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Wednesday, April 22, 2015

GIASONIANA -- track list -- GIASONE --

Speranza

GIASONE è un personaggio ambiguo già in Euripide e Seneca.

GIASONE si muove nella vicenda in Corinto incerto tra richiami al dovere di capo famiglia, calcoli politici e amori ingestibili.

Ancora Pietro Corneille fonde in modo inscindibile i due aspetti secondo le consuetudini del cortigiano secentesco.

Ma già Longepierre ne fa amante sincero e appassionato della PRINCIPESSA CREUSA.

Glover, addirittura, redime GIASONE immaginandolo restio alle nuove nozze impostegli da un accordo tra Creonte e suo padre Esone, re di IOLCO.

Solo alla fine, ma ormai troppo tardi per sventare la vendetta dell’amata Medea, troverà la forza di ribellarsi ai voleri paterni.

Nel Settecento il passaggio di GIASONE da capofamiglia intenzionato a promuovere socialmente se stesso e i figli, anche a scapito della moglie, ad amante tenero decreta una CADUTA MORALE del personaggio, ma consente alcune scene sentimentali care al gusto dell’epoca.

Di questo genere sono quelle di Noverre, Giotti, Marinelli, Balsamo, e Morosini.

Gli ultimi tre -- Marinelli, Balsamo e Morosini -- rendono conto dell’amore di GIASONE in un monologo.

Quello di Morosini sarà poi ripreso ed adattato da Giovanni Felice Romani alla fine del second’atto.

La caratterizzazione più accurata di Creonte, per questo eccezionale, è quella di Glover, che ne fa (e non Medea) il vero MOTORE della tragedia.

È Creonte che ha combinato le nozze tra GIASONE e la PRINCIPESSA CREUSA, è Creonte che persegue questo progetto nonostante le incertezze di GIASONE, le minacce della sacerdotessa di Giunone e di Medea.

Alla fine, il progetto diventa vero e proprio puntiglio per affermare la propria autorità sui sudditi e sugli dèi, fino a spingerlo ad un attacco armato al tempio, durante il quale soccomberà per mano dei sudditi.

Di un Creonte così ferocemente caratterizzato restano tracce nel libretto di CASTIGLIA, oltre che nella tragedia di Lamartine.

Negli altri testi Creonte è re severo, intimorito da Medea, che oscilla tra una ironia feroce nei confronti della maga (Seneca, Corneille), l’aspra durezza del sovrano (Longepierre), e una sostanziale comprensione del suo dramma di donna abbandonata: è in forza di questa comprensione che proroga l’ordine d’esilio d’un’ultima fatale giornata e, in Della Valle, intercede con PRINCIPESSA CREUSA perché acconsenta all’incontro tra Medea e i figli, che si rivelerà esiziale. In generale, però, il personaggio è poco caratterizzato, se non, talora, trascurato.

Il solo compito è intimare, o comunque decretare, l’esilio di Medea e di avallare le nozze tra PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE.

Così accade per esempio nei -- B. Benincasa, Riflessioni sulle tragedie che hanno trattato il soggetto di Medea. Cfr. A. Caiazza, Medea: fortuna di un mito -- libretti di Marinelli e Balsamo, in cui Creonte compare solo all’inizio per comunicare la sentenza e alla fine per piangere la morte della figlia (con relative arie in Marinelli, aria e duetto con GIASONE  nel rifacimento di Balsamo).

Solo Gambara tenta un Creonte equilibrato, forse ingenuo, non tiranno, votato al bene pubblico di Corinto nella scelta sia di concedere la mano di PRINCIPESSA CREUSA a GIASONE , sia di esiliare Medea, cui cerca di comunicare il decreto con toni concilianti. La tradizione classica prevede che il dramma si apra con Medea e GIASONE  già ospiti a Corinto con i due figli.  Solo le esigenze di maggiori peripezie necessarie al ballo pantomimico spinsero Noverre ad anticipare anticipa l’inizio del dramma all’arrivo di Medea e GIASONE  a Corinto e ai primi approcci dello sposo con PRINCIPESSA CREUSA, durante la festa di accoglienza degli Argonauti: l’antefatto è comunque immaginato in termini analoghi.

La prima importante variante a questo modello è invece introdotta da Richard Glover, e la sua innovazione avrà ampio seguito nei testi successivi.

Glover immagina che GIASONE fosse fuggito, inorridito, dalla sposa già a Iolco, dopo che Medea aveva assassinato suo zio per restituirgli il trono usurpato, e si fosse rifugiato in Corinto solo.

La tragedia inizia così quando Medea giunge in Corinto, con seguito e figli, alla sua ricerca.

Quest’idea verrà ripresa da Gotter, leggermente modificata dal fatto che Medea giunge sola in Corinto mentre i figli vi erano erano già giunti con il padre all’epoca della fuga da Iolco. Da Gotter viene poi ripresa da Giotti, Hoffman, Milcent, Della Valle e Legouvé; in forma diversa è sfruttata anche da Lamartine, Castiglia e Grillparzer: i primi due immaginano Medea in Corinto assieme a GIASONE  ma incognita tanto a Creonte che a PRINCIPESSA CREUSA; l’ultimo fa sì che GIASONE  e Medea tornino assieme a Corinto dove GIASONE  era cresciuto e dove serbava ricordi di vita con PRINCIPESSA CREUSA.

La variante introdotta da Glover consente a tutti questi testi o il capovolgimento di ruoli, per cui è Medea ad intromettersi in una situazione affettiva già consolidata tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA, o due coups de théâtre di grande efficacia: il disvelamento o l’apparizione improvvisa di Medea con conseguente sorpresa generale (Hoffman, Della Valle, Castiglia, Grillparzer, Legouvé, Pini; Gotter posticipa il disvelamento alla scena ultima, a delitti commessi), e l’incontro sereno e confidenziale tra PRINCIPESSA CREUSA e Medea, prima che quest’ultima scopra che l’oggetto d’amore della principessa è GIASONE  stesso (Lamartine, Della Valle, Legouvé). Per mettere al corrente gli spettatori di tutto ciò, le esposizioni seguono pochi modelli: a) dialogo iniziale: tra GIASONE  e confidente (Corneille, Longepierre, Morosini, Lamartine), tra due confidenti (Marinelli, in forma diversa anche Glover e Milcent), tra Medea e confidente (Clément, Niccolini); b) come lungo monologo di Medea (Gotter, Giotti); c) avvio in medias res che consente di mettere in azione l’esposizione: confront tra Medea e Creonte (Balsamo), tra GIASONE , Creonte e Glauce che concertano le nozze (Gambara, Troilo), come annuncio al popolo da parte di Creonte delle nozze imminenti, con ampia introduzione con PRINCIPESSA CREUSA (Della Valle, Legouvé) e coro che si concentra sulle preoccupazioni della principessa (Hoffman, Romani).

Va da sé che quest’ultimo modello è seguito dai testi lirici, o da tragedie modellate sul teatro musicale.

Lo scioglimento, nella nostra lettura la decisione di Medea di sopprimere i figli, è naturalmente l’episodio del dramma più soggetto a varianti, quello che meglio caratterizza le diverse versioni, sia per posizione, sia per costruzione. Con l’eccezione dei testi che intendono calcare i toni ‘terribili’ della perversione di Medea, quasi tutti gli autori cercano un motivo scatenante, un modo per rendere plausibile un atto tanto innaturale ed estremo.

Alcuni testi giustificano l’esplosione della vendetta di Medea con la certezza di non poter più scongiurare le nuove nozze: lo fa Glover (IV,3: Medea è informata che il contratto di nozze è già firmato), e lo seguiranno pure Clément (II,5), Hoffman (III,1-2, dopo che il second’atto era terminato con le nozze di GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA), Milcent (III,4: Medea, ignara che GIASONE  finge soltanto di accettare l’obbligo di nozze imposto da Creonte sente i canti nuziali e, in un accesso di follia, uccide i figli), Troilo (II,3) e Pini (I,10). Normalmente però, sull’esempio di Seneca, la decisione delle nuove nozze è collocata nell’antefatto e l’evento scatenante diventa la decisione di GIASONE  di tenere con sé i figli: accade in Corneille (III,3), Longepierre (III,5-6), Giotti (II,3-5), Niccolini, (III,3- 4), Della Valle (IV,1-2, dopo che il terz’atto era finito con il dialogo sui figli con GIASONE ), Gambara (II,5-6, dopo un analogo dialogo con Creonte), Lamartine (IV,2-3, «Eh bien! Ce dernier coup me rend tout mon courage»), Legouvé (III,5-6, fa sì che, crudelmente, GIASONE  chieda a Medea di scegliere quale figlio tenere; al rifiuto del prescelto di andare con la madre, questa risolve per la vendetta: la scena è preparata prima con dialoghi affettuosi tra PRINCIPESSA CREUSA e i figli, sorpresi da Medea).

Solo Marinelli, Balsamo e Morosini scelgono di seguire Euripide ed immaginano che sia Medea ad affidare spontaneamente la prole a GIASONE: un espediente per rendere verosimile il dono della veste (o cinto, o diadema) a PRINCIPESSA CREUSA. Noverre e Gotter, invece, non chiariscono a chi sia spettata la decisione di lasciare i figli con GIASONE , e neppure danno ampio risalto alla risoluzione di GIASONE  di sposare PRINCIPESSA CREUSA: la pantomima che nel primo effigia l’abbandono di GIASONE  (II,6-7) e I canti nuziali che nel secondo (sc. 5) Medea sente da dentro non sono a ridosso dello scioglimento. In questo modo Noverre, Marinelli e Balsamo, così come Morosini, colorano di terribile tutta la pièce, fedeli al motto Sit Medea ferox (che Morosini per primo appone come exergo sul forntespizio della tragedia): arrivano all’epilogo in un crescendo di ferocia di Medea; in questi casi è difficile individuare un vero punto di svolta del dramma perché l’evento cruciale sembra anticipato all’antefatto o alle primissime scene, così che Medea è fin dall’inizio personaggio abnorme.

In Balsamo e Marinelli la prima comparsa di Medea (I,2 e I,1) è già all’insegna del progetto di vendetta; il passaggio dall’omicidio di PRINCIPESSA CREUSA all’infanticidio è ‘giustificato’, per dirla parafrasando un verso di Morosini, dal fatto che pur la sua sete estinta ancor non era. Morosini, poiché ha a che fare con dimensioni più ampie e regole più stringenti, non può naturalmente limitarsi al solo epilogo, come fanno le due opere. Distribuisce così la catastrofe su tutto il terz’atto: il punto cruciale è descritto da Tideo a GIASONE  quando in III,1 racconta di aver visto Medea guardare il figlio maggiore in silenzio e smarrita «Disse al maggior: oh, come nel tuo volto Sta il volto di Giason! Lungo silenzio| seguì tai detti». Segue il teso dialogo tra Medea e GIASONE , «l’ultimo assalto» da lei tentato per riconquistare lo sposo, l’invio della veste avvelenata a PRINCIPESSA CREUSA e la risoluzione d’uccidere i figli, vòlta esclusivamente a colpire GIASONE . L’espressione di Medea, descritta da Tideo silente e turbata non è una novità: uno degli elementi del sublime drammatico di questi anni erano le frasi concise, la riduzione del livello retorico fino al silenzio.

In tutte le Medee di fine Sette e inizi Ottocento, il momento cruciale non necessita di parole, al più è espresso con frasi frammentate e versi interrotti sul modello alfieriano.

In generale alla riduzione del livello retorico, corrispondono anche indicazioni gestuali precise: la scena si fa carico di riverberare e amplificare la tensione del climax drammatico. Accade nelle opere di Marinelli e Balsamo, dove in II,4 e II,5 il --  In tutte le Medee italiane, rigorosamente in endecasillabi, lo stile alfieriano con la successione di versi spezzati subentra nelle scene dove la tensione drammatica giunge al sublime, soprattutto ogni qual volta vengono citati i figli. Si veda Troilo Malipiero II,3. MEDEA Quanto ardisca non sai!. CREONTE Ma il don d’un figlio? MEDEA Nol curo! GIASONE  Il mio furor… MEDEA Nol temo! CREONTE Morte? MEDEA La bramo! CREONTE Il figlio tuo? MEDEA Nol conosco! GIASONE  L’infamia? MEDEA La dispregio! PRINCIPESSA CREUSA Il ciel? MEDEA Lo sfido! GIASONE  A Medea dunque, or chi più resta? MEDEA Io! (con somma forza). Ma un altro caso si trova anche in I,4. Se ne possono poi osservare esempi anche in Giotti, II,1 (Medea, GIASONE , PRINCIPESSA CREUSA, Creonte, alla comparsa a sorpresa di Medea), V,ultima (Medea, GIASONE , Creonte); Morosini, I,3 (Creonte-Medea), II,3, III,2 (GIASONE -Medea), II,4 e III,1 (GIASONE -Tideo con descrizione dello stato di abbattimento di Medea), IV,3 (Medea-Climene con la risoluzione all’infanticidio); Niccolini, II,5 (Medea-Rodope, con risoluzione alla vendetta sui figli), V,6 (Popolo- Rodope-GIASONE -Medea); Della Valle, II,2 (Creonte-Medea), III,2 (GIASONE -Medea, con la sorpresa dello sposo di vederla in Corinto), IV,2 (Medea-Licisca con risoluzione alla vendetta), IV,4 (Creonte- Medea), V,2 (GIASONE -Medea-figli) -- montare della furia di Medea è evidenziato dal suo sguardo verso i figli, che passa dalla tenerezza al furore alla tenerezza, e poi ancora al furore275; analoga è la calma tremenda descritta in Niccolini dalla confidente di Medea (IV,1)276 o lo stato in cui «Misera! Il suo dolor non ha parole Medea tien fise a terrale attonite pupille» come fa dire Niccolini ad Adrasto (I,5). Nella drammaturgia del tardo Settecento la forza scenica di questi gesti ha grande efficacia: possiamo quindi intenderlo come un adattamento all’estetica del sublime dell’espediente che Corneille aveva introdotto con la scena di magia per rafforzare il dénouement. La scelta di Gotter è invece differente da quella di Noverre, Marinelli Balsamo e Morosini, sebbene, come loro, anch’egli non preveda un episodio scatenante alla furia di Medea. I canti nuziali che Medea sente da dentro, preludono infatti ad una scena di delirio: Medea immagina la morte dei figli in modalità analoghe a quelle poi riprodotte nel dénouement. Il delirio però è episodico, e non costituisce una vera svolta della breve azione, che infatti immediatamente dopo riprende con un tenero incontro tra Medea e I figli. Il delitto, per essere tale, deve essere consapevole: l’obnubilamento della coscienza non costituisce così il rivolgimento catastrofico; lo sapeva bene Glover che sfrutta il delirio in cui Medea colpisce i figli per salvare la purezza della madre assassina, formalmente decretata poi dall’oracolo di Giunone. L’importanza del delirio è dimostrata anche, e contrario, dalla Vendetta di Medea di Giotti che in II,5 imita la scena di Gotter ma senza accennare al delirio: di fatto anticipa così il dénouement. Da quel momento in poi tutte le azioni di Medea sono volte alla vendetta, ed entrambi i due rimanenti incontri con i figli (II,6 e IV,7) sono tentativi (falliti) di omicidio. Come abbiamo visto nel caso di Marinelli e Balsamo, anticipare tanto lo scioglimento contribuisce a rendere la pièce un epilogo dell’antefatto, rinunciare ad un percorso drammatico articolato e ridurre lo spettacolo ad una semplice esibizione di effetti ‘terribili’. L’espediente del delirio iniziale in cui l’idea di uccidere i figli si affaccia alla mente di Medea, subito respinta con orrore, è invece ripresa da Gambara (I,4) e da Hoffman (II,4), in analogia con Gotter, come stigmatizzazione del dénouement: quando avverrà, in stato di coscienza, avrà già impressi i tratti dell’abnorme. La catastrofe prevede due fasi necessarie: la realizzazione dell’infanticidio e il chiarimento della sorte di Medea e GIASONE . I figli di Medea muoiono infatti quasi sempre: fanno eccezione Balsamo, come detto sopra, e Troilo che chiude la tragedia con un tableau sospeso con Medea che «alza il braccio armata di pugnale sopra il fanciullo. GIASONE  275 Balsamo, coerentemente, si ferma alla tenerezza per giustificare il mancato infanticidio finale. Il libretto ne risulta certamente con meno nerbo, ‘censurato’. 276 «Ohimé conoscoDell’ira antica i segni, e mai non vidiPiù tremende sembianze; il suo dolore Già divenne crudele; ed or mi sembrach’ella vagheggi una feroce idea.Allor che il nome ascolta!Dell’infedel consorteMedea sorride, e quel sorriso è morte. --retrocede inorridito». Fa eccezione anche Lessing a cui è sufficiente far morire PRINCIPESSA CREUSA per concludere tragicamente il dramma, visto che il personaggio della ingenua fanciulla innamorata aveva spodestato Medea del ruolo di protagonista. Negli altri testi, la vendetta è compiuta a freddo (Clément, Noverre, Gotter, Giotti, Marinelli, Lamartine, Morosini, Gambara) o su pressione dei corinzi che cercano Medea per vendicare su lei o sui figli la morte di PRINCIPESSA CREUSA e Creonte (Longepierre, Hoffman, Gambara, Niccolini, Della Valle, Bertocchi, Pini, Legouvé). Generalmente è compiuta fuori scena, ma in Noverre, Marinelli, Bertocchi, Legouvé avviene davanti agli spettatori inorriditi. Un finale aperto come quello dei due testi classici di Euripide e Seneca, con la fuga di Medea e lo smarrimento di GIASONE , soddisfacevano poco, tuttavia, la tradizione classica sei e settecentesca, così come la tradizione ‘terribile’. Per la prima era troppo immorale l’impunità dei delitti e troppo irregolare la chiusura della tragedia senza una Chiara collocazione finale di GIASONE , per la seconda l’efferatezza del delitto di Medea necessitava d’una adeguata evidenziazione scenica, per rientrare nei canoni delle scene terribili. Corneille, dunque, fa suicidare GIASONE , seguito in questo da Longepierre, Lessing, Gotter, Noverre, Morosini (quest’ultimo, con l’esagerata osservanza del decoro degli epigoni, si affida alla variante dello svenimento) e Romani (nella versione romana del ’24 il suicidio è compiuto, nelle altre impedito all’ultimo istante); Glover si deve affidare alla discesa di Giunone che perdona i due sposi l’attimo prima del suicidio; Clément introduce il suicidio di Medea, seguito da Della Valle, Niccolini, Lamartine e Pini (oltre che dalla versione romana del libretto di Romani); a partire dal ballo di Noverre, prende anche quota l’amplificazione scenica del finale, talvolta con infanticidio in scena e comunque con presenza attiva di furie che terrorizzano gli astanti dentro e fuori dal palcoscenico. Seguono questa variante laterale, dettata dalle particolari poetiche musicali del tempo, tutti i testi con musica: Gotter (nelle traduzioni per la scena, quella di Borroni e quella napoletana, non nelle traduzioni letterarie di de’ Giorgi Bertòla e delle Novelle Letterarie»278), le opere di -- 277 Cfr. M. Garda, Da «Alceste» a «Idomeneo»: le scene terribili nell’opera seria. Si confrontino i diversi epiloghi. B. Borroni: «GIASONE  – Scellerata! Mel disse il cor presago.| I miei figli ove son? Poveri figli! Dal palazzo sortono quattro furie, due coi figli trucidati, e due con fiaccole accese; quelle gittano i figli su i gradini in faccia a GIASONE , e partono; e queste scendono a circondarlo. Egli al ravvisare que’ cadaveri dà un grido spaventoso e tenta di correre verso di essi, ma è trattenuto dalle furie. MEDEA, gittandogli il pugnale ai piedi – Eccoli pel sepolcro. Ah! pera di Esone la schiatta reaVivan, Vivan gli de. viva Medea. Sale in trionfo. GIASONE  – Tanto dunque a’ miei danni è il cielo irato?| Furie d’averno orribiliUccidetemi voi, son disperato! In questo istante precipita il palazzo, GIASONE  precipita colle furie, e si abbassa il sipario». Napoli 1790: «GIASONE  – Terribil vista! I figli miei … MEDEA – Eccoli, ma pel sepolcro! Getta lo stile, e sparisce. Escono quattro furie, due coi cadaveri dei figli, quali gettano su gli scalini del palazzo, e partono, e le altre impediscono a GIASONE  d’avvicinarsi. GIASONE  – Ferma, t’arresta, dà morte anche a me pria di fuggire …. Ah! voi la cui fredda spoglia non posso ora abbracciar, innocenti vittime, perdonate, perdonate al vostro genitor… La destra del vindice Onnipotente faccia le vostra vendetta. Cava uno stile, e si ferisce. Oh Dio! io vi seguo, io muoio. (Muore)». «Novelle Letterarie»: «GIASONE  – Terribil presentimento! … I miei figli? MEDEA –Va’ e sotterrali. Se ne va trionfante. L’ingresso del palazzo s’apre da per se. GIASONE  Ferma! ti arresta! dà morte anche a me prima di fuggire! Vede i cadaveri, vuol gettarsi sopra; torna indietro tremante. Ah! voi, … le cui fredde membra non oso abbracciare, Marinelli, Balsamo e Hoffman. Giotti, Marinelli e Hoffman aggiungono anche il crollo dell’intero palazzo o della città per terremoto o incendio (in Giotti con «musica analoga».); Gambara si toglie d’impiccio e fa fuggire Medea di nascosto, affidando alla confidente il compito di rivelare l’infanticidio a GIASONE ; Milcent opta invece per un improbabile lieto fine, con la Giunone di Glover che, oltre a perdonare Medea e GIASONE , rende loro anche I figli misteriosamente sfuggiti ai colpi della madre. Così come le sezioni portanti del dramma, anche i diversi episodi previsti per tratteggiare i caratteri della tragedia possono essere molto vari col variare del tono generale che il drammaturgo intende dare alla sua Medea.

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