor, se v'amo e v'adoro, s'io manco, s'io moro
per nobile ardor, se amor il mio bene in ciel stabilì, amar mi conviene, è forza
così,
II
o labbri vezzosi, divini, amorosi, mia vita,
mio
cor, per voi l'alma mia beata s'invia in grembo a gl'amor
mia bocca adorante
per vostra beltà
baciata o baciante al polo se n’va.
Ma nella regia
sala ecco EGEO l’importuno che pur mi segue, ed io l'aborro e scaccio, partirò,
fuggirò l'usato. impaccio.
[CD – 1 – TRACK 7] EGEO, RE D’ATENA. Ferma,
MEDEA, deh, ferma le fuggitive piante, senti adorata mia senti senti adorata mia
l'ultime voci d'un disperato e moribondo amante. MEDEA: Se per l'ultima volta
dovrò sentirti EGEO o come volentier MEDEA t’ascolta. EGEO: O dio così consoli
un ch'adorasti già così l’alma m'involi mia tiranna beltà dimmi almen per pieta
o bell'idolo mio in che t'offesi mai in che t’offesi mai che t'ho fatt'io.
MEDEA: Egeo, sei re, sei grande, sei vezzoso, sei vago hai bellezze ammirande
adorato, adorante mi amasti io pur t'amai fido saldo e costante mi chiamasti tuo
bene per me ti vedo in pene né m'offendesti col pensier già mai tutt'è ver
tutt'è così ma se amor da me sparì s'io non posso amarti più che far poss'io che
ci faresti tu.
EGEO: Ch'io d'amor ti tenti o vaga teme in van tua ferità;
per sanar l'aspra mia piaga non aspiro a tua beltà per sottrarmi a gl'influssi
di mia stella nemica incrudelita sol ti supplico o bella che di tua mano a me
tronchi la vita.
MEDEA: Vuoi ch’io ti uccida. EGEO: Sì. MEDEA: Eccomi
pronta a consolarti a pieno or qual morte t'aggrada brami morir di ferro o di
veleno.
EGEO: Con questo acuto stile che prostrato a’ tuoi piedi e te
presento baldanzoso umile vieni vieni vieni bella pietosa aprimi ‘l petto ch’io
di tua man svenato di morte ancora adorerò adorero l'aspetto.
MEDEA: Sei pur
ben risoluto. EGEO: Il colpo attendo. MEDEA: Guarda non t’atterrire. EGEO: Un re
non teme. MEDEA: Egeo a te.
EGEO: E quando. MEDEA: Ecco il ferro. EGEO:
Ecco il core. MEDEA: Pronto a ferir. EGEO: Pronto a morir. MEDEA: E già la
destra a l'inclemenza adatto Egeo ti sveno. EGEO: Io moro. MEDEA: Ah tu sei
matto.
EGEO: Si parte mi deride, si parte e non mi uccide, dove, dove
fuggisti, dove, lasso, sparisti, empia spergiura, così la data fé di
trafiggermi il cor ahi si trascura, o promesse tradite o fera o empia o ria
dammi le mie ferrite dammi la morte mia perfida ancor non senti ancor non
torni.
[CD-1 TRACK 8] ORESTE, confidente di ISFILE, regina di LENNO:
Fiero l'amor l'alma tormenta, gran martir dà gelosia, l'appetito mi spaventa è
la sete acerba e ria, ma più duro e più pesante è servir a donna amante, ben si
scorge a ogni momento cangiar forma in ciel la luna, è legger la piuma e 'l
vento, sempre varia la fortuna, ma più lieve e più incostante è 'l cervel di
donna amante. Per ISIFILE bella a questa reggia esplorator me n' venni qui di
GIASON vorrei aver ragguaglio e penetrar novella; sospettoso è 'l paese, e chi
de' grandi ricercò gl'affari, la vita arrischia a perigliose imprese; son solo,
e forestiero mi palesa l'effigie e questo addobbo; pria che servir a donne
vorrei divenir guercio e zoppo e gobbo.
DEMO, schiavo d’EGEO: Son gobbo,
son Demo, son bello son bravo il mondo m'è schiavo, del diavol non temo, son
vago, grazioso, lascivo, amoroso; s'io ballo, s'io canto, s'io suono la lira,
ogni dama per me arde e so- so- so- so- arde e so- so- so. ORESTE: E sospira.
DEMO: So- so- so- so- so- so- DEMO E ORESTE: Arde e sospira.
ORESTE:
Linguaggio curioso. DEMO: Sei troppo, troppo, troppo frettoloso, e se farai del
mio parlar strapazzo, la mia forte bravura saprà spezzarti il ca-
ORESTE:
Oibò. DEMO: Il ca-po in queste mura. ORESTE: Così si tratta un forastiero in
Colco? DEMO: Che fo- fo- forastiero? Io dissi e dissi bene: a che si bada? Ti
sfido, metti man per quella spada. ORESTE: Un buffone è costui. T'acquieta,
amico, e non voler in corte...
DEMO: Che amico, che corte? Metti mano,
dich'io; or ch'io sono in furore vo' duellar, e vo' cavarti il core.
ORESTE:
Perdon ti chieggio, o caro, la vittoria ti cedo, mi ti dono per vinto e, se
troppo parlai, fu mia sciagura.
DEMO: Quel che fa la bravura. ORESTE: Pietà,
signor, pietà.
DEMO: Perché tu veda che, quanto forte, generoso io sono,
va', va', ch'io ti perdono. ORESTE: Atto da grande.
DEMO: Grande? Se mi
vedessi con l'inimico a fronte pormi in guardia guerriera, buttar foco
dagl'occhi, inferocir la cera, e col brando e con l'asta vibrar stoccate e
fulminar roversi, vedresti alzarmi a i piedi di morti e di feriti una ca- tasta,
e da' miei colpi fieri, che snervano, dispolpano e disossano, verresti a
confessare che MARTE è mio umilissimo scolare.
ORESTE: Così cred'io, ma il
ferro omai riponi. DEMO: Ecco il ripongo e ti dichiaro amico.
ORESTE: Or
dimmi in cortesia, conosci tu per sorte. DEMO: Ohimè. ORESTE: Che hai? DEMO:
Sento ch'il mio furore non è sfogato a pieno: lassati dar una ferita almeno.
ORESTE: Tu manchi di parola? DEMO: Lassati dare una stoccata sola. ORESTE:
Quest'è un tentarmi.
DEMO: Ah ferma, sento il sangue acquietato; parla,
ch'io son placato. ORESTE: Lodato il ciel. Conosci tu GIASONE?
DEMO: Che
pretendi da da, daranda, darandà, danda, da lui? ORESTE: Bramo saper se si
ritrova in COLCO.
DEMO: Chi ti manda? ORESTE: Il mio zelo a me fu sprone.
DEMO: Vuoi ch'io ti dica? ORESTE: Di'. DEMO: T'ho per spione.
ORESTE:
Quest'è troppo, tu menti. DEMO: Puh, uh tanto furore? ORESTE: Fuori ti rivedrò.
DEMO: Fermati, senti.
ORESTE: Che vorrai dir? DEMO: Troppo iracondo sei.
Parlai scherzando e perdonarmi déi.
ORESTE: Troppo indiscreto sei. Parlai
sul saldo e tu pentirti déi. DEMO: Mi pento. ORESTE: Ti perdono. DEMO: E di
GIASONE, giuro na na na-
ORESTE: Na na na n na. DEMO: Giuro narrar a te
gl'avvisi interi. Io di qua parto, e tu per altra via, e t'aspetto a far pace
all'o- all'o- lo- lo- lo- lo- lo- lo- ed aspetto a far pace all'o all'o lo lo
all'o- all'o. ORESTE: Ohimè, non più t'ho inteso verrò va' pur va' via. ORESTE:
Vo' seguitar costui, che, semplice e atterrito dalla mia bizzarria, il tutto mi
dirà. DEMO: All'ostaria.
[TRACK] DELFA, nutrice di MEDEA: Voli il
tempo se sa rotin gli anni fugaci al corso loro mi rubi pur l'età i fior dal
volto e dalle chiome l'oro se n' vada a tramontar la mia bellezza in mar
d'eterno oblio ma ch'io lassi d'amar no 'l farò, non a fé, non a fé, no 'l farò,
non io, non io, l'amor in gioventù è un prurito nascente e non ha possa, ma da i
quaranta in giù nel cor s'incarna e penetrò nell'ossa; potrà scemarmi ogn'or il
tempo avaro, la fierezza e 'l brio ma ch'io rineghi amor dica pur chi vuol dir
chi vuol dir dica pur non io, non io, ma nelle regie stanze già comparve GIASON,
volo a MEDEA, vieni, vieni signora, vieni figlia diletta, qui parlar le potrai,
il passo affretta.
MEDEA: O dio GIASON arriva e a me s'invia,
mio core, a che t'appigli, ah non cangiar disegno, tra i femminil consigli
l'improvviso è 'l più degno, Delfa, tu qui mi lassa né permetter ch'alcun
m'osservi o ascolti.
DELFA, nutrice: Obedisco, tu scaltra, per conseguir il
sospirato frutto, parla a tempo, opra assai, concludi il tutto.
[TRACK]
GIASONE: Regina in questo giorno giurai passar
nel mostruoso arringo e per uscir o glorioso o morto all’impresa fatal pronto mi
accingo
a te nume di COLCO, a te, maestosa MEDEA raccomando me stesso.
MEDEA: A me. GIASONE: A te. MEDEA: Non ti conosco.
GIASONE: In COLCO un
anno dimorai devoto t'inchinai mi vedesti, ti vidi ora un tuo servo umil così
deridi.
MEDEA: Del mio reale ospizio le violate mura di nobile donzella il
seppellito onore della perfidia tua vanti e trofei fan che la regia mente
d'averti conosciuto or si vergogna, son questi di Tessaglia i semidei, dimmi
donde ne vieni, nella notte trascorsa ove giacesti, nell'albergo vicino al mio
real giardino qual idolo adorasti, qual onor già rapisti, quai figli generasti,
dimmi, perfido di' i reali origlieri si rispettan così, tu guerriero, cavaliero,
non è vero, ah che s'io non punissi or ch'il fallo è palese così sfrontato
ardire sotto questo mio tetto verresti ancora un giorno e al mio vergineo letto
tenteresti apportar vergogna e scorno, questi delitti tuoi, empio, negar non
puoi; vivono in mio poter l'offesa donna e la ministra del comun diletto. Io
possiedo i gemelli che di te partorì la sventurata che, incolpandosi madre
d'illegittima prole, t'accuserà, ti dannerà per padre, dimmi, perfido, di', i
reali origlieri si rispettan così, tu guerriero, cavaliero, non è vero.
GIASONE: MEDEA. MEDEA: Che vorrai dir? GIASONE: Ascolta. MEDEA: Taci, a
morir ti disponi o, quant'io parlerò, legge ti fia: voglio che in questo loco ed
in quest'ora la goduta bellezza tu dichiari tua sposa. Or mi rispondi. GIASONE:
Sì tosto? MEDEA: E senza dubbio pria che tu parta a duellar co' i mostri;
perché, restando tu di vita sciolto, teco l'onor di lei saria sepolto. GIASONE:
È nobile la dama? MEDEA: Eguale a te. GIASONE: Io son figlio di re.
MEDEA:
Eguale a te. GIASONE: È bella? MEDEA: Non lo sai? GIASONE: Io non la vidi mai.
MEDEA: È bella, o per lo men bella si stima e se non è, dovei pensarci prima: tu
qui m'attendi, io con la sposa torno.
GIASONE: I miei secreti amori son
palesi a costei, ah troppo è vero che abbondan per le corti ingegni esperti che
vivon di referti; ma pur mi sortirà veder quella beltà che m'innamora, occhi,
non v'abbagliate, soffrite i raggi suoi, tosto vedrete il sol vicino a voi. Ma
già torna MEDEA, DELFA la segue.
MEDEA: GIASONE, è qui la sposa è qui colei
che teco a stabilir lieta se n' viene i promessi imenei, mira come festosa tutta
tutta d'amor arde e sfavilla la tua donna amorosa, tu ridi, ancor tu ridi, ancor
indugi ingrato mancatore a dar fé di marito a chi ti diede il suo virgineo
fiore, ingrato traditore.
GIASONE: Regina, intendo, intendo leggiadro scherzo
a fé, fa' ciò che vuoi, che son favori miei li scherzi tuoi. MEDEA: Che
scherzo, che favori?
GIASONE: Frena frena questi rigori, io ben tra l’ombre
nei giardini d'amor colsi le rose ma al tatto ed all'odore le riconobbi intatte
e rugiadose queste che a me presenti, rose sì strapazzate e sì cadenti nate fra
l'anticaglie e le rovine, non son quelle, o MEDEA, né io son uso a idolatrar
Gabrine. DELFA, di' tu che sai qual sia stata fra noi la modestia comune, di' se
d'amore io ti richiesi mai. DELFA: Son svanite per me queste fortune!
MEDEA: Eh dio ne gl'occhi miei fissa gli sguardi tuoi fissati in questo
volto e scorgerai colei che nel seno real ti tiene accolto. GIASONE, GIASONE,
anima mia quella donzella che languente d'amore a te fra l’ombre accomunò le
piume che di prole gemella genitrice divenne quella che alla tua fé fidò l'onore
quella che allor chiamasti tua deità tuo core quella a cui tu giurasti tra i
secreti diletti eternità d'affetti, GIASONE, anima, speme, idolo mio, la tua
moglie il tuo ben quella son io.
GIASONE: O mia bella, o MEDEA, mie delizie,
mia sposa, mia regina, mia dèa, ebro di gioie tante immortalato amante, consacro
al tuo gran nume pronto per obedirti la fé la destra il cor l'alma e gli spirti.
DUETTO di GIASONE e MEDEA.
MEDEA: O mio core. GIASONE: O
mio amore.
MEDEA: Ardi tu? GIASONE: S'io ardo, o dio?
MEDEA E GIASONE:
Ardi pur, o mio ben, che ardo anch'io.
MEDEA: Gioie più fortunate. GIASONE:
Delizie più bramate -
MEDEA:- non han di queste mie li dèi lassù. GIASONE:
non più dolcezze, amor, non piu non più.
DELFA, nutrice di MEDEA: Godi
godi, bella coppia che 'l diletto tra quei nodi si raddoppia leggiadra usanza e
nuova per ritrovar marito le fanciulle oggidì si danno a prova economia
graziosa, politici consigli, prima che far da sposa san far da madre ed allevar
i figli, troppo soavi i gusti amor promette e dà, in termin troppo angusti di
donzella l'onor racchiuso sta. Speri del mar spumante raccoglier l'onde in sen,
chi vuol tener a fren femmina amante. Se già febre d'amor le fibre m'infettò, un
leggiadro amator mi strinsi al seno ed ogni mal sanò così non feci ingiuria alla
mia castità, errai per sanità non per lussuria.
ISIFILE, REGINA
DELL’ISOLA DI LENNO (nella campagna con capanne su la foce d’Ibero, sognando):
ISIFILE infelice del bel trono di LENNO esule sventurata, regina senza regno,
d'illegittima prole madre prima che sposa, sposa solo di nome, moglie senza
marito, martire di fortuna, sconsolata vagante, priva d'ogni ristoro, serva,
seguace e amante di quel GIASON ch'a mio dispetto adoro: Non può tardar il mio
fedele ORESTE a ritornar di Colco per darmi, o dio, del mio tiranno amato o
funesti rapporti o avviso grato. S'ei non torna, mi moro; s'ei torna, ohimè,
s'inorridisce il core che d'infauste novelle lo teme apportatore così ad un
tempo istesso voglio, non voglio, bramo, pavento e sempre accoglio maggior
tormento, pena più ria e sol intendo al fine ch'è l'istesso martir l'anima mia.
MEDEA (nella stanza degli incanti): Dell'antro magico stridenti
cardini il varco apritemi e fra le tenebre del negro ospizio lassate me su l'ara
orribile del lago stigio i fochi splendino, e su ne mandino fumi che turbino la
luce al sol dall'abbruciate glebe gran monarca dell'ombre intento ascoltami, e
se i dardi d'amor già mai ti punsero adempi o re dei sotterranei popoli,
l'amoroso desio che 'l cor mi stimola e tutto AVERNO alla bell'opra uniscasi i
mostri formidabili del bel vello di Frisso sentinelle feroci infaticabili per
potenza d'abisso si rendono a GIASONE oggi domabili dall'arsa dite quante
portate serpi alla fronte furie venite e di Pluto gli imperii a me svelate già
questa verga io scoot già percoto il suol col piè orridi demoni spiriti d'EREBO
volate a me così indarno vi chiamo quai strepiti quai sibili non lascian
penetrar nel cieco baratro le mie voci terribili dalla sabbia di Cocito tutta
rabbia qua v'invito al mio soglio qua vi voglio a che si tarda più numi tartarei
su su su su.
CORO: Le mura si squarcino le pietre si spezzino le moli si
franghino vacillino cadano e tosto si penetri ove MEDEA si sta vacillino cadano
e tosto si penetri ove MEDEA sis sta.
MEDEA: Sì, sì, sì, vincerà il mio re, a
suo pro deità di la giù pugnerà; sì, sì, sì, vincerà, vincerà.
ISIFILE, REGINA DELL’ISOLA DI LENNO (alla campagna con capanne)
ORESTE ancor non giunge, e pur ogni momento accresce 'l mio tormento e 'l cor
mi punge, vanne, mia fida ancella, vanne al porto vicino, richiedi ogni nocchier
ch'ivi soggiorna se ancor da COLCO il fido ORESTE torna; io tra 'l solingo
orrore compagna resterò, compagna resetero, del mio dolore.
ALINDA, dama:
Per prova so che infonde Amor nell'alme aspro veleno, ma il duol che m'accorò
in breve io seppi licenziar dal seno, e con ingegno scaltro, s'io persi un
vago, mi spassai con l'altro chi s'invaghì d'un solo amor mai sta con gl'occhi
asciutti; l'apportator del dì s'ammira alfin perché risplende a tutti; chi d'un
sol si contenta pena assai, nulla gode e sempre stenta. Se vuol goder i frutti
d'un amor dolce e benigno, deve la donna aver di molle cera il cor, non di
macigno e quella è fra le prime che nella cera ogni sigillo imprime vado di
volo al porto le mie fide ragioni somministrano a te pace e conforto presto
s'imbianca un crine si volano le stagioni, e mancherànti al fine gl'anni di
gioventù, non i Giasoni.
ISIFILE: Alinda troppo vana seconda il genio e la
sua voglia insana, ohimè non posso più par che manchin li spirit manca l'anima
al seno vacilla il piede e a forza di stanchezza trabocco sul terreno.
ORESTE, confidente d’ISIFILE: Io pur ti tocco o lido io pur ti
bacio, o terra, né temo d'Austro infido orridi soffi o procellosa guerra onde vi
riverisco, venti, mi raccomando, NETTUNO, a dio, sta' sano, amici come prima, ma
però da lontano, in un regno incostante sovr'un suolo che ondeggia in casa che
galleggia mai più ORESTE poserà le piante ma temp'è ch'ad ISIFILE ritorni ne la
capanna al certo, ohimè che vedo distesa su quei mirti l'infelice mi sembra
priva di moto e di spirit, morta o viva che sia m'accosto alla sicura, morti di
questa razza non mi fanno paura, sento il core che batte, affannata respire e
tra l'amore e l'ira fantastica combatte.
ISIFILE: Crudel tu parti tu parti o
dio. ORESTE: Son qui da te cor mio.
ISIFILE: Da me. ORESTE: Da te. ISIFILE:
Mi lascerai? ORESTE: Mai mai.
ISIFILE: Se tu mi lasci io moro. ORESTE: Non
dubitar t’adoro.
ISIFILE: Accostati, se vuoi. ORESTE: Ma s'io ti bacio poi.
ISIFILE: O quanto goderei. ORESTE: Mi tenta pur costei.
ISIFILE: Tu
torni al mar crudele. ORESTE: Sì sì si si parton le vele.
ISIFILE: E l'onor
mio dov'è? ORESTE: Io non l'ebbi alla fé. ISIFILE: Sì, sì, statti con me.
ORESTE: Torna a quietarsi. O che gentil discorsi! Ciascuno i suoi desiri
scopre senza vergogna, né so se più deliri o chi veglia o chi sogna. Vaghi
labbri scoloriti, bella bocca pallidetta, che non sei larga né stretta, e
sognando ai baci inviti. M'allettasti, io non fui sordo or per te manco e
languisco s'io ti bacio troppo ardisco se no 'l fo son un balordo son risoluto
al fin, baciar la voglio chi lo potrà ridire il bacio orma non lassa, muor tra
le labbra e si risolve in nulla e già so che costei non è fanciulla; l'onor non
scemerà, ché se dianzi il chiedea è segno che non l'ha; e se mai si risà furto
così leggiadro, mi scuserò con dire che la comodità mi fece un ladro. Or va' ben
destro, Oreste, guarda non la svegliare: caro volto divino.
ISIFILE: Dove
parti o tiranno? ORESTE: Buona notte e buon anno.
ISIFILE: Sai pur sai pur
ch'io mi consumo. ORESTE: Il bacio è andato in fumo non mi vedi, o signora, non
mi conosci più?
ISIFILE: Oreste sei pur tu, perché non mi svegliasti?
ORESTE: Tu perché ti destasti?
ISIFILE: Dimmi che fa GIASON, è vivo o
morto, vuol ch'io l'attenda o parta? Risponde a bocca o in carta? Mi conserva la
fé? O si scordò di me? Mi disprezza o mi adora, vuol ch'io viva o ch'io
mora.
ORESTE: Tanti interrogatorii, per risponder a tutti ci vorrebbe una
mandra di dottori, poche parole, e buone, datti pace, o signora: più non t'ama
GIASONE.
ORESTE: GIASON non tiene audienza, parlai con un tal Demo, indi con
Besso a Giason confidente e a me cugino, che impietosito del tuo duro stato
così mi disse appunto, a pena a Colco giunto, di beltà non veduta, sol fra
l'ombre goduta, GIASON divenne amante; fatto d'amor guerriero tra i piacer
s'abbandona, del proprio onor non cura, pensa se a quel d'altrui volge il
pensiero.
ISIFILE: Non hai di più da dirmi.
ORESTE: E ti par poco, or
odi: dagli argonauti fieri stimolato GIASONE stabilì questo giorno per la fatal
tenzone, e s'ei conquista la dorata pelle, per andarne a CORINTO dovrà per
questa foce fra poch'ore passar d'ARGO la nave; parlar tu li potrai qui forse
avanti sera, seco ti sfogherai, forse, chi sa, spera, signora, spera.
ISIFILE: E che sperar poss'io se dentro a questo seno l'anima o dio vien
meno se per tante ferite son li spirti abbattutii le potenze smarrite, speranze
fuggite,
sparite da me il cor ch'è già morto del vostro conforto capace non
è ma speranza fuggite sparite da me il cor ch’e gia morto del vostro conforto
capace non e, se pur qua giungesse il perfido incostante, chi sa che rimirando
il mio real sembiante dalla pietà commosso, dalla giustizia vinto, non procuri
l'emenda, non ritorni in sé stesso e a me si renda, o speranze infelici ancor mi
lusingate ancora ancora spero e son sì disperata che insin potermi disperar
dispero mostruosi flagelli portentosi martiri miracolosi affanni s’inventano a'
miei danni giù ne i regni di Dite, speranze fuggite sparite da me il cor ch'è
già morto del vostro conforto capace non è speranza fuggite spartie da me il cor
ch’e gia morto del Vostro conforto capace no e.
MEDEA (nel recinto del
castello del vello d’oro). Ecco il fatal castello; qui ti consegno l'incantato
anello in cui stassi ristretto il guerriero folletto. Sia dell'aurato cerchio la
man sinistra adorna; resta, affronta, combatti, uccidi, atterra, vinci, trionfa,
e a questo se n' ritorna. Ti lasso.
DUETTO DI GIASONE E
MEDEA
GIASONE: Mi lassi. MEDEA: Mia vita. GIASONE: Gradita. MEDEA: Mio
amor ma resta con te quest'alma e questo cor. GIASONE: Mio amor ma parte con te
questo spirto e questo cor.
GIASONE: Per qual nuovo vigore sembra al
cor questo petto troppo angusto ricetto, qual ardir, qual valore per le fibre mi
scorre queste nuove potenze da MEDEA riconosco all'armi, all'armi gl'argonauti
guerrieri il senato di COLCO a queste mura intorno della fiera tenzon gl'esiti
attende, all'impresa m'accingo e il nome di MEDEA per nume invoco o dell'orrido
cerchio del fatal laberinto mostri, belve e custodi, del tessalo GIASON le voci
udite: queste ferrate porte al mio passaggio obedienti aprite o ch'io le sbarro
e vi disfido a morte fuori, fuori, al cimento, vostri orrori non pavento (S'apre
la porta e comparisce il toro).
La lotta di Giasone
– Salvator Rosa – Metropolitan Museum of New York.
Ma già s'apre e
spalanca il rugginoso ostello già sbuffa e su le soglie orgoglioso cornuto
percuote il piè ferrato e mi sfida a duello stiasi la spada al fianco, temp'è
d'oprar ardir, forza e destrezza. Mi contende l'ingresso, fuori s'avanza e
nell'acute corna della vittoria sua ripon la speme tanto m'agiterò, tanto ch'io
vaglia, sì, già l'afferro e fuori della dura cervice già le spianto, le svello
ma qual per entro al tenebroso chiostro appare o drago o mostro nel tuo nome, o
MEDEA, prendo il posto nemico di ferro armo la destra ed a più fiere guerre
tutto ardir, tutto ardore, nell'oscuro serraglio già mi avvento mi scaglio.
MEDEA: Sei ferito, mio ben.
GIASONE: No, vita mia, sotto gli
auspici tuoi i mostri estinsi, mi fei signor dell'aureo vello, e vinsi.
ERCOLE: GIASON, vincesti, il vedo, godo del tuo trionfo, ma già solleva il
popolar tumulto contro di te un invidioso grido: non è tempo d'indugio, al lido,
al lido.
GIASONE: Vicino è 'l loco, andiamo, questa sanguinea spada al mio
passaggio affrancherà la strada. Medea?
DUETTO DI GIASONE E
MEDEA:
MEDEA: GIASONE. GIASONE: Io parto. MEDEA: E dove. GIASONE: A
Corinto. MEDEA: Ti seguo. GIASONE: E i nostri figli.
MEDEA: Son custoditi
a pieno. GIASONE: Che dirà 'l genitor. MEDEA: Son col marito. GIASONE: La
patria. MEDEA: Non vi penso. GIASONE: Il regno, MEDEA: Non lo curo. GIASONE:
Vassalli? MEDEA: Non li apprezzo. GIASONE: O mio tesoro. MEDEA: E se non
vengo, io moro. GIASONE: Vieni e vivi, mia vita. MEDEA: O felice partita.
GIASONE: Cara fuga soave. MEDEA E GIASONE: Alla nave.
DEMO, schiavo di
EGEO, re d’Atene: Alla nave, alla nave? MEDEA E GIASON s'abbracciano? E per gir
a Corinto si partono, si fu- ggono, s'imbarcano? O sventurato EGEO, povero mio
signor, misero re, chi me l'insegna, ohimè, dov'è, dov'è? Volo di qua: no;
meglio è di là; ma fo- rse sì, vado di qua; ma se? Di qua lo trovo a fé. Ohimè
di qua, di là, di là, di qua, io non ne posso più; fra 'l dubbio e fra 'l
tormento sudato mi riposo e mi fo vento. Con arti e con lusinghe, donne, se vi
pensate di farmi innamorar, voi v'ingannate voi v'ingannate a fé, queste
bellezze mie voglio per me, se ben penare, languire, crepare, morire io vi vedrò
mai m'innamorerò no no no no no no non lo sperate a fé, queste bellezze mie
voglio per me. Con vostri finti vezzi, donne, se tenterete d'incatenarmi il cor,
non lo credete. Non lo credete già: ho fatto voto al ciel di castità. Se ben
penare, languire, crepare, morire io vi vedrò, io mai vi crederò no no no no no
no non lo sperate già: ho fatto voto al ciel di castita, o, o, sto ben così
EGEO, EGEO, EGEO vuoi gl'avvisi son qui. EGEO, re d’Atene: Mi chiami. DEMO: O,
signor sì, strane nuove, signore, fughe assassinamenti, arme e rumore. EGEO: Di'
tosto, chi fuggì? DEMO: Medea co con. EGEO: Che? DEMO:MEDEA. EGEO: Segui,
segui. DEMO: Medea co- con- EGEO: O dio, con chi? DEMO: Con GIASON si fuggì.
EGEO: Ohimè, ohimè. DEMO: E con fuga soave van gridando abbracciati: Alla nave,
alla nave. EGEO: E verso dove andranno? DEMO: S'imbarcarono per Co- Co- Co- per
Co- Co- Co- EGEO: Per Coimbra? DEMO: No, per Co- Co- Co- Co- EGEO: Per Coralto?
DEMO: Oibò, per Co Co Co Co. EGEO: Per Cosandro? DEMO: Né meno, per Co- Co-
EGEO: Per Corinto? DEMO: Ah ah o bene, o bene, mi cavasti di pene. EGEO: Or
ecco la cagione perché MEDEA m'aborre: ama GIASONE, o dio, son morto, tu, segui
i miei passi e in picciola barchetta seguiamo i fuggitivi, alto decreto eterno
vuol ch'io segua MEDEA sin nell'inferno. DEMO: All'inferno, a fé non vo, io dal
foco ognor m'arretro, se da lungi io lo vedrò, io ti pianto alla po-rta e torno
indietro.
GIOVE (nelle grotte d’Eolo): La regina di Lenno, gran
pronipote mia, dal tessalo Giasone nella fé, nell'onor, oggi è tradita; da quel
GIASON che temerario ardio con potenze d'abisso di Colco entro i sacrari al
mio gran nume sacre le vittime rapir, spogliar li altari. Questi del CASPIO mar
solca per l'onde, e dell'aurato vello ornato e cinto spera trionfator gire a
CORINTO or tu dai claustri tremendi ed orridi impera a gl'austri che
rapidissimi per l'onde caspie spirando turbini volino, fremino in questo dì,
sin che precipiti, sin che sommergasi chi tanto ardì.
VENTI: Arditi e fieri
tumidi, alteri eccone o re.
GIOVE E CUPIDO – affresco Loggia
della Fornerina – Raffaello Sanzio
CUPIDO: Su questo suolo frenate
il volo, fermate il piè. GIOVE, Eolo, anch'io son da GIASONE offeso, anch'io
nutrisco spirti per vendicar l'affronto mio, vogliam punire il reo, vogliam
mortificar l'atroci voglie, sì, sì: diamoli moglie. Sapete chi, ISIFILE e sia
questa pena per lui più forte che l'orgoglio del mar, naufragio e morte.
---- END OF DVD – 1----
--- BEGIN DVD –2 ----
(CD 2
--TRACK 1) ORESTE, confidente d’ISFILE (nel porto di mare diroccato. Fortuna di
mare) Per ritrovar suo onore, benché s'oscuri il cielo e 'l mar s'adiri, ha
stabilito di varcar a Colco l'agitata regina. Giura svenar Giasone, e del suo
sangue tinger questa marina, naviganti, nocchieri, un vassello per COLCO, ah non
udite,
ALINDA, dama: In van in van t'affanni a ricercar l'imbarco. ISIFILE
dolente più dell'usato col destin s'adira s'affanna si sconforta tal or quasi
delira poi torna in sé, ma la diresti morta. ORESTE: È mal antico, che pietà.
ALINDA: Amore, onore, lontananza e gelosia sono i quattro elementi che producon
tal or morte o pazzia.
DUETTO di ORESTE ed ALINDA:
ORESTE:
Sai ch'io t'amo, Alinda a fé ma non ti creder già ch'io deliri per te sai ch'io
t'amo Alinda a fé.
ALINDA: Sai che io t'amo e t'amerò, ma se mi lasci un dì
io non impazzirò sai che io t'amo e t'amerò.
ALINDA E ORESTE: Il tuo bello
adorer sempre al fianco ti starò ma ch'io per te vaneggi, oh questo no.
ALINDA: Quest'è il vero piacer che sbandì l'affanno e 'l duol si goda così
impazzi chi vuol.
ORESTE: Quest'è il vero goder che sbandì l'affanno e 'l
duol si goda così, impazzi chi vuol.
DEMO: Soccorso, soccorso, aiuto,
e là: io moro, ohimè, pietà. ORESTE: Qual voce verso il lido mi ferisce l'udito.
DEMO: O onde scelerate, così m'assassinate?
ORESTE: Rinforzano le strida; ma
già comparve un nuotatore a terra. DEMO: Ohimè son morto, ohimè, me- me-
meschino. ORESTE: E chi sei tu?
DEMO: No 'l vedi? Son un morto che tremo,
un avanzo de i pesci, ombra di Demo. ORESTE: È Demo a fé. Non mi conosci. DEMO:
No. ORESTE: Apri ben gl'occhi. DEMO: E come, s'io non gl'ho? Un tonno, uno
storione gli mangiaron poc'anzi a colazione; ma sta- stacco le ciglia e vedo, e
vedo quest'aria e queste ville: intatte ho le pupille. Oreste? Oreste mio? dove
ti veggio. ORESTE: Ed io come ti trovo. DEMO:In stato tal che star non posso
peggio. ORESTE: Come giungesti qua?
DEMO: Il re d'Atene, il mio padrone
Egeo,-che sia pur maledetto- per seguir d'Argo la famosa nave, in picciolo
legnetto meco si pose a' suoi deliri intento, il mar, la pioggia, la fo- fo-
fo- for- ORESTE: E quando mai. DEMO: La fortuna e 'l vento al fondo or mi
mandava, ed or insino al ciel mi sol- mi sol- mi sol- mi sol- mi sol. ORESTE:
Fa, re. DEMO: Mi sol- mi sol. ORESTE: Fa, re, mi, fa. DEMO: Mi sol- mi sol.
ORESTE: O che musica brava. DEMO: Ed ora insino al ciel mi sollevava. Io mi
ridussi al fine inzuppato nell'acque senza remo o timone; indi, come al ciel
piacque, urtò l'angusta barca in un scoglione: si roppe, si spezzò, EGEO per
l'onde andò, s'affondò, s'an- s'an- s'an. ORESTE: S’annegò. DEMO: S’an s'an
s'an s'an. ORESTE E DEMO: S'annegò. ORESTE: E tu se così fai, ne gl'intoppi del
dir t'annegherai. DEMO: Io dall'onde sbattuto, dopo aver là be là be là be là
be. ORESTE: La bella traditora. DEMO: Che m'ha rubato il cor col guardo mi
innamora e mi fa star di fuor. ORESTE: La bella traditora. DEMO: Dopo aver là
bevuto lo spirito nel mar lasciai disciolto, poscia su queste arene il cadavere
mio giunse insepolto. ORESTE: Dunque morto tu sei. DEMO: Morto son io, anzi ti
prego, amico, a darmi sepoltura, e su quella intagliar questa scrittura,
piangete, uomini e donne, l'ossa di DEMO questa tomba asconde, era buffone, pur
al fondo andonne nacque delfino e lo sommerser l'onde.ORESTE: Gentil umor; sarai
sepolto; or dimmi: partì la nave d'ARGO. DEMO: Partì con la con la malora e
GIASON seco. ORESTE: Già vicina si scopre e l'impeto de i venti qua la spinge a
gran forza già questo porto imbocca già vi giunge lo tocca; del sospirato
arrivo a ISIFILE me n' volo a dar novelle tu meco vieni e a ristorar tuoi danni
ti darò foco e panni. DEMO: In eterno obligato sono a tanta pieta, sentimi il
polso, già m'ha la febbre assaltato. ORESTE: Hanno la febbre i morti. DEMO: Son
un morto ammalato, ohimè, ohimè. ORESTE: Che hai che fu, che è. DEMO: Che
spavento, che pena. ORESTE: E che, e che. DEMO: Sento guizzarmi in pancia una
balena.
DUETTO DI GIASONE E MEDEA, sbarcando dalla nave d’Argo.
GIASONE: Scendi, scendi, scendi, scendi, o bella, vieni vieni al porto.
MEDEA: Cara stella qua n'ha scorto.
GIASONE: Non è molestia l'ira del
mar. MEDEA: Fiera tempesta fiera tempesta placida appar.
ERCOLE:
Giason, di tue vittorie di eternità nel tempio già vedo registrate alte memorie;
ma vorrei, con tua pace, vederti trionfar maschio soldato, non sempre
effeminato. GIASONE: Qual or. MEDEA: Taci mia vita, ERCOLE s'è scordato che
d'amor le passioni fan gli Ercoli filar, non i Giasoni. ERCOLE: Rimanete felici,
parto a trovar albergo, andiamo, amici.
ORESTE, confidente
d’ISIFILE: Isifile, signor, quella che in Lenno. GIASONE: Ohimè. ORESTE: Tu ben
m'intendi. Ti ricerca e prega che tu l'ascolti e qua s'invia. GIASONE: Ho
inteso; sì, sì, ci rivedremo, Oreste, addio. Andiam, mia vita. MEDEA: Altro non
rispondi a costui? GIASONE: Che strano incontro. Basta così; partiam ti prego.
ORESTE: Ah sire, sentila per pietà. GIASONE: Sì, sì, la sentirò; partiam,
regina. MEDEA: Gelosia, non m'uccidere. Giasone se neghi d'ascoltar dama che
prega, certo sarai di scortesia notato: sentila. GIASONE: Non rileva. MEDEA:
Almen per non far torto al messaggero accorto. Torna alla tua signora e dilli
pur che qui Giason l'attende. ORESTE: Vado, signore? GIASONE: Obedisci.
ORESTE: Volo. GIASONE: Come sei curiosa!
MEDEA: Eh dio, son morta. Deh
dimmi: chi è costei che così ardita i messagger t'invia. GIASONE: Convien
prender partito e una matta leggiadria che nel passare a COLCO in Lenno io vidi,
questa ovunque dimora, linguacciuta, arrogante, -come vedesti- i passeggeri
affronta per dar pastura all'umor suo peccante.
MEDEA: Qual sorte di follia
li stemperò l'ingegno. GIASONE: Ascolta e ridi, vigilante procura d'ogni donna
che giunga a questi lidi intender i costumi ed i successi; su quei fissa la
mente, machina e crede al fine che gl'accidenti altrui, o buoni o rei, siano
incontrati a lei, e così forte imprime l'altrui passioni entro la propria idea
ch'or s'allegra or si duole, or ride or piange, or s'umilia or s'adira, conforme
alla cagion per cui delira. MEDEA: Gentil follia, vorrò vederne il vero.
ISIFILE, regina dell’isola di LENNO: O dio, ecco Giasone con la
beltà gradita, spirit non mi lasciate simuliamo lo sdegno amore aita.
MEDEA,
regina dell’isola di COLCO: A te ne vien. GIASONE: Vaghi discorsi attendi.
ISIFILE: Se tra i mesti pallori del funesto sembiante simulacro di morte non
riconosci a pieno la tua diletta amante l'adorata consorte, in questo pianto
almeno che versan gl'occhi in due dolenti fiumi d'ISIFILE infelice che
abbandonata langue riconosci, o GIASONE, l'anima e 'l sangue,
GIASONE:
Secondiamo l'umore, frena, bella languente, frena questi dolori, e nel mio seno
torna a goder i sospirati amori.
ISIFILE: O dolcezze, o tesori, lassa dunque
costei e tutto a me ti rendi anima mia.
MEDEA: Lussuriosa pazzia, a giovine
gentil, non ti sia grave narrarmi del tuo duol l'alta cagione, dimmi, amasti
Giasone.
ISIFILE: Più dell'anima istessa. MEDEA: Ti corrispose. ISIFILE:
M'adorò. GIASONE: Che ridere. MEDEA: L'amor passò più oltre?
ISIFILE: Al
letto ei giunse. GIASONE: Sopra gl'amori tuoi certo vaneggia. MEDEA: Al fin
godesti, amica? ISIFILE: Giason, che 'l sa, te 'l dica.
MEDEA: Che rispondi,
Giason? GIASONE: Ciò che gl'aggrada. ISIFILE: Forse vero non fu? GIASONE: Ciò
che tu narri è vero: provai tra cari affetti scambievoli diletti, o bel
pensiero. ISIFILE: E tra i diletti al fine, ah non si può celar fallo sì grave,
gravida mi lasciasti. GIASONE: Sentirai di più bello.
MEDEA: E partoristi.
ISIFILE: E quasi. MEDEA: Come dire. ISIFILE: Maschia gemella prole in un sol
parto alla luce io diedi. MEDEA: Ed or, che pensi far. ISIFILE: Seguir
Giasone. MEDEA: E lascerai il tuo natio terreno. ISIFILE: Quant'è ch'abbandonai
la patria e 'l regno. MEDEA: Dunque regina sei. ISIFILE: Odi novelle. MEDEA: Più
che pazza è costei. GIASONE: Io già te 'l dissi: è regina per certo di gran nome
e di merto. MEDEA: Mi perdoni la vostra maestà: venga, signora mia, passi di
qua. ISIFILE: Se per scherzo m'onori, donna di cui non so lo stato o 'l nome,
benché racchiusa in queste umili spoglie ti mostrerò, con tua vergogna eterna,
ch'io son regina e di GIASON la moglie. GIASON: son tua, sei mio, lassa questa
vagante, ritorna a questo sen marito e amante. GIASONE: Non temer di mia fede;
prendi il camin, che tosto, ov'è tirato il cor, verranne il piede. ISIFILE:
Ch'io ti lasci mai più è vanità: mio ben, di qua, di qua.
MEDEA: Che
complita regina, della carne dell'uom ladra assassina. Ah signor, ah Madonna
gentil è 'l vostro umor, vago lo scherzo, ma non convien pregiudicare al terzo.
ISIFILE: Quai scherzi vai sognando, importuna, indiscreta, disonesta, arrogante,
impertinente, ardita, insolente, impazzita. MEDEA: Così va detta appunto.
ISIFILE: Giason è il mio consorte; nell'anima m'offende chi me 'l nega o
contende, ed io lo sfido a morte. MEDEA: Così bizzarra? io la disfida accetto,
qua ci vedrem con l'armi; partiam, ohimè che riso, o mio diletto. ISIFILE:
Partir, partir, senza di me, coppia nemica, in dietro, traditor; torna,
impudica.
GIASONE: Raffrenate costei, partiamo, o cara. ISIFILE: Indietro, o
rea canaglia, arrestar regie membra non è forza che vaglia, ancor tentate,
anime scelerate, non sol le vostre forze, ma d'EREBO i legami spezzerò,
svellerò, chi non teme di morte sa da i tartarei fondi sbarrar le mura e
diroccar le porte.
BESSO, capitano della guardia di GIASONE:
Chi non ha argenti od ori loda la povertà, biasma i tesori. Ercole vedovello,
lungi dalla sua vaga, orfano sconsolato, sgridò Giason ch'abbia la donna al
lato. D'affetto sincero purissimo ardor di buon cavaliero non scema il valor,
vie più ch'esser amante, si disdice a un guerrier far da pedante. Del dio che
guerreggia amor nacque già; fra l'armi pompeggia donnesca beltà; è guerriera
Bellona, e nel nome guerrier, bella risuona.
ALINDA, dama: Quanti soldati, o
quanti; allegrezza, allegrezza, o donne amanti. Gradite tempeste, procelle
adorate, che qua ne spingeste le merci più grate, per vostra pietate mia gioia
s'avanza, al vostro tempestar vien l'abbondanza. Quanti soldati, o quanti;
allegrezza, allegrezza, o donne amanti.
BESSO: Per fare in terra un picciol
paradise ti diè natura, o bella, oro al crin, stelle a gl'occhi e rose al viso.
ALINDA: Per far un uom tutto robusto e fiero ti diè natura in sorte duro il
pel, fosco il fronte e 'l guardo nero.
BESSO: Dimmi, dimmi chi sei, tu che
sì bella sembri a gl'occhi miei? ALINDA: Io sono un'infelice mal provvista
d'amante, che con affanno inusitato e nuovo bramo assai, sempre cerco e nulla
trovo.
BESSO: Vedimi, e qual io sono, pur che tu non mi sdegni, la mia fede,
il mio amor tutto ti dono. ALINDA: Lascia ch'io ben ti squadri. Tu non mi spiaci
a fé, gl'occhi son ladri.
BESSO: Ma i lumi tuoi divini, se chiami ladri i
miei, son assassini.
ALINDA: Esser l'amante mio dunque vuoi tu? BESSO:
Rispondo un sì senza pensarci su.
ALINDA: Intendiamoci bene: io con modeste
voglie per marito ti bramo. BESSO: Io te per moglie.
ALINDA: Il tuo mestier
qual è?
BESSO: Soldato io sono. ALINDA: Tu soldato? ah, ah; ohimè questo tuo
dir rider mi fa.
BESSO: Perché ridi così? ALINDA: Tu soldato?
BESSO: Io
sì! ALINDA: Dov'è il volto sfregiato? Dov'hai manco un orecchio? Dov'è un fianco
stroppiato? Dov'è una man recisa? Ohimè non lo dir più, scoppio di risa.
BESSO: Dunque non ti rassembra soldato uno che intere abbia le membra?
ALINDA: Il buon soldato deve portar qualche notabil contrassegno: almen un
braccio in pezzi, un occhio di cristallo, o un piè di legno. Ma dove, dove vai?
Già che così non pare ch'io sia stato alla guerra, vado a farmi stroppiare.
ALINDA: No, già che tutto sei, tutto ti voglio: ma quanto più ti gradirebbe
il core se tu fussi buon musico cantore.
BESSO: Musico? l'arte mia è 'l
canto e l'armonia. ALINDA: Ma su quai voci canti, ed in qual tuono?
BESSO:
Non mi senti parlar? soprano io sono. ALINDA: Soprano?
BESSO: Sì, perché?
ALINDA: Non sei castrato già?
BESSO: Non sono a fé. ALINDA: Non più guerra,
non più, non più furore: due cori amati amanti tra vezzi, tra canti dispensino
l'ore.
ALINDA E BESSO: Non più guerra, non più: trionfi amore.
BESSO:
Non più tromba o tambur, non più romore.In amorose paci al suono de' baci
rallegrisi il core. ALINDA E BESSO: Non più tromba o tamburo; amore,
amore.
ORESTE (in un bosco fiorito) Nel boschetto ove odor spirano vaghi
fiori e 'l suol ricamano ove l'aure intorno aggirano a posar l'ombre ne
chiamano.
DELFA, nutrice di MEDEA: L'ombra a me non è giovevole, che è
fugace e vana e instabile, più che l'ombra è dilettevole abbracciar marito
amabile.
ORESTE: Nel bramar sei larga e calida, fiacca e scarsa è la mia
cupidine, e pigmea mia forza invalida, polifema è tua libidine. ORESTE: Ma dimmi
in cortesia di tua signora la ventura 'l nome. DELFA: Diciam, tu della tua, io
della mia. La mia nacque regina. ORESTE: Andiam del pari. DELFA: Medea si noma.
ORESTE: Isifile s'appella. DELFA: Ama la mia Giason. ORESTE: La mia l'adora.
DELFA: La godé. ORESTE: L'impregnò. DELFA: Partorì.
ORESTE: La lasciò.
DELFA: Lo seguì. ORESTE: Lo trovò, ma tradita dolente erra per queste piagge
poco men che furente. DELFA: Stretta Medea in amoroso laccio gode ogni notte al
suo Giason in braccio. ORESTE: Isifile è sua moglie. DELFA: È sua sposa Medea.
ORESTE: O bell'imbroglio; e come si farà?
DELFA: Son facili i partiti: se
due mogli ha Giasone, a Medea troverò cento mariti.
MEDEA: Sotto il
tremulo ciel di queste frondi, intorno a cui s'aggira d'aure soavi un odorato
nembo, posa, o mia vita, alla tua vita in grembo.
GIASONE: Mira, mio cor,
deh mira come nel bel color di queste foglie speme d'amor s'accoglie.
MEDEA:
Vedi, mio ben, deh vedi qual palesa il candor di questo fiore la fedeltà d'un
core.
MEDEA: Dunque tra fiori e frondi, adorato Giason, posiamo insieme.
GIASONE: Simulacri di fede e della speme, adorata Medea, posiamo
insieme.
MEDEA: Dormi, stanco Giasone, e del mio cor, che gl'occhi tuoi
rapiro, sian le palpebre tua cara prigione.
GIASONE: Dormi ch'io dormo, o
bella, e mentre i sensi miei consegno al sonno, oggi per te Giason vantar si
puole d'aver l'alma tra l'ombre e in braccio il sole.
MEDEA: Mio ben, che
sognerai?
GIASONE: I tuoi celesti rai; e tu, mia vita?
MEDEA: Tua
bellezza infinita.
MEDEA E GIASONE: Placidissimo sonno che in grembo delle
larve al ciel m'invia. Adoriamoci in sogno, anima mia.
ORESTE,
confidente d’ISIFILE: Adoriamoci in sogno, anima mia. Gentil discorso è questo,
ma pazzo è ben chi non intende il resto: posson questi due cori ben dirsi
innamorati, se ancora addormentati si sono avvezzi a praticar gl'amori. Sto per
dir che a chius'occhi l'un con l'altro si mira, e col fiato dell'un l'altro
respira. Qual invidiosa guerra prova l'anima mia? Veder due soli addormentati in
terra, ed io qui veglio, e senza compagnia. Almen per sfogare sì fiero desio,
addormentare mi potess'io, che ben so quanto vaglia fantastica magia d'un sogno
grato a cacciar fuor lo spirto innamorato. Non è più bel piacer, quanto in
sogno goder chi si desia. Gioir in fantasia con l'adorata amica risparmia a quel
che sogna il pensiero, la spesa e la fatica. Curioso amator suol fabbricarsi
ognor perigli o danni; senz'arte e senza inganni a chi dorme è permesso in
grembo alle fantasme senz'offesa d'altrui saziar sé stesso.
ISIFILE,
regina dell’isola di LENNO: Il porto, il lido, il pian, la valle, il monte per
ritrovar GIASONE in van trascorsi, onde stanca, anelante tra gl'odorati orror
del bosco ameno vengo a posar l'affaticate piante chi sa che in questa parte
l'empio fellon non giunga e con la vaga sua ohimè ohime che veggio ah che mentre
di sdegno ardo, deliro e avvampo ne i prodigi d'amor misera inciampo, da i
sotterranei chiostri ad infettar questi sacrati orrori l'inferno vomitò
gl'orridi mostri: dormono i traditori non più dormer non più brevi sonni e
legger dorme un ladrone: risvegliati su su GIASON GIASONE..
GIASONE: Chi,
chi mi sveglia? chi? ISIFILE: Svegliati, io così voglio.
GIASONE: Con tanto
orgoglio? e chi sei tu? ISIFILE: Non mi conosci più?
GIASONE: ISIFILE.
ISIFILE: Giason.
GIASONE: Deh taci, o cara. ISIFILE: Io cara e a chi.
GIASONE: A me. ISIFILE: Menti spergiuro.
GIASONE: Se si sveglia MEDEA
morto son io.
ISIFILE: Non è cara colei cui si toglie l'onore si laceran gli
spirit si martirizza il core.
MEDEA: Con la matta GIASONE.
GIASONE: Al
fin che vuoi da me?
ISIFILE: L'onor che mi rubasti.
GIASONE: Te 'l
renderò. ISIFILE: Ma quando?
GIASONE: Tosto n'avrai da me segni veraci;
torna all'albergo, ivi m'attendi e taci. MEDEA: Fingerò il sonno, ascolterò chi
veglia. ISIFILE: Né partir, né tacer, perfido io voglio dimmi, non sei tu
quello.
GIASONE: O quant'io temo.
ISIFILE: Che in Lenno mi adorasti, ch'a
gl'amor m'allettasti, e con fé mascherata di sposo e di marito gravida mi
rendesti; poi con indegna fuga, barbaro maledetto, tradisti quella fede che in
cielo è registrata a tuo dispetto? Ed or vuoi ch'io m'affidi, vilipesa regina,
a' tuoi sensi tiranni, a' tuoi detti omicidi? T'inganni, empio, t'inganni.
GIASONE: Isifile, un regnante, simular mi convien per minor male, nasce
guerriero, e poi diviene amante, il desio della gloria, il pregar de gl'amici,
fur stimoli sì fieri e sì pungenti che, penetrando il core innamorato, ebbero
ancor possanza di ferir, o mio ben, la mia costanza; ma per breve puntura
assalita restò ma non già vinta, restò ferita sì, ma non estinta, or che del
vello d'oro superata ho l'impresa, dopo breve ristoro a te sua sfera volerà 'l
foco di quest'alma accesa, e dal core e dal petto, ti giuro, o mia gradita, di
licenziare ogni straniero affetto.
MEDEA: E pur non sogno? ISIFILE: E pur di
nuovo tenti d'incantarmi, o crudele, con magie di promesse e giuramenti?
GIASONE: Così incredula sei. ISIFILE: Dammi gl'affetti miei.
GIASONE:
Tosto gl'avrai. ISIFILE: Devo però partire.
GIASONE: Sì, se brami gioire.
ISIFILE: Partirò se mi dài.
GIASONE: E che. ISIFILE: D'amor un pegno.
GIASONE: E quale. ISIFILE: Un casto abbracciamento maritale.
GIASONE:
Giusta richiesta or prendi.
DUETTO DI GIASONE ED
ISIFILE
ISIFILE: O caro o caro o mio.
GIASONE: Ormai t'acquieta.
ISIFILE: E pur ti stringo, o dio.
GIASONE: Il pianto affrena. ISIFILE: Mia
gioia sospirata.
GIASONE: Mia belleza, mia bellezza (vede Medea risvegliata)
Oh tu, sei risvegliata.
MEDEA: Non vi turbate no, coppia felice,
vezzeggiate pur lieti in grembo delle grazie e de gl'amori vostri affetti
secreti, così grati soggiorni conturbar non vorrò: se bramate ch'io torni a
dormir, tornerò.
GIASONE: MEDEA. MEDEA: Bando alli scherzi; troppo so troppo
intesi, ascolta, traditor: regina, attendi. D'ISIFILE e GIASON noti a gli dèi
son di fede e d'amor gl'ardori interni e ne i volumi de i zaffiri eterni son
scritti a note d'or gl'alti imenei trionfi omai dopo angosciosa guerra di regia
dama il calpestato onore e in unir destra a destra e core a core nodo ordito nel
ciel stringasi in terra.
ISIFILE: O celesti favor, grazie divine, questo
decreto sol, donna reale, era bastante a indiademarti il crine.
GIASONE:
Dovrò dunque o MEDEA. MEDEA: Ancor contendi, sono a me stessa anch’io cruda e
severa; pur che regni giustizia il mondo pera. (dice da parte a Giasone) Senti,
e legge ti sia traditor adorato ogni mio detto, fa' che a questi sponsali la
morte di costei tosto succeda prima che seco tu accomuni il letto.
ISIFILE:
Certo parla a mio pro, quanto li devo.
GIASONE: Dunque vuoi tu che io sia
marito e micidiale. MEDEA: Così comanda a me la gelosia così comanda a te fede
reale non è più da pensar: l'ucciderai.
GIASONE: Non fia possibil mai farò
ch'altri l'uccida. MEDEA: Chi sarà l'omicida.
GIASONE: BESSO. MEDEA: Ma
quando.
GIASONE: In questa notte. MEDEA: E dove.
GIASONE: Nella valle
d'Orseno. MEDEA: Or son contenta a pieno, regina ecco lo sposo che sbanditi i
rigori lieto ritorna a’ tuoi graditi amori, tanto lo supplicai ch’al fin servo e
consorte mi giurò d'esser tuo sino alla morte.
ISIFILE: Ma tu così pensoso,
così dolente.
GIASONE: Anzi gioioso, anzi ridente; ti pubblicherò moglie, e
per sottrarti al giogo di gelosia tiranna e per più non mirare l'alta cagion de'
miei perversi errori infra i notturni orrori teco prender vogl'io fuga secreta
or tu prima ch'al mezzo giunga la notte che già copre il cielo, alla valle
d'ORSEN tacita andrai ivi t'attenderà BESSO il mio fido, BESSO che meco già
vedesti in LENNO, a lui per parte mia domanderai se ancora quant'impose GIASON
resti eseguito; attendi la risposta, e i suoi ragguagli per ritrovarmi a i passi
tuoi dian legge.
ISIFILE: Fortunato tormento al fin si placa amore e ne i
campi del duol nasce il contento.
BESSO: GIASON. GIASONE: BESSO.
BESSO: M'invia EERCOLE ad avvisarti che il tempo alla partenza ancor
contrasta.
GIASONE: Intesi. Or tu queste mie voci osserva. Nella valle
d'Orseno tosto n'andrai, ivi un messaggio attendi, questi per mio comando, in
questa notte, ti chiederà se di GIASON gl'imperi sono eseguiti, a sì fatta
richiesta sai che risponder dèi. BESSO: Se non m'avvisi no.
GIASONE: Gettalo
in mare. BESSO: In mare. GIASONE: In mare sì maschio o donna che sia sia pur chi
voglia né stupor né pietade il cor t'assaglia subito l'imprigiona e al mar lo
scaglia.
EGEO (nella campagna con capanne,di notte, da marinaro)
Perch'io torni a penar temprò l'ira del mar quel foco vorace ch'accolsi nel sen;
e 'l cor ch'è ripien di doglia e spavento, gode al dispetto mio la libertà. Di
me più scontento nel mondo non fu, non è, non sarà. Perch'io torni a languir mi
si nega 'l morir tra fiera procella ch'il cielo atterrì; ch'io viva così vuol
fato inclemente schiavo d’amor senza sperar pieta di me più dolente nel mondo
non fu, non è non sarà. O dio.DEMO: Morto son io.
EGEO: Chi parla qua, chi
sei ch'osservi i detti miei? DEMO: Io sono un innocente che con l'alma atterrita
ti chieggio in elemosina la vita.
EGEO: Innocente ti fingi, quando forse di
ladro o ver di spia macchiata hai la coscienza. DEMO: Son tutto quel che vuol
vostr'eccellenza.
EGEO: Volgiti in faccia il lume. DEMO: Obedisco,
illustrissimo padrone, di' se ho cera di bravo o di poltrone.
EGEO: Al fin è
desso, DEMO. DEMO: Chi ti disse il mio nome?
EGEO: Non riconosci il tuo
signore. DEMO: No.
EGEO: Non riconosci Egeo? DEMO: EGEO appunto è lì, lo
sventurato fu da’ pesci spolpato.
EGEO: Mira pur s'io son quello. DEMO:
Ohimè, ohimè, indietro! Indietro farfarello.
EGEO: Non son spirito, no,
porgi la mano a me. DEMO: Non te la porgo a fé.
EGEO: Porgila, dico. DEMO:
Son pur nel brutto intrico
EGEO: Ah non esser ritroso tocca tocca e toccar ti
lassa, caro DEMO amoroso. DEMO: Che spirito vizioso tant'è voglio arrischiarmi o
che mano pastoso io la credei pelosa.
EGEO: Di' pur ch'io sono EGEO vivo e
non morto, tu già servo or compagno meco ne vieni e porgi pietoso al mio penar
grato conforto.
DEMO: Ch'EGEO tu sia non so spirto non credo ma se spirito
sei sei di quelli alla moda senza pel senza corna e senza coda.
ISIFILE, regina dell’isola di LENNO (nella notte con luna). Gioite
gioite festosi festosi miei spirti amorosi; al ciel di contenti quest'alma
rapite, di doglie e tormenti fugate, sbandite i nembi e l'orrore su questo mio
core stillatevi tutte dal regno d'amore dolcezze infinite, miei spirti amorosi,
gioite, gioite, splendete, splendete, vezzosi, vezzosi, begl'occhi pietosi; per
luce sì belle fur care le pene; voi sete mie stelle, voi sete 'l mio bene, mie
luci adorate, tra fiamme beate dal vostro bel cielo per somma pietate le gioie
piovete, begl'occhi pietosi, splendete, splendete, ma è tempo ch'io precorra
l'ora che m'assegnò l'idolo mio e che d'ORSENO alla scoscesa valle per non trito
sentiero omai trascorra, all'imprese d'amore quanto giova la fretta il tardar
nuoce, sì, sì, parto veloce. Purissima innocenza, che d'ogni mio pensier l'anima
sei, scorgi tu per pietade i passi miei.
ORESTE, confidente d’ISIFILE: Fra i
notturni perigli, signora, ove vai tu, così de' propri figli non ti ricordi più,
l'un e l'altro languisce per fame che atterrisce anco i figli de i re, ah volgi
indietro volgi indietro il piè.
ISIFILE: Deh, gli consola, farò presto
ritorno, prima che spunti il giorno.
ORESTE: Col canto e con il
vezzo gl'ho consolati un pezzo, ma fu vana ogni prova; dove la fame impera, la
musica non giova, e da i labri innocenti, dal digiuno avviliti, forman strani
concenti non so se di bestemmie o vagiti.
ISIFILE: L'amor mi sprona e la
pietà m'arresta; tosto qua gli conduci.
ORESTE: Sarà peggio, signora,
avranno aria di dentro, aria di fuora. Questi non han bisogno venir all'aria
bruna per contemplar le stelle o ver la luna, ma di tue mamme intatte astrologi
affamati braman di specular la via del latte.
ISIFILE: O figli, anime mie,
del mio ritorno gl'indugi tormentosi a i paterni rigori condonate pietosi; deh
torna alla capanna, amico Oreste: di là prendi i miei figli
e alle vicine
fonti, ove ratta mi invio, a me li porta; ma sian tuoi passi frettolosi e
pronti.
ORESTE: Perché non gl'allattate entro 'l tugurio. ISIFILE: Alta
necessità così comanda. Temi tu forse del soverchio incarco.
ORESTE: Anzi
sentir non puossi una mole più scarsa e più leggera, né alcun di lor giunge alla
libbra intera.
MEDEA (nella valle d’Orseno): L'armi apprestatemi, gelose
furie, infuriatemi, gelidi spiriti, sin che languisca, sin che perisca chi le
mie gioie infetta. Gelidi spiriti, guerra, guerra, vendetta, vendetta. Mentre
m'accorano sospiri e gemiti, e mi divorano angui mortiferi, aspro rigore, mortal
furore la mia rivale assaglia. Gelidi spiriti, strage, strage, battaglia,
battaglia. Besso qui non appare, ed io misera anelo dall'impazienza flagellata
e vinta saper se sia la mia rivale estinta. Per quest'ermo sentiero raggiratemi
voi, furie d'amore, e l'infuriate piante guidino gelosia, rabbia e rancore.
DELFA, nutrice di MEDEA: Perché sospiri, Medea gelosa, perché
t'adiri, bella amorosa? Che importa a te se il tuo diletto ad altro oggetto
serbò già fé? Ch'importa a te? Qualor su queste guance fiorir le rose e 'l brio,
gl'amorosi liquor gustavo anch'io; e a gl'orli ch'io succhiai non importò già
mai se le compagne mie bevvero tutte; mi bastò non restare a labbra asciutte. È
follia fra gl'amori seminar la gelosia, per raccoglier al fin rabbie e
rancori. Consolar sol ne può quel ben che in sen ci sta, la gioia che passò in
fumo, in ombra, in nulla se n' va; chi vol sbandir dal cor doglia e martello
lasci amar, ami ogn'un, goda 'l più bello. Non credete, ch'a un amante possa
trar d'amor la sete una sola bellezza, un sol sembiante; ma s'egli in un sol dì
da doppio amor godé, fate, o donne, così: in men d'un'ora gioite con tre. Chi
vuol goder d'amor suavi i frutti, un n'accolga, un n'aspetti, aspiri a tutti.
MEDEA: Di guerriero drappello o veggio o veder parmi avvicinarsi lo
splendor dell'armi; Besso certo fia questi. Vorrei, senza apparire partecipe di
fatto, del seguìto fin qui piena contezza. Or come potrò far? Fingerò sì,
fingerò che Giason... saggio pensiero; così potrò senz'apportar sospetto de
l'ordin dato penetrare il vero.
BESSO: Gente di qua ne vien; taciti udite
quant'ei favella, ed ogni cenno mio prontissimi eseguite.
MEDEA:
Besso, sei tu? BESSO: Son io. MEDEA: Per intender Giasone, se quanto ei comandò
resti eseguito, in fretta a te m'invia.
BESSO: MEDEA. MEDEA: Besso.
BESSO: Giasone a me ti manda. MEDEA: E con gran fretta.
BESSO: Per
intender? MEDEA: Se quanto poc'anzi impose a te resti eseguito, ancor non mi
rispondi.
BESSO: E tu sì tosto la risposta chiedi. MEDEA: E tu nel darla a me
sei così lento.
BESSO: Non è più da pensar, soldati, a voi, arrestate costei.
MEDEA: Tradimento a MEDEA, chi ti diè tanto ardir.
BESSO: L'altrui comando.
MEDEA: Chi fu che 'l commando.
BESSO: Chi comandar mi può. MEDEA: Dunque
GIASON.
BESSO: Non più. Conducetela altrove. MEDEA: O GIASON traditore.
Lassatemi, felloni; e dove e quando?
ISIFILE: Besso,
Besso.
BESSO: Chi chiama. ISIFILE: GIASON a te mi manda acciò gl'avvisi se fu
eseguito ancor quant'ei t'impose.
BESSO: Tardi venisti, torna ché con queste
ambasciate altri per tua ventura ti prevenne, torna a GIASON e di’ ch’io solo
uccido una regina il dì.
ISIFILE: Torna a GIASON e di' ch'io solo
uccido una regina il dì, che linguaggi, che cifre mi passan per l'udito a
spaventar l'idea, Besso, Besso è sparito.
EGEO: Qual incognita forza per
questi orrori a raggirar mi sforza? MEDEA: Così son maltrattata, regina
imprigionata.
EGEO: Regina imprigionata. MEDEA: Ditemi, scelerati, di qual
colpa son rea, sventurata MEDEA.
EGEO: MEDEA, MEDEA. MEDEA: Alcun non mi
risponde fra così ingiusti guai, mi gettate nell'onde? O GIASON traditor ahi ahi
ahi si sente cader MEDEA nell'acque.
EGEO: MEDEA nell'onde, ahi sorte: mi
getto a dar la vita a una crudel che mi negò la morte.
BESSO: Tormento
ove mi guidi ritorniamo a GIASON.
GIASONE: Besso che porti. BESSO: Il
comandato scempio.
GIASONE: Venne. BESSO: Ah, purtroppo venne.
GIASONE:
Perché sospiri. BESSO: Una regina uccisi.
GIASONE: Morì. BESSO: Morì.
GIASONE: Che disse. BESSO: Traditor mi chiamò mi maledisse.
GIASONE:
Altro. BESSO: Che fusser da gl'imperii tuoi sue sventure prodotte tosto
s'indovinò poi col tuo nome in bocca dallo scoglio nel mar precipitò.
GIASONE: Giudice appassionato non proferì già mai giusta sentenza il
carnefice io fui dell'innocenza vieni alle tende e taci un esito infelice
l'inorridito cor ahi mi predice.
DUETTO D’EGEO E MEDEA.
MEDEA,
regina dell’isola di COLCO: Non m'affligger così palesami chi sei, saper voglio
per chi l'avanzo viverò de' giorni miei.
EGEO, de d’Atene: O dio quando il
saprai dolce tiranna mia, mi fuggirai. MEDEA, tesoro mio, chi ti risolse
all'onde è il disprezzo Egeo. Egeo son io, e se fato benigno, che tu viva per me
mi diede in sorte altra mercé non chiedo che di tua man la pattuita morte.
MEDEA: Non bisognava, EGEO obligarmi di vita se cader tu volevi vittima di mia
destra inferocita.
EGEO: Se neghi morte a chi la morte chiede disperata
disperata è per me ogni mercede. MEDEA: Non disperar non disperar mia vita.
EGEO: Mia vita a me. MEDEA: A te.
EGEO: Come sì pia. MEDEA: Chi la vita
mi diede è vita mia. Egeo, mio re, mio sposo, a te, a te s'aspetta far di tua
moglie offesa alta vendetta. Tradisci il traditor, l'uccidi e sia del chiaro sol
di nostra gioia altera la morte d'un crudele alba furiera.
EGEO: Non più,
bella, non più; dimmi chi ti tradì, dimmi chi fu. MEDEA: GIASON morte mi diè.
EGEO: O morirà GIASONE o non son re. MEDEA: L'ucciderai.
EGEO: Tel
giuro. MEDEA: Usa la crudeltà, uccidilo uccidilo sì sì.
EGEO: Questa notte
sarà del tessalo fellon l'ultimo dì.
ARIA DI GIASONE (in un
palazzo disabitato con rovino)
Ovunque il piè rivolgo si splalanca un
abisso là dove il guardo io fisso in sembianze terribili vedo due spettri
orribili una MEDEA sdegnata un'ombra assassinata. l'una tutta gelosa, l'altra a
torto sommersa martirizzano a gara quest'anima languente, quella tutta rigor,
questa innocente, ma, lasso, il mal dell'alma contamina il vigor del viver mio,
mortifica le membra e nell'abisso di mortal cordoglio in estasi di duol l'anima
scioglio – in estasi di duol l’anima scioglio.
EGEO: GIASON qui
parla, dell'aurora il lume mi scopre il traditor che dorme o langue, e solo, sì,
e qual miglior fortuna per farli vomitar l'anima e 'l sangue, mora il perfido
ingrato. ISIFILE (s’avventanto al stile e levandolo di mano ad Egeo).Tu morrai,
scelerato.
GIASONE: Io morirò? ah traditori. EGEO (fuggendo): Ahi fato.
GIASONE: Un con l'armi alla man, l'altro si fugge? Besso, soldati, o là.
GIASONE: Ferma quest'assassin, l'altro si segue (parte di soldati
imprigionano Isifile e li levano lo stile, e parte va dietro Egeo) soldati (II).
E pria che questi mora riconosci tu, Besso, il reo di tanto eccesso. BESSO:
Volgiti a me; chi sei?
ISIFILE: Io non m'ascondo; non mi conosci più?
BESSO: Mi sembri, ah sei pur tu; Isifile è costei. ISIFILE: Isifile son io,
oggetto infausto del destin più rio.
GIASONE: BESSO, BESSO, fellone, hai
tradito GIASONE. Non dicesti poc'anzi che Isifile gettasti in mezzo all'onde?
Ancor pensando stai? BESSO: Non lo fei, non lo dissi, no 'l sognai.
GIASONE:
Come? BESSO: Ti dissi solo, e dissi il vero, ch'una regina in mar precipitai.
GIASONE: E ben, che vorrai dir. BESSO: Nulla di più: sol che costei nel mar
tratta non fu.
GIASONE: Chi dunque in mar traesti?
BESSO: Colei che
m'imponesti.
GIASONE: Il nome ancor mi celi? BESSO: Quella ch'a me se n'
venne, quella che a me parlò, quella che imprigionai, quella ch'io trassi
entro la sfera ondosa, fu MEDEA, la tua sposa.
GIASONE: Dunque è morta MEDEA.
BESSO: MEDEA morì.
MEDEA: Tu menti, traditor viva son qui.
GIASONE:
L'inganno è duplicato, non viverai più no, o BESSO scelerato. BESSO: Eccomi a'
piedi tuoi, concedimi ch'io parli e, s'io son reo, fa' di me ciò che vuoi.
GIASONE: Parla e di' tosto. BESSO: Dimmi, non m'imponesti ch'io traessi
nell'onde quelli che per tua parte uomo o donna che fusse- in questa notte nella
valle d'ORSENO mi domandasse se gl'imperii tuoi furon da me eseguiti.
GIASONE: Così t'imposi. ISIFILE: Io per qual fine intendo.
BESSO: E tu
real signora questa richiesta appunto non mi facesti. MEDEA: Sì.
BESSO: Io
non t'imprigionai. MEDEA: M'imprigionasti.
BESSO: Non ti condussi al mar.
MEDEA: Mi conducesti.
BESSO: Non ti trassi nell'acque. MEDEA: E a viva
forza.
BESSO: Con l'istessa richiesta non venisti ancor tu quand'io partivo.
ISIFILE: Venni.
BESSO: E che ti risposi. ISIFILE: Torna a GIASONE e di'
ch'io sol uccido una regina al dì.
BESSO: Ecco svelato il tutto, tu,
discreto e prudente, giudica s'io son reo od innocente.
GIASONE: E
Medea come vive, se al mar la desti già. BESSO: Questo non saprei dir ella il
dirà. MEDEA: La costanza infinita di mio sposo real tornommi in vita.
GIASONE: E lo sposo chi è. MEDEA: EGEO d'Atene il re.
GIASONE: Tu
d'altri che di me. MEDEA: GIASON, frena li sdegni. Io che dianzi gelosa
d'Isifile tradita lacci di morte all'innocenza tesi, in quell'orrido evento
m'accorsi al fin che cade, per occulto destino, su l'alme traditrici il
tradimento. Curïosa impazienza mi condusse al sepolcro, ma l'amoroso Egeo, che
fu di questo cor l'incendio primo, gettandosi tra l'onde mi sottrasse clemente a
morte acerba.
GIASON. Or tu, se saggio sei, a regina sì bella, da cui spero
ottener perdono e pace, l'antica fede e 'l primo amor riserba. Ch'io lassi i
tuoi bei rai, bella MEDEA, non fia possibil mai. MEDEA: Nei volumi stellati
volgi il guardo, o Giason: ivi vedrai che i tuoi vaganti affetti ad Isifile tua
fur destinati.
GIASONE: Ch'io rivolga il pensiero a chi tentò poc'anzi con
quel ferro svenarmi? ah non fia vero. ISIFILE: Io ti volsi svenare, io che con
destra ardita ritolsi al fuggitivo questo che ti dovea privar di
vita.
GIASONE: Chi dunque venne a machinar mia morte.
EGEO: Io fui che
con quel ferro di cui conservo la vagina in seno o barbaro inumano per ferirti a
ragion stesi la mano.
GIASONE: Tanto ardisce costui e chi ti spinse al
tradimento indegno.
MEDEA: Fermati: io lo mandai per vendicar le mie supposte
offese, fummo ingannati, EGEO, senza colpa è GIASON, per altro è reo.
GIASONE: Questa innocenza mia a te mi renda.
MEDEA: Sono in poter d'EGEO
gl'affetti miei, rendi tu pur te stesso a chi tu dèi.
GIASONE: A te sempre
soggette avrò le voglie.
MEDEA: Indiscreto parlar d'un re ch'ha moglie.
GIASONE: O fato avverso, ahi sorte, la vita di costei fu la mia morte.
ISIFILE: Infelice, che ascolto, non t'affannar, GIASONE, che se la vita mia
fu come ben intesi un aborto d'errori che produce il tuo duolo vengo a
sacrificarla a' tuoi furori s'io perivo tra l'acque una morte sì breve forse non
appagava i tuoi rigori or se viva son io rallegrati rallegrati o crudele già che
potrai con replicate morti sfogar sfogar del fiero cor l'empio desio. Sì sì si
si tiranno mio ferisci a parte a parte queste membra aborrite straziami a poco a
poco queste carni infelici, anatomizza il seno straziami a tuo piacere
martirizzami i sensi e 'l mio lento lento lento morire prolunghi a me 'l
tormento, a te 'l gioire ma se d'esser marito l'adorate memorie al fin perdesti,
fa' ch'il nome di padre fra le tue crudeltadi intatto resti; non ti scordar,
Giason, che padre sei e che son di te parte i parti miei; se legge di natura
obliga a gl'alimenti anco le fiere, fa' che mano pietosa gli somministri almen
vitto mendico, e non soffrir ch'i tuoi scettrati figli per la fame languenti
spirin l'alme innocenti.
ARIA DI ISIFILE
Regina, EGEO, amici,
supplicate per me questo crudele
che nel ferirmi ei lassi queste mammelle
da’ suoi colpi intatte
acciò nutrisca almeno i figli miei del morto sen
materno un freddo latte.
Pregatelo pietosi che quegl'angeli infanti
assistino a i martiri della madre tradita e che ad ogni ferita che imprimerà
nel mio pudico petto bevino quelli il sangue mio stillante acciò ch'ei
trapassando nelle lor pure vene in lor s'incarni onde il lor seno in qualche
parte sia tomba innocente all'innocenza all’innocenza mia.
Addio terra,
addio sole, addio regina amica, amici addio, addio scettri, addio patria, addio
addio addio mia prole,
sciolta la madre vostra dal suo terrestre velo
attenderà di rivedervi in cielo, figli, v'attendo e moro; e te GIASON, benché
omicida, adoro.
GIASONE: Non ho più core in petto scoppia l'alma nel
seno taci taci ISIFILE taci, non mi confonder più, vinto son io
figli,
moglie, cor mio, tra le colpe avvilito, dalla tua man difeso, chieder pietà non
oso, padre inumano e traditor marito,
EGEO, MEDEA, godete vostri felici
ardori e mentre in ogni cor la gioia abbonda un contento improvviso le trascorse
vicende in mar d'amico oblio chiuda e confonda, vinto, vinto son io, figli,
moglie, cor mio.
ISIFILE: Mio smarrito tesoro s'io ti riacquisto o dio,
non ho più che bramare e son le mie dolcezze quanto stentate più tanto più care.
DUETTO DI GIASONE ED ISIFILE
GIASONE: Quante son le mie gioie
tante stille il mar non ha.ISIFILE: Quante son le mie gioie tante stelle il ciel
non ha.
GIASONE: Quante son le mie gioie tante stille il mar non ha.
ISIFILE: Mia dolcezza.
GIASONE: Mia bellezza. ISIFILE: Nel tuo seno languire
mi sento già, ch'a tanto gioire un'alma sola resister non sa.
GIASONE: Nel
tuo seno morire mi sento gi ch'a tanto gioire un'alma sola resister non
sa.
DEMO.
MEDEA: Godi, ISIFILE, godi, stringa amor, GIASON,
suoi dolci nodi.
ISIFILE: Godi, MEDEA, godi, stringa amor, EGEO, suoi dolci
nodi...
GIASONE, EGEO, MEDEA ed ISIFILE: e fra nodi tenaci rimbombin queste
valli al suon di baci.
GIOVE: Hai vinto, Amor, hai vinto, e dalle
tue vittorie di mia prole gradita prende vita l'onor, nascon le glorie.
FINE
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