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Saturday, October 22, 2011

Ortuso-Vannarelli: il primo "Ippolito" -- no la prima "Fedra" -- ascribed to D. Montio (Monzio) by Sartori.

Speranza

ESERCIZI DELLO SPIRITO: QUALCHE NOTA SUL TEATRO DEI GESUITI TRA FINE CINQUECENTO E META' SEICENTO"

cf. L. STRAPPINI

Le théàtre ne doit se priver d'aucune des sorcelleries du théàtre. Exactement de la facon dont, pendant la Contre-Réforme, operaient les Jésuites. Ces Jésuites qui ont été les maìtres de nos amis communistes. (Jean Paul Sartre, 1955)
I.
"Je domande si le Théàtre peùt ètre une École capable de former les moeurs: et je réponds simplement, Par sa nature il peùt l'ètre; par notre faute, il ne l'est pas "(1)è un passaggio del discorso che il gesuita padre Porée pronunciò al Collegio Louis-le-Grand, nel 1732, davanti ad un uditorio che comprendeva, insieme agli alunni e ai professori del Collegio, vari Cardinali e insigni prelati; la domanda e la risposta, retoricamente ben formulate e costruite, sintetizzano in modo efficace i termini del problema relativo alla moralità del teatro, così come l'avevano impostato e risolto i Gesuiti da quasi due secoli. Per un verso infatti avevano fatto diventare il teatro parte integrante del programma educativo disciplinato dalla Ratio studiorum,(2) e dunque l'avevano pienamente legittimato sul terreno pragmatico come su quello teorico, essendo la sua "natura" adatta all'opera energicamente pedagogica che aveva segnato fa novità della Compagnia di Gesù. Contemporaneamente venivano mantenute le riserve relative ai suoi effetti sul pubblico e sui recitanti, frutto dell'imperfezione di coloro che di quello strumento si servivano.
Anche su questo terreno, come si vede, veniva applicata brillantemente quella logica del doppio binario che è stata individuata da tanti come la vera cifra della cultura gesuitica nella sua interezza, consistente nella capacità, fin dalle origini, di coniugare in modo spregiudicato un vigoroso spirito militante con la più ampia duttilità ambientale. Una cultura, del resto, quella prodotta dai Gesuiti in età controriformistica e per tutto il Seicento, sulla quale ha pesato a lungo, ed è ben noto, il giudizio o pregiudizio negativo che ha coinvolto quasi tutte le manifestazioni del barocco letterario e artistico; a maggior ragione il pregiudizio negativo ha pesato sul teatro scritto e rappresentato all'interno dei collegi nei quali i Gesuiti formavano le classi dirigenti dei vari paesi in cui operavano.
Questa produzione drammaturgica ha infatti condiviso con l'intera produzione teatrale secentesca italiana la valutazione restrittiva che quasi ininterrottamente si è prolungata dal Settecento fino ai giorni nostri ed ha inoltre subito, ancora prima di un qualunque giudizio di merito, una sorta di ostracismo preventivo: è stato così in sostanza dimenticato, cioè non conosciuto e comunque liquidato come fenomeno di soggezione della cultura a intenzioni pedagogiche e parenetiche così pervasive da inficiarne la natura e il valore. Tanto più ripugnante il fenomeno all'idea " pura " e " disinteressata " della cultura, in quanto difesamente percepito come frutto del dominio dello scolasticismo religioso, lontano perciò dalla sensibilità moderna e schiacciato sotto il peso soverchiante della retorica e del didascalismo. Ancora una trentina di anni fa veniva ribadito il giudizio che " la pièce jésuite est un sermon qu'illustre une action dramatique ".(3)
Dunque il teatro dei Gesuiti, come più in generale il teatro dì collegio, è stato isolato, emarginato rispetto all'andamento del teatro nel suo insieme; e anche quando (raramente) è stato preso in considerazione, è stato sottoposto a valutazioni sommarie e liquidatene. Può valere, per tutte, la trattazione che ne diede Bertana nel suo volume sulla tragedia di circa un secolo fa(4) che ha certamente il merito, di avere dedicato un consistente spazio a quel tipo di produzione teatrale, senza tuttavia riconoscergli alcun valore ed originalità: il teatro gesuitico, scriveva Bertana, " non ha unità se non estrinseca, e non ha fisionomia costante né una tecnica sua particolare ".(5) Un giudizio, per inciso, non del tutto immotivato, come si vedrà in seguito, purché se ne cambi il segno. Ma quello che intanto conviene registrare è la scarsezza di ricerche, di documentazione e di analisi relativa al teatro prodotto nei collegi dei Gesuiti (mi riferisco sempre specificamente all'Italia);(6) e dunque la necessità di aprire, per questo settore, un filone di indagini (o, meglio, più filoni di indagini), senza le quali si rischia facilmente di cadere in approssimazioni, superficialità e genericità, o di arrivare, comunque, a conclusioni parziali, e non del tutto convincenti, come capita, mi sembra, a qualche studioso che a questo tema si è dedicato negli ultimi anni.
Se si pensa, infatti, al numero davvero rilevante di collegi tenuti dai Gesuiti sparsi in tutta Italia (oltre che in ogni paese europeo), all'abitudine diffusa di organizzare almeno due rappresentazioni all'anno (una nel periodo di carnevale ed un'altra, di agosto, per la conclusione dell'anno scolastico e la consegna dei premi), ci si rende conto facilmente della grandissima quantità di testi scritti e utilizzati per le rappresentazioni, una piccolissima parte dei quali è oggi conosciuta e documentabile, e una porzione ancora minore è considerata e analizzata precisamente.

Secondo alcuni, buona parte dei testi scritti per gli spettacoli nei collegi andò dispersa, se non distrutta quando, nel 1773, la Compagnia venne sciolta; certo è che esistono alcuni (relativamente pochi) testi a stampa che riproducono tragedie scritte e rappresentate tra la fine del XVI secolo e la metà del XVIII, esistono manoscritti (in un numero maggiore, ma non facilmente quantificabile), che raccolgono altri testi di questo genere; ma, intanto, manca un repertorio di tutta questa produzione e, di conseguenza, i saggi e gli studi disponibili hanno prevalentemente carattere monografico, in riferimento ai tre più significativi autori tragici italiani (ovvero Bernardino Stefonio, Stefano Tuccio e Ortensio Scammacca - ma si tratta, per gli ultimi due, di studi risalenti a circa un secolo fa),(7) piuttosto che un carattere storico-critico, come certamente la materia richiederebbe. Perché in una ricerca di questo genere non ci si può proporre tanto di scoprire ipotetici capolavori drammaturgici fin qui sconosciuti, quanto piuttosto di individuare elementi tematici, drammaturgici e ideologici tali che possano illuminare l'intera estensione di un'attività che ha potentemente contribuito all'affermazione della cultura cattolica controriformistica in Italia, passando per un canale, come quello teatrale, che vive di regole e di conformazioni che rispondono anche ad impulsi ideologici, ma sono originate primariamente dai motivi peculiari, anche tecnici, del fare teatrale; motivi che strutturano ed esprimono precisamente quegli impulsi mascherandoli, trasfigurandoli e travestendoli nelle forme più varie.

Del resto l'aveva notato già, con grande acutezza, proprio Segneri, con una connotazione tutta negativa; nel Cristiano istruito nella sua legge sosteneva infatti che " i recitanti sono tanti maghi delle coscienze " e " gli ascoltatori sono tanti malefìciati nell'anima; sicché finalmente quei che paiono trattenimenti di burla, sono vere malie della volontà affatturata, sono facinatio nugacitatis, o pure, come altri legge, più chiaro al mio intendimento, fascinatio nugantium, tanto essi oscurano ogni bene di virtù nella mente, e tanto rapiscono ad ogni male di vizio la concupiscenza, benché non ancora guasta ".(8) Certo, Segneri avvertiva che non intendeva riferirsi a tutto il teatro, ma solo a quello sconcio, disonesto; e tuttavia è facile, leggendone la requisitoria, rendersi conto che sotto accusa è precisamente quella forma di seduzione dello spettatore della quale Segneri sapeva cogliere precisamente i caratteri specifici:
contuttociò mai non riescono gli occhi nostri al demonio più adattati al suo fine che ne' teatri, dove i libri sono vivi, le pitture sono vocali, la vista è congiùnta alle parole, le parole sono animate da gesti, da applausi, da cetre, da canti, da sinfonie: sicché tutto ciò che il Signore ci ha dato per servir lui, viene ivi rivoltato dal demonio in istrumento da offenderlo.(9)

II segno è qui del tutto negativo, anzi nefasto, ma si vede bene che gli elementi sottoposti ad esame sono gli stessi, che vengano valutati positivamente o negativamente: sono precisamente quelle componenti dello spettacolo che, a ragione proclamava Segneri, possono produrre la " grande magia " (per usare una espressione canonica), ovvero possono esercitare sugli spettatori una forza di suggestione ad arte costruita, che li stacca dalla loro condizione, li distrae nel senso più pieno del termine dalla normalità, dall'abitudine, da quella meccanicità delle percezioni e delle sensazioni che, in un Novecento che qualcuno vide molto affine al Barocco, i futuristi si proposero per primi di frantumare, come i formalisti russi che là proprio colsero il carattere precipuo dell'automatismo al quale solo il linguaggio della poesia si contrappone.

È un potere quello del teatro e dei teatranti che contiene un potenziale diabolico e può essere esorcizzato vietandone ogni manifestazione, ma anche, in alternativa, sottoponendolo a una trasformazione così radicale che ogni componente funesta rovesci il proprio segno nell'esatto contrario. " Faire d'une fable pernicieuse une fable morale, voilà donc le but avoué du pére Folard "(10) la favola alla quale si allude qui è quella di Edipo in una versione, quella appunto del gesuita padre Folard, che recupera la figura mitica con tutto il carico semantico accumulato nei secoli ma ne rovescia esattamente la prospettiva: è Edipo l'artefice pieno del proprio destino, dunque peccatore consapevole di fronte agli dei incolpevoli. È solo un esempio della tendenza ben presente nella drammaturgia dei Gesuiti a misurarsi con i soggetti e le tematiche più trasgressive per compiere su di esse il più radicale intervento di bonifica, di cristianizzazione. Per operazioni di questo genere è evidente che il ruolo dello spettacolo diveniva decisamente più influente di quello del testo scritto e dunque, sotto questo profilo, gli spettacoli erano altrettanto e per certi versi maggiormente significativi dei testi letterari. Assume anche in questo caso particolare rilievo la distanza, sempre sensibile e spesso straordinariamente accentuata, tra il testo scritto, il testo letterario e quello che si è soliti designare con il nome di " testo spettacolare ", l'insieme, cioè, delle indicazioni relative alla scenografia, ai costumi, alla coreografia, alla musica, alla recitazione, ecc., che fanno appunto di un testo letterario solo la base, sia pure importante, dello spettacolo come viene di volta in volta allestito e rappresentato. Questo divario era del resto massimamente operante proprio nel caso delle rappresentazioni teatrali in età barocca, quando, e non solo nel teatro, venivano esaltati al massimo grado proprio gli elementi spettacolari.
Un esempio di questa divergenza o di questo doppio binario, con riferimento al teatro dei Gesuiti è offerto indirettamente da Marc Fumaroli, che è certamente uno degli studiosi più attenti negli ultimi anni della cultura gesuitica anche drammaturgica. In un ampio e ricco saggio sulle due tragedie più note e interessanti di Bernardino Stefonio, che sono Crispus e Flavia,(11) Fumaroli analizza le circostanze delle prime rappresentazioni delle due tragedie. Per quanto riguarda Crispus, ricorda che la prima rappresentazione ebbe luogo a Roma nel 1597 al Collegio Romano, durante il Carnevale; nel 1603 fu replicata a Napoli alla presenza dell'autore. Per l'analisi dello spettacolo Fumaroli si serve di alcune lettere manoscritte che il padre Stefonio scrisse al padre Valentino Mangioni da Napoli, in occasione appunto dell'allestimento napoletano della sua tragedia, di due programmi del Crispus (uno, conservato alla Biblioteca Vaticana datato 1628 e l'altro conservato all'Arsenal di Parigi non datato), oltre che delle illustrazioni relative alla coreografia stampate nella edizione napoletana della tragedia del 1604.
L'analisi di Fumaroli, interessante per molti versi, si sviluppa su vari aspetti della coreografìa e della drammaturgia dello spettacolo di Stefonio, soffermandosi in particolare sulla funzione del coro e degli intermezzi nel due programmi esaminati e sul nesso tra le evoluzioni di danza del coro e la teoria sull'origine della tragedia che il padre Tarquinio Galluzzi, allievo di Stefonio e suo estimatore, espose in un trattato sul quale tornerò più avanti. C'è, però, qualcosa da osservare subito. Innanzitutto appare piuttosto singolare che Fumaroli, passando in rassegna i documenti che dicevo, non ritenga opportuno metterli a confronto con il testo a stampa del Crispus, pubblicato la prima volta nel 1601, quando l'autore era ancora in vita (Stefonio era nato nel 1560 e morì nel 1620) Eseguendo questo esame si verifica facilmente che nel testo a stampa non esistono intermezzi come non esistono indicazioni di carattere coreografico. Mentre tutte e due queste integrazioni sono riscontrabili nei " testi spettacolari " che venivano, generalmente, denominati argomento. Si tratta di pubblicazioni a stampa comprendenti poche pagine e destinate ad illustrare in italiano la trama e l'azione del testo che si andava a rappresentare, oltre che le canoniche indicazioni dei personaggi e degli interpreti, delle ambientazioni delle diverse scene, delle coreografie degli eventuali intermezzi. La principale funzione di questi Argomenti era legata all'obbligo previsto dalla Ratio studiorum di rappresentare solo testi in latino (obbligo rispettato generalmente in Italia, almeno fino alla metà del XVII secolo),(12) e alla necessità perciò di favorire la comprensione dell'intreccio sulla scena a tutte le componenti del pubblico, anche quelle per nulla avvezze al latino. Nella nostra prospettiva odierna questi testi di servizio si presentano come uno strumento prezioso per la ricostruzione degli spettacoli nei collegi che, come appunto risulta dagli argomenti, erano spesso molto diversi dai testi drammaturgici scritti e pubblicati, finanche nella lingua: latina nei testi scritti, italiana (o delle diverse nazionalità) nelle rappresentazioni.

Proprio del Crispus ci sono arrivati numerosi argomenti; uno di questi è appunto denominato Argomento del Crispo. Tragedia latina composta dal p. Bernardino Stefonio della Compagnia di Giesù. Da recitarsi nel Seminario romano. Con una breve espositione atto per atto, scena per scena di quanto in essa si tratta. Disteso dal conte Giovanni Vistarino, convittore del Seminario romano,(13) e contiene la descrizione e il riassunto, oltre che della trama, di un Prologo in lingua nostra aggiunto per introduzzione al suggetto della tragedia e dei quattro Intermezzi collocati, com'era norma, tra un atto e l'altro.(14)

Risulta allora piuttosto chiaro (e questa è la seconda osservazione al saggio di Fumaroli) che il divario, piuttosto consìstente, tra il testo a stampa e le rappresentazioni, riscontrabile con facilità sempre, tutte le volte almeno che queste siano in qualche modo documentabili, diviene tanto più sistematico e in qualche misura obbligato in riferimento alle rappresentazioni nei collegi (dei Gesuiti, come di altri ordini religiosi); la finalità principale degli spettacoli non era, infatti, almeno intenzionalmente, di ordine ludico, ma sempre tendenzialmente assoggettata le esigenze pedagogiche e propagandisti che che imponevano, ad esempio, che partecipasse all'azione il maggior numero possibile di allievi (alterando, perciò, secondo necessità, il numero dei personaggi in scena), che si inserissero o abolissero vari generi di azioni sceniche di contorno (combattimenti, tornei, duelli, ecc.), a seconda del carattere del pubblico, del luogo di rappresentazione, della cultura e delle capacità del choragus, ecc., insomma che si piegasse qualunque ragione artistica ed espressiva alla destinazione rigorosamente extraestetica delle prove.

Del resto gli stessi drammaturghi gesuiti erano ben consapevoli della distanza tra il testo scritto e i vari " testi spettacolari ". Può valere a titolo d'esempio la dichiarazione di Stefonio di essere stato spinto a pubblicare il suo Crispus dalla volontà di ristabilire la correttezza di un testo che nelle numerose rappresentazioni era stato in tanti modi alterato fino alla storpiatura.(15) Ancora, la piena consapevolezza dei due diversi registri è del tutto manifesta in Nicola De Avancini che è considerato concordemente il più grande uomo di teatro di area gesuitica, anche se viene ritenuto invece " poeta scarsamente dotato".(16)
Queste considerazioni avvalorano ulteriormente la necessità di procedere alla raccolta sistematica dei testi scritti letterari assieme a tutti quei testi documentali (lettere, diari, resoconti, stampe, disegni, ecc.) che permettano di ricostruire, in forma integrata, il fenomeno teatrale dei collegi dei Gesuiti, in modo analogo, direi, all'impostazione che qualche decennio fa dette Ludovico Zorzi alla ricerca relativa ai testi e ai documenti della cosiddetta commedia dell'arte. Nella consapevolezza, in quel caso come in questo, che molto sia andato ormai e definitivamente perduto e che molto, quindi, non potrà che essere affidato alla ricostruzione ipotetica e quanto è più possibile documentata; senza tuttavia trascurare quanto è già a nostra disposizione, solo che vogliamo interrogarlo: ossia i testi scritti, a stampa o manoscritti, che, evidentemente, sono altrettanto interessanti dei " testi spettacolari " e, in buona misura, essenziali per afferrarne la pienezza di intenti e di esiti. Per non correre insomma il rischio che, dopo avere tanto a lungo appiattito sul solo terreno letterario o paraletterario tutte le potenzialità del fatto teatrale, si ecceda ora nel senso opposto, emarginando o addirittura espellendo dall'analisi e dalla riflessione le componenti non direttamente tradotte nel fenomeno spettacolare.

Tenendo conto dello sfondo così sommariamente delineato, mi propongo di concentrare l'attenzione su un testo specifico, e cioè quella tragedia Crispus di Bernardino Stefonio della quale ho già detto qualcosa; ricordando, accanto ad essa, alcune altre tragedie con lo stesso titolo o, comunque, con lo stesso soggetto. Questo abbozzo di analisi comparata potrà forse contribuire a dare un inizio di risposta a un quesito che mi pare interessante sul terreno storiografico e critico e che potrebbe formularsi in questo modo: esiste ed è definibile una specificità della ideologia gesuitica relativamente alla riflessione sul teatro e alla sua produzione? Ed ancora, esiste ed è configurabile una uniformità od omogeneità del teatro gesuitico, sul terreno tematico e drammaturgico?
A questo punto conviene riandare alle conclusioni di Bertana il quale, appunto, negava valore al teatro dei Gesuiti in quanto registrava l'assenza di unità, di fisionomia costante, di tecnica peculiare. Rovesciando il senso negativo di quelle considerazioni, resta il rilievo di un fenomeno pienamente identificabile proprio in virtù del carattere poliedrico e differenziato delle sue manifestazioni, e tuttavia riconducibile ad alcune costanti che sovrastano perfino i confini delle lingue e delle culture nazionali.

Come nel pensiero teologico e nella pratica pastorale, i Gesuiti si sono differenziati, anche sul terreno pedagogico e specificamente su quello teatrale, per la straordinaria duttilità e adattabilità alle situazioni, ai paesi, alle culture, alle occasioni più diverse, mantenendo ferma la finalità del loro operare e ad essa, contemporaneamente, subordinando e conformando ogni mezzo. Detto altrimenti, la loro attività e produzione presenta due facce: la prima, immediatamente percepibile, dominata dalla massima variabilità delle forme e delle espressioni, al limite del magmatico; la seconda, su uno strato più profondo, nella quale sono riconoscibili le costanti ideologiche, tematiche e culturali che hanno fatto del gesuitismo uno degli assi della vita europea nell'età post-rinascimentale non soltanto della vita religiosa, ma della piena vita culturale e sociale, con una capacità di suggestione di gran lunga più ampia di molte altre scuole e movimenti, cattolici o laici. Il loro teatro è, in questo senso, solo una delle manifestazioni o, si potrebbe dire, uno degli indizi della doppia natura del gesuitismo.

Si impone perciò anche nell'analisi di quel fenomeno un duplice versante, quello della riflessione teorica e ideologica e quello della produzione dei testi e degli spettacoli, versanti, del resto, che a volte (come proprio nel caso del Crispus) si intrecciano. La tragedia di Stefonio fu rappresentata, come già dicevo, alla fine dell'anno 1597 la prima volta " non con molto apparecchio di scena, né con molta pompa di robba, e di habiti sontuosi, ma con Attori e Recitanti sì rari che bisognò più volte ad istanza de' Principi ritornarla in palco ", essendo particolarrnente apprezzata la messinscena per " grado di grazia, di espressione, di portamento, di movenza, di voce, di maestà "(17) così scriveva il già ricordato padre Tarquinio Galluzzi, nella sua Difesa del Crispo, un trattato che pubblicò nel 1633, assieme alla Rinovazione dell'antica tragedia, per rispondere alle critiche che si erano addensate sulla tragedia di Stefonio, parallelamente allo straordinario successo che ovunque riscuoteva. È sempre infatti Galluzzi a sottolineare, prima di esaminare scrupolosamente le critiche, che, nei trentasei anni intercorsi dalla prima rappresentazione, " non si è quasi mai tolta di scena né in Italia, né di là da' monti; cagionando sempre ne' spettatori nuova maraviglia doppo che l'hanno ancora tante volte udita e veduta, che molti si trovano, li quali coll'uso di udirla e di vederla già ne ritengono a memoria la maggior parte ".(18)
Del resto la fama di Stefonio fu davvero molto ampia, all'epoca, come diretta risultante dell'eccezionale accoglienza riservata alle sue tragedie, rafforzando il prestigio dell'oratore e del maestro di retorica. Ne sono testimonianza, oltre le vicende biografiche (nel 1618 iu chiamato alla corte di Modena per l'istruzione del principe Alfonso d'Este), le attestazioni di stima da parte di Tasso e soprattutto Marino, che gli dedicò il seguente sonetto:

E la penna, e la lingua hai sparsa e piena
Di dolcezza, e di gratia e questa e quella
O se scrive, Stefonio, o se favella,
Di par si mostra a noi cigno e sirena.
L'una Apollo sostien e con tal vena
Muove; che già per te meri chiara e bella
I dorati cothurni a la novella
I Cede l'antica homai tragica scena:
Nell'altra poi che da Mercurio è retta
Mirabil Dea, possente Dea s'asconde,
Che dolcemente fulmina e saetta;
E mentre in note oltre ogni stil faconde
Hor n'insegna, hor n'infiamma, et hor n'alletta
Stilla miei, piove latte, oro diffonde.(19)

Al successo ottenuto in teatro dal Crispus va affiancato quello editoriale; alla prima pubblicazione nel 1601 seguirono numerosissime edizioni a stampa(20) anche queste diffuse sul territorio europeo. La straordinaria fortuna di questa pièce, a quanto risulta la più ampia per una tragedia scritta da un Gesuita, è certamente dovuta a un insieme di fattori concorrenti a quell'esito; e il primo fra tutti non può che essere il soggetto.

************************** IPPOLITO CADUTO E REALZATO ***************

La vicenda che viene qui

rappresentata è sostanzialmente

quella dell'"Ippolito" di Euripide e

soprattutto della "Fedra" di Seneca, vicenda

che, per quanto riguarda i luoghi e i nomi dei personaggi (come anche per qualche altro tratto), viene trasposta nella storia romana, con

l'imperatore Costantino al posto di Teseo,

Fausta, sua moglie, al posto di Fedra,

Crispo, figlio di Costantino

e della sua prima moglie Minervina, al posto di Ippolito, e così di seguito per altri personaggi di contorno.(21)

La filiazione del soggetto dal modello antico è dichiarata esplicitamente nella esposizione dell'argomento:

QVO CRIMINE CRISPVS

Qvo crimine Crispvs innocentissimus, Caesar, tertium consul, victor, triumphalis per summam iniuriam oppressus, iudicii genere par Hippolyto, sanctitate morvm, rebvs gestis, mortis contemtione superior, Faustam Phaedrae, Constantinum Theseo simillimos expertus est.

(22)

come anche nel testo che affida il prologo all'ombra di Fedra e al demonio.

Inoltre ci informa Galluzzi che l'autore " in prospettiva di scena "
fec'ergere una tavola come per manifesto e protestazione di quello ch'egli intendeva di fare con questa bellissima iscrizzione, letta ed ammirata da tutti come elegante, ingegnosa, e rassomigliante lo stilo de gl'antichi secondo ch'era sua costume di fare in ogni suo componimento:

Iulius Flavius Crispus Caesar
Flavij Constantini Augusti fìlius
Ex Alemannico bello victor
Tertium consul
Foris parta pace, domi bellum offendit.
Cum fortiter cadere, quam turpiter
Facere malvisset,
Faustam novercam Phaedrae, patrem Theseo
Simillimos est expertus.
Hippolyto ipse constantior.

E in un cartello più sintetico si leggeva

Crispus tragoedia, gemina cum Hippolyto.

(23)

Dunque è aperta la ripresa della favola di Ippolito e Fedra nel territorio educativo confessionale dei collegi gesuitici ed è tanto voluto il richiamo alla classicità, da essere esibito nella forma più palese.

Del resto si tratta di una delle applicazioni di quell'opera di ripristino delle forme classiche alla quale si dedicò Stefonio come drammaturgo e come choragus, perfettamente in linea con una certa ispirazione umanistica che si prolungò dalla cultura laica (e, in parte, da quella protestante) rinascimentale fino a certe zone controriformistiche.(24) La prima diretta motivazione della scrittura teatrale di Stefonio rimanda, così, all'esigenza già diffusamente avvertita e da lui ottimamente realizzata di " normalizzare ", riformandole, le rappresentazioni nei collegi, dal momento che queste occasioni comportavano un duplice inconveniente da quando si era iniziato a realizzarle,(25) riconducibile, peraltro, a ragioni interconnesse: gli spettacoli infatti attiravano una massa imponente di pubblico popolare, rozzo e ineducato, che facilmente trascendeva in comportamenti giudicati contrari alla decenza e alla moralità; mentre, d'altra parte, era la stessa natura degli spettacoli a suscitare un così grande interesse nel pubblico cittadino, arricchiti com'erano da ogni tipo di strumento scenico e drammaturgico atto a produrre meraviglia, sorpresa, diletto, indipendentemente dal carattere sacro dei soggetti e delle tematiche rappresentate.

L'operazione di Stefonio si può così intendere come il corrispettivo, sul terreno drammaturgico, delle norme che erano state dettate, nella Ratio studiorum, sul terreno pedagogico religioso. Di qui il riferimento obbligato al modello classico e a quello senecano in particolare(26) come il più noto e apprezzato in area umanistica per quanto riguarda la forma e l'ordine strutturale della tragedia, in tutto rispondente alle regole fissate da Aristotele, almeno secondo la lettura che di esse si faceva nella cultura rinascimentale.

Con tutto ciò, siamo appena all'inizio di una spiegazione, perché va ancora chiarito (ed è il punto più interessante) il motivo della scelta dello specifico soggetto di Ippolito e Fedra tra tutte le tragedie di Seneca pervenute all'età moderna.
Va considerato intanto che la cospicua mole della produzione tragica dei Gesuiti si può raccogliere sostanzialmente in tre filoni: ai soggetti tratti dalla storia romana, infatti, si affiancano temi ispirati alle Sacre Scritture e alle vite dei santi (in misura decisamente più consistente), proponendosi, per ultimo, un filone ispirato a eventi e personaggi storici più recenti; per quanto mi risulta, sono piuttosto rare le tragedie gesuitiche di soggetto mitologico, almeno nell'area italiana, dal momento che nei paesi di lingua tedesca, per esempio, è documentato qualche esemplare del genere.(27)

D'altra parte anche la produzione tragica cinque-secentesca di natura non religiosa, che pure si ispirava in maniera più diffusa di quella gesuitica ai temi della tragedia classica greca e latina, manifestò una decisa predilezione per il soggetto di Ippolito e Fedra costituendo una vera e propria linea che conduce per passaggi in qualche misura collegati al capolavoro di Racine di fine secolo e com'è noto anche oltre, fino all'età nostra.(28)

Certo un motivo plausibile del fascino esercitato da questo tema consiste nel fatto che, sia nel trattamento di Euripide come in quello di Seneca, presenta tratti del tutto singolari, con una particolare accentuazione dei due elementi, quello passionale, del "furore amoroso " (come lo definiva Galluzzi), da un lato, e quello fatale, del dominio del fato, dall'altro; così Segneri illustrava quest'ultimo:
si deride la Fede, si deifica la Fortuna, si stabiliscono quelle massime che servono di base all'Ateismo, ed ora con equivocazioni disoneste, ora con ereticali amfibotogie si dipinge la virtù per vizio, ascrivendo il tutto al Caso e togliendo di mano alla Provvidenza le redini del governo umano per metterle in mano al Fato.(29)

Entrambe le componenti sembrerebbero, insomma, appartenere alla prospettiva più radicalmente opposta a quella della morale cattolica controriformistica, come è infatti interpretata da Segneri.

Ebbene io credo che proprio qui si possa cogliere e verificare una prima specificità (di tipo tematico, in questo caso) del teatro dei Gesuiti, che rimanda alla più generale ideologia e cultura della Compagnia.

Nella lettura e ancora più nella messa in scena della storia di Ippolito e Fedra (non importa, per ora, come sia variata), i giovani allievi erano coinvolti (assieme al pubblico dello spettacolo) nella manifestazione di sentimenti e comportamenti che sfidavano tutte le positive convinzioni e convenzioni che animavano la vita educativa del collegio.

Dunque l'immersione piena in una dimensione di colpa e di peccato come prova della capacità di resistere all'una e all'altro, evento che si realizzava in una occasione eccezionale com'era la recita di fine anno e in un contesto eccezionale, quello del teatro che, per statuto spaziale e formale, era ed è del tutto fuori dalla norma della quotidianità.

È stata opportunamente sottolineata l'analogia, e anzi il legame organico, tra la pratica teatrale realizzata nei collegi gesuitici e l'ispirazione devozionale degli Esercizi spirituali del fondatore della Compagnia di Gesù;(30) come anche la finalità educativa, in senso lato, dell'impegno imposto ai giovani studenti nella recitazione. Ha bene sintetizzato questi tratti Fumaroli: " tale gioco delle passioni è stato calcolato dal drammaturgo come psicomachia dell'anima cristiana obbligata a scegliere fra Dio e il Demonio, fra il Bene e il Male: la coscienza dello spettacolo come un tutto, a cui ogni attore deve saper innalzarsi, è quindi generatrice di un senso edificante".(31) Fumaroli osserva ancora che a queste ragioni di carattere generale si deve aggiungere, nel caso specifico del Crispus, una volontà apologetica del padre Stefonio che, mettendo in scena la Roma imperiale di Costantino, celebrava insieme la grandezza della città papale e la figura del primo Imperatore cristiano, autore per di più della presunta donazione della città ai Papi. Ora, tutto ciò ha probabilmente una sua fondatezza, ma non mi sembra sia sufficiente per spiegare il senso effettivo della ripresa proprio del mito di Fedra e l'enorme successo di questa riproposizione, sulle scene dei teatri dei collegi come nelle edizioni a stampa. Al quale successo vanno per l'appunto ascritti i numerosi rifacimenti in area italiana ed europea. Voglio ricordare solo (e mi limito all'Italia) una prima traduzione in italiano del Crispus (databile presumibilmente al 1620; e ne seguirono molte altre fino al Settecento), sulla quale tornerò più avanti; un Chrisanto del padre Ortensio Scammacca,(32) autore di più di quaranta tragedie sacre e morali (come le definiva lui stesso, distinguendo quelle con soggetto tratto dalle Sacre Scritture da quelle provenienti da altre fonti), il quale Scammacca trasferì il luogo dell'azione a Palermo, e sostituì ai Romani i Goti.

Ancora un "Crispo" di Giovan Francesco Savaro,(33) nel quale è introdotta una principessa della Pannonia, schiava di guerra, Beronice, della quale Crispo è innamorato -- l'anticipazione, insomma, della "Aricia" della Phèdre di Racine -- cfr. Aricia, Vannarelli/Ortuso, "Ippolito", Spoleto, 1661), un "Ippolito" di Emanuele Tesauro,(34) esplicito rifacimento della tragedia di Seneca, con interessanti varianti rispetto al modello, in analogia con l'operazione realizzata con l'Edipo, anch'esso ispirato a Seneca.(35)

E si potrebbe continuare ancora per il Settecento e l'Ottocento.

Del resto, in tutti i testi citati sopra, le varianti rispetto ai modelli classici sono numerose e presentano, sia pure in misura diversa, elementi degni d'attenzione; ma non è tanto questo, ora, che mi interessa sottolineare, quanto la presenza indifferenziata e insistente di quel mito e la sua forza d'attrazione, evidentemente ritenuta ai fini educativi e persuasori più efficace di tante altre vicende e, comunque, di ogni altra derivata dalla tradizione classica.

A conferma della tacita attribuzione di valore educativo alla storia di Fedra, nel rimaneggiamento di Stefonio, possiamo fare riferimento ad una assenza piuttosto che a una presenza.

Nella Difesa del Crispo, alla quale ho accennato sopra, il padre Galluzzi elencava le critiche che il Crispus aveva raccolto fin lì, raccogliendole in sei " opposizioni ". Noi non conosciamo direttamente la natura e i caratteri di quelle critiche e dobbiamo pertanto ipotizzarle dalle controdeduzioni di Galluzzi, ma, esaminando le sei opposizioni, è assolutamente evidente che tra esse non compare alcuna critica alla scelta del soggetto, indubbiamente scabroso e implicante l'allusione se non proprio la trattazione di una passione tra le più esecrande.(36)
E allora non risulta affatto infondata la convinzione che si tratti di una intenzione consapevole e meditata, nella direzione di modalità pedagogiche sensibilmente originali nel quadro religioso del cattolicesimo, e specificamente di quello controriformistico. Passa insomma anche per questo canale un'idea fortemente attiva, in qualche modo perfino aggressiva, dell'affermazione della spiritualità nel mondo; l'idea che ci si debba continuamente, energicamente, confrontare con gli aspetti più pericolosi, tentatori, del mondo, per consolidare davvero la propria opzione di fede: una prospettiva, del resto, sottesa ad una delle attività più importanti e distintive dello spirito militante della Compagnia, quale era il missionarismo. E in questo senso che la combinazione di vitalità passionale e di disciplina interiore che dovrebbe essere la misura di una vita piena e, insieme, morale può trovare nel personaggio di Fedra il soggetto per eccellenza da osservare, in quanto stimola l'attenzione alla passione eccessiva e induce quindi alla necessità di disciplinarla.

Del resto Fedra appartiene a quella schiera di personaggi (come Edipo, Ulisse, Medea, don Giovanni, Faust, ecc.), trasgressivi per oltranza (ubris), i quali nella cultura occidentale hanno continuato a incarnare ognuno, lungo i secoli, qualche specifico aspetto dell'essere umano, nella proiezione al di fuori di ogni misura terrena.

Naturalmente, va ricordato, il PROTAGONISTA, qui, è Crispo (Ippolito), e NON Fausta (Fedra).

Non solo per la ragione disciplinare che vietava la comparsa sulle scene del teatro di collegio di personaggi femminili.

Ma per le ragioni più profondamente intrinseche che obbligavano a incardinare la vicenda drammaturgica su un personaggio che subisse la passione (qualunque passione) piuttosto che suscitarla, provocarla.

Sulla via dell'illustrazione nella prospettiva cristiana della passione si definiscono i contorni di un personaggio omologo sempre, nella funzione alieno, al martire, a colui che si sottopone coscientemente alla passione, alla sofferenza fino alla morte gloriosa, nell'imitazione, appunto, della morte per antonomasia gloriosa, quella di Gesù.(37).

È questa la prospettiva anche di Galluzzi, il quale tuttavia, nella Difesa del Crispo, propone, prima di affrontare specificamente questo tema, una questione pregiudiziale, e precisamente la sostituzione di Platone ad Aristotele come nume tutelare della precettistica tragica; questo gli permette di legare la finalità della tragedia all'esaltazione e alla difesa della libertà contro la tirannia, anziché al terrore e alla purificazione come prescriveva Aristotele, almeno nella lettura che ne facevano gli umanisti, sia laici che cattolici.

Il ridimensionamento di Aristotele o la sua storicizzazione è funzionale, nel ragionamento di Galluzzi, alla risposta alla prima obiezione che si fece al Crispus e cioè, appunto, l'essere il protagonista, Crispo, un personaggio troppo integralmente positivo, inadatto, per questo, a sostenere il peso della dilemmatica tragica.

Scrive dunque Galluzzi:

Decretò Aristotele, che il soggetto tragico, cioè colui, che colla miseria e col tormento che patisce dovrà movere quella speziai misericordia e quel particolare terrore, di cui egli ragiona, non vorrà essere, né per virtù, né per vizio segnalato, e eccedente, ma mezano fra '1 vizio, e fra la bontà. E ne porta a ragione, con dire, che non ci muovono a compassione e terrore se non que' soggetti pazienti, che sono simili a noi: e che simili a noi non sono se non i mezani fra l'innocenza e la colpa, e tra '1 vizio e la virtù." (38)

Tuttavia, se ci si discosta da Aristotele, si può ragionevolmente sostenere che anche personaggi " buonissimi e santissimi " possano ricoprire ruoli nel racconto tragico, in quanto " non sono disdicevoli alla tragedia universale, ma solo a quella in particolarità, che Aristotele con alcune private sue leggi riformò ".(39)

Viene così ammesso a fare da protagonista di tragedia ogni genere di personaggio positivo, tanto positivo da poter esser comparato ai martiri, ai santi, ai personaggi tratti dalle Sacre Scritture, " purché di sangue e di nascita sia Principe e grande o in altra maniera riguardevole per alta signoria o per potentato ".(40)

È posto qui un tema di grande rilievo per tutti coloro che, ancora a lungo, si porranno il problema della natura della tragedia, confrontando l'ispirazione e il contesto della tragedia classica con l'analoga forma drammaturgica moderna. In particolare e tipicamente controriformistico è il dilemma relativo alla liceità della tragedia cristiana, ovvero alla plausibilità di un protagonista tragico come il martire cristiano, la cui morte terrena non può che rappresentare la condizione per l'inizio della vita vera, quella che si dispiega pienamente una volta che lo spirito si sia definitivamente separato dal corpo. Il nucleo del problema consiste nel nesso, posto da Aristotele o comunque dai suoi interpreti umanistici, tra eroe della tragedia e catarsi, tra la sua vicenda e l'effetto che deve produrre nello spettatore; non potendosi dare, secondo molti commentatori e teorici, un autentico effetto catartico laddove venga a mancare la catastrofe, la caduta precipitosa dentro l'abisso della colpa e della morte, da un'iniziale elevatezza di esistenza e di fortuna.

L'eroe positivo, l'innocente perseguitato, il martire non potrebbe dunque essere oggetto tragico, a meno che non si modificasse, sul terreno teorico, la natura stessa della tragedia, la sua motivazione strutturale.

La riproposizione più recente e suggestiva di queste tesi si deve a Steiner che nel suo Morte della tragedia attribuisce alla locuzione " tragedia cristiana " un carattere sostanzialmente ossimorico (" II fatto è che non c'è mai stata una tragedia specificamente cristiana, nemmeno quando la fede era in pieno rigoglio. Il cristianesimo esprime una concezione antitragica del mondo "), e fa da qui derivare l'inevitabile conseguenza della sottrazione di tragicità all'eroe cristiano: " Poiché è una soglia verso l'eternità, la morte dell'eroe cristiano può essere causa di dolore, non di tragedia "(41) Dal momento in cui nell'orizzonte dell'uomo occidentale è apparsa la prospettiva della vita ultraterrena, del giudizio universale, con il ristabilimento finale dell'ordine, la morte ha perso il suo valore tragico, sostiene Steiner; trascurando, però, la possibilità di spostare il senso della tragedia dall'assoluto della morte ad altri terreni e, specificamente, in area cristiana, alla morte nel peccato che è come dire alla vita nel peccato, alla modulazione della vita sulla ricerca del limite e, naturalmente, del suo superamento: qui riposa, almeno in età moderna, la virtù dell'eroe tragico, non di tutti gli eroi tragici, ma certo di loro consistenti e influenti incarnazioni.
Spostando la riflessione dal piano estetico a quello morale, Manzoni aveva posto il problema in altri termini; aveva adottato cioè, in qualche modo, la linea martirologica ma sottoponendo a meticolosa critica quell'idea di catarsi nella quale riconosceva l'ostacolo principale alla modificazione in senso moderno dell'operare tragico, sul terreno teorico come su quello operativamente drammaturgico. Dunque è possibile " la tragedia morale " (vale a dire " cristiana ", nel lessico manzoniano) quando si riesca a confutare l'asserzione, condivisa dai sostenitori della naturale immoralità del teatro, che la sua finalità è obbligatoriamente " di eccitare le passioni e di assecondarle ".(42) Ma, obiettava Manzoni, si tratta di una " opinione ricantata e falsa: che il poeta per interessare deve movere le passioni. Se fosse così sarebbe da proscriversi la poesia. Ma non è così. La rappresentazione delle passioni che non eccitano simpatia, ma riflessione sentita, è più poetica d'ogni altra "(43) E nella lettre a M. Chauvet, sviluppando con grande finezza queste tematiche, fissava i termini dell'operare del poeta:

Qu' il pretende, il le doit, s'il le peut, a toucher fortement les àmes; mais que soit en vivifiant, en développant l'ideal de justice et de bonté que chacune porte en elle, et non en les plongeant a l'étroit dans un ideal des passions factices; que ce soit en élevant notre raison, et non en l'offusquant, et non en exigeant d'elle d'humilians sacrifices, au profit de notre mollesse et de nos préjugés.
Il ragionamento manzoniano proietta questi motivi nella piena dimensione della modernità, superando una connotazione specificamente religiosa in virtù del dominio conclamato della ragione che garantisca dall'offuscamento delle passioni e, quindi, da un effetto brutalmente catartico inteso nel senso più scolasticamente circoscritto.

L'obiettivo conclamato dei Gesuiti con il loro teatro tragico consisteva precisamente nel " atteindre la raison par l'entremise de l'affectivité ";(45) a questo scopo tendevano gli accorgimenti scenografici e, in genere, le cure degli allestimenti, ma anche le vicende, i personaggi e le frequentissime allegorizzazioni. È questo dunque il contesto di sviluppo di quella linea martirologica che caratterizza in modo forte, sul terreno teorico come su quello compositivo, molta parte della cultura letteraria e teatrale dalla metà del Cinquecento al primo Ottocento, almeno, con una varietà e una ricchezza di argomenti e di esiti del tutto comprensibile se si pensi soltanto ai numerosi e significativi elementi implicati in quell'area di riflessione.

A qualunque sfondo martirologico si voglia connettere la posizione di Stefonio, certo è che il giovane innocente e casto Crispo, opposto per sentimento morale e religioso alla perversa matrigna, non differisce sensibilmente dalPlppolito senecano, iscritti per l'appunto entrambi in una dimensione tendenzialmente martirologica che è indipendente dalla natura della fede professata (anche se naturalmente assume connotati e implicazioni diverse nella prospettiva pagana e, poi, in quella cattolica).

Ippolito, si ricordi, in Euripide come in Seneca è devoto della dea ARTEMIDE (Diana) in una misura così accentuata da farne un esemplare misogino.

E, d'altra parte, la "Fedra" di Racine si stacca decisamente dalla tradizione, proprio in quanto riesce a modulare genialmente l'innovazione (non sua ma solo da lui pienamente compresa e svolta -- cfr. Vannarelli/Ortuso, 1661) di un Ippolito innamorato e quindi di una Fedra che aggiunge la gelosia ai suoi eccessivi sentimenti analizzati tutti nello svolgersi dell'interiorità dell'infelice vittima del Fato.

Come si è visto, nel Crispus viene dichiarata esplicitamente la filiazione dall'Ipolito di Seneca, un tratto che fu utilizzato dai contemporanei per imputare a Stefonio un'attitudine all'imitazione dei classici così accentuata da configurarsi in termini di plagio, sempre secondo quanto leggiamo nella Difesa di Galluzzi; il quale riporta infatti il giudizio negativo espresso da coloro che avevano rilevato come " l'Autore molti versi, parte dimezati, e parte interi tolse da Seneca tragico ".(46) E si può del resto aggiungere che non solo di Seneca si tratta, ma anche di Virgilio, Ovidio, ecc., in quella prospettiva, anch'essa precisamente pedagogica, che sottoponeva ai giovani allievi impegnati nella recita, come agli altri che vi assistevano (assieme al pubblico), un vero e proprio corso di letteratura classica, con ampio sfoggio di erudiziene. Galluzzi dunque rispondeva a questa " opposizione " secondo la più consolidata tradizione umanistica che l'imitazione e le citazioni non sono mai da intendersi come " rubberia e ladroneccio ", potendosi appellare alla pratica ampiamente diffusa già tra i classici (Daniello Battoli intitolerà qualche decennio più tardi un capitolo del suo trattato Dell'uomo di lettere difeso ed emendato esattamente così: Come si possa rubare dagli scritti altrui con buona coscienza e con lode).

D'altronde sarà solo con il Romanticismo che diventerà acquisizione comune la coscienza del distacco, della non continuità tra mondo antico ed età moderna, tra gli scrittori della classicità e quelli contemporanei, secondo un'idea del moderno che è, in ultima analisi, una forma della frattura. Sicché è chiara, per un verso, la funzione pedagogica della prospettiva umanistica delle citazioni dai classici nella tragedia stefoniana,(47) ed è insieme rilevante l'esplicita assunzione della Fedra senecana come modello; pure considerando che, come si è visto, Seneca rappresenta il riferimento drammaturgico (più o meno cogente) della quasi totalità dei tragediografi nell'età controriformistica (del resto non solo in Italia), ed anche, cosa che qui ci interessa di più, dei Padri gesuiti che nei collegi si cimentavano con la scrittura delle tragedie. Dunque da questo punto di vista c'è una assoluta continuità di ispirazione e di poetica che lega il teatro gesuitico alla produzione teatrale coeva nel suo insieme; una continuità che poggia su quel connubio di tradizione classica umanistica e spirito controriformistico sul quale ha richiamato l'attenzione, una ventina di anni fa, Asor Rosa come caratteristico di quelle manifestazioni che definiva " forme del missionarismo specie gesuitico del Seicento "(48) e che, più recentemente, è stata riaffermata da Fumaroli, con preciso riferimento al Crispus: " La rappresentazione di Crispus, così com'è voluta da padre Stefonio è dunque proprio una Rappresentazione sacra. Essa fa fondere valori estetici di origine umanistica - il piacere, commuovere, educare di Quintiliano, l'ammirazione portata fino al raptus sublime di Longino - con valori di sensibilità cristiana, zelo e compassione ". Su questa via, per Fumaroli, si può affermare un'analogia o addirittura un'identità tra messa in scena della morte di Crispo e messa in scena della morte di Cristo: " essa è una delle manifestazioni più complete della rhetorica divina gesuita, che mette al servizio della devozione le industrie dell'arte oratoria e dell'arte drammatica ".(49)

Naturalmente la finalità edificante e persuasoria era la costante di tali forme e l'elemento prevalente che le animava; altrettanto naturalmente in questo tipo di programma occupavano un ruolo rilevante quelle rappresentazioni teatrali che coinvolgevano, in occasione degli spettacoli, gli allievi assieme al pubblico in una esperienza che sempre, a giudicare da testimonianze e resoconti, colpiva la mente e i sentimenti di coloro che vi assistevano, e, qualche volta, faceva repentinamente maturare la decisione di prendere i voti. E tuttavia appare, in fondo, piuttosto limitativo esaurire qui la funzione e l'efficacia del teatro dei Gesuiti se non altro perché ha saputo prolungare molto al di là del dominio specificamente religioso una cospicua capacità di influenza sulle forme espressive del teatro e, insieme, ha partecipato a quel progetto di formazione delle classi dirigenti che si è imposto a lungo in parecchi paesi europei.

Certamente una delle più forti ragioni della potenzialità suggestiva della cultura gesuitica e del suo teatro risiedeva in quella duttilità e adattabilità che dai suoi avversaci fu sistematicamente indicato come uno dei peggiori vizi morali dell'ordine. Da quanto si è visto fin qui si colgono bene, mi sembra, alcuni dei modi nei quali si manifestava, ne! caso del teatro, questa duttilità.

È sempre di questo genere la' trattazione, nella Difesa del Crispo, di una delle critiche indirizzate alla tragedia stefoniana, consistente precisamente nell'affermazione che " non fu lecito al poeta introdurre l'ombra di Fedra con la Furia o col Demonio appresso ", ovvero che " il poeta habbia tenuta poca cura di quello che conviene alla nostra religione, mentre molta se ne prese dell'imitazion degl'antichi ".(50)

Come risponde Galluzzi?

Invocando la totale libertà del poeta, che può servirsi, a suo piacimento, dell'astratto o del concreto; afferma perciò la pregnanza dell'elemento retorico-letterario, ossia il valore, in questo caso, dell'allegoria; l'ombra di Fedra che compare nel Prologo del Crispus non va intesa come un personaggio femminile, ma va piuttosto interpretata come la forza e la general violenza dell'amorosa passione, la quale quando forte infiammata e molto vigorosa, né da verun governo di ragione ritenuta sia, spezza ogni freno di vergogna e di timore, ogni legge dispreggia e rompe, né più ode quel grido della natura, che richiama ogni impudico affetto, qual'hora voglia trapassar i termini dell'ordinario peccare.(51)

Dove, accanto all'ingegnosità della casistica, va segnalata quell'allusione a un " ordinario peccare " che non può che rimandare a un peccare straordinario, anomalo, fuori cioè di ogni norma, di ogni limite fissato in precedenza; alla quale, dunque, corrisponde perfettamente la sottolineatura della passione, dell'eccesso, che è il motivo del Crispus. Un motivo ben presente, è vero, in tragedie di argomento e di autori profani; ma che, proprio per questo, maggiormente colpisce nell'ispirazione religiosa di Stefonio, perfettamente congruente con quella prospettiva drammaturgica e ideologica che caratterizza la presenza culturale dei Gesuiti in Italia.

È in questo quadro che si coglie meglio il valore dello straordinario successo della pièce stefoniana non solo nei collegi dei Gesuiti, ma più ampiamente nel teatro tragico europeo dei primi decenni del Seicento. Benché Stefonio sia autore di altri testi drammaturgici, come S. Symphorosa(52) e Flavia, inserita quest'ultima, assieme al Crispus, nella già ricordata antologia (Selectae Tragoediae) pubblicata nel 1634, come anche in successive ristampe, tuttavia è indubbiamente al rifacimento della Fedra che va assegnata la forza di suggestione di un modello e di un tema che ha affascinato tanto a lungo la cultura religiosa come quella laica.

Per capire a fondo le ragioni e i

modi di questo esercizio di attrazione

sarebbe necessario passare attraverso

un sistematico confronto testuale

delle numerosissime varianti della favola, che

essa venga intitolata a "Ippolito", a Fedra, a Crispo o a qualche loro sinonimico parente.

Non è questa la sede per un lavoro di tal genere, che richiede evidentemente uno spazio e un tempo adeguati.

Mi limito dunque a qualche rapida osservazione derivata dalla comparazione della tragedia in latino Crispus (nell'edizione a stampa del 1601 che è stata fin qui utilizzata) con una delle versioni in italiano, in una edizione a stampa non datata, ma presumibilmente del 1620. Sono davvero sintomatici i numerosi elementi che differenziano il testo originale dalla sua traduzione. La prima chiara evidenza risiede nell'elenco dei personaggi.

Nel Crispus:

Phaedrae Umbra; Malus Daemon; Chorus Iuvenum Romanorum ex convieni Crispi, & disciplina & educata S. Helenae; Constantinus Minor; Senator Constantini Minoris Moderator; Costantinus Maior Aug. Irnp.; Artemius Tribunus Militum; Senatus; Senex Faustae Custos; Eunuchus Faustae servus; Fidicina intra Proscenium; Nuntius Aulicus; Manipulus Militum Duplex; Crispus Caesar & Consul cum lictoribus laureatis; Fausta intra Proscenium; Nuntius; Praefectus Urbis; Ablavius S. Helenae Aug.; Palatij Comes.(53)

Nel Crispo:

II Demonio; Crispo console figlio dì Costantino; Senatore; Coro di donne; Nutrice di Fausta; Fausta Imperadrice; Elena Madre di Constantino; Constantino Imperadore; Ancella nuntia; Servo nuntio.(54)

È facile osservare come la versione italiana semplifichi contraendo il numero dei personaggi in misura notevole (da diciotto a dieci).

Ma è ancora più interessante registrare le soppressioni e le trasformazioni. Scompare Costantino minore e quindi il motivo dell'invidia che (questi manifesta (atto I, scena i) nei confronti del fratellastro e che svolgerà un suo ruolo nel precipitare degli eventi; scompaiono tutti i personaggi legati al processo al quale, nel Crispus, viene sottoposto il giovane console, perché nel Crispo non c'è più processo; sono eliminati personaggi e situazioni che richiamano l'esercito, i soldati, la qualità militare di Crispo; sparisce Ablavio, al quale si deve la scoperta della verità e il tentativo in extremis di salvare la vita dell'innocente perseguitato. Insieme viene portata in scena Fausta (nonostante il divieto della Ratio studiorum), andando oltre l'ingegnoso accorgimento di Stefonio che aveva previsto una Fausta malata e sofferente e perciò relegata nel proscenio;(55) la funzione del Senex Faustae Custos e dell'Eunuchus Faustae Servus viene incanalata in un solo personaggio, la nutrice, di tradizionale statuto. Ancora, viene inserita Elena, madre dell'imperatore Costantino e, infine (per rimanere ai segni più manifesti), al coro di giovani compagni di Crispo corrisponde un coro di donne.

Già solo da questi fattori si ricava agevolmente la conclusione che si tratta di due storie sensibilmente differenti, pure se alimentate dalla medesima radice: dilatata e arricchita, la prima; ricondotta sostanzialmente allo schema della tradizione classica, la seconda, come risulta del resto chiaro dall'esposizione dei due argomenti(56) che evidenzia una profonda discrepanza nello svolgimento dell'intreccio, nel ruolo dei personaggi, negli effetti prodotti sul lettore/spettatore; motivi tutti che meritano di essere analiticamente esaminati, in un'altra occasione.

Ma per chiudere almeno provvisoriamente il ragionamento sul senso della proposta drammaturgica del padre Stefonio, può essere utile richiamare l'attenzione su un passaggio del Crispus, all'altezza dell'atto V, quando il coro commenta la scoperta della verità ovvero dell'innocenza di Crispo e della colpa di Fausta: scoperta che qui si deve (e non è certo un dettaglio insignificante) alla determinazione dell'amicizia di Ablavio per Crispo. Dunque così recita il coro: " Veruni est quod fidibus docet: / Victum pectus amoribus / Coecas in furias agi: / Nulla cupidos lege teneri: / Facile irasci semper amantes: / Et quos cepit amor, furor / Eosdem praecipites rapii. / Tenui quando limite distai / Furor amentis, fervor amanlis ".(57) Che si può tradurre approssimativamente così: " È vero ciò che si insegna con la poesia: / L'animo vinto dalle passioni / Cade nelle furie cieche: /I passionali non sono trattenuti da alcuna legge: / Gli amanti sempre con facilità si infuriano: / E quelli che sono presi dall'amore sono trascinati a precipizio dal furore. / Un sottile limite separa / II furore del pazzo dalla passione dell'amante ".

La messa in scena della passione, dunque, la più scellerata accanto alle più " ordinarie " per ricordare la parola impiegata da Galluzzi: è questo tipo di messa in scena, che, come in una sorta di moderno psicodramma, materializza le forme del peccato per esorcizzarle e, attraverso una vera e propria psicomachia, decretarne la sottomissione alla ragione. Che per realizzare questo obiettivo pedagogico si siano scelti un tema e un testo classico e una forma come la tragedia, è un'altra prova della straordinaria capacità inventiva degli intellettuali gesuiti che, anche per questo, seppero esercitare tanto a lungo una profonda e pervasi-va capacità di attrazione culturale.

1. De spectaculìs. Il testo fu tradotto in francese dal padre Pierre Brumoy e pubblicato l'anno seguente (Paris, 1733). La citazione è in Pierre Peyronnet, Le théàtre d'éducation des Jésuites, in " Dix-huitième siècle", Numero special, Les Jésuites, n. 8, 1976, p. 108.

2. Il testo definitivo si può leggere in Ratio studiorum et Institutiottes Scholasticae Societatis lesu, a cura di Michel Pachtler, Berlin, A. Hofmann, 1887, tomo II La bibliografia sulla funzione della Ratio è piuttosto consistente sia sotto il versante della drammaturgia che sotto quello pedagogico. Tra i molti contributi, mi limito a segnalare: La " Ratio studiorum ". Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di Gian Paolo Drizzi, Roma, Bulzoni, 1981, e, in particolare, Gian Mario Anselmi, Per un'archeologia della "Ratio ": dalla "pedagogia" al "governo", pp. 11-42; dello stesso Gian Paolo Brizzi, Caratteri ed evoluzione del teatro di collegio italiano (seco. XVII-XVIII), in Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano, a cura di Mario Rosa, Roma, Herder, 1981, pp. 177-204; Francois De Dainville, Véducatìon des Jésuites (XVI-XVIII sj, Paris, Ed. de Minuit, 1978; Jean-Marie Valentin, Le théàtre des Jésuites dans les pays de langue allemande (1554-1680). Salut des àmes et orare des cités, 3 voll., Bern-Frankfurt am Main-Las Vegas, Peter Lang, 1978; Mare Fumaroli, Eroi e oratori. Retorica e drammaturgia secentesche, Bologna, II Mulino, 1990; Mario Scaduto, Il teatro gesuitico, in " Ar-chivum Historicum Societatis lesu", voi. XXXVI, 1967, pp. 194-215; Id., Pedagogia e teatro, ibidem, vol. XVIII, pp. 353-67; Bruna Filippi, " ...Accompagnare il diletto d'un ragionevole trattenimento con l'utile di qualche giovevole ammaestramento... ". Il teatro dei Gesuiti a Roma nel XVII secolo, in " Teatro e Storia ", IX/1994, pp. 91-128.

3. Maurice Gravier, Le Théàtre des Jésuites et la tragèdie du salut et de la conversion, in Le Théàtre tragique, a cura di Jean Jacquot, Paris, C.N.R.S., 1962, p. 120.

4. Emilio Bertana, La tragedia, Milano, Vallardi, 1900. Ma anche a proposito del teatro dei Gesuiti in Francia è stato osservato che " C'est une habitude de minimiser l'importance du théàtre néo-latin en Pratice, sous le prétexte que les répresentations scolaires ne touchaient qu'un public restreint et puéril, que le latin était un obstacle a une réelle communication entre auteur et public, que les sujets retenus, en generai hagiographiques, méconnaissaient la véritable nature du tragique, et que d'ailleurs, si l'on conserve d'innombrables mentions des spectacles offerts, les auteurs n'ont pas jugé utile de foumir le texte de leurs tragédìes " (Andre Stegmann, Le Róle des Jésuites dans la dramaturgie francaise du debut du XVII siede, in Dramaturgie et società, a cura di Jean Jacquot, Elie Konigson, Marcel Oddon, Paris, C.N.R.S., 1968, p. 445-56 [445]).

5. Emilio Bertana, La tragedia, cit., p. 175. E proseguiva: " Tutti i caratteri che in esso si son voluti avvertire come speciali, non appaiono solo in esso come cose nuove, delle quali, nel teatro laico anteriore o contemporaneo non si diano esempi; ma i soggetti sacri necessariamente furono dai gesuiti molto spesso trattati, e trattati anche (in Italia meno che altrove) con una libertà che, in certo modo, avvicina la tragedia gesuitica - disse il Colagrosso - al dramma inglese e spagnuolo. Vero è, però, che i gesuiti né creano né divulgano una poetica drammatica diversa dalla corrente; i più famosi di quelli venuti dopo, su per giù, s'attennero alle norme dettate da uno dei loro più antichi precettisti: quel Jacopo Spanmuller, che si ribattezzò umanisticamente in Pontanus " (ibidem).

6. Oltre i testi già citati di Gian Paolo Brizzi, Mare Fumaroli, Mario Scaduto, Emilio Bertana e Bruna Filippi (della quale si può consultare anche la tesi di dottorato, La scène jésuite. Le théàtre scolaire au College Romain au XVII siede, École des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris, 1994), si possono ricordare almeno i seguenti studi specificamente rivolti alla dimensione italiana (essendo invece la bibliografia relativa ad altre realtà europee notevolmente più ricca, specialmente quella di area francese e tedesca): Luigi Ferrari, Appunti sul teatro tragico dei gesuiti in Italia, in " Ras-segna bibliografica della letteratura italiana ", voi. Vili, 1899, pp. 124-30; Francesco Colagrosso, Saverio Bettinellì e il teatro gesuitico in Italia, Firenze, Sansoni, 1901; Gualtiero Gnerghi, Il teatro gesuitico ne' suoi primardi a Roma, Ed. Officina Poligrafica, 1907; Attilio Simioni, Per la storia del teatro gesuitico in Italia, in " Rassegna critica della letteratura italiana", n. 7, lug.-ag. 1907, pp. 145-62; Benedette Soldati, Il Collegio mamertino e le origini del teatro gesuitico, Torino, Loescher, 1908; Victor R. Yanitelli, The Jesuit Theatre in Italy, New York, Fordham University, 1945; Riccardo G. Villoslada, Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) atta soppressione della Compagnia di Gesù (1773), Roma, Università Gregoriana, 1954; S. Gosset, Brama in thè English College. Roma 1591-1660, in "English Literary Renaissance ", vol. III, n. 1, 1973, pp. 60-93; Michelino Grandieri, Della moderazione onesta. Introduzione al teatro dei gesuiti in Italia, in " Storia dell'arte ", gen.-apr. 1978, pp. 59-70; Michael Williams, The Venerable English College, Rome. A History 1579-1979, London, Associated Catholic on Behalf of the College, 1979; I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, a cura di Maria Chiabò e Federico Doglio, Roma, Centro Studi sul teatro medievale e rinascimentale, 1995 (che contiene, tra gli altri, contributi relativi all'Italia). Esistono, inoltre, numerose tesi di laurea discusse presso l'Università cattolica del S. Cuore di Milano che, pur non essendo di agevole consultabilità, possono presentare qualche motivo dì interesse. Tra le altre: Maria Pia Falletti, Il teatro italiano dei gesuiti nei secoli XVI-XVII-XVIII (1941); Mario Riposati, Bernardino Stefonio e le teorie drammatiche del classicismo (1956); Pier Luigi Scanu, Il teatro dei gesuiti e le sue ripercussioni in Sardegna (1964); Giuseppe Danesi, Il teatro didascalico dei gesuiti in Italia (1976); alle quali si possono aggiungere Flaminia Cardarelli, La tragedia di Bernardino Stefonio (Università di Roma, 1967); Cathérine Faivre, Traduction et commentale d'une panie de la Flavia du p. Stefonio, (Università di Parigi, Sorbonne, 1973); Fiamma Guadagni, Il teatro dei gesuiti a Gorizia alla metà del '600 (Università di Bologna 1983); Giuliano Damiano, Il teatro gesuitico a Milano nei secc. XVI e XVII. Il Collegio di Brera e la tragedia di Emanuele Tesauro (tesi di dottorato, Università cattolica, Milano, 1993); Sandra Bianco, Traduzione e commento del Crispus di B, Stefonio (Università della Basilicata, 1996).


7. Cfr. su Stefonio, oltre i testi già citati, Camilla Avanzi, Un classicista nella tragedia italiana (Ortensie Scammacca), Verona, Ed. Soc. Coop. tipografica, 1907. Si era imbattuto nel Crispus di Stefonio anche Benedetto Croce, all'interno di un'indagine sulla poesia latina del XVII secolo, che concludeva con una valutazione complessivamente negativa, Stefonio compreso: " C'è, in tutta questa farragine, da raccogliere alcun fiore di schietta poesia? Ho letto o scorso buon numero di questi volumi e non ho incontrato tale fortuna. Il che non vuoi dire che, allora, e nei circoli in cui nascevano, non piacessero e, talvolta, veramente commovessero " (Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1949, p. 150). Su Tuccio (o lucci) cfr. Giorgio Calogero, Stefano Tuccio poeta drammatico latino del secolo XVI, Pisa, Ed. presso il Municipio, 1919; Id., Stefano Tuccio, Milano-Roma-Napoli, Ed. Dante Alighieri, 1925. Su Scammacca cfr. Luigi Natoli, Hortensio Scammacca e le sue tragedie, Palermo, s.e., 1884; Aida Beatrice D'Agata, Le tragedie di Ortensia Scammacca, Siracusa, Ed. Tipografia dell'Eco della Provincia, 1910; Michela Sacco Messineo, Il martire e il tiranno. Ortensia Scammacca e il teatro tragico, Roma, Bulzoni, 1988. Altri interventi, alcuni dei quali di notevole interesse, sono stati dedicati ad autori diversi dai tre sopra segnalati, come Tommaso Aversa, Anton Maria Prati, Simon Maria Poggi, ecc., ma anche alla presenza educativa e teatrale dei Gesuiti in zone geografiche e culturali determinate (il Trentino, il Veneto, Genova, ecc.). Tra questi ultimi, mi limito a segnalare: Franco Vazzoler, Note su alcune rappresentazioni teatrali nel Collegio genovese (1686-1739), in 1 gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova, Atti del Convegno internazionale di studi. Genova 2-4 die. 1991, a cura di Claudio Paolocci, Genova, Scuola Tip. Sorriso francescano, 1992, pp. 151-57; Amedeo Savoia, Il teatro dei gesuiti a Trento fra XVII e XVIII secolo. Analisi di alcuni drammi manoscritti, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, a cura di Andrea Battistini, Bologna, II Mulino, 1994, pp. 185-97; Nicola Mangini, Giovanni Morelli, Emilio Sala, Armando Fabio Ivaldi, Sul teatro gesuitico a Venezia, in I gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù. Atti del Convegno di studi, Venezia 2-5 ott. 1990, a cura di Mario Zanardi, Padova, Gregoriana, 1994, pp, 589-625.

8. Paolo Segneri, Il cristiano istruito nella sua legge. Ragionamenti morali, Venezia, 1742, voi. Ili, p. 295 (Ragionamento trigesimo primo. In detestazione delle commedie scorrette}. Cfr. su questo punto e, in genere, sulla tradizione di critica negativa al teatro, Ferdinando Taviani, La Commedia dell'arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1969.

9 - Paolo Segneri, Il cristiano istruito nella sua legge, cit., p. 301. Un secolo circa più tardi ritroviamo in un anonimo Trattato de ' giochi e de ' divertimenti permessi o proibiti ai cristiani (Roma, Presso M.A. Barbiellìni, 1768: in copertina, a penna, segnato come opera del padre Andosilla, filippino), considerazioni del tutto analoghe, a conferma di una continuità non solo di posizioni, ma anche di argomenti: " Non si è mai inteso che un peccatore si sia convcrtito per aver appreso qualche massima eterna dai buffoni e dai musici del teatro. E la ragione si è che i difetti e le passioni degli uomini non si fanno comparire sulla scena nel loro naturale e vergognoso aspetto, come farebbe un predicatore, ma si adornano così nobilmente e con tale artificio, che si rendono amabili e gustose agli spettatori. E se non fossero con quest'arte ricoperte ed abbellite, la commedia o la tragedia diverrebbe nojosa e stucchevole " (p. 113).

10 - Nicole Fouletier-Smith, CEdipe pécheur: une perspective chrétienne, in " Les lettres romanes ", n. 2, 1982 (t. XXXVI), p. 119. La pièce alla quale si fa riferimento è l’(Edipe del padre Folard, appunto, del 1722, su cui si può consultare l'informatissima rassegna di Guido Paduano, Lunga storia di Edipo Re, Torino, Einaudi, 1994, pp. 317-21.

11 - Marc Fumaroli, Le " Crispus " et la " Flavia " du P. Bernardino Stefonio, s.j. Contribution a l'histoire du théàtre au Collegio Romano (1597-1628), in Les Féfes de la Renaissance, tomo III, " Colloque international d'études humanistes, Tours, 10-22 Juillet 1972 ", Paris, C.N.R.S., 1975, pp. 505-24; Id., Théàtre, Humanisme et Contre-Réforme a Rome (1597-1642): l'oeuvre du P. Bernardino Stefonio et son influence, in Actes du IX Congrès de l'Association Guillaume Bude, Paris, Les Belles Lettres, 1975, pp. 399-412; ora, entrambi leggibili, in traduzione italiana, nel già citato Eroi e oratori.

12 - La prima versione della Ratio studiorum, 1586, conteneva già precise indicazioni: " Quoniam vero Tragoediae nec ubique, nec semper, nec frequenter agi possunt, ne in nimiam desuetudinem abeat exercitatio, sine qua poesis pene omnis friget ac iacet, non parum expedit, ter aut quater in anno privatim in Scholis Humanitatis et Rhetoricae sine scaenico ornata a pueris mutuo colloquentibus recitari ab ipsis compositas Eclogas, Scaenas, Dialogos, quorum partes ita Magister disponet ac dividet paulo provectioribus scribendas, ut coniunctae postea unutn corpus coagmentent " (Ratio studiorum et Institutiones Scholasticae Societatis lesu, cit., tomo II, p. 176). Divieto ripetuto e ribadito nelle versioni successive (1591 e 1599). È tratto dalla Ratio del 1599 il seguente passo che riassume le fondamentali proibizioni: " Tragoediarum et comoediarum, quas nonnisi latinas ac rarissimas esse oportet, argumentum sacrum sit ac pium, neque quicquam actibus in-terponatur, quod non latinum sit et decorum; nec persona ulla muliebris vel habitus inrroducatur " (Regulae Rectoris n. 13, in Ratto studiorum et Institutiones Scholasticae Societatis lesa, cit., tomo II, p. 272). Le forme e i modi attraverso i quali, nei singoli Paesi e nelle specifiche situazioni, le trasgressioni divennero così abituali da configurare un vero e proprio sistema alternativo, senza che tuttavia venisse mai abolito il rispetto formale delle regole generali della Compagnia: tutto ciò è verificabile sostanzialmente negli studi riferiti alle varie realtà nazionali. Molti elementi, comunque, si riscontrano nelle ricostruzioni storione complessive del teatro gesuitico. Tra le altre vanno segnalate (in aggiunta ai testi già ricordati): Ernest Boysse, Le théàtre des Jésuites, Paris, H. Vaton, 1880 (ristampa, Gènéve, Slatkine, 1970); L.V. Gofflot, Le théàtre au College du Moyen Age a nos jours, Paris, Librarne H. Champion, 1907; Willi Flemming, Das Ordens Drama, in Barokdrama, II, Leipzig, Philipp Reclam, 1930; Edna Purdie, Jesuit Drama, in The Oxford Companion to the théàtre, Oxford, V. Ridler, 1967, pp. 508-15; Nigel Griffm, Jesuit School Drama, 2 voll., London, Grant and Cutler, 1976; Ruprecht Wimmer, Jesuitentheater, Frankfurt am-Main, Vittorio Klostermann, 1982; William H. McCabe, An Introduction to thè Jesuit Théàtre, St. Louis, thè Institute of Jesuit Sources, 1983.

13 - A questo Argomento, databile secondo alcuni 1617, si affiancano vari testi analoghi dovuti ad altri convittori che si incaricarono di questo genere di impegno in occasione di rappresentazioni della tragedia stefoniana (in latino o in italiano). Tra gli estensori di questi argomenti e scenari si possono ricordare: Ansaldo Grimaldi (1628), Giacomo Mascardi (1628), Lodovico Pallavicino (1644), Ignatio de' Lazari (1665), ai quali si deve anche la descrizione degli intermezzi e dei balli che spesso arricchivano la rappresentazione e la trascrizione della musica che accompagnava, a volte, lo spettacolo. Naturalmente è del tutto plausibile che esistano in archivi e biblioteche pubbliche e private molti altri testi dì questo genere, legati alle diverse occasioni spettacolari.

14 - La lettura del Prologo e dei quattro Intermezzi può illustrare nel modo, credo, più chiaro la natura e la funzione di queste addizioni. Prologo: " Scende dal Cielo la Sapienza con la comitiva delle Scienze più gravi per diporto nel suo giardino e è dal choro delle Virtù alla Poesia e belle lettere appartenenti ricevuta. Quivi deliberandosi qual trattenimento poetico si debba scegliere, allegro, o grave, si da la prerogativa al Tragico; poi desiderandosi per suggetto un giovane di ottima educatione da fanciullo, di singolar fortezza nelli incontri militari, e di incomparabil honestà, e modestia nelli Studi della pace, per opra della fortuna guidata dalla Sapienza, viene dall'urne di secoli cavato a richiesta di ciascheduna Virtù il nome di Crispo, nipote di Santa Helena, vincitore delle principali parti del Mondo; il quale havendo sortito una Fedra per matrigna, e un Theseo per Padre, si portò da Hippolito veramente Christiano ". Intermezzi: primo: " Essendo la tragedia composta sopra un Personaggio guerriero si fanno intermezzi; di guerra. Il primo dunque è un combattimento di fanciulli con spade e pugnali che fanno li Signori Convittori di minore età, ed è come apparecchio del trionfo di Crispo "; secondo: " II Tevere in un trono maritimo invita i Tritoni a Cavallo sopra Delfini alla guerra de Caroselli, e ad altri giuochi tra di loro per allegrezza nel trionfo di Crispo "; terzo: " Un giuoco di Spadoni a Tempo di suono seguitando a far festa per cagione del prossimo trionfo di Crispo non sapendo ancora che l'allegrezze dì esso si turbavano "; quarto: " Si apre l'inferno e vien posta Fedra da Demoni in un trono, e se le fanno quelli honori del trionfo che si dovevano a Crispo come quella che era stata cagione della mina di lui ".

15 - " Accipio: exemplum erat Crispi pessime descriptum ex malo, fateor: vulneraverunt oculos meos scripturae foedissima passim vulnera, cernebam verba non mea temere inculcata prò meis: versus spurios: sententìarum lacunas: carminis hiatus, Fabulae partibus aliis inversis, aliis amputatis. dolebam, miserum iuvenem non meliore conditione mortuum esse, quam vivus fuisset ut nihilo clementius Librariorum studiis, quam odiis Novercae haberetur. Quìdam homines sunt, qui facilius plausus repudiare, quam irri-siones sustinere possint. Itaque ego ille, qui nullam unquam sermonis auram ex hac Poetarum amoenitate captassem, alienas labes aspergi mihi, cum inquinatissima scripta promulgari cemerem prò meis, equidem stomachabar. Itaque nihil aliud tum quam sensum silentio pressi: mox accuratius coepi mecum ipse cogitare, num aliqua posset inveniri tam foedis huius Fabulae vulneribus medicina. Consilium unum erat, ut publicis proeli litteris, quod Amici postulabant, meum ipsius exemplum consignaretur " (Bernardino Stefonio, Introduzione a Crispus, Roma, s.e., 1601, p. 5). Umberto Gandini, Il teatro barocco di Nicola De Avancini, gesuita trentino alla Corte degli Asburgo, in " Studi trentini di scienze storielle ", n. 1, 1973, pp. 30-68. (La prima parte dell'interessante ricerca di Gandini è pubblicata, con lo stesso titolo, sulla medesima rivista, n. 4, 1972, pp. 421-41.) Lo stesso Gandini riporta il seguente passo tratto dal Poesis dramatica di Nicola De Avancini: " So qual differenza possa essere fra Io stile di chi lavora per un'ora di palcoscenico e di chi scrive per l'eternità del mondo poetico. Nel primo caso l'apparato scenico, il piacere dell'udito, le lusinghe degli occhi, l'arguzia e la destrezza dell'attore assecondano ili diletto; nell'altro caso, mancando ogni esteriore attrattiva, ciò avvieniselo con lo svolgimento del tema, con la trattazione di inattesi risvolti, con la varietà delle invenzioni, coll'espressione acuta e sentenziosa, con la varietà ed il numero dei metri; per gli uni ha valore il giudizio pubblico, per gli altri varrà la riflessione del singolo. Infatti quanto accade sulla scena è animato e vivo, mentre ciò che si legge è scarno ed inanimato [...]. La recitazione che scorre velocemente toglie il tempo alla meditazione; quanto è invece affidato alla carta (come le cose venali) è accuratamente analizzato; e facilmente accade che avanzi verso migliori giudizi ciò che è stato vituperato; e che sia respinto ciò che era stato lodato " (p. 65).

17 - Tarquinio Galluzzi, Rinovazione dell'antica tragedia e Difesa del Crispo, Roma, Stamperia Vaticana, 1633, p. 83. Lo stesso Stefonio scriveva nell'Introduzione al testo a stampa (cit, pp. 3-4): " Neq: vero me multimi movere debuit spectatorum illa flebilem Actorum vocem consequuta collacrymatio. lacryma nihil facilius exprimitur, nihil citius aresct: & mini tam amicus ipse non sum, quin intelligam sensum illuni commiserationis acerbum exarsisse vehementer, non tam meo, quo commotus esset stylo, quam Sodalium vestrorum, quo exulceratus est gestu. Multum (quod vos eruditissimi iuvenes non fugit) multunv ardoris, & dignitatis habet illa Theatri lux. omnia maiora facit scenicus ad motum compositus omnis apparatus, & illae praeclarae non per aures solum, sed etiam per oculos ad animimi traiectae rerum imagines. Quod pectus ita ferreum est, ut non illud expugnet Orchestra, Logaeum, Thymele, choragium, emmelia, parodus, exodus, numerus, concentus, eiulatio, conquestio, comploratio, fletus, ipsa iam humanitatis exulceratione iucundìor, tum, cum omnis infiammata gestu, tamquam amentata vehementius intorquetur oratio? Multorum adeo recordor ingenia, cum ad caveam Histrionum opera pulcherrime stetissent, extra caveam, Actoris calore refrigerato, turpissime concidisse. ut nunc denium accipiam Platonem in Politia scenicos ludos e Rep. submoventem ".

18 - Tarquinio Galluzzi, Rinovazione, cit., p. 84.

19 - II sonetto di Marino è riportato nella Prefazione a Posthumae Bernardini Stephonii e S.J. Prosae (Roma, s.e., 1658), nella quale sono illustrati con dovizia di particolari i meriti di Stefonio.

20 - Per le edizioni a stampa cfr. Carlos Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, tomo VII, Bibliographie, Bruxelles, Oscar Schepens, Al-phonse Picard, 1896 (pp. 1527-31), che segnala dieci ristampe della tragedia in volume singolo dopo la prima pubblicazione del 1601, nonché numerose presenze in volumi collettanei. Ma il successo editoriale è strettamente connesso con l'apprezzamento per la pièce stefoniana diffuso nei collegi italiani ed europei. Per l'area tedesca cfr. Jean-Marie Valentin, Le théàtre des Jésuites dans les pays de langue allemande: repertoire chronologique des pièces représentées et des documenta conservés (1555-1773), Stuttgart, Anton Hiersemann, 1983, che elenca otto rappresentazioni dal 1612 al 1766 (Paderbom 1612, Landshut 1662, Mindelheim 1667, Ei-chstatt 1739, Lucerne 1742, Augsbourg 1744, Landshut 1759, Straubing 1766); per l'area francese cfr. L.V. Gofflot, Le théàtre au College, cit., Ernest Boysse, Le théàtre des Jésuites, cit., che ricordano rappresentazioni a Pont-a-Mousson (1603), a Lyon (1604, 1609), a Anvers (1608), Rouen (1610), Troyes (1622), ecc.

21 - Cfr. Corrado Zacchetti, La leggenda di Crispo e di Fausta (nel volume dello stesso, Di palo in frasca, Torino, Paravia, 1899), che ripercorre la tradizione popolare e i dati storici di questa leggenda, richiamando temi analoghi. Di " a christianized version of thè Phaedra theme " ha scritto Victor R. Yanitelli, Heir of the Renaissance. The Jesuit Theatre, in " The Jesuit Educational Quarterly", vol. XIV, n. 3, gen. 1952, pp. 133-47 (144), e, poi, Mare Fumaroli in Eroi e oratori, cit.

22 - Bernardino Stefonio, Crispus, cit., pp. 11-12.

23 - II testo del cartello riportato da Galluzzi si può leggere, con minime varianti, nel testo a stampa del Crispus già citato (p. 12) come argomento più breve. La citazione da Galluzzi è alle pp. 109-10.

24 - Cfr. Edith Weber, Le Théàtre humaniste protestarti a participation musicale et le théàtre jésuite: influences, convergences, divergences, in Les Jésuites parmi les hommes aux XVI et XVII siècles, Faculté des Lettres et Sciences Humaines de l'Université de Clermont-Ferrand II, fase. 25, 1987, pp. 445-60.

25 - Secondo alcuni si erano verificati gravi tumulti a Roma nel 1566 (data incerta, comunque), in occasione della rappresentazione al Collegio Germanico di una tragedia sul martirio di S. Caterina, in seguito ai quali si cominciarono ad elaborare ed imporre le norme restrittive all'attività teatrale nei collegi che vennero quindi formalizzate nella Ratìo studiorum (cfr. Riccardo G. Villoslada, Storia del Collegio Romano, cit., p. 69; Alessandro Ademollo, Il carnevale di Roma nei secoli XVII e XVIII, Roma, A. Borzi, 1967, p. 55; e Gualtiero Gnerghi, II teatro gesuitico ne' suoi primardi, cit., in particolare le pp. 4-8).

26 - A proposito dell'imitazione stefoniana di Seneca e allargando, di qui, lo sguardo alla cultura coeva, Marc Fumaroli (Eroi e oratori, cit, p. 210) ' sottolinea il ruolo della "prima grande sintesi teorica gesuita nell'ordine drammaturgico, il Syntagma tragoediae latinae di padre Martin Del Rio (1593), che accompagnava la sua monumentale edizione commentata di Seneca ". Una influenza non solo molto consistente, ma anche duratura: nel 1634 veniva pubblicata (Antwerpiae) una antologia dal titolo Selectae Patrorum Societatis lesu Tragoediae, in due volumi, il primo dei quali comprendeva cinque tragedie, due di Stefonio (Crispus e Flavia) e altre tre di autori diversi (precisamente Svevia di Alessandro Donato, Sedecia di Carlo Malaperti, Sisaro di Dionisio Petavio); nella Prefazione il " Typographus " sottolineava che i cinque testi venivano stampati assieme " ut quemadmodum eae multis ohm voluptati fuere spectantibus, ita legentibus vobis sint utilitati. Et quamquam non dubitabam fore quosdam, qui laborum hunc meum non probarent; qui unum Senecam volvi volimi a tragoediae studiosis, praeterea neminem: opera tamen pretium facturum me existimavi, si non tam fastidiosorum hominum, novaque omnia improbantium judicio, quam commodis vestitis servirem. Et vero etsi L. Annaeus Seneca, uti Latinorum Tragicorum fons est ac princeps, ita praecipuo quodam studio legi debet ab omnibus ", continuando poi su questa linea per proporre i cinque testi selezionati come modelli drammaturgici. Sulla presenza di Seneca nella cultura cinque-secentesca cfr. Les tragédies de Sénèque et le thédtre de la Renaissance, a cura di Jean Jacquot, Paris, C.N.R.S., 1964; George Williamson, Senecan Amble, Chicago, University" of Chicago Press, 1966. Specificamente per l'area gesuitica cfr. Jean-Marie Valentin, Le théàtre des Jésuites, cit., p. 239 e sgg.; Andre Stegmann, Les metamorphoses de Phèdre, in Actes du f Congrès International racinien, Uzes, Ed. H. Peladan, 1962, pp. 43-52, il quale attribuisce ai Gesuiti l'iniziativa dell'introduzione sulle scene del soggetto di Crispo e sottolinea come l'antologia del 1634 fosse divenuta un classico, servendo da modello a vari autori europei, tra i quali il francese Francois Grenaille, autore del-Vìnnocent malheureux (1639) che dichiarava esplicitamente Stefonio come sua fonte.

27 - Ad esempio Giasone, Narciso, Tieste, come risulta dai titoli elencati da Jean-Marie Valentin nel suo Le théàtre des Jésuìtes dans les pays de langue allemande. Repertoire bibliographique, I parte, 1555-1728, Stuttgart, Anton Hiersemann, 1983. Ha tentato una sorta di classificazione dei temi delle tragedie gesuitiche, in prospettiva cronologica, James A. Parente jr, il quale in Tyranny and Revolution on thè Baroque Stage: thè Dramas of Joseph Simons ("Humanistica Lovaniensia", voi. XXXII, 1983, pp. 309-24), ha sostenuto che, mentre nella seconda metà del XVI secolo si avrebbe una prevalenza di temi e personaggi che simboleggiano la lotta con gli eretici e i barbari (come Costantino o Goffredo di Buglione), con l'inizio del nuovo secolo prevarranno personaggi (come i " bizantini " Ermenegildo o Teodorico) riconducibili al tema del potere, della ragion di Stato, della ribellione. Ma va sottolineato che l'ottica di Parente è piuttosto ridotta, essendo limitata al Simons e all'area anglosassone.

28.

Già diversi studiosi hanno proposto ricostruzioni del percorso della favola di Fedra dall'età antica alla moderna, ma, nonostante la finezza di molti tra questi lavori, continuano a rimanere delle lacune a motivo della veramente straordinaria fioritura di testi dalla medesima radice. Cfr.

Andre Stegmann,
Les metamorphoses de Phèdre, cit.;
Atti delle giornate di studio su Fedra, a cura di Renato Uglione, Torino, Regione Piemonte, 1985 (con interventi, tra gli altri, di Marziano Guglielminetti, Francesco Giancotti, Daniela Dalla Valle).

Per le riprese più recenti, cfr. il mio L'onta e la gloria, in Scrittori e critici di fine Ottocento, Potenza-Milano, II Salice, 1992, pp. 39-59.

29 - Paolo Segneri, Il cristiano istruito, cit., p. 298.

30 - Cfr. Hermann Joseph Nachtwey, Die Exerzitien des ìgnatius von Loyola in den Dramen Jakob Bidermanns, Bochum-Lagendreer, Ed. PGppinghaus, 1937; Jacques Hennequin, Théàtre et società dans les pièces de College au XVII siede (1641-1671), in Dramaturgie et società, cit, pp. 457-67 (467); Roland Barthes, Coment parler a Dieu?, in " Tei Quel ", n. 38, 1969, ora leggibile, in traduzione italiana, in Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, (con il titolo Loyola), Torino, Einaudi, 1977, pp. 29-64; Mare Fumaroli, Eroi e oratori, cit, p. 210.

31 - Marc Fumaroli, Eroi e oratori, cit, p. 219.

32 - Compreso in Delle Tragedie sacre e morali, dal Sig. Abbate D. Martino La Farina al Sig. Frane. Scammacca e Falcone, Palermo, s.e., 1632-1648, XIV voll. (vol. I).

33 - Giovan Francesco Savaro, Crispo, Bologna, s.e., 1662, "recitato dai convittori del Collegio S. Tommaso a Bologna ".

34 -

Emanuele Tesauro, "Ippolito", Torino,
Stamperia Bartolomeo Zavatta, 1661.

Assieme al quale si possono ricordare altre versioni drammaturgiche della favola (traduzioni da Euripide o Seneca ovvero rielaborazioni} che conservano il titolo "Ippolito", e sono dovute a

CINQUECENTO:

Ottaviano Zara. "Ippolito", Padova, 1558.

Lodovico Dolce. "Ippolito" Venezia, 1560)

SEICENTO (pre-Vannarelli/Ortuso):

* Vincenzo Giacobini, "Ippolito", Roma, 1601.

* Gregorio De' Monti. "Ippolito", Venezia, 1611

* Andrea Santa Maria. "Ippolito", Napoli, 1619.

* Ettore Nini, "Ippolito", Venezia, 1622.

* Leopardo Bontempo da Rimini. "Ippolito", Venezia, 1659.

---- SETTECENTO:

Benedetto Pasqualigo. "Ippolito", Venezia, 1730.

Michelangelo Carmeli. "Ippolito", Padova, 1747,

ecc.

Altre versioni con titolo Fedra, che hanno per autori

CINQUECENTO:

Giuseppe Baroncini, "Ippolito" (1552),

Francesco Bozza. Ippolito", Padova, 1577, riproposta recentemente per l'ed. Vecchiarelli, Manziana [Roma, 1996] da Cristiano Luciani che ne ha curato l'edizione, corredandola di un'ampia Introduzione).

Domenico Ortuso, "Ippolito" (1601).

Domenico Monzio [Domenico Montio]

Francesco Vannarelli (musicista, Spoleto, 1661 -- libretto: Ortuso, no Montio/Monzio)

Paolo Bissari. "Ippolito", Monaco, 1662 -- musica tedesca, ecc.

Ed infine molti altri testi che sotto titoli diversi presentano un soggetto identico o molto vicino alle fonti classiche.

A tutti questi si unirono, poi, naturalmente, le numerosissime traduzioni o adattamenti della Fedra di Racine

(cfr. Luigi Ferrari,

Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII. Saggio bibliografico, Paris, Ed. Librarne ancienne E. Champion, 1925).

35 - Pubblicato nello stesso volume con "Ippolito", cit. Questo Edipo di Tesauro è stato recentemente riproposto per la cura di Carlo Ossola e commento e note di Paolo Getrevi (Venezia, Marsilio, 1987), che ne hanno voluto sottolineare il valore, eccedendo forse nell'apprezzamento.

36 - Si trova un buon resoconto delle argomentazioni di Galluzzi in Gualtiero Gnerghi, Il teatro gesuitico, cit., pp. 46-47. Ha sottolineato la singolarità del tema scelto da Stefonio Victor R. Yanitelli, Heir of the Renaissance, cit., p. 145, scrivendo di un'opera " strangely untouched by criticism of its unnatural theme ".

37 - " L'atto del martire è un paschein, pati, e il martirio è un pathos, passio: questi termini non indicano la sofferenza in generale, ma la sofferenza fino alla morte, compresa la morte. Questa è un'innovazione semasiologica propria del linguaggio cristiano [...]. Proprio in virtù dell'imitatio, il martirio rappresenta un combattimento contro il diavolo, dal quale il martire esce vittorioso ", Christine Mohrmann, Introduzione generale a Vite dei santi dal III al VI secolo, Milano, Mondadori, 1985, p. XVIII Sulla figura e il ruolo del martire nella drammaturgia dell'età controriformistica sono molti gli studi, di varia natura e impostazione. Primo fra tutti Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1971 (in particolare le pp-61-71). Per gli aspetti toccati qui, sono risultati inoltre utili: Maurice Gravier, Le théàtre des Jésuiles, cit, il quale si mostra convinto che " la tragèdie du martyre est en somme l'inverse de la tragèdie de la damnation " (p. 128) e ad essa complementare; Jean-Marie Valentin, Le théàtre des Jé-suites dans les pays de langue allemande (1554-1680). Salut des àmes et ordre des cités, cit., pp. 366-83; Roberto Mercuri, La Reina di Scozia di Federico Della Valle e la forma della tragedia gesuitica, in " Calibano ", 4, 1979, pp. 142-61; Ilaria Magnani Campanacci, // Procolo di P. J. Martello fra dramma gesuitico e " tragèdie chrétienne ". (Dal Polyeucte al Procolo, la crisi di una "forma"), in " Studi e problemi di critica testuale ", n. 33, ott. 1986, pp. 55-96 (in particolare p. 67 e nota).

38 - Tarquinio Galluzzi, Rinovazione, cit., p. 49.

39 - Ibidem, p. 8.

40 - Ibidem, p. 59. Le considerazioni svolte qui da Galluzzi (e altrove da altri trattatisti cattolici, gesuiti e non) trovavano una sponda autorevole nel Commento che Castelvetro aveva pubblicato assieme alla traduzione della Poetica di Aristotele (Poetica d'Aristotele vulgarizzata e sposta, Vienna, s.e., 1570). Questo punto in particolare è trattato da Castelvetro nel par. 1452b.

41 - George Steiner, Morte della tragedia, Milano, Garzanti, 1965, p. 256.

42 - Alessandro Manzoni, Della moralità delle opere tragiche, in Tutte le opere, a cura di Giovanni Orioli, Eugenio Allegretti, Giuliano Manacorda, Lucio Felici, Roma, Avanzini e Torraca, 1965, p. 1183. Ho già scritto qualche nota su questo punto in Recitare le passioni. Voltaire e i Gesuiti, in " Micromegas ", anno XXIII, n. 1, genn.-giug. 1996, pp. 75-100.

43 - Alessandro Manzoni, Traccia del discorso sulla moralità delle opere drammatiche, in Tutte le opere, cit, p. 1184, il corsivo è dell'Autore.

44 - Alessandro Manzoni, Lettre a M. Chauvet, in Tutte le opere, cit., p. 1126. Il ruolo fondamentale della ragione è il motivo ispiratore della confutazione condotta nella Prefazione al Conte di Carmagnola nei confronti dei classicisti; il pilastro dell'argomentazione manzoniana risiede infatti nella convinzione che Io spettatore non è "parte dell'azione", ma è invece " una mente estrinseca che la contempla " (Alessandro Manzoni, Tragedie, Torino, Einaudi, 1982, p. 9): il passaggio da una drammaturgia della passione ad una drammaturgia della ragione è governato precisamente da questa considerazione.

45 - Maurice Gravier, Le Théàtre des Jésuites, cit., p. 127.

46 - Tarquinio Galluzzi, Rinovazione, cit., p. 85.

47 - Anche se rimane da valutare con analiticità il carattere specifico delle citazioni, delle parodizzazionì, degli imprestiti; e vale per il Crispus quanto per molti altri testi tragici prodotti dai Gesuiti.

48 - Alberto Asor Rosa, La cultura della controriforma, Roma-Bari, Laterza, 1974,p.4.

49 - Le due citazioni sono a p. 220 e p. 221, rispettivamente, di Eroi e oratori di Marc Fumaroli, cit.

50 - Tarquinio Galluzzi, Rinovazione, cit., p. 125 e p. 126,

51 - Ibidem,p. 135.

52 - " Sancta Symphorosa was produced during Camival of that year at thè Romano, though it was not published until 1655. This play represented thè first serious effort at a development of thè martyr theme in Jesuit drama " (Victor R. Yanitelli, Heir ofRenaissance, cit., pp. 142-43).

53 - Bernardino Stefonio, Crispus, cit., p. 13.

54 - Bernardino Stefonio, Crispo, s.d. [ma 1620], s.l. [ma Roma], p. 2.

55 - Cfr. Tarquinio Galluzzi, Rinovazione, cit., p. 147.

56 - Argumentum del Crispus: " lulius Flavius Crispus Caesar Flavij Constantini Augusti ex Minervina Filius S. Helenae Augustae Nepos, & Minoris Helenae gemellus, Christianis sacris expiatus, bello clarus, & saepe vic-tor, & ex Germanorum clade triumphalis tertium Consul occiditur iussu Patris, crimine Novercae. Haec est Fausta Maximiani Imperatoris Filia, quae cum illecebris sanctitatem illius, & pudicitiae constantiam expugnare tentasset; reiecta & contemta dolorem repulsae non tulit. Quam ob rem novercali odio instincta, & muliebri levitate, ad perniciem iuvenis innocentissimi animo intento, periculum illi ad virum Constantinum falsa criminatione constat. Quo crimine Crispus & innocentissimus, & Caesar, & tertium Consul, & victor, & triumphalis per summam iniuriam oppressus, iudicij genere par Hippolyto, sanctitate morum, rebus gestis, & mortis contemtione superior, Faustam Phaedrae, Constantinum Theseo simillimos expertus est. Romae gesta res esse dicitur: quo tempore Crispus ipse Consul ex Alemannico bello victor ad Urbem esset cum exercitu, Senatu triumphum illi decemente, Constantino Faustae Filio consule fratris collega Senatum habente, Constantino Imperatore Patre referente " (Bernardino Stefonio, Crispus, cit., pp. 11-12). Argomento del Crispo: "Fausta seconda moglie di Constantino Imperadore lusingata dal Demonio arde tacitamente, e diviene inferma per amor del figliastro Crispo. La sua Nutrice s'adopra tanto seco, che viene a saperlo, e centra il voler di lei lo rivela a Crispo. Crispo se ne sdegna, il che inteso Fausta la sgrida, e discaccia, e consegliata s'induce a pregar Elena sua Suocera, onde voglia dispor Crispo a guardar la sua fama. Ma la Nutrice di ciò non informata per ammendar l'un fallo incorre nell'altro maggiore, & accusa Crispo appresso Constantino del peccato di Fausta, la quale udito questo teme che Elena, per purgar d'infamia il Nipote, non apra la verità a Constantino, e però caduta in disperatione priva la Nutrice de gli occhi, & uccide se stessa. Constantino, che reca la cagion del fatto a castità di lei, cieco dall'ira ordina la morte al figliuolo, la qual tardi poi procura impedire " (Bernardino Stefonio, Crispo, cit., p. 1).

57- Bernardino Stefonio, Crispus, cit, p. 165.

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