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Friday, July 27, 2012

MILANO

Speranza

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Milano, segreti d'acqua

Anche se è difficile da credere, a Milano si può navigare come sul Tevere, sul Canal Grande o sui gracht di Amsterdam

“Sono io il Jack Sparrow dei navigli.
 
Con tre centimetri di scarto passo al pelo dalla conchetta di via Torricelli senza toccare la mura. Vuoi vedere?”. Roberto da Pizzighettone finisce la sua bibita all’Osteria del Pallone e corre al battello della “Navigli Lombardi”. È lui a guidare la chiatta bianca che ogni giorno accompagna i turisti sulle vie d’acqua milanesi. Si percorre il Naviglio Grande a fianco dei tram, si sfiorano i canoisti in allenamento e si entra nella Darsena per imboccare il Naviglio Pavese. «Il toponimo Milano deriva da mid-land, terra di mezzo, come quella de Il Signore degli Anelli», gracchia l’altoparlante mentre una ragazza romana, in piedi sulla barca, riprende tutto con la telecamera. Quasi non ci crede che a Milano si possa navigare come sul Tevere, sul Canal Grande, o sui gracht di Amsterdam. La conferma arriva dalla voce registrata: «Milano riassume in sé un paradosso: lontana dai grandi fiumi, è ricchissima d’acqua».

Dove sia quest’acqua pochi lo sanno. Della sua esistenza però se ne accorgono tutti quando tracima nelle cantine o trabocca dai tombini. Perché un fiume che attraversa Milano in realtà esiste. Scorre
sommerso, alimentato da una falda che mescola acque nuove (quelle dei ghiacciai) e acque antiche (quelle rimaste intrappolate sottoterra quando l’Adriatico arrivava fin qui). E poi ci sono i fiumi veri, quelli che segnano i confini occidentali e orientali della provincia milanese, il Ticino e l’Adda. I “due mirabili fiumi equidistanti” che Bonvesin de la Riva rammenta nelle sue Meraviglie di Milano (1288), quando descrive una città ricca di “acque vive, naturali, mirabilmente adatte a essere bevute dall’uomo, limpide, salubri, a portata di mano, tanto abbondanti che in ogni casa appena decorosa vi è quasi sempre una fonte di acqua viva”.

Milano è una terra di mezzo. Sorge fra l’Adda e il Ticino che ne delimitano il territorio intriso d’acqua, ricco di fontanili, rogge e altri fiumi (il Lambro, il Seveso, l’Olona). Le montagne quasi la circondano e te ne accorgi nelle giornate limpide, un po’ ventose, con gli Appennini a sud che piano piano diventano Alpi, si vedono il Cervino, il Monte Rosa e, salendo ancora, la Valtellina delle grandi centrali idroelettriche. «Non solo: Milano è al centro di una pianura che è per metà asciutta e per metà irrigua», spiega Pietro Lembi mentre pranza in un bar dietro al Duomo. «La prima metà, la Brianza, si è evoluta a livello industriale; la seconda, là dove l’acqua dei monti riemerge, ha conservato un carattere puramente agricolo. A volte ci sono giornate in cui i quartieri a nord hanno il sole e quelli a sud la nebbia».

Architetto milanese, Lembi ha indagato il rapporto fra Milano e le sue acque ne Il fiume sommerso. Un rapporto non solo scientifico, “idraulico”, che nasconde sentimenti di “misconoscimento e adorazione, di onnipotenza e pentimento... di aver coperto, a inizi Novecento, un sistema di navigli che oggi in molti rimpiangono”.

All’incrocio fra via Ponzio e via Pacini l’ingegner Brown indossa tuta bianca e casco giallo, e qualche autista fermo al semaforo lo osserva incuriosito. Maurizio Brown, direttore delle Acque Reflue della Metropolitana Milanese Spa, la società che cura il servizio idrico integrato, sta per infilarsi in un tombino e scendere nelle viscere della città: «Sa che qui sotto ci sono almeno 200 chilometri di canali, fiumi e reticoli vari?». La fognatura fra via Ponzio e via Pacini è una camera in granito che lascia a bocca aperta, una sala costruita negli anni Venti con volta a cupola, canali di confluenza e bifore dalle quali osservare lo scorrere delle acque. Brown è stanco e accaldato quando, mezz’ora dopo, risale in superficie; pochi come lui conoscono i segreti del sistema idrico milanese, una passione che forse gli viene dal bisnonno scozzese arrivato a Lugano per lavorare sui battelli a vapore. «In passato Milano era una città d’acqua», racconta seduto davanti a un caffè, «e pare sia proprio l’acqua il filo conduttore della sua storia commerciale. Ritrovamenti archeologici ci fanno pensare che oltre 2.000 anni fa qui esistesse un porto collegato al Po».

Al mattino la luce entra diretta all’ultimo piano del cortile Legnaia, nell’antico “Spedale dei poveri” costruito dal Filarete, dove si trova la sezione Archeologia dell’Università Statale. Il professor Raffaele de Marinis discute con gli studenti dei suoi ultimi scavi a Forcello di Bagnolo San Vito, poco a sud di Mantova, il più importante centro etrusco a nord del Po: «Questo porto sul Mincio risale al VI secolo avanti Cristo», precisa de Marinis, «e vi abbiamo trovato anfore provenienti da Atene, da Mileto, da Corinto».

Un porto in età augustea esisteva anche a Milano e pare sorgesse proprio qui, dove de Marinis discute con i suoi allievi, tra via Larga e via Festa del Perdono. L’ampia darsena era riempita con l’acqua del Seveso che i romani avevano deviato verso la città. «Una radicale opera di bonifica», chiarisce Gianluca Padovan, che insieme a Ippolito Ferrario è autore di Milano sotterranea e misteriosa, «iniziata subito dopo la conquista romana, due secoli prima di Cristo, con la realizzazione di una rete fognaria e di un fossato urbano». Il porto a est di via Larga collegava la città al Po attraverso il Lambro e la roggia Vettabbia (dal latino vectabilis, “capace di trasportare”). Oggi l’acqua (lurida) della Vettabbia è utilizzata per irrigare i campi, ma un tempo questo canale era per Milano ciò che la via Salaria è stata per Roma: da qui passavano tutti i barconi carichi di sale provenienti da Comacchio.

Nel 2015 Milano avrà otto “raggi verdi”. Perché nell’era dell’Expo, spiega Andreas Kipar, «la città riscoprirà la lentezza grazie a otto boulevard che uniranno il centro alle periferie. Lo faranno attraverso i suoi parchi, i suoi giardini, i laghi e i navigli». I “raggi verdi” di Kipar, architetto paesaggista tedesco, erano presenti nel dossier di candidatura all’Esposizione Universale (vinta il 31 marzo) e si inseriscono nel più ampio progetto di riqualificazione delle waterways meneghine ancora attive. Come il Naviglio Grande, la più importante via d’acqua milanese, aperta nel XIII secolo sfruttando un fossato scavato per difendersi da Federico Barbarossa. Lungo le alzaie i cavalli vi trainavano le cobbie, i barconi pieni di vini, sale e tessuti che arrivavano in Svizzera seguendo il Ticino e poi su fino al Lago Maggiore.

Oggi le alzaie sono diventate piste ciclabili e sul naviglio è più facile incontrare sportivi che pagaiano su e giù dalla darsena a San Cristoforo. «Nel mese di maggio, in occasione di Viacolmarmo, è un vero spettacolo vedere il naviglio pieno di imbarcazioni», spiega Sergio Passetti della Canottieri Olona, una delle quattro associazioni di canoisti della città. Alla sua seconda edizione nel 2008, Viacolmarmo è una vogata di 150 chilometri che unisce la città alla Val d’Ossola. Si scende verso Milano portando simbolicamente un pezzo di marmo, perché è da lì che proviene gran parte del materiale usato per la costruzione del Duomo.

A volerci far caso, la toponomastica di Milano racconta molto della storia cittadina. Chi fa jogging la sera in via Conca del Naviglio, ad esempio, non fa più caso a quella lunga vasca rettangolare che ogni tanto ancora si riempie d’acqua. In termini tecnici quel buco è una conca, la “conca di Viarenna” (ossia la “via della renna”, della sabbia). Fu costruita nel 1439, e senza di lei la città avrebbe avuto certamente un’altra faccia. Per capire il perché occorre fare un salto indietro di sei secoli, quando la Milano dei Visconti è in rapporti commerciali con mezza Europa e guarda al gotico come allo stile con il quale costruirà il suo nuovo, grandioso monumento: il Duomo. Non più in mattoni però, ma in “solido marmo”, un calcare dall’incarnato bianco-rosa robusto come il granito. È il marmo di Candoglia, in Val d’Ossola, che a tonnellate inizia ad arrivare in città seguendo le vie d’acqua: il Lago Maggiore, il Ticino, il Naviglio Grande. Ma c’è un problema: come superare il dislivello fra la Darsena e la Fabbrica della Cattedrale?

La risposta è l’invenzione della conca, ossia di due chiuse che alzano e abbassano il livello dell’acqua in un piccolo tratto di canale. Sarà lo stesso Leonardo, quasi un secolo dopo, a perfezionarne il funzionamento. Ma intanto è così che le barche riescono a salire alla cerchia interna dei navigli (i canali navigabili che a quel tempo circondavano Milano, sorti nel XII secolo come fossati difensivi) e a portare il marmo al laghetto di Santo Stefano, a due passi dal Duomo. Il laghetto oggi non c’è più, ma anche in questo caso la toponomastica aiuta. Chi costeggia l’Università Statale prima o poi si ritroverà sulla banchina di quella vecchia darsena ormai scomparsa, l’attuale via Laghetto.

Tacchi a spillo e gonna stretta sotto il ginocchio, la ragazza francese fatica a tenersi in piedi sul tram numero 2, la linea che corre parallela al Naviglio Grande. Alla fermata San Cristoforo scende di fretta, corre sul ponte ed entra nella chiesa omonima: è in ritardo, oggi il suo amico Jerome (francese) si sposa con Francesca (milanese Doc). San Cristoforo sul Naviglio è forse la chiesa più richiesta dai futuri sposi: è a fianco del canale e alla fine della messa si fa la foto di rito con gli invitati sul ponte. Inoltre, è proprio qui che iniziarono i festeggiamenti per le nozze fra Beatrice d’Este e Ludovico il Moro, nel 1491: l’inizio simbolico di uno dei periodi migliori di Milano, splendido dal punto di vista culturale e urbanistico.

Con Ludovico Sforza si costruiscono canali e fortificazioni, cresce la produzione del gelso e la corte si popola di intellettuali come il Bramante e, soprattutto, Leonardo. Che oltre a dipingere il Cenacolo e a ritrarre le amanti del duca (come la celebre Dama dell’ermellino), si occupa di ciò che di più lo affascina: l’acqua. Niente di più facile in una città che al suo arrivo, nel 1482, si presentava piena di conche e ruote idriche, di mulini, darsene e canali navigabili.

Quando, nel 1985, chiuse il mitico Derby, il panorama del cabaret milanese trovò subito un sostituto. Un locale piccolo, buio, in un angolo della Milano proletaria dove viale Monza incrocia la Martesana: lo Zelig. Nota anche come “naviglio piccolo”, la Martesana, con i suoi ponti in pietra, gli alberi in fiore e le ville dei nobili milanesi, offre gli scorci migliori della città. Ma è per motivi pratici che fu scavata: nel 1457 Francesco Sforza voleva un canale che convogliasse a Milano le acque dell’Adda, usate per irrigare i campi orientali e dare energia ai mulini, e unire così la città al Lago di Como.

Oggi, dopo essere stata dimenticata per anni, la Martesana sta vivendo una stagione felice: alcune aree sono state risanate (come piazza Greco), altre conservano un fascino particolare (come il tratto di via Padova e di via Bertelli), ed è anche grazie al successo dello Zelig se si è tornati a parlarne in termini positivi. Una lunga pista ciclabile la segue dalla periferia fino alla Cassina de’ Pomm, il punto in cui negli anni Cinquanta la Martesana è stata interrata. Qui, su via Melchiorre Gioia, da sempre i tavolini di un’osteria accolgono chi, fuggendo dalla frenesia, siede per bere un bicchiere di rosso e guardare l’acqua scorrere sotto al ponte. «Pochi lo sanno», mi sussurra il proprietario del locale, «ma Renzo Tramaglino, quello dei Promessi Sposi, per fuggire da Milano usò proprio questo ponte».

È nell’Ottocento che la città vive la sua piena maturità “acquatica”. Con la lenta realizzazione del Naviglio Pavese (concluso nel 1819) Milano diventa uno dei più importanti porti fluviali d’Europa, collegato ai laghi lombardi e al Po attraverso un sistema di canali lungo 147 chilometri. “Seguendo queste vie navigabili si può andare da Milano in America”, scrive Stendhal, che paragona questa “città d’acque” ospitale e ridente, dove il pesce si vende all’ombra della Madonnina, alla più celebrata Venezia. Eppure la maturità prelude alla fine. Perché l’acqua è pur sempre sinonimo di lentezza, mentre le nuove invenzioni - la ferrovia, il tram, il motore a scoppio - guardano alla velocità.

Nella Milano di metà Ottocento aumenta la popolazione, la città assume un volto neoclassico, i navigli perdono la loro funzione di vie di trasporto. “Sparirà il ponte, il canale diventerà una fogna”, annota Riccardo Bacchelli, “presto, sento dire, copriranno anche questa parte del naviglio”. L’autore del Mulino del Po, allora giornalista al Corriere della Sera, scrive queste parole nostalgiche seduto nel suo abbaino che dà sul Tombone di San Marco, lo specchio d’acqua prediletto da chi, negli anni Trenta, a Milano decide di farla finita con la vita. Il Tombone viene presto interrato, e così il laghetto di Santo Stefano dietro al Duomo. Vengono smantellate alcune conche mentre i navigli interni si fanno maleodoranti e poco igenici. Verranno coperti definitivamente nel 1929.

“Io le ributto dentro l’acqua, le trote. Non faccio come quelli che le vendono ai cinesi che poi le cucinano nei ristoranti”. Riccardo Lucchini, pensionato, lavorava alla Metropolitana Milanese, ma non ha perso l’abitudine di alzarsi presto. Ogni mattina all’alba scende alla Darsena e posiziona lo sgabello a un passo da quello che fino a 50 anni fa era il decimo porto più trafficato d’Italia.

La vocazione al divertimento dei navigli è storia vecchia, perché il commercio portò le osterie, le bottiglierie, le case di appuntamento; come la Cà Losca, in un vicolo di Porta Ticinese che poi fu ribattezzato con quel nome, Calusca. Oggi c’è chi cerca di tenere vivo il quartiere organizzando mercatini dell’antiquariato e mostre di pittura (come l’associazione Naviglio Grande) o proponendo il recupero di queste vie d’acqua al trasporto pubblico (come suggeriscono gli Amici dei Navigli). Lungo il Pavese i vecchi barconi che scaricavano la sabbia sono diventati locali con musica dal vivo, mentre è da queste parti, nei cortili delle case di ringhiera, che vivono alcuni degli ultimi artigiani milanesi: sarti, liutai, ceramisti, corniciai, restauratori.

“Questo si dovrebbe fare”, si sfogava qualche tempo fa Dario Fo con Curzio Maltese di Repubblica: “scoperchiare i navigli, tornare ai tempi di Stendhal. Invece stanno vuotando la Darsena per farci i garage. Milano è così, si pugnala da sola”. L’ultimo barcone scaricò sabbia alla Darsena nel 1979; da allora ci si pescano le trote o si pattina sul ghiaccio. Cos’è rimasto della Milano d’acqua? A parte il folclore s’intende. A parte il cenare a lume di candela in vicolo dei Lavandai o il divertirsi salendo e scendendo sull’acqua della conchetta di via Torricelli, o l’immaginare una città leggendaria piena di canali misteriosi, passaggi segreti e laghi sotto al Duomo che in realtà nessuno ha mai visto? Che fine ha fatto la Milano cordiale e affabile “delle fosse, delle darsene, degli scricchiolanti ponti di legno” di cui parlava Montanelli?

Il Tai Chi Chuan è “l’arte marziale del Grande Universo” e il luogo ideale per praticarlo è un ambiente naturale. Per questo Roberto Canobio, funzionario della Regione Lombardia, si allena al Parco delle Cave, sulle rive sabbiose di un laghetto che guarda il quartiere Baggio. Roberto è uno dei tantissimi milanesi che dopo il lavoro o nei weekend esce fuori città a cercare in periferia quella Milano d’acqua ormai scomparsa entro le mura. C’è chi pedala fino al Parco Lambro per ritrovarla, chi segue la Martesana o il Naviglio Grande fino al Ronchetto, e chi frequenta il mitico Idroscalo a Linate, l’enorme pista per idrovolanti costruita negli anni Trenta che è subito diventata il “mare dei milanesi”. Perché l’acqua a Milano c’è ancora, anche se non si vede.

E chi cammina in via Senato o in via Francesco Sforza faccia come Giuseppe Marotta, lo scrittore che guardava la città con gli occhi del napoletano: quando passava di lì batteva il piede e sussurrava, «naviglio, mi senti? Vecchio naviglio, ti ricordi di me? Ma ci sei davvero qui sotto?». L’acqua c’è ancora lì sotto, anche se nessuno la vede.


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