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Tuesday, April 21, 2015

*** *** *** GIASONIANA **** *** ***

Speranza

È raro che il melodramma “GIASONE  E MEDIA EN CORINTO” di Felice Romani nasca come autonomo frutto della fantasia di suo autore.

Lo dichiara, almeno per la la parte letteraria dell’opera lirica, Bianconi nel concludere il suo “Hors-d’oeuvre alla filologia dei libretti” con l’esortazione a considerare il libretto come testo derivato, utile, tra gli altri, allo studioso di letteratura comparata.

Sono rari i libretti che non discendano da una fonte letteraria, vuoi librettistica, vuoi drammatica, vuoi epica, assunta come modello diretto.

La norma è l’adattamento di una vicenda preesistente, narrativa o drammatica che sia, al genere operistico: alle sue convenzioni, certamente, ma anche alla sua natura di testo ‘aperto’, cioè alla sua esigenza di focalizzare in poche scene pregnanti un intero percorso narrativo.

Il melodramma, insomma, prima ancora che raccontare una vicenda, la monta in scene giustapposte, la articola in un’azione drammatica.

Sul rapporto tra giustapposizione di situazioni drammatiche in sé conchiusi e funzione drammatica globale dell’opera cfr. Fabrizio Della Seta, “Affetto e azione. Sulla teoria del melodramma italiano dell’Ottocento”, in Trasmissione e recezione delle forme di cultura musicale, atti del XIV Congresso della Società Internazionale di Musicologia, a cura di A. Pompilio e altri, Torino, EDT, Free Papers.

Quest’azione drammatica consente il pieno dispiegamento di ciò che si ritiene, nelle varie epoche, il potenziale espressivo della musica. Cfr. Carlo Dahlhaus, Drammaturgia dell’opera italiana, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi e G. Pestelli, VI: Teorie e tecniche. Immagini e fantasmi, Torino, EDT.

Nell’opera metastasiana esso si può grosso modo limitare all’icona della passione che anima il personaggio emotivamente strattonato dal recitativo precedente. Si può ben dire che i versi sciolti e il loro corrispondente musicale, lo stile recitativo, siano stati delegati ad accompagnare l’azione drammatica e gli accadimenti esterni.

Le arie, invece, a trasformare in suoni il mondo degli affetti (le perturbazioni d’animo che ne sbilanciano l’ordinario equilibro) e delle idee che i personaggi via via sentono o elaborano come reazione alle vicende rappresentate (Paolo Fabbri, La musica è sorella di quella poesia che vuole assorellarsi seco, in Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, a cura di G. Gronda e P. Fabbri, Milano, Mondadori, Cfr. anche Lorenzo Bianconi, Il teatro d’opera in Italia, Bologna, Il Mulino.

Nel pieno Ottocento italiano e piuttosto il controllo musicale delle curve emotive tra accumulo e scarico di energia.  

Lo studio delle relazioni che legano l’opera alle sue fonti consente in ogni caso di esaminare il montaggio dello spettacolo, di approfondire le operazioni con cui gli autori aprono il testo di partenza: consente insomma di individuare la griglia, il setaccio con cui filtrano l’intreccio per renderlo musicabile, melodrammatico.

Cfr. J. Budden, Le opere di Verdi, Torino, EDT. E di questo genere il caso per esempio il caso delle Nozze di Figaro di Da Ponte e Mozart ampiamente studiato tra gli altri da Alan Tyson, “Some Problems in the Text of “Le Nozze di Figaro”: Did Mozart Have a Hand in Them?, for The Journal of the Royal Musical Association. Nel caso di GIASONE  e Medea in Corinto, Mayr e Romani non hanno una fonte diretta, ma si inseriscono in una lunga tradizione testuale, lavorano per tagli e aggiustamenti, prestiti e contaminazioni di vario genere e da differenti tradizioni di cui non è sempre agevole, spesso neppure possibile, accertare l’origine.  

Il mito di Giasone e Medea era tornato all’attenzione del teatro europeo da almeno sei decennia.

Ogni autore muoveva principalmente alle fonti autorevoli di Euripide, Seneca e ormai anche Corneille.

Nel corso della seconda metà del Settecento, la tragedia di Longepierre, a lungo ritenuta più regolare di quella di Corneille, aveva perduto autorevolezza, ma traeva spunti anche da quelli che immediatamente lo avevano preceduto.

Ad un modello circumpolare, per il quale tutti gli autori facevano riferimento ad un repertorio radicale comune, si sovrapponeva quindi un modello diacronico.

Nei termini di J. Rousset -- Rousset, Paris, Librairie Armand Colin, Il mito di Don Giovanni, Parma, Pratiche editrice -- potremmo definire invarianti i tratti sistematicamente ripresi dai tre modelli originari, in qualche maniera quindi costitutivi del mito di Giasone stesso.

Varianti i tratti assunti di volta in volta da autori immediatamente precedenti, o comunque capaci di costruire una tradizione testuale coerente, seppur limitata per durata cronologica o per casi letterari.

Nel suo libretto, Felice Romani si attiene principalmente a due fonti drammatiche, una classica:

-- la tragedia di Corneille.

e una recente:

GIASONE  e Medea in Corinto”, tragedia del patrizio veneziano H. M. Domenico Morosini.

Simplex dumtaxat et unum sit Medea ferox Horat. Art. poet. in Venetia l’anno 1806 presso Antonio Rosa con privilegio; sta in Anno teatrale in continuazione del Teatro moderno applaudito, ossia raccolta annuale divisa in dodici mensuali volumi di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri, corredata di notizie storico-critiche e d’un indice alfabetico in fine di tutti i componimenti inseriti nei detti dodici volumi, anno terzo, I, Venezia, presso Antonio Rosa.

Morosini (1768-1842) è autore di due tragedie, “GIASONE  e Medea a Corinto” e “Giulio Sabino”, apprezzate sulle scene veneziane nei primissimi anni dell’800.  Dopo Campoformio si diede alla politica e all’amministrazione cittadina sotto l’impero austriaco.  

La biografia di Morosini compare in Girolamo Dandolo, La Caduta della Repubblica di Venezia ed I suoi ultimi cinquant’anni, Venezia. Nella storia sette-ottocentesca di Giasone e Medea, però, balzano per la prima volta all’evidenza critica anche le metamorfosi laterali, quei tratti, cioè, che adattano il mito di Giasone e Medea ai diversi generi drammatici e letterari. Osservazioni utili in questa prospettiva, a proposito di GIASONE  e Medea di Cherubini, sono avanzate da Carl Dahlhaus in “Euripide, Seneca il teatro dell’assurdo e l’opera in musica” in La drammaturgia musicale (a cura di L. Bianconi, Bologna, Il Mulino) dove si evidenziano le trasformazioni inevitabilmente subìte dal soggetto nel passaggio dalla tragedia greco-romana ad un’opera lirica dell’età borghese.  

Habiamo soprattutto un mosaico di tradizioni drammatiche diverse che Romani e Mayr conciliano scegliendo da esse tutto ciò che ritenevano musicabile, adeguato alla struttura aperta dell melodramma, idoneo all’espansione del potere evocativo ed espressivo della musica.  

Quando intoducono --   sul valore prescrittivo del libretto nei confronti del compositore la letteratura è ampia, ma per il caso di Romani basti citare A. Roccatagliati, Felice Romani, librettista (Lucca, LIM) che dà una esauriente bibliografia -- arie di taglio metastasiano, numeri bi-partiti o quadri-partiti in solita forma, ampi finali d’atto, recitativi drammatici, da accompagnare con tutta l’orchestra, prevedono ruoli e sensi differenti all’intervento musicale e riecheggiano,  funzioni drammatiche proprie dei diversi generi teatrali da cui prende le mosse.

Il melodramma di Romani è insomma un esempio di intertesto – come parlano sia Julia Kristeva, Le Mot, le dialogue et le roman, in Semeiotike: ricerche per una semanalisi, Milano, Feltrinelli, e Roland Barthes, in Texte (théorie du), in Encyclopaedia Universalis, Paris,  --  cioè mosaico di citazioni dove altri testi sono presenti, a livelli variabili, sotto forme più o meno riconoscibili.  Il concetto di intertesto definisce l’individualità del melodramma nell’incrocio particolare di scritture anteriori -- sul problema cfr. la ricca disanima di C. Guillén, trad. it. L’uno e il molteplice: introduzione alla letteratura comparata, Bologna, Il Mulino. È qualcosa che appare nel melodramma, che si trova in essa, non un lungo processo genetico.  È quindi un concetto utile in ambito storico-critico; meno in ambito filologico, perché sconfina in un campo generale di formule anonime, la cui origine raramente può essere localizzata, di citazioni inconscie o automatiche, messe tra virgolette.  In questi casi ricostruire la rete intertestuale, per quanto approssimata, consente allora di chiarire molti aspetti del melodramma. In primo luogo consente di giustificare l’ampiezza delle scelte formali della musica. Nel primo Ottocento, infatti, non v’era davvero certezza, univocità, su cosa fosse o non fosse musicabile in un dramma, o meglio, su cosa non dovesse essere musicato perché pertinente ad altre arti -- cfr. la rapida ma efficace sintesi di Giovanni Morelli, Ascendenze farsesche nella drammaturgia seria italiana del grande Ottocento, in I vicini di Mozart: Il teatro musicale tra Sette e Ottocento, a cura di D. Bryant e M. T. Muraro (Firenze, Olschki).

La varietà formale delle melodammi di questi anni è il sintomo dei diversi statuti espressivi riconosciuti all’intervento musicale nel dramma. Il concetto di intertesto rinvia anche alla socialità della scrittura letteraria.

“GIASONE  e Medea in Corinto” si offre come caso ideale anche in questo senso. 

Il libretto fu infatti prodotto in diretta collaborazione tra Romani e Mayr.

A Napoli, prima dell’allestimento, subì modifiche sostanziali da un parte di un poeta locale.

In occasione delle riprese successive “GIASONE  E MEDEA IN CORINTO” venne alterata al variare dei cantanti protagonisti, talvolta da Romani talaltra da altri collaboratori dei teatri. Come tutte le melodrammi, insomma, ha vicissitudini estranee al controllo d’autore e vede la collaborazione. GIASONE E MEDEA va dal ballo, al melologo all’opera.

Molti altri testi sono quindi presenti a vario titolo nell’opera di Romani e Mayr e contribuiscono a costruire i numeri musicali di maggior ampiezza. I

l melodramma si presenta così come un mosaico di testi precedenti, ma dopo l’edizione completa delle opere di Corneille curata da Voltaire (Théâtre de Pierre Corneille, avec des commentaires), i dizionari e le prefazioni a tragedie e opera citano tra le fonti questi tre autori, più raramente Longepierre.

Evidentemente nell’affermare il canone stilistico faceva premio l’auto-revolezza dell’autore (e in questo Corneille era diventato incomparabilmente superiore a Longepierre) rispetto a quella del testo. Riprendendo categorizzazioni di Claude Lévi-Strauss, Caiazza (“Giasone e Medea: fortuna di un mito” in «Dioniso») osserva come il mito di Giasone e Medea vada analizzato e scomposto nei suoi elementi costitutivi, per essere poi ricomposto in relazioni, o meglio, in fasci di relazioni che ci aiutano a cogliere i nessi significanti.  

Per questo motivo il mito di Giasone e Medea richiede una duplicità di lettura, sincronica e diacronica, e solo l’uso simultaneo di esse consente di penetrarne la natura e i significati.

Si veda la trattazione di questo aspetto anche in Luigi Belloni, Tre ‘Medee’: Euripide, Cherubini, Grillparzer. E una postilla sulla ‘Norma di Bellini’, in Lexis -- creativa di diversi responsabili del prodotto finale (tra compositore e librettista nella fase produttiva, interazioni con i cantanti, musicisti, esecutori nella fase precedenti l’allestimento, con diversi letterati che la manipolano per gli allestimenti successive.

Almeno per ciò che riguarda la parte letteraria dell’opera , di queste vicende si dà conto nell’edizione critica del libretto. Questo studio tenta di dirimere la rete di rapporti genetici e intertestuali che costituiscono il caso di “GIASONE  e Medea in Corinto”, secondo Balthazar il più riuscito legame tra l’opera seria settecentesca e il melodramma ottocentesco, tra lo stile dei compositori tedeschi e francesi e quello di autori come Donizetti e Bellini --  Scott L. Balthazar, voce Mayr, in The New Grove Dictionnary of Opera -- un’opera che già all’epoca era percepita come riuscito incontro tra diverse drammaturgie -- Cfr. J. Commons, Medea in Corinto, in Beiträge des 1. Internationalen Simon-Mayr- Symposions,  Ingolstadt, Donaukurier.

Lo studio è dedicato all’esame delle tradizioni testuali, sceniche, letterarie convogliate nello spettacolo concepito da Romani, sia per quanto riguarda le scelte letterarie e le strutture librettistiche, sia per quanto riguarda le forme musicali e lo stile compositivo.  

La prima parte è invece tesa a chiarire la stratificazione del testo, la successione delle diverse volontà d’autore che l’hanno plasmato, le diverse fogge con cui I pubblici italiani ed europei l’hanno conosciuta: dalla questa ricostruzione e dall’analisi dei resti dell’opera – i libretti, le partiture manoscritte disseminate nelle principali biblioteche europee ed americane, le stampe, le recensioni – emerge la storia di uno spettacolo che fu più studiato e stimato che gradito ed ascoltato.  Uno di quei casi per i quali, come scrive Dahlhaus a proposito dei Troiani di Berlioz, il prestigio dell’opera precede il successo d’esecuzione.

La storiografia musicale muove primariamente dal prestigio delle opere e, viceversa, contribuisce consolidarlo; la prassi musicale deve al tramandarsi di un prestigio apparentemente astratto, poi realizzato di quando in quando da esecuzioni, una continuità che non avrebbe nella semplice dipendenza da successi d’esecuzione (Carl Dahlhaus, Köln, Arno Volk, Verlag, Fondamenti di storiografia musicale, Fiesole, Discanto. Ma si veda anche come affrontano il problema René Wellek e Austin Warren, tr. it., Teoria della letteratura, Bologna, Il Mulino).

Nel caso di GIASONE  e Medea in Corinto si verificarono tutte le dinamiche abbozzate da Dahlhaus.  

La fama di Mayr crebbe grazie a quest’opera, sebbene prima del 1821 ben pochi.  

Sulle implicazioni filologiche della natura aperta del libretto e sulle scelte da operare tra statuto del testo e statuto d’autore cfr. Giovanna Gronda, Statuto d’autore e statuto del testo nella librettistica del ’700, in Il ritorno di Lorenzo da Ponte, a cura di V. Pianca e A. Toffoli, Vittorio Veneto, Città di Vittorio Veneto.

Ma per una disanima approfondita di tali implicazioni, cfr. L. Bianconi, Hors-d’oeuvre alla filologia dei libretti cit.. Paolo Cecchi prova a districare i diversi livelli in Temi letterari e individuazione melodrammatica in "Norma" di Vincenzo Bellini, in «Recercare». Sul caso di “GIASONE  e Medea in Corinto”, cfr. il sommario Edilio Frassoni, I libretti scritti per Simone Mayr, in Felice Romani. Melodrammi, Poesie, documenti, a cura di Andrea Sommariva (Firenze, Olsckki) -- Scott L. Balthazar, voce Mayr, in The New Grove Dictionnary of Opera.--  potessero averne avuto esperienza diretta (Girolamo Calvi, Di Giovanni Simone Mayr, edito a puntate nella «Gazzetta musicale di Milano» tra il 1846 e il 1847, ora raccolto cura di Pierangelo Pelucchi, per la Fondazione Donizetti, Bergamo) ricorda come fu «soltanto dopo che comparve “GIASONE  e Medea”, che ha destato tanto rumore per tutta Europa, e soltanto dopo che si conobbero di proposito le altre sue opere, lo vollero di Germania, e di là mandato a redimere le musiche italiane. Solo dopo il 1823, tuttavia, la netta divergenza tra dinamiche di mercato e dinamiche di prestigio che ne avevano caratterizzano la recezione nei primi dieci anni, si riassorbe, almeno in parte, grazie alla energia scenica impressa da un’interprete d’eccezione come Giuditta Pasta. Si configura cioè una dinamica non frequente, sebbene, emblematica di tutta la tradizione operistica italiana: l’abilità e la fama dell’interprete offusca il prestigio dell’autore e garantisce la sopravvivenza di un’opera di cui il mercato avrebbe già decretato l’uscita dal repertorio.  Lo studio di questa dinamica è qui solo avviato: l’analisi della recitazione di Giuditta Pasta potrà, in sedi più idonee chiarirne molti aspetti. E se non fossero sorte prima le arie della Medea, i duetti della Ginevra e delle Rose, i finali de’ Misteri e del Giasone e Medea medesima, non avremmo I finali di Semiramide, le arie di Zelmira, i quartetti di Bianca, i quintetti di Mosè.

È cosa certa che Mayr, e Generali di mezzo, hanno formato il genio pesarese, e questa è la sentenza de’ sapienti in generale. Una lettera del 2 gennaio 1813 ci informa che Barbaja si recò da Napoli a Milano per assistere il padre malato (ASM, Fascio 4 /3 Registri di copia lettere ed ordini della soprintendenza 1801-1813. Sulla vicenda cfr. J. Rosselli, Governi, appaltatori, e giochi d’azzardo nell’Italia napoleonica, in «Rivista storica italiana», e Tobia R. Toscano, Il rimpianto del primate perduto: dalla rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat, in Il teatro di San Carlo, 1737-1987: l’opera, il ballo, a cura di B. Cagli e A. Ziino, Napoli, Electa).

Vi si fermò almeno fino alla fine di luglio, come dimostra la corrispondenza del San Carlo, firmata, in assenza del titolare, dal suo socio e procuratore Carlo Balocchino. Probabile che in quei mesi abbia potuto incontrare Mayr, già rientrato da Genova dopo il successo della Rosa bianca e della rosa rossa, andata in scena nel febbraio di quell’anno, e che gli abbia commissionato una nuova opera per la stagione 1813-14.  In ogni caso, nel novembre di quell’anno il San Carlo allestì GIASONE  e Medea in Corinto, la prima opera espressamente composta da Mayr per i teatri napoletani e culmine di una crescente penetrazione della sua musica nella capitale partenopea.  Dopo aver allestito Ginevra di Scozia il 13 agosto 1807, infatti, il San Carlo ospitò Elisa nel 1807, i Misteri Eleusini nel 1809 e Adelasia e Aleramo nel 1810; al Teatro del Fondo vennero dati invece L’amor coniugale e Le due giornate, rispettivamente nell’estate e nell’inverno 1810, La roccia di Frauenstein ed Elisa nella primavera 1812. L’incarico proposto da Barbaja a Mayr era prestigioso.

Da qualche anno il San Carlo era tornato a nutrire le grandi ambizioni proprie di un teatro di Stato, efficace mezzo di diffusione di cultura, di istruzione del popolo e propaganda filogovernativa.  Su Ginevra di Scozia si confronti il recente Attorno al palcoscenico. La musica a Trieste fra Sette e Ottocento e l’inaugurazione del Teatro Nuovo (1801), a cura di Paolo Da Col e Maria Girardi, Bologna, Forni.  Si era assicurato artisti di primo piano, sia nel cast dei cantanti, sia per la cura degli spettacoli: il 27 giugno 1807 aveva debuttato lo scenografo Antonio Niccolini per Climene di Farinelli, e di lì in poi anche gl’occhi cominciarono a riavere la loro parte, come si nota dalle soddisfatte recensioni di quei mesi.  Nel complesso, le opere di questi anni rinnovarono il repertorio teatrale e consolidarono nuovi standard nella dimensione dei numeri musicali. Nessuna critica o teoria del tempo può spiegare meglio la situazione già affermatasi nel primo decennio del secolo della sintetica ma concretissima supplica di un copista che nel 1806 chiedeva l’adeguamento del compenso. Tobia R. Toscano, Il rimpianto del primato perduto: dalla rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat cit. Cfr. anche Bruno Cagli, prefazione a Rossiniana. Antologia della critica nella prima metà dell’Ottocento, a cura di C. Steffan, Pordenone, Studio Tesi.

None’ tempi antichi, le opere finivano con un semplice duetto, e non come ora che si debbono scrivere da circa 500 fogli per ciascun’Opera, essendo abbondante di Quartetti, Terzetti, Cori ed altri  (Ricorso di Francesco Salvioni, al Ministro dell’Interno. 18 maggio 1806: ASN TEATRI, fascio 20, citato da Tobia R. Toscano, Il rimpianto del primato perduto: dalla rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat).

Napoli era una delle città più aperte alle esperienze musicali provenienti dall’estero e dagli altri centri italiani: la nuova considerazione, anche economica, rivolta dai governi napoleonici ai teatri della capitale aveva consentito di riprendere quell’attività di sperimentazione e riforma. Quanto l’esigenza di riformare la tragedia musicale agisse nella cultura italiana, e napoletana in particolare, tra fine Settecento e inizio Ottocento, è dimostrata dalla frequenza con cui il termine ricorre in tutta la letteratura musicale del tempo. Si utilizza qui il termine riforma in questo senso ben delineato in Renato Di Benedetto, Poetiche e polemiche, in Storia dell’opera italiana, VI Il Settecento e l’Ottocento, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, VI: Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi,–, senza voler indulgere alle scorciatoie e semplificazioni che fino a pochissimi anni fa quest’etichetta ha spesso consentito nella storiografia musicale --  dello spettacolo operistico che ne aveva caratterizzato la produzione di fine Settecento.  

Nonostante le resistenze espresse da più parti del mondo letterario e di cui si fece portavoce, tra gli altri, Gabriele Rossetti, poeta del San Carlo nel 1809.  

In questi anni Metastasio era pressoché assente dai cartelloni del teatro. Unici suoi drammi proposti furono nel 1805 (prima dell’arrivo di Giuseppe Bonaparte) un Ciro con musica di Luigi Capotorti e nel 1809 (mentore, quindi, il medesimo Gabriele Rossetti) una Clemenza di Tito con musica di Mozart, per la quale l’interesse era interamente rivolto alla musica del celebre compositore salisburghese, più che al libretto e all’intreccio del poeta cesareo. Per il resto transitavano da Napoli le principali produzioni italiane e venivano riprese le opere riformate dei decenni precedenti (Pirro di Paisiello e De Gamerra, 1811). Su queste ambizioni s’innestarono i gusti francesi della corte di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. Furono ospitate dal San Carlo l’OEdipe à Colone di Sacchini (1808), La Vestale di Spontini (1811), l’Iphigénie en Aulide di Gluck (1812), tutte nelle traduzioni di Giovanni Schmidt.  Oltre a singoli titoli, però, dalla Francia fu assimilato anche la concezione del teatro come centro di celebrazione del potere.

Ad una ripresa dell’Elisa di Mayr e Rossi del 1807 Paisiello aggiunse un finale trionfale allegorico sul passaggio delle Alpi di Napoleone, Giuseppe Nicolini compose un Trajano in Dacia con medesime intenzioni (15 giugno 1808). I Pittagorici di Monti e Paisiello rappresentò un caso emblematico di questo interesse celebrativo: commissionata in vista di una visita di Napoleone a Napoli (poi cancellata), quest’opera venne allestita in memoria delle vittime della rivolta del 1799. Sulle implicazioni ideologiche ed estetiche della sopravvivenza e del recupero di Metastasio nell’Ottocento, cfr. Marco Emanuele, L’ultima «Didone»: il Metastasio nell’Ottocento, in «Musica e storia», e Emanuele Senici, Mayr e il Metastasio: un contesto per «Demetrio», in Giovanni Simone Mayr: l’opera teatrale e la musica sacra, atti del convegno internazionale di studio Fu tra le prime a ricalcare modelli inconsueti in Italia: tre sole arie, un duetto, due cori e molti numeri con commistione di soli, concertati e cori, sezioni oscillanti tra il recitativo e l’arioso, dall’assolo con coro al duetto a seconda della temperatura emotiva e drammatica del momento inscenato   numeri con commistione di soli, concertati e cori, sezioni oscillanti tra il recitativo e l’arioso, dall’assolo con coro al duetto a seconda della temperatura emotiva e drammatica del momento inscenato. E tuttavia la politica culturale filofrancese della corte napoletana – timidamente aperta alla cultura viennese solo al volgere delle fortune militari di Napoleone – fu soprattutto propaganda ed esibizione di prestigio rivolta ai settori più illuminati della cultura italiana ed europea.  

Fu netta l’estraneità tra i titoli proposti e il gusto e le preferenze del pubblico cittadino.  A guardar bene – oltre all’aura di vivacità e lungimiranza che ancor oggi quei titoli emanano –, ci s’accorge che gli impresari alternatisi alla direzione del teatro fino alla definitiva nomina di Barbaja, così come i critici e l’intellettualità napoletana, tentarono di mediare tra successo di pubblico e impegno riformatore.  Non bastassero le critiche, sovente severe, mosse dai periodici napoletani alle opere di Sacchini e Spontini, lo dimostrerebbe un caso emblematico come l’allestimento della Clemenza di Tito mozartiana: annunciato sul libretto con la musica del «celebre Mozzard, maestro di cappella alemanno», il 14 maggio 1809 in realtà andò in scena un pasticcio tagliato su misura del soprano Marianna Sessi e combinato con numeri di Mozart, Portogallo (dal Tito Vespasiano) e Nicola Manfroce  Mozart non era affatto celebre, a Napoli, almeno non lo era per il pubblico del San Carlo che non aveva ancora sentito una nota delle sue opere32.  Era invece noto e divulgato in ambienti vicini alla corte, grazie alla strenua propaganda che ne fece il conte Wenzel Gallenberg, dal 1806 ambasciatore viennese a Napoli.  Evidentemente, se anche il prestigio riconosciuto alla (Bergamo, 16-18 novembre), a cura di F. Bellotto, Bergamo, Comune di Bergamo. Cfr. Friedrich Lippmann, Un’opera per onorare le vittime della repressione borbonica del 1799 e per glorificare Napoleone: «I Pittagorici» di Vincenzo Monti e Giovanni Paisiello, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di L. Bianconi e R. Bossa. Cfr. Anche Franco Piperno, Teatro di stato e teatro di città. Funzioni, gestioni e drammaturgia musicale del San Carlo dalle origini all’impresariato Barbaja, in Il teatro di San Carlo a cura di C. Marinelli Roscioni, Napoli, Guida, Sulle opere serie di questi anni Sabine Henze-Döring, Das Melodramma serio am Teatro San Carlo unter napoleonischer Herrschaft (1808-1815), in Napoli e il teatro musicale in Europa tra Sette e Ottocento. Studi in onore di Friedrich Lippmann, a cura di B. M. Antolini e W. Witzenmann, Firenze, Olschki.  Giovanni Carli Ballola, Presenza ed influssi dell’opera francese nella civiltà melodrammatica della Napoli murattiana: il ‘caso’ Manfroce, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo cit., parla di sostanziale estraneità della maggioranza del pubblico e dei musicisti di medio livello operanti in quegl’anni a Napoli alla ventata di cultura e di gusto francese che percorre la Napoli di re Giuseppe e di re Gioacchino. Sulla questione cfr. anche Friedrich Lippmann, Mozart-Aufführungen des frühen Ottocento in Neapel, «Analecta musicologica», VII, Köln-Wien, Böhlau, Cfr. Tobia R. Toscano, Il rimpianto del primato perduto: dalla rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat cit., Su queste vicende cfr. Emanuele Senici, «La Clemenza di Tito» di Mozart. I primi trent’anni (1791-1821), Amsterdam, Brepols, oltre a Tobia R. Toscano, Il rimpianto del primato perduto: dalla rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat cit., e a Paologiovanni Majone, 1809: «Mozzart» al Teatro San Carlo, in Il Teatro del Re. Il San Carlo da Napoli all’Europa, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. La clemenza di Tito fu la sua prima opera rappresentata a Napoli, seguita poi dalle tre opere su libretto di Da Ponte allestite al Fondo tra il 1812 e il 1815. Cfr. Friedrich Lippmann, Mozart-Aufführungen des fruhen Ottocento in Neapel cit. oltre a Bruno Cagli, Al gran sole di Rossini, in Il Teatro di San Carlo, 1737-1897 -- musica di Mozart autorizzava il sovrano ad imporlo al San Carlo, non era però sufficiente a garantire il successo dell’opera dal punto di vista commerciale. Come osserva Franco Piperno, in questi anni teatro e città operano su piani divergenti: solo la direzione o di Barbaja a poco a poco darà loro sintesi L’Ecuba di Manfroce (1812), su libretto che Schmidt tradusse da un originale di Jean-Baptiste Gabriel Marie de Milcent, è il caso più eclatante d’adozione del modello tragico francese nella tradizione italiana35. All’operazione fu riconosciuto il pregio di non pretendere che «note composte su versi francesi dovessero conservare il loro effetto originale» anche sui versi tradotti, come commentava una critica mossa all’Edippo a Colono di Sacchini36.  Il successo dell’Ecuba dovette spingere i dirigenti del teatro a cercare opere nuove composte sul modello francese più che nuove traduzioni di vere opere francesi.  È difficile spiegarsi altrimenti perché proprio a ridosso del successo dell’Ecuba i dirigenti del San Carlo decidessero di rivolgersi a Luigi Cherubini, autore ormai pienamente integrato nella tradizione parigina, non per importare uno dei suoi capolavori d’oltralpe, ma per comporre un’opera nuova in italiano.  Il progetto non andò in porto; ci resta però una lettera eloquente inviata dal Duca di Nola a Cherubini il 6 febbraio 1813: Vi rendo infinite grazie per le gradite espressioni, che mi fate nella vostra lettera … riguardo alla vostra venuta in Napoli, per comporre un’opera nel Real Teatro di S. Carlo.  Il conte Gallembergh, che io ho pregato per trattare il vostro affare, avrà cura d’istruirvi di quanto sarà per combinarsi coll’impresario su tal riguardo, tanto per l’epoca in cui dovrebbe trovarsi in Napoli, che per lo compenso de’ vostri impagabili lavori. Una lettera di Mons. Capecelatro al Duca di Noja (3 aprile 1809) conferma che Murat si era speso in prima persona a sostegno della rappresentazione. Avendo messo sotto gli occhi di S. M. un rapporto relativo alle opere ed a’ Balli che deggiono rappresentarsi nel Real Teatro di S. Carlo, S. M. ha approvato che dopo all’attuale rappresentazione vada in iscena La Clemenza di Tito, Dramma di Metastasio, Musica di Mozart. (ASN, Teatri, fascio 35).  Capecelatro era ministro dell’Interno e sponsor politico di Gabriele Rossetti, poeta del San Carlo in quell’anno e fermo sostenitore di una poetica rigorosa e filometastasiana. Su tutto ciò cfr. Franco Piperno, Teatro di stato e teatro di città cit., oltre a Tobia R. Toscano, Il rimpianto del primato perduto: dalla rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat.  Elvidio Surian, Organizzazione, gestione, politica, teatrale e repertori operistici a Napoli e in Italia, 1800-1820, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di Bianconi e Bossa, ma anche Giovanni Carli Ballola, Presenza ed influssi dell’opera francese nella civiltà melodrammatica della Napoli murattiana: il ‘caso’ Manfroce cit. La citazione è tratta dal «Corriere di Napoli», 5 maggio 1808.  

Il sostanziale insuccesso dell’opera dovette di Salieri essere responsabile della temporanea sospensione di traduzioni francesi in terra napoletana.  Per oltre tre anni non furono ospitate altre opere francesi.  Ne fece le spese perfino Paisiello, quando nel 1809 il progetto di allestire la sua Proserpine venne abbandonato a libretto già tradotto e approvato dalla censura. ASN Teatri fascio 4, citato da Tobia R. Toscano, Il rimpianto del primato perduto: dalla rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat cit., nota 330. È in questa situazione che Mayr viene invitato a scrivere un’opera nuova per il San Carlo, un’opera che fosse alla francese (NOTA 38) ma non francese.  Non è escluso che Mayr sia stato invitato una volta naufragata l’ipotesi Cherubini: in fondo era il compositore italiano che più aveva lavorato su libretti di origine francese e cherubiniana.  Non abbiamo documentazioni al riguardo, ma i tempi abituali delle commissioni degli impresari ai compositori coincidono abbastanza. Se le richieste di nuove opere per la stagione invernale dovevano pervenire nella primavera precedente, è probabile che l’incarico per un’opera nuova al San Carlo fosse giunto a Mayr quand’era ormai tramontata l’ipotesi Cherubini. Come che sia, Mayr si dà da fare per individuare librettista e soggetto.  In deroga alla tradizione napoletana, comune peraltro ad altri teatri41, sceglie un poeta fuori piazza: chiama Felice Romani, letterato cui aveva già chiesto di aggiustare il libretto per La rosa bianca e la rosa rossa dell’anno precedente. Romani, alla sua prima esperienza come autore di libretto integralmente nuovo, è ospitato dal compositore a Bergamo, come probabilmente era accaduto anche per il riassestamento del testo precedente. La scelta del soggetto cade sul mito di GIASONE  e Medea, tema abbastanza classico da aspirare alle forme del teatro tragico, abbastanza sublime da recepire le poetiche del terribile in circolazione teatro musicale di fine Sette e inizio Ottocento.  

Tanto Giovanni Felice Romani quanto Mayr potevano aver avuto esperienza del recente trattamento operistico del mito di Giasone e Media. 

Sappiamo infatti che, per la prima di Ercole in Lidia, Cfr. J.  Commons, Medea in Corinto, in Beiträge des 1. Internationalen Simon-Mayr-Symposions Ingolstadt, Donaukurier,  ma soprattutto Ludwig Schiedermair, Beiträge zur Geschichte der Oper … Simon Mayr, Leipzig.  Cfr. Giovanni Carli Ballola, Le escursioni di Elisa, in I vicini di Mozart I: Il teatro musicale tra Sette e Ottocento a cura di D. Bryant e M. T. Muraro, Firenze, Olschki, secondo il quale con Lodoiska (libretto di Gonella, Venezia, Fenice, 1797), Le due giornate (libretto di Foppa, Milano, Scala 1801), L’amor coniugale (Rossi, Padova, 1805), Elisa (Rossi, Venezia, S. Benedetto, 1804).

Mayr si propone come il più prolifico importatore di soggetti melodrammatici  sul mercato italiano.

Lodoïska è tratta in realtà dall’opera di Kreutzer, ma Jacques Joly, I polacchi in Italia, in Id. Dagli elisi all’inferno, Fiesole, Nuova Italia, dimostra come, sebbene il soggetto gli fosse giunto attraverso la mediazione del teatro arciducale di Monza (dunque nella versione di Giuseppe Carpani).

Mayr riveli una buona conoscenza anche dell’opera cherubiniana.  

Sulle due versioni di Lodoiska di Mayr (Venezia 1796 e Milano 1799) interviene anche con utili osservazioni Scott L. Balthazar in Mayr, Rossini, and the Development of the Early Concertato, «Proceedings of the Royal Musical Association». J. Rosselli, L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale italiano dell’Ottocento, Torino, EdT, Il sistema produttivo, 1780-1880, in Storia dell’opera italiana cit., IV: Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino, EdT, Bruno Cagli, Al gran sole di Rossini Per quanto riguarda la collaborazione tra Mayr e Romani a La rosa bianca e la rosa rossa.

Cfr. John Stewart Allitt, Giovanni Simone Mayr: vita, opere, pensiero, Villa di Serio, Edizioni Villadiseriane.

Sulla permanenza di Romani a Bergamo in occasione della stesura del libretto di Medea in Corinto, cfr. Ludwig Schiedermair, Ein neapolitanischer Brief Simon Mayr’s aus dem Jahre 1813, in «Zeitschrift der Internationalen Musik-Gesellschaft» VII, ripreso poi da Philip Gossett, Medea in Corinto… a facsimile edition of a printed piano-vocal score, New York, Garland, 1986 e da Alessandro Roccatagliati, "Romani alla scuola di Mayr: intese drammaturgiche di primo Ottocento", in Giovanni Simone Mayr: l’opera teatrale e la musica sacra.

All’intera questione delle fonti letterarie di Romani è dedicato il  terzo. Mayr fu a Vienna nel 1803 quando vi venne allestito il “GIASONE  e Medea” di Cherubini; siamo anche informati di un viaggio di Romani a Parigi tra il 1810 e il 1812, quando François-Benoît Hoffman, librettista del GIASONE  E MEDEA di Cherubini, era esponente di spicco della vita musicale e letteraria francese, sia come drammaturgo sia come critico teatrale e musicale. Libretto e partitura sono composti nel corso dell’estate, così che a settembre Mayr può recarsi a Napoli con la partitura quasi completa per sottoporla a Barbaja e al sovrintendente dei teatri napoletani. La censura approvò il libretto di “GIASONE  E MEDEA IN CORINTO” con note del 3 e del 6 novembre 1813.

Da una lettera di Mayr alla moglie del 10 settembre sappiamo, però, che partitura e libretto non furono accettati senza riserve: per rendere più francese l’opera, Mayr dovette correggere diverse pagine e far ritoccare il libretto da un poeta locale.  Rientrato mi misi a copiare il libro, poiché dovrà essere presentato questa mattina al soprindente duca di Noja e lavorai fin a mezzanotte, anzi avrei continuato di copiare se no m’avesse mancata la carta.  Alle sette m’alzai, benché stentassi assai prendere sonno e continuai il mio lavoro sino al momento che non scrissi quelle due righe pregandovi anche di accennare al Sig. Romani alcune cosarelle indispensabili. Ho frattanto letto il libro alla Commissione teatrale, la quale ne si mostrò molto contenta . Così sia anche per la soprintendenza, e che presto io mi possa mettere al travaglio, che è piuttosto forte, volendosi ora dal governo che tutti i recitativi siano stromentati ad uso in Francia di cui si ama imitare tutto.  Finalmente dopo essere stato più volte dal duca, che mi faceva veramente venire la Noja, ho potuto leggergli, oggi alle 6 di sera, il libbro.  Mille reclami per la lunghezza de’ recitativi, per il troppo numero delle scene, volendo pretendere che l’azione succeda in una sola scena, due al più.  Finalmente si ottiene l’approvazione, mediante la promessa di fare gli abbreviamenti.  Convienmi dunque cercare un poeta qui che mi aggiusta le cose desiderate dalla soprintendenza, non potendole ottenere per causa della lontananza dal Sig. Romani, cosa che mi spiace infinitamente. Però la sua poesia venne lodata moltissimo. Mario Rinaldi, Felice Romani. Dal melodramma classico al melodramma romantico, Roma, Edizioni de Santis, Hoffman iniziò le collaborazioni al «Journal de l’Empire» proprio nel 1810 per proseguire poi l’attività di critico col "Journal des débats". «Ministero dell’interno, 2. Divisione.

Le respingo con la mia approvazione la commedia in musica da rappresentarsi nel Real Teatro di S. Carlo e che porta per titolo Medea in Corinto. Il Ministro dell’interno, al Signor soprintendente de’ Teatri. Sig. Soprintendente, avendomi l’Accademico Revisore assicurato che il componimento tragico per musica intitolato “GIASONE  e Medea in Corinto” che l’impresario de’ Regi Teatri desidera far rappresentare in quello di S. Carlo, nulla contiene di contrario alla decenza e al buon costume, ve lo respingo perché serviate dare le disposizioni di risulta.  Potrebbe essere Giovanni Schmidt, solo l’anno prima confermato poeta stabile dei teatri reali di Napoli ma non ancora abbastanza celebre da essere individuato da Mayr come poeta di rilievo.  Sulle vicende di Schmidt presso i teatri napoletani, cfr. Marco Spada, Giovanni Schmidt: biografia di un fantasma, in Gioachino Rossini. Il testo e la scena, 1792-1992. Atti del Convegno internazionale di studi, Pesaro, , a cura di P. Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini. La lettera (I-BGc, Salone N. 9.2/109) è edita, in tedesco, da Ludwig Schiedermair, Ein neapolitanischer Brief Simon Mayr’s aus dem Jahre 1813 cit. e citata parzialmente da A. Roccatagliati, Il giovane Romani alla scuola di Mayr: intese drammaturgiche di primo Ottocento cit., Sulla soddisfazione della corte napoletana per il libretto di Romani abbiamo anche una breve notizia riportata dalla «Gazzetta di Genova» il 22 dicembre 1813, secondo cui il duca di Noja dichiarava a Mayr. Non trascuro di lodare il giovane autore del libro, a cui pure vi prego di far pervenire gli attestati della sovrana soddisfazione. Fatichiamo a individuare l’entità di queste modifiche perché, come spesso accade, non abbiamo scartafacci o appunti preparatorii.  Il raffronto tra il testo sottoposto alle partiture e il testo del libretto non evidenzia che lievi divergenze, limitate a qualche parola, spesso dovuta a chiari errori di copiatura. Più significativo, sebbene non risolutivo, è l’esame delle carte conservate nell’archivio Mayr di Bergamo, dove si trovano diversi fogli sciolti con recitativi non compresi nelle partiture complete e nei libretti.  Tali recitativi indicano chiaramente i numeri, perduti, prima o dopo i quali erano collocati. Vennero così soppressi probabilmente due duetti e un terzetto. I tre numeri furono sostituiti da uno unico, collocato dopo l’aria di Egeo del prim’atto e costituito da un collage dei versi originari.  Scritto forse dal poeta napoletano a cui allude Mayr nella lettera citata, questo numero comprende un terzetto tra Medea, GIASONE  e Creonte, che s’apre in quartetto al sopraggiungere d’Egeo. La struttura di terzetto e quartetto incastonati l’uno nell’altro confermerebbe una derivazione napoletana. Romani non la usa mai, infatti, nel suo libretto, mentre almeno dal Pirro di Paisiello era praticata a Napoli.  Neanche questo numero, tuttavia, fu poi eseguito, o per l’eccessiva lunghezza dello spettacolo o perché Mayr non fece a tempo a musicarlo. In ogni caso venne stampato nel libretto originario del 1813 (cfr. edizione del libretto, alle scene I,12-16).  Lo schema definitvo del libretto che gli spettatori napoletani ebbero tra le mani nel giorno della prima è esposto.

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NUMERO 1. INTRODUZIONE.

ATTO I. SCENA 1  

PRINCIPESSA CREUSA, damigelle.

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a) «Perché temi? A te l’amante», ottonari.
b) «Se mio si serba», quinari.

Le damigelle confortano le pene d’amore della PRINCIPESSA CREUSA, preoccupata per la sorte di GIASONE  impegnato in battaglia contro Acasto. Tutti questi recitativi sono accompagnati dal solo basso continuo e la parte di GIASONE , quando compare, è scritta in chiave di soprano. Evidentemente sono i primi composti da Mayr, quando ancora pensava di affidare il ruolo Giasone ad un musico. Ci restano tre libretti di queste primi allestimenti napoletani: “Medea in Corinto” Melodramma tragico di Giuseppe Felice Romani, rappresentato per la prima volta in Napoli nel Real Teatro di S. Carlo nell’autunno del 1813. Sit Medea ferox. Horat. Napoli, nella tipografia al Largo del Castello, n. 20. Prezzo fisso, grana 10. argento.  “Medea in Corinto: Melodramma tragico di Giuseppe Felice Romani, Rappresentato per la prima volta in Napoli nel Real Teatro di S. Carlo nell’autunno del 1813.Sit Medea ferox.Horat.Napoli,nella tipografia al Largo del Castello, n. 20. La copia è identica alla rpecedente, salvo la mancata indicazione del prezzo sul frontespizio: una copia di questa tiratura si trova presso la biblioteca dell’Istituto Storico Germanico di Roma, Rari . Libr. Op. 19. Jh – 255.)  “Medea in Corinto Melodramma tragico di Felice Romani Rappresentato la prima volta in Napoli nel Real Teatro di S. Carlo nell’estate del 1814.Sit Medea forex. Horat.terza edizioneNapoli,nella tipografia, dentro il monistero di S. M. degli Angeli a Pizzofalcone,Prezzo grana 10. (D’ora in avanti NA14.). I,2. PRINCIPESSA CREUSA, Damigelle, Creonte, Evandro, corinzi

c) «Principessa, a te corriamo», ottonari

d) «Ah, splenda propizio», senari «Cede Acasto, o PRINCIPESSA CREUSA, invan chiedeva», sciolti Annunciano a PRINCIPESSA CREUSA l’arrivo di GIASONE , vittorioso su Acasto.

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NUMERO 2:

MARCIA,
CORO E CAVATINA
DI GIASONE

"Fosti grande" – “Di gloria all’invito”

ATTO I,
SCENA 3
PRINCIPESSA CREUSA, damigelle, Creonte, Evandro, corinzi, GIASONE , guerrieri, Tideo

 a) «Fosti grande allor che apristi», ottonari.

b) «Di gloria all’invito», senari «Ogni periglio alfine», sciolti. Marcia di trionfo. Poi conferma del patto di nozze, con timori per le pretese di Egeo. I,4 GIASONE , Tideo  «Amico, la mia sorte», sciolti.

GIASONE mette al corrente Tideo, l’amico perplesso, della sua separazione dalla sua sposa Medea.

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NUMERO 3:

SCENA E CAVATINA DI MEDEA.

“Come? S’en riede e il passo"/"Sommi Dei”

ATTO I,
SCENA 5

Medea «Come? S’en riede e il passo», sciolti, Medea attende GIASONE .. I,6 Medea, corinzi

«Pria che si celi il sole», settenari.

Il coro informa Medea della sentenza d’esilio.

I,7 Medea, «Son sola. A chi mi volgo?», sciolti,

a) «Sommi dei, che i giuramenti», ottonari,

b) «Te solo invoco», quinari, Medea impreca contro i numi, e invoca Amore.

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NUMERO 4:

SCENA E DUETTO DI GIASONE  E MEDEA,  

"Sventurata Medea"/ Cedi al destin, Medea”.

ATTO I,

SCENA 8 Ismene, GIASONE   «Sventurata Medea! Quale di lutto», sciolti.

GIASONE chiede notizie sullo stato di Medea.

I,9 GIASONE,

Medea, “Fuggir mi vuoi, barbaro?” A me soltanto, sciolti,

a) «Cedi al destin, Medea», settenari,

b) «Mira, oh Dio, Medea di prega», ottonari.

Medea cerca di convincere GIASONE a lasciare PRINCIPESSA CREUSA.

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NUMERO 5:

ARIA DI EGEO,

Alfin io vi riveggo”/”Io ti lasciai piangendo”.

ATTO I,
SCENA 10
Egeo «Alfin io vi riveggo», sciolti

a) «Io ti lasciai piangendo», settenari.

Egeo arriva a Corinto.

ATTO I
SCENA 11

Egeo, Tideo «M’inganno, oh cielo, Egeo», sciolti.

Tideo, imbarazzato, lo informa delle prossime nozze tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA.



SCENA, TRIO E QUARTETTO, Principe tutto è pronto Altre catene un Dio (numero soppresso, ma pubblicato, virgolettato, nella prima edizione del libretto. "I, 12 GIASONE , Creonte. «Principe, tutto è pronto. In pochi istanti», sciolti Confermano il patto di nozze.

Creonte chiede notizie di Medea. "I,13 Creonte, GIASONE , Medea «Donna, in Corinto ancora», sciolti a) «Altre catene un Dio», settenari  (la seconda rima in f è detta da Egeo che sopraggiunge). Medea chiede un giorno ancora prima di dover partire. "I,14 Creonte,. GIASONE , Medea, Egeo «T’arresta”– (Egeo!)” Riposa in me»” settenari,

b) «Qui GIASONE  a quell’aspetto», ottonari,

c) «Non rispondi? Or via mi rendi», ottonari. Egeo avanza pretese su PRINCIPESSA CREUSA, e difende Medea. Al partire di Creonte e GIASONE , Medea ed Egeo stabiliscono un patto d’alleanza.

Le terminazioni sdrucciole sono qui trattate come rime normali anche qualora non siano omofone, perché questa ritengo essere la loro funzione strutturale. Per verificare l’incidenza ritmica di tali terminazioni nei diversi numeri, le ho segnalate con una ‘s’ in apice. d) «Vieni meco, infelice mi segui», decasillabi "I,15 Tideo, Ismene «Signor, che mi dicesti», sciolti Tideo informa Ismene dell’arrivo di Egeo con armati. "I,16 Ismene, Tideo, Evandro «Corri, signor. Festosa», sciolti Evandro esorta Tideo ad accorrere alla cerimonia nuziale.

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NUMERO 6:

FINALE PRIMO.

Hinno nuziale: “Dolce figliuol d’Urania”

ATTO I
SCENA 17

Sacerdoti, donzelle

a) «Dolce figliuol d’Urania», settenari

Coro introduttivo al finale.

Si celebrano le nozze.

ATTO I
SCENA 18

Sacerdoti, donzelle, PRINCIPESSA CREUSA, Creonte, GIASONE , Medea, Egeo

b) «Cara Figlia, prence amato» (ottonari)

d) «Al rito infame o perfidi», settenari

e) «Mira, infido in quale stato», ottonari

f) «Dunque ricusi e vuoi», settenari

g) «Conducete alle navi costei», decasillabi.

Medea ed Egeo interrompono le nozze e rapiscono PRINCIPESSA CREUSA.

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NUMERO 7: CORO, Amiche cingete

ATTO II
SCENA 1 Corinzi, donzelle

a) «Amiche cingete», senari. Festeggiano il pericolo scampato.

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NUMERO 8:

ARIA DI PRINCIPESSA CREUSA,

Caro albergo” (DVD2/1).  

ATTO II
SCENA 2

Corinzi, donzelle, PRINCIPESSA CREUSA.

b) «Caro albergo in cui felice» (DVD2/1) ottonari, c) «Ma sola io riedo», quinari

d) «Ah! Se amore provaste mai», ottonari.

PRINCIPESSA CREUSA è ancora in ansia perché GIASONE non è ancora rientrato dopo la battaglia con Egeo.

Le donzelle la confortano. I

ATTO II,3 Corinzi, donzelle, PRINCIPESSA CREUSA, Creonte, Evandro.

«Eccoti o figlia! A lari tuoi deponi», sciolti.

Creonte ordina di imprigionare Egeo e di comminare a Medea il castigo che sceglierà GIASONE .


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NUMERO 9:

SCENA E ARIA DI MEDEA,

Dove mi guidi” (Ismene). “Già vi sento, si scuote la terra”

ATTO II,
SCENA 4
Medea, Ismene «Dove mi guidi? E quale» (Ismene) sciolti.

Medea prepara il sortilegio.

ATTO II
SCENA 5 Medea, coro sotterraneo di furie

a) «Antica notte, Tartaro profondo», endecasillabi

c) «Già vi sento: si scuote la terra», decasillabi,

d) «Questa spoglia vi consegno», ottonari

e) «Del tosco spargetela», senari. Sortilegio.

ATTO II
SCENA 6

Creonte, Tideo «Amico, a te soltanto obbligo io porto», sciolti.

Creonte ringrazia Tideo dell’aiuto prestato in occasione del rapimento di PRINCIPESSA CREUSA.

ATTO II,
SCENA 7
Creonte, Tideo, PRINCIPESSA CREUSA

«Padre per pochi istanti», sciolti.

La PRINCIPESSA CREUSA chiede al padre di rendere a Medea i figli per l’ultimo saluto, in cambio della veste gemmata.

ATTO II
SCENA 8
PRINCIPESSA CREUSA «Sembra che alfin secondi», sciolti

Attende GIASONE  e commenta la rassegnazione di Medea.

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NUMERO 10:

SCENA E DUETTO PRINCIPESSA CREUSA E GIASONE

Meco divide”/”Non palpitar mia vita” (the best cantabile)

ATTO II
SCENA 9

PRINCIPESSA CREUSA, GIASONE  

«Meco divide il piacer che m’inonda», sciolti,

a) «Non palpitar, mia vita», settenari.

Giasone e Creusa sono sereni per le nozze ormai imminenti.

b) «Ah! Si caro e dolce accento», ottonari.

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NUMERO 11:

SCENA E SECONDA ARIA DI EGEO,

Avverse, inique stelle”/”I dolci contenti”. I

ATTO I
SCENA 10.

Egeo solo, in carcere, «Avverse, inique stelle», sciolti, «I dolci contenti», senari.
Aria di sconforto.

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NUMERO 12:

SCENA E DUETTO DI MEDEA ED EGEO,
"Ma qual fioco rumor" – "Se ’l sangue, la vita".

ATTO II,
SCENA 11

Egeo, Medea «Ma qual fioco rumor? … Pallida luce», sciolti

a) «Se ’l sangue, la vita», senari

b) «Ah! Sì non trionfi», settenari.

Medea libera Egeo in cambio dell’ospitalità in Atene.

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NUMERO 13: S

CENA E ARIA DI GIASONE,

Grazie, numi d’amore”, “Amor per te penai”.  

ATTO II
SCENA 12

GIASONE  «Grazie, numi d’amore. È alfin compito», sciolti

a) «Amor per te penai», settenari,

Aria di serenità riconquistata.

II,13 GIASONE , coro

b) «Accorrete, oh tradimento», ottonari

c) «O noi sventurate», senari

d) «Dove sono? Chi mi desta?», ottonari e

) «Lasciatemi, o barbari», senari …

Interrotta però dalla notizia della morte di PRINCIPESSA CREUSA. II,14 Evandro, Tideo «Ebbene, Evandro? Ah, più non è …Creonte», Sciolti

Commentano la morte di PRINCIPESSA CREUSA.

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NUMERO 14:

SCENA E SECONDA ARIA DI MEDEA,

Ismene, o cara Ismene/Ah! che tento?”. II,15 Medea, Ismene, figli, voci da dentro. «Ismene, o cara Ismene», sciolti

a) «Ah! Che tento?, o figli miei!», ottonari,

b) «Miseri pargoletti», settenari,

d) «Degg’io svenarli?», senari.

Medea prega Ismene di fuggire da lei con i figli.

Poi in un nuovo accesso di furore li afferra ed entra con loro.

II,16 Ismene sola. «Quale orror mi comprende! Appena io posso», Sciolti.

Ismene ommenta con orrore le intenzioni di Medea.

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NUMERO 15: FINALE SECONDO,

Era tua sposa. II,17 GIASONE  con seguito, Creonte con seguito. a) «Era tua sposa. Ah, trucida», settenari Cercano Medea. II,18 GIASONE , Creonte

b) «Ah signor, qual mai ti trovo», ottonari, Si confortano a vicenda. II,19 Coro, GIASONE , Creonte, Tideo, Evandro «Gran periglio vi minaccia», ottonari, Annunciano l’arrivo di Egeo in difesa di Medea. II,20 Coro, GIASONE , Creonte, Tideo, Evandro, Egeo, Medea

c) Egeo, «Dov’è Medea? Guardatevi», settenari,

d) Medea, «Resta. Asilo ti nieghi la terra», decasillabi

e) Medea, «Mira, non hai consorte», settenari, Annuncia l’infanticidio e fugge.

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Più difficile è definire l’entità degli interventi sulla partitura, oltre all’orchestrazione dei recitativi e alla ridefinizione del ruolo di GIASONE  da musico a tenore. Probabilmente si cercò di rendere più compatto lo spettacolo con l’introduzione di didascalie «attacca subito» a collegamento dei singoli numeri per imitare la continuità formale delle opere francesi. In questa forma “GIASONE E MEDEA IN CORINTO” andò in scena il 28 novembre 1813, diretta da Giuseppe Festa a capo di una orchestra che contava 30 violini, 8 viole, 8 violoncelli e 12 contrabbassi (NOTA 53). Il cast era quello stabilmente scritturato da Barbaja per le stagioni del San Carlo.

Il medesimo sarebbe stato confermato nella stagione successiva per la ripresa del settembre 1814: Creonte, re di Corinto – Benedetti NOTA 54; Egeo, re d’Atene Garcia NOTA 55, al servizio di S. M. il Re delle due Sicilie; Medea, moglie di GIASONE , Colbran NOTA 56, prima virtuosa della Real Camera e Cappella Palatina di S. M. il Re delle due Sicilie; GIASONE , tenore, Nozzari NOTA 57; PRINCIPESSA CREUSA, figlia di Creonte,  Pontiggia; Evandro, confidente di Creonte, Ferrari NOTA 58; Ismene, confidente di Medea, Garcia NOTA 59; Tideo, amico di GIASONE , Chizzola NOTA 60; due figli di GIASONE  e di Medea; Corinti; Damigelle; Sacerdoti; Seguaci d’Egeo. “GIASONE E MEDEA IN CORINTO” prevedeva tre arie con coro per Medea (Colbran), due ampie introduzioni per Pontiggia, due arie con coro per GIASONE (Nozzari), e due, senza coro, per García. Tre duetti (Colbran/Nozzari, Pontiggia/Nozzari, Colbran/García) e due ampi finali costituivano I numeri d’assieme.  Ludwig Schiedermair, Ein neapolitanischer Brief Simon Mayr’s aus dem Jahre 1813 cit., e Philip Gossett, Medea in Corinto cit. Su Medea in Corinto si può consultare anche Charles S. Brauner, Vincenzo Bellini and the Aesthetics of Opera Seria in the First Third of the Nineteenth Century, Yale (Ann Arbor) Al riguardo cfr. Gioachino Rossini. Lettere e documenti, a cura di B. Cagli e S. Ragni, Pesaro, Fondazione Rossini, che cita Fétis, ma anche Renato Meucci, La trasformazione dell’orchestra in Italia al tempo di Rossini, in Gioachino Rossini. Il testo e la scena, 1792-1992, atti del Convegno internazionale di studi, Pesaro, 25-28 giugno 1992, a cura di P. Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini. Michele Benedetti, Loreto 1778 - Napoli seconda metà XIX secolo, è scritturato nel 1810 per due anni; dopo il successo riscontrato nella Vestale è confermato per altri due. Vi resterà comunque oltre 25 anni, nei quali crea tra gli altri il ruolo eponimo nel Mosé in Egitto di Rossini. Manuel del Pópulo Vicente García, Siviglia 1775 - Parigi 1832. Debutta a Parigi nella Griselda di Paër; si reca a Napoli dal 1811 dove resta fino al 1816, quando rientra a Parigi. Isabella Angela Colbran, Madrid 785 - Castenaso, Bologna 1845.  Esordì a Parigi nel 1801, ma giunse al successo a La Scala nel 1808 nel Coriolano di Niccolini.  Al San Carlo debuttò nella Vestale del 1811; vi lavorò fino al 1822 (Zelmira) quando sposò Rossini. Andrea Nozzari, Bergamo 1775 - Napoli (missing line) Parigi, Torino, Venezia, si stabilisce a Napoli dal 1812 dove lavora al San Carlo fino al 1825. Successivamente si dedicherà all’insegnamento. Raffaele Ferrari, comprimario ai Reali Teatri di Napoli tra il 1809 e il 1816. Joaquina Sitchès (Briones), in Italia Gioacchina García, moglie di Manuel (1778/80-1864). Gioacchina cantava col marito ruoli da comprimaria. Gaetano Chizzola attivissimo tra il 1810 e il 1831 come cantante stabile del San Carlo. Creò diverse parti rossiniane tra cui Guglielmo in Elisabetta, Doge in Otello, Mambre in Mosé in Egitto, Selimo in Maometto II, Eacide in Zelmira, Eustazio e Astarotte in Armide. Resta da osservare che la ridefinizione della voce di GIASONE , da musico a tenore, fece cadere gli unici due duetti per voci acute, luogo topico dell’opera italiana d’inizio Ottocento. A Napoli, d’altronde, s’era instaurata una tradizione unica in Italia con compagnie prive di castrati ma dotate di due tenori d’alto livello.  

Nel 1815, poi, si decise, probabilmente dalla Colbran, di tagliare la cavatina di Medea del primo atto ‘Sommi dèi'. La decisione ebbe serie ripercussioni, perché tutte le partiture copiate a Napoli e da lì diffuse altrove effettuarono questo taglio e fecero sì che l’opera circolò pressoché sempre senza questa cavatina. Nonostante il precario stato di salute di Isabella Colbran, cui la cantante suppliva col dignitoso portamento della persona e con naturale, analoga gesticolazione, l’opera fu replicata per 33 sere con diversi balli fra gl’atti63.  Il numero di repliche, il più alto in quegl’anni, e le critiche sembrano testimoniare un buon successo; sappiamo però che per un’opera imposta dalla corte questi non sono dati incontrovertibili.  Nonostante la lunga permanenza nel cartellone del San Carlo64 è difficile spiegare perché l’opera non circolò in -- Bruno Cagli, Al gran sol di Rossini. Non ho potuto stabilire con precisione quando fu tagliata questa cavatina: Jeffrey Commons, a p. 38 della sua introduzione all’incisione dell’opera per Opera Rara (ORC 11, 1994), propone il 1815 senza documentarlo.  Philip Gossett, Medea in Corinto cit., sostiene invece che «the Scena is found in the earliest Neapolitan librettos of Medea in Corinto, but the Aria is absent.  It was apparently added subsequently, perhaps at the request of Colbran. Entrambi i libretti degli allestimenti napoletani del 1813 e 1814, tuttavia, riportano regolarmente anche l’aria. 12 dicembre «con ballo analogo», 13 dicembre con La Colonia (Luigi Henry), 16 dicembre «con ballo analogo», 19 dicembre con La Colonia, 20 dicembre «con ballo analogo», 26 dicembre con Lamea (o Les Bayadères, cor. Pietro Hus, musica Wenzel Gallenberg); 6 gennaio 1814 solo il I atto con Lamea, 9 gennaio con Lamea, 16 gennaio con La Danzomania, 27 gennaio con Il Fetonte (Luigi Henry), 29 gennaio solo I atto con Il Fetonte, 24 febbraio solo I atto con La Danzomania; 1 settembre 1814 con Zeffiro (Duport), 4 e 8 settembre con La figlia mal custodita (cor. S. Taglioni, musica Hertel), 11 settembre «con ballo analogo», 12 settembre solo I atto con Il barbiere di Siviglia (beneficiata per M.ma Perraud), 15 settembre con Il barbiere di Siviglia, 6 ottobre con Le nozze di Gamascio, 9 ottobre con La famiglia ingenua, 23 ottobre solo I atto con La famiglia innocente, 25 ottobre solo il I atto con Gli amori di Adone e Venere, o sia La vendetta di Marte (Duport-Gallenberg), 27, 28, 30 ottobre e 1, 10 novembre con Gli amori di Adone e Venere (il 10 «con illuminazione pagata»), 17 novembre con La figlia mal custodita, 22 novembre con Le nozze di Gamascio, 22 dicembre con Zoraima e Zulinar (Hus-Gallenberg); 12 gennaio 1815 con «gran ballo» Gli amori di Adone e Venere; 14 gennaio 1815 con La figlia mal custodita, 28 gennaio Il barbiere di Siviglia (S. Taglioni), 1 febbraio e 9 febbraio con Pandora (Henry-Gallenberg), 10, 12, 14, 26, 28 febbraio solo il I atto con Pandora, 5 e 9 marzo con Ninetta alla corte (Hus), 9 marzo con Ninetta alla corte, 12 marzo solo il I atto con Pandora, 19 marzo solo il I atto con Pandora, 18 aprile con La casa degli spiriti, 4 giugno con La famiglia innocente, 6 giugno con Bacco in Eurepele (Taglioni), 2, 9 luglio solo il I atto con Bacco in Eurepele, 20 luglio con Luca e Lauretta (Taglioni), 24 luglio, 6 e 13 agosto solo il I atto con Bacco in Eurepele. Fonte: ASN, Soprintendenza dei teatri e spettacoli (deputazione dei teatri e spettacoli), FASC. 3 calendario dei teatri di Napoli dal 1813. Cfr. anche F. De Filippis, R. Arnese, Cronache del Teatro di S. Carlo, s.l., Edizioni Politica popolare, 1963. Dopo il 1813 “GIASONE E MEDEA IN CORINTO” entrò stabilmente nel repertorio del San Carlo. Fu infatti nuovamente allestita dal 10 novembre 1814 (36 repliche), dal 24 ottobre 1815 (5 repliche con M. Manzi al posto di Pontiggia e G. Siboni in alternanza a García), dal 30 maggio 1818 (16 repliche, con M. Manzi e C. Botoli in sostituzione di Pontiggia e García).  Dopo la partenza di Isabella Colbran si provò ad allestirla una sola volta, il 4 ottobre 1823. Al proposito i dati sono leggermente discordanti.La cronologia del Teatro (Il teatro di San Carlo, a cura di C. Marinelli Roscioni cit.) indica 4 rappresentazioni con Josephine Fodor-Mainvielle, Girolama Dardanelli, A. Nozzari, Giovanni David, M. Benedetti.  Una recensione dell’ «Armonicon» del marzo 1824 cita però Elisabetta Ferron nel ruolo di Medea. Neaples. Giasone e Medea in Corinto, the masterpiece of Mayr, was lately brought forward on the San Carlo with very  altri teatri italiani fino al 1821, e perché non fu accolta dal teatro milanese durante la gestione di Barbaja, l’impresario che pure l’aveva commissionata.  

L’assenza di “GIASONE e Medea in Corinto” dai teatri italiani colpisce tanto più se confrontata con la circolazione di opere come Clotilde di Carlo Coccia e Gaetano Rossi (Venezia, S. Benedetto 1815), o La rosa bianca e la rosa rossa degli stessi Mayr e Romani che ebbero rispettivamente dieci e sei allestimenti nei principali teatri tra il 1813 e il 1820  Altri dubbi, inoltre, sono alimentati dal rapido resoconto sulla recezione napoletana che poco più di un decennio dopo Alessandro Micheroux fece a Giuditta Pasta: La prima volta che fu rappresentata “GIASONE  E MEDEA IN CORINTO” il successo fu mediocrisimo. La musica sembrava allora troppo forte e severa e la scena dello scongiuro fu giudicata una non plausibile importazione delle grida drammatiche francesi, sulla scena italiana. Dopo un anno fu riprodotta “GIASONE  e Medea” e il successo fu brillante per la D.a del 1° atto il Finale, e la scena ultima.  L’orecchio del pubblico era già più educato al genere forte.  La compagnia era stata sempre ottima.  La Colbran e Garzia nell’apogeo della loro carriera.  GIASONE (Nozzari) già grato al pubblico pieno di vigore. Una mezza buona composizione di soggetti, le forze indebolite della Colbran, la mancanza di Garzia e soprattutto la rivoluzione operata dalla musica di Rossini cagionarono un successo decrescendo, nell’effetto prodotto di “GIASONE E Medea in Corinto”  Non vi parlerò dell’ultimo infelicissimo esito colla Feron, che per farvi rilevare che allora non fu dato che il solo 1° atto, vale a dire l’atto del Finale bello, l’Atto della musica, eppure essa non fece nessunissimo piacere -- considerable success.  The whole strength of the house was brought forward to give effect to his production, which abounds of classical beauty of the first order.  The signora Feron sustained the part of Medea with great energy, and was admirably, supported by Nozzari.  Their powers in the celebrated duet, “Cedi al destin”, were crowned with universal applause.  Medea has just been considerate as one of the most meritorious production of modern music. Il nome della Ferron è anche confermato da Alessandro Micheroux nella lettera inviata a Giuditta Pasta da Parigi il 21 e 22 ottobre 1826 (la lettera è pubblicata in Gioachino Rossini. Lettere e documenti cit., III, ma si trovava già parzialmente edita, senza questa prima parte e con criteri editoriali più approssimativi, in Giuditta Pasta e i suoi tempi. Memorie e lettere raccolte a cura di Maria Ferranti Nob. Giulini, Milano); anche secondo Il teatro di San Carlo, inoltre, essa era stata ingaggiata dal teatro napoletano per quella stagione, assieme alla Fodor.  Elisabetta Ferron, talvolta Feron, soprano inglese «membro onorario della Reale Accademia di Londra», era moglie dell’impresario Joseph Glossop. Ferron esordì alla Scala nel 1820, nel ruolo di Ninetta nella Gazza ladra. «Nello stesso anno cantava in opera di Carafa e Generali.  Nel 1821 Ferron fu scritturata a Senigallia, a Torino per Eduardo e Cristina, e a Venezia con la Pasta e Crivelli, per La conquista di Granata di Niccolini e la prima dell’Arminio di Pavesi. Ferron replicava quest’opera lo stesso anno a Bologna e nel 1823 a Napoli.  

Qui fu tra l’altro impegnata nelle prime di Aristea e Alfredo il grande di Donizetti.  L’anno seguente tornò a Milano per la prima scaligera della Vestale di Spontini.  Nella stagione 1825-1826 fu scritturata al Teatro Carolino di Palermo dove si esibì nella prima siciliana dell’Aureliano in Palmira di Rossini, nel ruolo di Zenobia.  Poco dopo, a Reggio Emilia e Modena, Ferron cantò nel Crociato in Egitto di Meyerbeeer, opera che ben metteva in luce le caratteristiche della sua voce di soprano chiara, estesa e di un’agilità straordinaria, nuovamente alla Scala era Isabella nell’Inganno felice»: Cfr. Rossini. Lettere e documenti cit., I, p. 528. Barbaja, di nuovo direttore dei teatri napoletani dal 1825 al 1834, cumulò anche la direzione dei teatri milanesi tra il 1825 e il 1830.  Nemmeno la ripresa napoletana di Medea in Corinto nel 1826 lo convinse a presentare l’opera a Milano. Cfr. Elvidio Surian, Organizzazione, gestione, politica, teatrale e repertori operistici a Napoli e in Italia, 1800-1820 e Remo Giazotto, Le carte della Scala. Storie di impresari e appaltatori teatrali (1778-1860), Pisa, Akademos. Il confronto tra i dati riportati da Elvidio Surian, Organizzazione, gestione, politica, teatrale e repertori operistici a Napoli e in Italia, 1800-1820 cit. dimostra che, eccettuate opere straordinarie eccezionali come Tancredi (14 allestimenti), Aureliano in Palmira (8) di Rossini e Don Giovanni di Mozart (9), queste furono le più rappresentate tra Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Parma, Roma, Torino e Venezia tra il 1813 e il 1820. A. Micheroux a Giuditta Pasta da Parigi il 21 e 22 ottobre 1826 cit. Conviene allora esaminare meglio le critiche napoletane del tempo senza lasciarsi ingannare dal tono complessivamente elogiativo inevitabile verso un’opera sostenuta dalla corte68 e che senz'altro alla corte francese piacque molto, tanto da offrire a Mayr una «situazione a vita.  

Gli elogi riguardarono solo i cantanti e le scene.  Libretto e musica non andarono invece esenti da appunti. Il dramma di Romani non differisce dagli altri di simil genere, sebbene abbia qualcosa di bene immaginato per la proprietà del personaggio e per suggerire buoni e varii modi musicali all’avveduto maestro.Sul piano drammatico generale le critiche si rivolgono al personaggio del RE Egeo, parassita, introdotto in modo poco verosimile e soprattutto in violazione dell’unità d’azione.

Da simili posizioni classicistiche muovono anche le osservazioni alla partitura di Mayr: piacque la novità – in senso letterale: nessun numero era stato composto con pasticcida altre opere – ma fu rimproverata l’eccessiva strumentazione, la serrata articolazione del dramma senza ampi recitativi tra un numero e l’altro a causa della quale i cantanti si trovano spossati di voce e di forze; il che diminuisce d’assai l’azione e l’effetto del canto, oltre che il lusso dell’istrumentazione negl’intervalli preparatori, e l’eccesso di fragorosa armonia che affoga il canto e la melodia.  Il rimpianto per l’assenza di musici castrati conclude una critica che si scaglia proprio su quegli aspetti di novità dell’opera imposti a Mayr da Barbaja (e, tramite lui, forse dalla corte); quegli elementi, insomma, che tentavano di assimilare la nuova opera alla tradizione d’oltralpe.  Certamente il critico del «Monitore delle due Sicilie» dal quale traggo queste osservazioni riprende qui le contrapposizioni di scuola e tradizioni comuni dell’epoca; ma quando torna sull’argomento una ventina di giorni dopo la prima, inquadra il suo pensiero entro un modello teorico molto esplicito nella sua semplicità. L’opera di Mayr è a tutti gli effetti opera intellettuale, adatta agli intelligenti ma inadeguata a muovere ed agitare il cuore. La dicotomia è chiaramente postulata: Vi sono certamente due specie di musica, una cioè che occupa lo spirito e la mente,  l’altra che muove ed agita il cuore.  La prima sembra regnare nell’opera di Mayr. Analogo fu il tono con cui la critica prese «garbate distanze» dalla Vestale del 1811. Cfr. Tobia R. Toscano, Il rimpianto del primato perduto: dalla rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat. Quanto Medea in Corinto piacque alla corte di Murat è testimoniato dalla letterea di elogi che il Conte Gallenberg inviò a Mayr per conto del sovrano. Parzialmente citata in Calvi, Di Giovanni Simone Mayr cit., l'originale fa parte del fondo recentemente acquisito dalla Fondazione Donizetti (II,21) si trova trascritta nella tesi di laurea di Piera Ravasio, Il primo lotto del Fondo Mandelli della Fondazione Donizetti di Pergamo: Edizione e studio delle Lettere di Giovanni Simmone Mayr (1763-1845), Pavia, relatore prof. Albert Dunning e sta per essere pubblicata nell'edizione delle Lettere di Mayr cuyrata dalla Fondazione Donizetti stessa e dalla Bibliteca civica Mai di Bergamo. Alla densità della scrittura orchestrale, alla continuità dei numeri, all’armonia che soffoca le voci non è riconosciuta piena funzionalità nel mondo espressivo e teatrale italiano, ma neppure è negato valore estetico.  “GIASONE E MEDEA IN CORINTO” ha valore nei confronti di un pubblico intelligente, per quanto poco diffuso, ampio e generalizzato esso sia.

La stima per l’opera, e per il lavoro del compositore, è, insomma, riconosciuta a prescindere dalla funzionalità nel mercato e dalla capacità di muovere emozioni. Questioni analoghe stavano per affermarsi anche nei confronti della musica classica riconosciuta autorevole, sebbene di non facile accesso.  Il prestigio, crescente al diffondersi delle partiture, convinse i responsabili dei teatri di Dresda e Bergamo, prima, Parigi La Scala, poi, infine dell’Accademia Filarmonica romana a proporla al loro pubblico.  Ciascun allestimento era conseguenza della fama acquisita dall’opera al San Carlo, e si rifaceva quindi direttamente a quel modello, pur adattato alle specifiche condizioni esecutive e sceniche: con l’eccezione dell’allestimento scaligero, in qualche modo legato al precedente bergamasco, nessuno di questi teneva conto delle variant apportate nella piazza precedente. Fu solo dopo l’allestimento parigino del 1823, e lo straordinario successo riscontrato in quell’occasione da GIUDITTA PASTA, che s’avviò una coerente tradizione esecutiva. Nelle rappresentazioni degli anni 1820 a Londra, Milano (Carcano), Napoli l’interesse del pubblico e della critica è decisamente rivolto alla recitazione e alla forza drammatica della prima donna.  A quel punto il nome di Mayr passa in secondo piano.  Come accadde negli anni 1950 quando la Medea di Cherubini fu riscoperta dalla Callas e con lei identificata, dopo Parigi 1823 “GIASONE E Medea in Corinto” divenne l’opera di Giuditta Pasta, solo da lei eseguita. Ai destini della cantante legò la sua fortuna.  E sebbene Pasta abbia tentato di utilizzare quest’opera per passare il testimone alla sua allieva prediletta Teresa Parodi, il suo ritiro dalle scene nel 1841 decretò di fatto la fine della recezione di Medea in Corinto. Distinguere tra successo di pubblico e successo di stima può spiegare perché per i primi otto anni “GIASONE E MEDEA IN CORINTO” non circolò; e può spiegare, probabilmente, anche perché sia poi stata inizialmente proposta in teatri che si contendevano i favori del pubblico o di un sovrano in regime di aspra concorrenza.  Il primo allestimento successivo a quello napoletano avvenne in quell’isola di italianità che Francesco Morlacchi difendeva coi denti a Dresda. Sulla diffusione del termine e del concetto di musica classica in Italia, cfr. Luca Aversano ‘Classico’ e ‘classicismo’ tra Sette e Ottocento, in «Il Saggiatore musicale», dall’agguerrita propaganda di Weber a favore di un teatro nazionale tedesco.

Le opere di Rossini avevano dominato le stagioni precedenti al 1821, ma accanto all’imperante repertorio rossiniano Morlacchi aveva deciso di inserire uno spettacolo di prestigio, già circondato da un’aura di classicità, sebbene di un autore ancora ignoto al pubblico cittadino.  Il 3 gennaio 1821 al Königlich Sächsisches Theater, Morlacchi diresse Medea in Corinto: era la prima opera di Mayr che giungeva al teatro sassone. Medea venne allestita in una stagione che avrebbe visto tra l’altro la Leonora e Il principe di Taranto di Paër, e l’Otello di Rossini.

Morlacchi chiese a Mayr di comporre un’aria nuova per la ripresa sassone della sua opera: a giudicare, però, dal libretto che documenta la rappresentazione, quell’aria, se anche fu composta, non venne inclusa nello spettacolo.  Il libretto, in italiano con testo a fronte tedesco, infatti, testimonia la sostanziale identità dello spettacolo allestito a Dresda con quello che andava in scena a Napoli negli anni ’10. Nessun numero è variato; manca solo la cavatina di Medea del prim’atto, probabilmente soppressa già durante le repliche napoletane. Per il resto si riscontrano abbondanti errori di stampa, e leggere semplificazioni alle didascalie dei finali.  Morlacchi, d’altronde, era stato al San Carlo nell’autunno e nell’inverno tra il 1817 e 1818: poteva ben aver avuto occasione di conoscere l’opera di Mayr andata in -- Sull’attività di Morlacchi a Dresda e sulle vicende di quel teatro, cfr. la scarsa bibliografia relativa, riassumibile in Gabriella Ricci Des Ferres-Cancani, Francesco Morlacchi. Un maestro italiano alla corte di Dresda (1784-1841), Firenze, Olschki, 1958; Giovanni Carli Ballola, L’italiano in Dresda, in Francesco Morlacchi e la musica del suo tempo (1784-1841), a cura di B. M. Brumana e G. Ciliberto, Firenze, Olschki, Ute Romberg, 3rd scholarly conference on Dresden opera traditions: The Italian opera in Dresden from Johann Adolf Hasse to Francesco Morlacchi, 3. Wissenschaftliche Konferenz Dresdner Operntraditionen: Die italienische Oper in Dresden von Johann Adolf Hasse bis Francesco Morlacchi. Beiträge zur Musikwissenschaft, Germany, Sulle attività del teatro di Dresda nell’Ottocento cfr. anche Die Dresdner Oper im 19. Jahrhundert, a cura di M. Heinemann e H. John, Laaber, Laaber Verlag, 1995, Oper in Dresden. Festschrift zur Wiedereröffnung der Semperoper, Berlin, Henschelverlag, 1985, Robert Prölss, Geschichte des Hoftheaters zu Dresden. Von seinen Anfägen bis zum Jahre 1862, Dresden, Baensch, 1878 e Oscar Fambach, Das Repertorium des Königlichen Theaters und der italienischen Oper zu Dresden 1814 – 1832: mit e. Vorw u. 4 Reg., Bonn, Bouvier, 1985 Il «Giornaletto ragionato teatrale», avrebbe definite di lì a poco esemplare Medea in Corinto; anche «Il censore dei teatri» del 24 giugno 1829 avrebbe parlato di sforzo forse più eroico del mirabile suo talento quando dalla Colbran e da Nozzari e García Mayr eseguire fece sulle scene di Partenope la classicissima sua Medea». L’intera stagione (settembre-aprile) del teatro italiano di Dresda prevedeva Apollo’s Wettgesang (Sutor, 11 settembre), Der Schiffscapitän (C. Blum, 22 settembre), Otello (Rossini, 4 ottobre), Aline, Königin von Golconda, (Berton, 31 ottobre), Pimmalione (6 novembre), Medea in Corinto (3 gennaio), Je toller, je besser (Méhul, 11 gennaio), Marie von Montalban (Winter, 22 febbraio), Die Wahl (Mayer, 7 marzo), Leonora (Paër, 14 marzo), Le donne curiose (Rastrelli, 4 aprile), I pretendenti delusi (Mosca, 19 maggio): cfr. Robert Prölss, Geschichte des Hoftheaters zu Dresden. Di questa vicenda ci informa Girolamo Calvi, che tuttavia non dichiara la sua fonte: «continuava il Maestro ancora nel 1821 a soddisfare alle moltissime ricerche che gli venivano fatte de’ suoi pezzi musicali, e forse la generosa condiscendenza cagionava questa indiscreta ricerca. Francesco Morlacchi domandava un’apposita aria da introdurre nella Medea, che si voleva rappresentare a Dresda»: Girolamo Calvi, Di Giovanni Simone Mayr. Non sappiamo se quest’aria fu effettivamente composta e comunque nell’archivio Mayr di Bergamo non v’è traccia né dell’aria, né di altra documentazione al riguardo. scena nel maggio del 1817 e procurarsi una delle tante copie della partitura prodotte in quella città dall’editore Merola.

Poche settimane dopo l’allestimento curato da Morlacchi, un altro teatro impegnato in analoghe contese per il primato cittadino inseriva Medea in Corinto nel proprio cartellone come seconda opera della stagione di Carnevale.  Il Teatro della Società era attivo solo dal 1808 in Bergamo alta e tentava di affermare il proprio prestigio contro il Teatro Ricciardi di Bergamo bassa. Le alte ambizioni del nuovo arrivato sono rese manifeste fin dalla 75  Sulle vicende del teatro musicale a Bergamo in questi anni cfr. Ermanno Comuzio, Il teatro Donizetti, Bergamo, Lucchetti, oltre a Walter Barbero, Il Teatro sociale di Bergamo / Le Théatre social de Bergame, Comune di Bergamo / Marie de Bergame, 1977, dedicato ai problem architettonici e di restauro del teatro, e a Vilma Mazzoleni, Il teatro sociale di Bergamo (1818-1850), tesi di laurea, Facoltà di Magistero, Università degli Studi di Padova, relatore Umberto Artioli, aa. 1980-1981. Si può trovare una cronologia cui riferirsi per l’elenco degli spettacoli allestiti in Elia Dolci, Spettacoli lirici nei teatri di Bergamo. Ricciardi, Cerri, Società, Rossi, Givoli: 1784-1894, Bergamo, edizione fuori commercio, copie 10 a spese dell’autore, [1894].  Questo testo è poco reperibile e non esiste altra cronologia del teatro: inserisco quindi in nota l’elenco degli spettacoli fino al 1822.  Le opere furono dirette da Antonio Capuzzi, sostituito dopo la stagione 1817-1818 da Pietro Rovelli. Normalmente il teatro era attivo solo nella stagione di Carnevale. 1808-09: Ippolita regina delle amazzoni di S. Pavesi, Coriolano di G. Niccolini, La Creazione di F. J. Haydn. Cast: Adelaide Malanotti, Rosa Morandi, Annunciata Bernichelli, Teresa Cesari, Domenico Donzelli, Angelo Testori, Antonio Goriggiani, Serafino Gentili, Alessandro Soletti, Pietro Sangiovanni, Nicola de Gracis. Balli: Giuditta di Francia La Donna Selvaggia di Antonio Monticini. 1809-10: chiuso per convenzioni col teatro Ricciardi «che rispettò l’anno prima l’apertura». 1810-1811: Il Convitato di Pietra di W. A. Mozart, I saccenti alla moda di B. Neri, Il ritorno di Serse di N. Zingarelli. Cast: Elisabetta Gafforini, Lucia Verani, Marianna Muraglia, Angela Ranfagna, Ferdinando Marchetti, (missing line) contrastato di Luigi Focosi e La Villanella rapita di Gaetano Gioia. 1811-12: I riti d’Efeso di G. Farinelli, Agatina di S. Pavesi. Cast: Lisetta Zaniboni Pedrotti, Raffaella Zuggiero, Lucia Sorrentino, Pietro Todran, Ercole Fasciotti, Giovanni De Capitani, Marco Remondini. Balli: Ercole ed Ercheoloo di Giovanni Sorrentini, L’ondina di P. Taglioni. 1812-13: L’amor coniugale di J. S. Mayr, I pretendenti delusi di G. Mosca. Cast: Geltrude Gerbini, Rosa Pinotti, Teresa Monti de Cesari, Tommaso Berti, Giuseppe Bencivenga, Giovanni Bottari, Luigi Zamboni, Gaetano Marconi. Balli: Ezzelina di Giovanni Serafini e Le nozze di Figaro di G. Gioia. 1813-1814: Amor non ha ritegno di J. S. Mayr, La roccia di Frauenstein di J. S. Mayr. Cast: Teresa Belloc, Anna Essi Tosi, Marietta Quaranta, Marco Bordogni, Antonio Parlamagni, Clemente Acquisti, Carlo Pizzocaro, Giacomo Gorini. Balli: Apelle e Campasse di Antonio Landini, Accampamento militare di G. Gioia. 1814-15: Agnese di F. Paër, La secchia rapita di F. Celli, Il matrimonio segreto di D. Cimarosa. Cast: Anna Borroni, Giovanna Inson, Annunziata Bernichelli, Lutugard Mibaldi, Francesco de Vecchi, Giuseppe Tavani, Andrea Bartolucci, Luigi Santi, Giuseppe Barbieri. Balli: Enea nel Lazio e Il rinnegato di Giovanni Calzerani. 1815-16: Adelaide di Borgogna di P. Generali, Laodicea di F. Morlacchi. Cast: Carolina Bassi, Giuseppina Bottari, Domenico Ronconi, Giovanni Sirletti, Pietro de Vecchi, Antonio Rampagna, Giovanni Begnis, Michele Cavara. Balli: La straniera e Fedra di A. Monticini. 1816-1817: La contessa di Colle ombroso di P. Generali, L’italiana in Algeri di G. Rossini. Cast: Elisabetta Pinotti, Amalia Vienna, Pietro Angelo Rota, Angelo Manzoni, G. B. Cipriani, Alessandro Soletti, Pietro Sangiovanni, Giuseppe Pontiroli. Balli: Gli amanti e Trionfo d’amore di G. Serafini. 1817-1818: Agnese di F. Paër, La Cenerentola di G. Rossini. Cast: Teresa Belloc, Amalia Vienna, Antonietta Lavini, Giuseppina Bressa, G. B. Cipriani, Pietro Ruggeri, Giovanni Zolesi, Lorenzo Cusani, Antonio Campi, Giuseppe Pieri. Balli: Tristi nozze di E. Landini, Cleopatra in Siria di G. Gioia. 1818-1819: Enrico di Borgogna di G. Donizetti, Corradino di S. Pavesi, Le vane gelosie di G. Paisiello. Cast: Fanny Eckerlin, Adele Catalani, Carolina Sivelli, Antonio Fosconi, Pietro Verni, programmazione dei primi anni che, con i nomi di Haydn e Mozart, presentati in tempi precocissimi rispetto ai principali teatri italiani, sembra più simile al repertorio delle aristocratiche accademie filarmoniche che a quello dei teatri impresariali. L’opposizione dei due teatri rifletteva, certo, le tensioni proprie nel regime di concorrenza, ma anche il forte campanilismo, la gara che esiste tra gli abitanti del borgo e della città alta, mantenuta sempre viva dalla situazione topografica del Comune.  

In un primo tempo i due teatri aprivano a stagioni alterne. Carnevale spettava al Teatro della Società, primavera ed estate al Ricciardi, una strategia volta a riunire i cittadini del Borgo con quelli di Città e togliere gli incentivi alle gare che sussistono. Inoltre, «aprendosi nello stesso tempo un teatro in città e uno in borgo, e recandosi gli abitanti a quello di essi che torna loro più comodo, nasce che gli uni e gli altri prendono a sostenere lo spettacolo che frequentano, e quindi succedono delle dispute, le quali alimentano la discordia e impedisce l’unione di sentimento che non si verifica quasi mai nei cittadini di Bergamo, nemmeno quando si tratta di cose di più grave importanza». Nel 1819, però, si decide l’apertura a turno dei teatri anche durante la Quaresima. Il sorteggio affida al Ricciardi il privilegio per la prima Quaresima; al Teatro della Società sarebbe toccato l’anno successivo, il 1821.  Si spiega così quanto puntasse, il Teatro della Società di Bergamo alta sulla stagione di quell’anno. Interessante osservare che ripropose la stessa accoppiata già vista a Dresda, e fece precedere a Medea l’Otello. Il libretto, questa volta, ci informa nei dettagli del cast. La parte di Medea fu affidata a Elisa Manfredini Guarmani, quella di GIASONE  a Pietro Bolognesi, quella di Giovanni Spech, Giuseppe Fioravanti, Pio Botticelli, Filippo Torri, Giuseppe Casaccia. Balli: Meleagro, e Il patto infernale di A. Monticini.  1819-1820: Aureliano in Palmira di G. Rossini, Lodoiska di J. S. Mayr. Cast: Gesnalda Silvestri, Adelaide Commelli, Carolina Sivelli, Angiolo Colombo, Luigi Zirletti, Giovanni Brembilla, Giuseppe Veber, Luigi Codini. Balli: Eloisa e Adolfo di A. Tinti e Odoacre di G. Gioia. 1820-21: Alfredo il Grande di J. S. Mayr, Eraldo ed Emma di J. S. Mayr. Cast: Rosa Mariani, Margherita Bonsignori, Marietta Bramati, Domenico Bertozzi, Pietro Sangiovanni, Giuseppe Pontiroli. Balli: Il castellano D’Urchez e Adriano di Giovanni Olivieri. 1821-22: Otello di G. Rossini, Medea in Corinto di J. S. Mayr. Cast: Elisa Manfredini Guarmani, Giuseppina Conti, Marietta Landini, Pietro Bolognesi, Pietro Sangiovanni, Ferdinando Marchetti, Giuseppe Pontiroli, Ercole Trezzini. Balli: Sigefrido ed Ulrica di Pietro Angiolini e Osvaldo ed Olfrida di G. Sorrentini. 1822 –23: Il barbiere di Siviglia di G. Rossini, La rosa bianca e la rosa rossa di J. S. Mayr. Cast: Luigia Valsqvani Spada, Carolina Bassi, Anna Pescatori, Giuseppina Conti, Matilde Martelli, Stefano Lanzerini, Giuseppe Binaghi, Luigi Mangiarotti, Pietro Sangiovanni, Filippo Spada, Domenico Remolini, Giovanni Tiraboschi. Balli: (missing line) dirimere la lite tra i due teatri. Archivio di Stato di Bergamo, Delegazione provinciale, Affari Politici, cartella 3257, citato in Ermanno Comuzio, Il teatro Donizetti cit.. L'esemplare, i cui estremi bibliografici sono dati nelle note introduttive alla edizione critica del libretto, presenta una dedicatoria dell’impresario «Ai Nobili signori Co. Luigi Lochis, Vincenzo Rovetta e co. Bartolomeno Secco Suardiattuali deputatidell’andamento del Teatro.

Col più profondo ossequio intitolo alle SS. VV. il presente tragico Melo-Dramma, il quale, vestito d’armonia di Mayr formò tante volte la delizia di Napoli, sulle scene del gran Teatro di S. Carlo.  Io mi lusingo che esso possa ottenere a pubblica soddisfazione, unica meta a cui tendono i miei sforzi.Creonte a Pietro Sangiovanni, mentre Egeo fu Ferdinando Marchetti, PRINCIPESSA CREUSA Marietta Landini, Tideo Giuseppe Pontiroli, Ismene Giuseppina Conti. Esigenze d’economia avevano richiesto la soppressione della parte di Evandro, originario confidente di Creonte, le cui battute vennero affidate a Tideo.  Questi assolve anche al ruolo di confidente di GIASONE , come era stato previsto da Romani: assume quindi entrambi le parti, ma l’etichetta consigliò di indicarlo come seguace del sovrano piuttosto che del principe. A differenza di Dresda, Bergamo si avvalse della diretta collaborazione di Mayr. Il musicista era in ottimi rapporti con la proprietà del Teatro che fin dal 1809 gli concedeva i locali per il suo Pio Istituto musicale.Il libretto testimonia così diverse varianti sostanziali al testo originale, e l’archivio Mayr di Bergamo conserva le musiche destinate a tali interventi.  Alcuni ritocchi furono dovuti alla mancanza di voci femminili nel coro. Lo chiarisce lo stesso Mayr in una lettera inviata l’11 ottobre 1822 all’amico ed allievo Marco Bonesi, che avrebbe voluto allestire Medea a Verona: Ho il piacere di rimettergli il libretto della Giasone e Medea in Corinto, com’è stato qui eseguito, non avendo più quello di Napoli. Picciolissima è però la differenza fra l’uno e l’altro, soltanto a Napoli eranvi le donne coriste e li recitativi erano qua e là un poco più diffusi.  In ogni caso lo spartito, tanto come fu rappresentato a Napoli, quanto a Bergamo, è presso di me, anzi tutta l’orchestra mi fu mandata dal nostro Impresario.  Ciò le serva di regola. Il testo delle due introduzioni venne dunque riscritto con parole idonee al conforto che cortigiani uomini potevano prestare alla principessa.  

L’occasione si prestava anche ad alludere ai rilevanti eventi politici di quell’anno, con i moti carbonari appena repressi a Napoli, momentaneamente vittoriosi nel Lombardo Veneto, e con la Costituzione provvisoriamente strappata il 14 marzo a Carlo Alberto, reggente di Carlo Felice a Torino. La prima parte dell’introduzione dell’opera fu dunque sostituita con un’altra inneggiante alla pace. Supplicando pertanto le S.S. V.V. Nobilissime a degnarlo di benigno compatimento, passo a protestarmi con tutto il rispetto. Dev.mo Umil.mo Obb.mo Servitore Paolo Agazzi Impresario». Elisabetta Manfredini-Guarmani, 1790- post 1817, dopo il debutto (missing line) diversi ruoli rossiniani che richiedono voce estremamente flessibile: Amira in Ciro di Babilonia, (1812), Amenaide in Tancredi (1813), Aldimira in Sigismondo (1814) e Adelaide in Adelaide di Borgogna (1817) Il coro femminile, d’altronde, era caduto pressoché in disuso nei numeri introduttivi con la diffusione delle opere rossiniane, che lo prevedono solo eccezionalmente: Cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. Le opere della maturità da «Tancredi» a «Semiramide», Roma, Torre d’Orfeo. Cfr. Annalisa Bonazi, Il carteggio inedito Johann Simon Mayr della biblioteca “Angelo Mai” di Bergamo: Corrispondenza con Marco Bonesi, in «Bergomum. Bollettino della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo» Marco Bonesi, bergamasco, fu allievo e compagno di Donizetti alla scuola di Mayr. Dal gennaio 1822 divenne primo violinista e direttore dell’Accademia Filarmonica di Verona (fece quindi a tempo a vedere a Bergamo Medea nel 1821). Da questa lettera si può supporre che Bonesi s’adoperò per l’allestimento a Verona di Medea in -- Il primo numero corale è ampliato, ma il ruolo del coro si riduce a pertichino quando inizia l’aria di PRINCIPESSA CREUSA, in due movimenti. Se ne veda il raffronto nell’edizione critica del libretto in calce a questa dissertazione e si osservi la versificazione più varia rispetto all’originale, con l’introduzione di quinari doppi, e il nuovo equilibro tra le sezioni solistica e corale che configura l’introduzione come una vera aria di PRINCIPESSA CREUSA.  Analogamente accade all’introduzione del second’atto, dove il numero di PRINCIPESSA CREUSA col coro viene sostituito da una scena di foggia rossinana81 con coro introduttivo seguito da una regolare aria tripartita di PRINCIPESSA CREUSA (scena: ‘Grazie vi rendo amici’; cantabile: ‘Compi l’opra, o ciel pietoso’; tempo di mezzo: ‘Figlia amata, … Ah! padre, oh dio’; cabaletta: ‘Ah! lasciate ch’io respiri’). L’assimilazione alle strutture standardizzate da Rossini investe un altro numero dell’opera, secondo un progetto d’omologazione cui non doveva essere indifferente la concorrenza con il Teatro Ricciardi, esclusivamente dedito al repertorio rossiniano.

La prima aria col da capo di Egeo venne ampliata con l’aggiunta di un tempo di mezzo e di una cabaletta (‘Ma se mi lacera’ – ‘Ah questo amabile’).  Vennero, poi, ridotti i recitativi che precedono il duetto Medea/GIASONE  del prim’atto e il rondò del second’atto.  Probabilmente per le ridotte dimensioni dell’orchestra, quest’ultimo fu anche rielaborato per sostituire il corno inglese concertante con il violino: risale a Bergamo, insomma, la seconda versione di quest’aria, trasposta da La maggiore a Sol maggiore, ma mai più utilizzata negli altri allestimenti. Del pari dovette essere stata trasposta qui da Sol maggiore a Fa maggiore l’aria del second’atto di Egeo, ‘I dolci contenti’ che si trova a Bergamo in molte copie, e con diverse grafie, e si ritrova poi in tre partiture derivate dal materiale bergamasco. La partitura conservata al Conservatorio di Milano, e le due conservate al Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna; venne anche trasposto il duetto ‘Se ’l sangue e la vita’, da Do maggiore a Re maggiore.  Altre varianti meno significative conseguono dalla decisione di aggregare la parte di Evandro a quella di Tideo: si spiega così, infatti, la sostituzione della scena II,14, in origine un breve dialogo tra i due confidenti, ma anche il taglio di alcuni versi nella scena II,6 -- Corinto, operazione che comunque non dovette andare in porto perché nel Carnevale 1822-23 Verona incluse in cartellone la sola Rosa bianca e la rosa rossa. Sui problemi delle introduzioni operistiche rossiniane cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. Le opere della maturità da «Tancredi»a«Semiramide» cit. Nel  4 approfondisco la discussione delle diverse introduzioni di Medea in Corinto in rapporto alle forme più diffuse nelle opere serie di Rossini.

Il faldone dell’archivio Mayr contiene quasi esclusivamente parti eseguite a Bergamo e alcune particelle per i cantanti: i nomi degli esecutori, riportati su ciascuna particella, ci consentono di datarle in modo incontrovertibile. Un confronto con la grafia, l’inchiostro e la carta adottata in questi documenti e nel rondò modificato (senza indicazione di cantanti), mi convincono che anche quest’ultimo possa attribuirsi a questo allestimento. Non così ritengono Gossett e Commons, ai quali però non risultava l’allestimento di Bergamo.  Essi tentano di giustificare le due versioni del Rondò con ipotesi relative a generiche condizioni esecutive di Napoli. Gossett ritiene la versione in La maggiore con corno inglese concertante quella originale e la versione in Sol maggiore con violino concertate un adattamento successivo, Commons viceversa. Ritengo che, sebbene mossa da altre considerazioni, l’ipotesi di Gossett rispecchi comunque la reale successione delle due versioni. Romani dovette avere una parte in questi adattamenti83 e ne approfittò per un ritocco significativo al libretto, poi adottato anche nel successivo allestimento scaligero. Nella scena precedente il duetto GIASONE/Medea corresse alcuni versi in modo da introdurre una nuova citazione dalla tragedia di Domenico Morosini che l’antecedente immediato del libretto84. Il fulmineo «Io» (I,9) derivato da Corneille venne sostituito col più disteso «Resta Medea» d’origine senechiana. La variante non ebbe però successo perché la citazione corneliana della versione originale, pronunciata con inaudita energia da Giuditta Pasta nel 1823 85, contribuì non poco a decretare il successo internazionale dell’opera e restò quindi in repertorio. Per il resto l’allestimento ricalcò quello napoletano, compresa l’esecuzione della cavatina di Medea nel prim’atto, ‘Sommi dèi’86, che sarebbe poi stata definitivamente cassata dall’opera come era avvenuto a Dresda. L’allestimento di Bergamo, e l’assimilazione di singoli numeri dell’opera agli standards formali rossiniani, dovette convincere anche La Scala a proporre Medea in Corinto.  Andò in scena l’8 marzo 1823, commentata come uno di que’ lampi di luce che balenò allorquando il vero gusto cominciava a trovarsi alle prese col falso e mantiene il suo splendore anche fra gli odierni trionfi di questo essendo che la forza drammatica vi si combina colle dolcezze del canto, e sovente in modo originale. Medea era annoverata fra le poche moderne opere che possono per molti conti servire di esemplare 87.  Nonostante questo, o forse proprio per questo, ebbe solo sette repliche. Proprio dalla metà del 1820, Felice Romani aveva rallentato molto le collaborazioni alla Scala, perché Luigi Romanelli aveva riottenuto la carica di “poeta degli Imperial Regi Teatri”; versava quindi in qualche difficoltà economica. Fino al 2 settembre 1820 Romani è a Milano; poi parte per Venezia (e passa quindi da Bergamo).  Nel dicembre è ancora a Milano.  

In questa situazione è molto probabile che abbia acconsentito ad una eventuale richiesta di Mayr di mettere mano a Medea in Corinto per l’allestimento bergamasco; nel giugno di quell’anno, tra l’altro, stava già lavorando per Mayr alle «mutazioni» per l’Atalia.  Il fatto poi che molte varianti testuali introdotte a Bergamo siano state confermate in occasione dell’allestimento scaligero di due anni dopo, al quale certamente Romani collaborò, conferma l’ipotesi. I dati che qui assemblo sono tratti da Alessandro Roccatagliati, Felice Romani, librettista.  Domenico Morosini aveva pubblicato nel 1806 una tragedia Medea in Corinto, poi ampiamente sfruttata da Romani nel confezionare il suo libretto. Passim tra le lettere e i documenti citati per l’anno 1823 in Giuditta Pasta e i suoi tempi cit. Nell’archivio Mayr si trova la cavatina ‘Sommi dèi’ nella stessa carta, grafia e inchiostro usati per le parti staccate eseguite e Bergamo. È questa una delle tre copie orchestrate rimasteci della cavatina, assieme a quella che figura nella partitura rilegata al Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna (UU.33) e ad una copia sciolta nella biblioteca del Conservatorio di Milano (Part. Tr. ms. 207) Giornaletto ragionato teatrale. Visti i nomi dei cantanti citati e recensiti, il numero del «Giornaletto», senza data, risale certamente al 1823, data dell’allestimento milanese, e non al 1821 come riportato da Jeremy Commons, Medea in Corinto, in Beiträge des 1. Internationalen Simon-Mayr-Symposions vom 2.-4. Oktober 1992 in Ingolstadt cit.  La differenza è sostanziale, perché la data attribuita da Commons avrebbe messo in relazione l’articolo con l’allestimento di Bergamo, del quale, invece, non ho trovato alcuna recensione. Le trattative per l’allestimento di Medea in Corinto partirono alla fine del 1822.  Una lettera del 30 dicembre di Giuseppe Maria Franchetti88, delegato governativo alla gestione dei teatri, a Mayr annuncia l'intenzione dell'I.R. Governo di allestire l'opera già battezzata a Napoli e chiede al maestro di adattarla per il cast scaligero di quella stagione che non contemplava due primi tenori com'era consueto al San Carlo.  

Il 2 gennaio 1823 Mayr era in grado di mandare a Franchetti la partitura appositamente risistemata.  

Per quel lavoro sarebbe stato retribuito cento zecchini, come precisa una lettera del Delegato governativo dei Regi teatri di Milano: Per gl’incomodi che si è preso per porre inscena la Medea ho dato l’ordine perché le si paghino cento zecchini effettivi. Mayr suggeriva una distribuzione dei cantanti, con musico, sulla quale sperava di avere la condiscendenza di Romani, all’epoca in vivace concorrenza con Luigi Romanelli, nuovo “poeta degli Imperial Regi Teatri”, per il ruolo di principale poeta della Scala91: il cast proposto prevedeva Teresa Belloc92 nella parte di Medea, Isabella Fabbrica in quella di GIASONE  «giacché quest’è la parte del musico», Savino Monelli per Egeo, Luigi Lablache come Creonte; per PRINCIPESSA CREUSA, Mayr invocava una «brava seconda donna con voce di soprano» in considerazione del fatto che doveva cantare due introduzioni e un duetto con GIASONE  eche se anche quelle si potessero volgere, difficile cosa sarà il poterlo fare col duetto. Allafine il cast avrebbe subìto qualche modifica rispetto a quello preconizzato da Mayr. D’altronde in una lettera del 4 gennaio 1823 Lichtental aveva avvisato il compositore che I cantanti scritturati per la stagione alla Scala rischiavano di far naufragare la prima Milanese di Medea. Franchetti, delegato del nostro gran teatro, mi disse che si darà facilmente la sua Medea per terza opera dell’attuale stagione.  Non le dico niente nel nostro fiasco completo. Stiamo male anche per parte de’ cantanti e mi dispiacerebbe assai se la Medea non fosse provveduta di qualche altro buon cantante93. 88 La lettera fa parte del Fondo recentemente acquisito dall Fondazione Donizetti (II,3). Si trova nella tesi di Piera Ravasio, Il primo lotto del Fondo Mandelli della fondazione Donizetti di Pergamo: edizione e studio delle lettere di Giovanni Simone Mayr (1763-1845) cit. Sulle vicende amministrative della Scala in questi anni, cfr. Remo Giazotto, Le carte della Scala cit.,  Nel medesimo fondo della Fondazione Donizetti, si trova una lettera di Franchetti del 4 gennaio (II,4) per ricevuta della partitura e con l'invito a Mayr di recarsi a Milano al più presto per concertare varianti all'opera col poeta e coi cantatni e per seguire l'allestimento.Lettere a Mayr, Biblioteca Civica “A. Mai” di Bergamo, salone 9/3/2, n. 389, 12 marzo 1823. Sono gli anni della gestione diretta dei teatri milanesi da parte dell’autorità governativa (giugno 1821-giugno 1824). Su queste vicende, cfr. Alessandro Roccatagliati, Felice Romani, librettista cit., Teresa Giorgi Belloc, 1784-1855, debuttò nel 1801 nell’Equivoco di Mayr. Cantò poi a Parma, Trieste, Parigi, Venezia, Napoli, Londra; alla Scala debuttò nel 1804 con Nina pazza per amore di Paisiello, Fiordiligi in Così fan tutte e Pamina nel Flauto magico. Creò Isabella e Ninetta rispettivamente nell’Inganno felice e nella Gazza ladra di Rossini. Si ritirò nel 1828. Cfr. Gioachino Rossini. Lettere e documenti, I, p.188 e Vittorio della Croce, Una giacobina piemontese alla Scala: la primadonna Teresa Belloc, Torino, Eda, 1978. Lettere a Mayr, Biblioteca Civica “A Mai” di Bergamo, salone 9/3/2 , n. 466. Mayr stesso ne era preoccupato: In questo istante riparto per Milano, per occuparmi della Medea, la quale, messa in scena il 16 di questo mese, è riuscita all’avviso di tutti i giornali di Parigi egregiamente bene: Dio sa come andrà a Milano. Il ruolo di GIASONE  fu così affidato, come nell’originale napoletano, ad un tenore (Luigi Sirletti 95) e non a un musico. Per Egeo si scelse Giuseppe Binaghi, per PRINCIPESSA CREUSA Antonia Galeazzi; per le parti minori Luigi Lablache 96 (Creonte), Carlo Donà (Evandro), Carlo Poggiali (Tideo) e Angela Maria Silvestri Bertozzi97 (Ismene).

L’intenzione esemplare dell’allestimento milanese è ben dimostrata anche dalla qualità del libretto e dall’attenzione con cui esso venne revisionato. Romani inserì un recitativo di Tideo, che non risulta musicato, per rendere conto degli eventi previsti nel libretto napoletano ma tagliati fin da sùbito dalla rappresentazione (II,11). I mezzi della Scala erano ben superiori a quelli del teatro bergamasco; taluni accomodamenti là adottati vennero quindi soppressi: furono ripristinati i cori originalmente affidati al coro femminile e il rondò con corno inglese concertante, sebbene trasposto da La a Mi.  La derivazione dello spettacolo scaligero da quello bergamasco risulta per il resto evidente sulla base delle coincidenze tra diverse leggere varianti di singoli versi, soprattutto nella scena che precede il duetto GIASONE /PRINCIPESSA CREUSA, oltre che della cabaletta aggiunta alla prima aria di Egeo. Nonostante leggere modifiche nel testo (cfr. edizione critica), la musica è identica.  Anche l’aria di PRINCIPESSA CREUSA del second’atto rimase identica a quella bergamasca. Conclusi i moti carbonari, non si dava più il caso di aprire l’opera con un inno alla pace: oltre all’originale coro introduttivo del prim’atto, venne perciò ripristinato l’adagio di PRINCIPESSA CREUSA.  A questo segue però, nel tempo di mezzo, una nuova sezione che concede più spazio a Creonte: è l’unico numero quasi solistico affidatogli nell’opera 98, segno della maggiorconsiderazione che incontrava la voce di basso negli anni ’20, e quella di Lablache in particolare.  Lo conferma tra le righe anche la recensione del «Giornaletto» sopra citato, che  Salone 9.2. Lettere di Mayr a Gaetano Buzzecchi, n. 64, lettera non datata ma del gennaio 1823, perché fa riferimento alla prima parigina dell’opera che si tenne il 14 gennaio. Mayr cita la data della prima ufficiale: il 14, infatti Medea in Corinto fu presentata come beneficiata per Manuel García  Sirletti cantò al Teatro dei Fiorentini di Napoli nel 1808,  (missing ine) La pietra del paragone, Semiramide, La gazza ladra) 96 Luigi Lablache, 1794-1858, nacque a Napoli da padre francese e madre irlandese. AùAvviò la sua lunghissima carriera come buffo nel Teatrino dei pupi, ma presto debuttò al San Carlo come Figaro nel Barbiere di Rossini. Cantò a Palermo (Mosè in Egitto, 1820), e alla Scala (Cenerentola, 1821). Nel 1823 venne scritturato da Barbaja per il San Carlo di Napoli e il teatro di Vienna (Barbiere, Gazza ladra, Donna del lago).  Si ritirò infine dalle scene nel 1857. Veniva dal San Carlo, dove aveva cantato Rosina nel Barbiere di Siviglia di Paisiello nel 1819 al Teatro Nuovo. Nel 1820 è ancora al San Carlo nella Sofonisba di Paër e nel Solimano secondo. Il 27 febbraio venne scritturata da Barbaja come ‘supplemento’ (Rossini. Lettere e documenti. In occasione della ripresa al Carcano nel 1829, questa sezione è definita «cavatina» dal «Censore universale dei teatri» (24 giugno 1829) rimpiange che «la bella voce di Lablache non si combinasse in maggior numero di pezzi colla voce della prima donna.

Per il resto furono tagliate la scena tra GIASONE  e Ismene e la cavatina di Medea, entrambe nel prim’atto.  Mayr doveva tuttavia tenere molto a questa cavatina. Sebbene fosse stata soppressa già a Napoli, ogni volta che ebbe diretta responsabilità dello spettacolo, a Bergamo e alla Scala, si adoperò per ripristinarla.  A Bergamo ci riuscì, a Milano, invece, dovette sopraggiungere qualche intoppo, giacché inizialmente la cavatina era prevista di sicuro, tant’è vero che ne abbiamo un’edizione per canto e piano stampata da Ricordi nel 1822.  Si dovette poi pensare di sostituirla: il 22 gennaio Romani si scusò con Franchetti per non aver ancora inviato il nuovo testo.  Sebbene Mayr lo ricevesse già il 26 gennaio, esso non entrò nel libretto; non solo.Il libretto scaligero è l’unico che, oltre alla cavatina propriamente detta, taglia anche tutta la scena introduttiva, compreso il dialogo tra Medea e il coro di Corinti che la informano della sentenza d’esilio.  Il nuovo testo di Romani dovette comunque venir composto da Mayr. Nel suo archivio di Bergamo si trova infatti una cavatina ‘Perché mai i falli miei’, che per contenuto testuale e carattere musicale potrebbe essere sostitutiva di ‘Sommi dèi’.  Nell’edizione del libretto, ne si trascrive il testo; nel  dedicato alla musica ne analizzo l’intonazione.Tutte queste varianti sono puntualmente documentate nella partitura conservata al Conservatorio di Milano, che possiamo dunque considerare come testimonianza musicale dell’allestimento scaligero. La partitura chiarisce anche un dubbio finora insoluto: a Milano, infatti, si decise anche di sopprimere in tronco il duetto Egeo/Medea del second’atto, non già di sostituirlo con quello tratto da Adelasia ed Aleramo che circolerà poi con Giuditta Pasta 100. Tanto il libretto quanto la partitura del Conservatorio di Milano dimostrano che in questo punto non fu cantato alcun numero, e che dopo l’aria di Egeo venne abbreviato e riformulato il dialogo con Medea prima di passare direttamente all’aria con coro di GIASONE.

Entrambi questi tagli alleggeriscono il ruolo di Medea: nel caso della cavatina riservandone i maggiori exploit vocali per il second’atto, nel caso del duetto consentendole di prepararsi adeguatamente per il grande rondò, a quel punto distanziato dalla prima aria – quella del sortilegio – da ben tre ampi numeri musicali (duetto GIASONE/PRINCIPESSA CREUSA, aria di Egeo, aria di GIASONE). Si può pensare che fosse necessario ridurre il carico vocale per la Belloc, ormai a fine carriera e tra l’altro più adatta ai ruoli semiseri che non alla potenza tragica di Medea: in questo senso deporrebbe anche la trasposizione del rondò ‘Ah che tento’ da La maggiore a Mi maggiore  Questa corrispondenza è pubblicata da Alessandro Roccatagliati, Felice Romani, librettista. Sono incorsi in questo equivoco tanto Philip Gossett, Medea in Corinto cit. quanto Jeremy Commons, nelle note introduttive all’incisione dell’opera per Opera Rara cit.  Entrambi non conoscevano questa partitura e consideravano il manoscritto conservato a Casa Ricordi testimonianza delle rappresentazioni milanesi del 1823. La recensione del «Giornaletto» sopra citato documenta comunque il felice esito dell’opera, sempre nei toni già visti per l’allestimento napoletano e adeguati ad un’opera esemplare, «da perfetto intelligente»; denuncia come non di «effetto sicura» la cavatina di GIASONE , uno dei pochi numeri rimasti in fogge prerossiniane senza tempo di mezzo e cabaletta, e il finale secondo, «pregiudicato in parte dalle combinazioni calcolate per l’effetto materiale; il tuono, il balenare, il fragore de’ fuochi artificiali, che impediscono all’uditore il giudicar del merito di questa parte della composizione.  Per altro, l’occhio segue Medea negli spazj dell’aria, ed è abbagliato dalla luce; i tromboni vanno a gara con tuono del fragore, l’orchestra mena uno strepito d’inferno, i coristi van modulando a gola aperta, il sipario cala».  La recensione presenta anche un’accurata analisi tecnico-compositiva dell’opera, in linea con una testata che ambiva ad essere riferimento per i veri intenditori. L’anno seguente l’allestimento scaligero, Medea in Corinto venne ripresa a ROMA ad opera dell’Accademia Filarmonica da poco riorganizzata dopo una scissione guidata dal fondatore, il marchese Raffaele Muti Papazzurri.  Il nuovo statuto, definito il 13 marzo e approvato dal camerlengo, cardinal Pacca il 22 luglio 1824, la impegnava ad allestire Quattro saggi all’anno102.  Dopo La Passione di Gesù Cristo di Paisiello (10 aprile) ed Elisabetta di Rossini (20 luglio), l’opera di Mayr fu eseguita il 28 settembre; quarto titolo sarebbe stato Gli Orazi e i Curiazi di Cimarosa. L’Accademia Filarmonica romana si richiamava esplicitamente alle esperienze analoghe di cui «andavano pure adorne varie Capitali ed anche 101  L’allestimento scaligero ebbe un’eco anche nelle riviste inglesi specializzate. The Armonicon tornò più volte sull’argomento, e formulò la definizione di Mayr come un Mozart diminished, che sarebbe stata ripresa più volte negli anni successive. If it may be permitted to judge of Mayr by the only great work of his with which we are acquainted, we should place him between Mozart and Rossini; rather below both.  Mayr has less enthusiasm, less gaiety, than latter, but his music, better constructed, is more dramatic: an innovator, but with more correctness; he seems stopped in his career by an unaccountable professional timidity.  Mayr shines principally by his admiration  of that beautiful harmony which so essentially characterises the great German composer.  Mayr is, in the technical language of music, a diminished Mozart. In allowing to Rossini the merit of novelty, to Mayr harmony, science and correctness, to Spontini sensibility, vigour, and truth of expression, we believe that we have awarded to each his just praise; and we leave to an enlightened public the task of judging which of these three celebrated dramatic composers approaches nearest to perfection in his art.  We must, however, confess that the question appears to us to b resolved in France in favour of the author of La Vestale, of Fernando Cortez, and of Olimpie». Aprile 1823.

The recitative and cavatina of Medea in the second act, the subject of which is an invocation of the infernal spirits, is the masterpiece of the opera, and not unworthy of being placed by the side of some of the happiest efforts of Gluck and Mozart. L’Accademia Filarmonica Romana fu fondata il 4 dicembre 1821 dall’associazione di alcuni dilettanti di musica appartenenti al ceto nobiliare e alto-borghese. Muti Papazzurri la guidò nei primi due anni di vita e diresse personalmente l’Agnese di Paër, Otello e Mosè in Egitto di Rossini, quest’ultima opera in “prima” cittadina.  Nel 1824 il nuovo presidente Sigismondo Chigi riuscì a superare le difficoltà indotte dalla scissione di Papazzurri con il riconoscimento di ente morale da parte del governo pontificio. Su queste vicende cfr. Arrigo Quattrocchi, Storia dell’Accademia filarmonica romana, Roma, s.d. altre città d’Italia", tutte sorte con lo «scopo di coniugare attività didattiche e spettacolari In particolare, rispetto alle istituzioni professionistiche, ad ogni iniziativa dilettantesca, dunque filarmonica nel senso generico del termine, veniva attribuita una connaturata propensione e curiosità per gli aspetti meno frequentati o nuovi del repertorio»104.  Lo scopo era dunque di portare a Roma opere nuove per la città, in regime di forte concorrenza con l’Antifilarmonica, fondata da Papazzurri dopo la sua uscita.  Il rigore cui si ispiravano le esecuzioni è dimostrato dal rifiuto opposto alla richiesta della cantante Trasmondi, prevista nella parte di Matilde dell’Elisabetta, di inserire un’aria di baule nell’originale rossiniano. La manomissione, vietata dall’articolo 147 dello Statuto, costrinse l’Accademia a privarsi in quell’occasione della prestazione della Trasmondi. Per Medea in Corinto furono impiegate Clelia Garofolini (Medea), Nicola Sardi (Creonte), Anna Ponziani (PRINCIPESSA CREUSA), Filippo Moroni (GIASONE )105, Luigi Viviani (Egeo), Carolina Lucidi (Ismene), Pietro Ambrosini (Evandro), Pietro Angelini (Tideo); otto donne (tra le quali Orsola Aspri, compositrice, pianista, arpista e maestra di canto) e venti uomini formavano il coro. Moroni e Ambrosini sono segnalati nel libretto con una M maiuscola tra parentesi, forse per indicare che erano maestri, musicisti professionisti e non dilettanti107. Il progetto di eseguire Medea in Corinto nacque tra violente polemiche tra i due principali organi decisionali dell’Accademia.

Il Consiglio, supremo organo amministrativo, e il Congresso di musica, presieduto dal direttore musicale (Domenico Capraia), cui era demandata la scelta del repertorio da eseguirsi.  In quell’anno, infatti, il primo dopo l’approvazione dello statuto, il Consiglio scelse direttamente il repertorio, tra cui Medea in Corinto, e mise il Congresso di musica di fronte al fatto compiuto. La decisione di presentare Istanza d’approvazione dello Statuto rivolta al cardinale camerlengo, citata in Arrigo Quattrocchi, Storia dell’Accademia filarmonica romana. Marco Capra, Società filarmoniche nell’800: tipologia e repertorio, in Accademie e Società Filarmoniche. Organizzazione, cultura e attività dei filarmonici nell’Italia dell’Ottocento, a cura di A. Carlini, Trento, Provincia Autonoma di Trento, 1998, pp.73-96: 77. Forse, tuttavia, Moroni non prese parte allo spettacolo, stando ad una lettera di pochi giorni antecedente la “prima”: «Estratto degl’Atti, Sessione del Consiglio, 21 settembre 1824.  Art. 1°  Si è adunato legalmente il Consiglio, e comunicato dal Sig.r presidente la renunzia del Sig. Moroni ad eseguire la parte assegnatagli nella Medea, si è risolto a pieni voti che persistendo il Sig. Moroni nella esternata contrarietà, il Sig. Direttore della Musica pensi a sostituirgli un supplemento». A dare l’idea del livello sociale dei dilettanti impegnati nell’esecuzioni val la pena di ricordare che nel coro erano compresi anche Gaspare Servi, futuro proprietario dei giornali «Lo spigolatore» e «Il Tiberino», Giuseppe Spada, futuro autore della Storia della Rivoluzione di Roma, e Faustino Corsi, scrittore di cose d’archeologia e noto per le esecuzioni dei Salmi di Benedetto Marcello che si tenevano nella sua casa.. L’orchestra era composta da 31 musicisti compresi arpa e dieci violini. Sulle vicende della Accademia Filarmonica Romana cfr. anche Memorie storiche raccolte da Alberto Cametti. Accademia Filarmonica Romana, 1821-1860, Roma, Regia Accademia Filarmonica Romana, 1924, dove le pp. 19 ss. riguardano l’esecuzione di Medea in Corinto. Nel libretto per l’esecuzione di Maometto di Pietro Winter del 1826, accanto a Filippo Moroni (Maometto) l’indicazione «Maestro» è segnalata per esteso, e così sono definiti anche Gaggi Adautto e Leonardo Silvestro componenti del coro. Ringrazio Ornella di Tondo per avermi segnalato questo dato, in una cordiale lettera che mi è stata essenziale per avviare lo studio dell’allestimento di Medea in Corinto a Roma.  

Altrettanto preziosa è stata la disponibilità dell’archivista dell’Accademia, Picci l’opera di Mayr dovette essere presa dal Consiglio in luglio e formalizzata con tardiva richiesta al Congresso di Musica, il 3 agosto, suscitandone le rimostranze.  Dagli atti superstiti, riportati in appendice IV, si evince che il Congresso di musica aveva ragione: già prima del 30 luglio si cercavano i cantanti per eseguire Medea, come dimostra una lettera a Marianna Mancinelli con la richiesta di autorizzare la figlia a cantare la parte di PRINCIPESSA CREUSA: Signora Marianna Mancinelli, 30 luglio 1824 Comunicai iersera al consiglio dell’Accademia Filarmonica la di lei adesione perché la Sig.ra Paolina sua figlia assumesse la parte di PRINCIPESSA CREUSA nella Medea e ne riscossi per di Lei conto l’espressione di una decisa soddisfazione.  Mi preparava questa mattina a partecipargliela, quando con mia somma sorpresa si è incomodato a venir fino al mio uffizio il Sig. Gioacchino di Lei fratello rispettosissimo per dirmi non essere, come non è stata giammai, di Lui volontà che la sua Nipote eseguisse la detta Parte; su di che avendogl’io fatto osservare di aver già manifestato il di lei assenso all’Accademia, mi ha esso insinuato di far lo stesso del dissenso di Lui. Mi adatterò, sebbene di mala voglia, a disdirmi.  Ma siccome mi ricordo quanto Ella fu tenace in non far concepire al Sig.r Presidente dell’Accademia ed a me alcuna benché minima speranza, allorquando si trattò dell’Oratorio della Passione, per non trovarsi astretta dalla sua delicatezza a non realizzarla; e rifletto d’altronde che il Sig.r D. Gioacchino non mi ha parlato in di Lei nome. Temerei perciò di compromettermi verso di Lei, se ritrattassi la parola che ieri mi diede, senza prima esser da lei stessa certificato de’ veri suoi sentimenti attuali.  La prego pertanto di farmeli conoscere, e dirò anche il più presto possibile, per mia regola, giacché la strettezza del tempo non ammette dilazione. Già in luglio furono avviate ricerche per reperire il libretto e la partitura: questa fu probabilmente prestata all’Accademia dal maestro Candido Giannotti, perché due lettere della metà del successivo agosto chiariscono che tale partitura gli era già stata restituita ma che l’Accademia la richiedeva nuovamente in prestito109.  La ricerca dei materiali pose quindi non poche difficoltà all’Accademia.  Soprattutto fu impossibile reperire il libretto degli Pontecorvo, che mi ha gentilmente messo a disposizione la riproduzione del fascicolo relativo a questa esecuzione.

Sulla difficoltà dell’Accademia a reperire socie disposte a cantare, nonostante l’assenza di scena e recitazione, si diffonde Arrigo Quattrocchi, Storia dell’Accademia filarmonica romana. «Sig. Maestro Peg.mo, Volea il Signor Sigismondo Chigi, presidente della nostra Accademia Filarmonica portarsi da Lei, ma essendone stato impedito, vengo io col presente a supplicare in di lui nome all’oggetto. Non potendo nei saggi pubblici e nelle Accademie il primo contrabbasso e il primo violoncello leggere nella partitura che si pone al pianoforte, attesa la loro situazione un po’ distante da questo, è indispensabile un’altra partitura.  Quindi avendone l’Accademia una sola della Medea di Mayr, giacché si è dovuta restituire quella da cui l’ha fatta copiare il Sig. Presidente, prega V. S. di voler imprestare la sua per tenersi sul Pianforte.  Trattandosi di una privazione di non molti giorni, si lusinga il Sig. Presidente che non dubiterà d’incontrarla in vantaggio dell’Accademia, ma vorrebbe esserne intanto assicurato, per poter in caso contrario provvedere diversamente all’urgenza.  Aggiungerò che le prove della Medea avranno principio giovedì prossimo, sicché starò dalla di Lei gentilezza attendendo la comunicazione delle sue intenzioni che se saranno conformi alla preghiera, potrà pur consegnare la Partitura al latore del presente.» «Sig. Baratti gentilissimo, 17 agosto 1824 Sono dolentissimo non poterla servire nella richiesta dello spartito della Medea, giacché coll’occasione di un ultimo convoglio partito per Firenze ho mandato una gran razione dei miei spartiti colà fra quali è la Medea.  Faccia le mie scuse con il Sig. Presidente e ripetendone altrettanto con lei, mi creda sempre pronto a suoi comandi. Candido Giannotti.» allestimenti napoletani.  Già sappiamo dalla lettera di Mayr dell’11 ottobre 1822 all’amico ed allievo Marco Bonesi che il libretto relativo ai primi allestimenti era ormai irreperibile e che neppure Mayr stesso ne aveva più copie.  L’Accademia ripiegò quindi in questo modo: Sessione del Consiglio de’ 3 Agosto 1824 Il Segretario ha fatto osservare che mancando qui in Roma ed in Napoli il dramma stampato della Medea, si è dovuto ricavarlo dallo spartito ma così pieno di errori che per purgarlo da questi si rende indispensabile l’opera di un poeta, molto più perché occorre altresì sceneggiarlo.  Pertanto il Consiglio ha incaricato lo stesso Segretario di passare il detto Copione all’Accademico di Onore Sig.r Cesare Stermini pregandolo di occuparsi di quanto sopra in adempimento delle di lui anteriori esibizioni. La richiesta a Sterbini parte il giorno dopo: Sig. Cesare Sterbini, 4 agosto 1824 Il Consiglio nella sessione di ieri ha decretato l’esecuzione della Medea di Maïr per il prossimo Saggio pubblico di settembre. Non essendosi rinvenuto né qui, né a Napoli un esemplare del Dramma da servire per la stampa, si è dovuto ricavarlo dallo spartito, ma pieno di errori, di modo che sarebbe indecente di farlo stampare senza prima correggerlo e sceneggiarlo.  Memore pertanto il Consiglio delle graziose offerte già avanzate da V. S. Ill.ma di occuparsi al bisogno e gratuitamente di simili lavori, mi ha commesso d’inviarvi il detto Copione con pregarla insieme di voler assumere questa fatica in vantaggio dell’Accademia ed assicurarla fin d’ora della sua gratitudine.

Adempio con la presente l’incarico ricevuto e mi pregio di raffermarmi con distinta stima. In effetti il libretto romano è quello che presenta più varianti rispetto al testo napoletano, ma, salvo la soppressione della cavatina di Medea nel prim’atto, queste sono tutte di ordine secondario, limitate a poche parole o emistichi. Solo la ricostruzione dei versi del finale I dovette costare non poca fatica a Sterbini. Il testo edito cerca infatti di far quadrare una versificazione coerente con la sovrapposizione delle voci realizzate in partitura per rendere il concitato incalzare degli eventi drammatici. Mayr non partecipò in alcun modo all’esecuzione romana di Medea in Corinto, ma la cosa non stupisce: generalmente le esecuzioni dell’Accademia Filarmonica erano prodotte in economia e senza intervento degli autori, se questi non si trovavano già a Roma per alter attività. Non deve stupire neppure l’assenza di Mayr a Parigi in occasione della prima Un’altra lettera di cui non sono riuscito a ricostruire il senso è la seguente: «Napoli, 9 settembre 1824. Ricevo una sua ed unica gentilissima, giacché altrimenti non avrei mancato al dovere, d’una cosa interessante e che a me interessa egualmente, fino da un mese che io avevo destinato di essere in Roma, ma le circostanze mèlanno impedito, vedo l’impossibilità di poter adempiere al mio dovere, e con tutto il mio dispiacere lo devo dire giacché vorrei essere di ritorno ma non posso precisare la sicurezza per molti affari che devo sbrigare per la Sig. Marchesa.  Prego di fare le mie scuse a nome di tutto il nostro Consiglio, e pieno di inalterabile stima passo a segnarmi Giuseppe Wieller Mainher.» È il caso per esempio di Gaetano Donizetti che nel luglio 1829 fu contattato mentre era Roma affinché scrivesse qualcosa per l’Accademia in occasione dell’assunzione al soglio pontificio di rappresentazione francese dell’opera.  È probabile, infatti, che la scelta di programmarla sia stata casuale, o perlomeno non sotto la diretta responsabilità di Ferdinando Paër, al tempo direttore del Théâtre Italien.

Nel 1822 a Parigi si trovava Manuel García, il primo Egeo, lì impegnato nel Mosè di Rossini.  Il 14 gennaio 1823 era stata fissata una serata a suo beneficio: fu lui a scegliere Medea in Corinto, questa volta per cantare il ruolo di GIASONE. Giuditta Pasta ne sarebbe stata coinvolta in virtù del contratto che la legava al Théâtre Italien nel suo secondo soggiorno parigino. Assieme a García e Pasta, cantarono Nicolas-Prosper Levasseur (Creonte), Marco Bordogni116 (Egeo), Laura Cinti-Damoreau117 (PRINCIPESSA CREUSA), Goria (Ismene), Deville (Tideo). Leone XIII. Sempre Donizetti, mentre era a Napoli, provvide a fornire l’Accademia della musica per l’esecuzione dell’Esule di Roma il 3 aprile 1830. Cfr. Arrigo Quattrocchi, Storia della Accademia filarmonica romana. Paër fu «chef des artistes» dal 1812 al 1827, dal 1° dicembre 1824 affiancato da Gioachino Rossini, «Directeur de la musique et de la scène du Théâtre Italien». L’amministrazione era invece assunta François-Antoine Habeneck dell’Opéra: dal 1817 al 1827, infatti, i due teatri ebbero amministrazione congiunta e condividevano anche parte del personale, del coro, i laboratorii scenografici e le sartorie. Direttori d’orchestra erano Jean-Jacques Grasset (1°) e Lepreux (2°), scenografo Blanchard, maestro di ballo Paul. Cfr. Nicole Wild, Dictionnaire des théâtres parisiens au XIXe siècle. Les Théâtres et la musique, Paris, Aux amateurs de livres, 1989. Sulle vicende dell’opera italiana a Parigi in anni di poco successivi alle rappresentazioni di Medea in Corinto cfr. Philip Gossett, Music at the Théâtre Italien, in La Musique à Paris dans les années mil huit cent trente, a cura di P. Bloom, Stuyvesant, Pendragon Press.

Nous devons cet opéra à García. Il y a près de huit mois, lorsque l’engagement qu’il contracta avec l’administration lui accorda un bénéfice, cet acteur utile désigna pour cette representation la Medea de Mayr»: «Journal des Théâtres», 15 gennaio 1823.  Non fu l’unico caso, d’altra parte in cui cantanti ingaggiati a Parigi suggerirono il repertorio: era già accaduto probabilmente con I misteri eleusini consigliati da Gaetano Crivelli e Madame Sessi. Cfr. Jean Mongrédien, Giovanni Simone Mayr en France, in Giovanni Simone Mayr: l’opera teatrale e la musica sacra. Sulla vita musicale in Francia all’epoca delle rappresentazioni di Medea in Corinto cfr. anche Gérard Loubinoux, Gli adattamenti francesi di Rossini: il caso Castil-Blaze, in Gioachino Rossini. Il testo e la scena, Elisabeth Schmierer, L’Esthétique Française de l’opéra italien à Paris avant Rossini, La Musique à Paris dans les années mil huit cent trente cit. e Marie-Antoniette Allévy, La Mise en scène en France dans la première moitié du dix-neuvième siècleÉdition critique d’une mise en scène romantique, Genève, Slatkine Réprints, 1979. Ma offrono materiali ancora utili anche Albert Soubies, Le Théâtre Italien de 1801 à 1913, Paris, 1913 e Castil-Blaze, L’Opéra italien de 1548 à 1856, Paris, 1856. 114 Giuditta Pasta era già stata a Parigi nel 1817 e vi era tornata nel 1821, cfr. Giuditta Pasta e I suoi tempi. Nonostante la fama della cantate, la bibliografia su Giuditta Pasta è piuttosto scarsa: si possono però consultare con qualche utilità Kenneth A. Stern, A Documentary study of Giuditta Pasta on the Opera Stage (Italy), Ph.D. Diss., New York, 1983; Son Regina, son guerriera. Giuditta Pasta: donna italiana artista europea tra età neoclassica e romantica, Saronno, Comune di Saronno, 1997 e Kenneth A. Stern, Giuditta Pasta, in «Opera News», Levasseur, 1791-1871, aveva debuttato all’Opéra nella Caravane du Caire di Grétry nel 1813. Cantò poi al King’s Theatre di Londra in opere di Mayr, Paër, Winter e Mozart (Nozze di Figaro). Fu poi alla Scala nel 1820 (Don Basilio del Barbiere rossiniano) e si stabilì poi definitivamente in Francia dove cantò diverse opere di Rossini e creò le parti del protagonista del Moïse, del Governeur nel Comte Ory e di Walter nel Guillaume Tell. 116 Bordogni, 1788-1856, studiò a Bergamo con Mayr. Debuttò a Novara nel 1808, e cantò poi al Carcano (1814), Parma (1824, Tancredi), Napoli, Barcellona. Dal 1819 si stabilì a Parigi dove canto stabilmente al Théâtre Italien.

Nata Laure-Cinthie Montalant, 1801-1863, studia a Parigi e debutta al Théâtre Italien nel 1816 nella parte di Lilla della Cosa rara di Martín y Soler. Canta poi Cherubino nelle Nozze di Figaro. Nel 1819 è scritturata dal medesimo teatro come comprimaria. Nel 1822 canta a Londra. Rientrata a Parigi, canta in opere di Cimarosa, Fioravanti, Mozart, Rossini (Rosina). Lavora poi stabilmente per Le prime testimonianze dei lavori preparatorii per l’allestimento di Medea in Corinto risalgono al 13 dicembre 1822: agli archivi dell’Opéra sono conservati conti e ricevute per I costi di scenografia118. Le scene previste erano: Vestibule dans le palais du Roi Intérieur du Temple de l’Himen Appartement Royal 1er changement Souterrein 2em changement: Appartement Royal: vestibule de Roméo 3em changement. Prison: Prison de Tancréde 4em changement Appartement Royal, Décoration du 1er acte dernier changement: Palais en ruine. Nonostante i materiali parzialmente riciclati da altre opere, i costi per la scenografia ammontassero a 2.380 L., i più alti dopo quelli per La gazza ladra, Mosè in Egitto, Gli Orazi e Curiazi, Ricciardo e Zoraide, Il crociato in Egitto e Zelmira. Più al risparmio furono I costumi: un totale di 1.596 è superiore solo a Clotilde e Tancredi119. Dopo la riorganizzazione della Salle Louvois nel 1819, inoltre, l’orchestra era composta da 5 primi violini, 4 secondi, 2 viole, 5 bassi (contrabbassi e violoncelli), fiati.

L’opera restò in scena fino al marzo e garantì al teatro un alto numero di biglietti venduti. La versione di Parigi è testimoniata da alcune copie del libretto oltre che da un paio di partiture conservate alla Bibliothéque Nationale di Parigi di cui rendo conto nel  successivo. Tramite García, lo spettacolo di Parigi fu dunque derivato direttamente dalla versione napoletana: naturalmente non vi è traccia della revisione effettuata da Mayr per lo spettacolo scaligero, di poco successivo a quello parigino, ma neppure vengono qui accolte le variant introdotte nel 1821 a Bergamo. Con quest’ultimo la versione parigina condivide solo la soppressione della parte di Evandro, ma il dato non è particolarmente significativo trattandosi comunque di una parte poco valorizzata nel dramma di Romani.  Rispetto alla versione napoletana furono soppressi il dialogo tra Tideo e GIASONE  (I,4), la cavatina ‘Sommi dèi’, i dialoghi tra GIASONE  e Ismene (I,8), tra Creonte e Tideo (II,6), tra Tideo ed Evandro l’Opéra e, dal 1835, per l’Opéra Comique.  Dal 1843 intraprende intensi tours concertistici che la portano fino a New York. 118 Dossier d’oeuvre Medea in Corinto, AJ13, 136-137: cfr. Archives du Théâtre de l’Opéra, inventario a cura di B. Labat-Pouissin, Paris, Archives Nationales, 1977. In generale, a questo proposito si consulti Janet Lynn Johnson, The Théâtre Italien, Opera and Theatrical Life in Restoration Paris, 1818-1827, The University of Chicago, Chicago, Illinois. Sulla vita teatrale parigina in questi anni studi importanti sono Damien Colas, Les Annotations de chanteurs dans les matériels d’exécution des opéras de Rossini à Paris (1820-1860): contribution à l’étude de la grammaire mélodique rossinienne, 4 voll., thèse de doctorat, Université “François Rabelais”, Tours, 1997 e Albert Soubies, Le Théâtre italien au temps de Napoléon et de la Restauration, d’après des documents inédits, Paris, Librairie Fischbacher. Johnson a p. 232 discute l’inserzione dell’oficleide in Medea. 119 Dati tratti da Janet Lynn Johnson, The Théâtre Italien, Opera and Theatrical Life in Restoration Paris, 1818-1827 120 È evidente il riassestamento degli equilibri fonici rispetto alla prima napoletana, con il minor peso concesso ai bassi. Prima del 1819, comunque, anche a Parigi i bassi erano più accentuati: 5 primi violini, 5 secondi, 2 viole, sei bassi e fiati. 121 Ecco alcuni dati: 16 gennaio, 1400; 8 febbraio, 1511; 20 febbraio, 1368; 15 marzo, 1607; 22 marzo, 1333. Le repliche si tennero il 14, 15, 16, 23, gen., 8, 20 febb., 5, 22 marzo. (II,14); furono poi leggermente variati il breve monologo di Medea in I,7 e l’aria di GIASONE  in II,13. Varianti di rilievo compaiono nel second’atto. Qui l’originale duetto Egeo/Medea fu sostituito con ‘Ah! d’un alma generosa’, contraffatto da Adelasia e Aleramo. I libretti pubblicano il testo del duetto sostituito, le critiche del tempo ci confermano che fu effettivamente cantato, ma della musica completa non si trova traccia né a Bergamo né in altre partiture manoscritte: anche le partiture conservate a Parigi copiano il duetto originale ‘Se il sangue, la vita’. Del nuovo duetto abbiamo solo la riduzione per canto e pianoforte nello spartito edito a Parigi da Carli, probabilmente nello stesso 1823122, e un rinvio generic nella partitura conservata all’archivio Ricordi; in ogni caso il confronto tra lo spartito Carli e la partitura di Adelasia e Aleramo123 conferma che la musica del primo è pressoché identica a quella del duetto tra Aleramo (musico) e Ottone (tenore) nel second’atto dell’altra opera, salvo una maggior espansione della coda. Vale la pena di osservare che con il nuovo testo il duetto cambiò carattere: mentre l’originale rappresenta l’alterco tra due nemici, l’adattamento unisce due complici che si preparano alla comune vendetta.

Altra variante di rilievo introdotta a Parigi fu un balletto inserito nell’introduzione al secondo atto: se ne evince la presenza dalla partitura L.5844, che scrive «avec le ballet» sui pentagrammi ancora vuoti del coro in centro alla pagina e «Ballo» nella lunga introduzione all’aria di PRINCIPESSA CREUSA con arpa. Probabilmente per far spazio al ballo fu tagliata la parte central dell’aria di PRINCIPESSA CREUSA, l’Andantino non troppo sui versi compresi tra «Ma sola io riedonido beato» e fino «al tuo sen ritornerà». Sebbene fosse, per così dire, ospite di una beneficiata per García, Giuditta Pasta nella parte di Medea riscosse un successo travolgente. Lei avrebbe fatto propria quest’opera e da quel momento in poi ne sarebbe stata universalmente riconosciuta come l’interprete per antonomasia: è questo uno dei pochi casi dell’epoca in cui un’interprete si identifica in una parte, e l’opinione pubblica del tempo sovrappone il personaggio alla cantante124. Pasta 122 La copia conservata alla Public Library di New York ha un prospetto che annuncia la prossima pubblicazione delle opere di Rossini e chiarisce che «la souscription sera fermeé le 31 Décembre 1823…». Ho consultato la copia Boston Public Library M.41.1: Adelasia e AleramoMusicaDel Celebre Sig. Maestro Gio. Simone MaÿrEseguita in Milano nel Regio Teatro alla Scala il Carnevale dell’anno 1807Atto Secondo. Il duetto, in Si bemolle, ha questo testo: «ALERAMO – Che al mio bene, al mio tesoronieghi un sol de’ miei pensieri,il destino, ah non lo speri!fido sposo ognor sarò. | OTTONE – Nel vantarmi il tuo tesorol’ire mie domar tu speri:agl’accenti, a’ tuoi pensieriio silenzio impor saprò.ALERAMO – Viver da lei lontano?Taci … che idea d’orror!OTTONE – Sgombra -- l’affetto insano,disarma il mio rigor.ALERAMO – Sempre l’avrei sul ciglio,sempre l’avrei nel cor. | OTTONE – Ti giovi il mio consiglio,non provocarmi ancor!ALERAMO – Dove respiral’amato bene, | io sento il pesodi mie catene:per me la morteterror non ha.OTTONE – Dove respiral’amato bene, | tu senti il pesodi tue catene:te poi la mortetremar farà.ALERAMO – Là nell’estremo istantead onta tua, crudele,intrepido e fedeletu mi vedrai spirar.OTTONE – Là nell’estremo istantesordo alle tue querele,terribile e crudeleio ti vedrò spirar.» (Libretto di Torino 1808.)

John Rosselli discute casi di identificazione tra ruolo e cantante, e osserva che precedentemente potevano darsi simili casi di assimilazione, ma generalmente a prescindere da specifiche intonazioni. È solo con Giuditta Pasta che s’impone una sorta di esclusiva su una determinate soppiantò così Colbran come interprete d’eccellenzaed affermò di fatto un’esclusiva sull’opera: dopo l’allestimento parigino, con l’eccezione di Rm24, tutte le successive rappresentazioni dell’opera avrebbero visto Giuditta Pasta nei panni di Medea, da Parigi a Londra, da Napoli al Carcano di Milano. Nel 1850, infine, ormai ritiratasi dalle scene, la Pasta scelse quest’opera per una sorta di passaggio di consegne e presentare al pubblico londinese la sua allieva Teresa Parodi. A Londra, Giuditta Pasta si recò nell’aprile del 1824 per cantare Medea al King’s Theatre (oltre a Otello e Romeo). In quella stagione, tuttavia, non fu allestita l’opera di Mayr come da contratto, perché il programma comprese le “prime” inglesi di Romeo e Giulietta di Zingarelli, Zelmira e Semiramide di Rossini. Giuditta Pasta tornò nella capitale inglese nel 1825 e nel 1826 con Tancredi e Semiramide di Rossini, Romeo e Giulietta, La rosa bianca e la rosa rossa di Mayr, Nina di Paisiello. Medea in Corinto fu finalmente inscenata il primo giugno 1826. Nel cast, con lei, figuravano Matteo Porto (Creonte), Filippo(?) Torri130 (Egeo), Alberico Curioni (GIASONE ), Rosalbina Carradori Allan (PRINCIPESSA CREUSA), D. Angeli (Ismene), Deville (Tideo), Luigi Giovanola133 (Evandro; ma opera da parte di un interprete: cfr. Il cantante d’opera. Storia di una professione (1600-1990), Bologna, Il Mulino, e id., Sull’ali dorate. Il mondo musicale italiano dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 12 marzo 1850. È questo l’ultimo allestimento noto dell’opera: assieme a Teresa Parodi, nel ruolo di Medea, cantavano Belletti (Creonte), Calzolari (Egeo), Michelli (GIASONE ), Daifiori (Tideo), Giuliani (PRINCIPESSA CREUSA), Malpasuta (Ismene). Giuditta Pasta si recò a Londra apposta per seguire il debutto dell’allieva: cfr. K. Stern, Giuditta Pasta cit. 126 Cfr. Gioachino Rossini. Lettere e Documenti e Giuditta Pasta e i suoi tempi. Le altre opere rappresentate quell’anno furono Il barbiere di Siviglia, La donna del lago, Otello, Ricciardo e Zoraide, Tancredi e Il turco in Italia di Rossini, Don Giovanni e Le nozze di Figaro di Mozart, Il fanatico per la musica di Paër. Cfr. Theodore Fenner, Opera in London. Views of the press 1785-1830, Southern Illinois University Press.  Ecco le date esatte delle rappresentazioni londinesi e i cast successivi al 1830. 1826: 1, 3, 10, 17, 20, 24 giugno, 8, 22, 29 luglio. 1827: 22, 14 maggio, 21, 23 giugno, 12, 24 luglio; 1828: 12, 17, 24 giugno, 5, 15 luglio, 2 agosto. 1831: 12, 14, 17, 20, 31 maggio con Fanny Ayton, Giovan Battista Rubini, Luigi Lablache, Giuditta Pasta. 1833: 1 maggio, senza repliche, con Giuditta Pasta, Emilia De Méric, Giovanni Battista Rubini, Antoni Tamburini. 1837: 6 luglio senza repliche, con Giuditta Pasta, Livia Giannoni, Giovanni Battista Rubini, Alberico Curioni, Luigi Lablache; 1837: 13 luglio al Covent Garden con Giuditta Pasta, Livia Giannoni, Giovanni Battista Rubini, Alberico Curioni, Luigi Lablache. Matteo Porto esordì a Triste nel 1801 in Fra i due litiganti il terzo gode di Fioravanti.  Cantò poi al Carcano di Milano, a Genova, Venezia, Roma. Dal 1810 al 1818 lavorò a Parigi come primo basso buffo.  

Fu Faraone nella prima del Mosé di Rossini a Napoli nel 1819.  Dal 1823 lo si trova a Londra.  Si ritira dalle scene dopo il 1834. Di Torri, forse il medesimo Filippo incontrato nella cronologia del Teatro della Società di Bergamo, si hanno poche notizie se non che nel 1820 era considerato dal «Morning Chronicle» dotato di voce molto debole sebbene di qualità buona.  La sua maniera di cantare mostrava una scuola superiore benché l’esecuzione risultasse tediosa ed eccessivamente elaborata: mancava di flessuosità, compensate dalla perfetta intonazione (Gioachino Rossini. Lettere e documenti). Curioni, 1785-post1860, era a Parma nel 1815 dove creò un caso di ordine pubblico contestando il pubblico parmigiano che lo fischiava. È poi al Teatro dei Fiorentini a Napoli. Dal 1824 va al seguito di Rossini nella tournée londinese.  Più volte Rossini lo segnalò a Parigi per essere scritturato. Carradori, 1800-1865, nasce a Milano, dove studia.  Iniziò la carriera in Francia e in Germania e debuttò a Londra nel 1822.  Fece poi grande carriera negli anni ’30 quando cantò nei Capuleti e Montecchi di Bellini. nella pagina a fronte, in inglese, Giovanola è indicato come «a priest» ed Evandro non figura, così come in effetti non appare nel testo del libretto134. Rientrata a Parigi nell’agosto 1826, Giuditta Pasta cantò Otello, ma scelse Medea in Corinto per la sua beneficiata del 18 ottobre all’Opéra135. Da Parigi Giuditta Pasta si recò poi a Napoli, dove, presentata come erede della Colbran, cantò un repertorio costituito da opera appositamente scritta per l’ex prima donna del San Carlo: Medea, Gabriella di Vergy di Carafa e Zelmira di Rossini.  L’8 novembre 1826 l’opera di Mayr risuonava ancora al San Carlo. Poi ancora a Londra nel 1827-28, a Milano, al Carcano, nel 1829 ed infine ancora Londra per diversi allestimenti nel 1831, 1833, 1837, 1850. Con la vistosa eccezione di quella al Carcano di Milano, tutte queste riprese furono derivate dalla versione presentata a Parigi nel 1823, soprattutto per quanto riguarda la parte di Medea e l’inclusione del duetto tratto da Adelasia e Aleramo.  Su quell’impianto, ciascun teatro apportò modifiche più o meno rilevanti, delle quali non ho tuttavia individuate testimoni musicali completi. Da quanto si evince dai libretti, Londra sostituì interamente l’aria di Egeo nel prim’atto con una nuova, ‘Dolce fiamma del mio cuore’ dalla struttura metrica più articolata e probabilmente adeguata ad una tripartizione nella foggia della solita forma.  Il maggior peso vocale che doveva avere quest’aria compensò Egeo della perdita dell’aria nel second’atto, l’aria di prigione.

La versione londinese, come poi quella napoletana e del Carcano, passa infatti direttamente dalla scena di Egeo al duetto ‘Ah d’un’alma generosa’. A Londra fu sostituita anche l’aria di PRINCIPESSA CREUSA introduttiva al second’atto.  Una rielaborazione del testo originale di Romani consentì di separarla dal coro introduttivo con pochi versi sciolti e poi di articolarla in foggie compatibili con la solita forma.  L’idea di scorporare dall’originaria introduzione a più sezioni un’aria autonoma per PRINCIPESSA CREUSA era già stata realizzata Cantava a Bologna nel 1816, poi si trasferì a Parigi, dove tenne parti di secondo piano.  Nel 1826 e 1827 è scritturato dal King’s Theatre di Londra.  Nel 1837 si trova a Napoli in estreme difficoltà economiche. La situazione dei libretti di Londra è piuttosto complessa: ce ne restano tre relativi alle rappresentazioni del 1826-28.  Altre due copie sono più tarde, probabilmente non funzionali a specifici allestimenti ma vendute come copie da biblioteca, sebbene riportino i nomi dei cantanti dell’edizione che assumono a modello.  Salvo il cast, tuttavia, il testo è pressoché identico in tutte le copie. Nel 1827 vengono solo corretti alcuni errori di stampa rimasti nell’edizione del 1826.  Se ne veda l'elenco nelle note introduttive alla edizione critica del libretto. Cfr. Son Regina, son guerriera cit.  È questa l’unica serata documentata in cui quest’opera di Mayr fu allestita nel principale teatro parigino.  Al riguardo cfr. anche Gioachino Rossini lettere e documenti. Cfr. Gioachino Rossini. Lettere e documenti. Una documentazione adeguata di tutti gli spostamenti di Giuditta Pasta, ricostruiti grazia all’epistolario e ai contratti, si trova in Giuditta Pasta e i suoi tempi cit., a cui rimando. Di quest’aria non ho trovato alcuna partitura; solo due trascrizione cameristiche coeve in The Favourite Airs in Mayr’s Opera of “Giasone e Medea in Corinto”: Book I arranged for the Piano Forte with an Accompaniment for the Flute by F. Latour Pianiste to his Majesty, London, F. T. Latour, 1826, in cui è presente anche la trascrizione dell’aria originale), e nel secondo dei tre volumi complessivi di The Favourite Airs in Mayr’s opera of “Giasone ae Medea in Corinto” / [music by] J. S. Mayer; arranged for two performers on the -- a Bergamo e Milano, ma evidentemente a Londra non ne avevano avuto notizia o materiali da utilizzare: è una conferma che la circolazione europea dell’opera prescindette dagli autori e fu dovuta alla sola Giuditta Pasta.  Anche l’aria di GIASONE  nel second’atto subì modifiche. Il coro non interviene a metà dell’aria con la notizia della morte di PRINCIPESSA CREUSA ma apre invece la scena. Di conseguenza, GIASONE inizia il suo numero musicale già in preda alla disperazione per poi proseguirlo negli stessi termini della versione originale dell’opera. A Napoli fu soppressa tutta l’introduzione al second’atto. Il sipario si aprì direttamente sul rapido dialogo tra PRINCIPESSA CREUSA, Tideo e Creonte (II,3), per poi passare all’aria dello scongiuro di Medea.  

Non venne nemmeno ripristinata l’aria di prigione di Egeo, e si ridusse a una sola sezione la nuova aria di GIASONE  nel second’atto confezionata a Londra: il coro è sostituito da un breve dialogo con Tideo, e la seconda parte dell’aria, quella in cui la versione londinese riconfluiva nell’originale del 1813, cadde senza residui. Stralcio, dall’edizione critica pubblicata in questa dissertazione, le tre versioni del testo dell’aria di GIASONE  del second’atto: pianoforte by J. F. Burrowes, London, Chappel, s. d. L’aria originale fu ripristinata a Londra solo nell’allestimento del 1850. Na13 L26 Na26 GIASONE:  Grazie, nume d’amor! è alfin compito d’imene il sacro rito.  PRINCIPESSA CREUSA, amato bene, oh quanto accrebbe quella gemmata vesta lustro al tuo bel sembiante!  Eccomi al colmo d’ogni contento mio; gioire in pace or mi lascia Medea. Virtù, bellezza, ciò che più il mondo apprezza m’è dato possedere in lei che adoro. Or chi fia che m’involi il mio tesoro? Amor, per te penai; per te più non sospiro; la pace al cor donai: per te respiro - amor. VOCI DI DENTRO: Accorrete. O tradimento. O perfidia, Oh don funesto. GIASONE : Giusti dei! che pianto è questo? Quale in sen mi desta orror. SCENA 13 Donzelle, corinti. GIASONE . DONZELLE: O noi sventurate. COR. O regno dolente. GIASONE : Che avvenne? Parlate. DONZELLE PRINCIPESSA CREUSA innocente… GIASONE : Ohimè, la consorte. CORO: in braccio di morte, la veste fatale. TUTTI: veleno mortale in sen le portò. CORO: Signor, oh tradimento, entrando frettoloso. PRINCIPESSA CREUSA in braccia a morte, oh dura, e cruda sorte, or già sta per spirar. GIASONE : Ohimè, sstelle, che sento, qual fulmine sul cor dal ciel mi piomba. L’alma, agitata in sen da fier dolore tutta qui s’abbandona al suo furore. Smarrita quest’alma fra sdegno e dolore non vive, non more fra mille tormenti di sorte spietata di morte crudel. TIDEO, confidente di GIASONE : Ah, signor, tu non sai, deh va, t’affretta. GIASONE : Che fu. TIDEO: La tua consorte misera, in preda a morte, quella veste fatal, crudo veleno a lei recò nel seno, ahi, fiero evento. GIASONE :  Sommi numi del cielo, himè,  che sento?  Smarrita quest’alma, fra sdegno e dolore,  non vive, non more  fra mille tormenti di sorte spietata, di morte - crudel.  Parte agitato.  GIAS. Io moro. S’abbandona; il coro lo circonda e lo sostiene. TUTTI: Infelice! il cor gli mancò. Dopo qualche pausa. GIASONE  Dove sono?  Chi mi desta?  Sole, ancor per me risplendi? Cara sposa! oh dio!  M’attendi: sul tuo petto io morirò.  In atto di partire, il coro lo trattiene. Lasciatemi, o barbari… seguirla vogl’io CORO No: vivi; la vendica. GIASONE :  Atroce, il cor mio vendetta farà. Ohimè! Più non spero in vita riposo. Ho tutto perduto, non sono più sposo, orrendo sul ciglio un velo mi sta.  Parte seguito da’ corinti, e dalle donzelle.  Dove son? Chi mi desta? Sole, ancor per me risplendi?... Cara sposa! oh dio! m’attendi: sul tuo petto io morirò. In atto di partire, il coro lo trattiene. Lasciatemi, o barbari… seguirla vogl’io CORO: No: vivi; la vendica. GIASONE : Atroce, il cor mio vendetta farà. Ohimè! Più non spero in vita riposo… Ho tutto perduto, non sono più sposo… orrendo sul ciglio un velo mi sta. Rispetto a Parigi e Londra, l’allestimento napoletano ripristinò i dialoghi tra Tideo e GIASONE  (I,4) e tra Creonte e Tideo (II,6); ridusse infine leggermente il recitativo precedente al duetto Medea/GIASONE  (I,9). Nel cast, oltre a Giuditta Pasta, figuravano Raffaele Benedetti139 (Creonte), Giuseppe Binaghi (Egeo), Gio. Winter Calvari (GIASONE), Carolina Unger (PRINCIPESSA CREUSA), Almerinde Mazzocchi (Ismene), Gaetano Chizzola (Tideo), Antonio David (Evandro)140. Dopo quell’anno Mayr ebbe diverse richieste per allestire l’opera. Medea in Corinto fu richiesta a Trieste all’inizio del 1828 e a Pisa alla fine di quello stesso anno 141.  L’Accademia Filarmonica di Torino, dal canto suo, aveva già previsto un’esecuzione del Finale I dell’opera nel 1827 142.  Non esistono libretti relativi a esecuzioni in queste città, e ciò fa pensare che tali progetti non abbiano avuto buon esito.

Come detto, tutte le rappresentazioni cantate da Giuditta Pasta adattano l’originale napoletano del 1813, mediato dalla versione parigina del 1823, alle convenzioni operistiche diffuse negli anni ’20 o alle particolari condizioni di ciascun cast.  Solo la versione rappresentata al teatro Carcano si rifà invece direttamente anche alle versioni di Bergamo e della Scala di otto e sei anni prima; è forse l’unica versione cantata da Giuditta Pasta che si sia avvalsa della diretta collaborazione di Mayr, come sembra indicare una lettera della cantante in data 3 aprile 1829.  Di ritorno da Vienna, Giuditta Pasta prega il maestro di recarsi a Milano per «combinare il miglior modo con cui si possa produrre l’opera.  Restarono, così, le due nuove introduzioni e la cabaletta della prima aria di Egeo inserite a Bergamo e alla Scala; come a Parigi, il duetto Medea/Egeo introdotto da Giuditta Pasta; come a Londra, infine, cadde la seconda aria di Egeo.  La variante più significativa introdotta a Milano fu la riformulazione della cavatina di GIASONE  del prim’atto. Pochi versi aggiunti consentirono innanzitutto di separare con versi sciolti l’aria dal coro precedente e poi di creare una sorta di Cantava nel 1819 a Palermo, poi a Bergamo nel 1822 come Faraone nel Mosè di Rossini. Va a Londra nel 1824. Le repliche si tennero l’8, 11, 15, 30 novembre, 1 dicembre, 2 febbraio, 14 marzo. Cfr. Girolamo Calvi, Di Giovanni Simone Mayr, ma si veda anche la corrispondenza di Mayr in Lettere, salone 9/3/2, n.165, dove l’Agenzia teatrale di Pietro Camurri e Compagni il 4 ottobre 1828 sollecita su carta intestata il compositore a sciogliere le riserve circa un’ipotizzata rappresentazione pisana dell’opera. Lettere, salone 9/3/2, n. 9: G. Billotti, presidente dell’Accademia Filarmonica di Torino, il 6 aprile 1827, informa di aver ricevuto il Finale di Medea, che ha eseguito all’Accademia.  Gli accademici s’erano convinti ad eseguirlo dal successo della precedente esecuzione del finale dei Misteri eleusini.  Nello stesso faldone si trova una lettera dell’8 dicembre 1831, n. 598, in cui Ricordi chiede lo spartito di Alfredo il grande che si dà nel teatro di Londra: in post scriptum si raccomanda per lo spartito di Medea. 143 Lettere a Mayr, Biblioteca Civica “A Mai” di Bergamo, salone 9/3/2, n. 524.

Mayr peraltro assistette alla prima ripresa dell’allestimento del Carcano: lo conferma «Il censore universale dei teatri» del 24 giugno 1829, che racconta che «tutta l’approvazione … dedicata era nondimeno nel suo complesso all’eroina della festa [Pasta], la quale poi con esuberanza di cortesia e di modestia divisa la volle co’ suoi compagni non solo ma anche col maestro medesimo da lei presentato a’ suoi spettatori, i quali certamente grati le furono d’aver loro offerto una sì bella occasione per acclamare il padre benemerito di questa e di tante altre sublimi sue proli». tempo di mezzo tra il cantabile e la cabaletta 144.  Il cast contava, oltre a Giuditta Pasta, Matteo Porto (Creonte), Luigi Duprez (Egeo), Gio. Battista Montresor (GIASONE ), Alessandrina Duprez (PRINCIPESSA CREUSA), Antonietta De Farina (Ismene), Giovanni Boccaccio (Tideo).  La vera attrattiva dello spettacolo fu comunque l’interpretazione della parte di Medea. Giuditta Pasta si presentava al Carcano con un repertorio notevolmente datato. Semiramide, Tancredi, Otello e Medea in Corinto costituivano un cartellone ormai inadeguato per un teatro ambizioso com’era il Carcano di quegl’anni 146, se non fosse che presentava i grandi successi del soprano di cui tutt’Europa parlava 147.  In qualche maniera, il Carcano proponeva opere italiane per aggiornare il pubblico italiano su un evento teatrale e culturale che si era svolto e aveva preso forma fuori d’Italia.  La critica non mancò di sottolinearlo. La Pasta sulla scena è un personaggio storico chi avrebbe creduto che quella di tanti palpiti, divenuta da vent’anni sì popolare, dovesse sul labbro di lei ricevere nuova vita? ringiovanire opere che da tanto tempo restano nell’orecchio del pubblico non è più un problema.  Il segreto sta nel possedere il talismano operatore del miracolo.  Ed il talismano è la Pasta, una di quelle meteore che ben di rado appariscono a illuminare l’orizzonte teatrale.In questo clima, perfino la vetusta e dotta Giasone e Medea in Corinto poteva essere accettata.

Del resto a giudicare la Pasta nella pienezza dei suoi mezzi e diremo pure nel maggior suo splendore, siam persuasi che debbasi aspettare di vederla e d’udirla in Tancredi e in Romeo e Giulietta, senza parlar del personaggio di Medea, ch’ella affeziona in particolar modo, e nel quale è da credere che sovrasti a quanti l’anno preceduta, e che comunque valente, non basterà ad alzare in Su questa riformulazione cfr. Philip Gossett e Jeremy Commons.  Essi tuttavia la datano alla rappresentazione scaligera del 1823, sempre per non aver potuto consultare la partitura conservata al Conservatorio di Milano.  Più recentemente se ne è occupato, senza addentrarsi in problemi di datazione, Saverio Lamacchia, “Solita forma” del duetto o del numero? L’aria in quattro tempi nel melodramma del primo Ottocento in «Il Saggiatore musicale».  Nelle note critiche che accompagnano la registrazione della Medea in Corinto effettuata da Opera Rara (ORC, 1994), Jeremy Commons fornisce alcuni dati interessanti sulla ripresa scaligera del 1823.  Per l’occasione, Mayr riscrisse la cavatina di GIASONE. More martial and emphatic than the original 1813 aria, it is also more demanding and vocally effective.  The revision almost certainly represents a wish to enhance GIASONE ’s impact upon his first appearance. Decisivo in questo senso dovette essere, credo, la trasformazione della prima sezione in un tempo d’attacco sul tipo delle arie rossiniane.  Che il tempo d’attacco nella cavatina d’un guerriero fosse un topos diffuso in quegli anni, lo dimostra il fatto che tale sezione d’esordio è la stessa – con poche modifiche nella linea vocale e nell’orchestrazione – della cavatina di Almuzir (tenore eroico anch’egli) nella Zoraide di Granata di Donizetti (Roma, 1822).  La circostanza rende incerta, secondo Commons, la paternità di tale brano. La datazione che si propone per il rifacimento di quest’aria non inficia il discorso di Lamacchia, ma risolve il dubbio di paternità posto da Commons. Se davvero esiste un rapporto tra la cavatina di Donizetti e quella di Mayr, va comunque intesa come prestito dall’allievo al maestro. Repliche il 21, 23 giugno e 11 luglio. Sulla storia del Teatro Carcano, cfr. Beniamino Gutierrez, Il Teatro Carcano (1803-1914). Glorie artistiche e patriottiche. Decadenza e resurrezione, Milano, 1916, ed. an. Bologna, Forni. È esplicito in questo senso «Il censore universale dei teatri» del 24 giugno 1829, che osserva: «Senza quindi riflettere alla saggezza che aveva concepito questo capo d’opera, ed alla dottrina che lo aveva elaborato, e giudicandolo dal solo strepitoso suo effetto si permisero varie altre imprese d’ottenerne un eguale anche con inferiori, o per lo meno non egualmente bene assortiti mezzi d’esecuzione … Coll’assistenza dello stesso compositore e col sostegno di mad. Pasta si suppose di poterla risvegliare in questa occasione al Teatro Carcano, senza calcolare il valore dell’orchestra di S. Carlo e del suo egregio direttore sig. Festa, senza calcolare il merito di quei due eccelsi tenori. Ampio risarcimento ad ogni discapito sembrava il talent declamatorio di quella cantante-attrice, che aveva qui stancato tante palme e tante gole per acclamarla, che avea in antecedenza riportato varie delle sue belle corone con quest’opera stessa presso gli oltramontani». gran fama un’opera che gli intelligenti reputano come una delle più belle fatture di Mayr, ma che il pubblico non ha mai applaudito con entusiasmo.

La Pasta sola è riuscita in un’opera dove la musica si ammira più che non piaccia, a far eccezione perché la Pasta è un’eccezione ella stessa, e trionfa là dove la composizione non pare fatta per far brillare i cantanti, nel senso in cui si vuole che brillino. Il cliché dell’opera esemplare, d’ammirevole maestria compositiva, ma un po’ noiosa e inadatta al repertorio corrente, era stato cucito addosso a Giasone e Medea in Corinto fin dalla prima esecuzione napoletana. Quel cliché suggella anche la circolazione italiana 16 anni dopo. Al di là della stima indubbia che la circondava, Medea in Corinto non fu davvero mai accettata toto corde dal mercato operistico italiano, ed anche fuori d’Italia era diventata soprattutto l’occasione, il canovaccio, per ammirare Giuditta Pasta esprimere il suo celebre «Io». Conviene dunque esaminare più in dettaglio che cosa abbia significato negli anni ’20 la recitazione di Giuditta Pasta, capire come la sua interpretazione abbia potuto trasformare radicalmente la pratica operistica italiana del decennio seguente ai suoi trionfi al Carcano.  Opere come Anna Bolena, Sonnambula o Norma devono probabilmente molto alla sua presenza, e s’affidano notevolmente alle sue «creazioni», come le definì Stendhal nella Vie de Rossini. Conviene farlo, ma occorre prima svolgere un esame accurato delle partiture a lei destinate, e soprattutto delle varianti e delle cadenze dal lei inserite.  

Lo studio della recitazione e dello stile di canto, della third line151, è infatti la dimensione più sfuggente e incerta che lo storico dell’opera può affrontare: per la sua vaghezza, per il rischio che corre di smembrarsi in aneddotica, raccolta celebrativa di lodi dei giornali coevi, insomma di tramutarsi in agiografia152. Eppure andrà prima o poi tentato da una storiografia del teatro d’opera che non voglia limitarsi a essere storia di testi, ma anche storia di eventi, perché l’impatto della recitazione di Giuditta Pasta sull’opera italiana del «Gazzetta di Milano», aprile-maggio 1829 citata in Beniamino Gutierrez, Il Teatro Carcano (1803- 1914). Glorie artistiche e patriottiche. Decadenza e resurrezione Questo paragrafo è stato elaborato durante un soggiorno di ricerca alla Brown University che mi ha ospitato come Researcher. Ringrazio la Brown per avermi offerto questa possibilità e sono grato a Don Wilmeth, chairman del Theatre, Dance and Speech Department, che mi ha fornito una preziosa e vastissima bibliografia sulla recitazione teatrale tra Sette e Ottocento. Un lavoro analogo a quello svolto sul repertorio rossiniano allestito a Parigi da Damien Colas, Les Annotations de chanteurs dans les matériels d’exécution des opéras de Rossini à Paris (1820-1860) cit. Cfr. Daniel Helfgot e William Beeman, The Third Line. The Opera Performer as Interpreter, New York-Toronto, Schirmer-Macmillan, 1993. È un rischio in cui molto spesso cade la bibliografia su Giuditta Pasta, forse con la sola eccezione di Kenneth A. Stern, A Documentary Study of Giuditta Pasta on the Opera Stage (Italy) cit.  Sulla quantità di mezzi necessari per ricostruire anche un solo dettaglio della third line, cfr. il saggio esemplare di Marco Beghelli, Il «do di petto». Dissacrazione di un mito, in «Il Saggiatore musicale», Si veda anche il catalogo della mostra La tempesta del mio cor. Il gesto del melodramma dalle arti figurative al cinema, a cura di Giovanni Godi e Carlo Sisi, Parma, Palazzo della Pilotta 5 maggio - 29 luglio 2001, Milano, Mazzotta.  tempo ebbe davvero rilievo «storico».  Lo dimostra lo stupore perplesso di Donizetti quando ascoltò l’attrice-cantante nella Medea napoletana del 1826: La Pasta ha fatto in Napoli il suo debut colla sublime Medea.  L’esito della musica fu ancora più brillante di quello della cantante.  Mi spiego. Il duo con GIASONE  (Vinter), sebbene poco unito, fu applauditissimo dalla corte e dal pubblico, il sempre divino finale fece il solito fanatismo ed il duetto con Egeo moltissimo effetto.  La gran scena de’ figli la credette più agita che cantata. Ma la musica supplì a ciò che sembrava lasciarsi dalla cantante.  

E la Pasta fu nullameno applauditissima. Vi sono però due partiti intorno all’abilità di questa gran donna: chi la protegge per osto de’ Franchi e de’ Britanni; e chi è avversario per costume, e la disapprova appunto per questo.  Il fatto sta che col tempo essa trionferà di tutti e finirà col piacere a tutti, e per suo gran merito, e perché così è Napoli. Nonostante il fanatico entusiasmo con cui Stendhal ci ha descritto l’attrice, Donizetti dimostra tutte le riserve che essa suscitava al suo orecchio esperto e a chi era avvezzo alla tradizione operistica e belcantistica italiana. Non fu forse un caso che, come lamenta Stendhal, Rossini non scrisse una sola nota per lei (all’infuori del Viaggio a Reims).  Il suo timbro ineguale, la sua non perfetta intonazione, le discontinue qualità vocali sono denunciate abbondantemente in tutte le critiche del tempo: più severe in Italia, più condiscendenti in Inghilterra e Francia, ma comunque unanimi.  Eppure tutto ciò non le impedì di trionfare e di piacere a tutti, e non solo a Napoli ma anche a Milano, Venezia e in tutte le maggiore piazze italiane, ed essere alla fine destinataria delle maggiori opere dello stesso Donizetti e di Bellini. Approfondire queste tematiche esula dagli sforzi che ho convogliato nella ricostruzione delle vicende di produzione e recezione di Medea in Corinto, ma qualche traccia di ricerca può essere qui abbozzata. Lettera a Mayr citata da Girolamo Calvi, Di Giovanni Simone Mayr La recensione dello spettacolo steso dal «Monitore delle due Sicilie» il 10 novembre di quell’anno conferma i dubbi di Donizetti. Non deve quindi recare meraviglia che presso il pubblico napoletano il primo incontro della sig. Pasta non sia stato proporzionato all’alta rinomanza che aveala preceduta. Essendosi ella ritrovata jersera la prima volta in un teatro immenso qual è quello di S. Carlo, alla presenza d’una corte che può servire di suprema ed infallibil norma nel gusto della musica, e del pubblico di Napoli uso da secoli ai portent dell’armonia e il più tremendo giudice in tutti i rami dell’arte musicale, dovea la signora Pasta provar un involontario sconcerto ed infatti il suo scompiglio fu visibile fino a che i plausi delle auguste Persone seguiti da quelli degli spettatori non sopravvennero opportunissimi a rincorarla e a risvegliar l’energia delle sue facoltà. Il suo scompiglio però, se da un lato impedivale di spiegar tutti i naturali suoi pregi, tornava dall’altro a somma gloria del suo carattere morale. Un bell’ardire può piacere talvolta, ma il merito vero che diffida di se stesso piace sempre ed è degno di maggior lode. Noi non abbiamo la temerità di decidere se il pubblico abbia ragione o torto nel non aversi formato della Signora Pasta un’idea non appieno corrispondente alle qualità che come cantante in lei sono state sì decantate, e se il suo giudizio sia precipitato non avendola ascoltata che una sola volta e in un’opera sola. Esso non le nega né una voce accostantesi al contralto e che sarebbe bellissima se non fosse osiam dire alquanto velata specialmente ne’ bassi, né un arte severa nel servire la parola senza estranei ornamenti. Tutti intanto si accalorano nel riconoscere in lei una attrice maravigliosa e d’una tragica dignità superiore a qualunque elogio.

Ella giunge perfino al sublime negli slanci delle grandi passioni. Noi notammo vari di questi momenti inapprezzabili e testimoni infallibili del genio dell’artista; ma giova il riferirne uno che ci penetrò tutto il tragico terrore. È superfluo dire che in lei gli abbigliamenti, il gesto, il portamento, il guardo, tutto annunziava Medea; ma ella ci mostrò Medea tutta quanta era nel punto in cui viene a conoscere l’effetto della magica avvelenata veste sull’abborrita rivale. Nel pronunciare le parole «io non son sazia ancora» ella si atteggiò in quella terribile tranquillità del furore che sempre precede le più atroci deliberazioni dell’anime disperate, ed ebbe l’arte di far leggere in un rapido istante sul suo volto tutta la estensione della più fiera delle umane vendetta. Inizialmente, Giuditta Pasta non si era formata come attrice.  Nei primi anni della carrier nessuna recensione l’ammira con toni particolari o la distingue dalle altre prime donne155; neppure I giornali inglesi degli anni del debutto londinese (1817) sottolineano questa peculiarità; della poi leggendaria energia tragica non v’era traccia, se quando dovette cantare la parte di Cherubino nelle Nozze di Figaro diede un’interpretazione lacrimevole e sentimentale e rallentò eccessivamente il tempo dell’aria ‘Non so più cosa son cosa faccio’156. Solo nel corso della stagione parigina del 1822-23, ma in particolare durante il soggiorno inglese del 1824157 la sua recitazione cominciò ad essere notata in termini che si discostano dagli usuali elogi a cantanti stimati: la stampa londinese fu infatti stupefatta della trasformazione di Giuditta Pasta rispetto al 1817, quando era stata considerata nothing more than an interesting girl with expressive black eyes. Al suo rientro a Parigi, tra il novembre 1824 e l’aprile 1825, le critiche le riconobbero unanimi un netto miglioramento delle qualità sceniche159.  La stampa inglese del 1826-28 prese a definirla «the lyric Siddons» o «the Siddons of Opera», e a riportare aneddoti sulla stima che di lei nutriva la stessa Sarah Siddons.

Queste definizioni e l’analoga terminologia usata per definire le interpretazioni delle due artiste, entrambe vere «copie della natura», ha spinto a considerare Pasta e Siddons come ultime epigoni di una recitazione statuaria, classica nelle forme, secondo tecniche inaugurate da Garrick a metà Settecento e trionfanti, almeno in Inghilterra, nel teatro dei Kembles.  Non conviene però fidarsi ciecamente di queste definizioni: sappiamo bene 154 Stendhal, Vita di Rossini, Firenze, Passigli, 1990. 155 Cfr. la rassegna degli articoli proposta da Kenneth A. Stern, A Documentary Study of Giuditta Pasta on the Opera Stage (Italy) cit. e in Giuditta Pasta e i suoi tempi. Memorie e lettere raccolte a cura di Maria Ferranti Nob. Giulini cit.: fino al 1818 i termini enfatici con cui è descritta non si distinguono dal repertorio consueto col quale venivano apprezzate le prime donne. Talvolta si notano però vere stroncature o successi di stima per potenzialità ancora inespresse. In alcuni casi essa è ignorata («Times» nella recensione di Così fan tutte, dove Pasta era Despina) o le si consigliano lezioni di recitazione («Les Annales politiques, morales et littéraires» del 23 giugno 1816).

La stessa scrittura a Parigi da parte di Päer – che ella incontrò personalmente a Milano nel gennaio del 1816 – fu precedente al suo debutto e molto cauta: sei mesi di prova in parti secondarie, ricontrattabili a giudizio del pubblico. 156 Cfr. al proposito Kenneth A. Stern, A Documentary Study of Giuditta Pasta on the Opera Stage (Italy).  La cautela con cui vanno trattate le cronache giornalistiche e la loro terminologia è nota, ma questo non ci autorizza a rimuoverle completamente in sede storiografica: esse offrono comunque dati di ricezione del tempo. Tale materiale può essere considerato alla stregua delle tradizioni orali, il cui valore come documentazione storica è stato dimostrato per esempio da Alessandro Portelli in studi come Biografia di una città: storia e racconto. Terni 1830-1985, Torino, Einaudi, 1985, The Death of Luigi Trastulli, and Other Stories: Form and Meaning in Oral History, Albany, State University of New York Press, 1991, e The Text and the Voice: Writing, Speaking, and Democracy in American Literature, New York, Columbia University Press, 1994. «The Examiner», 2 maggio 1824; a dire il vero, nella stagione precedente più degli occhi della Pasta il critico, William Hazlitt, ne osservò le «very handsome legs» (19 gennaio 1817, corsivo originale). Sull’incidenza, nel successo di una cantante, del fascino erotico che emanava soprattutto dai ruoli en travesty cfr. John Rosselli, Il cantante d’opera e Kathy Fletcher, Planché, Vestris, and the Transvestite Role: Sexuality and Gender in Victorian Popular Theatre, in «Nineteenth Century Theatre». Kenneth A. Stern, A Documentary Study of Giuditta Pasta On The Opera Stage (Italy). Cfr. Kenneth A. Stern, Giuditta Pasta -- quanto l’idea di ‘copia della natura’ possa essere stata generica e propria di più diverse estetiche161; L’aggettivo «siddoniano», dal canto suo, era già entrato nel gergo teatrale negli anni ’80 del Settecento per indicare una recitazione straordinaria: quarant’anni dopo era già ampiamente Usurato 162.

Qualcosa dovette accadere negl’anni fra la prima e la seconda tournée di Giuditta Pasta in Francia e Inghilterra.  Tornata in Italia nell’autunno 1817, Giuditta si fermò diversi mesi a Milano, dove concluse la gravidanza dell’unica sua figlia: in quei mesi potrebbe aver avuto rapporti frequenti con l’amica, e quasi parente, Antonietta Pallerini 163, appena consacrata star della compagnia di Salvatore Viganò dal successo della coreotragedia Mirra.  Se anche non frequento vere e proprie lezioni di recitazione con Antonietta Pallerini, certamente l’amica dovette contribuire alla sua peculiare identità d’attrice164. L’analogia della recitazione della Pasta con la pratica del ballo venne còlto dai critici inglesi all’epoca della sua seconda tournée: il «Quarterly Musical Magazine» del 1826 osservava: The Medea of this great actress as well as singer was one of the most classical illustrations of classic antiquity the stage has ever boasted.  Few indeed are the triumphs of a similar kind which opera can shew, while they are the continual attributes of the two other species of dramatic entertainment – the tragedy and the ballet. It is a peculiar praise of Madame Pasta, that she united to a great degree the several excellences of the drama, the opera and the ballet.  Mind, voice, and action, all combined to render this performance complete, and it would be difficult to say which was most predominantly striking.  Musicians have left the King’s Theatre, without any recollection of the musical traits – so powerful were the effects of the conception and the acting, while persons whose main attention has been given to the drama have been chiefly moved by the admirable art of the singer.

Oltre ad Antonietta Pallerini, Giuditta frequentò forse Giuseppe De Marini166 (1772-1829). Pur nei diversi àmbiti scenici, entrambi questi attori incarnavano un genere di recitazione Sull’imitazione della natura nella recitazione settecentesca, cfr. Denes Barnett, The Art of Gesture: The Practices and Principles of 18th Century, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag, Cfr. Michael R. Booth, John Stokes, Susan Bassnett, Three Tragic Actress. Siddons, Rachel, Ristori, Cambridge, Cambridge University Press. Della quale ci resta una lettera confidenziale a Giuditta Pasta pubblicata in Giuditta Pasta e i suoi tempi cit., p. 17. Su Antonietta Pallerini cfr. Fabrizio Frasnedi, Il genio pantomimico: i fantasmi del ballo d’azione, in Il sogno del coreodramma. Salvatore Viganò, poeta muto, a cura di E. Raimondi, Bologna, Il Mulino, che esamina anche i rapporti tra le due artiste. I rapporti tra Giuditta Pasta e Antonietta Pallerini furono già evidenziati da Stendhal, Vita di Rossini cit., p. 258, dai Commentarii della vita e delle opere coreodrammatiche di Salvatore Viganò e della coreografia e de’ corepei scritti da Carlo Ritorni reggiano, Milano, Tipografia Guglielmini e Redaelli, 1838 e da Francesco Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, 1860.  In generale sui rapporti tra recitazione e ballo nella prima metà dell’Ottocento si veda anche la bibliografia su Vestris, tra cui William W. Appleton, Madame Vestris and the London Stage, New York – London, Columbia University Press, 1974. I rapporti tra Pasta e Pallerini sono confermati dalla lettera citata; per quelli con Giuseppe De Marini dobbiamo invece fidarci di Stendhal e Francesco Regli. neoclassica solo recentemente accolto in Italia.  Sebbene già nel 1820 Francesco Lombardi portasse in scena a Napoli le traduzioni dei drammi scespiriani realizzate da Michele Leoni nel 1819-1822 in un «new romantic style of acting, erratic and emotional, rather in the manner of Edmund Kean in England»168, è sufficiente dare un’occhiata alle abbondanti illustrazioni proposte da Morrochesi per rendersi conto di quanto le pose statuarie d’ascendenza neoclassica fossero ancora esemplari in Italia alla fine degli anni ’20.  Pose analoghe dovevano essere quelle che Antonietta Pallerini esibiva sulle scene dei coreodrammi di Viganò, se dobbiamo credere a Carlo Ritorni e alle sue descrizioni del gioco di sguardi, dei gesti in continua evoluzione aseguire del flusso musicale: La Pallerini sortì forme e sembianze che somigliano al modello d’una statua greca, ed han piuttosto i taglienti contorni della scoltura che i tratti morbidi della pittura … le sue guancie dipingono naturalissimamente un intenso dolore, vivamente renduto da’ suoi occhi, dalla bocca e naso, qual ne sia il contorno, e sembra allor donzella posta per man di Fidia a gemere con profondo dolore a ciglio asciutto sull’urna del padre o dello sposo169. A Giuditta Pasta, tuttavia, non dovette essere sufficiente perfezionarsi in questo tipo di recitazione e nelle pose statuarie di cui si componevano i balli di Viganò.

Con quel solo bagaglio d’esperienza non le sarebbe stato possibile distinguersi da altre prime donne italiane, avvezze alla contiguità tra pratiche mimico-coreutiche e operistiche 170, né farsi apprezzare in Francia ed Inghilterra.  In quei teatri, infatti, da quasi un decennio era in atto una profonda trasformazione della pratica scenica, e Giuditta Pasta doveva esserne al corrente fin dai suoi primi anni francesi e inglesi. Sappiamo da John Rosselli che solitamente i cantanti italiani all’estero si confinavano in cenacoli chiusi, spesso impermeabili alla cultura che li ospitava.  Ma Giuditta Pasta si trovò in Inghilterra nel pieno della polemica tra la recitazione di John Philip Kemble e quella di Edmund Kean: Sebbene invocata già da tempo in ambito letterario, in Italia il rinnovamento dello stile teatrale aveva scontato la profonda, e reciproca, diffidenza tra autori e letterati da una parte e attori e teatro pubblico dall’altra. Di questa diffidenza sono piene le cronache letterarie del tardo Settecento.  Se Paolo Emilio Campi lamentava che il pubblico italiano seguiva solo arlecchini e mimi, Alfieri rifiutava per principio di consegnare le proprie tragedie al teatro prezzolato. A voler essere brevissimo, cosa indispensabile nella tragedia, e che sola genera l’energia, non si può esserlo che usando molti modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le proprietà di questa divina lingua ma posson ben parerlo alla lettura per chi non le sa. Mi si dirà per chi scrivi?  Pel pubblico.  Ma il pubblico non le sa; in parte le sa, e le saprà meglio, quando ottimi attori, sapendoli perfettamente, reciteranno questi miei versi così a senso, che sarà impossibile lo sbagliare.  

Il pubblico italiano non è ancora educato a sentire recitare: ci vuole tempo, e col tempo si otterrà.  

Ma intanto non per questo lo scrittore deve essere lasso, o triviale».  Sul tema cfr. tra gli altri, Sergio Romagnoli, Teatro e recitazione nel Settecento, in Orfeo in Arcadia, Studi sul teatro a Roma e nel Settecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1984 dalla cui p. 37 ho tratto la citazione. 168 Marvin Carlson, The Italian Shakespeareans. Performances by Ristori, Salvini, and Rossi in England and America, Washington, Folger Books, 1985, p. 17. 169 Commentarii della vita e delle opere coreodrammatiche di Salvatore Viganò e della coreografia e de’ corepei scritti da Carlo Ritorni reggiano Cfr. Alessandro Roccatagliati, Felice Romani, librettista. John Rosselli, Il cantante d’opera. John Philip Kemble (1757-1823), fratello di Sarah Siddons, debuttò per la prima volta in un ruolo da protagonista nel 1781 a Dublino; nel 1783 al Drury Lane; si ritirò dalle scene il 23 giugno 1817.  Sul teatro di John Philip e della sua famiglia cfr. Linda Kelly, The Kemble Era, New York, Random House, 1980. proprio mentre ell’era a Londra, il 23 giugno 1817 Kemble dava il suo ultimo spettacolo e lasciava campo libero al giovane rivale, che aveva debuttato nella capitale inglese nel gennaio 1814.

Difficile che non abbia avuto sentore di quell’acceso dibattito; ma ancor più difficile che non abbia assistito a rappresentazioni del celebre attore francese Talma174, visto che almeno il 19 giugno 1817 Talma e Mlle George «interspersed» con recitazioni da Racine, Voltaire, Corneille, Ducis e Lafosse, il Gran Concert and Recitations che Giuditta diede con Crivelli al King’s Theatre175.  In quell’occasione «the great attraction of the evening was the appearance of Talma and M.lle Georges", non Giuditta Pasta. L’attore stupì gli inglesi per la sua declamazione, in cui «the measure of verse is entirely subordinate to the expression, whether slower or quicker, deeper or more vehement, of thought and feeling177»; ma soprattutto stupì per la recitazione: He presented a most interesting picture of wild emotion but it was produced by means to which few English actors could safely resort … When Talma as OEdipus come to the speech which begins thus “Ces dernier mots me rendent immobileJe ne sais où je suis, ma fureur est tranquille” he rushed off the stage as he pronounced the word ‘immobile’ and after a lapse of several seconds returned to proceed with the succeeding line. Pur nelle diverse tradizioni teatrali, la trasformazione dei canoni estetici della recitazione in quegli anni scorreva parallela tanto nella Londra di Kean quanto nella Parigi di Talma: in entrambe le città la presenza del mélodrame179 aveva operato un’accentuata esasperazione del gesto, e da tale esasperazione non andò immune nemmeno la tragedia.

Lo stile prevedeva repentini scarti da una passione all’altra, pause inaspettate, sbalzi stilistici dall’eroico al colloquiale180. La 173 Edmund Kean (1787-1833) riscosse i primi strepitosi successi nel gennaio del 1814. Tra il 1820 e il 1821 si esibì a New York. Tenne l’ultimo spettacolo poco prima di morire. 174 François-Joseph Talma (1763-1826) debuttò alla Comédie Française il 21 novembre 1787. Fu tra I primi a imporre l’uso di costumi coerenti con l’epoca storica dei soggetti rappresentati. Si esibì per l’ultima volta l’11 giugno 1826. Almeno nel caso di Talma il disinteresse che gli artisti italiani nutrivano usualmente per la cultura ospite venne meno: ai suoi funerali «tutti i nostri artisti italiani facevano parte del corteggio. In una linea c’era Rossini fra Paër e Meyerbeer [italiano !]»: A. Micheroux a Giuditta Pasta da Parigi il 21 e 22 ottobre 1826 cit. Giuditta Pasta era assente al funerale perché «il povero Talma spirò la mattina stessa della [sua] partenza». 175 Cfr. Herbert F. Collins, Talma. A Biography of an Actor, New York, Hill and Wang, 176 «The Morning Post», 20 giugno 1817. 177 «The Times», 20 giugno 1817. 178 Marvin A. Carlson, The French Stage in the Nineteenth Century, Metuchen, N. J., The Scarecrow, 1972 è esplicito in questo senso: «Despite the many minor developments, the story of the French theatre from 1800 to 1830 is more than anything else the story of the defeat of the neoclassic vision of Napoleon and the triumph of the melodrama Talma was growing increasingly concerned with the problem of reviving audience interest in the genre i.e. il repertorio della Comédie Française in particolare Germanicus e Britannicus and welcomed opportunities for experimentation. His addition of new and realistic detail to traditional roles was, at this time, the subject of much discussion. Sulla recitazione francese di questi anni, e nel mélodrame in particolare, cfr. Gabrielle Hyslop, Researching the Action of French Melodrama, 1800-1930, in «Nineteenth Century Theatre». Il primo melodrame inglese fu quello di Thomas Holcroft, A Tail of Mystery, nel 1802 al Drury Lane. Il testo era derivato da Coeline, ou l’Enfant de Mystère di Pixerécourt. 180 Joseph Donohue, Theatre in the Age of Kean, Totowa, New Jersey, Rowman and Littlefield, In generale si veda anche Joseph R. Roach, Player’s Passion. Studies in the Science of Acting, Ann Arbor, The University of Michigan Press. Romantic performance embodied a paradox, if not the Paradox. As poet and theorists stressed the primacy of organism and spontaneous vitality in artistic creation theatrical practice entered an age of unprecedented worship of technical virtuosity.

By their very nature, recitazione melodrammatica non costituiva un repertorio chiuso, stereotipato e omogeneo, ma aveva diverse gradazione in relazione all’importanza e al prestigio del teatro che ospitava la recitazione. Vi erano insomma diversi livelli nella recitazione melodrammatica: nei teatri popolari poteva essere molto più esagerata che in quelli più colti e raffinati. Kean e Talma diedero il senso di una netta cesura, rispetto alle consuetudini precedenti, ma probabilmente il loro gesto, la postura e declamazione adottata non dovevano essere che l’esasperazione di tecniche neoclassiche, e soprattutto un uso più estensivo182. Come Talma sfruttava toni sepolcrali183, oltre agli improvvisi silenzi che abbiamo visto nella critica al suo spettacolo londinese del 1817, Kean giocava molto sulle pause: in Macbeth una sua pausa ben calcolata cambiò il senso d’una semplice frase scespiriana: Let me remark a most important difference between the acting of Mr. Kemble and Mr. Kean. To Lady Macbeth’s question «Then does Duncan go hence?» Mr. Kemble replies indifferently «Tomorrow as he purposes». With Mr. Kean it assumes a very different aspect. In an emphatic tone, and with a hesitating look … he half divulges the secret of his breath …«Tomorrow as he … purposes». In other words, by means of a pause and a stress, he gave the impression that the idea of murdering Duncan had already occurred to him184. Sappiamo però che già Kemble utilizzava ampi salti di tono e lunghi, se non improvvisi, silenzi.  Un critico che si prese la briga di cronometrare le pause in una sua recitazione di Amleto virtuosic displays tend toward the premeditated and mechanical. In the representative triumphs of early nineteenth-century performance, allied to acting and establishing a context in which Romantic acting may be understood, artists made their reputations by probing the outer limits of physical technique: on the Concerto stage, Paganini; in the opera, belcanto singing; in the dance –most particularly in the dance – the high jetés of Marie Taglioni». 181 Michael R. Booth, The Acting of Melodrama, in «University of Toronto Quarterly», XXXIV/1, che aggiunge «An area of melodramatic acting governed by strict conventions was the specialized acting necessary for the portrayal of the stock character types as hero, heroine, villain, aged relative, comic man, and comic woman. The performer of one of these roles in a stock company never played any other, and therefore perfected himself or herself in one line». In generale sulla recitazione melodrammatica ci restano documentazioni importanti Alan Hughes, Art and Eighteenth-Century Acting Style, I: Aesthetics, II: Attitudes, III: Passions, in «Theatre Notebook», XLI/1-3. Nor should we assume that with the “Romantic Revolution” and the advent of Edmund Kean, all classical attitudes and gesture were abandoned.

The classical attitudes took a long time to die … if we seek them in portraits of the best nineteenth century actors, we shall find any vestiges. But in melodrama they lived on in full vigour, if without subtlety: the penny plain and two pence coloured attitudes are no more than exaggerated and coarsened applications of old canons. It is difficult to avid the impression that heroic actors held one attitude throughout each tirade, because only one passions was expressed». Anche la recitazione di Talma «On the subjects of characterization, stands between two worlds. His definition of the process of creating the inner model at once nods to neoclassical generality ad it looks forward to the masochistic particularity of naturalism. He distinguished between memory and imagination in a way reminiscent of Diderot’s Eléments de phisiologie, which he could not have known, and the Paradoxe, which he once again paraphrases in extenso», Jospeh R. Roach, Player’s Passion. Studies in the Science of Acting. Una documentazione più dettagliata in questo senso, è il bel saggio di Jeanette Massy-Westropp, Idealisation of Characters and Specialisation of Acting in Eighteenth-Century Tragedy: The Villain, in «Theatre Research International», IX/2, che riporta citazioni di molti trattati di recitazione del Sette e Ottocento. 183 «The Morning Chronicle», 21 giugno 1817. Lettera anonima nel periodico "Champion" citato in G. Playfair, The Flash of Lightning. A Portrait of Edmund Kean, London, William Kimber, 1983, totalizzò ben 37 minuti. La sua tecnica vocale può essere così riassunta: lentezza nell’eloquio, considerato ‘alla francese’ (Giulio Cesare nel 1812, nonostante i tagli, durò più di cinque ore), passaggi della voce in falsetto186, variazioni nel tono espressivo all’insorgere di una violenta passione, andamento musicale della prosodia a «midway between chanting, and ordinary, everyday speech ... in measured, harmonious flow of sound» e analoga ai diagrammi delle cadenze vocali pubblicati negli Elements of Elocution di Walker (1781). Kemble tentava di conservare un tono uniforme, di non variare eccessivamente da una passione all’altra, per esprimere la dinamica degli affetti: un tipo di teatro ben definito da Clément nella prefazione alla sua GIASONE E MEDEA  del 1779 come «tragédie … fondée seulement sur le développement des passions»188. L’aspirazione ad esprimere il sublime rendeva, per dirla con le parole di Henry Siddons, «the immediate succession of contrasted passions and violent transitions, unnatural, destroying the coherence of both a characterisation and a production as a whole.

Everything is connected by ‘chains’, however imperceptibly, and in a performance, a very long pause is required to link together two extremely different passions. A parte la gesticolazione meno statuaria e bilanciata, i mezzi adottati dagli attori inglesi e francesi della generazione di Giuditta Pasta, non dovettero essere diversi: solo rinunciarono di principio alla continuità dell’espressione affettiva, all’omogeneità della recitazione: Talma e Kean, ma anche il fratello minore di Kemble, Charles, si dilettavano a variare da una passione all’altra in modi imprevisti con la giustapposizione di affetti contrastanti. Se leggiamo le critiche che declamano le lodi di Giuditta Pasta negli anni venti a Londra, osserviamo che furono proprio questi aspetti, portati nell’opera, a colpire i critici inglesi. Le parole con cui il «Quarterly Musical Magazine» del 1826 descrive il rondò del second’atto di Medea in Corinto sono esplicite in questo senso: This consists of perpetual transitions from passion to passion. It is almost all exclamation, and the only relief that the actress experiences during this trying of ability test, is an occasional strain from the chorus, (within) who are seeking to avenge upon her the death of PRINCIPESSA CREUSA. In the meanwhile all the vengeance she feels against Jason urge her to slay her children, while maternal 185 Maarten van Dijk, The Kembles and Vocal Technique, in «Theatre Research International», VIII.

L’osservazione risale al 1809, cfr. Maarten van Dijk, The Kembles and Vocal Technique. Sulla questione del falsetto, però, e sui significati assunti da questa definizione nei primi decennia dell’Ottocento cfr. Marco Beghelli, Il do di petto. Dissacrazione di un mito cit.: l’uso di questo termine in ambito teatrale e non musicale può confortare ulteriormente l’idea che non rinviasse a particolari modi di emissione della voce, quanto invece ad un’estetica performativa. 187 Maarten van Dijk, The Kembles and the Vocal Technique cit., p. 34 osserva che «an attempt to reproduce his cadences, however, sounds to the modern ear at least, rather like the sing-song delivery he himself condemns». 188 Sulla GIASONE E MEDEA  di Clément e sulla tradizione drammatica cui essa appartiene, cfr. il  III di questa dissertazione. 189 The Practical Illustrations of Rhetorical Gesture and Action che, nel 1822, traduce le Ideen zu einer Mimik di Johann Jakob Engel e le adatta alla pratica teatrale della madre, Sarah: cfr. Maarten van Dijk, The Kembles and the Vocal Technique. A Giuditta Pasta spettava «la gloria d’aver intrecciata una vena [della pantomimica espressione] nel melodramma, con profondo conoscimento di quest’arte, a riempirne le tante oziose lacune, che il genere, e più il moderno abuso dell’armonia, vi introducono»: Commentarii della vita e delle opere coreodrammatiche di Salvatore Viganò e della coreografia e de’ corepei scritti da Carlo Ritorni reggiano -- love struggles with the unnatural act. There is a force in this scene that surpasses anything to be found in the former part of the work. It is deep tragedy of music. One passage we must cite, as it appears to us to afford a curious and a fine instance of melismatic expression citazione musicale di «e geme ancor».

The acting of Mad. Pasta in this scene was beyond all prise. Her selfabandonment, her horror at the contemplation of the deed she is about to do, her burst of affection were pictured with astonishing strength, yet with such simplicity as demonstrated by her profound study of the passions. Her folding her arms across her bosom, and contracting her whole form as it were in order to shrink from approach of the children, was touching beyond description – nor was her pursuit of them and her manner of striking the blow less powerfully conceived and executed. Esclamazioni interrotte, gestualità solenne, toni e timbri di voce frequentemente modulati: queste tecniche resero memorabile Medea in Corinto ben più della musica di Mayr, pur apprezzata; la forza drammatica del soprano invertì le gerarchie operistiche e la ricezione inglese e francese elogiò e ricordò a lungo ben più le drammatiche sezioni in recitativo, di cui addirittura furono spesso stampati esempi musicali, che i numeri chiusi, quasi che Giuditta Pasta avesse cantato I diagrammi di Walker: The passion begins in the dialogue between Medea and Jason which fellows. It is conducted for considerable time in recitativo parlante, and the object of the composer seems to have been to fetter the singer as little as possible to give room for powerful declamation, and merely to support the voice and occasionally to throw into the accompaniment impassionate illustration. At the close of this appeared one of the most extraordinary gleams of Madame Pasta’s genius…. Medea replies by a solitary word: ‘Io’ [segue esempio musicale]. It is impossible to convey the dignity with which Madame Pasta invested these two notes. She gave them with the whole power of her voice, at the same instant flung wide her arms above her head, and her whole figure seemed dilate with a passionate majesty that can only be understood when seen, and when seen too as the climax of the preceding expostulation ... We may say of the composition, that the style is nervous and pure – the harmonies full and various - the modulation natural, though learned and expressive, and he whole highly dramatic and expressive.

But we question whether there be a single passage which has sunk into the memory, and we are free to confess we left the King’s Theatre almost without the recollection of having heard a note, so completely was imagination rapt by the sublime personification of the actress. Yet the pieces do not want melody. It is not however modern catching melody – and we are afraid we must admit that our ears have been too much accustomed of late to the tinkling and glittering passages of Rossini and his school, to be as satisfied as we ought to be with a style of writing so much more pure and natural as that of Simon Mayer in his Medea191. Durante l’apprendistato scenico cui Giuditta Pasta dovette dedicarsi nel 1817-18, insomma, ella combinò probabilmente queste due tradizioni: conservò la dignità tragica sublime della recitazione neoclassica, ma non dovette dimenticare quanto aveva visto e sentito a Londra e Parigi. Dovette ulteriormente elaborarlo al suo ritorno tra il 1822 e il 1826, quando visse per ben Quattro 191 Tale riversamento delle gerarchie estetiche, tuttavia, non significava scarsa attenzione alle questioni musicali, neppure da parte del giornalista che stese questa recensione. La sua descrizione del Finale primo dell’opera rivela infatti una perspicacia delle strutture musicali non comune all’epoca: «The finale of this act… exhibits a complete example of the power of the lyric drama in combining a vast number of parts, and interests in a contemporaneous dialogue, the parties to this finale being no fewer than the whole dramatis personae. … The term “effective” is the best we can use in order to describe the very complicated music that all this implies. The single parts have, in some instances, passages of sweet melody; … while there is a simplicity in the structure of the concerted portions that gives strength and uniformity to the whole». -- anni consecutivi tra le capitali francesi e inglesi. Carlo Ritorni lo dice a suo modo e distingue la recitazione di Giuditta da quella della primadonna di Viganò: La Pasta al contrario ricorda piuttosto l’opera d’italiana dipintura, e specialmente del Raffaello, più studioso delle sublimi idee che dell’eburnee e rosee facce… e que’ suoi occhi, che quando sollevansi, e quasi nascondonsi sotto la palpebra superiore, accennano così bene il duolo che punge addentro il cuore!… Né tacerò che le sue brevi e rotondissime braccia han anch’esse un nonsoché, al dir d’un tale, di parlante, attissime all’arte della gesticolazione. Quando rientrò in Italia per le rappresentazioni napoletane e milanesi, Giuditta Pasta portò dunque anche seco questa tradizione drammatica, e la utilizzò assieme alla pratica tratta dai coreodrammi di Viganò; l’entusiasmo della critica francese e inglese incuriosì il pubblico italiano, ma non lo convinse, almeno di prim’acchito.

Le perplessità, evidenti nei primi commenti di Donizetti e del recensore napoletano sopra citati, furono confermate dalla critica milanese che, come «Il censore universale dei teatri», per esempio, continuò a valutarla secondo i consueti stilemi del bel canto: Io, per una stranissima forse ma purtroppo vera particolarità mia, riconosco in vece in quest’opera la Pasta più cantante che attrice, perché considerandola in perpetuo contrasto con la molto limitata e non grata sua voce, nelle sue corse più buone non pochi de’ suoi modi di canto mi sembrarono felici e di buon gusto. Il suo trillo brillante, ma intempestivo, perché cantando a due, il far ciò che si suppone non poter fare il compagno, è una specie di soperchieria che sofferta forse non sarebbe da tutti i cantanti. I lunghissimi ch’ella ci ha regalato nelle altre tre opere precedenti, hanno lasciato una tanta impressione, che anche omettendoli nella Medea nessuno si scorderà mai di aver inteso il suo trillo, bello quando altri mai, e più lungo di quanti mai furono finora eseguiti. Altre maniere di buon garbo e di delicata espressione ci fece ella sentire, e queste tanto più pregevoli in una musica che non lascia arbitrj al cantante, arbitrj anche inceppati dalla presenza del compositore. Ciò poi che si richiede da una voce robusta, estesa ed elastica, capace di slancj vibrati di note basse, rotonde, sonore, non si può richiedere da Mad. Pasta, nondimeno se non riesce a far risaltare per questo motivo non poche delle bellezze della sua parte, molto ingegnosi non di rado sono i suoi ripieghi. I timori di una incomprensione da parte del pubblico italiano per la recitazione che Giuditta Pasta elaborò nei primi anni venti emerge con chiarezza dalla lettera che le scrisse Micheroux da Parigi poco prima della stagione napoletana del 1826, la prima in cui Giuditta si presentava al pubblico italiano dopo i successi francesi e inglesi. Micheroux la scongiura di non esordire con Medea in Corinto, nonostante principalmente a quest’opera lei dovesse le sue fortune estere, al punto da essersi con essa congedata da Parigi nella   L’avrebbe riconosciuto anche «Il censore universale dei teatri», sebbene probabilmente accomuni sotto l’etichetta ‘teatro francese’ tutta la tradizione gestuale d’oltralpe: «I suoi gesti, tolti dal teatro francese, che nella tragedia non sempre sono tutti i migliori e più naturali, convengono di più nella massima parte al nostro più che al suo sesso. V’è poi una gran differenza nell’accompagnare con quei gesti la parola declamata e la parola cantata: la prima li vuole più rapidi, e se anche non sono belli, se sono esagerati, si confondono con gli altri e non lasciano una certa impressione, la seconda li trattiene di più nel loro movimento, e dà il tempo di esaminarli e criticarli; d’altronde chi li cerca, è presumibile che sempre meglio e più a tempo li faccia di chi li copia o li imita». beneficiata all’Opéra di pochi giorni prima. Evidentemente Micheroux temeva che il pubblico italiano non avrebbe apprezzato la sua recitazione e avrebbe dovuto attendere «senza impazienza che passino quasi due atti per gustare la scena dei figli» (i.e. il rondò precedente all’infanticidio).

Dalle indicazioni del maestro, si comprende che a differenza di Parigi e Londra, il pubblico napoletano «non avvezzo al suo talento» non avrebbe potuto «alle prime capire, gustare, ed apprezzare il talento drammatico» ed avrebbe valutato soprattutto le qualità canore della Pasta, nel duetto con GIASONE  del prim’atto e in quello con Egeo del secondo. Ma ancor più interessante è quanto Micheroux dice dello stile di canto di Giuditta in Medea in Corinto: La vostra voce, nelle corde di mezzo è quasi sempre velata: questo difetto è una qualità non solo preziosa, ma indispensabile per ottenere il Magico effetto nelle inflessioni d’una espressione, che chiamerò misteriosa: come per esempio nel «mi chiami a seguirti fra l’ombre».

Per ottenere quest’effetto, però, bisogna che l’orchestra non frastuoni, poiché bisogna che la voce non sia obbligata a sforzo altrimenti quel velo, quel cupo della voce produce confusione nel suono e questo resta privo di oscillazione. Disgraziatamente questo frastuono dell’orchestra è costante negli accompagnamenti quando canta Medea. E questo inconveniente diventa massimo perché il Vostro canto è sempre di forza e d’una espressione furibonda … Più che l’esperienza vi ha pur troppo dimostrato il danno che vi reca sempre alla voce la parte di Medea (dalla Medea di Londra in poi non avete più filato nel Sol #, nel La, come per l’innanzi, e ne ho fatto ultimamente l’osservazione nella preghiera del secondo atto di Romeo, la famosa tenue de Pellot). Quel velo nella voce, adeguato all’espressione misteriosa, al timbro cupo, colpì tanto in Inghilterra e ricorda Talma la cui voce «must come from the depth of the chest there is a prolongation of emphasis ...the drone must be sepulchral»194. Ma poiché dubito che l’orchestra di Mayr accompagnasse Medea in Corinto con più frastuono dell’orchestra di Rossini nel «furore della Semiramide», resta da pensare che il canto di forza e l’espressione furibonda di Giuditta Pasta in Medea fosse una scelta interpretativa per ovviare alla musica « meschina e languida» di Mayr, che non le avrebbe consentito di sviluppare il merito del suo canto, quelle grazie di stile, quegli accenti piacevoli con cui sarebbe stata certa di piacere e l’avrebbe costretta a «rinunciare di buon grado alla metà delle sue forze»195. Se Giuditta Pasta scelse Medea in Corinto come cavallo di battaglia per quasi un decennio, fu perché in quest’opera, e soprattutto nelle contrastanti e violente giustapposizioni d’affetti del rondò, essa trovò una situazione ideale per forgiare e mettere a punto il suo stile di cantante -- «The Morning Chronicle», 21 giugno 1817. 195 Le espressioni sono sempre tratte dalla lunga lettera di Micheroux. Nonostante i pareri di Micheroux, tuttavia, Medea in Corinto segnò il debutto napoletano di Giuditta Pasta.

L’esito fu comunque felice: «So che sono arrivate molte lettere da Napoli che tutte confermano il vostro successo … I giudizj tutti favorevoli, sono, vi assicuro, ben razionati e non si può pretendere maggior precisione dopo una prima recita, da una prima volta che si ha ascoltato un cantante nuovo. Tutti convengono dell’impossibilità di abbracciare in un subito tutte le qualità del vostro talento. Tutti sono rimasti stupefatti della perfezione del vostro talento tragico; sembrano però desiderosi di ascoltarvi in una parte dove si canti di più. Sembra gliene abbia ispirato il gran desiderio la perfezione con cui avete cantato certi passaggi, che io suppongo essere il solo del 2°. duetto, e il cantabile dell’ultima scena coi figli» Alessandro Micheroux a Giuditta Pasta, 24 novembre 1826, citata in Gioachino Rossini. Lettere e documenti cit., III. La nota editoriale indica erroneamente che il duetto del second’atto citato è ‘Se ’l sangue, la vita’ invece di ‘Ah, d’un alma generosa’ -- pantomimica.  Nel libretto di Medea in Corinto relativo alla rappresentazione del Carcano, vennero introdotte alcune brevi linee come segno d’interpunzione196: nei testi derivati dalla tradizione del melologo e nel trattato di Morrochesi esse sono sempre usate per segnalare una pausa espressiva, declamatoria, o la sovrapposizione dell’orchestra sulla voce.

Se dobbiamo credere a Giacinto Bianco l’uso di questa convenzione si diffuse nella librettistica italiana negli anni trenta, dopo le perfomances di Pasta al Carcano. Manca una indagine specifica sul fenomeno, ma è verosimile l’ipotesi che tali linee avessero analoghe funzioni espressive, come sempre a prescindere dal fatto che poi nell’intonazione il compositore accogliesse o rifiutasse il suggerimento del librettista. Giuditta Pasta dimostrò che le prescrizioni elaborate in ambito teatrale e coreutico erano praticabili anche nel teatro musicale: a prescindere dalle lodi per abbellimenti e gorgheggi mai collocati fuori posto o per il tono sempre pertinente all’azione (un repertorio laudativo che sembra citato più per soddisfare i critici che muovevano da stantii pregiudizi classicistici contro i capricci dei cantanti d’opera italiana), lei dimostrò in realtà che lo stile costruito per frasi interrotte, cesure, scarti ritmici ed espressivi, ma soprattutto silenzi era possibile anche sulla scena musicale; che era possibile trattare recitativi e numeri in modo da dar voce all’affastellarsi delle passioni. Cfr. Giorgio Pagannone, «Pia de’ Tolomei» di Cammarano e Donizetti. Testi e contesti, tesi di dottorato in Filologia musicale, Università degli studi di Pavia, a.a. 1999-2000, p. 114: «In realtà anche se a volte il senso delle linee sfugge, queste hanno di norma una chiara funzione di articolazione retorica». Su queste linee, usate però come articolazione metrica per segnalare rimalmezzo, cfr. Alessandro Roccatagliati, Felice Romani, librettista. L’uso di questo segno è così assiduo, e tanto improbabile è l’esistenza di valenze prescrittive nei frammenti metrici da esso isolati ..., che si è indotti ad ascrivere la sua ricorrenza a tacite norme di dignità formale del libretto quale testo poetico autonomo.  Teatro di Giacinto Bianco, Napoli, Tipografia del Gutemberg: la postfazione a Pia de’ Tolomei di Giacinto Bianco denuncia che a Napoli nel 1836 era invalso «un uso tristissimo di sostituire al regolar seguito de’ pensieri, al lucido ordine delle cose, una bizzarra ortografia di punti e linee». 198 Un sommario confronto in questa chiave tra la parte di Norma e la recitazione di Giuditta Pasta è tratteggiato da Kenneth A. Stern, Giuditta Pasta. Distinguere tra successo di pubblico e successo di prestigio può spiegare alcuni fenomeni peculiari della recezione di Medea in Corinto: tra questi, il netto predominino delle partiture conservate rispetto alle edizioni dei libretti.  Quest’opera non è mai stata edita nella sua interezza, ma le copie manoscritte hanno circolato in numero elevatissimo già nel secondo decennio dell’Ottocento, quando l’opera non venne allestita se non al San Carlo di Napoli. 

La gran parte di esse ha veste e rilegatura eleganti, chiaramente non destinate all’uso teatrale ma alla biblioteca degli amatori.

A partire dagli anni venti, invece, si trovano copie con varianti corrispondenti alle modifiche testimoniate dai libretti di Bergamo, Parigi, Milano (Scala), Roma, Londra (1826-28), Napoli (1826), Milano (Carcano). Le ricerche che ho svolto mi hanno consentito di individuare 22 partiture complete e due riduzioni per canto e pianoforte, di cui solo una edita. Un numero elevatissimo è poi costituito dalle edizioni e copie manoscritte di singoli numeri, delle quali non è ancora stato tentato un inventario completo: le mie ricerche ne hanno individuate più di trenta. Medea in Corinto: Melodramma tragico in due Atti Musica Del Sig. Giovanni Simone Maÿr.Atto PrimoIn Napoli presso Merola Strada di Chiaja N. 202, nel Vicoletto n. 5 Medea in CorintoDramma tragico in due atti Musica Del Sig. Giovanni Simone MaÿrAtto Secondo Mss, s.d., 2 voll. in 8° obl., cc. 196 + 222. D-Dl, Mus. 4104-F-505/F-505A Medea in CorintoMusicadel Sig.r Simone MayerAtto primo Medea in Corinto Musica del Sig.r Simone MayerAtto Secondo Mss., s.d., 2 voll., in 8° obl., cc. 199 + 229; sul frontespizio, a penna è indicato: «abgegeben am 13 November. N.B. 4 Waldhörner, Posaunen, Serpent – gross Tromel – Arpa – Trombeten und Paucken, Englishes horn, Flauto piccolo» F-Pn L5844 Medea in Corinto opera seriaIn due attidel Sig.re Maestro Mayer. Altra mano in basso a penna e in piccolo aggiunge: «Pauline García». [Atto II]: senza frontespizio, ma indicazione in alto, prima del pentagramma, «Atto 2do». Mss., s. d., 2 voll., in 8° obl., cc. 262 + 241 non numerate se non alla fine con cifra a penna non coeva che indica il numero complessivo delle pagine; copertina cartonata verde 199  Il caso è rilevante, soprattutto se confrontato con la situazione di altri titoli all’epoca celebri e frequentemente allestiti come Clotilde e La rosa bianca e rosa rossa. Un rapido controllo sul material schedato dall’URFM restituisce, a parte i numeri sciolti, una partitura per Clotilde, nessuna per La rosa Bianca e la rosa rossa, ma ben 3 per Medea in Corinto. Gli esemplari di Parma (Palatina), Milano (Conservatorio), Venezia (Fondazione Levi), Roma (Accademia Filarmonica Romana), Parigi (due partiture alla Bibliothèque Nationale) non erano ancora stati segnalati dalla bibliografia su Mayr. Della partitura conservata al Conservatoire Royale di Bruxelles ho trovato invece indicazione solo in The Mellen Opera, Reference index compiled by Charles H. Parsons, Edwin Mellen Press, Box 450, Lewiston, N.Y., 1940-: anch’essa non compare nei più diffusi repertori bibliografici delle opere mayeriane -- marmorizzata, cieca, ma con indicazione impressa sulla costa «MayerMedeain Corinto | atto I°»; «MayerMedeain Corintoatto II°». F-Pn D 7808/7809 Medea in Corinto Melodramma tragico in due atti musicadel sig. re Giovanni Simone Mayer Atto Primo. In alto al centro, leggermente spostato a sinistra e con scritta oblique poco comprensibile e cancellata con due tratti di penna, una scritta pare dica: «Firenze Misero Principe». Medea in CorintoMelodramma tragicoMusicadel Sig. Giovanni Simone Maÿeratto secondo. Mss., s. d., 2 voll. in 8° obl., cc. 213 + 241 numerate a matita con altra grafia da 1 a 455 progressivamente nei due volumi; copertina cartonata azzurra uniforme. Titolo sulla copertina a mano: Medea in CorintoMelodramma tragico in due attimusicadel sig. re Giovanni Simone MaÿerAtto Primo. In costa cartiglio a mano incollato: Medea in Corintodel Sig. G. S. Mayeratto primo. I-Bc UU.33. Medea in Corintoopera seriadiGio. Simone Mayr [atto primo] Medea in Corintoopera seriadiGio. Simone Mayr [atto secondo] Mss, s.d., 2 voll. in 8° obl., legatura mezza pelle, cc. 131 + 135 con numerazione a matita non coeva, unica mano (autografa). Senza sinfonia introduttiva. I-Bc SGH I Coll. 31). MS 2 voll., cc. 370 e 389 [Atto primo, senza frontespizio] [Atto secondo, senza frontespizio] Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., legatura in cartone non rigido, in costa MayrLa MedeaAtto I [II], cc. 134 + 139 con numerazione di carte non coeva, unica mano. I-BGC, FALDONE 320 Medea in Corinto, opera seria, partitura in 529 carte [altre partiture in fald. 321-322, parti staccate in fald. 319/10] (annotazione del bibliotecario ad intestazione del faldone). Altro materiale si trova nel faldone 381. Nel complesso a Bergamo si trova una partitura completa, a fascicoli sciolti, e decine di copie dei singoli numeri e delle loro varianti. Le carte presentano almeno una decina di diverse grafie, tra le quali quella autografa di Mayr. I-BGm, Barcella 139 La Medea in CorintoAtto primoMayr Ms., s. d., 1 vol. in 8° oblungo, unica mano, numerate da 29 a 240; manca l’atto secondo. I-FC P. T. 220201 Medea in Corinto Melodramma tragicoMusicadel Sig.re Giov.i Simone MayerAtto PrimoIn FirenzeNel Magazzino, e stamperia di Musica diGiuseppe Lorenzi sulla Piazza di S. Lorenzo Medea in Corinto Melodramma TragicoMusicadel Sig.re Giov.i Simone MaÿerAtto SecondoIn FirenzeNel Magazzino, e stamperia di Musica diGiuseppe Lorenzi sulla Piazza di S. Lorenzo Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., in copertina in cartone rigido con stampa a colori incollata: Medea in CorintoMelodramma tragicodel Sig. Giovanni Simone MayerATTO I [e II], cc. 242 + 278 numerazione moderna, grafia unica, con ouverture. I-FC D. I. 345-346 Medea in Corinto Melodramma tragico in due attiMusicadel Sig. Giovanni Simone MaÿrAtto 2°| In Napoli presso Merola Strada di Chiaja N. 202, nel vicoletto N. 5 Medea in CorintoMelodramma tragicoMusicadel Sig. Giovanni Simone MaÿrAtto PrimoIn Napoli presso Merola Strada di Chiaja N. 202, nel vicoletto N. 5 Presso la Biblioteca del Conservatorio di Firenze si conservano anche 358carte non rilegate con le parti vocali ed orchestrali del solo Finale primo di Medea in Corinto (F.P.T. 810); si trova anche (D-XI-2090) una copia ms di 26 carte della ouverture: SinfoniaNella Medea in Corintodel Sig. Gio. Simone MaijrPer uso del Sig. Ignazio M. Colson. Della ouverture si conserva anche una edizione: SinfoniaEseguita in Napoli | nell’Opera Medea in CorintoDel Sig. M°Simone MayrRidotta per Forte-Pianoda SolvaProprietà dell’EditoreN. 177Milano pResso il Negoziante di Musica Gio. Ricordi Editore del R° Conservatorio, nella Cont.a di S.a Margherita al n: 1065. Deposta alla Bibl.a. .le Prezzo lire 2 I.ne Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., cc. 138 + 217 non numerate, rilegatura mezzapella, unica grafia, con ouverture. I-Mc Part. Tr ms 206 [Atto primo] acefalo Medea in CorintoAtto 2°. Altra grafia aggiunge in calce al frontespizio una scritta verticale «Faliso» (?) Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., cc. 188 + 198 con numerazione a matita non coeva, qualche numerazione coeva in alto a sinistra ma saltuaria, copertina moderna, diverse grafie all’interno. I-Mricordi [senza frontespizio] Medea in CorintoAtto 2 Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., cc. 216 + 184 con numerazione non coeva, qualche numerazione coeva in alto a sinistra ma saltuaria, soprattutto ad inizio quaderno; prevalentemente autografo sebbene compaia un’altra grafia soprattutto nelle sezioni modificate rispetto all’originale bergamasco. I-Nc XXVIII.2.13-14 Medea in Corintomelodramma tragico in due attidi Felice Romani.Musicadel Sig. Giovanni Simon Mayr rappresentato al Teatro S. Carlo nel 1813Atto primoIn Napoli, presso Merola alla Strada di Chiaja n. 202 nel vicoletto n. 5 F. 55 Medea in Corinto dramma tragico in due  atti poesia di Felice Romani.Musicadel Sig. Simon Mayrrappresentato al Teatro S. Carlo nel 1813Atto 2° Mss., s. d., 2 voll. in 8° obl., legatura in mezza pelle, cc. 195 (+ 4 non numerate e non legate fra c. 183 e c. 184) + 224 a numerazione parziale coeva, grafia unica. Con altra grafia rispetto al frontespizio è aggiunto «appartenente al Reale Archivio di S. Sebastiano. Sigismondo», in basso a sinistra «pag. 224». I-Nc XXVIII. 2. 15-16 Medea in Corintodramma per musicadel sig. Gio. Simone MayrAtto primo Medea in Corintomusicadel sig. Simone MayrAtto secondoIn Napoli, presso Merola, Strada di Chiara n. 202, nel vicoletto n. 5 F. 55 Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., legatura in mezza pelle, cc. 199 + 218 a numerazione parziale coeva, grafia unica. Scritto in altra grafia rispetto al frontespizio è «Regalata dal Cav. Carafa, registrata nel catalogo nel giugno 1870». I-PAp Borb 694 LaMedea in CorintoParte primadel Sig.r Simon Majer La Medea in Corinto Atto secondodel Sig.r Simon Majer. Mss., s. d., 2 voll. in 8° obl., cc. 198 + 223 legatura in mezzapelle, in costa stemma di Maria Luigia di Borbone, ramo di Lucca; unica mano (con sinfonia). I-Raf La Medea in CorintoDrammaPosto in musicaDal Maestro Simone Maÿer La Medea in CorintoAtto secondo Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., rilegati con corda e copertina cartonata rigida verde scuro, carta sul lato marmorizzata verde bianca e rossa, cc. 208 + 246 a numerazione recente ma quaderni con regolare numerazione progressiva coeva, grafia unica, appunti d’esecuzioni spillati sulle carte. I-Rmassimo La Medea in CorintoDramma seriodel Sig. Simone MaÿrAtto PrimoIn Roma presso Gaetano Rosati in via Babuino N. 117. Secondo volume senza frontespizio Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., con copertina mezza pelle verde scuro, in costa una scritta incisa a caratteri dorati, rispettivamente «MayrMedeain CorintoI», e «MayrMedeaIn CorintoII», cc. 195 + 218, unica grafia 202. 202 Grazie alla cortesia di Donna Isabella Massimo ho potuto consultare il manoscritto: colgo l’occasione per ringraziarla sentitamente. I-RSc A MS 91-92 La Medea in Corintodramma seriodel Sig.re Simone MayrAtto primoin Roma presso Gaetano Rosati nella via del Babuino N. 117.

La Medea in Corintodramma seriodel Sig.re Simone MayrAtto secondoin Roma presso Gaetano Rosati nella via del Babuino N. 117. Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., con copertina cartonata marmorizzata di colore prevalentemente marrone, senza fregi o stampe, in costa una scritta incisa a caratteri dorati, rispettivamente «MayerLa Medea1», e «MayerLa Medea2», stemma ripetuto due volte con una sorta di oboe incrociato con una lira e fiori, cc. 198 + 223, unica grafia, con sinfonia. Una carta non pentagrammata e fuori numerazione (la numerazione comincia con la carta del frontespizio), incollata sul margine frontespizio scrive in altra grafia rispetto alla partitura: «Indice, Sinfonia, Introduzione “Perché temi”, Scena, e terzetto [!] “Fosti grande”, Scena, e coro “Sen riede. E il passo non volge a Medea”, Scena, e duetto “Cedi al destin, Medea”, Scena, e aria “Io ti lasciai piangendo”, Scena Coro, e Finale “Cara figlia Prence amato”». Nel secondo volume, la stessa mano su carta ugualmente aggiunta: «Indice, Coro “Amiche cingete”, Coro, e aria “Caro albergo”, Scena, e aria “Gia vi sento si scuote al terra”, Scena, e duetto “Non palpitar mia vita”, Scena, e aria “I dolci contenti”, Scena, e duetto “Se il sangue la vita”, Scena, e aria “Amor con te penai”, Scena, e aria “Ah! Che tento, oh figli miei”, Finale “Era tua sposa”». I-SPTorlandini Senza frontespizio Ms., s. d., in 8° obl., legatura in mezzapelle, rilegate in un unico volume; unica mano203. I-Vc CF A 3, ora alla Fondazione Levi, Medea in Corintodramma serioPosto in musica dal Sig:r Simone Mayr [Atto primo] Medea in Corintodramma serioPosto in musica dal Sig:r Simone Mayr [Atto secondo] Mss., s.d., 2 voll. in 8° obl., cc. 201 + 221 filigrana con sigla FA e aquila bicipite, legatura in cartone ricoperto in carta marmorizzata; ambedue i volumi sono preceduti da un frontespizio a stampa, incollato sul frontespizio principale, intitolato a Gio.i Ricordi Editore, e completato a penna col titolo dell’opera. Nello spazio centrale in bianco, manoscritto, è scritto: «S. MayerMedea in CorintoAtto primo». Sotto l’immagine è scritto«Presso Gio.i Ricordi Editore ed incisore di musica tiene negozio, copisteria, e stamperia di musica, nella Contrada di S.ta Margherita vicino alla Piazza de Mercanti in Milano, compra, vende, e da a nolo Spartiti tanto serj, che buffi. Tiene un assortimento di musica vocale, ed instrumentale tanto stampata, che manoscritta, e con tute le novità che sortano in Germania ed in Franc.ia» US-Bp M.41.14 Medea in Corinto Melodramma tragico in Due AttiMusicadel Sig. Giovanni Simone MayerAtto Primo Medea in CorintoMelodramma TragicoMusicaDel Sig. Giovanni Simone Mayer | Atto Secondo Mss., s. d., 2 voll. in 8° obl., cc. 204 + 277 con numerazione di pagine a matita non coeva. Stessa mano, rilegatura moderna. US-NYp Mus Res *MSI Medea in CorintoMelodramma tragico in due AttiMusicaDel Sig. Giovanni Simone Maÿr.Atto PrimoIn Napoli presso Merola Strada di Chiaja N. 202, nel Vicoletto n. 5 Medea in CorintoDramma tragico in due attiMusica| Del Sig. Giovanni Simone Maÿr | Atto Secondo Mss, s.d., 2 voll. in 8° obl., cc. 199 + 217 non numerate, rilegate in mezzapelle. Stessa mano con inchiostro nero. In costa è impresso Medeadel Sig. Mayer |Atto primo [secondo]. Ex libris di Mr. Le Cte Frédéreic de Pourtalés 203 La partitura completa di sinfonia è conservata da diverse generazioni dalla famiglia Orlandini di S. Pellegrino Terme (BG): ringrazio il Signor Gino Orlandini e la figlia Teresa che mi hanno consentito di visionare l’esemplare. I-Pap Borb 699 Medea in CorintoRidotta coll’Accompagnodel solo Fortepianoda Moranti. Mss. s.d. 1 vol. in 8° obl, cc. ??, copertina rigida su cui è impresso: MedeaIn CorintoGrand’Operadel CelebreMayr. Il frontespizio è scritto a mano entro un fregio stampato da G. Anghimenti (?) Carli Partizione di Medea in Corinto: Opera seria in due attimusica del S. Mayer, ridotta per Pian-Forte, Paris, Carli. Le partiture possono essere suddivise in due distinti gruppi204.  Quelle di Bologna, Parigi, Milano, Bergamo, Dresda e dell’Accademia filarmonica romana sono trascurate, spesso presentano più grafie e sono prive di frontespizi interni per i singoli numeri: un riscontro con i libretti rimastici conferma la loro destinazione d’uso, poiché le varianti introdotte nei numeri musicali corrispondono alle alterazioni che il testo letterario originale subì nei diversi allestimenti. Quelle conservate a Firenze, Napoli, New York, Parma, Venezia, Bruxelles, San Pellegrino Terme, al Museo Donizettiano di Bergamo, nel Conservatorio di Roma e nella Biblioteca dei Principi Massimo sono invece in bella e omogenea grafia, ben rilegate, spesso con frontespizi interni differenti per alcuni numeri da vendersi separatamente, in alcuni casi hanno indicazione della casa che le ha prodotte: evidentemente erano destinate ad archivi e biblioteche di collezionisti. Un caso incerto costituisce la partitura conservata alla Public Library di Boston: compilata in bella ed uniforme calligrafia, potrebbe appartenere a quest’ultimo gruppo, ma alcune note scritte a matita in francese – «à faire», «gravé» – fanno pensare che sia stata utilizzata da un incisore di musica. Si può tentare una datazione delle partiture oggi esistenti.  Per il primo gruppo, l’operazione è abbastanza agevole: tutte dovrebbero risalire agli anni ’20.

Anche la copia di Parigi 5844, che pure fu posseduta da Emanuel García, uno dei cantanti del 1813, risale a questo periodo: fu infatti copiata nel 1823 da Rinaldi, della copisteria del Théâtre Italien, in occasione della beneficiata a favore dello stesso García. È possibile che egli avesse portato una copia della partitura da Napoli, ma non è certamente questa, sebbene quella napoletana possa esserne stata l’antigrafo. Alcuni materiali conservati a Bergamo sono chiaramente datati dal nome dei cantanti riportarti in testa al folio. Si tratta delle particelle predisposte per l’allestimento bergamasco del 1821. Alcune delle modifiche apportate in quei numeri e il tipo di grafia (autografa), d’inchiostro e di carta fanno pensare che anche la partitura I-Bc UU33 risalga a questo periodo e rispecchi parzialmente quell’allestimento: vi si trova il rifacimento del rondò di Medea ‘Ah che tento’ con Per una prima introduzione allo studio delle copie manoscritte delle opere allestite nel primo Ottocento cfr. il  Manuscript Copies in Philip Gossett, The Operas of Rossini: Problems of Textual Criticism in Nineteenth-Century Opera, Princeton, Ann Arbor, Mi. Solo il frontespizio fu copiato da Andreoli. Al proposito cfr. Janet Lynn Johnson, The Théâtre Italien, Opera and Theatrical Life in Restoration Paris, 1818-1827, The University of Chicago, Chicago, Illinois, -- violini concertanti, la cavatina ‘Sommi dèi’, soppressa in tutte le altre partiture, la trasposizione della seconda aria di Egeo. Non si trovano però in questa partitura le due introduzioni di Bergamo e i ritocchi ai recitativi dovuti alla soppressione del ruolo di Evandro. L’esemplare nel Conservatorio di Milano documenta la versione scaligera dell’opera andata in scena l’8 marzo 1823 e dovrebbe discendere direttamente da quello bergamasco, sebbene ripristini alcune sezioni originarie e ne cambi altre. La vicinanza di Milano con Bergamo e il diretto coinvolgimento di Romani e Mayr nell’allestimento scaligero non obbligavano a cercare il materiale napoletano per copiare partiture e parti: possiamo così ritenere che il manoscritto del Conservatorio di Milano documenti una nuova volontà d’autore.  Questa partitura fu poi certamente la base per la compilazione sia della seconda partitura bolognese (SGH I Coll. 31), sia dell’altra partitura milanese, quella conservata nell’Archivio Ricordi, relativa invece all’allestimento del 1829, come si evince senza possibilità d’errore dalla presenza della seconda versione della cavatina di GIASONE , che coincide perfettamente con il testo riportato nel libretto del Carcano. Le partiture parigine, di Dresda, e quella dell’Accademia filarmonica romana, fanno caso a sé: le prime certamente furono la base per gli allestimenti di Parigi, Londra e Napoli 1826, ad oggi non documentati se non dai libretti; le altre due, invece, per quelli di Dresda diretto da Morlacchi e dell’Accademia filarmonica romana. Tutte e quattro dovrebbero derivare, più o meno direttamente, da una delle copie prodotte e vendute a Napoli negli anni ’10, e non si discostano molto da ciò che fu inscenato al San Carlo nel 1813-14. Se il confronto tra partiture e libretti rende relativamente agevole la datazione del primo gruppo di partiture, più complesso si presenta il caso delle partiture con indicazioni editoriali o commerciali. Sulla base delle indicazioni di copisteria e di vendita, tutte sono databili in anni precedenti alla fortuna scenica dell’opera (1813-1821).

È da presumere che le copie napoletane siano state copiate per collezionisti negli anni in cui essa era in cartellone al San Carlo: non nel 1826, quando andò in scena una versione rimaneggiata, ma attorno al 1815 o poco dopo, visto che nessuna di esse comprende la cavatina ‘Sommi dèi’209. In ogni caso, dalla copisteria di Merola e dalla sua stamperia di Strada di Chiaja n. 202, nel vicoletto n. 5, sono uscite ben cinque delle 206 Philip Gossett, Medea in Corinto… a facsimile edition of a printed piano-vocal score cit. e Jeremy Commons, note introduttive alla incisione dell’opera per Opera Rara citata non conoscevano questa partitura e ritenevano che l’allestimento del 1823 fosse documentato dalla partitura Ricordi. Sulla base dei confronti con I libretti editi, sono convinto, invece, che la partitura Ricordi sia relativa all’allestimento del 1829 al Teatro Carcano. Sulla questione cfr. comunque il  I di questa dissertazione. In appendice al volume Alessandro Roccatagliati, Felice Romani, librettista. Sono pubblicate lettere di Mayr molto esplicite al riguardo. 208 Cfr. il libretto edito in quell’occasione. 209 Se è vero, come afferma Gossett, The Operas of Rossini: Problems of Textual Criticism in Nineteenth-Century Opera cit.) che «copies made at the time of the premiere reflect the original version», dobbiamo supporre o che le partiture napoletane siano successive al 1814 (e prendiamo per buona la data di Commons relativamente al taglio della cavatina ‘Sommi dei’: 1815), o che quella cavatina sia stata tagliata precedentemente sebbene i libretti del 1814 ancora la riportino non virgolettata. partiture oggi sopravvissute, le due napoletane, quella newyorkese, quella di Bruxelles e quella di Firenze (D. I. 345-346). La copia conservata alla Biblioteca del Conservatorio di Roma e quella dei Principi Massimo, sono uscite invece dalla copisteria di Gaetano Rosati quando stava in via del Babuino n. 117: è certamente precedente, quindi, al 1828210, ma resta il dubbio se sia precedente o successiva alla rappresentazione dell’Accademia filarmonica, di cui non rispecchia le varianti. La partitura di Firenze P. T.  fu copiata in loco nell’azienda di Giuseppe Lorenzi, quando questa teneva magazzino e stamperia di musica in Piazza di S. Lorenzo.

Il frontespizio non cita il «Gabinetto di Musica, e calcografia all’insegna dell’Orfeo» che contrassegna le edizioni successive al settembre 1816. Potrebbe quindi essere precedente a quella data. Considerazioni d’altro genere possono confortare, se non confermare, questa supposizione. Alla biblioteca Palatina di Parma si conserva infatti una copia ben rilegata d’uno spartito per canto e piano compilato in bella calligrafia da Giovanni Morandi, marito del soprano Rosa Morandi. Nel 1818 esso era in vendita a Trieste, assieme allo spartito dell’Otello di Rossini, negli scaffali del negozio di musica di Carlo Dottori. Uno sguardo alla cronologia della carriera e degli spostamenti dei Morandi212 ci consente di avanzare ipotesi sulla datazione di questo spartito, e, conseguentemente della partitura Lorenzi. Giovanni e Rosa Morandi erano da tempo in contatto con Mayr: nel 1808 Giovanni aveva già ridotto per canto e piano Adelasia e Aleramo; nel 1813 Rosa aveva creato la parte di Clotilde nella Rosa bianca e rosa rossa genovese. Subito dopo quella stagione, fu scritturata da Paër a Parigi: vi si recò col marito e vi restò fino al 1815, quando i due tornarono in Italia e svernarono a Firenze per la nascita del loro terzogenito. Già a primavera Rosa cantava a Venezia, nell’estate a Vicenza, per poi ripartire per Parigi a settembre dove si fermò col marito qualche mese. Poiché difficilmente la partitura di Medea in Corinto poteva essere giunta a Parigi entro il 1818, Giovanni Morandi può averla vista solo a Firenze, nell’inverno 1815-1816, tra l’altro in mesi per lui tranquilli, mentre la moglie attendeva il nuovo figlio. La copia di riferimento potrebbe essere stata proprio l’edizione Lorenzi, che così sarebbe databile tra il 1815 e il 1816. Anche la copia Ricordi dev’essere successiva al 1815, quando la ditta milanese si trasferì in contrada Santa Margherita: nella copia oggi conservata alla Fondazione Levi di Venezia un fregio a stampa completato a mano ci informa che l’editore Giovanni Ricordi, incisore e copiatore di musica stava già lì, vicino alla Piazza de Mercanti, anche col negozio. Siccome però nel 1819 Ricordi acquisì l’archivio Lorenzi, la partitura di Medea in Corinto potrebbe essergli giunta  Sulla casa Rosati cfr. Bianca Maria Antolini, Annalisa Bini, Editori e librai musicali a Roma nella prima metà dell’Ottocento, Roma, Torre d’Orfeo, 1988, che, tra le scarse informazioni, dà notizia di un trasferimento dell’editore in via della Croce nel 1828. Si veda anche Bianca Maria Antolini, Aspetti dell’editoria musicale a Roma, in Musica e musicisti nel Lazio, Roma, F.lli Palombi, e Bianca Maria Antolini e Annalisa Bini, Music Publishing in Rome During the 19th Century, in «Fontes artis musicae», XXXII. Sulle vicende della casa Lorenzi, cfr. The New Grove Handbooks in Music. Music Printing and Publishing, a cura di D. W. Krummel and S. Sadie, London, The Macmillan Press, e Dizionario degli editori musicali italiani. 1750-1930, a cura di B. M. Antolini, Pisa, ETS, 2000. attraverso la ditta fiorentina e quindi essere successivo a quella data. Per stabilire un termine ante quem, basta osservare che Ricordi operò in contrada Santa Margherita anche col negozio solo fino al 1822, quando trasferì la sede commerciale (ma non l’officina) dirimpetto alla Scala. L’esemplare conservato a Venezia dovrebbe essere quindi datato tra il 1819 e il 1822, ma poiché non accoglie le varianti apportate a Bergamo nel 1821, allestimento che certamente Ricordi non poté ignorare, ritengo si possa limitare la datazione agli anni compresi tra il 1819 e il 1820.

A giudicare dalla grafia identica a quella che si ritrova in molti fogli dell’archivio Mayr, la partitura di San Pellegrino Terme e quella conservata al Museo Donizettiano di Bergamo sembrano essere uscite dai copisti di Mayr; anch’esse dovrebbero essere precedenti al 1821 perché non recano traccia della revisione per Bergamo e per Milano: in caso contrario i collaboratori del maestro l’avrebbero infatti prontamente accolta. L’ultima partitura di questo genere, infine, è quella oggi conservata dalla Biblioteca Palatina di Parma: questa non ha indicazioni di editore ma in costa porta stampato lo stemma di Maria Luisa di Borbone, duchessa di Lucca. Anch’essa è quindi databile tra il 1818 e 1824, gli anni in cui Maria Luisa regnò sulla cittadina toscana. In ogni caso tutte queste partiture sono molto simili le une alle altre: presentano gli stessi numeri musicali e hanno lievi differenze nelle sezioni in recitativo, in gran parte attribuibili ad errori di copiatura. Tutte insomma dovettero derivare dalle rappresentazioni napoletane del 1815 circa. VARIANTI DELLE FONTI Legenda: B-Bc: Bruxelles, Bibliothèque du Conservatoire Royale, K12. 457 D-Dl: Dresden, Sächsische Landesbibliothek, Mus. 4104-F-505/F-505A F-Pn1: Parigi, Bibliothèque Nationale, L5844 F-Pn2: Parigi, Bibliothèque Nationale, D7808 I-Bc1: Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, UU.33 I-Bc2: Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, SGH I Coll. 31 I-BGccxxx/x: Materiali conservati all’archivio Mayr di Bergamo. Segnalo qui solo quelli assenti in altre partiture; completo l’indicazione con numero faldone / numero fascicolo, secondo la numerazione che ho restaurato presso la biblioteca bergamasca. I-BGm: Biblioteca del Museo donizettiano di Bergamo (BG) I-Fc1: Firenze, Conservatorio T 220 I-Fc2: Firenze, Conservatorio D. I. 345-346 I-Mc: Milano, Conservatorio, Part. Tr. ms. 206 I-Mr: Milano Ricordi I-Nc1: Napoli, Conservatorio, XXXVIII.2.13-14 I-Nc2: Napoli, Conservatorio, XXXVIII.2.15-16 212 Sulle vicende della famiglia Morandi, cfr. Giuseppe Radiciotti, Lettere inedite di celebri musicisti annotate e precedute dalle biografie di Pietro, Giovanni e Rosa Morandi a cui sono dirette, Milano…, Ricordi, s. d. 213 Cfr. Dizionario degli editori musicali italiani. 1750-1930 cit. Cfr. anche The New Grove Handbooks in Music che specifica anche che nel 1815-16 officina e negozio si spostarono dal numero 1108 al numero 1065 della medesima Contrada di Santa Margherita. Un controllo dei numeri civici corrispondenti alla piazza della Mercanzia di cui parla il frontespizio potrebbe consentire di datare con più precisione la partitura. Cfr. anche Casa Ricordi, profilo storico, a cura di C. Sartori, Milano, Ricordi, 1958. I-Orlandini: Biblioteca privata Orlandini di S. Pellegrino Terme (BG) I-PAp1: Parma, Biblioteca Palatina, Borb 694 I-PAp2: Parma, Biblioteca Palatina, Borb 699 I-Raf: Roma, Accademia filarmonica romana, 14. B.44 I-Rmassimo: Biblioteca privata dei Principi Massimo, Roma. I-Rsc: Roma, Conservatorio, A Ms. 91-92 I-Vc: Venezia, Fondazione Levi, CF A 3 US-Bp: Boston, Public Library: **M.41.14 US-NYp: New York, Public Library: Mus Res *MSI Carli: Partizione di Medea in Corinto: Opera seria in due attimusica del Signor S. Mayer, ridotta per Pian-Forte, Paris, Carli.

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NUMERO 1 -- INTRODUZIONE, “Perché temi”.

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Questo numero circolò principalmente nella versione napoletana originale.  Solo i teatri lombardi lo modificarono. Bergamo (B) nelle prime sezione del coro e nella cavatina di PRINCIPESSA CREUSA, La Scala e Carcano nelle ultime e con l’introduzione di una breve cavatina di Creonte, assente nella prima versione. Della prima versione si trovano alcune varianti leggermente diverse per il testo sottoposto ai pentagrammi. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-Bc1; I-BGm; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-Rmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) “Perché temi? A te l’amante” Ottonari, Moderato, Fa-Do, C b) Se mio si serba. Quinari, Allegretto, (Do)-Fa, ¾. c) Principessa, a te corriamo. Ottonari, Moderato, Sib, ¾. d) Ah, splenda propizio. Senari, Allegretto con moto, Fa-Do-Fa, 2/4 e) Cede Acasto, o PRINCIPESSA CREUSA; invan chiedeva. Sciolti, recitativo PRINCIPESSA CREUSA, Creonte, Evandro Versione A' (I-Raf) Uguale a versione A ma con varianti testuali che si ritrovano nel libretto di Rm24. Versione A'' (F-Pn1) Uguale ad A ma con Tideo al posto di Evandro Versione B (I-BGc320/8) Ia-b sono sostituiti da: a) Dunque ancor il suon di guerra. Ottonari, Moderato; re, 2/4 Ma qui s’appressa la bella vergine. Quinari doppi piani e sdruccioli b) Io vorrei che ai vostri accenti. Ottonari, Andantino,l Fa, C c) Dolce pensiero. Quinari, Allegro,Fa, C Versione C (I-Bc2; I-Mc; I-Mr) Ic-d è sostituito da: c) A te di lieto evento. Settenari, Allegro, Sib, C Alfin gli dei secondano. Settenari (sdruccioli/piani), Maestoso, Sib, C d) Vederti felice Ah, splenda propizio. Senari, Allegretto con moto, Fa Il numero manca in I-PAp2. Definita introduzione da ‘Introduzione’ in I-Rsc nell’indice scritto sul foglio di guardia incollato sul frontespizio, da I-Fi1, I-Mc, I-Orlandini, F-Pn1, in testa alla prima carta del numero. IBc2, I-Mc, I-Mr la definiscono ‘introduzione’ fino a e) escluso. US-Bp e I-Vc scrivono «Pinge » invece di «Finge» come in D21, e «tante volte è» invece di «qualche volta fu» nel verso «Sovente un male finge il pensiero, ma qualche volta è menzognero». I-Raf ha varianti testuali di Rm24 nel recitativo, non nella cabaletta. I-Rsc nel recitativo ha «destin… ma senti», in vece che «destino, ah senti».  La tabella suddivide i numeri in base al metro poetico adottato e segna per ciascuna sezione metrica l’agogica, la tonalità e il tempo dell'intonazione musicale. F-Pn1 inverte il testo della cabaletta «Propizio, deh splenda». I-PAp1 in a) scrive «pinge… ma tante volte», «pegno», «ella d’amor ti diede». In US-Bp la sezione d) è in ‘allegretto non molto’. In testa alla carta di ‘Cede Acasto’, inoltre scrive a matita «à faire». In I-Mc l’ultima carta di b) cambia grafia e la nuova prosegue per le sezioni c) e d) modificate rispetto alla prima versione dell’opera. NUMERO 2: MARCIA, CORO E CAVATINA DI GIASONE “Fosti grande”. Di questo numero ci restano tre versioni principali: quella napoletana, più diffusa, una sua trasposizione di Do maggiore adottata alla Scala, una terza, sempre in Do maggiore, ma profondamente ristrutturata nella cavatina di GIASONE  e adottata al Carcano. Le version inscenate a Parigi e Londra fecero cadere il recitativo conclusivo tra Tideo e GIASONE : solo una partitura registra questo taglio. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-Bc1; I-BGm; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-PAp2; IRmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) “Fosti grande allor che apristi” Ottonari, Allegro, Re, C b) GIASONE, Di gloria all’invito. Senari, Maestoso, Re, C c) Ogni periglio alfine. Sciolti, recitativo GIASONE , Creonte, PRINCIPESSA CREUSA d) Amico, la mia sorte. Sciolti, recitativo GIASONE , Tideo Versione A' (I-Raf) Cavatina in Re, ma testo con modifiche di Rm24 Versione A'' (F-Pn1) Come A ma sopprime d) Versione B (I-Bc2; I-Mc) L’intera cavatina è in Do; Versione C (I-Mr) articola diversamente b) suddividendo: b) Sposa signor è pago. Sciolti, recitativo b’) Di gloria all’invito. Senari, Maestoso, Do (testo diverso da A) b’’) Pur fra si liete immagini. Settenari, Andantino, la-Do b’’’) L’amante, l’amico. Senari, Moderato, Do Il numero è definito «Coro e sortita di GIASONE » in I-Bc2, I-Mc e I-Mr; prima della sezione b) I-Mc specifica «Cavatina». I-Raf inserisce anche il testo variato in Rm24 oltre all’originale (cfr. le voci maschili di cc. 74-75). I-Mr dopo b) lascia le cc. 83v e 84r-v vuote poi riprende a 85r con c) improvvisamente interrotta; riparte da 86v che termina a 89r con didascalia «Pur fra si liete immagini». A c 90 però ricomincia «Di gloria all’invito» in una nuova versione e con testo nuovo: «GIASONE : Di gloria all’invito fui vostro guerriero, mi fecero ardito amore e dover.  CORO: – La gloria, l’amore ti cingon la fronte di mirti, di allori, invitto guerriero».  A c. 84 le ultime tre battute di coda sono cancellate. Al loro posto è copiato l’andantino, «Pur fra si liete immagini» per poi proseguire secondo il testo di Mi29. I-PAp1 scrive «omai dicesti» invece di «decisi», «consiglio» come Rm24,  «ti osi a GIASONE » come Mi23. I-Pap2, come Carli, non copiano alcun recitativo: restano quindi indecidibili tra la versione A e A’’. US-Bp, in testa alla sezione c), scrive a matita: «à faire»; I-Mc modifica il finale del recitativo d) in calce al quale specifica «segue con strumenti e duetto» per legare questa scena direttamente al duetto tra GIASONE  e Medea del n. 4. I-Rmassimo scrive « e qual consiglio», invece di «e qual periglio».

NUMERO 3: CAVATINA DI MEDEA, “Sommi dei”. È questo uno dei numeri che pongono i maggiori problemi, e relativamente al quale abbiamo uno scambio di lettere tra Mayr e Franchetti. Solo la partitura I-Bc1 riporta questa cavatina (A) che si trova poi in quaderni sciolti sia a Bergamo che in I-Mc (Part. Tr. ms. 2069 compilata nella stessa grafia della partitura); ne esiste, infine, una tarda edizione Ricordi del 1822 (Anno II, classe IV. Fascicolo 25 della Biblioteca di Musica moderna). Solo i primi libretti napoletani la stampano: in tutti gli altri resta la scena con il coro introduttiva, ma la cavatina è tagliata (C). Il libretto della Scala, così come la partitura di I-Mc, tagliano anche la scena (B). A Bergamo (Fald 320/26a-c e 321/9) sono inoltre conservate due copie di una Cavatina di Medea fuori libretto («Perché mai i falli miei»), il cui testo trascrivo in nota nell’edizione del libretto. Versione A (I-Bc1, I-BGc) a) Come s’en riede - Fermati! e ascolta. Sciolti. Medea, Coro b) “Sommi Dei, che i giuramenti” Ottonari, Larghetto, Mi, 6/8 c) Te solo invoco. Quinari, Mi, C d) Sventurata Medea! Quale di lutto. Sciolti. Ismene e GIASONE  Versione B (I-Mc) a-d) Soppresso tutto: viene modificata la scena precedente per passare direttamente al duetto Versione C (F-Pn1; I-Bc2; I-Mr) a) Resta b) Soppresso c) Soppresso d) Soppressa Versione C' (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-BGm; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-Rmassimo; I-Rsc; ISPTorlandini; US-Bp) a) Resta b) Soppresso c) Soppresso d) Resta Versione C'' (I-Fc1; I-Raf; I-Vc; US-NYp) Versione uguale a C' ma con varianti di testo di Rm24 Il numero manca in I-PAp2 e Carli. Definita ‘Cavatina’ in svariati materiali di I-BGc, I-Mr annuncia «Cav. Di Medea» alla fine del numero precedente, poi cancella l’indicazione. I-Raf: Nel recitativo di Ismene corregge la parola «tutto», inizialmente copiata, con «lutto» in «Qual di lutto giorno sia questo». Si trovano le leggere varianti di Rm24. I-Rsc sbaglia a copiare e scrive «Eccola», invece di «Accolta», in «Accolta ho la smania …»; I-Fc1 e US-NYp, I-Mr copiano «Accolta ho la smania nel cor» invece che «nel sen». Nel recitativo di Ismene e GIASONE , in I-Fc1, I-PAp1 e US-NYp si trovano varianti nel libretto di Rm24: «Sentimi Ismene, intese il suo fato Medea, Parte?, Ah! Signor, questa di tante pene cruda mercé le dai?»; I-Nc1 scrive «Accolta ho la smania in volto», dopo aver cancellato e corretto «sen». In F-Pn1 si trova la variante di Pa23, L26, Na26. US-Bp sbaglia e invece di «… pugnando, barbara morte…», scrive «…pregando barbaramente io le ho cambiato in bando».

NUMERO 4: DUETTO DI GIASONE  E MEDEA, “Cedi al destin, Medea” Questo numero dell’opera, uno dei più celebri, restò sostanzialmente inalterato in tutti gli allestimenti. Si trova in in tutte le partiture e ne abbiamo anche molte edizione e copie manoscritte sciolte.  Uniche varianti si trovano nel recitativo, dove a Bergamo e alla Scala Romani modificò alcuni versi e sostituì una citazione di Corneille con una di Seneca (A’’), mentre a Napoli, nel 1826, e al Carcano altri furono tagliati (A’’’). Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn1; F-Pn2; I-BGm; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-PAp2; IRsc; I-Rmassimo; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) Fuggir mi vuoi, barbaro? A me soltanto. Sciolti, recitativo b)  GIASONE, “Cedi al destin, Medea”. Settenari, Moderato, Sib c) O mia virtude antica. Settenari, Largo, Mib d) Mira, oh Dio, Medea di prega. Ottonari, Moderato, do min- Mib-Sib Versione A' (I-Raf) Versione uguale a A ma testo con leggere modifiche di Rm24 Versione A'' (I-Bc1; I-Bc2; I-Mc) Modifica il verso «Che sperar posso? Che mi resta? Io» in «Che ho da sperar? Che resta a me? Medea». Versione A''' (I-Mr) Mantiene il verso di A ma sopprime i versi precedenti «L’amor dei figli,La vita tua … dell’onor mio la voce», fino a «Il frutto ne cogliesti e reo non sei». In diverse fonti definito «Duetto». I-PAp2 lo definisce «Gran scena e duetto». In I-Raf un foglietto spillato alla c. 118v dice «Duetto Cedi. Nella 3° e 4° e 5° battuta si lascino le due note delle trombe e si continui la nota tenuta ai corni». Le battute indicate sono quelle dove GIASONE  canta per la prima volta  “Ccontro il destin non basti” e dove in effetti i corni hanno note tenute.  Una correzione a matita prolunga quella nota fino a bb. 6 e 7 (altrimenti vuote). Altro foglio spillato a c 122 dice «lo stesso come l’altra volta» in corrispondenza a «sei del suo destin maggiore». Nac1 impagina da c. 140r a c. 145v con bella calligrafia e ripete il nome dell’editore (Merola), come se fosse vendibile a se stante. Ugualmente fa F-Pn2 che alla carta 112r scrive un elegante frontespizio «Medea in CorintoCedi al destin MedeaDuettodel Sig. Maestro Simone Mayr[scritta abrasa di cui restano solo svolazzi]F. 13». US-Bp scrive a matita in alto «Le Duo Est Gravé». I-Mc separa scena e duetto con un verso di carta bianco. NUMERO 5: ARIA DI EGEO, Io ti lasciai piangendo. Quest’aria fu sottoposta a diverse modifiche, soprattutto per l’aggiunta di una cabaletta a Bergamo e, diversa nel testo sebbene identica nella musica, alla Scala e al Carcano. A Londra l’intera aria fu sostituita da un’altra in tre sezioni, ‘Dolce fiamma del mio cuore’, che si prestava ad essere composta con cabaletta finale (C). Di tale aria non abbiamo esempi nelle partiture ma in due trascrizioni inglesi: The Favourite Airs in Mayer’s Opera of Medea in Corinto: Book 1 arranged for the Pieno Forte with an Accompaniment for the Flute by F. Latour Pianiste to his Majesty, London, F.T. Latour [1826] e The Favourite Airs in Mayer’s opera of Medea [music by] J. S. Mayer, arranged for two performers on the pianoforte by J. F. Burrowes, London, Chappel, III. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn1; I-Bc1; I-BGm; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-PAp2; I-Raf; I-Rmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) Alfin vi riveggo. Sciolti: scena, Larghetto b) Io ti lasciai piangendo. Settenari, Andantino grazioso, Do, C tagliato c) M’inganno, oh cielo, Egeo. Sciolti, recitativo Egeo e Tideo. Versione B (I-BGc320/10) Aggiunge dopo b) b’) Ma se mi lacera. Quinari (sdruccioli e piani), Allegro, Sib, C; Versione B' (I-Bc2; I-Mr) Aggiunge dopo b) b’) Ma forse eccedono. Quinari sdruccioli e piani, Allegro, La min., C Versione B'' (I-Mc) Aggiunge dopo b) b’) Ma forse eccedono, come B' ma in Sib e con testo leggermente modificato: a «eterni duranoi dolci affetti» sostituisce «sì presto estinguersinon san gli affetti». La scena c) è con solo basso continuo. Versione C Sostituisce a) con Dolce fiamma del mio core (Londra 1826) Definito Cavatina da I-BGm; I-Fc1; I-Fc2; I-Orlandini; US-NYp, I-PAp2; F-Pn2 e da diverse copie di I-BGc; in altre di I-BGc «Sortita di Egeo»; I-Mc la titola «Aria», e segna poi una didascalia alla fine «Dopo la sortita di Egeo». I-Bc1, I-PAp1, F-Pn1, I-Rsc segnano il tempo C tagliato. I-Nc1 lo copia con indicazione dell’editore in basso a sinistra («In Napoli presso Merola»), come fosse vendibile a parte.

Il numero manca in F-Pn2 evidentemente perché smarrito: a c. 169, infatti, in chiusura del recitativo, c’è l’indicazione «Segue Cavatina» che tuttavia non si trova. US-Bp, in testa alla pagina, a matita scrive «D’ici jusqu’au finale c’est Gravé». SCENA EGEO E TIDEO, M’inganno, oh cielo, Egeo (B-Bc; D-Dl; F-Pn1; F-Pn2; I-Bc1; I-Bc2; IBGm; I-Fc2; I-Mr; I-Nc1; I-Nc2;; I-PAp1; I-PAp2; I-Raf; I-Rmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; IVc; US-NYp) A Bergamo venne leggermente modificata perché al posto di Tideo compare in scena Ismene: solo alcune carte di Bergamo testimoniano questa modifica. Anche Ricordi scrive inizialmente Ismene, poi cancella e sostituisce con Tideo. La Scala aggiunge nuovi versi alla scena finale (C), ma essi sono virgolettati sul libretto e non sono quindi testimoniati da alcuna partitura: IMc, però, modifica l’ultimo verso del recitativo per renderlo compatibile con quelli inseriti nel libretto tra virgolette. Versione B (US-Bp, I-Fc1) Soppressa Versione C (I-Mc) La scena è leggermente modifica per a legarsi ai versi virgolettati in Mi23 e Mi29 In BG322/6 si trova un quaderno «dopo la sortita di Egeo» con il recitativo tra Tideo ed Egeo alla cui conclusione segue «subito» un dialogo tra Creonte e GIASONE . I-BGc322/20 riporta il recitativo tra Tideo ed Egeo, e chiude prescrivendo «segue altra scena e terzetto di GIASONE , Egeo e Creonte»: questa indicazione è però cancellata e sostituita da «Finale». NUMERO 6: FINALE PRIMO, “Dolce figliuol d’Urania”. Il finale primo restò sostanzialmente inalterato in tutti gli allestimenti. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn1; F-Pn2; I-Bc1; I-Bc2; I-BGm; I-Fc1; I-Fc2; I-Mc; I-Mr; I-Nc1; INc2; I-PAp1; I-Raf; I-Rmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-NYp; US-Bp; Carli) a) “Dolce figliuol d’Urania”. Settenari (sdruccioli e piani). Larghetto, Fa, C b) Cara Figlia, prence amato. Ottonari, Moderato, Do, C c) A se manco a te di fede. Ottonari, Andante, Sib, ¾ d) “Scendi Imene in più bel giorno”/”Vanne a terra altar funesto”. Ottonari, Allegro vivace, Sol, C  e) Al rito infame o perfidi. Settenari (sdruccioli e piani), [Allegro vivace], Mib, C e) Mira, infido in quale stato. Ottonari, Andante, Lab, C f) Dunque ricusi e vuoi. Settenari, [Andante, Lab, C] g) Conducete alle navi costei. Decasillabi, Allegro vivace, Do, [ C] Manca in I-PAp2. I-Raf alle carte 201-208 presenta il coro con le parti sia originali che nella variante di Rm24. A c. 166v, 169 e 182 alcuni foglietti spillatati correggono le parti di corni, tromboni e fagotto. In IFc1 d) è in C tagliato. In I-Nc1 il finale è nella stessa mano che ha iniziato la partitura: dal punto d) però la mano cambia fino a fine partitura. 4 carte del finale erano state dimenticate, sono pertanto aggiunte dalla medesima mano B fuori rilegatura. I-Mr fa seguire alla fine del finale, e quindi in calce al volume, le parti di trombe e tromboni di tutto l’atto. NUMERO 7: CORO E CAVATINA DI PRINCIPESSA CREUSA, “Amiche cingete”/“Caro albergo”. Anche questo numero introduttivo fu sottoposto a diverse varianti negli anni venti. A Bergamo fu modificato il testo del coro introduttivo, sebbene la musica rimase la medesima; sempre a Bergamo fu estrapolata una regolare aria tripartita con tempo di mezzo e cabaletta per PRINCIPESSA CREUSA, poi ripresa testualmente alla Scala e al Carcano; con le medesime intenzioni, anche a Londra cambiarono l’aria di PRINCIPESSA CREUSA, ma non abbiamo tracce della musica utilizzata (E); a Parigi nel 1823 fu introdotto un balletto, mentre nel 1826 a Napoli fu soppresso l’intera introduzione (D): anche in questo caso non abbiamo partiture che testimonino tale taglio, mentre l’indicazione del balletto compare, senza musica, in uno dei manoscritti parigini. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-Bc1; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-Raf; I-Rmassimo; IRsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) Amiche cingete. Senari, Allegretto con moto, Sol, 2/4 b) Caro albergo in cui felice. Ottonari, Andantino grazioso (arpa solista), Sib, 2/4 c) Ma sola io riedo. Quinari, Andantino non troppo, sol, 3/8 d) Ah! Se amore provaste mai. Ottonari, [Moderato, Sol-Sib, 3/8] e) Eccoti o figlia! A lari tuoi deponi. Sciolti, recitativo di Creonte, PRINCIPESSA CREUSA, Evandro Versione A' (BG, 320/14) Leggere modifiche al testo di a) secondo il libretto di Bg21. Versione B (F-Pn1) c) e la sezione solista di d) sono soppressi. Versione C (I-Bc2; I-Mc) a) Amiche cingete. Senari, Allegretto con moto, Sol, 2/4 b) Grazie vi rendo amici. Sciolti, recitativo di PRINCIPESSA CREUSA c) Compi l’opra, o ciel pietoso. Ottonari, Andante, Sib, ¾ d) Figlia amata! [Ah padre, Oh Dio! Ottonari, Allegro moderato, Mib, C e) Amor, se tale è il premio. Settenari, Allegretto, Sib, 2/4 f) Sì con più lieti auspici. Sciolti, recitativo di Creonte, PRINCIPESSA CREUSA, Evandro Versione C' (I-Mr) Sopprime gli ultimi versi del recitativo finale. Versione D L’intera scena è soppressa. Versione E b)-d) sono riformulati come in L26. Manca in I-PAp2. Nessuna partitura riporta le versioni D e E. I-Orlandini e I-Rsc indicano «coro» la sezione a), e «aria di PRINCIPESSA CREUSA con coro» le alter I-Mc separa il coro dall’aria di PRINCIPESSA CREUSA: il coro finisce a c. 10r del secondo volume, poi, a c. 11r recita «Subito dopo il primo coro d’introduzione» e avvia la sezione qui indicata come b) della versione C. I-Mr, dopo una carta bianca tra a) e b) comincia con Caro albergo, poi cancella e riprende, dopo un’altra carta bianca, e l’indicazione «Subito dopo il primo coro d’Introduzione», con Compi l’opra. F-Pn1, in centro alla prima carta di a), nei pentagrammi ancora vuoti del coro, scrive «avec le ballet». Nella lunga introduzione per arpa all’aria di PRINCIPESSA CREUSA, è indicato «Ballo», l’intera sezione c) è, inoltre, tagliata. Nel recitativo e), sempre in F-Pn1, Tideo sostituisce Evandro, come nel libretto di P23. A fine scena f), I-Mc scrive «O scena e Cavatina di Medea, o il recitativo seguente»: a questo segue un verso bianco (35v) e su 26r inizia regolarmente la cavatina. NUMERO 8: GRAN SCENA E SCONGIURO, MEDEA, “Antica notte”. Scena sostanzialmente stabile in tutte le versioni, salvo una maggiore semplificazione degli abbellimenti nello spartito Carli. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-Bc1; I-Bc2; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-Mc; I-Mr; I-PAp1; IPAp2; I-Raf; I-Rmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) Dove mi guidi? E quale. Sciolti b) Antica notte, Tartaro profondo. Endecasillabi, Adaggio, re, C c) Già vi sento: si scuote la terra. Decasillabi, re-La/la, C d) Questa spoglia vi consegno. Ottonari, [Fa-sol, C] e) Del tosco spargetela. Senari (sdruccioli e piani), [re, C] Versione B (F-Pn1) Taglia i versi della scena da «Ogni piacer è spento» a «Antica notte» esclusa Definita «Scena e Cavatina» da I-Fc1; I-Fc2; I-Raf; F-Pn2 e US-NYp, I-Mc, US-Bp; «Aria» da I-PAp1 e F-Pn1, I-Orlanidini e I-Rsc; «Scena Grande dello Scongiuro di Medea» da I-PAp2 e «Gran scena e scongiuro» da Carli. In I-Raf ci sono correzioni nelle parti dei fiati su foglietti spillati a c. 58, 60-63, 65; in F-Pn2 la cavatina è interrotta a «e per i patti no….» come se mancasse un quaderno: a c. 266, infatti, compare una indicazione centrata «Dopo la Cavatina di Medea». I-PAp1 è «destano» US-Bp scrive in testa al foglio «Gravé». NUMERO 9: DUETTO DI  GIASONE e CREUSA, “Non palpitar, mia vita” (the best). Come il Duetto tra Medea e GIASONE  del primo atto, anche questo era uno dei numeri più celebri dell’opera, e ci è tramandato sostanzialmente identico da tutte le partiture, dagli spartiti e dalle numerose copie sciolte che furono edite o compilate. È però, paradossalmente, una delle sezioni che pone più problemi per la varietà delle versioni, spesso tra loro contraddittorie, con cui si presenta il recitativo iniziale. A Bergamo (322/16) si trova anche un recitativo nuovo che preluderebbe ad un duetto tra Medea e Creonte: il recitativo non compare in alcun libretto, il numero né in libretti né in copie musicali (cfr.  I, di questa dissertazione). Versione A (I-Nc2) a) Amico, a te soltanto obbligo io porto. Sciolti: dialogo tra Creonte, Tideo, PRINCIPESSA CREUSA. b) Sembra che alfin secondi. Sciolti, Recitativo c)  Non palpitar, mia vita, Settenari, Andantino grazioso, La-Mi, 6/8 d) Ah! Sì caro e dolce accento. Ottonari. Allegretto, la, 2/4 Versione A' (I-Bc2; I-Mc; I-Nc1) È accorciato il dialogo tra Tideo e Creonte e il monologo di PRINCIPESSA CREUSA nella scena. Versione A'' (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-Bc1; I-Mr; I-Rmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp) Modifiche lievi alla scena di dialogo tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA secondo le varianti D21, Rm24, Na26, evidenti soprattutto nell’attacco di GIASONE :  «CREUSA, idolo mio, meco dividi il piacer che m’inonda». Versione A''' (I-Fc1; I-Fc2; I-PAp1, I-PAp2; I-Raf; US-NYp) Modifica leggermente i versi di A'' secondo la versione di Rm24. Versione B (F-Pn1) Taglia la prima parte della scena a) (dialogo Tideo-Creonte) e gran parte dell’intervento di GIASONE  che interviene solo con «CREUSA.. ti rassicura fuor che il tuo core omai» La versione Carli è indecidibile poiché non riporta i recitativi. US-NYp, I-Fc1, I-PAp1 e IMr articolano i versi di PRINCIPESSA CREUSA in parte come Rm24: sopprimono «placata» ma al verso successive lasciano «suo pregar» e «recale i figli»; poco oltre errano il verso «PRINCIPESSA CREUSA, mio bene, oh dio lo vedo», corretto poi da Rm24 con «PRINCIPESSA CREUSA, mio tesoro, oh dio lo vedo». I-Mc e I-Mr riportano «Ebbene lo vuois’appaghi il tuo desio» e più avanti «PRINCIPESSA CREUSA, idolo mio, meco dividi il piacer che m’inonda»: unisce cioè alcuni tratti del libretto di Bg21 e di D21, Rm24 e Na26. I-PAp1 scrive «Prima di partire, chiede Medea…» sopprime quindi «placata» come in Rm24. I-Mc segue il testo di Bg21 fedelmente, senza la variante di Mi23; solo l’esordio di GIASONE  è secondo D21, RM24, Na26 come esposto a nota 95 del libretto. Più oltre scrive  « CREUSA, mio bene, o dio, lo vedo…». US-Bp scrive in testa al foglio «Gravé». NUMERO 10: ARIA DI EGEO, I dolci contenti. L’aria è circolata in due versioni principali: una in Sol maggiore (A), prevalente, e una più breve, in Fa maggiore (B). Una versione semplificata della prima è edita nello spartito Carli. In diversi allestimenti dominati da Giuditta Pasta quest’aria fu soppressa (Napoli 1826, Londra 1826, Milano 1829). Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn1; F-Pn2; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-Raf; I-Rmassimo; IRsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) Avverse, inique stelle. Sciolti. Recitativo b) I dolci contenti. Senari, Moderato, Sol, C tagliato Versione B (I-Bc1; I-Bc2; I-Mc) È in Fa Versione C (I-Mr) b) è soppresso Versione C' Sopprime tutta la scena Definita «Aria» in tutte le fonti; manca in I-PAp2; la versione C' non è presente in alcuna partitura. In I-Rsc, I-Nc1, I-Vc, US-NYp, F-Pn2, I-PAp1 è in C tagliato; F-Pn2 riporta anche una cadenza scritta a matita. NUMERO 11: DUETTO DI MEDEA E EGEO, “Se ’l sangue, la vita”. Questo duetto è uno dei numeri più controversi dell’opera.  Esistono due versione dell’originale ‘Se ’l sangue, la vita’ in Do maggiore (A) e, più breve, in Re maggiore (A’’) probabilmente cantato solo a Bergamo nel 1821; Giuditta Pasta, tuttavia pensò di sostituirlo con una contraffazione (C) del duetto tra Ottone e Aleramo ‘Che al mio bene, al mio tesoro’ del second’atto di Adelasia e Aleramo. Nell’allestimento scaligero non fu cantato alcun duetto. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn1; F-Pn2; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-PAp2; I-Raf; IRmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) Ma qual fioco rumor? … Pallida luce. Sciolti b) Se il sangue, la vita. Senari, Moderato, Do, c Versione A' (I-Bc1) È in Re e con due versi di meno alla fine (‘Ah taci nel seno,tradito mio cor’) Versione B (I-Bc2; I-Mc) È soppresso l’intero numero e sostituito con un prolungamento del dialogo tra Medea ed Egeo in recitativo accompagnato. Versione C (I-Mr, Carli) Inserisce il duetto da Adelasia e Aleramo ‘Che al mio bene, al mio tesoro’ con testo mutato: b) Ah d’un alma generosa. Ottonari, Allegro moderato, Sib, c c) Prence, deh, il passo affretta. Settenari, [Allegro moderato, Sib, C] d) Dove un soave. Quinari, Andante grazioso, Sib, ¾ e) Tremi quell’alma ingrata. Settenari, Allegro con brio, c Definito di solito «duetto», ma in I-BGc si trova anche il diminutivo «duettino». I-Mr non copia il duetto, ma solo l’indicazione «Attacca subito duetto di Medea ed Egeo», poi di traverso si legge un appunto «nell’Adelasia e Aleramo», ed ancora, con altra grafia, «da trasportarsi in A#». F-Pn1 taglia gli ultimi versi della cabaletta («ma l’alma agitatapur langue d’amor.Ah! Taci nel seno,tradito mio cor.» US-Bp scrive in testa al folio «Arrangé», sbaglia poi nel testo e scrive «liberamente» invece di «liberatrice». NUMERO 12: ARIA DI GIASONE , “Amor per te penai”. Tutti i testimoni musicali copiano la medesima aria.  Si trovano solo leggere varianti nel testo dei recitativi. Solo a Londra e a Napoli 1826 l’aria fu interamente modificata, ma di quelle version non abbiamo testimoni musicali. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn1; F-Pn2; I-Bc1; I-Bc2; I-Fc1; I-Fc2; I-Mc; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; IRmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; Carli) a) GIASONE, Grazie Numi d’amore. È alfin compito. Sciolti, recitativo (Fa) b) GIASONE, Amor per te penai. Settenari, Moderato, Sib, C c) Accorrete, oh tradimento. Ottonari, [Moderato, sol, C] d) O noi sventurate. Senari [Moderato, Mib-Reb, c] e) Dove sono? Chi mi desta? Ottonari [Moderato, Reb-Sib, C] f) Lasciatemi, o barbari. Senari (sdruccioli/piani) [Moderato, Sib, C] Versione A' (I-Mr; I-Raf; US-Bp. US-NYp per l’aggiunta del coro ma non per il testo) Uguale ad A ma testo con leggere varianti di Rm24 Versione B Inserisce un dialogo con Tideo che porta la notizia della morte di PRINCIPESSA CREUSA, cui segue un’aria di ridotte dimensioni secondo il libretto Na26 Versione C Cambia scena e aria secondo il libretto L26 Definito «Aria» in I-Raf; US-NYp, I-Fc2 e I-Mr. Manca in I-PAp2; le versioni B e C si trovano solo nei libretti ma in nessuna fonte musicale. F-Pn1 copia per errore «qual giorno» invece di «qual grido»; F-Pn2 pospone l’aria di GIASONE  dopo il n. 13, a c. 378-397: è tuttavia un chiaro errore perché restano al posto solito sia a) che g) con tanto di indicazione «segue aria» e «dopo l’aria di GIASONE ». In BG322/9 si trova un nuovo recitativo secco di Ismene «Dove corre,e qual nel suo sembiantegioia traspar feroce,or che perduta ogni speranza è in leie gli odiati imenei compiuti sonoqual mistero fatal cela il suo donoo ciel! Me stessa avria forse ministraeletta di terribile vendetta, ah!mel predice quest’improvviso e nuovoturbamento crudele che in petto io…». Poi l’indicazione «segue scena e aria di GIASONE ». I-Mr chiude con «un velo mi sta» poi cancella le ultime battute ed aggiunge il testo di Rm24. SCENA TIDEO e EVANDRO, Ebbene, Evandro?Ah, più non è …| Creonte Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-Bc1; I-Bc2; I-Fc1; I-Fc2; I-Mc; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-PAp2; I-Raf; I Rmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-NYp; US-Bp) Versione B (I-BGc322/5) È sostituto da un intervento del solo Tideo Versione C (F-Pn1; I-Mr) È totalmente soppresso NUMERO 13: RONDÒ, Medea, “Ah che tento”. Del Rondò di Medea abbiamo due principali versioni differenti: una in La maggiore con corno inglese concertante nella sezione c) (A), e una in Sol maggiore con violino concertante, ma più fiorita (B). La prima è senz’altro la più diffusa e si trova anche in diverse varianti con I recitativi modificati leggermente, o trasposta in Mi. La seconda è invece presente in pochi testimoni e dovrebbe essere quella cantata a Bergamo nel 1821. Si veda nel paragrafo ‘Bergamo’ del  I la mia discussione di questa variante e il resoconto delle ipotesi di Commons e Gossett. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-Fc1; I-Fc2; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1, I-PAp2; I-Raf; I-Rmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) Ismene, o cara Ismene. Sciolti, recitativo b) Ah! Che tento?, o figli miei! Ottonari, Allegro, La, corno inglese, c c) “Miseri pargoletti”. Settenari, Andantino grazioso, Fa, 2/4, - Agitato, re, c, d) Deggio svenarli? Senari, [Agitato], La, c f) Quale orror mi comprende! Appena io posso. Sciolti, recitativo di Ismene sola Versione B (I-Bc1) Allegro moderato, Sol-Lab-Sol, violini solisti; taglia versi nella scena come in Bg21 Versione A' (I-Bc2; I-Mc) Allegro, Mi-Fa-Mi, corno inglese, taglia versi nella scena come B e invece di andantino grazioso il secondo movimento è andante sostenuto Versione A'' (I-Mr) Allegro, La-Fa-La, corno inglese, ripristina i versi di A ma ne taglia altri come in Na26 e Mi29. Versione A''' (F-Pn1) Allegro, Mi-Fa-Mi, corno inglese, taglia versi nella scena come A’’. Taglia f. Definita «Aria» in quasi tutte le fonti, ma «Rondò» in Carli e «Gran Scena e Rondò» in IPAp2; I-Orlandini lega il recitativo precedente alla scena di Ismene e Medea: «Segue recitativo di Tideo, e Evandro, indi Medea e Ismene, con coro»; dopo la scena chiarisce:«segue aria di Medea con coro». In F-Pn2 l’aria inizia a c. 398 con bel frontespizio elegante, «Nella Medea in CorintoAh che tento, o figli miei,Ariacon corodelSig.re Giovan Simon Mayer», dopo una carta e mezza lasciata in bianco a seguito del recitativo. I-Mr copia anche i versi tagliati in Mi29, poi li cancella con tratto di penna. I-Mc ha molte correzione per i vocalizzi nella parte di Medea.

NUMERO 14: FINALE SECONDO, CORO, “Era tua sposa”. 

Numero sostanzialmente identico in tutte le versione salvo la soppressione, in alcune, del nome di Evandro, assimilato a Tideo. Versione A (B-Bc; D-Dl; F-Pn2; I-Bc1; I-Bc2; I-Fc1; I-Fc2; Mic; I-Nc1; I-Nc2; I-PAp1; I-Raf; IRmassimo; I-Rsc; I-SPTorlandini; I-Vc; US-Bp; US-NYp; Carli) a) Era tua sposa. Ah! Trucida. Settenari (sdruccioli/piani), Allegro agitato, do min., c b) Ah signor, qual mai ti trovo. Ottonari, [Allegro agitato], [sezione modulante che da do- Lab arriva a Do] c) Dov’è Medea? Guardatevi Settenari, [Allegro agitato], Do [-LA], c d) Resta. Asilo ti nieghi la terra. Decasillabi, Allegro vivace, re, 6/8 e) Mira, non hai consorte. Settenari, [Allegro vivace], re Versione A' (F-Pn1; I-Mr) ad A ma senza Evandro, sostituito da Tideo Versione B Taglia gli ultimi versi secondo il dettato di Parigi23 Manca in I-PAp2. I-Mr scrive Evandro, ma lo cancella. Na13 Na14 D21 Bg21 P23 Mi23 Rm24 L26 Na26 Mi29 N. 1 Introduzione I,1-2 (A) A A B A’’ C A’ A’’ Ama virg. C N. 2 Scena e cavatina di GIASONE  1,3 (A/B) A/B A/B A/B A/B A/B A’ A/B A/B C Scena – – N. 3 Scena e cavatina di Medea I,5-7(A) A C’ A C B C’’ C C C Scena I,8 – – – – – N. 4 Scena e duetto di Medea e GIASONE  I,9 (A) A A A’’ A A’’ A’ A A’’’ A’’’ N. 5 Scena e aria Egeo I,10(A) A A B B B’/B’’ A C A B’/B’’ Scena I,11(A) A A A’ A C A A A C “Scena, terzetto e quartetto, scena” I,12-15 – – – – – – – – N. 6 Finale I I,17-18 (A) A A A A A A A A A N. 7 Introduzione II,1-3 (A) A A A’/C A C A E D C N. 8 Scena e aria di Medea II,4-5 (A) A A A A A A A A A N. 9 Scena e duetto di PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE  II,6-9 (A) A A’’ A’ B A’ A’’’ B A’’ A N. 10 Scena e aria di Egeo II,10 (A/B) A/B A/B A/B A/B A/B A/B C C’ C N. 11 Scena e duetto di Egeo e Medea II,11(A) A A A C B A C C C N. 12 Scena e aria di GIASONE  II,12 –13 (A) A A A A’ A A’ C B A Scena II,14(A) A A B C A A C A C N. 13 Scena e aria di Medea II,15 (A) A A A’/B A A A A A’’/A’’’ A’’/A’’’ Scena II,16 N. 14 Finale II II,17-20 (A) A A A’ B A A A’ A A’ PARTITURE B-Bc Dl PnL PnD Bc1 Bc2 BG215 BGm Fc1 Fc2 Mc Mr Nc1 Nc2 PAp1 PAp2 Raf Rsc Mass. Orl. Vc Bp NYp Carli N. 1 Introduz. A A A'' A A C B A A A C C A A A – A’ A A A A A A A N. 2 Sc. E cavat. Di GIASONE  A A A'' A A B A A A B C A A A A A’ A A A A A A A’’ N. 3 Sc. E cavat. Di Medea C' C' C C’ A C A C' C’’ C' B C C’ C’ C’ – C’’ C’ C' C' C’’ C’ C’’ – Scena A – A A – A A A A – A A A – A A A A A A A – N. 4 Sc., duet. di Medea e Gias. A A A A A’’ A’’ A A A A’’ A’’’ A A A A A’ A A AA A A A A N. 5 Sc. e aria Egeo A A A – A B B A A A B’ B A A A A A A A A A A A A’ Scena A A A A A A A’ A B A A A A A A A A A A A A B A B “Scena, terzetto e quartetto, scena” N. 6 Finale I A A A A A A A A A A A A A A – A A A A A A A A N. 7 Introduz. A A B A A C A’ – A A C C’ A A A A A A A A A A A N. 8 Sc. e aria di Medea A A B A A A – A A A A A A A A A A A A A A A A N. 9 Sc., duet. di PRINCIPESSA CREUSA e Gias. A A B A’’ A’ – A’’’ A A’ A’’ A’ A A’’’ A’’’ A’’’ A’’ A A A’’ A’’ A’’’ ? N. 10 Sc. E aria di Egeo A A A A B B – A A B C A B A C A A A A A A A A N. 11 Sc., duet. di Egeo e Medea A A A A A’ B – A A B C A A A A A A A A A A A A/C N. 12 Sc. E aria di GIASONE  A A A A A A A – A A A A A’ A A – A’ A A A A A’ A’ A Scena A A C A A A B – A A A C A A A A A A A A A A A – N. 13 Sc. e A A’’’ A B A’ B A A’ A’’ A A A A A A A A A A 215 Nelle carte di Bergamo sono conservate pressoché tutte le versioni: in questa colonna indico solo le versioni assenti nelle altre partiture o quelle comunque poco rappresentate. aria di Medea Scena – N. 14 Finale II A’ A A A A A A’ A A A – A A A A A A  III. Devo molto ai greci e ai francesi; il mio debito con Shakespeare, Sterne e Goldsmith è enorme. Ma con ciò non sono state messe in luce le fonti della mia cultura. Andremmo in un territorio sconfinato ed inoltre non sarebbe necessario. (Goethe a Eckermann, 16 dicembre 1828216). Le fonti del mito individuate da Romani nel suo Dizionario d’ogni mitologia e antichità, sono le tragedie di Euripide, Seneca, Ovidio, Lodovico Dolce, Pierre Corneille. Da altre testimonianze primo ottocentesche che ho trovato in Italia erano ben note anche le Medee di Longepierre, Thomas Corneille, Pellegrin, Richard Glover e Friedrich Gotter, oltre ad una di La Peruse «infelicissima che, secondo Napoli Signorelli citato da Bartolommeo Benincasa, non merita di essere né conosciuta, né stampata». Secondo queste fonti, Medea risulta essere figlia di Aete, re di Colco, e di Ècate dea dell’Ade, nipote della maga Circe218.  Il mito ha origine da tre differenti vicende note -- Cit. da Claudio Guillén, L’uno e il molteplice -- Bartolommeo Benincasa, “Riflessioni sulle tragedie che hanno trattato il soggetto di Medea e note su quelle del signor Morosini”, in D. Morosini, Medea. Lascio il compito di sintetizzare le vicende del mito a Felice Romani, Dizionario d’ogni mitologia e antichità incominciato da Girolamo Pozzoli sulle tracce del dizionario della favola di Fr. Noel, continuato ed ampliato dal prof. Felice Romani e dal dr. Antonio Peracchi, III, Milano, Batelli e Fanfani, 1822.

“Medea: celebre maga, figliuola di Aete re della Colchide e d’Ècate, era dessa nipote della famosa Circe. Avendo veduto arrivare GIASONE  alla testa degli Argonauti, fu dessa improvvisamente colta dall’avvenente aspetto di quel principe, e ne divenne tosto amante. Giunone e Minerva, che teneramente amavano GIASONE , destarono in lei quella amorosa fiamma, e la condussero fuori della città presso il tempio di Ecate. Dopo che GIASONE  l’ebbe assicurata dell’amor suo, promettendole con giuramento di sposarla, Medea, possedendo l’arte degli incantesimi, si credette in dovere di liberarlo da tutti i pericoli de’ quali era egli minacciato, esponendosi alla conquista del vello d’oro. Diffatti lo rendette vittorioso di tutti i mostri che custodivano il prezioso tesoro e fuggì in compagnia di luo Aete ordinò ad Absirto, figliuolo di lui, e fratello di Medea, d’inseguire i Greci, ma il misero perì in quella intrapresa. Medea giunse felicemente in Tessaglia insieme a GIASONE  ove viveva ancora Esone, padre di lui, ma siccome era egli avanzato in età ed infermo, trovò essa il segreto di ringiovenirlo.Per vendicarsi poscia di Pelia, usurpatore del trono di Esone, inspirò nelle figlie di quel principe il desiderio di farlo ringiovenire, e per meglio impegnar la loro fiducia, tagliò a pezzi un vecchio montone e alla loro presenza, lo trasformò in giovane agnello.

Da tale esempio sedotte, trucidarono esse stesse il proprio padre; Medea lo pose in una caldaia a fuoco ardente, e, nulla curandosi di ringiovanirlo, ivi il lasciò finché dal fuoco fu egli interamente consunto, di modo che le figliuole di quel principe non ebbero nemmeno il contento di rendere al padre gli onori del sepolcro. Questo fatto di Medea ammutinò tutto il popolo di Jolco contro GIASONE  e sua moglie, per la qual cosa, si videro ambidue costretti a fuggire e cedere la corona ad Acasto, figlio di Pelia. Si ritirarono dunque in Corinto. Dopo aver ivi passati dieci anni in perfetta coniugale armonia, frutto della quale furono due figliuoli, GIASONE , divenuto amante di Creusa, figlia del re Creonte, e desiderando di farla sua sposa, ripudiò Medea, e le accordò breve spazio di tempo per sortire coi figli da Corinto.

Medea fu tanto più sensibile a tale ingiuria, in quanto che ella in teneramente amava il proprio marito, nulladimeno dissimulò il proprio risentimento, onde poter meglio vendicarsi della rivale Creusa e dell’ingratitudine di Giasone-- generalmente come “Medea in Colco” (o “Il vello d’oro”, o “Gl’Argonauti”), che racconta l’innamoramento per GIASONE , capo degli argonauti, e l’aiuto da essa prestatogli per trafugare il sacro vello d’oro; “Medea in Corinto” (o “La vendetta di Medea”) dove Medea vendica il tradimento di GIASONE  uccidendo la rivale Creusa e i suoi stessi figli; Medea in Atene (o Medea e Teseo), città dove Medea, rifugiatasi dopo la strage di Corinto, trama contro Teseo, figlio di Egeo, per favorire il proprio figlio MEDO. È però la vicenda centrale, in Corinto, che ha costruito il personaggio e lo ha consegnato all’immaginario teatrale dei secoli successivi. Quando sono inscenati, gli altri soggetti hanno il sapore di una sorta di autocensura. Erano meno ripugnanti della vicenda dell’infanticidio, ma, grazie alla memoria di quello, la presenza di Medea garantiva comunque un forte impatto emotive. Le vicende del mito, così come la genealogia di Medea, infatti, non sono accessorie.  Alcuni autori aggiungono che Medea, prima di abbandonare Corinto, uccise i propri figli sotto gli occhi di GIASONE , e che avendo questi tentato di punirla, seppe ella mediante il soccorso dell’arte sua, evitarne i colpi, involandosi, dicon essi, da quel luogo sopra d’un carro tirato da due alati dragone. La vendetta di Medea è stata soggetto di molte tragedie, la prima delle quali è quella di Euripide.  Ovidio ne ha pure composto una che si è perduta. Dicesi che questo soggetto sia stato trattato eziandio da MECENATE. Ma non ci resta se non la Medea di Euripide, quella di Seneca, quella di Ludovico Dolce in italiano, e quella di Cornelio in francese.  Medea ritirossi in Atene, ove, dopo essere stata purificata dal delitto commesso, dicesi, divenne sposa del re Egeo che la rendette madre d’un figlio chiamato MEDO. Giunse in quell tempo Teseo alla corte del proprio padre, Egeo, onde farsi riconoscere; ma l’iniqua Medea seppe ben tosto con arte disporre lo spirito d’Egeo, già dall’età indebolito, al più nero attentato, persuadendolo d’avvelenare quello straniero nel banchetto che gli doveva dare; e ciò per far perire il legittimo erede del trono, onde serbarlo al proprio figlio.  

Teseo non aveva creduto opportuno di farsi conoscere al momento del suo arrivo, ma volendo procurare al proprio padre Egeo il piacere di riconoscerlo da se stesso, appena egli fu a tavola trasse espressamente quel coltello medesimo che Egeo avea consegnato a Etra, madre di Teseo, per la qual cosa, avendo Egeo riconosciuto il proprio figlio, rovesciò l’avvelenata tazza. Diodoro aggiunge che Medea, vedendo che da tutti veniva riguardata come avvelenatrice, e temendo d’altronde il meritato castigo, salì sul suo carro, e scelse la Fenicia, per suo ritiro. Essendo poscia passata nell’Asia superiore, si maritò ad uno de’ più potenti re dell’Asia superiore, e n’ebbe un figliuolo chiamato MIDA, il quale essendosi col suo valore distinto, divenne poscia re di quelle province e diede ai sudditi il nome dei “MEDI”. Romani elenca minuziosamente ad ogni episodio le fonti classiche letterarie e iconografiche di riferimento, tra queste il bassorilievo, della Reale Accademia di Mantova.  Da notare come tra gli autori solo Pierre Corneille e Ludovico Dolce vengano assimilati alle fonti antiche del mito. La letteratura sul mito di Medea è, ovviamente, amplissima. Basti qui citare Cesare Levi, “La fortuna di Medea” (Studi di teatro, Palermo, Sandron), “Medea: essays in Myth, Literture, Philosophy, and Art”, a cura di J. J. Clauss e S. I. Johnson, Princeton, Princeton University Press, “Medea: atti delle giornate di studi, Torino, a cura di R. Uglione, Torino, Celid”, e Alain Moreau, Le Mythe de Jason et GIASONE E MEDEA . Le va-nu-pied et la sorcière, Paris, Belles Lettres. Quando ha potuto, per convenzioni drammatiche ed estetiche, il teatro moderno ha approfittato di Medea per farne un personaggio jolly capace di creare effetti terrificanti. Medea compare e tutto cangia aspetto, come dirà la didascalia del balletto di Noverre.  Un teatro sregolato come quello secentesco talvolta ne abusa. In una “Medea vendicativa, drama di foco, attione seconda degli applausi fatti alla nascita dell’altezza ser.ma di Massimiliano Emanuele del Co. Pietro Paolo Bissari cav. e gentiluomo della camera di sua ser.ma elett. alt. (Monaco, 1662), Medea serve per variare la scena con spettacolari catastrofi tra gli amori di Orfeo ed Euridice, Teseo ed Elena, Marte e Venere ecc.  

Analogamente accade nel Teseo di Gian Battista Lulli-Quinault o nella coeva “Medea in Atene” di Aurelio Aureli od in altri ancora di cui rende conto in dettaglio Anna Laura Bellina, nel suo “Ah, degg’io svenarli”. “La riduzione di Medea tragica nel dramma musicale italiano”, in “L’ingegnosa congiunzione”, Firenze, Olschki.  Quanto mitico, Medea è un personaggio sincretico, al suo apparire attiva l’intera sua storia passata e futura: è sempre la maga omicida dei propri figli. L’elenco dei testi editi o rappresentati in Italia dimostra la diffidenza che il teatro tragico settecentesco nutre per Giasone e Medea. Fino al 1806, sulle scene italiane la vicenda di Giasone e Medea in CORINTO è pressoché assente, forse per il finale cruento, poco consono alle nostre scene, ma soprattutto perché ritenuto perverso, e quindi poco drammatico. I caratteri che spiegano i personaggi primari sono tutti di tal ributtante natura che il comun senso morale, che giammai tace nel cuore umano, nemmeno allora che parlano le passioni, fa provare una tal ripugnanza nel cuore a prestar l’assenso della mente approvatrice che lo spettatore, non potendo interessarsi per chi non stima, se ne parte con l’animo indifferente sui risultati e sull’indole dell’azione.  In altre parole, è da rammentare che non mai l’orrore, ma soltanto il terrore e la pietà devono dalle tragedie venire eccitati nell’animo degli ascoltatori, per usare le parole con cui Cesare Della Valle difese la sua allora celebre Medea dalle critiche di Giulio Perticari sul «Giornale Arcadico di scienze, lettere, ed arti».

La penetrazione del soggetto sulle scene italiane avvenne, dunque, attraverso generi drammatici paralleli alla tragedia: ballo e melologo, innanzi tutto, e opera successivamente. La circolazione della coreografia di Noverre, nella versione originale, o rimaneggiata da Vestris, è frenetica224; ma altri balli analoghi hanno luogo sulle scene italiane ad opera di Onorato Viganò, Charles Le Picq, Domenico Ricciardi, Giacomo Gentili, Giuseppe Banti, Domenico Lefèvre, Giacomo Serafini225. Il ballo si presenta in questi ultimi decenni del -- Perfino in Francia, dove viene più spesso trattata Medea, è considerato personaggio anomalo, più idoneo al merveilleux dell’opera che non al decoro della tragedia: è così che Corneille tratta in una tragédie à machine le vicende in Colco e affida a una tragedia di cui poi denuncerà l’irregolarità la vicenda di Corinto. -- Osservazioni sopra la tragedia Medea, estese dal nobil uomo Troilo Malipiero, in F. Gambara, Medea. «Giornale Arcadico di scienze e Lettere ed Arti», II, aprile, maggio e giugno 1819. Sul balletto GIASONE E MEDEA  et Jason di Noverre cfr. Ivor Guest, ‘Jason and Medea’, A Noverre Ballet Reconstructed, in «The Dancing Times», LXXXII. La circolazione dei balli era, se possibile, ancora più caotica e sregolata di quelle delle opere. In assenza di repertori e di studi specifici, è difficile distinguere dagli scenari rimastici quali balli erano nuovi e quali, invece rimaneggiavano coreografie precedenti, soprattutto nel caso degli scenari di Noverre sui quali si cimentavano molti coreografi italiani con risultati ben lungi dalla fedeltà delle copie di Le Picq: Nessuna delle riprese italiane degli scenari di Noverre suscitò quell tipo d’interesse che provocarono a tutta prima gli allestimenti di Le Picq. Né, a vero dire, le si riconobbe per opere di Noverre, o per semplificazioni del suo stile di ballet d’action»: Kathleen Kuzmick Hansell, Il bello teatrale e l’opera italiana, in Storia dell’opera italiana cit., V: La spettacolarità, Torino, EDT, ma eccone la cronologia sommaria che sono riuscito a stilare, in certi casi col titolo delle opere in cui furono rappresentati: ?, GIASONE  e Medea, Mantova, Regio Ducal, Pazzoni, 1771; Charles Le Picq (da Noverre), GIASONE  e Medea in Metastasio - Antonio Sacchini, Adriano in Siria, Venezia, San Benedetto, 1771f; GIASONE  e Medea, Firenze, 1772; Le Picq, Medea e GIASONE , Milano, 1773; O. Viganò, Medea e GIASONE , Napoli, 1775; Domenico Lefèvre, GIASONE  e Medea «ballo eroico-tragico d’invenzione del celebre sig. Noverre rimesso in scena dal sig. Vestris, dal sig. Le Picq; e adesso rimesso in scena dal sig. Domenico Lefèvre», in Gaetano Sertor - Giuseppe Giordani, Osmane, Venezia, S. Benedetto, 1784; Domenico -- Settecento, come genere di rottura, impegnato a proporre vicende e situazioni difformi rispetto all’universo operistico: in generale più pronto ad accogliere le poetiche del sublime e pre-romantiche.

Angiolini era esplicito su questo punto fin dalla presentazione del suo Don Juan del 1761: «Les unités de temps et de lieu n’y sont pas observées, mais l’invention en est sublime, la catastrophe terrible, et dans notre croyance elle est vraisemblable». Entro questa poetica, Angiolini indicava proprio Medea come soggetto ideale per i nuovi balli e la supponeva oggetto di spettacoli pantomimi già all’epoca romana. Le idee di Angiolini sull’opportunità di soggetti cruenti per dipingere forti passioni improntarono a lungo l’estetica del ballo italiano, e gli echi se ne percepiscono ben dentro l’Ottocento, fino al «Conciliatore». Qui Ermes Visconti assume a modello tragico per il ballo il sublime delle tragedie di Alfieri (soprattutto la Mirra e Filippo); individua nella rapidità, e soprattutto nei «bei gruppi» e nell’eccitazione di «emozioni forti», i mezzi drammatici peculiari del ballo per giungere al sublime. Questi, tuttavia, lo rendono irriducibile alla tragedia che è invece intesa a mostrare «il complesso de’ pensieri Ricciardi, Medea e GIASONE , in Gaetano Sertor - Gaetano Andreozzi, L’Arbace, Firenze, Pallacorda, 1785p e in Metastasio - Giovanni Battista Borghi, Olimpiade, Firenze, 1795; GIASONE  e Medea, Roma, 1785; GIASONE  e Medea, Torino, 1786; Ricciardi, GIASONE  e Medea, Reggio Emilia, 1787; La morte di Medea e PRINCIPESSA CREUSA di Giacomo Gentili, musica del signor Giuseppe Scaramella, in La costanza in amor rende felice, commedia per musica di ?/Giuseppe Gazzaniga, Trieste, 1787c; Noverre-Lepicq-Lefèvre, GIASONE  e Medea, in Lorenzo da Ponte - Vincente Martin y Soler, L’arbore di Diana, Milano, Teatro alla Scala, 1788; Giuseppe Banti, GIASONE  e Medea, musica di Giuseppe d’Horban, Bologna, Teatro Zagnoni, Sassi, 1790; Pietro Antonio Marini, GIASONE  e Medea, Perugia, Teatro dei Nobili Accademici del Casino, Costantini, 1790; Noverre- Lefevre, GIASONE  e Medea, in Bianchi- ?, Ines di Castro, Napoli, 1794; GIASONE  e Medea, Trieste, 1795; O. Viganò, GIASONE  e Medea, in Filippo Tarducci - Vittorio Trento Semira, regina di Cambaja, Roma, Torre Argentina, 1805c; GIASONE  e Medea, O. Viganò, Padova, 1809; Giacomo Serafini, La vendetta di Medea in Giovanni Simone Mayr, La rosa bianca e la rosa rossa, Verona, Teatro Filarmonico, 1819-20c, edito anche in Giuseppe Mosca, Emira e Conallo, Genova, Stamperia della Marina e della Gazzetta, [1813?].226 Andrea Chegai, L’esilio di Metastasio. Forme e riforme dello spettacolo d’opera fra Sette e Ottocento, Firenze, Le Lettere, passim.

Le espose nel programma che accompagnò la prima edizione del balletto Don Juan, Vienna, 1761, cfr. C. W. Gluck, Sämtliche Werke, a cura di R. Gerber e G. Croll, VII: Libretti, Kassel, Bärenreiter --  Per ora, per la definizione di sublime, come recepita nell’Italia di primo Ottocento a partire dall’estetica tedesca, ci si può rifare alla voce relativa del Dizionario e bibliografia della musica di Pietro Lichtenthal, Milano, Fontana, 1836: «Il sublime sarà dunque quello che con la sua smisurata grandezza promuove l’attività della ragione, e ne aumenta il senso vitale. Ovvero, come dicono Kant e Schiller, il sublime consiste nell’infinito, che sbigottisce i sensi e la fantasia a produrlo ed a capirlo, mentre la ragione lo crea e l’afferra. Il grande è affine con il sublime, ed un grado minore di esso; ma se oltrepassa i suoi limiti, in allora gli s’avvicina di più, dicesi colossale. Se la grandezza si riferisce al morale, ne nasce il nobile, che annunzia un grado maggiore di virtù morale, dando all’oggetto una certa dignità, che influisce una certa stima, mentre l’ignobile, il comune vengono disprezzati. Il solenne mette l’animo in analogo umore serio o religioso, come per esempio una musica di chiesa. Si dà in ispecie l’epiteto del solenne e magnifico ad oggetti tali, in cui la grandezza della natura e della forma umana comparisce come maestà, e richiede perciò una certa venerazione, che può innalzarsi persino all’adorazione.

Il patetico è propriamente tutto ciò che eccita gli affetti più forti e più nobili. Sotto questo rapporto il sublime e le sue affinità prendono tutti un carattere patetico. Il commovente è quello, come già indica la stessa parola, che mette l’animo in un certo stato di vacillamento tra il piacere e il dolore; ed è perciò che il sublime è sempre commovente, senza che però tutto ciò che è commovente vesta il carattere di sublime.

Il sentimentale è una specie particolare, ovvero un grado maggiore, del commovente --  e delle circostanze di tutte le persone in azione, le intenzioni loro, l’influenza che esercitano le passioni accessorie de’ personaggi secondari, le modificazioni delle passion principali e secondarie … oltre al piangere contempliamo e pensiamo in cento maniere. Data la peculiarità estetica del ballo, l’integrazione della terribile vicenda di Corinto nel teatro letterario neoclassico doveva seguire però anche altri percorsi, in qualche maniera doveva nobilitarsi attraverso una prima contaminazione con il teatro di parola. Lo dimostra la rapida, e inusitatamente tempestiva, circolazione del melologo di Gotter-Benda che seguì due diverse modalità di recezione. Al nord, dove fin dal 1780 circolò la traduzione di Borroni, l’interesse era rivolto principalmente al testo di Gotter: il nuovo genere del melologo venne dunque sistematicamente rappresentato con la musica di Giuseppe Poffa. La suggestione di questo testo, ibrido tra teatro e musica, spinse, nella Firenze leopoldina, Cosimo Giotti ad ampliare il monodramma di Gotter in una tragedia in cinque atti, recitata, ma con abbondanti interventi musicali di Giuseppe Moneta: il compositore dovette intonare alcuni interventi del coro durante le cerimonie di nozze, ma soprattutto accompagnare la pantomima esplicitamente prevista. Il testo descrive infatti minuziosamente le mutazioni e i movimenti di scena, con didascalie precise quasi quanto quelle del futuro grand opéra232. È significativo per la bassa ambizione stilistica del testo di -- Ermes Visconti, Idee elementari sulla poesia romantica e Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo, in «Il Conciliatore», 6 dicembre 1818 e 24 gennaio 1819, ora in Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier. Chi parla qui non è un ‘classicista’ ma il ‘Romantico’ del dialogo di Ermes Visconti sul «Conciliatore», XXVIII, 6 dicembre 1818: l’inversione dei ruoli la dice lunga sulla difficoltà di individuare un confine netto tra tecniche poetiche neoclassiche e romantiche in questi anni. Cosimo Giotti scrisse anche Costantino il Grande (Venezia, 1801), Gusmano d’Ameida (Venezia, 1804), Elogio del Re Sacerdote (Firenze, 1822). Maestro di cappella alla corte del Granduca di Toscana almeno dal 1798 al 1811, ma già attivo a Firenze dal 1785. Cfr. Indice de Teatrali spettacoli, nei cui indici è indicato come attivo a Firenze già dalla stagione 1785-86. L’ambito è quella Toscana governata dall’arciduca Leopoldo, cresciuto nella Vienna di Angiolini, Gluck e Calzabigi.

A Firenze peraltro si riprende il balletto di Noverre Medea e GIASONE , ricoreografato nel 1785 da Ricciardi che lo corregge in modo trucido inserendo la morte in scena di GIASONE  oltre a quella di PRINCIPESSA CREUSA e all’infanticidio di Medea. Cfr. Marita P. McClymonds, "La morte di Semiramide ossia La vendetta di Nino" and the Restoration of Death and Tragedy to the Italian Operatic Stage in the 1780s and 90s, in Trasmissione e recezione delle forme di cultura musicale cit., III: Free Papers. Ecco un esempio di didascalia: I,6 Menandro con seguito di grandi Corinti. Odesi di dentro suono di strumenti e di giulivi applausi, vien Menandro preceduto da banda militare, e da una nobile vanguardia, e fiancheggiato da due ali di guerrieri. Vedesi comparire un magnifico cocchio o carro trionfale adorno di festoni, di mirti e rose sovra a lui vagamente aggruppate; pendono vari fasci di ricche piume, e nei lati, e nel di dietro del cocchio si scorgono dei geroglifici analoghi ad amore, e imeneo; successivamente si avanza un’altra schiera a cui si uniscono le guardie rimaste in scena ed il popolo che in bell’ordine di marcia deve seguire il cocchio, allora che sieno in quello assisi PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE . All’entrar di Menadro in scena marcia strepitosa e lietissima la quale resta interrotta dalle di lui parole [Menandro chiama i due amanti alle nozze. Poi riprende la pantomima] Detto ciò GIASONE  da di braccio a PRINCIPESSA CREUSA che monta sul cocchio, quindi egli, servito da Meandro, fa lo stesso dipoi ad un cenno del medesimo ed al suono di (allegrissima marcia); la marcia sopraccennata duri fino al comparire di Medea, tutti ordinatamente s’incamminano come sopra si descrisse, e fatto giro per la scena, entrano nel fondo del teatro. Appena saranno entrate le ultime guardie, e il popolo, Medea, uscendo dal luogo ove prima si era ritirata con Clearco, il quale la tiene a forza, dopo vari --  questa ‘tragedia’ che il nome del tragediografo sia taciuto, ma non quello del musicista, citato in terza di copertina. A Napoli le rappresentazioni della Medea di Gotter rientrano invece in un esplicito progetto di diffusione della musica tedesca intrapreso da Norbert Hadrava, ufficiale di origine ungherese, in quegli anni segretario dell’ambasciatore austriaco, che già aveva organizzato l’esecuzione di Arianna a Nasso nel 1783: questa volta la musica è quella originale di Benda che viene proposta assieme a sinfonie di Ditters von Dittersdorf  (Le quattro età del mondo, La caduta di Fetonte e Atteone trasformato in cervo, di ciascuna delle quali viene pubblicato il programma descrittivo tratto dalle Metamorfosi di Ovidio), e a farse inglesi, tedesche e francesi (rispettivamente Il paggio, Il corsaro inglese, Gli originali). L’interesse è qui rivolto più a Benda che a Gotter. Come molti altri soggetti del tempo che migrano dal ballo all’opera, quindi, anche le vicende di Giasone e Medea in Corinto passano attraverso la mediazione coreutica: subiscono così la medesima decantazione che toccava ai drammi scespiriani o a quelli di soggetto pre-romantico. Medea compare sulle scene operistiche settecentesche italiane per la prima volta con la vicenda censurata’ di Colco nel “GIASONE e Medea” (o “Gl’Argonauti in Colco o sia la conquista del Vello d’oro”) di Sografi/Gazzaniga (Venezia, 1790).  

Per vederla nella scena dell’infanticidio si devono aspettare ancora due anni, quando Gaetano Marinelli musica “La vendetta di Medea”, libretto anonimo per la stagione di carnevale del teatro San Samuele di Venezia, che dichiara in Euripide (attraverso la traduzione dell’abate Boaretti) il proprio modello. In due atti, con ampio duetto a chiusura del primo, l’opera prevede sei personaggi (GIASONE, Medea, Creonte, Glauce, Narbale, Idamante), oltre ai cori di soldati e quelli di furie, ingrediente necessario per costruire una serata terribile. La contiguità con lo spettacolo coreutico è flagrante, sia per il ballo previsto nell’entr’acte (La figlia dell’aria ossia l’innalzamento di Semiramide, composto e diretto da Onorato Viganò, analogo almeno per il soggetto altrettanto tragico), sia per le molte didascalie che nei punti cruciali del dramma suggeriscono al coro movimenti pantomimi235 e pose sceniche agli attori: si sforzi per liberarsi dalle sue mani dice. Cosimo Giotti, La vendetta di Medea, tragedia in cinque atti, Firenze, nella stamperia Luchi, s.d (FI- Nazionale Th.4.b.496). Sulla decantazione coreutica di soggetti inizialmente considerati eccessivi per l’opera, cfr. Paolo Fabbri, Il ballo veduto colla ‘lorgnette’, in Di sì felice innesto. Rossini, la danza, e il ballo, teatrale in Italia, a cura di P. Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini, 1996, pp. IX-XII che parla del «ben noto fenomeno della anticipazione in sede coreografica – o del tener viva la tradizione – di soggetti che poi il teatro cantato farà propri». In generale sul rapporto tra ballo e opera tra fine Sette e primo Ottocento, cfr. K. K. Hansell, Il bello teatrale e l’opera italiana, in Storia dell’opera italiana, V cit. Della circolazione coreutica di soggetti poi assimilati dall’opera accenna anche G. Morelli, Ascendenze farsesche nella drammaturgia seria italiana del grande Ottocento. Sul doppio ruolo, musicale e pantomimico, talvolta svolto dai cori operistici di questi anni, cfr. A. Chegai, L’esilio di Metastasio. La partitura di questa “Vendetta di Medea” è perduta, ed è un peccato perché sarebbe stato interessante verificare se la musica di Marinelli era abbastanza estesa da accompagnare i movimenti scenici previsti per il coro o se invece fossero previsti va da Medea che «guarda i figli con tenerezza, indi volgendosi altrove dà in furore», a Creonte e GIASONE  che, alla morte di Glauce, «stanno in atto di maraviglia e dolore», per finire con l’orrore del finale dove «i soldati forzano la porta dell’abitazione di Medea … Si spalanca la porta dell’abitazione …, ed escono le furie, Creonte e GIASONE , spaventati, ritrocedono, le guardie, piene di terrore, si danno alla fuga»; dopo l’infanticidio esibito, le furie minacciano «Resti con voi il terrore», GIASONE  e Creonte cantano a due «Lo spavento, l’orrore, l’affannoTutta l’alma m’ingombra, m’opprime.

Quel dolore crudele tiranno Dentro il petto mi lacera il cor!», mentre: Medea col suo carro va per aria a volo: precipita la reggia, e piove fuoco: le furie vanno qua e là portando il terrore, agitando le sue faci: escono Narbale e Idamante ed i soldati che inorriditi vanno correndo non sapendo dove, e cantano il seguente coro: “Fuggiam, fuggiam da questa/Reggia d’orror funesta:Che sotto i piè non aprasi/ad ingoiarla il suol.. Spariscono le furie e tutti fuggono spaventati. La repulsione per i finali cruenti era già stata superata in quegli anni dalle molte Vendette di Nino, ma per La vendetta di Medea si doveva accettare anche che nessuno dei personaggi fosse in grado di attrarre la simpatia dello spettatore. Evidentemente il contesto estetico che consentì questo passaggio fu il gusto per il terrore e il sublime. La scena finale della Vendetta di Medea veneziana sembra infatti la perfetta realizzazione delle scene terribile descritte da Michela Garda, rappresentazione di un oggetto terribile  del suo effetto, ciò che conta è che l’oggetto terribile si manifesti come tale solo se l’artista riesce a dotarlo di una energia in grado di coinvolgere lo spettatore. In un contest drammatico, questa forza si deve esprimere non solo come potenza ma anche come effetto: non basta, quindi, l’oggetto terribile, Medea sul carro con i figli morti, ma serve anche la descrizione dell’orrore: le furie, il coro, magari, al suono di rimbalzanti sdruccioli, la fuga di tutti -- inserti strumentali non cantati a cura di compositori diversi, come accadeva per i balli e per gli abbattimenti: al proposito cfr. Franco Piperno, Drammaturgia e messinscena nell’opera italiana fra sette e ottocento. Il caso degli “«abbattimenti», in «Drammaturgia». Gran parte del fascino del ballo stava anche nell’efficacia di statici tableaux, un aspetto su cui avremo modo di tornare nel prossimo.

Per ora basti rimandare all’articolo di Ermes Visconti sopra citato che afferma che «il ballo pantomimo partecipa della poesia e della pittura» e, più oltre, che i pregi sommi ed essenziali di un’azione mimica sono «la leggiadria o la sublimità pittoresca delle attitudini e de’ gruppi, interesse pittorico». La prima con questo titolo è a Firenze, Pergola, nel 1786 con musica di Alessio Prati, ma da diversi decenni fiorivano le Semiramidi sulle scene liriche italiane. Su questa tradizione si veda, naturalmente, Cesare Questa, Semiramide redenta, Urbino, QuattroVenti, 1989. Sull’accoppiata terrore/sublime, diffusa nella cutluira italiana da Vittorio Alfieri, cfr. Michela Garda, Musica sublime. Metamorfosi di una idea nel Settecento musicale, Milano, Ricordi, Michela Garda, Da «Alceste» a «Idomeneo»: le scene terribili nell’opera seria, «Il saggiatore musicale», Che sulle scene liriche non fosse ancora pienamente tollerata la ripugnanza per I principali personaggi rappresentati, e soprattutto l’impunità, prevista dal mito di Giasone e Medea, dell’efferato delitto di Medea lo dimostra l’adattamento del libretto veneziano per il San Carlo di Napoli. Onorato Balsamo festeggia il fausto nascimento di S. M. Carolina d’Austria, regina di Napoli, dedicando alla Real Maestà di Ferdinando IV di Borbone una Vendetta di Medea che modifica e impasticcia il libretto veneziano per la musica di Francesco Piticchio.  La distribuzione dei numeri musicali nelle due opere “La vendetta di Medea”: Venezia 1792, Napoli 1798 e cosi: ?-Marinelli, La vendetta di Medea, Venezia, 1792 1.Narbale, ‘Se di tradita sposa’, aria gnomica (I,1) 2.Medea, ‘Perché mai, o ciel tiranno’, cavatina di imprecazione ai numi (I,2) 3.Creonte, ‘Del mio poter rammenta’, aria con minacce a Medea [I,3] 4.GIASONE , ‘Per te pugnar col fato’, aria amorosa davanti a PRINCIPESSA CREUSA (I,5) 5.Medea, ‘Son tradita e disperata’, aria con coro di furie (I,6) 6.Glauce, ‘Ah! s’è ver, ch’eguale affetto’, aria esprimente pene d’amore (I,7) 7.Medea-GIASONE , ‘Se m’abbandoni, ingrato’, duetto oppositivo (I,8) 8.Idamante, ‘A suo talento, amore’, aria gnomica (II,1) 9.Glauce, ‘Non credea che fosse amore’, aria esprimente pene d’amore (II,2) 10. GIASONE , ‘Se ‘l piacer, che il sen m’innonda’, Balsamo-Piticchio, La vendetta di Medea, Napoli 1797 1.Medea, ‘Per pietà del mio dolore’, cavatina di imprecazione ai numi (I,1) 2.Creonte, ‘Del mio poter rammenta’, aria con minacce a Medea (I,1) 3.Cronte-GIASONE -Medea-Idamante, ‘Dei proteggeteci’, ensemble oppositivo Creonte-GIASONE / Medea-Idamante (I,3) 4.Glauce-GIASONE , ‘Per pietà del mio dolore’, duetto oppositivo GIASONE /Glauce gelosa (I,4) 5.Narbale, ‘Se di tradita sposa’, aria gnomica (I,5) 6.Medea, ‘Sono oppressa e disperata’, aria con coro di furie (I,6) 7.Glauce, ‘Digli che venga’, aria esprimente pene d’amore (I,7) 8.Medea-GIASONE , ‘Va m’abbandona, indegno’, duetto oppositivo (I,8) 9.Idamante, ‘La fiera gelosia’, aria gnomica rivolta a Glauce (II,1) 10. GIASONE , ‘Non disperar mercè’, aria serena di fronte alla simulata rassegnazione di Medea (II,3).

Per trovare una teorizzazione di questo ‘orrore’ si deve attendere il 1793 quando Schiller pubblica Über das Pathetische. Giovanni Pinna, Il sublime in scena. Sulla teoria schilleriana della tragedia, in «Strumenti critici», XIV, (maggio 1999). 192-193, osserva che «se si guarda alla sua opera drammatica, appare evidente la predilezione per personaggi moralmente discutibili, intimamente scissi, più spesso delinquenti sublimi che anime belle, su cui esercitare l’arte della dissezione per mostrare la dialettica contraddittorietà delle loro motivazioni. Schiller cerca nel personaggio la grandezza, non certo la perfezione morale, una grandezza che si manifesta nella volontà di opporsi al destino o di sopprimere l’inclinazione che si presenta come necessità naturale. Schiller si oppone con ciò polemicamente sia alla poetica dello Sturm und Drang, in cui la sofferenza come tale costituisce il fulcro della rappresentazione, sia al teatro classico francese e all’idea della dignità morale come decoro... La sofferenza dell’eroe, per potersi dire tragica, dev’essere infatti il prodotto della sua stessa natura morale. Il saggio Über das Pathetische adduce come esempio significativo di questo tipo di dialettica tragica la figura di Medea, in cui la vendetta, che è un “affetto indiscutibilmente basso e persino infame”, si rovescia in momento esteticamente sublime poiché il delitto esige il sacrificio doloroso degli affetti di colei che lo compie, tanto più violento quanto più mostruosa è l’effrazione della norma morale. Se ne veda il raffronto in appendice, interessante soprattutto per l’adozione di diversi modelli metrici dei numeri condivisi. aria serena di fronte alla simulata rassegnazione di Medea (II,3) 11. Narbale, ‘A quale eccesso, o dei!’, aria con cui Narbale esorta alla calma Medea che medita l’infanticidio (II,4) 12. Medea, ‘È l’estremo questo amplesso’, aria di affetti contrastati davanti ai figli (II,5) 13. Creonte, ‘No, non sperar perdono’, aria di furore alla morte di Glauce (II,6) 14. Creonte, GIASONE , Medea, furie, ‘Che si chiede, che bramate?’, finale 11. Medea, ‘Cari oggetti sventurati’, aria d’affetto per i figli (II,5) 12. GIASONE -Creonte, ‘Gli sdegni miei’, duetto di furore dopo la morte di Glauce (II,6) 13. Creonte-GIASONE -Medea-furie, ‘Che si chiede che bramate?’, finale Balsamo edulcora in più punti le forti immagini del testo originale, ma soprattutto evita l’infanticidio così che, nel terrore generale suscitato dalle incursioni delle furie, Medea minaccia «I figli vedi, e trema» ma poi, invece di svenarli, gli s’avvicina, li esorta «Meco venite allato» e «prende i figli ed ascende sul carro».

La “prima volta” di Medea in Corinto sulle scene liriche napoletane è così censurata242. Non era bastato averne visto la pantomima nel 1794 con la coreografia di Lefèvre. Già nel 1793, d’altronde, un “GIASONE e Medea” con musica di Andreozzi era andata in scena al San Carlo ingannando sul titolo. Mostrava infatti le vicende di Colco, per consuetudine intitolate invece agli Argonauti, o al Vello d’oro, proprio per rassicurare il pubblico e distinguerle dal più crudo epilogo di Corinto. La circolazione italiana di Medea sul teatro musicale non fu, dunque, immediata. Iniziò in forme ibride, nel caso, le tragedie con musica pantomima, in città più vicine alla cultura europea com’era Firenze, dove dal 1765 regnava Pietro Leopoldo I, cresciuto alla corte viennese negli anni di Gluck, e fino agli anni ’90 mecenate di una politica aperta ai generi teatrali sperimentali ed esteticamente aggiornati243.  Proseguì a Venezia, città -- 242 Gianni Carchia, Retorica del sublime, Roma-Bari, Laterza, 1990, teorizza la lacerazione fra stile sublime ‘sacro’, più vero e naturale ma poco utilizzabile nella quotidianità, e uno ornato necessario per l’attività della persuasione interpersonale. Il sublime neoclassico si garantisce una ascendenza negli antichi e nella loro nobile semplicità. Uno dei canali di accesso di questa semplicità anti-retorica è proprio la riscoperta delle Sacre Scritture, con il loro sermo humilis. Luca Zoppelli ne esamina le ricadute in ambito musicale in Lo "stile sublime" nella musica del Settecento: premesse poetiche e recettive Luca Zoppelli, Lo stile sublime nella musica del Settecento: premesse poetiche e recettive, in «Recercare», II. Nel nostro caso se ne potrebbe indagare la pertinenza nell’alternativa tra teatro terribile scenicamente ridondante e le censure operate al San Carlo di Napoli proprio negli anni, tra l’altro, in cui trionfavano sulle sue scene i drammi sacri studiati da F. Piperno, «Stellati sogli» e «immagini portentose», in Napoli e il teatro musicale in Europa tra Sette e Ottocento. Studi in onore di Friedrich Lippmann, a cura di B. M Antolini e W. Witzenmann, Firenze, Olschki.  M. P. McClymonds, "La morte di Semiramide ossia La vendetta di Nino" and the Restoration of Death and Tragedy to the Italian Operatic Stage in the 1780s and 90s cit., e John Rice, Emperor Impresario: Leopold II and the Transformation of Viennese Musical Theater, 1790-1792, Ph.D. University of California, Berkeley, 1987 -- all’avanguardia nell’interesse per il tragico e catastrofico dell’opera italiana, e nell’integrazione tra ballo e opera, due direttive già esaminate da Marita McClymonds.

Solo nei primissimi anni dell’Ottocento Medea diventa un soggetto particolarmente apprezzato dai tragediografi italiani. In assenza di repertori e di documentazione storica edita, è difficile stabilire una cronologia attendibile delle diverse versioni: troppo spesso l’edizione seguiva di molti anni la circolazione in scena delle tragedie, e spesso tale circolazione era limitata a circoli e accademie private. Possiamo però approssimare la seguente cronologia di tragedie italiane dedicate a Medea in Corinto tra la fine del Settecento e il 1813: Domenico Morosini, Medea in Corinto, Venezia, 1806, Francesco Gambara, Medea, 1812 ca. (Brescia, 1822), Giovanni Battista Niccolini, Medea, 1812 (Firenze, 1825), Cesare Della Valle, Medea, 1814 (Trani, 1818)246; i luoghi sono dunque ancora quelli già visti per la circolazione operistica e musicale: Venezia in primo luogo, poi Firenze e Napoli. Con l’eccezione di Niccolini, e forse di Della Valle, questi, come quelli che seguiranno negli anni successivi, sono poeti e drammaturghi spesso oggi dimenticati, autori locali, di solito con una fortuna che non supera le mura cittadine; qualche volta la loro fama dura qualche anno. Abbastanza tragica da essere adeguata al nuovo teatro post-alfieriano, Medea in Corinto è abbastanza classica da non essere ancora davvero romantica: una sorta di armadio a due ante, per riprendere l’efficace immagine di Pierpaolo Fornaro, dove a destra stanno i calmanti neoclassici, a sinistra i revulsivi ed ermetici248. Le tragedie italiane, infatti, se generalmente non ‘censurano’ l’infanticidio, lo rivestono tuttavia di tinta neo-classica: dopo le tragedie e il pathos di Alfieri, la rappresentazione del sangue e -- Cfr. M. P. McClymonds, The Venetian Role in the Transformation of Italian Opera Seria During the 1790’s cit. che ricorda come «by 1792 chorus and dance had become so commonplace within Venetian opera that the libretto for Foppa’s Aci e Galatea makes no mention of ballets as entr’actes, a situation that continues until 1796, when they begin to reappear in librettos for operas not containing ballets. Sergio Romagnoli, Teatro e recitazione nel Settecento, in Orfeo in Arcadia, Studi sul teatro a Roma e nel Settecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, dimostra come I tragediografi italiani, Alfieri compreso, abbiano snobbato il teatro pubblico e prezzolato a favore di una circolazione ‘controllata’ delle proprie pièces, e rinviato ad un futuro idealizzato la condizione idonea alla rappresentazione pubblica. Diverse fonti la fanno risalire a quell’anno. Tra le altre cfr. Marvin Carlson, The Italian Stage From Goldoni to D’Annunzio, London, McFarland. Gianfrancesco Gambara (1771-1848) si muove nell’orbita culturale veneziana: figlio di un esule bresciano che rivendicava l’indipendenza da Venezia, nacque a Monticelli d’Ongina nel piacentino, e si formò a Parma, capitale del ducato. Venezia lo imprigiona nel suo feudo di Prat’Alboino.

Durante le guerre napoleoniche il comando francese si installa nel suo palazzo e Gianfrancesco ha così modo di conoscere Napoleone. La conoscenza gli sarà utile: arrestato dai veneziani dopo la rivolta di Brescia del 1797, sarà liberato su richiesta di Buonaparte. Nel 1814 rifiuta di servire l’Austria e perde tutti i suoi possedimenti. Dal 1812 si dedica alla letteratura e inizia a scrivere per il teatro di declamazione. La sua Medea gli valse la cattedra all’ateneo cittadino. Cfr. Biografie autografe ed inedite di illustri italiani di questo secolopubblicate da D[emetrio] Diamillo Muller, Torino, Pomba, 1853-- dell’omicidio in scena era ormai assimilata e tuttavia che il tragico non coincidesse con l’orrido né con l’inesplicabile di una colpa oscura e assurda restava dettato poetico imprescindibile, così come l’angoscia che si sublimava nella retorica ammirativa di un equilibrio sempre ritrovato. Gli autori di queste pièces si misurano quindi su un soggetto terribile senza rinunciare alle resistenze del decoro d’ascendenza raciniana: ambiscono alla concentrazione drammatica, alla nettezza della tragedia regolata, come dimostrano gli elenchi delle dramatis personae, che trascurano ogni figura accessoria e spesso anche la stessa PRINCIPESSA CREUSA (Morosini e Niccolini); quasi sempre rifuggono da concessioni alla spettacolarità (fanno eccezione Gambara e Pini, quest’ultimo perché concepisce la sua tragedia lirica come libretto d’opera). La versificazione si tiene solitamente vicina alle assonanze di Metastasio o Monti250, ben discosta dalle asperità di Cesarotti: ad Alfieri si rifanno nelle scene patetiche o sublimi, soprattutto per la tensione dei versi spezzati, dei dialoghi concitati e, soprattutto, dei silenzi251. Vale la pena di considerare questa produzione teatrale, perché, sebbene distinta da quella operistica, spesso la incrocia sotto diversi aspetti. Basti pensare a Della Valle, tragediografo e commediografo napoletano, librettista di Rossini per il Maometto II; o a Schmidt, che da librettista del San Carlo diverrà commediografo puro; le tragedie di Morosini e di Della Valle, d’altra parte, diventarono fonti di libretti.

Ma sull’anta aperta è anche lo specchio a figura intera per noi, dove vederci trasformare ed invecchiare di secolo in secolo, talora di generazione in generazione», Pierpaolo Fornaro, Medea italiana, in Medea, atti delle giornate di studi, Torino 23-24 ottobre 1995. Cfr Ezio Raimondi, Alfieri 1782: un teatro «terribile», in Orfeo in arcadia. Studi sul teatro a Roma nel Settecento. Sul teatro di questi anni cfr. anche Anna Barsotti, Alfieri e il teatro tragico e Claudio Meldolesi, L’età degli avventi romantici in Italia, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, II: Il grande teatro borghese: Settecento-Ottocento, Torino, Einaudi. Duolmi ancora che il mio stile si giudichi da voi più vicino alla mollezza del Metastasio che alla robustezza di Alfieri: di che fui sempre io stesso in gran timore»: risposta del Duca di Ventignano alla critica di Giulio Perticari sul «Giornale Arcadico di scienze, lettere ed arti», II, aprilemaggio giugno, 1819. E ancora: Morosini non sarebbe «troppo fluido come Maffei ma neppure salirebbe alle asperità di Alfieri, piuttosto s’accosta alle belle forme di Monti e Pindemonte», cfr. Le Riflessionisulle tragedie che hanno trattato il soggettodi Medeae note su quella del signor Domenico Morosini,di Bartolommeo Benincasa cit. Ancora più esplicito è Giovan Battista Niccolini che nell’argomento premesso alla sua “Medea” sottolinea cosi. Preso di grande amore pei classici e per la Mitologia, io da giovine intrapresi questo lavoro, ma più tardi ch’io non dovea lo esposi all’esperimento della scena: lo chiamai Dramma tragico, avendolo scritto in versi rimati, persuaso allora di questa opinione del Metastasio: “Che fra il vigore dello stesso pensiero espresso in verso sciolto o rimato corra la differenza medesima che si vede fra la violenza d’uno stesso sasso tratto con la semplice mano, o scagliato con la fromba, ma da chi sappia adoperarla. Per verificare la lezione, talora superficiale, del teatro di Alfieri basta citare questi due versi di Morosini: «GIASONE  E non fé mottomai di vendetta? TIDEO - Mai. GIASONE  Gran Dio! TIDEO Tu fremi?GIASONE  - Fremo. TIDEO - Perché? GIASONE  Tel dissi. TIDEO - E ben. GIASONE  Lo stileusato io leggo in quella finta calma». Morosini è una delle fonti principali di Felice Romani, Della Valle presterà invece diverse scene a Castiglia per il libretto dell’opera di Pacini. Sui libretti di Della Valle si veda in ogni caso Bruno Cagli, Le fonti letterarie dei libretti di Rossini, in «Bollettino del Centro rossiniano di studi», II. Su Giovanni Schmidt cfr., Francescalaura Casillo, Giovannni Schmidt, librettista «napoletano» dell’Ottocento, in «Critica letteraria», XXII/3, e M. Spada, Giovanni Schmidt: biografia di un fantasma cit. La conoscenza di questi testi, tutti precedenti o contemporanei alla Medea in Corinto di Mayr e Romani, ci consente di individuare con chiarezza le scelte poetiche dei due autori: nel 1813, quando venne chiamato a Bergamo da Mayr253, infatti, Romani conosceva due recentissime e ben distinte tradizioni: quella del sublime terrifico di Marinelli, propria dell’opera e del ballo, e quella neoclassica letteraria.

Forse indotto dal repertorio neoclassico vigente nella Napoli muratiana254, rivolto alle più regolari tragédies lyriques coeve la sua scelta è netta e risolutamente rivolta alla seconda: si rifà in primo luogo alla tragedia veneziana di Morosini da cui prende anche l’intestazione (titolo – solo in questi testi compare la specifica in Corinto, altrimenti data per sottintesa – ed exergo oraziano Sit medea ferox, sistematicamente riprodotto in tutte le edizioni del libretto). Si potrebbe affermare insomma che il gusto francese, importato Napoli, nel 1813 abbia inciso sul repertorio italiano sostituendo alle Vendette di Medea, fino ad allora diffuse, la neoclassica Medea in Corinto di Romani. L’elenco di Medee può essere significativamente ridotto osservando alcune, principali, filiazioni. Gotter, col suo stile vigoroso ed elegante, e una condotta incomparabilmente più franca e maestrevole», adatta a porre «l’anima in tumulto, costituisce il capostipite di una delle tradizione di Medea in Corinto in Italia, seguita dalle sue tre traduzioni e dall’ampliamento di Giotti. Analogamente possono essere accomunati tra loro i due libretti intitolati La vendetta di Medea (Venezia 1792 e Napoli 1798), da una parte, così come la tragedia di Glover e l’opera di Milcent-Fontenelle dall’altra: i primi per le già viste trasposizioni di molti versi e d’intere scene, gli altri per l’esplicito riferimento che appare nella Dissertation historique et mythologique sur la fable de GIASONE E MEDEA  et Jason introduttiva al libretto di Milcent. Altra derivazione esplicita è quella che lega il libretto di Romani agli adattamenti per Prospero Selli e di Salvatore Cammarano -- Cfr Alessandro Roccatagliati, Il giovane Romani alla scuola di Mayr, in Giovanni Simone Mayr: l’opera teatrale e la musica sacra, atti del convegno internazionale di Studio (Bergamo, 16-18 novembre 1995), a cura di F. Bellotto, Bergamo, Comune di Bergamo, Assessorato allo Spettacolo.

È il gusto che consente l’importazione dell’operismo monumentale di Spontini, e la diretta imitazione di Manfroce, tra cui l’Ecuba su libretto tradotto da Schmidt da un originale di Jean-Baptiste-Gabriel-Marie de Milcent. Al proposito si veda Giovanni Carli Ballola, Presenze e influssi dell’opera francese nella civiltà melodrammatica della Napoli murattiana: il «caso» Manfroce, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di L. Bianconi e R. Bossa, Firenze, Olschki, Sui gusti e sulle scelte medie del coevo teatro francese cui attinge Napoli accanto ai grandi, e per molti versi eccezionali capolavori spontiniani, cfr avanti in questo  e nell’appendice i riferimenti alla GIASONE E MEDEA  et Jason, confortante e regolare tragédie lyrique, che quello stesso Milcent dell’Ecuba scrisse per la musica di Granges de Fontenelle, e che venne rappresentata a Parigi poche settimane prima dell’allestimento napoletano di Mayr; ma cfr anche l’‘Epilogo’ del mio La parola e il gesto, Lucca, LIM. Riflessioni sopra il monodramma, in Idea della bella letteratura del signore abate De’ Giorgi Bertola, Lucca, 1784. Giorgi Bertola si riferisce all’Arianna -- per Saverio Mercadante. Gli altri testi sono più eclettici e assimilano tratti delle diverse tradizioni in misura variabile. Per uno studio analitico di queste filiazioni, soccorrono gli studi di letteratura comparata che hanno messo a punto raffinati strumenti di confronto tra testi e tradizioni: Lire, c’est toujours relire, lier et relier. C’est dans ce cas aussi parier sur l’illumination mutuelle de plusieurs textes susceptible de dégager un ou plusieurs enjeux en commun. Il s’agit bien de construire une comparaison, un ensemble comparant. Mais comment comparer des singularités sans passer par la construction d’ensembles, de sousensembles, de séries? Il faut donc admettre que la littérature comparée plus que d’autres approches critiques suppose que le texte est à la fois pure singularité et, à certains niveaux, et dans une certaine mesure, de nature sériable. Possiamo dunque individuare una serie di tratti che identificano la vicenda di Medea in Corinto.  Solo tre personaggi sono essenziali: GIASONE, Medea, e il re Creonte come personificazione dell’autorità che avvalla e legittima il tradimento di GIASONE , e fa così precipitare la crisi. La figlia di Creonte e amante di GIASONE , così come i figli di Medea, sono personaggi assenti.  Necessari per l’avvio del dramma e per la catastrofe, sono però inessenziali per il percorso tragico della vicenda. In molti casi nessuno dei tre compare mai in scena e le fonti faticano ad identificarli, come testimonia l’oscillante onomastica tra PRINCIPESSA CREUSA e Glauce. Egeo, re d’Atene, è introdotto, già da Euripide, come espediente drammatico. Può intervenire per chiarire la sorte di Medea dopo la serie di delitti commessi, ma diventa inessenziale nelle tragedie che contemplano la morte di Medea, come, all’opposto, in quelle che esaltano la sua grandezza magica o ‘terribile’, alle quali fa buon gioco un finale aperto con la semidivina ascensione al cielo sul carro del Sole.  I confidenti, infine, compaiono anch’essi solo come espedienti drammatici per risolvere i problemi di gestione delle informazioni sull’antefatto e sulle azioni del dramma tra i diversi personaggi e il pubblico.  

Anche per loro, quindi, l’onomastica è molto variabile. Ridurre a tre i personaggi consente di limitare le scene fondamentali della vicenda ai diverbi tra GIASONE  e Medea e tra Creonte e Medea (entrambi, ma doppio quello tra Medea- GIASONE , costituiscono il corpo centrale dell’originale euripideo, nel primo, secondo e quarto episodio) e alla catastrofe finale con la vendetta perpetrata su PRINCIPESSA CREUSA, talvolta su -- Il libretto per Mercadante è firmato anche da Cammarano, quello per Prospero Selli è invece anonimo. Oltre al già citato Jean Rousset, Le Mythe de Don Juan, cfr. anche Armando Gnisci – Franca Sinopoli, Manuale storico di letteratura comparata, Roma, Meltemi, e, soprattutto, Daniel- Henri Pageaux, Littérature comparée et comparaisons, in «Revue de Littérature comparée», LXII. Se ne veda la bella interpretazione di Marc Fumaroli, «GIASONE E MEDEA » e «Phèdre», in Eroi e oratori, Bologna, Il Mulino. Lo scontro Creonte-Medea riassume il conflitto fra la regalità della morale e l’eroismo dell’arte, che rifiuta di cancellarsi lasciando in eredità all’ingrata morale un sostegno che deve tutto all’arte: con una terribile lucidità, Medea denuncia l’ipocrisia farisaica di Creonte, che si impadronisce di GIASONE  e rifiuta colei che ha creato GIASONE -- Creonte, e sui figli. Nelle versioni più censurate – valgano per tutti il libretto di Balsamo e quello di Milcent – l’infanticidio non si realizza. La novità sarebbe tale da mettere in dubbio l’assimilazione di quei drammi con il repertorio esaminato se non concorressero altri tratti, notevolmente ridondanti, a dare coerenza all’insieme (tra gli altri, nel caso del libretto napoletano di Balsamo, la comparsa di furie e le minacce di Medea, nel caso di quello di Milcent l’esplicito riferimento ad una tragedia pienamente integrata nel nostro repertorio come quella di Glover.  I diverbi con GIASONE  e Creonte hanno funzioni essenziali. GIASONE mette a fuoco la tensione coniugale della coppia e il carattere di GIASONE. CREONTE garantisce dimensione pubblica al dramma privato dei due sposi e stabilisce un punto fermo, autoritario, per far precipitare la crisi. Entrambi possono essere replicati (come fa Euripide con il dialogo con GIASONE ), così da inscenare una prima volta l’acerrimo scontro con una Medea orgogliosa che ancora spera d’impedire le nuove nozze, e una seconda volta, invece, l’incontro più conciliante con una Medea dissimulatrice, ormai persuasa a realizzare la propria vendetta.

La vicenda di Giasone e Medea in Corinto è un percorso essenziale: a rigore costituisce soltanto l’epilogo della lunga vicenda svoltasi nell’antefatto di Colco e Iolco.  Il dramma accelera dunque senza sostanziali peripezie verso la catastrophe. Acquistano così rilievo alter due scene, la risoluzione della vendetta sui figli e l’incantesimo -- In senso narrativo, il dénouement è la risoluzione di GIASONE  di sposare PRINCIPESSA CREUSA: è quella la peripezia che avvia la crisi. Spesso, però, questa fase della vicenda è posta nell’antefatto: e se il drammaturgo non si inventa un’altra peripezia decisiva, un altro climax, la narrazione si organizza su un punto di fuga esterno al dramma. Seneca lo dichiara esplicitamente quando già al verso 115 fa prorompere Medea con l’esclamazione «Occidimus, aures pepulit hymenaeus meas, “È finita! Il canto nuziale ferisce le mie orecchie”.  In questi casi Medea in Corinto diventa allora un dramma interiore del personaggio, un dramma difficilmente narrabile con peripezie ed eventi rappresentabili.  Al di là dell’eventuale rigore formale dei singoli testi che talvolta cercano di renderla verosimile, la vera catastrofe della vicenda, nella sua struttura essenziale, non sta nella vendetta perpetrata sulla rivale, e talvolta sul padre; a rigore neppure nell’infanticidio: tutti questi sono gesti che scaricano le tensione del dramma su dei non-personaggi (PRINCIPESSA CREUSA e i figli sono spesso assenti, l’omicidio di Creonte è -- Jean Rousset, Le Mythe de Don Juan cit si pone il medesimo problema quando osserva che il gioco delle varianti rispetterà tuttavia certe condizioni e certi obblighi oltre al mantenimento delle tre componenti, queste non dovranno essere modificate al punto da trovarsi snaturate e irriconoscibili; ma fino a che punto? Quali sono i limiti ammissibili? …. La risposta potrà variare di volta in volta in funzione della coerenza dell’insieme, della forza dei riferimenti all’invariante sostituita, dell’aura mitica.  Nel dramma domestico di Lessing, il ruolo di Creonte (qui Sir Sampson) resta come autorità paterna che salvaguarda l’onorabilità della figlia in base alle leggi del decoro; per questo acconsente a riprendere in casa Sara con l’amante Mellefont. La gelosia di Marwood, e con essa l’azione drammatica, si scatena solo all’arrivo di Sir Sampson e al suo progetto di regolarizzare la relazione della figlia -- evento accessorio.

Sta piuttosto sull’emergenza della natura snaturata, per questo straniata e straniera, di Medea all’atto dell’uccisione dei figli. In questo senso il vero scioglimento, il punto di svolta che prepara la catastrofe, sta nel momento in cui all’animo di Medea si affaccia l’idea dell’infanticidio: è quindi uno scioglimento interamente interno all’animo del personaggio, non direttamente determinate dall’interazione con altri personaggi. Si spiega così perché solitamente il tentative d’omicidio dei figli venga replicata: una prima volta per costruire la svolta del dramma, una seconda per la realizzazione del delitto. Tutti i drammi esaminati enfatizzano quell momento ben più dell’infanticidio, di solito, tra l’altro, nascosto al pubblico. La scena di incantesimo, presente in Corneille ma ripresa da molti altri testi, ha valore analogo, ma tradotto in termini scenici: si svolge solitamente in un antro, in una grotta o in un sotterraneo e amplifica l’estraneità di Medea al mondo di Corinto, rappresentato dal palazzo di Creonte in cui generalmente si svolge il resto della tragedia; è il momento in cui Medea abbandona ogni legge di ‘decoro’, con un’insolita violazione dell’unità di luogo. Il terz’atto si era chiuso con il teso scontro tra GIASONE  e la sposa, durante il quale GIASONE  l’aveva informata della decisione di tenere con sé i figli. Il quarto si apre con una scena ambientata in una «grotte magique» dove Medea compie il sortilegio -- Seneca esplicita anche il vero punto di svolta del dramma di Medea quando evidenzia la risoluzione dell’infanticidio.

Quidquid admissum est adhuc, pietas vocetur. Hoc age et faxo sciant quam levia fuerint quamque vulgaris notae quae commodavi scelera. Prolusit dolo per ista noster: quid manus poterant rudes audere magnum? Quid puellaris furor? Medea nunc sum; crevit ingenium malis. Tutto quello che hai fatto sin’ora vada sotto il nome di bontà. All’opera! Farò che sappiano com’erano lievi e ordinari i crimini da me commessi per altri. Non fu che un preludio del mio odio: che potevano osare di grande mani inesperte? O un furore di ragazza?  ora sono Medea, il mio io è maturato nel male. S’intende il termine catastrofe’ come ultimo evento seguito inesorabilmente allo scioglimento del nodo. Sulla distinzione tra i concetti di scioglimento di catastrofe, cfr. Jacques Schérer, La Dramaturgie classique en France, Paris, Nizet. Le dénouement d’une pièce de théâtre comprend l’élimination du dernier obstacle ou la dernière péripétie et les événements qui peuvent en résulter; ces événements sont parfois désignées par le terme de catastrophe»; cfr. anche Robert Petsch, Wesen und Formen des Dramas. Allgemeine Dramaturgie, Halle, Niemeyer, e Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino. In generale su queste questioni nelle opere di Donizetti cfr. anche Lorenzo Bianconi, Come finiscono le opere di Donizetti, negli atti del convegno internazionale di Studi sulla drammaturgia delle opere di Gaetano Donizetti Voglio amor e amor violento, Bergamo, 8-10 ottobre 1988, in corso di stampa. Cfr. la bella analisi di Pierpaolo Fornaro in Medea di Euripide ed archetipo letterario, in Medea, a cura di R. Uglione. «Il gesto di Medea è compiuto a freddo … ma non è deciso a freddo bensì dopo un lungo dibattito interiore di intensità davvero straziante: lo spettatore si concilia quasi con lei e si sente pieno di terrore, ma anche di pietà come la stessa teoria aristotelica esigeva. Medea, maga, forestiera e barbara (o c’era in lei anche altro?) intimorisce Creonte e forse anche GIASONE ; ma la paura dello spettatore non discaccia la pietà per lei fino all’ultima scena dove Medea non avrà più bisogno di tale sentimento. Almeno per sé. Vien da pensare che in lei stessa, più che nel suo gesto, stia il significato della sorpresa tragica, come un terzo tempo dopo quello dei doppi delitti. E sorpresa tragica significa non solo una conclusione fattuale (i delitti e impunità del colpevole) bensì anche “concettuale” (diciamo per ora così) che inopinatamente ne deriva. Medea è personaggio tragicissimo che merita davvero il superlativo che Aristotele attribuisce al suo creatore.

Rimane il culto dell’io, l’ambizione smisurata di riconoscersi nella propria immanenza, e quindi nell’affermazione di sé: la grandezza sovrumana diviene, o può divenire, grandezza inumana. A. Caiazza, Medea: fortuna di un mito cit.. Dell’idea aveva poi approfittato Noverre per costruire una grande scena pantomime (Medea trasforma la stanza in una «grotta spaventevole» dove, con l’apporto di Gelosia, Ferro, Fuoco e Veleno, mette a punto la sua vendetta e s’avventa sui figli, nel primo tentativo di infanticidio); anche Gotter, stretto nelle ridotte dimensioni del monologo, colloca la catastrofe assieme alle invocazioni ad Ecate, amplificate dall’insorgere di una violenta tempesta notturna. L’unione di dénouement, imbarbarimento di Medea e violazione delle regole del decoro è però conservata anche in quelle tragedie che, per attenersi maggiormente alla regolarità del dramma, evitano un simile cambiamento di luogo: il repentino cambio d’ambientazione nella scena di magia – come accade, tra gli altri, nella GIASONE E MEDEA  di Hoffman – può essere sostituito dall’inaspettata apparizione della protagonista, in forza della quale tutto improvvisamente cambia aspetto, o da un radicale scarto espressivo e retorico, come fa Longepierre quando, nel atto quarto interamente dedicato allo scioglimento, unisce il primo tentativo di infanticidio con l’invocazione alle divinità degl’inferi e come fa ancora Hoffman che combina una scena in apertura del terz’atto dove unisce sortilegio e risoluzione di infanticidio. I tratti costanti possono così essere riassunti nella seguente tabella: PERSONAGGI: Medea, GIASONE , Creonte LUOGHI: palazzo, antro SCENE: diverbio Medea-GIASONE , diverbio Medea-Creonte, risoluzione dell’infanticidio, sortilegio (eventualmente nella versione regolare e verosimile dell’invocazione), rivelazione (o rappresentazione) degli omicidi Per tessere questa trama essenziale, le Medee settecentesche e ottocentesche aggiungono altri elementi vòlti ad accentuare ora la verosimiglianza dell’intreccio, ora il percorso sentimentale di Medea, ora la spettacolarità globale della pièce, ora il tono emotivo dell’intero dramma. I

l riassestamento dell’intreccio può toccare più livelli, dal tratteggio dei personaggi principali al ritocco dell’antefatto, dal trattamento dello scioglimento all’epilogo, all’inserimento di caratteri secondari. Vediamoli in dettaglio. Medea Medea è naturalmente il personaggio più elaborato nella storia del soggetto. Dopo le classicistiche Medea del Seicento, quelle di Corneille e di Longepierre, il personaggio serve bene a ‘testare’ l’efficacia delle nuove poetiche sentimentali e a suscitare nello spettatore la massima simpatia possibile per Medea la massima simpatia possibile. È -- Uno studio esauriente delle principali Medee europee del Settecento è Scott Robert Levin, Medea on the Eigtheenth-Century Stage: A Study in the Assimilation of Classical Tragedy, Indiana -- un processo che culminò in The Tragedy of Medea di Charles Johnson (1730) e in Miss Sara Sampson di Lessing; la prima è una trattazione con toni da dramma sentimentale borghese, la seconda è un vero dramma borghese incentrato su un personaggio che è l’equivalente di PRINCIPESSA CREUSA. Il gusto per il sentimentalismo del personaggio muove anche Glover che s’accosta a Medea per mostrare come «i dubbi e i tormenti dei grandi ci fanno conoscere e amare la tranquillità di una vita oscura e private. La sua tragedia, la più originale del repertorio esaminato, tratta l’intera vicenda come dispiegamento del destino che sovrasta l’intenzione dei protagonisti. In Glover entra così anche una nuova attenzione per lo sviluppo del carattere di Medea, non più descritto in alcune istantanee isolate, ma seguito nel suo sviluppo dall’amore alla rabbia crescente alla follia. Questo interesse per dinamica dell’affetto, il sorgere e crescere delle passioni, dominerà le tragedie dell’ultima parte del secolo. Clément ne esplicita i termini nella prefazione alla suo “Giasone e Medea”, “une tragédie sans aucune complication d’intrigue, sans coups de théâtre, sans épisodes, et fondée seulement sur le développement des passions».

Con questo genere di tragedie l’attenzione per l’eloquio retorico del drammaturgo cede al gusto per la performance, quindi alle capacità espressive delle attrici formatesi sull’esempio di Garrick: The declamatory manner delivered in rant and often a semi-musical tone, gave way to a colloquial idiom. Extravagant weeps of the arms and statuesque poses began to incorporate subtle movements of the face. Yet amidst these changes, the actor’s training, as well as the audience’s expectations, shared a language of conventionalised gestures and inflections of the voice. The art of acting was a skill which could be analysed intellectually, studied, and mastered, and had its origin in the rhetorical theories of oratory from antiquity. È l’estetica che, pochi anni dopo Glover, consentirà a Gotter di impostare la sua Medea come monologo della prima donna a cui si richiede una potente presenza scenic. Ci si concentra così sulla lotta delle passioni di Medea tra amore materno e gelosia quando tenta invano di uccidere i figli: in questi testi la scena del tentato infanticidio è la scena --

È una tragedia che non esamino qui perché estranea al mio repertorio, sia in termini cronologici, sia perché non ebbe alcuna traduzione italiana o francese. Dalla Preface alla tragedia che cito nella traduzione di A. Caiazza, Medea: fortuna di un mito. Sono i decenni delle grandi attrici tragiche che, sull’esempio di Garrick, cercano una recitazione più naturale e meno stereotipata. Celebri nel ruolo di Glover furono Mary Ann Yates e Sarah Siddons, le cui pose drammatiche sono riprodotte nei frontespizi della tragedia rispettivamente nel 1777, 1797. Sono anche gli anni in cui Johann Jacob Engel pubblica Ideen zu einer Mimik, Berlin, Mylius, 1785-86, tr. it. Milano, 1818-19. Su questi aspetti tornerò nel prossimo , nel paragrafo dedicato a Giuditta Pasta.S. Levin, Medea on The Eighteenth-Century Stage: A Study in the Assimilation of Classical Tragedy. Il libretto napoletano del 1790 sopra citato prevede così l’entrata in scena di Medea. Nel tempo dell’ultimo allegro della Sinfonia, si vede discendere Medea sopra un carro tirato da due draghi alati, e sostenuto dalle nubi: queste al di lei cenno si rialzano in un col carro, e spariscono. Medea nel por piede a terra, si raccapriccia, affissa lo sguardo nella reggia. Intanto la marcia maestosa si cangia in una tenera cavatina, al suono della quale la sua collera cede alquanto, e sottentra la passione». Il testo di Gotter, fu tradotto in quegli anni anche in francese da Berquin (1781), ma qualche anno prima madre, talvolta addirittura replicata due volte prima di arrivare al suo compimento (Hoffman, Giotti).

Difficilmente Corneille poteva fornire spunti interessanti alle tragedie di quest’epoca.

Come osservava Clément, la sua caratterizzazione a tinte forti di Medea, offriva piuttosto elementi per la poetica ‘terribile’ dell’opera, interessata a mostrare scene di sicura efficacia, più che a sviluppare gradatamente passioni e caratteri. Era una strategia adeguata quindi ai generi a struttura ‘aperta’ come l’opera e il ballo dove le atrocità a sangue freddo potevano funzionare benissimo. Vedremo come affronterà il problema Romani, ma nel tardissimo Settecento e nei primissimi anni dell’Ottocento, basarsi sull’efficacia del gesto attoriale e della scena terribile voleva dire concentrarsi su una Medea già trasformata in furia vendicativa, arricchita da tratti magici e incantatorii: in questi casi diventava superfluo giustificare il dénouement e la conseguente catastrophe (Noverre, Gotter, Marinelli, Balsamo, Morosini). Il titolo Vendetta di Medea, ricorrente in questi testi, dichiara che soggetto della pièce non è tutta la vicenda di Corinto, ma solo il tragico epilogo. È sufficiente osservare la successione dei numeri musicali affidati a Medea dalle due opere italiane degli anni ’90 per constatare come il carattere sia già definito, senza ulteriori sorprese o trasformazioni fin dall’esordio del dramma: ?-Marinelli, La vendetta di Medea, Venezia, 1791. Medea, ‘Perché mai, o ciel tiranno’, cavatina di imprecazione ai numi (I,2) Medea, ‘Son tradita e disperata’, aria con coro di furie (I,6) Medea-GIASONE, ‘Se m’abbandoni, ingrato’, duetto oppositivo (I,8) Medea, ‘È l’estremo questo amplesso’, aria di affetti contrastati davanti ai figli (II,5) Creonte, GIASONE , Medea, furie, ‘Che si chiede che bramate’, finale Balsamo-Piticchio, La vendetta di Medea, Napoli 1797 Medea, ‘Per pietà del mio dolore’, cavatina di imprecazione ai numi (I,1) Cronte-GIASONE -Medea-Idamante, ‘Dèi, proteggeteci’, ensemble oppositivo Creonte- GIASONE /Medea-Idamante (I,3).
Medea, ‘Sono oppressa e disperata’, aria con coro di furie (I,6) Medea-GIASONE , ‘Va m’abbandona, indegno’, duetto oppositivo (I,8) Medea, ‘Cari oggetti sventurati’, aria d’affetto per i figli (II,5) Creonte-GIASONE - Medea-furie, ‘Che si chiede che bramate’, finale Corneille fornisce dunque materiali per le metamorfosi laterali del mito che si propagano fino ad Ottocento avanzato, mentre la tradizione letteraria prosegue concentrandosi sul trattamento dei caratteri, sull’elaborazione dei rapporti tra i protagonist femminili: accanto a Medea acquisisce così interesse PRINCIPESSA CREUSA, e un luogo comune sempre più frequentato diventa l’incontro tra le due donne che sarà introdotto da Della Valle attorno al 1813.

Già nella tragedia di Morosini, d’altra parte, PRINCIPESSA CREUSA, pur assente, era tratteggiata in termini di grande tenerezza: fu rappresentato anche a Mannheim in uno spettacolo cui assistette anche Mozart che ne rende conto al padre in una lettera del 12 novembre 1778. Ancora Clément sottolinea «nous ne dirons rien de celle de Corneille, puisq’elle est bannie du théâtre». E chi direbbe che dopo Medea il personaggio che in me produce il solo tenero affetto che quella tragedia produce, è appunto quello che non comparisce mai sulla scena? Que’ pochi tratti che fanno menzion di PRINCIPESSA CREUSA, la dipingon sì buona, e la sua morte eccita tal compassione per l’ingiustizia e tale orrore per la crudeltà che il cuore non può fare a meno di interessarsi molto più a lei che a tutti gli altri che vanno e vengono irresoluti su e giù per la scena. GIASONE  e un personaggio ambiguo già in Euripide e Seneca. GIASONE  si muove nella vicenda di Medea in Corinto incerto tra richiami al dovere di capo famiglia, calcoli politici e amori ingestibili. Ancora Corneille fonde in modo inscindibile i due aspetti secondo le consuetudini del cortigiano secentesco, ma già Longepierre ne fa amante sincero e appassionato di PRINCIPESSA CREUSA. Glover, addirittura, lo redime immaginandolo restio alle nuove nozze impostegli da un accordo tra Creonte e suo padre Esone. Solo alla fine, ma ormai troppo tardi per sventare la vendetta dell’amata Medea, troverà la forza di ribellarsi ai voleri paterni. Nel Settecento il passaggio di GIASONE  da capofamiglia intenzionato a promuovere socialmente se stesso e i figli, anche a scapito della moglie, ad amante tenero decreta una caduta morale del personaggio, ma consente alcune scene sentimentali care al gusto dell’epoca. Di questo genere sono quelle di Noverre (I,1-3), Giotti, (I,5, III,1), Marinelli (I,5, II,3), Balsamo (I,4, II,3) e Morosini (IV,2). Gli ultimi tre rendono conto dell’amore di GIASONE  in un monologo: quello di Morosini sarà poi ripreso ed adattato da Romani alla fine del second’atto. La caratterizzazione più accurata di Creonte, per questo eccezionale, è quella di Glover, che ne fa il vero motore della tragedia. È lui che ha combinato le nozze tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA, è lui che persegue questo progetto nonostante le incertezze di GIASONE , le minacce della sacerdotessa di Giunone e di Medea. Alla fine il progetto diventa vero e proprio puntiglio per affermare la propria autorità sui sudditi e sugli dèi, fino a spingerlo ad un attacco armato al tempio, durante il quale soccomberà per mano dei sudditi.

Di un Creonte così ferocemente caratterizzato restano tracce nel libretto di Castiglia, oltre che nella tragedia di Lamartine. Negli altri testi Creonte è re severo, intimorito da Medea, che oscilla tra una ironia feroce nei confronti della maga (Seneca, Corneille), l’aspra durezza del sovrano (Longepierre), e una sostanziale comprensione del suo dramma di donna abbandonata: è in forza di questa comprensione che proroga l’ordine d’esilio d’un’ultima fatale giornata e, in Della Valle, intercede con PRINCIPESSA CREUSA perché acconsenta all’incontro tra Medea e i figli, che si rivelerà esiziale. In generale, però, il personaggio è poco caratterizzato, se non, talora, trascurato. Il solo compito è intimare, o comunque decretare, l’esilio di Medea e di avallare le nozze tra PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE . Così accade per esempio nei -- B. Benincasa, Riflessioni sulle tragedie che hanno trattato il soggetto di Medea. Cfr. A. Caiazza, Medea: fortuna di un mito -- libretti di Marinelli e Balsamo, in cui Creonte compare solo all’inizio per comunicare la sentenza e alla fine per piangere la morte della figlia (con relative arie in Marinelli, aria e duetto con GIASONE  nel rifacimento di Balsamo). Solo Gambara tenta un Creonte equilibrato, forse ingenuo, non tiranno, votato al bene pubblico di Corinto nella scelta sia di concedere la mano di PRINCIPESSA CREUSA a GIASONE , sia di esiliare Medea, cui cerca di comunicare il decreto con toni concilianti. La tradizione classica prevede che il dramma si apra con Medea e GIASONE  già ospiti a Corinto con i due figli.  Solo le esigenze di maggiori peripezie necessarie al ballo pantomimico spinsero Noverre ad anticipare anticipa l’inizio del dramma all’arrivo di Medea e GIASONE  a Corinto e ai primi approcci dello sposo con PRINCIPESSA CREUSA, durante la festa di accoglienza degli Argonauti: l’antefatto è comunque immaginato in termini analoghi. La prima importante variante a questo modello è invece introdotta da Richard Glover, e la sua innovazione avrà ampio seguito nei testi successivi.

Glover immagina che GIASONE  fosse fuggito, inorridito, dalla sposa già a Iolco, dopo che Medea aveva assassinato suo zio per restituirgli il trono usurpato, e si fosse rifugiato in Corinto solo. La tragedia inizia così quando Medea giunge in Corinto, con seguito e figli, alla sua ricerca. Quest’idea verrà ripresa da Gotter, leggermente modificata dal fatto che Medea giunge sola in Corinto mentre i figli vi erano erano già giunti con il padre all’epoca della fuga da Iolco. Da Gotter viene poi ripresa da Giotti, Hoffman, Milcent, Della Valle e Legouvé; in forma diversa è sfruttata anche da Lamartine, Castiglia e Grillparzer: i primi due immaginano Medea in Corinto assieme a GIASONE  ma incognita tanto a Creonte che a PRINCIPESSA CREUSA; l’ultimo fa sì che GIASONE  e Medea tornino assieme a Corinto dove GIASONE  era cresciuto e dove serbava ricordi di vita con PRINCIPESSA CREUSA. La variante introdotta da Glover consente a tutti questi testi o il capovolgimento di ruoli, per cui è Medea ad intromettersi in una situazione affettiva già consolidata tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA, o due coups de théâtre di grande efficacia: il disvelamento o l’apparizione improvvisa di Medea con conseguente sorpresa generale (Hoffman, Della Valle, Castiglia, Grillparzer, Legouvé, Pini; Gotter posticipa il disvelamento alla scena ultima, a delitti commessi), e l’incontro sereno e confidenziale tra PRINCIPESSA CREUSA e Medea, prima che quest’ultima scopra che l’oggetto d’amore della principessa è GIASONE  stesso (Lamartine, Della Valle, Legouvé). Per mettere al corrente gli spettatori di tutto ciò, le esposizioni seguono pochi modelli:

a) dialogo iniziale: tra GIASONE  e confidente (Corneille, Longepierre, Morosini, Lamartine), tra due confidenti (Marinelli, in forma diversa anche Glover e Milcent), tra Medea e confidente (Clément, Niccolini);

b) come lungo monologo di Medea (Gotter, Giotti);

c) avvio in medias res che consente di mettere in azione l’esposizione: confront tra Medea e Creonte (Balsamo), tra GIASONE , Creonte e Glauce che concertano le nozze (Gambara, Troilo), come annuncio al popolo da parte di Creonte delle nozze imminenti, con ampia introduzione con PRINCIPESSA CREUSA (Della Valle, Legouvé) e coro che si concentra sulle preoccupazioni della principessa (Hoffman, Romani).

Va da sé che quest’ultimo modello è seguito dai testi lirici, o da tragedie modellate sul teatro musicale. Lo scioglimento, nella nostra lettura la decisione di Medea di sopprimere i figli, è naturalmente l’episodio del dramma più soggetto a varianti, quello che meglio caratterizza le diverse versioni, sia per posizione, sia per costruzione. Con l’eccezione dei testi che intendono calcare i toni ‘terribili’ della perversione di Medea, quasi tutti gli autori cercano un motivo scatenante, un modo per rendere plausibile un atto tanto innaturale ed estremo. Alcuni testi giustificano l’esplosione della vendetta di Medea con la certezza di non poter più scongiurare le nuove nozze: lo fa Glover (IV,3: Medea è informata che il contratto di nozze è già firmato), e lo seguiranno pure Clément (II,5), Hoffman (III,1-2, dopo che il second’atto era terminato con le nozze di GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA), Milcent (III,4: Medea, ignara che GIASONE  finge soltanto di accettare l’obbligo di nozze imposto da Creonte sente i canti nuziali e, in un accesso di follia, uccide i figli), Troilo (II,3) e Pini (I,10). Normalmente però, sull’esempio di Seneca, la decisione delle nuove nozze è collocata nell’antefatto e l’evento scatenante diventa la decisione di GIASONE  di tenere con sé i figli: accade in Corneille (III,3), Longepierre (III,5-6), Giotti (II,3-5), Niccolini, (III,3- 4), Della Valle (IV,1-2, dopo che il terz’atto era finito con il dialogo sui figli con GIASONE ), Gambara (II,5-6, dopo un analogo dialogo con Creonte), Lamartine (IV,2-3, «Eh bien! Ce dernier coup me rend tout mon courage»), Legouvé (III,5-6, fa sì che, crudelmente, GIASONE  chieda a Medea di scegliere quale figlio tenere; al rifiuto del prescelto di andare con la madre, questa risolve per la vendetta: la scena è preparata prima con dialoghi affettuosi tra PRINCIPESSA CREUSA e i figli, sorpresi da Medea). Solo Marinelli, Balsamo e Morosini scelgono di seguire Euripide ed immaginano che sia Medea ad affidare spontaneamente la prole a GIASONE : un espediente per rendere verosimile il dono della veste (o cinto, o diadema) a PRINCIPESSA CREUSA.

Noverre e Gotter, invece, non chiariscono a chi sia spettata la decisione di lasciare i figli con GIASONE , e neppure danno ampio risalto alla risoluzione di GIASONE  di sposare PRINCIPESSA CREUSA: la pantomima che nel primo effigia l’abbandono di GIASONE  (II,6-7) e I canti nuziali che nel secondo (sc. 5) Medea sente da dentro non sono a ridosso dello scioglimento. In questo modo Noverre, Marinelli e Balsamo, così come Morosini, colorano di terribile tutta la pièce, fedeli al motto Sit Medea ferox (che Morosini per primo appone come exergo sul forntespizio della tragedia): arrivano all’epilogo in un crescendo di ferocia di Medea; in questi casi è difficile individuare un vero punto di svolta del dramma perché l’evento cruciale sembra anticipato all’antefatto o alle primissime scene, così che Medea è fin dall’inizio personaggio abnorme.

In Balsamo e Marinelli la prima comparsa di Medea (I,2 e I,1) è già all’insegna del progetto di vendetta; il passaggio dall’omicidio di PRINCIPESSA CREUSA all’infanticidio è ‘giustificato’, per dirla parafrasando un verso di Morosini, dal fatto che pur la sua sete estinta ancor non era. Morosini, poiché ha a che fare con dimensioni più ampie e regole più stringenti, non può naturalmente limitarsi al solo epilogo, come fanno le due opere. Distribuisce così la catastrofe su tutto il terz’atto: il punto cruciale è descritto da Tideo a GIASONE  quando in III,1 racconta di aver visto Medea guardare il figlio maggiore in silenzio e smarrita «Disse al maggior: oh, come nel tuo volto Sta il volto di Giason! Lungo silenzio seguì tai detti». Segue il teso dialogo tra Medea e GIASONE , «l’ultimo assalto» da lei tentato per riconquistare lo sposo, l’invio della veste avvelenata a PRINCIPESSA CREUSA e la risoluzione d’uccidere i figli, vòlta esclusivamente a colpire GIASONE . L’espressione di Medea, descritta da Tideo silente e turbata non è una novità: uno degli elementi del sublime drammatico di questi anni erano le frasi concise, la riduzione del livello retorico fino al silenzio. In tutte le Medee di fine Sette e inizi Ottocento, il momento cruciale non necessita di parole, al più è espresso con frasi frammentate e versi interrotti sul modello alfieriano274. In generale alla riduzione del livello retorico, corrispondono anche indicazioni gestuali precise: la scena si fa carico di riverberare e amplificare la tensione del climax drammatico. Accade nelle opere di Marinelli e Balsamo, dove in II,4 e II,5 il --  In tutte le Medee italiane, rigorosamente in endecasillabi, lo stile alfieriano con la successione di versi spezzati subentra nelle scene dove la tensione drammatica giunge al sublime, soprattutto ogni qual volta vengono citati i figli. Si veda Troilo Malipiero II,3. MEDEA Quanto ardisca non sai!. CREONTE Ma il don d’un figlio? MEDEA Nol curo! GIASONE  Il mio furor… MEDEA Nol temo! CREONTE Morte? MEDEA La bramo! CREONTE Il figlio tuo? MEDEA Nol conosco! GIASONE  L’infamia? MEDEA La dispregio! PRINCIPESSA CREUSA Il ciel? MEDEA Lo sfido! GIASONE  A Medea dunque, or chi più resta? MEDEA Io! (con somma forza). Ma un altro caso si trova anche in I,4. Se ne possono poi osservare esempi anche in Giotti, II,1 (Medea, GIASONE , PRINCIPESSA CREUSA, Creonte, alla comparsa a sorpresa di Medea), V,ultima (Medea, GIASONE , Creonte); Morosini, I,3 (Creonte-Medea), II,3, III,2 (GIASONE -Medea), II,4 e III,1 (GIASONE -Tideo con descrizione dello stato di abbattimento di Medea), IV,3 (Medea-Climene con la risoluzione all’infanticidio); Niccolini, II,5 (Medea-Rodope, con risoluzione alla vendetta sui figli), V,6 (Popolo- Rodope-GIASONE -Medea); Della Valle, II,2 (Creonte-Medea), III,2 (GIASONE -Medea, con la sorpresa dello sposo di vederla in Corinto), IV,2 (Medea-Licisca con risoluzione alla vendetta), IV,4 (Creonte- Medea), V,2 (GIASONE -Medea-figli) -- montare della furia di Medea è evidenziato dal suo sguardo verso i figli, che passa dalla tenerezza al furore alla tenerezza, e poi ancora al furore275; analoga è la calma tremenda descritta in Niccolini dalla confidente di Medea (IV,1)276 o lo stato in cui «Misera! Il suo dolor non ha parole Medea tien fise a terrale attonite pupille» come fa dire Niccolini ad Adrasto (I,5).

Nella drammaturgia del tardo Settecento la forza scenica di questi gesti ha grande efficacia: possiamo quindi intenderlo come un adattamento all’estetica del sublime dell’espediente che Corneille aveva introdotto con la scena di magia per rafforzare il dénouement.

La scelta di Gotter è invece differente da quella di Noverre, Marinelli Balsamo e Morosini, sebbene, come loro, anch’egli non preveda un episodio scatenante alla furia di Medea. I canti nuziali che Medea sente da dentro, preludono infatti ad una scena di delirio: Medea immagina la morte dei figli in modalità analoghe a quelle poi riprodotte nel dénouement. Il delirio però è episodico, e non costituisce una vera svolta della breve azione, che infatti immediatamente dopo riprende con un tenero incontro tra Medea e I figli. Il delitto, per essere tale, deve essere consapevole: l’obnubilamento della coscienza non costituisce così il rivolgimento catastrofico; lo sapeva bene Glover che sfrutta il delirio in cui Medea colpisce i figli per salvare la purezza della madre assassina, formalmente decretata poi dall’oracolo di Giunone. L’importanza del delirio è dimostrata anche, e contrario, dalla Vendetta di Medea di Giotti che in II,5 imita la scena di Gotter ma senza accennare al delirio: di fatto anticipa così il dénouement. Da quel momento in poi tutte le azioni di Medea sono volte alla vendetta, ed entrambi i due rimanenti incontri con i figli (II,6 e IV,7) sono tentativi (falliti) di omicidio. Come abbiamo visto nel caso di Marinelli e Balsamo, anticipare tanto lo scioglimento contribuisce a rendere la pièce un epilogo dell’antefatto, rinunciare ad un percorso drammatico articolato e ridurre lo spettacolo ad una semplice esibizione di effetti ‘terribili’. L’espediente del delirio iniziale in cui l’idea di uccidere i figli si affaccia alla mente di Medea, subito respinta con orrore, è invece ripresa da Gambara (I,4) e da Hoffman (II,4), in analogia con Gotter, come stigmatizzazione del dénouement: quando avverrà, in stato di coscienza, avrà già impressi i tratti dell’abnorme. La catastrofe prevede due fasi necessarie: la realizzazione dell’infanticidio e il chiarimento della sorte di Medea e GIASONE .

I figli di Medea muoiono infatti quasi sempre.

Fanno eccezione Balsamo, come detto sopra, e Troilo che chiude la tragedia con un tableau sospeso con Medea che «alza il braccio armata di pugnale sopra il fanciullo. GIASONE Balsamo, coerentemente, si ferma alla tenerezza per giustificare il mancato infanticidio finale. Il libretto ne risulta certamente con meno nerbo, censurato.  «Ohimé conoscoDell’ira antica i segni, e mai non vidiPiù tremende sembianze; il suo dolore Già divenne crudele; ed or mi sembrach’ella vagheggi una feroce idea.Allor che il nome ascolta!Dell’infedel consorteMedea sorride, e quel sorriso è morte. --retrocede inorridito». Fa eccezione anche Lessing a cui è sufficiente far morire PRINCIPESSA CREUSA per concludere tragicamente il dramma, visto che il personaggio della ingenua fanciulla innamorata aveva spodestato Medea del ruolo di protagonista. Negli altri testi, la vendetta è compiuta a freddo (Clément, Noverre, Gotter, Giotti, Marinelli, Lamartine, Morosini, Gambara) o su pressione dei corinzi che cercano Medea per vendicare su lei o sui figli la morte di PRINCIPESSA CREUSA e Creonte (Longepierre, Hoffman, Gambara, Niccolini, Della Valle, Bertocchi, Pini, Legouvé). Generalmente è compiuta fuori scena, ma in Noverre, Marinelli, Bertocchi, Legouvé avviene davanti agli spettatori inorriditi. Un finale aperto come quello dei due testi classici di Euripide e Seneca, con la fuga di Medea e lo smarrimento di GIASONE , soddisfacevano poco, tuttavia, la tradizione classica sei e settecentesca, così come la tradizione ‘terribile’. Per la prima era troppo immorale l’impunità dei delitti e troppo irregolare la chiusura della tragedia senza una Chiara collocazione finale di GIASONE , per la seconda l’efferatezza del delitto di Medea necessitava d’una adeguata evidenziazione scenica, per rientrare nei canoni delle scene terribili. Corneille, dunque, fa suicidare GIASONE , seguito in questo da Longepierre, Lessing, Gotter, Noverre, Morosini (quest’ultimo, con l’esagerata osservanza del decoro degli epigoni, si affida alla variante dello svenimento) e Romani (nella versione romana del ’24 il suicidio è compiuto, nelle altre impedito all’ultimo istante); Glover si deve affidare alla discesa di Giunone che perdona i due sposi l’attimo prima del suicidio; Clément introduce il suicidio di Medea, seguito da Della Valle, Niccolini, Lamartine e Pini (oltre che dalla versione romana del libretto di Romani); a partire dal ballo di Noverre, prende anche quota l’amplificazione scenica del finale, talvolta con infanticidio in scena e comunque con presenza attiva di furie che terrorizzano gli astanti dentro e fuori dal palcoscenico. Seguono questa variante laterale, dettata dalle particolari poetiche musicali del tempo, tutti i testi con musica: Gotter (nelle traduzioni per la scena, quella di Borroni e quella napoletana, non nelle traduzioni letterarie di de’ Giorgi Bertòla e delle Novelle Letterarie»), le opere di -- 277 Cfr. M. Garda, Da «Alceste» a «Idomeneo»: le scene terribili nell’opera seria. Si confrontino i diversi epiloghi. B. Borroni: «GIASONE  – Scellerata! Mel disse il cor presago.| I miei figli ove son? Poveri figli! Dal palazzo sortono quattro furie, due coi figli trucidati, e due con fiaccole accese; quelle gittano i figli su i gradini in faccia a GIASONE , e partono; e queste scendono a circondarlo. Egli al ravvisare que’ cadaveri dà un grido spaventoso e tenta di correre verso di essi, ma è trattenuto dalle furie. MEDEA, gittandogli il pugnale ai piedi – Eccoli pel sepolcro. Ah! pera di Esone la schiatta reaVivan, Vivan gli de. viva Medea. Sale in trionfo. GIASONE  – Tanto dunque a’ miei danni è il cielo irato?| Furie d’averno orribiliUccidetemi voi, son disperato! In questo istante precipita il palazzo, GIASONE  precipita colle furie, e si abbassa il sipario». Napoli 1790: «GIASONE  – Terribil vista! I figli miei … MEDEA – Eccoli, ma pel sepolcro! Getta lo stile, e sparisce. Escono quattro furie, due coi cadaveri dei figli, quali gettano su gli scalini del palazzo, e partono, e le altre impediscono a GIASONE  d’avvicinarsi. GIASONE  – Ferma, t’arresta, dà morte anche a me pria di fuggire …. Ah! voi la cui fredda spoglia non posso ora abbracciar, innocenti vittime, perdonate, perdonate al vostro genitor… La destra del vindice Onnipotente faccia le vostra vendetta. Cava uno stile, e si ferisce. Oh Dio! io vi seguo, io muoio. (Muore)». Novelle Letterarie: «GIASONE  Terribil presentimento. I miei figli? MEDEA Va’ e sotterrali. Se ne va trionfante. L’ingresso del palazzo s’apre da per se. GIASONE  Ferma! ti arresta! dà morte anche a me prima di fuggire! Vede i cadaveri, vuol gettarsi sopra; torna indietro tremante. Ah! voi, … le cui fredde membra non oso abbracciare, Marinelli, Balsamo e Hoffman. Giotti, Marinelli e Hoffman aggiungono anche il crollo dell’intero palazzo o della città per terremoto o incendio (in Giotti con «musica analoga».); Gambara si toglie d’impiccio e fa fuggire Medea di nascosto, affidando alla confidente il compito di rivelare l’infanticidio a GIASONE ; Milcent opta invece per un improbabile lieto fine, con la Giunone di Glover che, oltre a perdonare Medea e GIASONE , rende loro anche I figli misteriosamente sfuggiti ai colpi della madre.

Così come le sezioni portanti del dramma, anche i diversi episodi previsti per tratteggiare i caratteri della tragedia possono essere molto vari col variare del tono generale che il drammaturgo intende dare alla sua Medea. Possiamo elencare di seguito i principali personaggi ed episodi che si ritrovano saltuariamente nel repertorio studiato: PRINCIPESSA CREUSA è personaggio accessorio del mito, come tale a rischio di creare irregolari intrecci secondari.  

Né Euripide né Seneca lo prevedono, ed il loro esempio è seguito da Glover, Clément, Morosini, Milcent, Niccolini, Castiglia, Santi.  La introduce, invece, Corneille per farne un personaggio leggero, in grado di evidenziare il forte carattere di Medea.  Longepierre ne fa poi un carattere di innamorata sensibile su cui concentra la dimensione amorosa della tragedia; Lessing la elegge addirittura protagonista della vicenda: è lei Miss Sara Sampson, e sul suo avvelenamento ad opera di Mrs Marwood il dramma si conclude tragicamente. Il personaggio è poi ripreso da Noverre, Giotti, Marinelli e Balsamo, Hoffman, Romani, Della Valle, Gambara, Lamartine, Troilo, Grillparzer, Legouvé, Pini, Bertocchi.

In alcuni di questi testi, talvolta PRINCIPESSA CREUSA comprende la sofferenza di Medea: in Lamartine, Della Valle e Pini per esempio è lei che acconsente, o intercede con GIASONE , affinché Medea possa rivedere per l’ultima, fatale volta i figli. In entrambi i casi i bambini sono accompagnati dal padre sospettoso, ma le urla di PRINCIPESSA CREUSA morente lo fanno rientrare precipitosamente a palazzo, lasciando la prole in balìa della madre. È questo un altro tema che circola nelle Medee del tardo Settecento, la gelosia di PRINCIPESSA CREUSA. Corneille aveva fatto della principessa di Corinto una fanciulla capricciosa e viziata, che, non contenta di sottrarre GIASONE  a Medea, ne pretende anche la veste gemmata. In Corneille, PRINCIPESSA CREUSA resta … innocenti vittime, … perdonate, perdonate al padre vostro. La destra del Vindice onnipotente faccia le vostra vendette!… Io … vi seguo. Cade sulla sua spada». De Giorgi Bertòla: «GIASONE  – Presentimento terribile! I miei figli? MEDEA – Va, e sotterrali. Parte trionfante; apresi di per se l’ingresso del palagio. GIASONE Ferma! oh Dio! ferma! dà morte anche a me prima di fuggire. Vede i cadaveri de’ figli; vuol gettarsi sopra di essi, e torna indietro tremante. Ah! voi … voi le cui fredde membra abbracciar non ardisco … vittime innocenti … Perdonate, oh dio! perdonate al padre vostro! … La destra dell’onnipossente vendicatore faccia le vostra vendetta. Io … vi seguo. Si lascia cadere sulla sua spade -- poco tratteggiata, ma lo spunto è sufficiente per consentire agli autori successivi di inserire episodi d’amore incerto e contrastato. Giotti (I,5, III,1), Marinelli (I,5, I,7, II,1) e Balsamo (I,4, I.7, II,1) inseriscono ben due o tre scene di gelosia capricciosa di PRINCIPESSA CREUSA, seguiti da Gambara (I,1, II,1, III,1-2) e Bertocchi (III,1). Hoffman, come Romani, ne accenna soltanto nelle due scene introduttive dedicate alle pene d’amore della principessa. Ege e un Personaggio introdotto già da Euripide come espediente per garantire un rifugio a Medea dopo la strage di Corinto (condizione essenziale per la sua risoluzione ad avviare la vendetta), Egeo non è ripreso frequentemente dalle versioni successive, perché costringeva  ad irregolari intrecci secondari. Lo utilizza però Corneille che ne fa pretendente di PRINCIPESSA CREUSA e rivale di GIASONE ; lo riprende nella stessa veste Romani (trasformato in Timante nella rielaborazione del libretto operata da Cammarano per Mercadante). La rielaborazione del ballo di Noverre rappresentato a Napoli da Lefèvre lo immagina invece innamorato di Medea (una idea già presente in Charles Johnson, The Tragedy of Medea, 1730). Incontro Medea-PRINCIPESSA CREUSA.

La modifica dell’antefatto introdotta da Glover con l’arrivo di Medea a Corinto alla ricerca di GIASONE  già ospite alla corte di Creonte, consente, come detto prima, sia effetti di sorpresa (Gotter [scena ultima], Giotti [II,2], Hoffman[I,5], Milcent [I,5], Castiglia [II,9 = finale I], Pini [I,10 = finale I]), sia scene in cui Medea incontra sotto mentite spoglie PRINCIPESSA CREUSA (Legouvé, I,4-6) o Creonte (Castiglia [II,4], Pini [I,4]), o entrambi (Della Valle [II,2-3], Lamartine [II,2-3]). Grillparzer organizza invece un incontro tra le due donne, entrambe consapevoli della reciproca identità, all’insegna di una ‘decadente’ solidarietà femminile: chi adattò il libretto di Romani per Prospero Selli, nel 1839, colse l’occasione per prevedere un duetto tra le due prime donne. Scene di prigione sono rare nelle Medee esaminate. Corneille vi fa rinchiudere Egeo, dopo il tentativo di rapimento di PRINCIPESSA CREUSA: è seguito in questo solo da Romani; Glover, Milcent e Troilo immaginano che Creonte metta agli arresti Medea, ma senza soffermarvisi troppo.

L’interruzione della cerimonia è un luogo implicito in tutte le Medee, di solito conseguenza diretta delle vesti avvelenate: generalmente avviene, però, fuori scena, raccontata da un messaggero. Noverre è il primo che la sfrutta, svincolata dalla morte di PRINCIPESSA CREUSA, per creare una pantomima complessa dove Medea interrompe le nozze tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA (III,3) per recare i doni avvelenati. L’idea è ripresa da Giotti (II,2), mentre Hoffman la scinde in due episodi: in I,5 Medea interrompe la marcia di trionfo del vello d’oro (la didascalia sembra ricalcata direttamente dal ballo di Noverre), in II,7 fa passare il corteo nuziale, con Medea a parte che commenta e impreca fino a quando, passato il corteo, si avventa sull’ara e chiude l’atto agitando una face infuocata. Queste due scene si uniscono in Romani nel Finale I quando si svolgono le nozze dapprima con Medea ed Egeo che imprecano a parte, poi con l’intervento diretto dei due e il sacrilego abbattimento dell’altare. Ormai affermatasi come variante laterale dovuta alle esigenze di spettacolarità del ballo e dell’opera, l’interruzione di cerimonie diventa un tratto frequente nell’Ottocento, tragedie comprese: la si trova in Troilo (III,3, IV,5), Milcent (I,4), Castiglia (II,6 cerimonia per la profezia dell’oracolo), Pini (I,10); Gambara ne approfitta, e trae da Noverre una scena di ipocrita serenità con Medea che interrompe le nozze per presentare I propri doni avvelenati (IV,6). Tutte le battaglie introdotte nelle tragedie e nelle opere di Medea in Corinto avvengono fuori scena, generalmente tra due atti. Così immagina Corneille che fa tentare ad Egeo il rapimento di PRINCIPESSA CREUSA; lo stesso fa Romani. Anche Glover (V,6) immagina una battaglia fuori scena, ma nel suo caso si svolge tra GIASONE  e Corinzi contro Creonte che muore nella battaglia. In altri casi (Romani, Della Valle, Troilo) ci si immagina una battaglia contro Acasto, figlio di Pelia, generalmente nell’antefatto, per giustificare la stima di Creonte nei confronti di GIASONE , o le ansie di PRINCIPESSA CREUSA per l’amato, o ancora per giustificare l’assenza di GIASONE  in scene con Medea in incognito (Gambara). I delitti Costituiscono questi, naturalmente, la peripezia più frequente nelle diverse Medee in Corinto. Il repertorio esaminato si differenzia per la morte di Creonte (presente in Corneille, Longepierre, Noverre, Hoffman, Morosini, Niccolini, Gambara, e assente in Giotti, Marinelli e Balsamo, Romani, Della Valle, Lamartine, Troilo, Castiglia, Pini, Legouvé), per le modalità sopra esaminate in cui viene commesso l’infanticidio, e soprattutto per l’esibizione in scena dell’agonia e della morte ovvero per la sua narrazione. Mostrano la morte Corneille (V, 3-5), Longepierre (V,3), Noverre (III,4), Giotti (V,6); optano per la seconda Marinelli e Balsamo (II,6), Morosini, (V,4), Niccolini (V,3), Della Valle (V,3), Gambara (V,2), Lamartine (V,5), Troilo (V,3); Hoffman (III,3), Romani (II,13), Legouvé (V,7) e Pini (III,5) lasciano che siano i pianti di dolore da fuori a dare la notizia del compimento del delitto. In Gambara è Orfeo, saggio confidente di GIASONE , che racconta la morte della principessa con toni ripresi dal Laocoonte di Lessing.

La prima tragedia italiana dedicata all’infanticidio di Medea è, dunque, quella di Morosini, che adatta alle strutture del regolato teatro classicista il personaggio definite sulle scene italiane del ballo e dell’opera.  Suonano come una dichiarazione di poetica sia la specifica ‘in Corinto’ del titolo, sia la monca citazione oraziana sit Medea ferox invictaque nell’exergo che fa cadere l’«invitta» per evidenziare solo la ferocia della protagonista. Lo evidenziava già Benincasa quando osservava che quella di Morosini era una «Medea onnipotente, volta a eccitare e mantenere l’interesse dell’orrore, giacché a quello della pietà non v’è gran loco.

Nella sua tragedia a dire il vero non mi sembra che ve ne sia che uno di carattere il quale per costanza si possa dir tale, ed è quello di Medea. Sarà eccessivo, sarà forse oltre natura, ma non si smentisce mai: ed anche allorché vorria pur frenarsi, infingersi, dissimulare, sempre si travede, o per il doppio senso dell’espressione, o pel freddo amaro insulto. Il nostro autore lo ha portato a tutto quel grado di energia che mai si poteva e certamente supera i suoi predecessori. Di più si noti che, quantunque Medea nel suo comparire si mostri subito qual è, pure ben lungi dall’indebolirsi, va crescendo in trasporti di sempre più violenta ferocia. Medea giganteggia così sugli altri personaggi, i quali «tutti, non solamente ognun d’essi, è debolissimo in confronto e sviene, ma GIASONE  e Creonte mi sembrano stranamente incoerenti, storti ragionatori, ed assai poco eroici. Nessun d’essi mi fa la minima compassione, o m’ispira un tragico rispetto». Adattare un simile personaggio alla tragedia regolata significava, comunque, stemperarne l’orrore. Nei termini che espliciterà pochi anni dopo l’anziano Romanelli: I due termini d’una tragedia o da recitarsi o per musica, o di lieto o di tristo fine, sono il terrore e la pietà. Bisogna però guardarsi dal sospingere il primo tanto oltre, che degeneri in atrocità, la quale, in vece di eccitare nell’animo nostro una dilettevole palpitazione, lo acerba e funesta. Per la medesima ragione i terribili fatti, che non incutono ribrezzo, fa d’uopo che siano, non raccontati, ma sottoposti alla vista degli spettatori. Siccome poi il tenero sentimento della pietà suol misurarsi sempre col carattere e colle azioni del personaggio perseguitato dalla fortuna o dagli uomini, così è necessario che questi sia commendevole per grandezza d’animo e per integrità di costumi, onde in proporzione ci dolga de’ suoi disastri280. Per garantire la «tragica dignità», Morosini non «sale alla sublime asperità dell’Alfieri, non s’avvolge entro certa altissima nebbiosa luce» del pathos alfieriano, ma volge verso la regolare cadenza di Monti e di un Pindemonte. La vicenda è trattata con -- Questa come le successive citazioni sono tratte da B. Benincasa, Riflessioni sulle tragedie che hanno trattato il soggetto di Medea e note su quelle del signor Morosini. L. Romanelli, Melodrammi del professor Luigi Romanelli -- pochissimi personaggi, ed evita ogni intreccio secondario, ogni personaggio inessenziale: non compare Egeo, e la stessa PRINCIPESSA CREUSA, pur tratteggiata con tinte delicate e commoventi, non è mai presente in scena. Morosini anticipa all’antefatto il decreto d’esilio, già emesso e comunicato a Medea, e immagina le nuove nozze già definitivamente combinate.

Il primo diverbio tra Medea e Creonte (I,6), i due tra Medea e GIASONE  (II,3, III,2) e il primo tentativo di infanticidio (I,6) sono i grandi pilastri su cui Morosini costruisce, nella sua tragedia, l’epilogo della vicenda di Corinto. Le altre scene sono introdotte per risolvere problemi formali come l’esposizione o la verosimiglianza dell’accettazione da parte di Creonte dei doni di Medea a PRINCIPESSA CREUSA (Morosini li concepisce come ringraziamento ai sovrani per aver accettato di ospitare i figli a Corinto). L’appendice VI ne mostra la sinossi. A questa tragedia Romani guarda quando si accinge a scrivere il suo libretto: ne prende il titolo, ne imita l’exergo, riprende certa onomastica (Tideo e Climene, trasformata nel più eufonico Ismene), cita i versi più apprezzati dalla critica del tempo, altri li parafrasa. Le procedure di adattamento della tragedia in opera sono però alquanto complesse, e tali da dare origine ad un testo davvero nuovo. Morosini conferisce a Romani prestigio letterario: consente di intendere il libretto come trasposizione musicale di una tragedia; in questo senso la sua opera è vera tragedia lirica alla francese. I versi di Morosini sono utilizzati infatti prevalentemente nei recitaivi – nelle scene cioè di taglio classico come le confidenze di GIASONE  a Tideo, una delle più efficaci esposizioni secondo il citato Benincasa –, nell’aria di GIASONE  (II,12, prima dell’intervento del coro), nella scena del tentato infanticidio, nell’epilogo, nel dialogo con Creonte – poi soppresso – e, soprattutto, nel dialogo tra Medea e GIASONE  composto con un centone di versi di Morosini tratti dalle due scene analoghe e dalla scena dell’incontro tra Medea e Ismene. Quest’ultimo dialogo ha grande rilievo poiché sfocia in uno dei principali duetti dell’opera, ‘Cedi, Medea’.

Rispetto a Morosini, Romani anticipa leggermente la vicenda a prima del decreto d’esilio, che viene comunicato a Medea da poche battute del coro, e divide il dramma in due sezioni analoghe: una precedente e una successive all’acquisita consapevolezza di Medea che le nozze sono ormai certe: nella seconda si colloca il dénouement. Le strutture regolari della tragedia di Morosini, la sua graduale definizione dei caratteri non bastavano, tuttavia, a creare la varietà e l’impatto scenico necessari al teatro musicale. Romani inserisce dunque molte delle varianti laterali definitesi nella tradizione sei e settecentesca di Medea: si rivolge direttamente a Corneille da cui prende il 281 Il tessuto di citazioni e parafrasi è palesato nella edizione che do del libretto. Qui basti citare a titolo esemplificativo «Io non l’amai che un giorno. E puossi, amico,Amar di più Medea?» (I,1), Non compiange Medea, né cerca maiD’esser compianta.» (II,1), «Il mio destin? maggioreÈ Medea del destin. Di te si feceElla minor. (II,2)». Un caso interessante è poi la traduzione del celebre verso di Seneca «Medea superest». Benincasa rimproverava al «Resta Medea» di Morosini di personaggio di Egeo con relativa scena di prigione – una situazione scenica molto in auge all’epoca282 –, il personaggio di PRINCIPESSA CREUSA e la scena di magia, assente in Morosini. Ridisegna poi l’intero impianto drammatico in modo da organizzare alcune scene corali spettacolari: l’introduzione, la marcia trionfale di GIASONE , i due finali. Sono quest’ultime le uniche situazioni in cui non coincidono unità letterarie (scene) e unità musicali (numeri) prescritte dal librettista283; come vedremo, sono organizzate con effetti quasi da pantomima sul genere di quelli che Daniela Goldin riscontra nella Semiramide di Rossi284. Per queste non erano sufficienti gli esempi operistici italiani a sua disposizione: né il libretto per Marinelli, in cui solo il duetto GIASONE -Medea a fine del primo atto e il finale II interrompevano l’omogeneo tessuto di arie e recitativi, né quello di Balsamo, che pure arricchisce significativamente il numero di concertati (tre duetti, un ensemble a quattro oltre alla scena finale), prevedevano scene complesse con coro; soprattutto, nessuna di queste era in grado di aiutarlo a costruire efficaci alternanze di stasi e movimento entro il numero musicale, come mostra la versificazione sempre regolare in settenari nel caso di Marinelli e con pochi, episodici, slittamenti all’ottonario o al quinario del caso di Balsamo.

Romani deve quindi inventare di sana pianta alcune scene del suo libretto, principalmente un finale d’atto adeguato alle convenzioni operistiche ormai consuete nel 1813285: per questo trae forse alcuni spunti dalla tradizione lirica francese, in particolare dal libretto che Hoffman predispose per la GIASONE E MEDEA  di Cherubini. In realtà non abbiamo prove che Romani conoscesse il libretto di quest’opera che circolò in Italia solo ad Ottocento avanzato, ma diverse coincidenze formali mi spingono ad ipotizzarlo, anche in considerazione del fatto che una copia della partitura di Cherubini manoscritta da Mayr è conservata nel suo archivio di Bergamo -- non raggiungere l’efficacia del monosillabico «Moi» di Corneille: sulla traduzione di Romani di questo verso. Sulle scene di prigione nel teatro d’opera di questi anni cfr. Donatella Pozzali e Nunzia G. Mazzilli, Il tema del carcere nel teatro musicale del primo romanticismo, tesi di laurea, Università di Torno, facoltà di Magistero, rel. Prof. G. Pestelli, a.a 1979-80.

Per ambito cronologico precedente cfr. Angela Romagnoli, «Fra catene, fra stili, e fra veleni…» ossia Della scena di prigione nell’opera italiana (1690-1724), Lucca, LIM. Fa eccezione anche l’ultima aria di GIASONE ; ma in questo caso lo scarto tra unità letterarie e unità musicali è dovuto al colpo di scena dell’entrata del coro che annuncia la morte di PRINCIPESSA CREUSA: un espediente necessario all’articolazione del numero musicale, che tuttavia fa scattare di un’unità il computo delle scene. Esse formano in ogni caso un’unica unità narrativa oltre che musicale: in libretti meno scrupolosi delle regole letterarie sono infatti conteggiate come scena unica. Daniela Goldin, Vita, avventure e morte di Semiramide, in La vera fenice. Librettisti e libretti tra Sette e Ottocento, Torino, Einaudi. Ma l’effetto del dramma è piuttosto quello di una pantomima, con personaggi che vanno e vengono, si rincorrono sulla scena e ne escono senza che si completi l’azione; sono indicati nella didascalia, ma non intervengono nel dialogo. Sulle convenzioni librettistiche di questi anni, cfr. A. Roccatagliati, Felice Romani, librettista cit., Paolo Fabbri, Istituti metrici e formali, in Storia dell’opera italiana. L’opera di Cherubini, del 1797, fu prontamente rappresentata a Berlino nel 1800 e lì replicata ancora nel 1812.

A Vienna giunse nel 1803, fu replicata nel 1809 e ancora fino al 1818 con I tagli riportati nell’edizione Peters. In Italia non fu allestita prima del 1909, La Scala. La partitura copiata da Mayr è Medea von Cherubini, Biblioteca Mai di Bergamo, Segnatura Mayr. È un Il piano definitivo del libretto è mostrato nella tabella 1 del primo  che esplicita la corrispondenza tra l’articolazione musicale e letteraria, e offre anche una descrizione metrica, utile a individuare le suddivisioni interne previste da Romani (come vedremo nell’ultimo , non tutte necessariamente accolte da Mayr). Di prim’acchito si può osservare una sostanziale struttura ‘ad eco’ del libretto per la quale entrambi gli atti rispettano una analoga successione degli eventi: s’aprono con PRINCIPESSA CREUSA confortata dalle damigelle, proseguono con il ritorno di GIASONE  vittorioso, si concentrano sulle imprecazione di Medea, passano a illustrare le vicende di Egeo, e chiudono con un delitto di Medea nel finale (nozze interrotte, nel prim’atto, infanticidio nel secondo). Alla coppia Medea-GIASONE  che domina il prim’atto (con relativo duetto), vengono sostituite quelle di GIASONE -PRINCIPESSA CREUSA, e Medea-Egeo nel secondo (con relativi duetti). È una struttura frequente nelle tragédies lyriques della seconda metà del secolo, meno nell’operismo italiano coevo.

Dalla distribuzione dei numeri, è evidente che Romani si concentra sostanzialmente su Medea e GIASONE . A Medea affida una cavatina iniziale, due grandi duetti, uno con GIASONE  e uno con Egeo, un trio e quartetto con GIASONE, Creonte, Egeo, e due arie nel second’atto: una presenza eccezionale nell’economia drammatica dell’opera, che Mayr ridurrà subito con la soppressione del trio e quartetto; e che si ridurrà ulteriormente negli anni successivi quando Medea perderà anche la cavatina del prim’atto288. A GIASONE  affida due arie con coro, i duetti con Medea e PRINCIPESSA CREUSA, il trio e quartetto soppresso da Mayr. Tra I principali personaggi del mito viene notevolmente declassato Creonte, basso, a cui non è volume rilegato di 204 cc numerate a matita, più una bianca alla fine, ciascuna con 10 pentagrammi con righe in inchiostro rosso-marrone, analogo a quello delle note. Il testo è in tedesco ma alcune indicazioni ‘tecniche’ in italiano. Per esempio è a c. 29r: «fagotto con clarinetto», «come sopra». Solo un’indagine sulla grafia adottata, che non ho ancora potuto svolgere, potrà dare indicazioni sulla data di compilazione del manoscritto, e stabilire se è precedente o successivo al 1813. Sulla ricezione di GIASONE E MEDEA  di Cherubini, cfr. quanto ne dice nel  relativo Stephen Charles Willis, Luigi Cherubini: A Study of His Life and Dramatic Music, 1795-1815, Ph.D. Columbia University, 1975. L’eventualità che Mayr conoscesse l’opera di Cherubini già nel 1813 è sostenuta con prove di carattere analiticomusicale da Arnold Jacobshagen, Johann Simon Mayr und die französischen Opern Luigi Cherubinis, in Werk und Leben Johann Simon Mayrs im Spiegel der Zeit, a cura di F. Hauk e I. Winkler, München-Salzburg, Katzbichler, 1998, pp. 94-104; sappiamo inoltre da Jhon Stewart Allit, Giovanni Simone Mayr. Vita musica pensiero, Villa di Serio, Villadiseriane, che Mayr era a Vienna per la prima della sua Ercole in Lidia nel 1803, quando il teatro allestì la GIASONE E MEDEA  di Cherubini. Su queste strutture ad ‘eco’ nel teatro francese, cfr. Catherine Kintzler, Jean-Philippe Rameau. Splendeur et naufrage de l’esthétique du plaisirs à l’âge classique, Paris, Le Sycomore, 1983, e i capitoli su Zoroastre, GIASONE E MEDEA  e Adrien del mio La parola e il gesto, cit.

Nei libretti, la cavatina ‘Sommi numi’ è soppressa a partire dall’edizione di Dresda del 1821. A Milano, nel 1823, era però prevista una nuova cavatina per la Belloc. Di questa nuova cavatina si trova traccia nella corrispondenza tra Romani e Mayr di quell’anno: risulta arrivata a Bergamo per essere musicata, ma il libretto milanese non la riporta, e nemmeno se ne ha traccia nelle partiture rimaste. Su questa vicenda cfr. A. Roccatagliati, Il giovane Romani alla scuola di Mayr cit. Studiando le carte dell’archivio Mayr di Bergamo, ho però trovato una cavatina di Medea in due copie sciolte che potrebbe essere quella prevista per la Belloc.

Ne do il testo come variante nell’edizione del libretto -- affidata alcuna aria, ma solo sezioni solistiche nei numeri d’assieme. Sono invece evidenziati i due personaggi ripresi dalla tragedia di Corneille: Egeo e PRINCIPESSA CREUSA. Il primo con due arie e un duetto con Medea, oltre alla partecipazione al trio e quartetto soppresso, la seconda con due arie ad introduzione dei due atti e il duetto con GIASONE . Ai confidenti Tideo, Evandro e Ismene non è dedicato alcun numero. Ad Egeo sono prescritti numeri convenzionali, di marca e spirito metastasiani, coerenti con un personaggio sostanzialmente patetico che incarna l’innamorato respinto. Sono arie statiche e meditative, poste a fine scena, bi-strofiche, in settenari  l’una, in senari l’altra. In entrambe, tuttavia, la seconda strofa è più lunga della prima. Il suo duetto con Medea è invece irregolare, con due quartine simmetriche e dialogiche, seguite da una lassa di sette versi a turni di parola alternati (2+2+1+2) che conduce alle ultime strofe a 2 di 3 più 4 più 2 versi; tutte le strofe sono però metricamente omogenee, in senari.

Più regolare è il duetto dedicato a PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE  (II,9), organizzato con due quartine parallele più una sestina divisa tra i due interlocutori, e una sezione a due di sei ottonari a rima alterna: la suddivisione sembra chiara ma la didascalia esplicita del libretto contraddice la struttura metrica e segnala l’unione delle due voci già negli ultimi due versi della lassa di settenari: che sia stata apposta da Romani, o che sia stata inserita nel libretto a descrizione della partitura, consente di bilanciare molto meglio la prima parte (4+4+2+2) con graduale e progressiva unione delle voci che culmina nel distico finale, grazie all’abbandono dello schema chiuso di rime a favore delle rime alterne, e crea un’efficace suddivisione lento-veloce nella sezione d’assieme. Le altre due arie dedicate a PRINCIPESSA CREUSA sono invece più complesse e innovative. La principessa apre entrambi gli atti con due scene analoghe dove, confortata dal coro, esprime ansie d’amore. La prima (I,1-2), quadripartita, è un seguito di quartine dialogiche parallele di ottonari (Coro/PRINCIPESSA CREUSA, Evandro/Creonte/PRINCIPESSA CREUSA) con schema di rime consueto (abbx, cddx mnmn), interrotto da una quartina e una sestina di quinari e chiusa da una di senari nelle sezioni statiche d’assieme – potremmo provvisoriamente definirle cantabile e cabaletta – che -- Sull’aura classicheggiante della strofa in settenari, cfr. Daniela Goldin, Aspetti della librettistica italiana tra 1780-1830, in La vera fenice. Librettisti e libretti tra Sette e Ottocento. Si usa il termine ‘lassa’ come strofa di irregolare, nei termini chiariti da A. Roccatagliati, Felice Romani, librettista. Sulla coincidenza tra didascalie esplicite e strutture metriche, cfr. A. Roccatagliati, Felice Romani, librettista. La sestina di quinari è ripetuta per l’intervento del coro che ribadisce quanto cantato da PRINCIPESSA CREUSA: lo schema di rime lo evidenzia e lo prescrive, non soltanto perché resta analogo, ma soprattutto perché riprende le medesime terminazioni.

Si sospendi per ora la definizione, perché rimando all’ultimo , un più approfondito esame della strutturazione del numero musicale. Dalla sola analisi del libretto risultano infatti alcuni tratti inconsueti che consentono di usare tali definizione solo in senso molto esteso: la scelta di un metro agile e sintetico come il quinario, così come il tema gnomico della seconda sezione ‘Se mio si suggeriscono i movimenti differenti. La seconda è invece tripartita, ma anticipata da due lunghe lasse di ottonari del coro.

L’introduzione del prim’atto con l’altra prima donna consolata dal coro di damigelle è un esordio insolito nell’opera italiana del tempo, che prevedeva generalmente cori introduttivi seguiti da scene dialogiche. In Medea in Corinto, invece, l’esposizione dialogica tratta da Morosini è collocata nella scena 4, posposta sia all’introduzione che alla scena della marcia di trionfo. Romani concepisce infatti per la sua opera due esordi di grande effetto, un’apertura magnifica che consente di introdurre lo spettatore nel pieno della vicenda e di bilanciare adeguatamente i due ricchi finali. Nella tradizione di Medea in Corinto, tali scene hanno precedenti solo nel libretto di Hoffman, che le colloca nella medesima posizione. La parte di GIASONE  comprende due arie e due duetti. Non è però solo quel duetto in più che configura il suo ruolo in termini privilegiati rispetto a quelli di PRINCIPESSA CREUSA e di Egeo: contribuiscono a questo anche l’evidenza scenica delle prime, e l’ampiezza del duetto con Medea.

Entrambe le arie sono con coro, ripartite in diverse sezioni, la prima è celebrativa ed emerge su una scena già ricca di cori -- e marce trionfali, la seconda, d’azione, dà suono ad una delle principali peripezie dell’opera: la morte di PRINCIPESSA CREUSA. Una scena di trionfo analoga a quella di Romani si trova solo nella GIASONE E MEDEA  di Cherubini dove Hoffman aveva immaginato che il vello d’oro fosse stato portato a Corinto da tutti gli Argonauti. Era stato questo un elemento nuovo nella tradizione del mito di Medea, e aveva consentito a Hoffman di movimentare una scena statica e celebrativa con serba’, per esempio, inducono già qui il compositore a tempi rapidi e ritmi incalzanti, poco idonei ad una sezione contemplativa, mentre ‘Ah! splenda propizio’ cantato da tutti in scena (PRINCIPESSA CREUSA, Creonte, Evandro, donzelle, corinzi) ha più le caratteristiche di una stretta che non quelle della conclusione di un’aria solistica.

Anche questo è un modello molto frequente nell’opera francese della seconda metà del secolo, ma inconsueto in Italia. Ho condotto una rapida verifica sui libretti italiani del primo Ottocento, scelti fra quelli delle opere serie e semiserie post 1810 e tra quelle più allestite del decennio precedente: i modelli incontrati per gli esordi sono il coro d’ambientazione, eventualmente con solista, seguito da una scena in recitativo (Orazi e Curiazi, Sografi-Cimarosa, Venezia 1796; Elisa, Rossi- Mayr, Malta 1801, Milano 1805; I riti di Efeso, Rossi-Farinelli, Venezia, 1803; Ines di Castro, Stendardi Sanea-Zingarelli, Milano 1803; La distruzione di Gerusalemme, Sografi-Guiglielmi, Napoli, 1803; Giulio Sabino, Rossetti-De Luca, Napoli, 1809; Alzira, Rossi-Manfroce, Roma 1810; Aspasia e Cleomene, ?-Pavesi, Firenze, 1810; Virginia, Romanelli-Casella, Milano, 1811; Gaulo ed Oiton, Fidanza-Generali, Napoli, 1813), il dialogo oppositivo (Arrighetto, Anelli-Coccia, Venezia, 1813), il monologo (Griselda, Anelli-Paer, Parma 1798, Firenze 1809; Corradino, Sografi-Morlacchi, Milano 1811), il coro seguito da monologo con cavatina (I misteri eleusini, Bernardoni-Mayr, Milano 1802), la scena di conforto in recitativo seguita da aria con coro ‘progressivo’, per usare le categorie delineate da Luca Zoppelli e da me discusse sotto, a nota 158 (Ecuba, Schmidt-Manfroce, Napoli, 1812; Nefté, Liciense-Fioravanti, Napoli, 1813), perfino lunghe pantomime con coro (Eginardo e Lisbetta, ?-Generali, Napoli 1813) o senza canto (Camilla, Carpani-Fioravanti, Vienna 1799 e Milano 1805, che fa seguire la pantomima da una scena e cavatina). Sulle tecniche di esordio, in anni appena successivi, si cfr. comunque, Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. Le opere della maturità da «Tancredi» a «Semiramide», Roma, Torre d’Orfeo -- un colpo di scena pantomimico inventato da Noverre. Romani rinuncia però al colpo di scena, così che la marcia trionfale serve solo ad amplificare l’esordio del dramma con ampio sfarzo scenico, evidenziato dalla uniformità metrica, dalla regolarità della scansione accentuativa, dalla ridondanza tra solista e coro. ‘Di gloria all’invito’ è infatti strutturata in quartine parallele di senari, diversificate per schemi di rime in relazione agli interlocutori cui GIASONE  si rivolge: in successione Creonte, PRINCIPESSA CREUSA e seguaci; Romani prevede inoltre che il coro, dopo aver aperto la scena con due quartine di ottonari, si adegui alla scansione imposta da GIASONE  e ne intercali l’aria con un’altra quartina di senari a mo’ di ritornello. Il passaggio, nella scena di sortita di GIASONE , da ottonari a senari ben ritmati caratterizza il personaggio non nello stereotipo dell’amante patetico – sul quale è invece tagliato Egeo – ma in quello dell’eroe.

Una simile successione si riscontra per esempio nella sortita da Arsace della Semiramide impasticciata da Da Ponte (1811)296. La marcia trionfale ha dunque una valenza retorica. Si incastona tra due lunghe sezioni di recitativo: una prima che entri GIASONE  con seguito militare, un’altra dopo il trionfo, con nuovi dialoghi tra GIASONE , Creonte, PRINCIPESSA CREUSA, e tra GIASONE  e Tideo. Intenzione di Romani non dovette, insomma, essere quella di creare una scena e aria sul modello che diverrà convenzionale di lì a poco, ma un’ampia sequenza d’esposizione che integra numeri musicali e recitativi297. Nelle prime quattro scene noi veniamo a sapere, nell’ordine, che PRINCIPESSA CREUSA è innamorata di GIASONE ; che Creonte vede con favore il loro amore; che GIASONE  è impegnato in battaglia, e, subito, che questa è stata vinta in cambio dell’esilio di Medea; che Egeo, primo pretendente di PRINCIPESSA CREUSA, dovrà rinunciare alla sua mano; che Medea, ancora inconsapevole di tutto, sarà lasciata da GIASONE  per i crimini da lei commessi. Tale messe d’informazioni è necessaria per esporre l’antefatto e per chiarire da quale punto del mito prende le mosse la rappresentazione. Ma Romani si assicura che la necessità di passare queste informazioni al pubblico non risulti meccanica e non impedisca un esordio grandioso: l’introduzione di PRINCIPESSA CREUSA, prima, e la marcia trionfale poi, gli consentono di creare una esposizione dinamica, e bilanciare il ‘peso drammatico’ dei finali costruiti sui crimini di Medea.

La seconda aria di GIASONE , ‘Amor, per te penai’, è un’aria d’azione particolarmente interessante. Romani inventa sezioni metriche capaci di sorprendere uno spettatore ancora. All’arrivo improvviso di Medea, in Noverre «GIASONE  è ricolmo di vergogna e dispetto, PRINCIPESSA CREUSA timida non osa alzare gli occhi da terra, Creonte è penetrato dallo sdegno più violento», in Hoffman «Dircé tombe évanouie entre le bras de ses femmes; Créon reste étonné, Jason confus; et GIASONE E MEDEA  immobile fixe les yeux sur son époux avec une fureur effrayante». Al proposito cfr. il mio La parola e il gesto. Cfr. D. Goldin, Vita, avventure e morte di Semiramide. Sui versi sciolti che seguono un numero musicale, così frequenti nei primi libretti di Romani, cfr. A. Roccatagliati, Felice Romani, librettista cit., pp.191-199. 298 Sulla questione delle introduzioni complesse, cfr. Paolo Fabbri, Le memorie teatrali di Carlo Ritorni, «Rossiniste de 1815», in «Bollettino del Centro rossiniano di studi», assuefatto alle convenzioni e aspettative d’ascendenza metastasiane, uno spettatore che non sentiva ancora come arcaiche le arie sul genere di quelle affidate a Egeo. A tutta prima, ‘Amor, per te penai’ sembra chiudere una normale scena lirica settecentesca dove GIASONE , solo, ha appena commentato in sciolti la propria fortuna, in termini analoghi a quelli che Morosini mise in bocca al suo GIASONE  innamorato. Il recitativo confluisce in una quartina di settenari a rima alterna che chiederebbe una seconda quartina bilanciata per la seconda sezione d’una normale aria col da capo.

Ma in sua vece Romani introduce due ottonari del coro che da dentro invoca aiuto. La risposta di GIASONE  conclude la quartina la seconda quartina. A quel punto il ritmo incalza, e passa da senari a ottonari, e nuovamente senari, per una lunga sezione in cui il coro annuncia la morte di PRINCIPESSA CREUSA, GIASONE  esprime il proprio terrificato sconcerto e infine proclama propositi di vendetta. La scena elegiaca che in Morosini sospendeva l’azione prima del precipitare della vendetta di Medea(IV,2), in Romani diventa una scena dinamica, compressa dall’incalzare degli eventi, che il poeta costruisce interamente con mezzi metrici che suscitano e smentiscono attese nel pubblico. Il tono classico delle quartine di settenari è utilizzato inizialmente anche nel grande duetto di GIASONE  e Medea, l’altro numero in cui compare il tenore. Questa è l’unica scena in cui Medea e GIASONE  si trovano di fronte: Romani condensa qui i tratti narrative solitamente distribuiti in due diversi dialoghi fin dal testo di Euripide. Medea deve essere aggressiva con lo sposo, gli deve rinfacciare che la fama di lui è fondata sui delitti da lei commessi, deve infine fingere di cedere alla realtà. Sono scene canoniche, costitutive del mito di Medea, per le quali Romani poteva trovare abbondanza di riferimenti nella tradizione tragica; Romani fonde e parafrasa qui molti versi e motti dei due dialoghi di Morosini: da «Il mio destin! maggioreè Medea del destin. Di te si feceella minor. (II,2), più efficacemente compressa in settenari in «Era Medea, lo sai,del suo destin maggiore.barbaro, oh Dio, minoresi fece sol per te» (I,9); o «Ciel! perché maiForza d’erba non v’à che amor risani!» (II,1) che diventa «Erba o virtù d’incantoChe sani amor non v’è!» (I,9); e diverse altre che si possono verificare nell’edizione del libretto. Il duetto è dunque costruito bilanciando il peso espressivo del recitativo e del numero lirico: nelle scene direttamente derivate dal teatro tragico, Romani conserva molti tratti propri dei modelli letterari.

I frequenti enjambements, di ascendenza cesarottiana, e i molti versi spezzati creano scarti ritmici adeguati alla densità drammatica del dialogo che vi si svolge; un sapiente uso di rime baciate, alterne e al mezzo definisce e circoscrive I motti più efficaci. Il più celebre è certamente il già citato «Lungi dal suol natio,che sperar 128:95 e Guido Zavadini, Donizetti. Vita, musiche, epistolario, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche. Su queste tecniche cfr. ancora D. Goldin, Aspetti della librettistica italiana tra 1780-1830 e Vita, avventure e morte di Semiramide. È un uso frequente nella librettistica settecentesca ed ancora in quella romaniana301, ma qui l’intenzione di Romani di creare una scena di impianto classic estende questa tecnica fino a creare un fitto tessuto di assonanze e rime ricorrenti quasi a refrain, e a individuare ampie campate discorsive: MEDEA Pietà ne senti! E puoi lontan dagli occhi tuoi condannarmi a morir?. GIASONE  L’amor de’ figli la vita tua … dell’onor mio la voce, il sacrifizio estremo chiedono a noi. MEDEA Tremi quand’io non tremo? Onor dicesti? E di tradir chi t’ama onor da te si chiama? Ah questo, ingrato, Questo è il maggiore de’ delitti tuoi. GIASONE  Delitti, o donna, e puoi rimproverarne a me?. Come abbiamo visto, Giuditta Pasta era diventata la più celebre Medea proprio in forza di questi diverbi in recitativo, forse più che per l’esecuzione dei numeri chiusi. Il numero che segue il recitativo è quadripartito, ma conserva il tono ‘classico’ dell’intera scena e non introduce altrettanti scarti metrici. Le prime due sezioni sono strutturate in strofe di settenari, le ultime due in ottonari, tutte prevalentemente nello schema abbx. Le sezioni del cantabile e della cabaletta sono individuate e separate nel flusso metrico omogeneo mediante il ricorso a rime identiche per entrambe le strofe di cui ciascuna è costituita (ghhx) oltre che, naturalmente, mediante la didascalia a due e le parentesi dell’a parte. La sezione prevista per il tempo d’attacco è dialogata, con le due strofe parallele per i due interlocutori, che si dividono poi i distici della terza; è intessuto di reminiscenze auliche, fin metastasiane, come il «Vinci te stessa, e questosarà maggior tuo vanto». Il cantabile segnala il momentaneo cedimento di GIASONE  alle preghiere di Medea, un tratto presente in quasi tutte le trattazioni del mito; il tempo di mezzo, con il passaggio agli ottonari, riscuote GIASONE  e Medea dalla momentanea commozione.

A questo punto, quindi, il dialogo si fa più concitato e gli scambi passano da due versi per 300 Questo verso deriva da Seneca («Medea superest», v. 166), ma era divenuto celebre nella traduzione di Corneille («Dans un si grand revers que reste-t-il? Moi», I,5) che Morosini aveva ripreso nel più faticoso «Di tutto priva a te che resta? RestaMedea». Romani è incerto ed oscilla tra le due traduzioni, visto che già dall’edizione bergamasca del 1821 il verso è così riformulato «Scherno di sorte rea,che ho da sperar? che resta a me? Medea». Si osservi come la riformulazione conserve anche la rima del motto. Su queste tecniche già diffuse nel teatro settecentesco, cfr. Costantino Maeder, Testo drammatico e testo musicale nell’opera seria del Settecento: elementi morfologici del recitativo, in Letteratura italiana e musica, atti del XIV congresso AISLLI (Odense 1 - 5 luglio 1991), a cura di J. Moestrup, Odense, Odense Univ. Press, 1997, ma anche il  ‘Testo drammatico e testo musicale: il recitativo’ di C. Maeder, Metastasio, l’«Olimpiade» e l’opera del Settecento, Bologna, Il Mulino. Si veda anche A. Roccatagliati, Felice Romani, librettista, ciascun interlocutore, a uno, a mezzo verso in una incalzante sticomitia che giunge a sovrapporsi negli ultimi versi della lassa: questi sono infatti perfettamente assonanti, ma uno eccede la quartina. È questa l’unica strofa che fa eccezione in tutto il numero oltre che per numero di versi, anche per schema di rime differenziato, un eefxx che spezza il costante abbx e presume evidentemente che gli ultimi due versi siano già cantati sovrapposti: vedremo nell’ultimo  come Mayr accoglierà questa indicazione. MEDEA Mira, oh dio!, Medea ti prega, (a) Versa pianto a piedi tuoi. (b) GIASONE  Ah, crudel, da me che vuoi? (b) Non ti basta la pietà? (x) MEDEA Voglio il core, amor vogl’io… (c) GIASONE  Ah, l’avesti un dì tu sola. (d) MEDEA Parla, o ciel!, chi a me l’invola? (d) GIASONE  La fatal necessità. (x) MEDEA Vanne… GIASONE  senti… MEDEA non t’ascolto. (e) GIASONE  (Qual furor le appare in volto!) (e) MEDEA Trema… GIASONE  cessa… MEDEA Sai chi sono? (f) GIASONE  Un oggetto d’empietà. (x) MEDEA Punirò l’infedeltà. (x). L’effetto sticomitico, per così dire amplificato dalla triplice segmentazione del verso, segnala la concitazione, e in questa forma torna sporadicamente in I,14 (nella scena dopo il numero soppresso quando Evandro esorta Tideo ad affrettarsi alle nozze) e in II,15 (quando, pressata dalla folla, Medea si accinge ad uccidere i figli). In questo duetto, però, esso ha anche valore retorico di essenzialità del discorso che aspira al sublime303. Va in questa direzione la battuta a parte di GIASONE  che rimarca l’atteggiamento assunto dall’attrice in quella fase del dialogo: gestualità enfatizzata e, all’opposto, riduzione dell’elaborazione retorica del discorso erano tratti essenziali dello stile sublime304. Il riferimento è al teatro alfieriano, evidente anche nella frequenza delle frasi interrogative: tuttavia, almeno fino a Cammarano, Alfieri non era affatto un modello frequente per I librettisti italiani.

Quand’anche adattavano tragedie di Alfieri al teatro musicale, infatti -- È una locuzione che torna più volte nel Metastasio: letteralmente nel Ruggiero III,4, declinata al maschile in Ezio III,2 e Temistocle I,9. Simile accezione l’avrà anche in I,13 al culmine del confronto di Creonte-GIASONE  e Medea- Egeo e in II,4 quando Medea impone a Ismene allontanarsi per non assistere al sortilegio sulla veste. Cfr. L. Zoppelli, Lo "stile sublime" nella musica del Settecento: premesse poetiche e recettive cit. che evidenzia la suggestione esercitata dallo stile essenziale delle Sacre Scritture nell’elaborazione poetica e drammatica di questi anni. Ma soprattutto si veda E. Raimondi, Alfieri 1782: un teatro «terribile» -- questi mantenevano generalmente riferimenti stilistici metastasiani305, anche perché la versificazione di Alfieri si era definita principalmente per la sua nervosa energia antimusicale, concepita proprio per contenere la recitazione cantilenante degli attori del tempo306. Col riferimento ad Alfieri di queste scene, Romani dichiara allora l’interesse particolare per la recitazione di cantanti dalla presenza scenica e dalla capacità attoriale inconsuete fino a qualche decennio prima. Assimila insomma quelle posizioni estetiche che tentavano «nuovi generi misti, di tragedie sostenute da cantanti sempre più buoni attori. Cantanti che sono anche bravi nell’abbassare ad un livello ragionevole, o tollerabile, le inverosimiglianze perpetrate nella pratica teatrale del secolo XVIII»307. Romani tratteggia Medea in termini ben più sfaccettati rispetto ad Egeo, PRINCIPESSA CREUSA o GIASONE : nella protagonista cerca di mediare i tratti ‘sublimi’, con cui il personaggio si era ambientato nelle scene italiane, con il quadro retorico della tragedia neoclassica da cui prende le mosse. Il commento di GIASONE  al gesto espressivo di Medea non è sporadico. Medea è l’unico personaggio per il quale sono prescritti in didascalia o nei commenti degli interlocutori gesti espressivi308: talvolta è «assorta nel suo dolore, indi passeggia agitata e stendendo le mani al cielo», talaltra è «fremente» o «furente» o «supplichevole», talaltra ancora «si cuopre il volto con le mani». Il personaggio cambia profondamente nel corso dell’opera, non tanto, naturalmente, per una trasformazione del carattere che sarebbe anacronistica e stilisticamente impertinente a quest’altezza del secolo XIX, quanto per le diverse situazioni affettive in cui essa si trova immersa. Un’analisi delle sue arie può evidenziare quest’aspetto con chiarezza.

La prima, ‘Sommi dei che i giuramenti’, è, tutto sommato, poco caratterizzata dal punto di vista metrico e appena ‘colorata’ dalle scelte lessicali: due strofe di ottonari, seguite da due di quinari a dare il senso dell’urgenza del sentimento310, con rime non particolarmente incisive (giuramenti/tradimenti, custodite/punite, spero/pensiero, invoco/foco, amore/core, 305 Su quanto fosse restia l’opera italiana ad assimilare modelli di versificazione alfieriana è dimostrato da Angelo Fabrizi, Riflessi del linguaggio tragico alfieriano nei libretti d’opera ottocenteschi, in «Studi e problemi di critica testuale», XII, che osserva come perfino le arie e i cori nei libretti di origine alfieriana … sono di imitazione metastasiana, cioè personaggi alfieriani sono costretti talvolta ad esprimersi con linguaggio metastasiano. Sul rapporto ambivalente tra opera e teatro alfieriano cfr. anche G. Morelli, Ascendenze farsesche nella drammaturgia seria italiana del grande Ottocento cit. Cfr. E. Raimondi, Alfieri 1782: un teatro «terribile» G. Morelli, Ascendenze farsesche nella drammaturgia seria italiana del grande Ottocento. Sul labile confine tra teatro recitato e teatro cantato, cfr. anche David Bryant, presenze del teatro in prosa nell’opera comica di Mayr, in Beträge des 1. Internationalen Simon-Mayr-Symposions, Ingolstadt, Donaukurier. Sulla tipologia del gesti cfr. J. J. Engel, Ideen zur einer Mimik cit. Su questi aspetti cfr. anche il citato Alessandro Roccatagliati, Felice Romani, librettista, che dedica un paragrafo alla ‘Gestualità e movimenti di scena’. C. Dahlhaus, Drammaturgia dell’opera italiana osserva che la rappresentazione del carattere” postulata da Christian Gottfried Körner (nel saggio Über die Charakterdarstellung in der Musik) è cosa rarissima nel teatro d’opera, nel dramma musicale, dell’Otto non meno che nell’opera seria del Settecento». sei/miei, puoi/tuoi). Nel complesso è un’aria che ben si adatta ad un’amante tradita e sdegnata, ma senza gli eccessi che caratterizzano, per dirne una, la sortita di Donna Elvira in Da Ponte con la rima empio : scempio.

La scena è tuttavia interessante per il tono neoclassico del coro nei panni del messaggero: interviene nella scena fra due serie di endecasillabi sciolti e non fa quindi parte del numero musicale. A mo’ di coro greco ‘canta’ la notizia del decreto (in settenari rimati) anche nella sezione che si finge ‘parlata’ in sciolti. Romani dovette intenderlo, evidentemente, come musica di scena, grazie alla quale rende rapida, dinamica, e essenziale una fase necessaria dell’intreccio, il decreto d’esilio, appunto, solitamente affidata ad un lungo dialogo tra Medea e Creonte. Una soluzione più tradizionale avrebbe richiesto un duetto tra la maga e il sovrano e ‘caricato’ eccessivamente la parte di basso del sovrano. L’importanza di questa scena nell’economia narrativa della rappresentazione, anche a prescindere dal numero musicale che la contiene, fece sì che essa venisse salvaguardata in quasi tutte le riprese dell’opera, anche dopo il 1821, quando pure fu definitivamente soppressa l’aria di Medea che la conclude. Solo nel second’atto, dopo il fallito rapimento di PRINCIPESSA CREUSA e l’arresto di Egeo, Medea si manifesta come carattere ‘straniato’ e irregolare, con tratti assunti dal teatro ‘terribile’. Le due arie lì previste sono entrambe d’azione e organizzate su frequenti scarti metrici che accostano versi insoliti come endecasillabi misurati e decasillabi, qualche apparizione di quaternari tronchi, e su un abbondante uso di sdruccioli e tronchi. L’effetto è un’alternanza di stile ‘parlante’ e precipitazioni ritmiche. Certo l’armamentario è quello ormai consueto già da qualche anno nella librettistica italiana emergente dalle fronde anti-metastasiane, ma a caratterizzare Medea contribuisce l’estensione e l’accostamento di tali espedienti, per cui la «brevità o la lunghezza del verso, la varietà delle flessioni, delle pose, delle cadenze, l’armonia che risulta naturalmente dal numero, e quella che nasce dall’aggiustatezza delle consonanza, il diverso intralciamento e la distribuzione delle rime, ciascheduna di queste cose modifica i sentimenti, e comunica loro una bellezza propria e distinta da tutte l’altre»314. La scena del sortilegio (II,4-5, n. 9) si apre in sciolti tra Medea e Ismene e introduce l’aria con un distico conclusivo di versi spezzati d’ascendenza alfieriana. L’aria inizia con una sestina ‘parlante’ d’invocazione in insoliti endecasillabi rimati (ababcc). Il rumore che annunzia la presenza delle ombre fa precipitare il ritmo in una sestina di quartine di 310 P. Fabbri, Istituti metrici e formali cit., segnala questa connotazione del quinario -- Su questi aspetti cfr. Luca Zoppelli, Stage Music in Early Nineteenth Century Italian Opera, in «Cambridge Opera Journal». L’eccezione è Milano 1823. La formulazione è di P. Fabbri, Istituti metrici e formali. Ma cfr. anche D. Goldin, Aspetti della librettistica italiana tra 1780-1830 cit. Le parole sono di Cesarotti, citate da Gianfranco Folena, Cesarotti, Monti e il melodramma fra Sette e Ottocento, in Die stilistische Entwicklung der italienischen Musik zwischen 1770 und 1830 und ihre Beziehungen zum Norden, in «Acta Musicologica», XXI, -- ‘terribili’ decasillabi (abbxax)315, per scendere ancora ad una di ottonari (abab) scissa a metà, però, e poi chiusa dalla risposta delle furie in quadrisillabi tronchi «Lo sarà», «Morirà». La ‘cabaletta’ è, infine, strutturata in svelti senari resi sghembi dall’alternanza di sdruccioli e piani. La scena è ricalcata su Seneca, via Longepierre ma anche Marinelli, e dipinge l’immagine a tinte forti di una Medea ‘terribile’ e demoniaca senza sfumature o venature affettive diverse dall’ira e dal risentimento. L’esordio della scena lo dichiara in termini assoluti, oltre che nella scelta dei vocaboli, anche nell’uso spezzato dell’endecasillabo e nell’enjambement che articola le frasi con ritmi sfasati rispetto alla versificazione: «Ogni piacer è spento:resta quel di vendetta… Ebben si tentiinaudita, tremenda. Oh nozze infami!V’è pronubo l’averno e il mio furore.In lui si pasce il core; questo è il mio fato: destinata io fuia versar pianto ed a recarne altrui».

L’altra scena affidata a Medea, ‘Ah! che tento? Oh figli miei,’ è invece più sfumata: Romani condensa qui la tradizione tragica di Medea, più che quella operistica o coreutica. Come abbiamo visto, i testi letterari dell’epoca indagavano la gradazione del sentimento, la nascita e lo sviluppo della passione, per dirla nei termini di Clément. Romani li segue e organizza un’aria dove si alternano diverse sezioni metriche a dare voce alla tensione tra i «mille contrari affetti» che s’agitano nel cuore di Medea, come essa stessa dichiara. Il testo esplicita la nascita e il crescere delle passioni con abbondante uso di verbi descrittivi all’indicativo («Freme», «la natura e geme amor», «un dio in voi m’addita il padre», «la crudeltà dell’empio con voi crudel mi fa», «amor mi ritira», «Mi stimola l’ira», «cresce il furore», «Risolviti o core», «Più tempo non v’ha»), in una sorta di cronaca in diretta. La voce dei corinzi che cercano Medea, la pressa e la getta nell’ansia e agitazione: una sorta di contrazione del tempo evidenziato in scena dall’approssimarsi delle voci fino al prorompere in scena del coro. L’idea, che in qualche maniera attenua il delitto non più compiuto con freddo calcolo premeditato, era relativamente nuova: la troviamo nel libretto di Hoffman, ma sarà poi frequentissima nelle altre Medee ottocentesche.

La posizione scelta da Romani per quest’aria è quella della scena madre della prima donna – del rondò, come l’avrebbe definita una decina d’anni dopo l’edizione Carli – e come tale dà suono allo scioglimento del dramma -- Sull’uso del decasillabo in questi anni, cfr. le osservazioni che Daniela Goldin espone nella nota 48 del suo Vita, avventure e morte di Semiramide. Sul termine «Rondò» cfr gli studi di Marco Beghelli, in particolare Tre slittamenti semantici: cavatina, romanza, rondò, in Le parole della musica, III: Studi di lessicologia musicale, a cura di F. Nicolodi e P. Trovato, Firenze, Olschki. Della funzione drammatica, retorica, e formale del rondò operistico ottocentesco, infatti, quest’aria presenta tutti i caratteri individuati da Beghelli: «…assurto al rango di numero a solo più importante della partitura, il rondo pretenderà ben presto l’intervento del coro a solennizzarne musicalmente la portata; tale irruzione, fissata di preferenza al termine del tempo lento, risulterà peraltro del tutto funzionale, servendo a giustificare drammaticamente il mutar d’affetto che il personaggio esibisce passando alla sezione veloce. Inevitabilmente, però, l’intervento corale (come “Tempo di mezzo”) isolerà tale sezione conclusiva (la Stretta), fino a renderla un brano quasi indipendente dal tempo lento (l’Adagio cantabile)». L’intero recitativo iniziale è tessuto con versi tratti dall’omologa scena di Morosini (che peraltro tornano anche nell’aria), diviso in sezioni da rime baciate, ma con la rima in – ora (ancora: ora: mora) che torna con più frequenza a collegare le diverse sezioni.

La concitazione, più che con enjambements, è ottenuta dal modo imprevedibile con cui I settenari si alternano agli endecasillabi; anche le sticomitie servono ad evidenziare le diverse cesure del verso, più che a marcare l’affastellarsi dei turni di parola o a ridurre all’osso l’essenzialità del discorso. In altri casi sono gli endecasillabi stessi a evidenziare con le frequenti esclamazioni interne la loro costruzione per somma di frammenti. MEDEA Ismene, o cara Ismene! incontrandola. Corri, prendi, li salva, ah, sì, gl’invola ad una madre snaturata. ISMENE Oh dio, che tentasti d’oprar, calmati. MEDEA Io sono fuori di me. Tutto il piacer gustai della vendetta; di PRINCIPESSA CREUSA intesi l’ultime strida: l’aborrito sangue bevea con gli occhi: ero contenta allora... Pur non è sazia la mia sete ancora. ISMENE Ah! taci… fuggi… In traccia tua ne viene GIASONE  stesso, disperato, afflitto… MEDEA Adunque il mio delitto infelice lo rese. Oh gioia! ei piange. Altro pianto gli serbo: in me si desta desio cocente di vendetta atroce. In atto di partire. ISMENE Arresta… ascolta di pietà la voce. MEDEA Pietà?… Possi’io sentirne?… Ah! dimmi, Ismene, l’ebbe di me l’infido? Io vo’ rapirgli l’unico bene che gli resta ancora… Non opporti… ISMENE Ah! Medea!… VOCI di dentro. Si trovi, e mora! MEDEA Odi quai voci?… Vendicare ei brama di PRINCIPESSA CREUSA la morte! Ei l’ama ancora, benché cenere sia … Furie, che un giorno guidaste il ferro del germano in seno, a me venite: è pieno il cor di voi. Copri natura il volto: sole atterrito a declinar t’affretta, cerco col sangue mio la mia vendetta. Va per impugnare uno stilo contro i figli; si arresta e si cuopre il volto colle mani. Nell’insieme queste tecniche poetiche esprimono il turbamento di Medea risoluta ad uccidere i figli e incalzata dalla folla di Corinzi che le danno la caccia. I versi lirici cominciano nell’attimo in cui Medea si arresta, provvisoriamente, sull’orlo del baratro e «si cuopre il volto con le mani. A quel punto iniziano due quartine di ottonari (abbx, axax), la seconda della quali è divisa tra il coro che incalza «Mora e plachi degli dèiil giustissimo furor!» e Medea che, senza ascoltarlo, esprime l’orrore per quando sta compiendo ‘Ah che freme’. Non sono quindi le voci da dentro a imporre il passaggio dagli ottonari alle successive sestine di settenari (‘Miseri pargoletti’ ababcx, dededx) bensì il fugace pensiero di tenerezza verso I figli. Queste sestine hanno versi mutuati da Morosini, che però li metteva in bocca a Climene per conservare l’omogeneità ‘terribile’ del carattere.

La scelta del settenario inquadra il momento come omogenea unità d’affetto sereno che parrebbe risolutiva, soprattutto nella prima strofa dalla terminologia e dalle rime metastasiane (“pargoletti”, “affetti”, “siete”, “movete”), mentre gli stessi tratti della seconda strofa (“dio”, “io”, “empio”, “scempio”, “padre”, “madre”) evidenziano il nuovo mutare della situazione, enfatizzato dall’intervento del coro che riprende in un distico aggiunto le ultime rime e sbilancia la strofa. La cabaletta, “Ah!, déggio svenarli”, infine, è in strofe di senari, sbilanciate e con differente schema di rime (ababccdx, esx bccx) in parte per l’intervento delle voci che incalzano da dentro, in parte per la fretta di Medea di fuggire con i figli. Nel complesso, dunque, l’aria contrae il ritmo (8-7-6), come già era accaduto in quella precedente, ma differenzia di più il carattere dei metri, riecheggia consuetudini e convenzioni letterarie e operistiche talora opposte, ed opera prevalentemente sull’asimmetria delle strofe, o della suddivisione interna dei versi, più che sulla evocazione ‘terribile’ delle scelte metriche. Le voci che incalzano da dentro creano una sensazione di fretta precipitosa, di ansia tragica che articola il numero musicale in varie sezioni metriche: non c’è però diretta corrispondenza tra eventi esterni (voci) e mutare del clima affettivo (contenuto discorsivo dei versi e articolazione metrica). Ma come s’è visto, il coro non innesca direttamente il momento di commozione di Medea, così come il risorgere del furore non provoca un immediato scarto metric.

Ci conferma che il dénouement che prelude alla catastrofe è un evento psicologico interiore, è l’insorgere della natura barbara della maga, non la conseguenza immediata dell’azione che si svolge sulla scena. In altri casi, invece, l’azione drammatica ha dirette ripercussioni sull’articolazione semantica e metrica della poesia. Romani utilizza variamente questi espedienti per sincronizzare il decorso temporale del brano musicale con quello dell’azione. La strutturazione del numero in tempi e sezioni diverse rende evidente in suoni l’azione: solo pochi decenni essa sarebbe stata affidata prevalentemente al gesto mimico del ballo. È un aspetto evidente soprattutto nei grandi finali dell’opera dove Romani, mette in forma lirica i colpi di scena e gli episodi spettacolari tratti dalla tradizione coreutica di Medea e li integra nelle strutture operistiche, vocali e orchestrali. Qui, infatti, abbondano le didascalie sceniche pragmatiche, quelle che governano il movimento di personaggi o gruppi di comparse. Fino a pochi anni prima i materiali spettacolari derivati dalla tradizione del ballo -- Nella versione milanese del 1829 i distici della quartina sono invertiti, in modo tale che I settenari suonano come reazione alle voci dei corinzi. Dei richiami settecenteschi e, soprattutto, metastasiani, delle arie in settenari accenna tra gli altri D. Goldin, Aspetti della librettistica italiana fra 1770 e 1830. Si riprende la dicotomia proposta da A. Roccatagliati, Felice Romani, librettista --erano relegati negli abbattimenti, spesso non cantati, la cui musica era generalmente una sorta di trovarobato estraneo all’opera, e come tale riciclato, o composto da maestri differenti rispetto al compositore principale.

Le Medee veneziane e napoletane di fine Settecento indicano ancora eventi e movimenti di furie per le scene terribili, senza che l’articolazione del libretto dimostri un adeguato movimento metrico, ma l’articolazione dei numeri polimetrici e complessi consente ormai a Romani di inglobarli nella sua Medea in Corinto come fattori integranti e salienti del libretto.

I finali sono così concepiti come grandi numeri di movimento scenico oltre che affettivo: alla ricca prescrizione registica e mimico-gestuale delle didascalie fa riscontro una notevole articolazione metrica a multisezioni. Se le indicazioni espressive prescrivono l’atteggiamento che deve assumere l’attore in un determinato stato affettivo, e sono poste prevalentemente nelle scene o nei tempi d’attacco e di mezzo, quelle pragmatiche possono invece trovarsi in qualunque momento, tanto nelle scene come nelle sezioni dialogiche come in quelle concertate. In Medea in Corinto non si dà una regolare alternanza tra sezioni dialogiche dinamiche (tempi d’attacco, tempi di mezzo) e sezioni d’assieme statiche (cantabili, concertati, cabalette, strette): le didascalie possono prescrivere cambi di situazione scenica in diversi momenti del numero323. Nel finale primo Romani colloca la peripezia principale di Medea in Corinto. Lo sposalizio tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA viene interrotto dalla maga e da Egeo, l’altare profanato, PRINCIPESSA CREUSA rapita: è l’ultimo tentativo di impedire l’aborrite nozze, fallito il quale Medea si 320 F. Piperno, Drammaturgia e messinscena nell’opera italiana fra Sette e Ottocento. Il caso degli “«abbattimenti», osserva che eccezioni alla consuetudine di delegare ad altri maestri la composizione delle sezioni spettacolari dell’opera cominciarono a verificarsi dal 1789 con il Catone di Paisiello.

Ma a lungo tali eccezioni caratterizzarono gli autorevoli compositori di primissimo piano, intenzionati a controllare lo spettacolo in tutti i suoi aspetti; gli altri invece non entravano nel processo produttivo e trascuravano queste sezioni. Conclude che «sembrerebbe potersi dedurre da tutto ciò … una sorta di indifferenza o impaccio dell’operista di fine Settecento e di primo Ottocento nei confronti del tempo scenico non scandito dalla parola, dell’azione non sostenuta dal canto… Se ne deduce altresì, ad onta degli innegabile progressi dalle epoche di Vinci Leo e Hasse o anche solo di Jommelli e Piccinni, la perdurante subalternità dello strumentale rispetto al vocale nella concezione artistica e nel bagaglio professionale dell’operista italiano: il nuovo dinamismo e realism drammatico dell’operismo tardo settecentesco si realizzano sul terreno della vocalità (nuove strutture per il pezzo chiuso, incremento quantitativo dei pezzi d’assieme, ampliamento dei concertati e dei finali), mentre la forza e l’efficacia drammatica di un sinfonismo di matrice germanica gli restano ancora del tutto estranee: solo a partire da Rossini il mezzo sinfonico verrà efficacemente impiegato come ingrediente del teatro musicale». Nella Vendetta di Medea, il Finale I è il duetto GIASONE -Medea, ma il Finale II, in Venezia 1792 è aperto da un coro di furie in ottonari, poi è prevalentemente in settenari, con un a 3 conclusivo in quartina di decasillabi; in Napoli 1798 il flusso di settenari è interrotto da due quartine di ottonari e chiuso con altre due in modo da costruire un concertato e una stretta, inadeguati, però nella loro brevità a gestire il movimento scenico di cui do conto. Le prescrizioni delle ‘pose’ espressive di Medea, per esempio, cadono nella scena precedente la cavatina del primo atto, nel tempo di mezzo del duetto con GIASONE , nel tempo d’attacco del finale I e dell’aria ‘Ah! che tento’. Anche A. Roccatagliati, Felice Romani, librettista cit., che ha svolto uno studio informatizzato sui libretti di Romani, sottolinea quanto sia variabile il rapporto tra sezioni dei numeri e didascalie. abbandonerà, risoluta, alla vendetta.

Gli elementi spettacolari derivano direttamente dal ballo di Noverre, mediati da Giotti (II,2): in particolare l’improvvisa comparsa di Medea con stupore e sbalordimento dei presenti. È questo uno dei rari casi in cui Giotti spezza l’endecasillabo con effetto di straniamento: CREONTE. …Ma porgi alfine A GIASONE  la destra. MEDEA Empio sospendi a GIASONE  che stende la mano a PRINCIPESSA CREUSA. GIASONE  (Oh ciel!) Con estrema sorpresa. PRINCIPESSA CREUSA (Quivi Medea!) CREONTE (Stelle!) MEDEA (Che veggio!) CLEARCO (Pavento il suo furor.) MEDEA Come! voi muti palpitanti e confusi al sol vedermi comparir qui restate? Ah sì vi toglie Prepotenza, oppression, frode, gli accenti? Anche Hoffman aveva ripreso l’idea di Noverre, per poi ampliarla in ben due situazioni (I,5 e II,7). Nel primo caso Medea interrompe il trionfo del vello d’oro: la reazione degli astanti è descritta in una didascalia che ricalca quella del ballo di Noverre325; nel secondo caso sorprende e commenta a parte le nozze. Qui, analoghi al libretto di Romani, sono sia lo svolgersi delle nozze con commenti a parte di Medea, sia la profanazione dell’altare con agitazione di face accesa, che tuttavia in Hoffman avviene a nozze già concluse. Sul concetto di peripezia, come «imprévu … changement de fortune qui modifie, non pas soulement la situation matérielle des héros, mais leur situation psychologique» si veda la trattazione di J. Schérer, La Dramaturgie classique. Schérer osserva che per essere tali, le peripezie devono essere anche «réversibles, même si, en fait, la situation ne se retourne pas toujours». Il rapimento di PRINCIPESSA CREUSA e l’interruzione improvvisa delle nozze hanno queste caratteristiche, soprattutto perché si configurano come una sorta di falso dénouement favorevole a Medea ed Egeo e tragico per GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA.

Solo dopo il fallimento della prova di forza, di cui però il pubblico è informato soltanto all’avvio del second’atto, si pone il problema di un nuovo scioglimento, che si rivelerà catastrofico per tutti i protagonisti della vicenda. Come detto sopra, l’azione riprende in termini analoghi a quelli precedenti, sebbene in uno stato psicologico radicalmente mutato per Medea. Si confronti il finale di Romani con il seguente di Hoffman: Finale. LE CHOEUR en fond et marche. Fils de Bacchus, descends des cieux, Le front paré d’immortelles guirlandes; Doux hymen, écoute nos voeux; Hymen, accepte nos offrandes. GIASONE E MEDEA  avec rage sur le devant de la scène Ah! que j’aime ces chants! Qu’ils plaisent à mon coeur! LE CHOEUR dans le temple Des plus tendres époux, viens hâter le Bonheur Couronne, ô doux hymen! Cette heureuse journée. GIASONE E MEDEA  Écoute aussi ma voix, hymen: ô hyménée! La differenza principale che distingue Romani da Hoffman è l’alternanza tra momenti statici e monumentali e momenti fortemente dinamici. Mentre Hoffman affida la tensione della scena al contrasto ‘parlante’ tra cerimonia corale e commenti a parte di Medea, Romani sfrutta la tecnica del numero a sezioni per rendere musicabile l’azione: ben sei metri si succedono, ma a dare ulteriore varietà, le sezioni dialogiche e statiche non coincidono necessariamente con il cambio metrico, così come non coincidono sempre con l’articolazione di strofe alternate tra i diversi personaggi e quelle per i tutti: il settenario con sdruccioli veste un coro rituale ed un’invettiva, senza sdruccioli un breve intervento dialogico; l’ottonario serve tanto a dialoghi a strofe alterne che a due quadri di static concertato, il decasillabo costruisce la conclusione concertata incalzante e dinamica. Con queste tre coppie oppositive (cambio di metro/metro omogeneo, strofe alterne/tutti, sezione dinamica vs. quadro statico) variamente articolate, Romani trova il modo di rendere musicabile, e cantabile, l’estrema varietà degli episodi di derivazione coreutica.

Il coro di sacerdoti in apertura, ‘Dolce figliuol d’Urania’, è in tre strofe di settenari (asbasbccx).

L’alternanza di rime sdrucciole e piane nel settenario ha qui valore pittoresco, non drammatico: dipinge un’atmosfera arcadica e, con la dilatazione alternata del ritmo, consente un fraseggio monumentale. L’entrata del corteo nuziale avvia un dialogo ‘Cara CRÉON dans le temple Écoute ma prière. DIRCÉ dans le temple Et reçois mes serments! GIASONE E MEDEA  Apportez à l’épouse un brillant diadème: Que ne puis-je l’offrir et l’arracher moi-même! JASON dans le temple Hymen, reçois mes voeux; veille sur mes enfants. MEDEE Chante, époux fortuné, signale ta tendresse; Le Tartare applaudit à ces chants d’allégresse. ENSEMBLE CHOEUR dans le fond Le front paré de myrtes immortels, Hâte-toi de descendre, ô céleste hyménée! GIASONE E MEDEA  Je viens aussi; j’accours à tes autels; J’y réclame la foi que Jason m’a donnée. CHOEUR Reçois, de deux époux les serments solennels; Il forme de leurs jours la trame fortunée. GIASONE E MEDEA  Tu les reçus pour moi, ses serments solennels. Souris à ma vengeance: hymen, ô hyménée! Tout le cortège repasse et rentre au palais; GIASONE E MEDEA  s’élance sur l’autel, y arrache un tison sacré, et sort avec Néris en répétant avec rage le dernier vers, et agitant le tison enflammé qui laisse dans l’air une trace de feu. La definizione è di Carl Dahlhaus, Die Musik des 19. Jahrhunderts, Wiesbaden, Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, tr. it. La musica dell’Ottocento, Scandicci, La Nuova Italia. Il principale mezzo d’espressione di una tecnica drammatica, impensabile in un lavoro di prosa ..., ma legittima nell’opera, non è il dialogo, quasi fagocitato dalla musica, ma il modo di raggruppare e far agire i personaggi, che dev’essere “parlante” e colpire l’attenzione» -- figlia, prence amato’ in quattro quartine parallele di ottonari (abbx), che confluisce senza soluzione di continuità nel concertato a 5 dove le strofe condivise evidenziano i blocchi contrapposti di GIASONE -PRINCIPESSA CREUSA e Medea-Egeo (Creonte fa da sé). La ripresa del coro sempre sui medesimi ottonari è interrotta, sulla rima baciata, da Medea che si rivela, rovescia l’altare e agita la face. Con un repentino passaggio ai settenari, ‘Al rito infame, o perfidi!’, Medea ingiuria e minaccia in una sestina (che lo stupore del coro dilata di un ulteriore distico), per poi correre «supplichevole» a GIASONE  mentre Egeo corre a PRINCIPESSA CREUSA, e «Creonte, atterrito in mezzo a’ sacerdoti, stende le mani al cielo». Su questo quadro statico, prende corpo un nuovo concertato a 5, ‘Mira, infido, in quale stato’, su ottonari in tre strofe a rime identiche (abbx). Il sacrilego colpo di scena di Medea interrompe la cerimonia e ristabilisce la situazione: prima e dopo quell’atto abbiamo infatti la medesima successione metrica (settenari sdruccioli e piani/ottonari con medesimo schema di rime / sezione concertata a 5). Quella strofa in settenari di Medea sembra irrompere nel concertato e provocarne una radicale svolta d’affetto, uno choc che sblocca un tableau per costruire un altro «bel gruppo» capace di eccitare «emozioni forti» (uso espressioni che il «Conciliatore» adotterà ancora pochi anni dopo per descrivere la drammaturgia del ballo). Solo a questo punto l’azione riprende: bastano cinque versi in settenari piani (‘Dunque ricusi e vuoi’, abcbx), con enjambement, per passare alla stretta che chiude l’atto su tre strofe di cinque ‘terribili’ decasillabi, ‘Conducete alle navi costei’ (ababx).

Questa stretta, tuttavia, non è una sezione statica del numero: è invece animatissima. Al compositore è richiesto di gestire una affollata scena di soldati e popolo che si affiancano ai protagonist in battaglia, ed è significativo che il povero Cesare Sterbini, incaricato di ‘correggere’ il libretto cavato dalla partitura per l’esecuzione romana del 1824, si sia arrovellato non poco per far quadrare metri e versi, come dimostrano le varianti introdotte nel libretto in quell’ occasione. Ecco i movimenti scenici previsti da Romani nel corso della stretta: Alla voce di Egeo escono da tutte la parti i suoi guerrieri Ateniesi, e si precipitano armati, parte circondando GIASONE , parte Creonte, che si trovano senz’armi. Tutti gli astanti, sorpresi e spaventati, parte fuggono, parte a gruppi si spargono atterriti per la scena, Medea ed Egeo s’impadroniscono di PRINCIPESSA CREUSA … Durante questa stretta, PRINCIPESSA CREUSA farà resistenza; GIASONE  si difenderà da’ guerrieri, che lo circondano; Creonte resisterà agli altri, Egeo e Medea tenteranno di strascinar PRINCIPESSA CREUSA fuori del tempio. Tutti gli altri si agiteranno per la scena e in questo calerà il sipario. Altrettanto vari sono i modi con cui Romani utilizza nel finale II le coppie d’antinomie strutturali viste sopra, per dar conto di movimenti scenici analoghi a quelli del libretto di Hoffman. Come i cori che incalzavano GIASONE E MEDEA , incerta se riversare sui figli la propria gelosia e il proprio furore, anche le ultime scene, con il coro che incita Jason alla vedetta fino a che GIASONE E MEDEA  non compare improvvisamente a rivelare l’ultimo crimine, hanno infatti forti analogie con il libretto di Romani. Qui, il numero s’avvia subito in versi lirici senza alcuna scena o coro iniziale. Ritengo improprio attribuire questa funzione al recitativo di Ismene che lo precede in II,16, perché in questo punto la liaison des scènes è interrotta.

La stessa regola collega piuttosto la scena di Ismene alla precedente grande aria di Medea: serve dunque per esplicitare lo sgomento suscitato dalla risoluzione di Medea all’infanticidio, come sempre accade per le scene orribili, ed anche come ‘zeppa’ per separare il rondò di Medea dal finale. Due strofe di settenari, con primo verso sdrucciolo, esibiscono l’intenzione vendicativa di Creonte e GIASONE , che s’incontrano entrando da opposti lati con relativi seguaci (‘Era tua sposa. Ah! trucida’). Il bizzarro schema di rime (asx asx asbbx) descrive una situazione dinamica di due gruppi, animati da medesime intenzioni (prima quartina, o meglio primi due distici), che uniscono gli sforzi in un a 2 (seconda quartina). L’a 2 così avviatosi in settenari prosegue, però, in ottonari (una quartina, ‘Ah! signor, qual mai ti trovo!’, abbx) al cambio di scena dovuto alla partenza dei seguaci. Tideo ed Evandro, che entrano con la notizia della liberazione di Egeo e di un suo nuovo attacco, si troverebbero già preparata la struttura dialogica a quartine di ottonari, ma anziché conservarla, forse per la concitazione del momento, danno lestamente la notizia con sette versi cdcd eex, i primi quattro suddivisi tra i due messaggeri, gli ultimi tre a due. Un distico di tutti (fx) conclude la sezione di ottonari: in quella arriva Egeo. La prima sezione del numero è dunque organizzata in lasse irregolari che si giustificano però col frenetico movimento dei personaggi e degli eventi in scena. L’intervento di Egeo «con numeroso seguito, indi di Medea sulla galleria a destra degli appartamenti in cui è entrata» complicano ulteriormente gli eventi. Agli ottonari subentra una sezione in settenari sdruccioli e piani (‘Dov’è Medea? Guardatevi’, asbbx, asxcx, asddx, aseasefxasx), per i quali è però difficile individuare modelli strofici regolari: Egeo interviene infatti con una quartina regolare abbx, ma la quartina successiva, divisa fra Egeo, Creonte-GIASONE  e l’apparizione di Medea suona piuttosto come due distici indipendenti. Solo dopo che ha preso il proprio turno di parola Medea ripristina l’andamento regolare delle quartine dialogiche addx, conservato ancora da GIASONE  sebbene a rime alterne (aeae), e poi nei due distici finali a dialogo serrato Medea/GIASONE  (fxasx). Medea prosegue il dialogo con GIASONE  anche nella sezione successiva in decasillabi (‘Resta. Asilo ti nieghi la terra’, abbx) quando ormai tutti gli astanti cantano a parte il loro orrore per il barbaro delitto in una sorta di concertato: le quattro quartine condividono le medesime rime, chiaro suggerimento per un tutti contemplativo mentre attorno si scatenano gli elementi «La scena comincia ad oscurarsi, eccetto la parte dov’è il mare, che fino all’ultimo si vedrà chiara e serena. Principia una tempesta, che andrà crescendo sino al termine del dramma».

La tempesta quindi lega questa sezione alla successiva (‘Mira, non hai consorte’), in settenari, ma ugualmente costruita con dialoghi di Medea e a parte contemplativi di GIASONE  e tutti. Il passaggio metrico è provocato dalle fiamme che improvvisamente «circondano la scena; 328 La scena poteva rivelarsi utile anche da un punto di vista pratico: dà infatti il tempo di tutti sono in attitudine di costernazione e di spavento, mentre Egeo si avanza verso il mare e Medea gode dello spettacolo». Di nuovo è difficile trovare regolarità metriche perché alla solita quartina dialogica di Medea (abbx) dilatata a sestina dal distico di risposta di GIASONE  cx (una sorta di tempo di mezzo) risponde il coro (in stretta?) a commento e suggello della scena terribile, con un’altra sestina di sdruccioli e piani baciati dsdsdseex, mentre Medea «attraversa la scena sul suo carro tirato da draghi. I frequenti cambi di metro e i continui scarti di raggruppamento strofici e schemi di rime delineano una scena affastellata, caotica con continui colpi di scena (nei 27 versi compresi tra l’intervento di Tideo e Evandro e l’avvio della sezione in ottonari sono ben 4: annuncio dell’arrivo di Egeo, intervento di Egeo, intervento a sorpresa di Medea, notizia dell’infanticidio), in cui si sovrappongono anche momenti progressivi, dialogici, di Medea a reazioni contemplative statiche degli astanti: si perde pertanto qualunque riferimento formale capace di suggerire al compositore una regolare alternanza di tempi dinamici e statici. Il margine di arbitrio di Mayr è amplissimo, perché l’unico elemento strutturale che il poeta gli offre è la differenziazione di Medea da tutti gli altri astanti, ai quali si sovrappone sempre imponendo gli scarti formali, o coi quali si colloca in relazioni impertinenti alle diverse fasi dinamiche del numero.

Tra i personaggi principali del mito, Creonte è quello che subì più modifiche nel corso della composizione e della ricezione dell'opera. Sebbene il decreto d’esilio è comunicato a Medea da una sorta di coro greco e non dal sovrano, in origine, tuttavia, e l’abbiamo visto nel primo , Romani doveva aver previsto per Creonte almeno un terzetto nel primo atto e un duetto nel secondo col canonico incontro con la maga: da quanto si può capire dai recitativi superstiti conservati a Bergamo, anche in questi casi parte del materiale fu tratto da Morosini che fa incontrare Medea e Creonte dopo il decreto d’esilio che il sovrano va a sollecitare. Il poeta napoletano che modificò il libretto trasformò però questi due numeri in una scena complessa a 3 e poi a 4 perché immagina che a quell’incontro assista anche GIASONE  e che i tre siano poi sorpresi da Egeo che viene a reclamare il rispetto dei patti e la mano di PRINCIPESSA CREUSA; la presenza di GIASONE  e, poi, di Egeo lo trasformano però in un episodio nuovo nella tradizione di Medea in Corinto e spostano il conflitto dal caso di Medea al tradimento della parola da Creonte e PRINCIPESSA CREUSA al pretendente ateniese: «per brevità» comunque anche questo fu omesso fin dalla prima esecuzione dell’opera. Dal punto di vista strutturale, l’unico tratto interessante è l’intreccio di un duetto e un terzetto in un'unica scena che suggeriva al compositore una quadripartizione nella architettura della ‘silita forma’: si articola quindi in una scena in sciolti ‘Principe, tutto è pronto. In pochi istanti’, un tempo d’attacco in strofe parallele di settenari tra GIASONE , Creonte e Medea, durante il quale irrompe Egeo (‘Altre catene un Dio’, abbx, sistemare il palco per la scena “lunga” del Finali II, dopo il Rondò. cddx, effx, dove la rima in f è detta da Egeo che sopraggiunge), un concertato a 4 in ottonari‘Qui GIASONE  a quell’aspetto’ (abbx, abbx, abbx, abbx), un tempo di mezzo ancora in ottonari ‘Non rispondi? Or via mi rendi’ (ababccddx, efefgx) e una cabaletta in furiosi decasillabi ‘Vieni meco, infelice mi segui’ (abbx, abbx). Interessante è anche la scelta di sostituire un terzetto con un quartetto e, soprattutto, la sua collocazione, tra l’aria ‘settecentesca’ di Egeo e il complesso finale I. Evidentemente Romani prima, e l’anonimo poeta napoletano poi, percepivano troppo repentino il salto tra due modelli formali così distanti sia dal punto di vista stilistico che drammaturgico.

Un numero d’assieme avrebbe consentito di dare spessore alla scena lirica e avrebbe bilanciato meglio un atto che si era aperto con una lunga e affastellata introduzione seguita dalla sontuosa marcia trionfale. Caduto anche questo numero, Creonte divenne poco più di una comparsa, espediente scenico per spiegare alcune peripezie, e il suo ruolo vocale restò confinato a quello di pertichino nei numeri a moltei sezioni. Solo quando Romani tornò a mettere mano al libretto, in occasione dell’allestimento scaligero del 1823, provvide a inserire un cavatina bipartita330 apposita per il basso fra il cantabile di PRINCIPESSA CREUSA e la cabaletta d’assieme conclusiva dell’introduzione al prim’atto: negli anni venti, dopo tutta la produzione italiana di Rossini, era quella la sezione dello spettacolo considerata più mobile e irregolare, la più idonea quindi ad accogliere un nuovo, ma breve numero musicale. Giasone e Medea in Corinto diventa il punto di incontro di diverse drammaturgie: il suo neoclassicismo non sta tanto nelle monumentali scene cerimoniali ma nell’incontro tra la drammaturgia ‘terribile’ e gestuale di derivazione coreutica, di cui stempera gli eccessi, e la drammaturgia calibrata della tragedia letteraria di cui riprende sfumature, articolazione dei recitativi e, soprattutto, gradualità nello sviluppo del carattere di Medea. Con questa impostazione di fondo circola rivestita della musica di Mayr, nonostante le variant apportate nelle piazze dove fu successivamente rappresentata, e di cui darò conto in dettaglio nel  successivo. Qui resta da accennare alle profonde riscritture del libretto per le intonazioni di Prospero Selli (Roma 1839) e Saverio Mercadante (Napoli 1851) perché entrambe dimostrano diversi esiti della fortuna del libretto nei decenni successivi331. L’equilibrio tra elementi d’effetto e strutture tragiche neoclassiche consentiva infatti adattamenti del testo in entrambi i sensi, uno più prossimo alla tradizione -- Cfr. ancora M. Garda, Da «Alceste» a «Idomeneo»: le scene terribili nell’opera seria.

La definizione è del «Censore universale dei teatri» (24 giugno 1829) nella recensione alla ripresa del Cercano ne 1829. Sul raffronto tra Medea in Corinto di Mayr e quella di Mercadante, si veda Michael Wittmann, Giovanni Simone Mayrs Oper “Medea in Corinto” im Kontext der “Medea”-Vertonungen des 19. Jahrhunderts, in Werk und Leben Johann Simon Mayrs im Spiegel der Zeit, tragica letteraria, l’altro più adeguato al gusto romanzesco dell’opera di metà Ottocento. Dagli anni ’10 del secolo erano queste ormai le due tradizioni dominanti degli adattamenti italiani del mito di Medea in Corinto, dopo che il soggetto si era saldamente innestato nel teatro tragico ed era invece stato definitivamente abbandonato dalle scene coreutiche. Il poeta che adatta il libretto per Prospero Selli tenta un’adesione al teatro tragico ancor più radicale di quella di Romani. Ha in mano il testo di Milano 1823 e lo scorcia notevolmente, ne sfronda scene, interi numeri, e semplifica quelli che conserva: riduce al minimo la figura di Egeo, che tuttavia a quel punto diventa davvero inessenziale, taglia il sortilegio, cerca di dare più spessore ad Ismene e recupera così quei testi che affidavano alla confidente di Medea un monologo di compatimento per la maga; soprattutto include l’incontro tra PRINCIPESSA CREUSA e Medea che si era affermato nelle tragedie letterarie fin dagli esempi di Della Valle e Lamartine di un venticinquennio prima.

I numeri musicali vengono così ridistribuiti: la prima aria di Egeo è ridotta, gli altri suoi numeri (aria e duetto del second’atto) semplicemente soppressi; ugualmente soppressi sono il duetto di GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA, la seconda aria di PRINCIPESSA CREUSA, la cavatina iniziale di Medea e la sua aria di sortilegio, il quartetto del prim’atto già tagliato nella partitura di Mayr. Sono invece introdotti un’aria per Ismene (non dovuta alle convenzioni teatrali, visto che venne subito omessa «per brevità») e il duetto per le due prime donne (Eugenia Gargìa e Amalia Agliati). Il duetto di Medea e PRINCIPESSA CREUSA ripaga la prima donna della soppressione del duetto con Egeo, e PRINCIPESSA CREUSA della sua seconda aria. In questo incontro PRINCIPESSA CREUSA conferma a Medea che Creonte ha acconsentito di farle rivedere i figli per l’ultimo addio, così che Selli può unire le voci delle due donne in un duetto rasserenato di affetti convergenti: PRINCIPESSA CREUSA Sembra che il ciel secondi i voti del mio core; eppur mi sento l’alma agitar da ignoto turbamento. Medea esce. MEDEA PRINCIPESSA CREUSA, … Morte o vita m’arrechi tu? Vedrò miei figli almeno? Potrò stringerli entrambi a questo seno?. PRINCIPESSA CREUSA Il genitor clemente perdona i falli tuoi. MEDEA I figli chieggio! con foco ed ambascia materna. PRINCIPESSA CREUSA Gli avrai. MEDEA Gli avrò? PRINCIPESSA CREUSA Sì. MEDEA Pel piacer non reggo. M’abbraccia, amica tenera, or che mi doni i figli: più non avran perigli, che io li saprò fugar. D’angoscia i fieri palpiti più nel mio cor non sento; e il ciglio a tal contento ritorna a lagrimar. PRINCIPESSA CREUSA Donna infelice, abbracciami: cessò per te l’affanno, vuol d’empia sorte il danno il genitor fugar. Timor, suo freddo tremito già nel mio core ha spento; lieta del tuo contento, m’è dolce il lagrimar. La scena si innesta sul recitativo della scena VIII del second’atto di Romani, come riformulata per le rappresentazioni di Bergamo 1821 e Milano 1823, e prosegue con evidente sapore alfieriano sia per i versi spezzati, sia per quell’antinomia «Morte o vita». Il testo del numero musicale perde, però, ogni tensione per accostare quattro strofe di settenari parallele e parole e rime tutt’altro che ‘terribili’. La semplicità del duetto di Medea e PRINCIPESSA CREUSA non fa eccezione: in questa revisione molti numeri sono semplificati e ridotti a strofe parallele metricamente omogenee, come accade per esempio al duetto ‘Cedi al destin, Medea’ al quale è tagliata l’ultima sezione, in ottonari, e all’aria ‘Ah che tento, o figli miei!’ che perde invece la prima, sempre di ottonari). Si veda comunque la schematizzazione dell’intero libretto.

La  Sinossi di “Medea in Corinto” per Prospero Selli (Roma, 1839) e cosi:  

N. 1 INTRODUZIONE I,1 PRINCIPESSA CREUSA, damigelle a) «Perché temi? A te l’amante», ottonari abbx, cddx, effx, gxgx b) «Se mio si serba», quinari abbx, cdedfx, gdhdix I,2 PRINCIPESSA CREUSA, Damigelle, Creonte, Evandro, corinzi c) «A te di lieto evento», ottonari abbxax, csdcsdexex, csfcsfgxhx d) «Ah, splenda propizio», senari abcsbdx «Ah, mia PRINCIPESSA CREUSA», sciolti

N. 2 MARCIA, CORO E CAVATINA DI GIASONE , Fosti grande – Di gloria all’invito I,3 PRINCIPESSA CREUSA, damigelle, Creonte, Evandro, corinzi, GIASONE, guerrieri, Tideo a) «Fosti grande allor che apristi», ottonari abbx, abbx GI. «Sire! … CREO. Giason!… CREU. Mia gioia!…GI. Ogni timore», sciolti «M’imponesti in sulla Tauride», ottonari asbbx, asccx, as «Fra l’ire di Marte», senari abbx, cddx, fxfxfx «Vieni, o figlia, compito», sciolti.

N. 3 SCENA E DUETTO DI GIASONE  E MEDEA, Amico, la mia sorte Cedi al destin, Medea I,4 GIASONE , Tideo «Amico, la mia sorte», sciolti I,5 GIASONE , Medea «Fuggir mi vuoi, barbaro? A me soltanto», sciolti a) «Cedi al destin, Medea», settenari abbx, cddx, effx, ghhx, ghhx

N.4 ARIA DI EGEO, Oh sventurato! O misero I,6 Egeo, indi Tideo «Oh sventurato! Oh misero», settenari a) asbbxasx «M’inganno! Oh cielo!, Egeo! D’Atene il Re», sciolti a) «Il mio destin ti leggo», settenari abccddexfx b) «La mia mente delirante» abbx «Avvampo d’ira; e questo infame nodo», sciolti

N. 5 FINALE PRIMO, Dolce figliuol d’Urania) I,6 Sacerdoti, donzelle a) «Dolce figliuol d’Urania», settenari asbasbccx, asdasdccx, aseaseccx I,18 Sacerdoti, donzelle, PRINCIPESSA CREUSA, Creonte,  GIASONE , Medea, Egeo b) «Cara Figlia, prence amato», ottonari abbx, cddx, effx, ghhx, illx, illx, illx, mnnx d) «Al rito infame o perfidi», settenari asbasbasxcx e) «Mira, infido in quale stato», ottonari abbx, abbx, abbx f) «Dunque ricusi e vuoi», settenari abcbx g) «Conducete alle navi costei», decasillabi ababxcx, ababx, ababx

N.6 CORO E ARIA DI ISMENE, Amiche cingete - Chi viene Ismene II,1 Grandi di Corinto, donzelle. II,2 detti, Ismene a) «Amiche cingete», senari ababccdx, dedeffgx ”b) «Chi viene? … Ismene», quinari abccdeeff ”c) «Medea crudel, terribile», settenari asbbxasx

N.7 SCENA E DUETTO DI MEDEA E PRINCIPESSA CREUSA, Sembra che il ciel secondi – M’abbraccia, amica tenera II,3 Creonte, Tideo, PRINCIPESSA CREUSA «Padre per pochi istanti», sciolti II,4 PRINCIPESSA CREUSA, indi Medea «Sembra che alfin secondi», sciolti «M’abbraccia, amica tenera», settenari asbbx, asccx, asddx, asbbx II,5 PRINCIPESSA CREUSA, Medea, ed Ismene con i figli di Medea «Ma chi vien? Chi s’appressa», sciolti

N. 8 SCENA E ARIA DI GIASONE , Grazie, numi d’amore Amor per te penai II,6 GIASONE  «Grazie, numi d’amore. È alfin compito», sciolti a) «Amor per te penai», settenari abax II,7 GIASONE , coro b) «Accorrete, oh tradimento», ottonari abbx c) «O noi sventurate», senari ababccddxex d) «Dove sono? Chi mi desta?», ottonari abbx e) «Lasciatemi, o barbari», senari asbasbx, cdedfx

N.9 SCENA E ARIA DI MEDEA, Ismene, o cara Ismene Miseri pargoletti,? II,8 Medea, Ismene, figli, voci da dentro. «Ismene, o cara Ismene», sciolti b) «Miseri pargoletti», settenari ababcx, dededxdx d) «Degg’io svenarli?», senari ababccdx, esxbccx II,9 Ismene sola. «Quale orror mi comprende! Appena io posso», sciolti

N. 15 FINALE SECONDO, Era tua sposa II,10 GIASONE  con seguito, Creonte con seguito.
a) «Era tua sposa. Ah, svena», settenari axasxasbbx II,11 GIASONE , Creonte
b) «Ah signor, qual mai ti trovo», ottonari abbx II,12 Coro, GIASONE , Creonte, Tideo, Evandro «Gran periglio vi minaccia», ottonari cdcdeexfx II,13 Coro, GIASONE , Creonte, Tideo, Evandro, Egeo, Medea
c) «Dov’è Medea? Guardatevi», settenari asbbx, asxcx, asddx, aseasefxasx
d) «Resta. Asilo ti nieghi la terra», decasillabi abbx, abbx, abbx, abbx
e) «Mira, non hai consorte», settenari abbx, csxcsx


Più radicali le trasformazioni operate da Cammarano, per l’intonazione di Mercadante, partendo dal libretto della prima napoletana del 1813: il nuovo libretto organizza la vicenda in tre atti e aumenta notevolmente le scene ad effetto e gli intrighi secondari con taglio quasi romanzesco.

Cammarano cambia la figura del rivale di GIASONE.

Ad Egeo sostituisce Timante e disinnesca così la memoria del personaggio di Corneille. Può gestire allora il personaggio con più libertà di Romani, abbandona la scena di prigione d’origine pascaliana, e inserisce un duello con GIASONE  che porta alla morte del rivale. Ai delitti di Medea affianca, dunque, un GIASONE  valoroso e vittorioso in battaglia, ma il dramma risulta più dispersivo e, tutto sommato, anche qui la presenza di Timante-Egeo diventa accessoria, nemmeno giustificata dall’esigenza di trovare una sistemazione per Medea dopo i delitti perpetrati a Corinto. L’opera risulta un medaglione di quadri di grandi dimensioni, giustapposti senza reali collegamenti tra loro: Medea e Timante nemmeno si incontrano, se non nel Finale I, e neppure ci si sofferma sul rapporto GIASONE -PRINCIPESSA CREUSA, affrontato di passaggio nella scena del trionfo. Gli unici duetti sono ridotti al canonico incontro tra Medea e GIASONE , e allo scontro tra GIASONE  e Timante.

Per il resto: a Medea sono conservati, sebbene profondamente variati, tutti i numeri del primo libretto di Romani con le scene di gelosia, sortilegio e infanticidio; a PRINCIPESSA CREUSA le due arie d’ansie amorose; Creonte resta privo di ruolo musicalmente significativo. Più dell’adattamento per Prospero Selli, quello di Cammarano è, però, interessante per come sono riorganizzati i numeri chiusi di Romani; si trovano spostamenti significativi di blocchi diversi da un numero all’altro e fusione di numeri originari così da creare unità musicali di grandi dimensioni che raggruppano più scene. Valga per tutti l’esempio dell’ultima aria di Medea ‘Tutta di pianto e d’ululati eccheggia Chi m’arresta? Il braccio mio’ che dà suono all’infanticidio. Al suo termine Cammarano assimila l’irrompere dei Corinzi e di GIASONE  (l’evento che nell’originale costituiva il finale II) e consente a Mercadante di chiudere l’opera con il numero principale della prima donna: si confermano così le indagini di Marco Beghelli che ha studiato lo slittamento del rondò-finale II in un’unica macro unità conclusiva definibile gran scena. ‘Chi m’arresta? Il braccio mio’ non condivide la struttura formale delle grandi scene rossiniane e donizettiane, ma il fatto che assorba nell’aria della prima donna il finale II ci conferma che quella era già nel libretto romaniano il punto in cui «si consuma la tragedia, conducendo al proscenio un’eroina psicologicamente prostrata, sulle note di un lungo e articolato recitativo, spossandola definitivamente durante uno struggente Adagio cantabile, dilatando a dismisura il Tempo di mezzo per convogliarvi gli ultimi e decisivi eventi della vicenda, proiettando infine la Stretta conclusiva verso la catastrofe (esecuzione capitale, morte per sfinimento, suicidio), cui assistono impotenti i pochi protagonisti dell’opera ancora in vita»333. La Sinossi di “Medea in Corinto” adattata da Salvatore Cammarano per Mercadante (Napoli, 1851) es cosi: 

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N. 1 PRELUDIO INTRODUZIONE E CORO I,1 PRINCIPESSA CREUSA, ancelle a) «Perché temi? A te l’amante», ottonari abbx, cddx

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N.2 SCENA E CAVATINA DI PRINCIPESSA CREUSA I,1 PRINCIPESSA CREUSA, ancelle «Dolci amiche, rapirmi», sciolti a) «Della celeste Venere», settenari asbasbcdasdexasx I,2 PRINCIPESSA CREUSA, Damigelle, Creonte, Evandro, corinzi b) «Apportator di giubilo», settenari asbasbascdcexex c) «Dea possente degl’amori», ottonari abbx, accx, cxcx

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N. 3 SCENA, MARCIA, CORO E CAVATINA DI GIASONE , Odi le trombe! Ah giunge alfine! E giunge Fosti grande allor che apristi I,2 PRINCIPESSA CREUSA, Damigelle, Creonte, Evandro, corinzi I,3 GIASONE , guerrieri, PRINCIPESSA CREUSA, Creonte, nacelle «Odi le trombe! Ah giunge alfine! E giunge», sciolti a) «Fosti grande allor che apristi», ottonari abbx, cddx b) «Ah! sì, Creonte, sorgono», settenari asbasbasccx, asccx, asccx, asdasd, aseaseasx, asfasfasx

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N.4 SCENA E CAVATINA DI MEDEA, Fia ver? Giason ritorna Presagio inesplicabile I,4 Medea I,5 Ismene e detta «Fia ver? Giason ritorna», sciolti a) «Presagio inesplicabile», settenari asbasbasccxasx b) «ME. Ebben? IS. Lo attendi, giungere», settenari asbasbasxasx, asccx, asddxdx

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N.5 SCENA E DUETTO DI GIASONE  E MEDEA, Eccolo! … va… L’estrema volta è questa Crudel da te respingermi I,6 GIASONE  e Medea «ME. Eccolo! … va… GI. L’estrema volta è questa», sciolti a) «Crudel da te respingermi», settenari asbasbcdcdasx, aseasefgfgasx, ashashasxasx b) «Non vedi alzarsi, donna, fra noi», quinari doppi ababcxcx, dedefxfx 332 M. Beghelli ne accenna in Tre slittamenti semantici: cavatina, romanza, rondò cit. e ne ha ampliato le considerazioni in Che cos’è una Gran Scena?, relazione letta al Secondo Colloquio di Musicologia del «Saggiatore Musicale» (Bologna, 20-22 novembre 1998). 333 M. Beghelli, Tre slittamenti semantici: cavatina, romanza, rondò cit.

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N.6 CORO E CAVATINA DI TIMANTE, Muti, obbedienti, immobili Fra vita e morteOndeggio! Esplorator nella cittade Qual diva celeste crudel ti adora, I,1 Timante circondato da folta schiera di seguaci II,2 Stenelo e detti «Muti, obbedienti, immobili», settenari asxasx «Fra vita e morteOndeggio! Esplorator nella cittade», sciolti a) «Qual diva celeste crudel ti adorai»¸senari doppi aabxbx b) «ST. Prence, ah! Prence … TI. Infausta nuova», ottonari ababcxcx c) «All’empie nozze, o perfidi», settenari asbasx, asbasxasx

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N.7 FINALE I, Dolce figliuol d’Urania II,3 Sacerdoti, donzelle II,4 detti, Creonte, GIASONE , PRINCIPESSA CREUSA, Medea, Timante «Dolce figliuol d’Urania», settenari asbasbccx, asdasdccx, aseaseccx «A te, figlia, de’ prenci», sciolti a) «A se manco a te di fede», ottonari abbx, abbx, abbxax, «Scendi, Imene: in più bel giorno», ottonari abbx «Al rito infame, o perfidi», settenari asbasbasxcx b) «Mira, infido in quale stato», ottonari abbx, abbx, abbx c) «ME. Ricusi dunque? TI. Compiere», settenari asbasbascdcexfx d) «All’armi, all’armi! … Fera contesa», quinari doppi axax, bxbx, cxcx, dxdx

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N.8 SCENA E DUETTO DI TIMANTE E GIASONE , Vieni seguirci è forza! Ed ove trarmi Volca te solo vittima III,1 Timante, carco di ceppi e fra guerrieri corinzi III,2 GIASONE  e detti «CO. Vieni seguirci è forza! Ti. Ed ove trarmi», sciolti a) «Volca te solo vittima», settenari asbasbascascasx, asdasdascascasx, aseaseasfasfgxgx, b) «Scorrer nel petto, ed ardere», settenari asbbx, asccx

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N.9 SCENA E SCONGIURO DI MEDEA, Dove mi guidi – Già vi sento, si scuote la terra III,3 Medea, Ismene, poi Medea e coro sotterraneo «Dove mi guidi? E quale», sciolti a) «Antica notte, Tartaro profondo», endecasillabi ababcc c) «Già vi sento: si scuote la terra», decasillabi abbxax d) «Questo cinto a voi consegno», ottonari abx4abx4 e) «Il Tosco spargetevi», senari asbasbccasxdx

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N. 10 SCENA E POLACCA DI PRINCIPESSA CREUSA, Ti calma … del tuo sposo Al seno cingetemi III,4 PRINCIPESSA CREUSA, ancelle, poi Creonte III,5 Ismene e detti «Ti calma … del tuo sposo», sciolti a) «Al seno cingetemi», senari asbasbccasx, asdasdeeasx

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NUMERO 11

SCENA E ARIA DI GIASONE, Se benigno chi puote Pe’ suoi falli abborrita è cotanto III,6 GIASONE , Ismene, due fanciulli III,7 Corinzi, poi ancelle e detto «Se benigno chi puote», sciolti a) «Pe’ suoi falli abborrita è cotanto», decasillabi ababcxcx b) «CR. Cielo … aita! CO. Oh colpo atroce!», ottonari ababcdcdefefgxgx c) «Sul mostro abbominato», settenari ababx, cddx

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NUMERO 12

SCENA E ARIA FINALE DI MEDEA,

Tutta di pianto e d’ululati eccheggia – Chi m’arresta? Il braccio mio III,8 Medea con i figli III,9 Ismene e detti III,10 Ismene, poi Creonte, GIASONE  e corinzi III,11 Medea e detti «Tutta di pianto e d’ululati eccheggia», sciolti a) «Chi m’arresta? Il braccio mio», ottonari ababccdxdx b) «ME. Qual mai tumulto! … IS. Ah salvati», settenari asbasbascascasdasd c) «Empio al colmo d’ogni orrore», ottonari abbx, accx, dxdx d) «GI. L’uscio atterrate … CR. Pera colei», quinari doppi axax C’e mobilita formale.


Nella musica della Medea di Mayr, Romani forni a Mayr un libretto ben congegniato, ricco di situazioni contrastate, di azioni e colpi di scena d’effetto. Alle tipologie emotive settecentesche (il pianto dell’amante respinto (Egeo), il vocalizzo di trionfo dell’eroe vittorioso (GIASONE ), i patemi della principessa in ambasce (PRINCIPESSA CREUSA)) ha aggiunto situazioni nuove o comunque non ancora consolidate da una prassi tradizionale. Scene da “mille e contrarii affetti” tormentati, il sorgere graduale della passione, il frenetico movimento negli scontri armati in scena erano situazioni da tempo accolte nell’opera in musica, ma solo da pochi anni concepite anche come situazioni capaci di articolare strutture musicali.

L’ampiezza dello spettro espressivo disposto da Romani è evidente nei tre duetti sopravvissuti agli anonimi ritocchi napoletani del 1813: duo dialogato e contrastato, quindi dinamico, il confronto tra Medea e GIASONE ; duo d’amore sereno e statico il dialogo di reciproca conferma tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA; duo di affetti eterogenei ma concorrenti quello tra Medea e Egeo che si preparano alla commune vendetta. In “Giasone e Medea in Corinto”, Romani fa interagire tradizioni diverse, orizzonti d’attesa alternativi ma contemporanei: e questo, non essendo ancora intervenuta la standardizzazione delle forme operata da Rossini, richiedeva al compositore una notevole. Cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. Le opere della maturità da «Tancredi» a «Semiramide», Roma, Torre d’Orfeo, che affronta il problema nella librettistica d’epoca rossiniana e appena precedente.

Tortora osserva «l’essenzialità richiesta nella condotta drammaturgica di un libretto, la necessità di puntare su situazioni agili e su frequenti colpi di scena. La librettistica italiana del primo Ottocento risente a suo modo della crisi più generale patita dai generi letterari destinati al teatro e diffusasi già a partire dalla seconda metà del Settecento, allorché il razionalismo illuministico aveva minato al fondo l’ideologia sottesa al modello aristotelico.

Sui problemi drammaturgici posti dai duetti cfr. Carlo Gervasoni, La scuola della musica in 3 parti divisa, Piacenza, Orcesi, che riecheggia questioni già poste in ambito francese, e di cui rende conto Elizabeth Bartlett, Étienne Nicolas Méhul and Opera During the French Revolution, Consulate and Empire: A Source, Archival and Stylistic Study, Ph.D. University of Chicago, nella discussione sul duo dialogué; si tratta di duetti in cui il testo è solitamente diviso in due sezioni: nella prima si dà voce al contrasto tra forti passioni contrapposte, mentre nella seconda, a due, i personaggi pervengono ad un accordo espresso con testo identico o analogo per entrambi. Il duo dialogué è dunque almeno potenzialmente una forma dinamica: di solito vien collocato in situazioni aperte, raramente a fine atto, sebbene ve ne siano esempi in Gluck. Questo genere di duetto si ritrova, in Italia, all’epoca di Cimarosa: medesima bipartizione lento/veloce con qualche ripetizione, spesso variata, nella sezione A, e particolarmente verso la fine. La sezione d’insieme è generalmente diversificazione strutturale. Le imprevedibili morfologie adottate da Mayr corrispondono dunque ai diversi piani espressivi del libretto (affettivo/narrativo, azione interiore/azione esteriore) che Romani aveva derivato dalle varie fonti letterarie e spettacolari utilizzate – tragedia, opera, melologo, ballo.

Come dimostrano le frequenti oscillazioni formali che si riscontrano nelle sue opere, la ricerca di Mayr sulle forme musicali e sull’articolazione del “numero” non è progressiva336, non intende risolvere problemi tecnici compositivi e definire nuove strutture valide in ogni situazione drammatica; quand’anche nella sua produzione compaiano forme o sezioni, come le cabalette o i tempi di mezzo dinamici, che sarebbero poi diventati usuali negli anni venti, esse non configurano mai acquisizioni definitive ma soluzioni fungibili entro un’ampia tavolozza formale. Accanto ad un asse evolutivo arcaico vs alla moda va considerato insomma in quegl’anni anche un asse retorico che adottava modelli formali diversi in base a specifiche considerazioni drammatiche, cerimoniali, convenzionali. Nonostante i tentativi che Scott Balthazar ha operato sull’intero corpus operistico mayriano, infatti, le partiture di Mayr non consentono di individuare un tratto omogeneo: il più semplice dal punto di vista armonico, limitata prevalentemente ad accordi di tonica e dominante ed intessuta di terze e seste parallele. Sebbene, per esempio, la forma tripartita cantabile - tempo di mezzo - cabaletta alla Rossini si trovi già in Adelaide (1799), Zamorì (1804), Gli americani (1806), Tamerlano (1813), essa non è un tratto costante dell’operismo di Mayr. Nemmeno compare nella Rosa bianca e la rosa rossa (1813), dove pure si trovano tre arie in più movimenti: qui d’altronde la varietà è tale che le anche arie bipartite non sono suddivise nei movimenti lento-veloce. Sulla questione cfr. Charles Brauner, Vincenzo Bellini and the Aesthetics of Opera Seria in the First Third of the Nineteenth Century, Yale,  e Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria, in Giovanni Simone Mayr: l’opera teatrale e la musica sacra, atti del convegno internazionale di studi (Bergamo, 16-18 novembre 1995), a cura di Francesco Bellotto, Bergamo, Comune di Bergamo, Assessorato allo Spettacolo, Esemplare è per esempio il caso dell’Ercole in Lidia, rappresentato a Vienna nel 1803, che Leopold M. Kantner, «Ercole in Lidia» di Giovanni Simone Mayr e la sua tradizione in Vienna, in Giovanni Simone Mayr. L’opera teatrale e la musica sacra intende come deciso passo innovativo nella produzione dell’opera seria di Mayr, mentre probabilmente va inteso come occasionale adesione ai gusti più francesizzanti (i.e. cosmopoliti, ma non necessariamente ‘progressisti’) di quella corte: il «ridimensionamento dell’elemento virtuosistico, di bravour», l’abbondanza del recitativo accompagnato, il ruolo del coro, la strumentazione con largo uso di ottoni e arpa, gli elementi marziali, e lo «stile bombastico, grandioso, alla Grand’opéra» non sembrano, infatti, neppure questi, conquiste definitive di Mayr ma opzioni stilistiche tra tante da usare all’occorrenza (e magari anche prima del 1803).

Un procedimento analogo a quello descritto da Marco Emanuele, L’ultima «Didone». Il Metastasio nell’Ottocento, in «Musica e Storia», VI/2, e da Emanuele Senici, Mayr e il Metastasio: un contesto per Demetrio, in Giovanni Simone Mayr: l’opera teatrale e la musica sacra cit. Oltre a Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria cit., si vedano anche i suoi Mayr, Rossini and the Development of the Opera seria Duet: Some Preliminary Conclusions, in I vicini di Mozart, I: Il teatro musicale tra Sette e Ottocento, a cura di D. Bryant, Firenze, Olschki, Mayr, Rossini, and the Development of the Early Concertato Finale, in «Journal of the Royal Musical Association», CXVI. Questi studi rendono conto della varietà delle forme utilizzate ma, poiché trattano grandi numeri, trascurano inevitabilmente la funzionalità di ciascuna, e non sono sempre utilizzabili con efficacia nell’analisi di una singola opera. In Medea in Corinto, per esempio, Balthazar individua quattro arie composte in un colore orchestrale e il carattere melodico sono estremamente diversificati, così come lo sono la struttura fraseologica e la morfologia, spesso descrivibile tanto nei termini della tradizione settecentesca quanto sulla base di modelli poi codificati nelle opere serie di Rossini.

La libertà con cui Mayr accosta forme diverse discende dall’ambiguità intrinseca che sottende ogni singolo numero, a livello sia macroformale, sia fraseologico: la melodia è costruita per brevi incisi, volta a volta variati, citati, ripresi nel profilo melodico o in quello ritmico o in entrambi; è concepita come tessuto di frasi distintamente articolate, varie nella configurazione ritmica ma armoniosamente disposte in una regolare scansione metrica340; in ogni caso, a salvaguardia del principio ancora roussoviano dell’unità della melodia, accostate secondo un principio di varietà più che di contrasto.

Divengono quindi centrali I problemi della costruzione del periodo musicale, del fraseggio, dell’interpunzione melodica. La melodia di Mayr si organizza come un discorso, con periodi e clausole, ma questa grammatica è articolata in una prosodia regolata da una sorta di arte retorica che distingue caso per caso il rilievo che le convenzioni teatrali o l’economia narrative attribuiscono al singolo numero lirico: dagli incisi sconnessi e irregolari delle situazioni drammatiche più incalzanti e tese, come quella dell’aria di sortilegio di Medea ‘Antica notte’ alle frequentissime melodie progressive costruite su barform di 2 + 2+ x battute342 come accade nell’esordio del rondò di Medea ‘Ah che tento’, qui movimento, due arie a tre o più movimenti, nessuna in forma di rondò, per un totale di sei arie. Quelle a più movimenti non sarebbero in “solita forma” ma avrebbero movimenti iniziali in forma AB (1) o ABC… (1) e conclusivi in forma durchkomponiert (1) o a cabaletta (1). Le altre sarebbero durchkomponiert (2) o in ABA’C, una variante della compound binary form di cui parla Mary McClymonds nella voce ‘Aria. 2. 18th Century’ del New Grove Dictionnary of Music and Musicians. Non è tuttavia chiaro a quali arie si riferisca Balthazar, visto che in Medea in Corinto si trovano almeno sette arie solistiche, pur senza contare la cavatina ‘Sommi dèi’, soppressa a Napoli e Milano, e l’introduzione che, sebbene preveda l’intervento di diversi personaggi secondari, è dedicata con netta prevalenza a PRINCIPESSA CREUSA. Da questo punto di vista la musica di Mayr sembra corrispondere alle riflessioni sulla melodia dei teorici italiani a cavaliere del secolo. Cfr. Francesco Galeazzi, Elementi teorico-pratici di musica con un saggio sopra l’arte di suonare il violino, Roma, 1790-91: Galeazzi pensa a periodi divisi in clausole (porzioni di melodia compresa tra due cadenze del basso), e ‘sensi’ (più o meno le frasi di senso compiuto).

Ogni livello è separato da una cadenza melodica:

1) occulta (non esiste nel discorso verbale: in musica si trova quando il basso scandisce una vera cadenza che la melodia non recepisce).
2) minore, tra le clausole (effetto di virgola: il basso fondamentale compie una vera cadenza che tuttavia non è espressa dal basso continuo e neppure appare dalla melodia)
3) maggiore, tra i sensi, con effetto punto e virgola o due punti (è una cadenza che chiude il senso, per lo più plagale, mentre il basso fondamentale passa dall’armonia della quarta a quella della fondamentale
4) finale tra i periodi (effetto punto fermo).

Sensi e periodi si compongono per lo più di battute pari: conviene ripetere clausole quando sono di battute dispari, in modo da pareggiare il conto. Al proposito cfr. Virgilio Bernardoni, La teoria della melodia vocale nella trattatistica italiana (1790-1870), in «Acta musicologica», LXII, e Renato Di Benedetto, Lineamenti di una teoria della melodia nella trattatistica italiana fra il 1790 e il 1830, in «Analecta Musicologica», XXI, 1982: Colloquium Die stilistische Entwicklung der Italienischen Musik zwischen 1770 und 1830 und ihre Beziehungen zum Norden, Roma. Cfr. Renato Di Benedetto, Lineamenti di una teoria della melodia.

Si adotta qui per semplicità la terminologia proposta da Giorgio Pagannone, Aspetti della melodia verdiana. Periodo e Barform a confronto, in «Studi verdiani», XII,, a periodi bilanciati antecedente/conseguente, ciascuno costruito da semifrasi di 4 battute come nell’apertura dell’aria di prigione di Egeo, a strutture che già preconizzano le future lyric forms come il tema della prima cavatina di Medea ‘Sommi dèi’. In tutti i casi, ciò che chiarisce il senso di una melodia è la dimensione tonale345: è questa che la articola in preludio, motivo principale «su cui tutta la composizione aggirar si dee», eventuali elementi da esso derivati, modulazioni, cadenza, coda346. L’articolazione fraseologica può essere molto irregolare; anche il rapporto tra parti iniziali, parti modulanti e “periodi di cadenza”347 può essere organizzato in forme imprevedibili così da spostare il materiale tematico, e con esso il punto focale del brano, verso l’inizio, al centro o perfino verso la fine, a ridosso della sezione cadenzale348: è il caso della scena del sortilegio, qui generale cfr. tuttavia Carl Dahlhaus, Satz und periode. Zur Theorie der musikalischen Syntax, in «Zeitschrift für Musiktheorie», IX/2, Phrase et période: contribute à une théorie de la syntaxe musicale, in «Analyse musicale», XIII, ottobre Lorenzo Bianconi, «Confusi e stupidi». Di uno stupefacente (e banalissimo) dispositivo metrico, in Gioacchino Rossini, 1792-1992. Il testo e la scena. Convegno internazionale di studi, Pesaro, a cura di Paolo Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini, e, pur nel diverso ambito di indagine, William E. Caplin, Classical Form. A Theory of Formal Function for the Instrumental Music of Haydn, Mozart, and Beethoven, New York, Oxford University Press, 1998. Sulla lyric form cfr. Joseph Kerman, Lyric Form and Flexibility in “Simon Boccanegra”, in «Studi verdiani», I, Friedrich Lippmann, Vincenzo Bellini und die italienische “Opera seria” seiner Zeit: Studien über Libretto, Arienform und Melodik, Köln-Wien, Böhlau, ed. it. riv. in Maria Rosaria Adamo e Friedrich Lippmann, Vincenzo Bellini, Torino, ERI. Più recenti sono Steven Huebner, Lyric Form in “Ottocento” Opera, in «Journal of the Royal Musical Association», CXVII, e Giorgio Pagannone, Mobilità strutturale della ‘lyric form’. Sintassi verbale e sintassi musicale nel melodramma italiano del primo Ottocento, in «Analisi», VII/20.

La mobilità della lyric form, intesa come ambito di possibilità strutturali, è esaminata, per anni successivi a Medea in Corinto, da Giorgio Pagannone, Mobilità strutturale della ‘lyric form’.

Sulla verifica degli ambiti tonali per la descrizione formale della sintassi musicale di questi anni insistono, naturalmente, tutti gli articoli sopra citati, ma vi si fonda interamente William E. Caplin, Classical Form cit. Già Galeazzi aveva chiara coscienza del rapporto che intercorre tra melodia e armonia, tanto da proporre la definizione di ‘melodia’ nella sezione del trattato dedicata all’armonia, e da discutere di cadenze in quella dedicata alla melodia. La melodia, d’altra parte, per lui non è solo l’aria o il motive principale, ma la condotta stessa, il processo con cui l’aria è costruita nella sua totalità e nelle sue singole parti: è insomma sinonimo di composizione e prefigura l’idea di strutture melodiche ampie come la lyric form. Come i teorici tedeschi, infatti, egli non parla in termini di contrasti melodici ma di contrasti armonici, così che la parte centrale della melodia, che noi, muovendo da basi melodiche, chiameremmo ‘sviluppo’, è definita da lui, su basi armoniche, ‘modulazione’. La sezione sulla melodia diventa allora una teoria della forma. Cfr. Francesco Galeazzi, Elementi teorico-pratici di musica con un saggio sopra l’arte di suonare il violino cit., p. 426, ma su tutto questo cfr. Renato Di Benedetto, Lineamenti di una teoria della melodia.

Sono indicative della percezione funzionale coeva delle varie sezioni della melodia le 7 parti individuate da Francesco Galeazzi:

1. preludio
2. motivo principale
3. secondo motivo
4. Uscita di tono
5. passo caratteristico o passo di mezzo
6. periodo di cadenza
7. coda.

Sempre da Galeazzi si ricava non solo che la condotta della composizione è «preponderante sull’invenzione motivica ma anche che sull’unità della struttura agisce un doppio ordinamento.

Ad un primo livello vi è la successione dei periodi ciascuno dei quali ripresenta un proprio motivo e svolge una funzione essenziale per la definizione complessiva della forma. Ma l’organizzazione ritmica interna a ciascun periodo, la distinzione di un periodo dall’altro e la concatenazione dei medesimi in un discorso unitario, spettano al livello armonico. È l’armonia con vari ordini di cadenze e con la modulazione da un tono all’altro a fornire la struttura portante della melodia secondo un progetto che discussa poco oltre; in molti casi, inoltre, perfino le code vocalizzate e non tematiche possono assumere esplicita funzione drammatico-assertiva, soprattutto quando hanno estensioni largamente superiori alla sezione tematica o quando s’incaricano di presentare parti di testo rilevanti dal punto di vista narrativo e drammatico: arie siffatte sono forme accentate verso la fine, analoghe ai finali che Balthazar definisce end-accented  perché dotati di una stretta più estesa rispetto al concertato intermedio. L’esame della prima aria di GIASONE , ‘Di gloria all’invito’ mostra con chiarezza l’ambiguità delle strutture musicali. L’aria intona tre quartine di senari; è statica, perché nulla viene a turbare il trionfo dell’eroe; nella tradizione delle arie cerimoniali e belliche è in Re maggiore con trombe, timpani e banda militare (in orchestra, e non sul palco). Segue ad un ampio coro cerimoniale prevalentemente omoritmico, e si libra come vera affermazione di potenza, diremmo quasi di erotico esibizionismo: il primo distico è intonato come stentorea apostrofe vocalizzata, plateale e acuta, in una frase di ben sette battute rivolta al sovrano, ma in realtà al pubblico che deve riconoscere subito lo status e la dignità sociale del personaggio.

Il periodo iniziale è estremamente ambivalente.

Le prime sette battute variano il tema della seconda strofa del coro, che non tornerà più nel corso dell’aria; le altre presentano invece una regolarità metrica nell’accompagnamento orchestrale prima assente353, ed sono costruite su un andamento armonico e melodico nuovo, che si rivelerà di lì a poco analogo a quello che intona le alter trova conferma in tutta la trattatistica settecentesca»: così Virgilio Bernardoni, La teoria della melodia vocale nella trattatistica italiana (1790-1870). Su questo vale partire da G. Pagannone, Mobilità strutturale della ‘lyric form’ cit., e id., Tra “cadenze felicità felicità felicità” e “melodie lunghe lunghe lunghe”, in «Il Saggiatore musicale», IV. Vista la varietà con cui si presentano le forme di Mayr, intendo qui per ‘coda’ una sezione che rispetta, oltre al primo, almeno un altro dei tre requisiti individuati da Robert Anthony Moreen, Integration of Test Forms and Musical Forms in Verdi’s Early Operas, PhD., Princeton University, 1975, p. 163: a) suspension of tonal movement: successive cadences are on the final tonic of the piece; b) suspension of text exposition: the text of a coda is entirely repetition; c) the important characters in the number sing together ad equals. La definizione di coda data da Pietro Lichtenthal nel suo Dizionario e Bibliografia della musica, Milano, Fontana, 1836 consente d’altronde quest’uso del termine più retorico, che formale: «Coda, s. f. Nome che si dà al periodo aggiunto a quello che potrebbe terminare un pezzo di musica, ma senza finirlo in modo così completo e brioso». Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini, and the Development of the Early Concertato Finale. È sufficiente d’altronde dar senso allegorico al sostantivo astratto nel primo verso per scioglierne le implicazioni erotiche. Sulle valenze erotiche del canto lirico cfr. il quadro di riflessioni e studi che tracciano Marco Beghelli, Erotismo canoro, e Davide Daolmi - Emanuele Senici, «L’omosessualità è un modo di cantare». I contributi “queer” all’indagine sull’opera in musica, entrambi in «Il Saggiatore musicale», VII. Cfr. la distinzione tra melodie “aperte” e “chiuse” in Friedrich Lippmann, Per un’esegesi dello stile rossiniano, in «Nuova rivista musicale italiana», II, oltre al quartine dell’aria. Sembra quindi costruito con una sezione introduttiva di cerniera tra coro d’apertura e solista e inizio dell’aria vera e propria introdotta dalle tre battute d’orchestra (bb. 8-10). Da quel momento infatti il coro e GIASONE  si alternano. GIASONE, già rivòltosi a CREONTE in questa prima quartina, prosegue nelle due successive per rendere omaggio a CREUSA, e salutare poi il popolo tutto; ogni volta il coro acclama le sue dichiarazioni.

Entro ogni frase o ‘strofa’ l’impianto tonale è assolutamente stabile, idoneo a garantire la coerenza della struttura sotto le imprevedibili fogge che assumono le varianti del canto solistico di NOZZARI, vero completamento e prolungamento del compositore.  Dopo la plateale apertura delle prime sette battute, ‘Di gloria all’invito’ è infatti costruita in un crescendo di sontuosità secondo moduli virtuosistici che potremmo definire a strofe variate. La seconda e la terza ripresa di GIASONE hanno andamento sufficientemente analogo alle bb. 11 e seguenti della prima per essere riconosciute, appunto, come riprese, sebbene si costruiscano su un fraseggio sintatticamente più coerente e regolare: la quartina rivolta all’amata, è articolata in nove battute (per la ripetizione di un emistichio nel finale) ma seguita poi da sei battute di coda; l’ultima quartina è cantata in altre nove battute (sempre per la ripetizione di un inciso verso il finale) prima che il coro s’aggiunga al solista in un’ampia coda finale di ben 26 battute. Le regolari e brevi introduzioni orchestrali ad ogni ripresa di GIASONE , i refrains del coro, la costanza del metro poetico, tutto in senari, e del metro musicale lasciano percepire una struttura strofica molto netta, non inficiata nemmeno dall’improvviso scarto tonale alla dominante su cui è omogeneamente intonata la seconda quartina di GIASONE , con relativo ‘applauso’ del coro. CORO INTRODUTTIVO, RE MAGGIORE: Fosti grande allor che apristi mari ignoti a ignote genti; grande allor che i tauri ardenti il tuo braccio al suol prostrò, ma più grande allor che pace col tuo sangue acquista un regno, quando al trono fai sostegno, che rovina minacciò. PRELUDIO, RE MAGGIORE. GIASONE  Di gloria all’invito -- commento di Saverio Lamacchia, “Solita forma” del duetto o del numero? L’aria in quattro tempi nel melodramma del primo Ottocento, in «Il Saggiatore musicale», VI. Anche l’articolazione armonica contribuisce a questa ambiguità: l’antecedente apre in tonica e chiude in dominante così da consentire al conseguente di ripartire in tonica. Ma le tre battute orchestrali intermedie provvedono a completare la cadenza avviata dall’antecedente e ad aprirne un’altra per lanciare il conseguente. Renato Di Benedetto, Poetiche e polemiche, in Storia dell’opera italiana, VI, utilizza queste parole per definire il ruolo del cantante nell’opera italiana ed affrancarlo da una tradizione critica e storiografica che a lungo l’ha dipinto come strumento passivo, competitore od usurpatore del ruolo creativo dell’autore. Se le sue osservazioni valgono sempre nel caso dell’opera italiana, tanto più sono adeguate al caso di un cast d’eccezione come fu quello composto da Colbran, Nozzari e García per le recite di Medea in Corinto. Sulla questione cfr. anche Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio cit., a Creonte fra l’armi volai; SEZIONE A, RE MAGGIORE “per te s’io pugnai, tel dica il tuo cor”.  CORINTI Di gloria il sentiero tu calchi primiero; per te degni eroi soccombe il valor. SEZIONE A', LA MAGGIORE GIASONE  Spronavami all’ire (a PRINCIPESSA CREUSA) l’amato tuo nome; m’accrebbe l’ardire Imene ed Amor. CORINTI Di gloria, etc. SEZIONE A'', RE MAGGIORE. GIASONE: “Se amante e guerriero (ai suoi seguaci) combatto con voi, è vano per noi nemico furor. CORINTI: Per te degli eroi soccombe il valor.” Oltre alla struttura a strofe variate, tuttavia, in quest’aria si possono individuare i segmenti che diverranno canonici pochi anni dopo nella cosiddetta solita forma: una semplice esasperazione delle differenze di fraseggio, di agogica, di accompagnamento, di contenuto testuale, della strofa intermedia avrebbe consentito a Mayr di foggiare la cavatina di GIASONE  sul modello dell’aria quadripartita. Rossini dovette interpretarla in questa prospettiva, se effettivamente l’assunse a modello dell’esordio eroico per le opere destinate a Nozzari. Ma Mayr stesso decise di esplicitare questa lettura quando la ritocca per le rappresentazioni al Carcano del 1829: inserì un vero e proprio cantabile come riflessione nostalgica a parte dell’eroe sulla consorte ripudiata. A quest’epoca, tuttavia, l’idea di adottare esplicitamente la struttura dell’aria quadripartita è consona ad una nuova concezione drammaturgica dell’eroe, il quale da stentoreo esibizionista viene riconvertito a soggetto portatore di emozioni più complesse e sfumate: le strofe funzionali al virtuosismo del solista vengono così riconcepite come momenti affettivi diversi cui dar voce nelle strutture della “solita forma” in quattro tempi, e il passaggio da una passione all’altra viene giustificato da mozioni interiori dell’animo di GIASONE. 

La partitura di “Giasone e Medea in Corinto” mostra molto spesso ambiguità formali, soprattutto là dove rappresenta situazioni o affetti concitati e movimentati senza per questo rinnegare i riferimenti stilistici della tradizione belcantistica e virtuosistica.

Il tentativo di soddisfare. Sulle arie quadripartite cfr. Saverio Lamacchia, “Solita forma” del duetto o del numero?. Una lettura di ‘Di gloria all’invito’ come modello delle arie quadripartite si trova in Saverio Lamacchia, “Solita forma” del duetto o del numero? cit. Lamacchia cerca in Mayr riscontri dell’uso rossinano di tempo d’attacco in arie solistiche anziché in duetti: legge quindi in questa chiave ciò che io qui ho inteso invece far risalire a tradizioni virtuosistiche precedenti. entrambe queste esigenze estetiche e drammatiche, teoricamente e storicamente divergenti, spinge Mayr a proporre soluzioni formali talvolta paradossali, come i frequenti accenni a placide riprese tematiche, che suonano come se fossero del tutto indifferenti alle catastrofi luttuose nel frattempo avvenute nelle sezioni dinamiche del numero. Se ne veda un caso nel numero che avvia lo scioglimento del dramma, l’aria di GIASONE, “Amor, per te penai”.  Romani aveva concepito un testo molto articolato che, come abbiamo visto nel  precedente, attacca come regolare aria metastasiana col da capo, ma poi prosegue con una successione di metri diversi, adeguati alla concitazione del momento: a) «Amor, per te penai», settenari – abax -- b) «Accorrete, oh tradimento», ottonari – abbx -- c) «O noi sventurate», senari ababccddxex -- d) «Dove sono? Chi mi desta?», ottonari – abbx -- e) «Lasciatemi, o barbari», senari -- asbasbx, cdedfx. Mayr accoglie il suggerimento iniziale di Romani e intona la prima quartina con una melodia di fattura mozartiana, stabilmente incardinata nella tonalità d’impianto, Sib. Sebbene incisi introduttivi e ripetizioni interne variino con vezzi belcantistici la regolarità delle frasi, le due coppie di versi della prima quartina sono fondamentalmente intonate su frasi simmetriche di 4 + 4 battute. L’intera quartina è poi ripetuta su una seconda frase con incipit analogo alla precedente: la simmetria fraseologica è qui sbilanciata dal una lunga adenza di 10 battute che dilata il secondo membro. L’andamento complessivo di questa prima sezione si può schematizzare così359: Moderato. Introduzione orchestrale. 

La strutturazione è tipica dell’aria virtuosistica con asimmetrie variate incardinate su una regolare struttura metrica, richiami tematici ma non vere ripetizioni del dettato melodico, sostanziale stabilità armonica. Quanto Mayr sia ancora attratto dalle arie solistiche dal segno degli anni ’80 è sottolineato da Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria. Con corona e pause, le prime due battute scorporano l’invocazione ‘Amor’ dal primo verso e danno loro una funzione introduttiva che indico qui tra parentesi quadre. La melodia vera e propria inizia da b. 3 con i settenari organizzati a due a due su regolari frasi simmetriche di (2+2) + (2+2) battute ciascuna, armonicamente bilanciata nell’usuale giro armonico I-VV-I. In questo e negli schemi che seguiranno nel corso del , i pedici indicano i numeri di battute, gli apici i versi cantati, 0 indica eventuale testo ripetuto. A b. 49 irrompe il coro «di dentro» in Sol minore. Le successive, irregolari, lasse di ottonari e senari sono poi intonate in una lunga sezione armonicamente instabile che tocca le tonalità di Do min., Sol min., Mib magg., Re magg., Fa magg. prima di tornare a Sib. Ogni verso del coro della quartina di ottonari è cantato in quattro battute, mentre il distico di GIASONE  ne impiega sei per concludersi così che la quadratura della frase musicale richiede una ripresa dei primi versi del coro per completarsi in otto battute. [Moderato] 4 bb (coro, 1 verso, Sol minore) + 4 bb (coro, 1 verso, Sol minore) + 6 bb (GIASONE , 2 versi, Do minore) + 2 bb (ripresa del coro, 1 verso, Sol minore) Rispetto alla consuetudine361 che vorrebbe intonati due versi ogni quattro battute, quelli del coro eccedono ciascuno di due battute perché l’orchestra ripete incisi melodici tra gli emistichi e dilata la successione delle esclamazioni; la frase di GIASONE  è invece ampliata da una sorta di progressione. L’effetto globale è di grande movimento e si contrappone alla sostanziale stabilità delle prime battute dell’aria. Lo stesso avviene nel trattamento musicale della lassa di senari che segue, cantata dal coro che esce in scena e dialoga direttamente con GIASONE . Mayr ritocca l’assetto metrico: aggiunge un verso a GIASONE  e alcuni emistichi al coro362, così da rendere meno meccanica l’alternanza tra i due interlocutori: 4 bb (coro – GIASONE , 1 verso ciascuno, Mib), 4 bb (coro – GIASONE , 1 verso ciascuno, Mib), 4 bb (coro, 2 versi, Mib), 4 bb (GIASONE  – coro, 1 verso ciascuno, Mib), 6 bb. (coro, 2 versi, con espansione dovuta a due bb. di progressione, modulante), 2+4bb emistichio di GIASONE un verso e mezzo del coro: le due battute di GIASONE  funzionano come sospensione che ritarda l’avvio del conseguente della frase precedente, modulante a Reb. Nella successiva quartina di ottonari continua il dialogo tra il principe e il popolo: la forma non chiude ancora, anzi resta a lungo sospesa tra Reb e Fa prima di cadenzare a Sib alla fine del primo distico. Solo da qui, b. 113, tornato finalmente alla tonalità d’impianto, Mayr espande la melodia in periodi ampi e compiuti per i quali i due versi restanti della quartina non sono sufficienti e vengono perciò entrambi ripetuti: cantati inizialmente nelle canoniche Quattro battute, vengono replicati con progressione in altre otto. Questa melodia di 4+8 battute è anticipata da una frase d’orchestra di quattro battute, analoga per timbre all’introduzione dell’aria: un richiamo che, assieme alla somiglianza del materiale tematico con la prima sezione, al ritorno dell’armonia iniziale e al netto cambiamento dell’accompagnamento orchestrale – già in primo piano a garantire compattezza metrica e -- È questa una consuetudine già studiata per il repertorio rossiniano e post rossiniano nelle strutture melodiche definite lyric forms. Anche in Medea in Corinto, tuttavia, è il rapporto più frequente.

Questi ritocchi sono recepiti nel libretto romano tratto direttamente dalla partitura. fraseologica, passa ora in secondo piano e si riduce a sostegno del canto del tenore – configurano questa parte come un accenno di ripresa.

Ormai stabilizzata la tonalità d’impianto, la lassa di senari che segue da b. 130 non porta novità di rilievo dal punto di vista armonico e suonerebbe dunque come coda cadenzante e vocalizzata. A prescindere dal diverso statuto della seconda sezione, sostanzialmente caratterizzata come musica di scena, senza frasi o periodi coerentemente organizzati, quest’aria potrebbe essere schematizzata come un’aria tripartita con coda (ABA'+ coda) giacché il percorso tonale, i richiami timbrici e tematici distinguono nettamente l’intonazione dei versi centrali del coro. Ma può essere anche intesa come un’aria che in un unico movimento incorpora diverse sezioni (ABA'C): se si prescinde dalle articolazioni armoniche e si osserva la fisionomia ritmica delle parti, infatti, la coda cadenzante sugli ultimi senari ha un profilo ritmico incalzante che, seppure non confermato dal cambio di agogica, è però evidenziato (e incoraggiato) dal movimento sincopato dell’orchestra. Riassumendo abbiamo: SEZIONE A, SI BEMOLLE MAGGIORE: “Amor per te penai; per te più non sospiro; la pace al cor donai: per te respiro – amor.” SEZIONE B, SOL MINORE – MI BEMOLLE MAGGIORE – RE BEMOLLE MAGGIORE – FA MAGGIORE. CORO Accorrete…. Oh tradimento!… Oh perfidia! Oh don funesto! GIASONE  Giusti dèi! Qual grido è questo! Quale in sen mi desta orror! SCENA 13 Donzelle, Corinti, GIASONE  CORO O noi sventurate!… O regno dolente… GIASONE  Che avvenne? Parlate CORO PRINCIPESSA CREUSA innocente… GIASONE  Ohimè la consorte… CORO In braccio di morte. La veste fatale… TUTTI Veleno mortale… in sen le portò. GIASONE  Io moro. s'abbandona; il coro lo circonda e lo sostiene. TUTTI Infelice! Il cor gli mancò. GIASONE  dopo alquanta pausa Dove sono? chi mi desta? Sole, ancor per risplendi. Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini and the Development of the Opera seria Duet: Some Preliminary Conclusions osserva che già Cimarosa nei suoi duetti «incorporates into a two-tempo, slow-fast, design» le quattro sezioni della futura “solita forma”. Strutture analoghe, ancora nei duetti, sono evidenziate da Charles Brauner, Vincenzo Bellini and the Aesthetics of Opera Seria in the First Third of the Nineteenth Century cit., che osserva come molti duetti di Mayr sono quadripartiti nel libretto ma tripartiti nella musica (veloce, lento, veloce) perché uniscono il dialogo intermedio con il movimento veloce finale; altri inglobano, invece, tutte e quattro le sezioni in un unico movimento. SEZIONE A', SI BEMOLLE MAGGIORE: “Cara sposa! Oh dio! M’attendi: sul tuo petto io morirò in atto di partire. Lasciatemi, o barbari… seguirla vogl’io… CORINTI No: vivi la vendica… GIASONE  Atroce, il cor mio vendetta farà. CODA O C, SI BEMOLLE: Ohimé! più non spero in vita riposo. Ho tutto perduto, non sono più sposo, Orrendo sul ciglio un velo mi sta. Parte seguito da’ Corinti e dalle donzelle. Questa ampia aria di GIASONE  riesce così a coordinare l’incalzante movimento in scena con l’impianto di tradizione virtuosistica. Da una parte, la sezione B dà forma all’intervento del coro, che repentinamente interrompe lo sfogo amoroso di GIASONE  e annuncia, anche agli spettatori, l’avvio della catastrofe. La ripresa tonale (A'), un po’ paradossale a quel punto, si giustifica come conferma dell’iniziale proposito di GIASONE d’unirsi alla sposa, seppure oramai nella morte; la sezione cadenzante finale accompagna l’uscita di scena dell’eroe, che s’avvia alla vendetta. D’altra parte a dar forma ad una simile successione di eventi e sentimenti sono ancora i moduli tradizionali della variazione virtuosistica con frasi bilanciate, rese poi asimmetriche da ripetizioni interne e progressioni su materiale tematico analogo sempre ma mai identico. Tutto il numero oscilla di continuo tra semplici frasi tematiche ed ampie espansioni variate. La ridotta differenza strutturale tra frasi tematiche e frasi cadenzali, ambo costruite su incisi omogenei e accostati secondo principii di varietà più che di contrasto, consente a Mayr di rendere autonoma anche la sezione cadenzante finale che, coi modi armonici e vocali della coda intona testo nuovo e non si limita alla ripetizione insistita di frammenti poetici già ascoltati nelle sezioni tematiche. L’ambiguità tra code e sezioni finali del numero lirico assume dimensioni ancor più macroscopiche nell’aria di sortilegio di Medea, dove viene data sensibile concretezza al carattere esorbitante della protagonista. L’aria è letteralmente informe, sebbene l’articolazione metrica fornita da Romani avrebbe consentito a Mayr una suddivisione quadripartita; di questo suggerimento Mayr accoglie solo una sorta di tempo d’attacco, in --

Lo osserva anche Philip Gossett nell’introduzione all’edizione facsimile dello spartito Carli sopra citata. Mayr made effort to modernize his score by attempting to create longer lyrical periods in the Rossinian manner. Corrigge così il suo stile basato su “a succession of shorter fragments. In lyrical scenes this technique is rarely moving, but in highly dramatic scenes the succession of shorter phrases can be striking in its immediacy and emotional power. Re minore, nella prima sezione di endecasillabi misurati. Dall’Allegro giusto, invece, inizia una sezione in Re maggiore senza cesure. Le due lasse di decasillabi e ottonari sono intonate in un unico movimento con strutture irregolari di battute (4+5+4+6+) o, più spesso, con frammenti melodici ed esclamazioni che non coagulano in vere frasi musicali e vagano entro un campo tonale molto ampio: Si min., Mi magg., Fa magg., Sib magg., La magg., La min., Fa magg., Re magg., Sol min., per cadenzare infine in Re minore all’avvio dell’ultima lassa di senari. Predominano fin qui spezzoni e lacerti di motivi continuamente citati, ripresi e variati sul sostegno regolare e uniforme dell’orchestra: solo il tappeto di figure dell’orchestra ostinate conferisce una certa corenza metrica al numero. L’effetto frenetico, mobile, irregolare dell’incantesimo celebrato in scena è garantito, ma lo spettatore ne è stordito e disorientato, mancandgliu l’appiglio d’una qualsiasi frase compiuta da tenere a mente. Solo alla novantanovesima battuta, appena prima di toccare finalmente la tonalità d’impianto, Medea avvia una melodia coerente che dispiega in 16 battute gli otto senari finali dell’aria: sono tutti intonati a coppie, in frasi di Quattro battute che compongono un periodo ad incisi paralleli apparentemente regolare. Il material melodico, infatti, è analogo nei primi tre membri e leggermente differenziato nell’ultimo, secondo uno schema a4 a'4 a''2+2 b4.

Dal punto di vista armonico, tuttavia, gli incisi ripresi e variati cambiano sostanzialmente significato perché le 16 battute compiono un percorso instabile con modulazioni appena accennate e mai definitivamente stabilizzate: la prima frase è aperta in levare ancora in Sol minore ma modula subito a Re minore, la seconda resta sospesa nell’area della sottodominante, la terza è invece accentuatamente modulante, la quarta infine conferma la tonalità di Re minore. Considerando il percorso armonico, il periodo può essere così strutturato: a: Sol min. (I)-II-Re min. I-V-I a': IV- I-IV-I b: Mib, Re magg., Sol min., La magg., a'': Re min. V-I-V-I La tonalità d’impianto del numero è dunque definitivamente ristabilita solo alla fine del periodo tematico; a quel punto si rende però necessaria una lunga coda di 38 battute, su testo ripetuto e con interventi del coro delle furie, per affermarla definitivamente e chiudere l’aria in un quadro tonale conchiuso. Il numero è insomma sbilanciato ad arte verso il finale. TEMPO D’ATTACCO, RE MINORE. MEDEA: “Antica notte, Tartaro profondo, Ecate spaventosa, ombre dolenti, o furie, voi che del perduto mondo siete alle porte, armate di serpenti, a me venite dagli stigii chiostri per questo foco, e per i patti nostri… S’ode rumor sotterraneo, indizio della presenza delle ombre. ALLEGRO GIUSTO, SEZIONE MODULANTE DA RE MAGGIORE. “Già vi sento; si scuote la terra, già di Cerbero ascolto i latrati, odo il rombo di vanni agitati, voi venite ombre pallide a me. OMBRE: Penetrò la tua voce sotterra: Acheronte varcammo per te Medea spiega la veste e la depone appiè dell’ara. MEDEA Questa spoglia vi consegno; sia strumento di vendetta. VOCI Lo sarà. MEDEA Mora lei, per cui l’indegno mio consorte mi rigetta. VOCI Morirà. SEZIONE TEMATICA, RE MINORE MEDEA Del tosco spargetela de’ serpi d’Aletto, di quelle che rodono l’invidia e il sospetto; le bagni l’istesso veleno di Nesso e mora com’Ercole sull’Eta morì. CODA VOCI Riposa contenta: Fia spenta così. Determinare l’architettura di queste arie esclusivamente in base al percorso tonale non coglie sempre la funzionalità drammatica del numero lirico: il percorso armonico dell’aria di Medea, per esempio, si chiarisce soltanto alla fine, ma anche in entrambe le arie di GIASONE  sopra esaminate la tripartizione suggerita dal percorso armonico non spiega né gli scarti ritmici di ‘Amor, per te penai’, né il valore erotico del carattere di GIASONE  in ‘Di gloria all’invito’. L’articolazione armonica non spiegherebbe nemmeno l’ambiguità formale delle code365, un altro tratto peculiare della scrittura di Mayr che rende difficilmente applicabili le consute distinzione tra corpo dell’aria e appendice retorica conclusiva.

In ‘Amor, per te penai’, l’abbiamo visto, alla lunga sezione cadenzante conclusiva è affidato nuovo testo verbale, in ‘Antica notte’ essa costituisce la vera chiusura armonica dell’aria; della cavatina ‘Di gloria all’invito’ la coda, assieme alla prima frase dalla melodia aperta, è la sezione che più s’imprime nella memoria dell’ascoltatore, ben più delle strofe centrali: l’esordio e il commiato non contengono frasi tematiche -- Anche Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria osserva la frequente ambiguità tra coda e parti tematiche e considera come, tra le diverse fogge delle sezioni conclusive dei numeri solistici di Mayr, se ne trovino spesso che «develop the coda as a fullfledged melody -- rilevanti ma sono quelle di maggior effetto in un’aria che intende esprimere principalmente fasto scenico più che moti d’affetto. Spesso, dunque, lungi dall’aver solo valore d’amplificazione della cadenza, la coda è il vero fulcro dell’aria, quanto, e talvolta più, della parte tematica stessa: soprattutto laddove, come in ‘Di gloria all’invito’ e nell’aria del sortilegio di Medea, ciò che conta esprimere non è la sostanza affettiva della vicenda ma un evento scenico rilevante nell’economica drammatica. A differenza di ciò che accadrà con la generazione di Bellini e Donizetti, la coda acquisisce maggior peso nei numeri d’azione che in quelli static ed affettivi. Questi numeri «end-accented» hanno infatti grande efficacia propulsiva: l’esibizione di abilità vocale che li conclude non liquida materiale precedente, come fanno di solito le code delle forme strumentali, ma ne introduce di nuovo – talvolta tematico, talvolta poetico, raramente di entrambi i generi – che assicura interesse fino alla conclusione del numero.

Quest’inclinazione, questo traino del finale si verifica sia in arie in unica sezione che sviluppano ampiamente la coda, sia in alcune sezioni finali di numeri a più movimenti. Sono i casi per esempio che chiudono con strette con doppia enunciazione del tema, una forma che Mayr inserì probabilmente già nell’Adelaide del 1800 nella foggia che diverrà canonica con Rossini e nota come cabaletta. A partire da quell’opera, in ogni caso, la gran parte delle partiture drammatiche di Mayr comprende almeno un numero concluso da una vivace melodia che compare due volte alla tonica, entrambe le volte introdotta dall’orchestra (o da una transizione in cui l’orchestra stessa domina, talvolta assieme al coro), a cui segue infine una coda.

In Giasone Medea in Corinto un trattamento cabalettistico di questo genere si trova nell’ultima sezione di ‘Sommi dèi’ (n. 3), la cavatina con cui Medea si presenta in scena a Napoli nel 1813 e a Bergamo nel 1821. Quando la poesia passa dai settenari ai rapidi quinari, l’aria ha già totalizzato 80 battute: la --  Marco Beghelli affronta in diversi saggi la questione terminologica della cabaletta in termini più rigorosi di quelli che mi sono qui consentiti: con riferimento ad epoche in cui la struttura della stretta era già largamente codificata, osserva che la cabaletta – nell’aria come nel duetto, nell’introduzione come nel finale – era «più propriamente una parte della Stretta ottocentesca – composta per lo più di cabaletta - ponte - cabaletta - coda – e precisamente il suo motivo tematico, giunto col tempo a identificare l’intera Stretta in seguito ad una facile sineddoche: la parte per il tutto. Navigando a cavallo di secolo, risulterebbe del resto difficile tracciare una linea di demarcazione temporale plausibile per un uso distinto dei due termini, storicamente avallato»: Marco Beghelli, Tre slittamenti semantici: cavatina, romanza, rondò cit. Al proposito cfr. anche Marco Beghelli, Sulle tracce del baritono, in Tra le note. Studi di lessicologia musicale, a cura di Fiamma Nicolodi e Paolo Trovato, Fiesole, Cadmo, 1996, Alle origini della cabaletta, in “L’aere è fosco, il ciel s’imbruna”. Arti e musica a Venezia dalla fine della Repubblica al Congresso di Vienna, a cura di Francesco Passadore e Franco Rossi, Venezia, Fondazione Levi. Cfr. Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria cit., tonalità d’impianto (Mi maggiore) è confermata da una frase dal profilo ritmico molto netto, che in 13 battute intona la prima sestina e termina alla dominante Si maggiore. Un ponte armonicamente sospeso tra tonica e dominante maggiore (bb. 94-104) intona i primi due versi e mezzo della seconda sestina e introduce la ripresa della cabaletta (da b. 106), nuovamente in tonica ma limitata alle prime due frasi, la seconda delle quali modificata per evitare la modulazione a Si maggiore. Su questa ripresa, Medea termina il canto degli ultimi tre versi e mezzo della lassa di quinari, e imprime con chiarezza nella memoria negli ascoltatori il profilo del tema, prima che attacchi la coda finale.

La sezione può essere schematizzata in questa maniera a42(Mi)-a42(Mi)–b52(Si)c2+2 2(Mi)–d661(Si-Mi)a42(Mi)–a'42(Mi)coda210(Mi). Questo trattamento della sezione conclusiva del numero in Mayr non divenne mai la formula predominante e restò una possibilità fra tante: altri movimenti conclusivi possono prevedere due enunciazioni del tema principale, ma spesso la seconda volta lo sottopongono a variazioni oppure organizzano melodie pienamente sviluppate sullle armonie cadenzanti della coda. La stretta è quindi concepita come pratica combinatoria di elementi melodici e ritmici dal profilo netto e deciso e non come movimento strutturato: emergerebbe insomma dall’arrangiamento di formule presenti prima di Mayr, e largamente in Mozart; le arie di Mayr si confermerebbero, dal canto loro, come strutture che si sovrappongono a vecchie tradizioni, e completano l’erosione dell’aria in un solo movimento per promuovere al contempo disegni più espansivi basati sul rondò e su altre forme relazionate368. Frequenti sono per esempio i movimenti in cui una versione del disegno della cabaletta è preceduto da un’instabile sezione declamatoria condotta dall’orchestra in stile parlante, talvolta mentre uno dei solisti dialoga con un pertichino o col coro. Di questo genere è l’ampia aria con arpa concertante per PRINCIPESSA CREUSA, ‘Caro albergo’, ad apertura del secondo atto. È 368 Cfr. Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria. Sulle forme d’aria utilizzate prima di Mayr e frequentate da Mozart, cfr. anche il capitale James Webster, The Analysis of Mozart’s Arias, in Mozart Studies, a cura di Cliff Eisen, Oxford, Clarendon Press, L’origine della cabaletta è dichiarata nella voce relativa del Dizionario e Bibliografia della musica di Pietro Lichentathal: non soltanto nell’affermazione che per cabaletta si debba intendere il «pensieretto musicale melodico, o sia cantilena semplice atta a blandire l’orecchio» ma anche per l’ironia e il distacco con cui si rende conto della struttura standard assunta dalla stretta «ora, essendo la musica tutta rivolta alla sensualità e al diletto». In breve, la musica di apertura della stretta sembra a vari gradi un tempo di mezzo. Questi movimenti che combinano tratti del tempo di mezzo e della cabaletta compaiono già nell’aria di Faone (II) della Saffo, nel rondò del Calipso del Telemaco.

Su tutto ciò cfr. Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria che osserva ancora come «the principal components of Mayr’s closing movements were commonplace in Mozart’s closing movements by 1791: the opening transition … an orchestral introduction for the main theme … two presentation, of the main theme are separated by a transition … finally … a coda». Il tempo di mezzo e la cabaletta sembrano dunque essere originati da un singolo movimento, la cui iniziale transizione diede origine al tempo di mezzo. l’unica vera aria affidata all’altra prima donna e deve quindi essere di ampie proporzioni370; dal punto di vista drammatico si giustifica con l’esigenza di caratterizzare l’innocenza virginale della principessa ed evidenziare così il primo delitto di Medea371: le tre sezioni dell’aria sono tutte costruite su incisi, variamente ripresi e variati, in modo che l’ultima sezione comprenda anche un richiamo alla melodia di cabaletta; tale richiamo è però assolutamente irregolare perché in minore (il tema è esposto da b. 52, qui all’inizio dell’es. 12; la ‘ripresa’ in minore da b. 75) e seguito da un ritorno alla tonalità di impianto da b. 97, nella frase precedente la coda. Nell’insieme lo schema può essere tracciato come segue, se si tiene conto che la struttura base delle frasi è sempre di 4 battute, ma che ad ogni occorrenza codette, one more time e zeppe vocalizzate amplificano e rendono irregolare la sucessione delle frasi. Suddivido la sezione finale C in periodi e solo per essa mostro, in lettere greche, l’articolazione interna ad ogni singolo periodo: la ripresa del tema in b è in minore, mentre la tonalità d’impianto è affermata solo nel terzo periodo. Andantino grazioso  Andantino non troppo: coda coro coda.

La ripresa variata del tema di cabaletta dell’aria di PRINCIPESSA CREUSA si giustifica dal punto di vista teatrale perché è integrata in un numero dal carattere prettamente belcantistico, interamente concepito su micro-variazioni che illustrano con icastica. L’ampiezza di quest’aria fa eccezione alla consuetudine che, secondo Daniela Tortora, chiedeva che dopo la cesura del Finale I la ripresa dell’azione fosse piana e dimessa.

Cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. Tortora, tuttavia, precisa anche che oltre a questo criterio generale, non ha individuato alcuna forma standardizzata per dar principio all’atto II, nulla che possa assomigliare alla successione coro-cavatina del numero introduttivo al prim’atto. Nei rifacimenti di Bergamo e Milano, l’aria venne sostituta da ‘Compi l’opra’, una regolare aria tripartita, separata dal coro introduttivo da 9 versi sciolti: Andante in Si bemolle, 3/4; Allegro moderato, Mi bemolle, 4/4; Allegretto, Si bemolle, 2/4 con la consueta ripresa della cabaletta. efficacia l’innocenza della principessa372; dal punto di vista drammatico è altrettanto giustificata d’altronde anche la cabaletta quasi ‘regolare’ di ‘Sommi dèi’, prima esaminata: essa conclude infatti un numero che si era aperto con periodi musicali ampi, lavorati e ambiziosi. Alla scena del dialogo tra Medea e i Corinti, cui la presenza del coro conferisce rilievo inconsueto, Mayr aveva fatto seguire un’aria che in un unico movimento incorporava quelle stesse diverse sezioni che l’aria rossiniana in “solita forma” distinguerà poi con chiarezza. In questo progetto d’elevata ampiezza formale, il cantabile in Mi maggiore che intona la prima sestina di ottonari è interamente organizzato su frasi bilanciate e articolate in modo da costruire un ampio periodo di 16 battute (più 4 di codetta). Poiché i sei versi di Romani non erano sufficienti a colmare un periodo di tale ampiezza, Mayr ripete nell’ultima frase versi tratti dalle frasi precedenti: a42(Mi) - a'42(Mi) - b42(fa) - a''40(Mi) - codetta40. Le frasi del canto sono armonicamente instabili e asimmetriche, con andamenti analoghi a quelli osservati nella seconda aria di GIASONE  e simili alle melodie aperte dei futuri tempi di mezzo: la periodicità e la quadratura della frase è però assicurata dalle figure d’orchestra e del violino solista.

Come in tutte le arie di maggior ‘peso’ drammatico, Mayr prevede infatti la presenza di uno strumento concertante in gara virtuosistica col cantante, col quale interloquisce con brevi incisi canonici: assieme all’elaborata costruzione delle frasi, anche queste tecniche imitative contribuiscono a rendere l’aria più dotta e quindi più solenne. In questo modo, un unico movimento riesce ad articolare gli affetti contrastati con cui Medea reagisce al decreto d’esilio avallato da GIASONE  – dalla rabbia espressa nella prima sezione, al pentimento per la vendetta invocata contro il consorte nella seconda, alla preghiera ad Amore perché le restituisca lo sposo nella terza; ma il rilievo formale attribuito a quest’aria è anche connesso alla circostanza che qui Medea si presenta per la prima volta al pubblico. Non è questo un caso isolato: in Medea in Corinto la scelta delle forme sembra spesso avvenire anche con -- Un espediente cui, molti anni dopo, e quindi con ben maggior efficacia, ricorrerà anche Verdi nell’intonazione fiorita delle arie di Gilda di Rigoletto. Sono rare le presenze del coro con funzione dialogica, e non lirica né cerimoniale, nel bel mezzo di un passo in versi sciolti del solista. funzione retorica. Questo criterio predomina nell’ultima grande aria. Il rondo della prima donna nel second’atto, “Ah che tento”, dove Medea decide di uccidere i figli. La scena rappresenta beninteso il climax del dramma e, l’abbiamo visto, la recente tradizione del mito di Giasone e Medea l’aveva imposta come momento di introspezione affettiva, vero banco di prova delle migliori attrici. Per darle il dovuto rilievo, Mayr concepisce una struttura a Quattro sezioni e prevede uno strumento concertante (corno inglese o violini, secondo le versioni). L’analisi dettagliata dell’aria dimostra quanti parametri vengano messi in gioco per ottenere l’adeguato effetto drammatico ed espressivo. Un tempo d’attacco di 37 battute, in La maggiore, intona la prima quartina di ottonari: qui non si ascolta una sola frase che non sia variamente amplificata con riprese testuali e armoniche o interrotta da pause.

I primi due versi sono così cantati su una frase sghemba di 3 + 5 battute che amplifica con pause e ripetizioni una struttura essenziale di 4(1+1+2) battute: l’asimetria della prima frase è ripetuta nella seconda, più instabile dal punto di vista armonico e comunque incentrata sulla dominante; questa volta i due versi sono cantati in sole sei battute (2+ripetizione di 2+2); entrambi vengono ribaditi in una lunga codetta di 12 battute ampiamente vocalizzata. Siccome l’intonazione delle due frasi è divisa in due membri paralleli – o perché concepita come accostamento di due emistichi simmetrici (Ah che tento / o figli miei) o per ripetizione testuale del medesimo verso (quello sol versar vogl’io quello sol versar vogl’io) – il baricentro è collocato nella seconda semifrase, così che l’intero periodo procede per accumulo e ‘spinge’ naturalmente in avanti il discorso musicale e gli eventi di cui esso è espressione. Tonalmente instabile, questa sezione si conclude con un coro omoritmico in Mi maggiore, dalle frasi -- Sul termine “rondò” cfr. il già citato Marco Beghelli, Tre slittamenti semantici: cavatina, romanza, rondò.. L’uso estensivo del termine spiega tra l’altro perché, a dispetto della struttura musicale, l’unica edizione dell’opera, la «partizione» Carli, intesti questo numero Rondò chanté par M.me Pasta nella Medea. Musica di S. Mayer. Sul valore retorico delle arie in 4 tempi, cfr. Saverio Lamacchia, “Solita forma” del duetto o del numero? cit. Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria sostiene che in Mayr, salvo un’aria negli Sciti e due negli Americani, non ci sarebbero esempi di arie costruite su cantabile - tempo di mezzo - cabaletta. 376 Sul valore propulsivo di strutture così concepite, cfr. Giorgio Pagannone, Aspetti della melodia verdiana. Periodo e Barform a confronto cit. Pagannone prende a prestito il termine barform per definire queste strutture caratterizzate dalla ripetizione iniziale di un inciso melodico; William E. Caplin, Classical Form cit. preferisce invece definirle sentence, e le studia in contrapposizione al period strutturato su frasi bilanciate antecedente/conseguente. La difficoltà di rendere in italiano la differenza di questi termini tra loro e rispetto a phrase, che sarebbe una delle parti costitutive della sentence come del period mi spinge a non adottare le definizioni di Caplin, nonostante la loro chiarezza ed efficacia. quadrate e simmetriche: solo dopo di esso, da b. 48, Medea intona gli ultimi versi della lassa di ottonari in una sezione in La minore costruita su materiale tematico analogo al precedente, ma articolata finalmente su una frase simmetrica di otto battute con lunga coda di altre 15. a1,5+1,5+52, b2+2+22, coda120coro62a'4+42,, coda150 I, V, V, V, i I Il passaggio a La minore precede il cantabile in modo da costruire gradualmente la svolta affettiva verso accenti di tenerezza da parte della madre prima infuriata. Anticipare, inoltre, rispetto al libretto, l’intervento del coro che da dentro dà la caccia a Medea, e collocarlo prima che finisca la strofa in ottonari, consente a Mayr di segmentare l’aria solo in forza del movimento affettivo della primadonna, che non risulta così sollecitato da eventi esterni: proprio come richiedeva l’estetica teatrale tardo settecentesca. Il cantabile è annunciato da una melodia del corno inglese, che concerterà con la voce per tutta la sezione, così da conferire giusto sbalzo all’ultimo gesto d’affetto materno di Medea.

‘Miseri pargoletti’ è un andantino grazioso in Fa maggiore non suddisivo in sezioni ma composto di tre frasi (da bb. 13, 23, 34) costruite fondamentalmente su successioni di quattro battute che ripetizioni interne e pause dilatano ancora una volta in modi imprevedibili a 9+9+8 con codetta finale.

La terza frase riprende, però, il materiale tematico della prima, così che si può individuare una strutturazione del periodo su frasi a b a'. a2+2+2+ 32b4 + 3 +22 a'2+2 (+1)+32 coda80 I-V-I i-v-i I-V-I. Un’improvvisa modulazione a Re minore segnala l’altrettanto improvviso risorgere della furia di Medea: la madre si riscuote dall’ultimo momento di tenerezza e scaccia con orrore i figli. Questa sezione è in «Agitato» più per il piglio ritmico della musica che non per la frantumazione del tessuto metrico, tutto -- La predilezione di Mayr per movimenti che consistono di singole melodie costruite con gruppi di tre frasi è indicata da Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria -- sommato costruito invece regolarmente su due frasi di 4 + 4 battute; dopo un ulteriore, ma breve, frase del coro ‘da dentro’ essa conduce infine all’ultima sezione in La maggiore. Qui cinque frasi bilanciate, a4 a'4 b4 b4 c4 +11 (rispettivamente da bb. 28, 34, 38, 42, 46), precedono una lunga sezione cadenzale di una trentina di battute, cui si aggiunge anche il coro, che, a mo’ di una coda invita la prima donna a sfoggiare tutte le sue potenzialità vocali.

Il centro d’interesse vocale e drammatico è decisamente spostato su quest’ultima sezione: delle cinque frasi iniziali, infatti, le prime (a-a') hanno carattere introduttivo, perché basate su figurazioni di note ribattute, le altre due (b-b'), vera sostanza motivica della sezione, sono una ripetizione speculare ciascuna dell’altra, l’ultima è invece costruita su un breve inciso d’una battuta, ripetuto 3 volte di seguito e una quarta volta dopo una lunga zeppa vocalizzata. Se si ignorasse l’importanza retorica e vocale della coda, una sezione di ben 65 battute finirebbe dunque per reggersi su un motivetto di sole 4 battute. Anche quest’aria conferma come la scrittura di Mayr si regga sull’equilibrio di due variabili principali: sostanza melodica ampia e organizzata su temi pregnanti (lyric form della cavatina introduttiva di Medea) e/o articolazione formale di ampio respiro, che spesso annulla quasi la sostanza tematica. Spesso Mayr organizza allora le melodie in barform e sposta sulla sezione cadenzale virtuosistica l’interesse drammatico dell’aria. Lo si vede bene anche nelle due semplici arie di Egeo, delle quali basti per ora esemplificare la prima, ‘Io ti lasciai piangendo’, in Do maggiore: il testo è cantato in 28 battute di semplici frasi quadrate, vocalmente piane, mentre il maggior interesse vocale, armonico e melodico ricade sulle 18 battute di coda. a 2+2 + b 2+2 + codetta 3 a 2+2 + codetta3 + b 2+2 codetta 2 a 2+2+coda18.

L’idea avanza da Balthazar che Mayr sperimenti molte e diverse forme, mini decisamente le antiche convenzioni senza però stabilirne di nuove, presume una ricerca formale che probabilmente a Mayr era indifferente. Egli cercava --  Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two-Movement Aria -- piuttosto di conciliare l’equilibrio dell’aria settecentesca con la nuova estetica, che dall’opera esigeva movimento e animazione gestuale risolta in forme musicali. Le sezioni delle arie che programmaticamente rinunciano ad architetture formali coerenti, o quelle che a periodi ampi e ben articolati preferiscono movimenti irregolari, note ribattute e modulazioni imprevedibili, come la seconda sezione della seconda aria di GIASONE  e il primo centinaio di battute dell’aria di sortilegio di Medea, danno voce alle situazioni che, nella tradizione di Medea, discendevano a Romani e Mayr dal melologo e dalla musica di scena. La forma e la complessità delle sezioni in cui si articolano sono dunque conseguenza dell’azione drammatica ed affettiva oltre che della gestione del tempo teatrale riflessivo o lirico o monumentale. L’ampio spettro formale collegato alle mutevoli funzioni drammatiche svolte da ciascuna aria caratterizza anche i duetti. Dei tre sopravvissuti ai tagli operati a Napoli, solo il diverbio tra Medea e GIASONE  (n. 4) era un topos consolidato nella drammaturgia del mito di Corinto.

Nell’opera di Romani e Mayr costituisce il culmine emotivo del primo atto, così come il primo finale ne costituisce il culmine drammatico e narrativo. Mayr lo elabora in quattro parti con tempo d’attacco (Moderato, Si bemolle), cantabile (Largo, Mi bemolle), tempo di mezzo (Moderato, Si bemolle) e stretta (Moderato, Si bemolle), nella forma che di lì a poco sarebbe diventuta canonica. Ma non è tanto la strutturazione quadripartita a segnalare l’importanza drammatica del numero: come già abbiamo visto nelle arie, infatti, a dar rilievo a un numero contribuiva spesso soprattutto l’ampiezza della campata melodica. In questo caso le prime due quartine, rispettivamente di GIASONE  e Medea, sono intonate in ampie sezioni di 33 e 38 battute, ciascuna a sua volta suddivisa in due periodi di frasi essenzialmente di 3+3 battute, ma che, amplificati i primi da ripetizioni e code, e i secondi da codette conclusive, diventano rispettivamente di 5+8 e 3+14. Entrambe le sezioni sono caratterizzate dalla ripetizione del primo inciso, così che un analogo incipit della terza quartina crea l’attesa di una terza strofa e, quindi, la sorpresa per la violazione della norma appena impostata: nella terza strofa infatti i due sposi si suddividono i distici della quartina così da aumentare il ritmo dello scontro. La contrazione del tempo che ne consegue, e quindi, per lo spettatore, l’effetto di tensione e rabbia incalzante, prosegue anche dopo il cantabile, nella seconda sezione dialogica: il tempo d’attacco, Moderato in Ab, assegna prima due versi ciascuno, poi uno alternativamente a GIASONE  e a Medea; le diverse durate dei periodi sono ben calcolate da Mayr in vista dell’effetto scenico: più lenti quelli di Medea in lacrime, più rapidi e regolari quelli di GIASONE  irremovibile (13 e 5). Sulla strutturazione del melologo e sulla sua centralità nella drammaturgia di Medea in Italia tra fine Sette e inizio Ottocento, mi sono diffuso nel  precedente. Sui rapporti tra melologhi, musiche per azioni drammatiche e opera, cfr. Adrea Chegai, L’esilio di Metastasio. Forme e riforme dello spettacolo d’opera fra Sette e Ottocento cit., cap. IV (Il ballo per l’opera: analogie, contrasti, interscambi) e V (Spettacoli mezzani e nuove convenienze. Metastasio dopo Metastasio). battute per i due rispettivi distici della prima quartina, 5 e 2 bb. per il primo distico della strofa seguente).

Tale irregolarità fraseologica dei movimenti cinetici, calcolata sull’effetto drammatico e sulla mimesi delle reciproche situazioni sceniche – talvolta con veri effetti madrigalistici come le pause che spezzano le parole e il lungo vocalizzo di Medea sulle parole "versa pianto" –, non si riscontra nei movimenti statici, dove gli a parte consentono a Mayr di sovrapporre le voci e creare l’effetto mediante la varietà degli incastri e delle imitazioni canoniche più che con l’irregolarità dei periodi, tutti infatti regolarmente costruiti su 4 + 4 battute381. Il “gran duetto” di GIASONE  e Medea, com’è spesso chiamato nelle fonti, è l’unico duetto quadripartito, ben calibrato sull’alternanza cinetico/statico della “solita forma”, esattamente come il rondò di Medea alla fine del secondo atto. Come nel rondò, l’accelerazione metrica dell’ultima sezione non dà voce a una fase riflessiva, ma al concitato precipitare delle tensioni espresse nel corso del numero. In entrambi i casi, la ‘stasi’ di questa sezione sta dunque nell’interruzione della fase di ascolto e dialogo, nel sovrapporsi delle voci (o nel sopraggiungere del delirio, nel caso dell’aria solista), non nella sospensione temporale del tableau o nella mancanza di azione in scena, che invece si suppone frenetica. Gli altri duetti sono organizzati in forme più ridotte, adeguate a situazioni in cui I personaggi non si trovano in acceso scontro emotivo ma piuttosto confermano il reciproco rapporto: GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA come amanti, Medea e Egeo come alleati; sono numeri che non è improprio definire ‘duettino’, come spesso avviene almeno per il primo dei due. Nel primo duettino, GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA cantano nella forma già cara a Cimarosa: un andante per le prime due strofe parallele e un allegretto a due foggiato su una delle varianti della cabaletta con doppia enunciazione del tema --

L’altro sarebbe stato il dialogo tra Medea e Creonte inizialmente previsto da Mayr e Romani: al proposito cfr. il  primo. Anche Charles Brauner, Vincenzo Bellini and the Aesthetics of Opera Seria in the First Third of the Nineteenth Century cit., osserva che sebbene Mayr abbia utilizzato duetti in Quattro movimenti già in Ginevra di Scozia (1801) e in Telemaco (1797), tende generalmente a differenziare gli interlocutori; invece di adottare la pratica, comune in Rossini, di affidare ai personaggi quasi lo stesso materiale, riecheggia invece i primi metodi (descritti da Gervasoni e ascoltati talvolta nei duetti mozartiani) di scrivere temi correlati ma contrastanti che danno voce a diverse posizioni emotive.

L’idea è condivisa da Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini and the Development of the Opera seria Duet: Some Preliminary Conclusions che propone alcuni esempi mozartiani di questo genere. ‘Duettino’ è un duetto con testo identico, non dialogico: almeno così il termine è usato da Mozart e dagli autori a lui contemporanei, cfr. Sergio Durante, Mozart and the Idea of «Vera Opera»: A Study of «La Clemenza di Tito», PhD Harvard University. La spiccata melodia di cabaletta non apre la seconda sezione, ma viene enunciata solo da b. 26; la sua ripetizione (bb. 54 ss.) non implica la ripresa dell’intero periodo né dell’intera prima sezione. Nelle prime 25 battute, dopo una breve introduzione d’orchestra, vengono cantati i primi quattro versi dell’ultima sestina dell’aria, così che alla cabaletta non restano da intonare che i due versi conclusivi: i primi quattro sono poi utilizzati anche per la transizione tra le due riprese della cabaletta. Sebbene questa strutturazione inglobi sia il futuro tempo di mezzo sia la stretta, Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini and the Development of the Opera seria Duet la considera a tutti gli effetti una cabaletta: «Mayr set the final reflective stanza a due as a cabaletta and provided the full Nel secondo, ‘Se ’l sangue e la vita’, sebbene non siano ugualmente esposti conflitti sostanziali, la forma è più complessa. Un unico movimento Moderato è diviso in due sezioni: la prima, A, in Do maggiore (bb. 1-56), è costruita su frasi parallele tra Medea ed Egeo e si conclude su Sol maggiore, inteso come dominante della tonalità di impianto, la seconda, B (bb. 57- 144) conclude la cadenza in Do maggiore modula a La bemolle per poi chiudere nella tonalità d’impianto. In questa seconda sezione il testo è unico per entrambi I personaggi, così che Medea e Egeo possano unire immediatamente le voci con andamenti ora omoritmici, ora imitativi. Mentre la prima sezione ha struttura aperta, la seconda è costruita in una forma ternaria A-B-A'-coda. Come abbiamo visto per le arie di GIASONE , anche in questo caso il numero consente diverse interpretazioni formali: 1) lo si può intendere come duetto bipartito, A B, con B costruito a mo’ di stretta, con due riprese della cabaletta separate da un ponte.

Certo, la stretta non avrebbe ripresa testuale, ma, come abbiamo visto anche nella cavatina di Medea ‘Sommi dèi’ e nell’aria di PRINCIPESSA CREUSA, questo non è un dato molto significativo, vista la natura ‘componibile’ che in quest’epoca hanno la stretta e la cabaletta. Rispetto alla forma a due sezioni esemplificata dal duetto di PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE , si confermerebbe l’idea di una sorta di ‘tempo di mezzo’ dialogico che precede l’esposizione della cabaletta, sebbene manchi della prima sezione, ugualmente dialogica. 2) Non è neppure peregrina, quindi, l’idea di considerare la sezione B un tempo tripartito BCB'-coda, aperto da una sezione A introduttiva. L’improvvisa modulazione a La bemolle (bb. 82-83) introdurrebbe la sezione C, simile ad un cantabile il cui testo, in un a parte, canta l’amore non ancora estinto ma solo ricacciato ‘nel seno’.

Le diverse chiavi in cui è possibile leggere questo numero confermano ancora una volta che le scelte formali di Mayr hanno tendenzialmente sempre valore drammatico e non sono né adeguamento a stereotipi e convenzioni consolidate, né sperimentazioni gratuite. Il senso della struttura di questo duetto, infatti, si chiarisce solo se si considera la collocazione drammatica. Sebbene sia formalmente un numero a sé stante, preceduto da una scena in versi sciolti, esso conclude un’unità più ampia: la scena nel carcere di Egeo. Diverse considerazioni confermano che l’aria di Egeo ‘I dolci contenti’ e il duetto ‘Se ’l sangue la vita’ furono concepiti come polarità musicali d’un’unica scena: reprise of the principal theme that later became standard». È un tipo di duetto descritto anche da Friedrich Lippmann, Vincenzo Bellini und die italienische Opera Seria seiner Zeit. Lippmann lo ritrova già in Cimarosa negli anni ’80 del Settecento ed osserva come via via sia venuto ad assomigliare sempre più al duetto ottocentesco: comprende tutti e quattro i movimenti sia nel testo sia nella musica, sebbene le incorpori in uno schema lento/veloce binario. La prima sezione presenta proposizioni parallele e un primo passaggio di riflessione simultanea; la seconda, un passaggio lirico cantato a due con ripetizione a mo’ di cabaletta del tema principale. L’organizzazione in due movimenti di un testo originariamente composto in quattro sezioni ha il vantaggio di sottolineare le fasi di interazione e riflessione del dramma, di articolare le divisioni interne.

1) l’aria del tenore sta alla dominante della tonalità d’impianto del duetto; anche quando dovette essere abbassata, come accadde probabilmente a Bergamo e alla Scala, la si trasportò alla sottodominante così da conservare un percepibile rapporto tonale col duetto.

2) l’aria è in semplice forma ternaria, con ricapitolazione semplificata e breve coda: in questa forma suona piuttosto come cavatina introduttiva ad un numero drammatico e musicale di maggior rilievo. A sua volta il duetto di complotto da solo avrebbe reso troppo dinamica e propulsiva la scena di prigione e violato una tradizione che voleva qui l’espansione del dolore patetico. Il duetto sembra allora bilanciare, con l’estensione della veloce sezione finale, il lamento di Egeo nell’aria che lo precede.

3) secondo la tipologia delineata da Daniela Tortora, ancora all’epoca rossiniana le scene di prigione includevano spesso un numero variabile di pezzi (da uno a tre); I personaggi cantavano forme complesse articolate in più sezioni, con ampi inserti di recitativi drammatici e a volte con soluzioni tonali inusuali

4) ‘I dolci contenti’ è l’unica aria in tempo cantabile per la quale non è mai stato previsto un rapido movimento conclusive. Neanche a Bergamo e Milano, dove pure all’aria di Egeo del prim’atto fu aggiunta la cabaletta ‘Ma se mi lacera’

5) a Londra, Napoli 1826, Milano 1829, quando s’era ormai affermata la sostituzione del duetto ‘Se ’l sangue la vita’ con quello in Si bemolle tratto da Adelasia e Aleramo ‘Ah d’un’alma generosa’ operata da Giuditta Pasta, l’aria di Egeo fu soppressa: il nuovo duetto, tripartito, presentava chiaramente dopo la sezione a strofe parallele un ripiego lirico nel cantabile ‘Andante grazioso’ e un’ampia sezione virtuosistica nella stretta ‘Allegro con brio’ col che poteva ben colmare da solo la scena di prigione. L’articolazione più complessa di quest’ultimo si spiega col fatto che in origine esso era stato concepito come duetto oppositivo per dar voce ad un alterco tra nemici

6) nemmeno i versi sciolti tra l’aria e il duetto impediscono a rigore d’intendere I due numeri come parti d’una sola unità drammatica.

La convenzione di suddividere -- La funzione retorica della stretta è ben dichiarata da Pietro Lichtenthal, Dizionario e bibliografia della musica cit. quando osserva come essa sia «una specie di perorazione, una parte essenziale del discorso musicale» nei pezzi più impegnati dell’opera (cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. La scena del carcere di Egeo rispetta altri parametri della convenzione studiata da Tortora: avvia lo scioglimento ed è quindi vicino al blocco di scene relative alla catastrofe; è luogo oscuro ed orroroso rappresentato dalla musica con ritornelli, preludi e introduzioni strumentali che amplificano il disagio del personaggio.

Non rispondono alla consuetudine dell’epoca rossinana, invece, l’assenza del coro e il fatto che il recluso non sia il protagonista femminile (ma anche in Elisabetta il recluso è uno dei due primi tenori). Le due strofe di senari aggiunte a Bergamo sono intonate la prima come tempo di mezzo, la seconda come vera e propria stretta di stampo rossiniano, in due sezioni a-a’ separate da una transizione che riprende parzialmente il testo poetico della prima strofa. 387 Su questa forma di duetto cfr. Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini and the Development of the Opera seria Duet: Some Preliminary Conclusions cit.

Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio osserva che adottando il concetto di unità scenic è possibile in alcuni casi ricomporre all’interno di un unico organismo, situazioni scenico-musicali differenti con questo espediente metrico non doveva essere ancora totalmente consolidato, come dimostra il terzo movimento del duetto ‘Giura, che I passi miei’ del Telemaco (1797) del medesimo Mayr. Posta in questi termini, la scena di prigione avrebbe una prima sezione patetica nell’aria di Egeo, e una seconda sezione nel duetto suddiviso tra parte dialogica e stretta: sarebbe dunque sostanziamente analoga alla scena d’amore tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA. Si presentano allora situazioni formali e sceniche molto sfumate. Se quello tra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA è un duetto lirico, utile a formalizzarposizioni drammatiche già affermate nel precedente recitativo, il duetto di Medea e GIASONE  è più integrato nello sviluppo del dramma, espone, intensifica e ridirige il conflitto, e ne genera di nuovi: da questo punto di vista, è un prototipo dei duetti dei decenni successivi.

Il duetto di Medea ed Egeo ‘Se ’l sangue la vita’, infine, è l’esempio di un caso intermedio, un tipo di duetto descritto da Carlo Gervasoni e Alexandre Choron nel primo decennio del secolo: una forma in due sezioni, la prima di dialogo, che spesso prende la forma di proposizioni parallele (nella medesima tonalità o in tonalità differenti), la seconda che comprende canto simultaneo in terze e seste o almeno uno scambio più serrato tra i cantanti.

Anche dopo aver sperimentato in Telemaco e Ginevra di Scozia392 le forme che saranno poi standardizzate da Rossini, insomma, Mayr continuò a scrivere duetti in svariate fogge393. dotato di propria continuità di senso drammatico, ciò che formalmente in partitura appare segmentato e inserito in numeri distinti». Tortora stessa trae, comunque, l’idea di “unità scenica” da David Rosen, How Verdi operas begin: An introduction to the Introduzioni, in Tornando a Stiffelio. Popolarità, rifacimenti, messinscena, effettismo e altre “cure” nella drammaturgia del Verdi romantico, a cura di G. Morelli, Firenze, Olschki, Charles Brauner, Vincenzo Bellini and the Aesthetics of Opera seria in the First Third of the Nineteenth Century Cfr. Scott L. Balthazar, Evolving Conventions in Italian Serious Opera: Scene Structure in the Works of Rossini, Bellini, Donizetti, and Verdi, 1810-1850, University of Pennsylvania. Imperocché rade volte succede che la situazione dei due attori sia perfettamente d’accordo onde debbano essi esprimere i loro sentimenti in egual modo. Quindi costumasi d’ordinario un canto alternativo, per far intendere le due parti separatamente, non meno che per dare a ciascheduna la propria espressione. Accade finalmente nella conclusione del duetto teatrale di dover riunire due sentimenti unanimi, o il vivo e rapido abbattimento di due sentimenti opposti. In questi casi le diverse commozioni dell’animo agitato scorrono da ambe le parti in una sola volta, né lasciano luogo al dialogo.

Di qui nasce poi la necessità di rinvenire un canto che sia suscettibile d’un progresso per terze o per seste, e disporlo siffattamente, che da una parte si possa sentire il pieno suo effetto, senza smarrire dall’altra il sentimento» (Carlo Gervasoni, La scuola della musica in 3 parti divisa citato da Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini and the Development of the Opera seria Duet: Some Preliminary Conclusions cit., p. 395). 392 Cfr. Charles Brauner, Vincenzo Bellini and the Aesthetics of Opera seria in the First Third of the Nineteenth Century cit. Secondo Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini, and the Development of the Early Concertato Finale però, è ancor più flagrante la somiglianza con le strutture rossiniane del duetto di Zamorano e Idalide ‘Ah, per chi serbai finora’, negli Americani, atto I (1806). Ritengo quindi tutto sommato superfluo chiedersi, come fa Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini and the Development of the Opera seria Duet: Some Preliminary Conclusions come si sia passati dalla forma bipartita descritta da Gervasoni a quella quadripartita in “solita forma”, visto che entrambe svolgevano compiti e ruoli drammatici diversi. Semmai si può osservare come nell’Ottocento più avanzato i duetti s’incarichino di esprimere una conflittualità più accesa e -- Dopo la soppressione del duetto tra Medea e il sovrano Creonte operata a Napoli, la crisi coniugale tra Medea e GIASONE  assume dimensione pubblica solo nei finali.

Solo in essi gli omicidi perpetrati da Medea conservano valore mitico universale, senza ridursi al dramma intimistico che la vicenda avrebbe invece assunto a metà Ottocento395. I due finali sono allora veri e propri drammi conchiusi, vere piccole commedie in se stesse, secondo I criteri che guidavano le composizioni poetiche di Lorenzo da Ponte. L’esigenza di costruire nel primo atto un adeguato pendant pubblico al dramma di gelosia di Medea spinse Mayr e Romani a elaborare una situazione drammatica solenne, nella quale rapidi gesti sacrileghi avessero forza iconoclasta: l’abbattimento dell’altare, la profanazione dei soldati nel tempio, l’arresto della famiglia reale e la fuga del popolo si susseguono in un crescendo di colpi di scena.

Le esigenze della tradizione testuale di Medea, insomma, si sovrappongono alle convenzioni praticate al San Carlo dopo il Pirro di Paisiello e le rovesciano: così, mentre nel Finale di quest’ultimo, uno dei primi in più movimenti, prevalgono largamente le sezioni riflessive su quelle dinamiche, in Medea in Corinto il dramma pubblico si consuma quasi senza introspezione. Il Finale del Pirro è tripartito, a sezione centrale contrastante per tempo e metro. Nessuna sezione è tonalmente chiusa ma l’unità tonale è assicurata a livello macroformale complessivo. Dal punto di vista narrativo presenta una sola peripezia (il tentativo di omicidio di Pirro e la falsa accusa a Polissena), risolta in non più di 5 delle 370 battute. Nella Medea in Corinto Mayr sceglie altre formule, diverse anche da quelle da lui stesso praticate fin dal 1800, quando il Finale complesso era già diventato un tratto costante nelle sue opere serie – da quando cioè aveva cominciato a collaborare preferibilmente con librettisti della generazione successive acquistino di conseguenza via via maggior peso drammatico, tanto da rendere prevalente e poi esclusivo il modello in “solita forma”.

Al proposito cfr. Marco Emanuele, L’ultima stagione italiana. Le forme dell’opera seria di Rossini da Napoli a Venezia, Torino, Passigli. Ma già Carlo Ritorni, Gli ammaestramenti alla composizione d’ogni poema e d’ogni opera appartenente alla musica, Milano, Fontana, 1841 osservava l’utilità del coro, quindi del finale, per dare all’opera seria un tono epico: cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. Anche l’unica reazione all’omicidio della principessa PRINCIPESSA CREUSA, in Medea in Corinto, è affidata al lamento, privato, di GIASONE  nell’aria ‘Amor, per te penai’. Alle riletture intimistiche nelle Medee ottocentesche accenno nel  precedente, in particolare nei casi, come Grillparzer e Lamartine, che prevedono la scena di intimità e confidenza tra PRINCIPESSA CREUSA e Medea. 396 Cfr. Sergio Durante, Mozart and the Idea of «Vera Opera»: A Study of «La Clemenza di Tito» cit., p. 262. 397 Cfr. Sergio Durante, Mozart and the Idea of «Vera Opera»: A Study of «La Clemenza di Tito». Tutte le 33 opere serie di Mayr presentano concertati finali come parte integrante della struttura: possono avere le sezioni combinate in un unico movimento, o altre sezioni interpolate tra esse: cfr. Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini, and the Development of the Early Concertato Finale a quella di Sografi e Gonella399. Nelle sue opere successive a Saffo (1794), di solito i finali sono:

1) divisi in fasi separate di movimento e stasi, ciascuno fornito di una sezione di interazione di assoli paralleli o di dialogo e un’altra introspettiva, di solito cantata simultaneamente quando vi partecipi più di un personaggio;

2) i contrasti nello stile compositivo tendono a rinforzare queste opposizioni: le intonazioni dei testi interattivi adottano tecniche declamatorie, “parlanti”, mentre quelle dei testi contemplativi sono spesso più liriche, secondo il principio che Platoff;

3) come nei duetti e nei finali comici (e diversamente dalla tarda pratica di Rossini) Mayr sviluppa normalmente la sezione conclusiva riflessiva (la stretta) invece di quella intermedia (concertato): così che, anche qui, a livello macroformale le strutture musicali sono accentate verso la fine.

Di questi tratti generali, i due finali di Medea in Corinto conservano sostanzialmente solo l’ultimo: prevedono infatti una grande espansione delle strette conclusive, che danno suono e voce al fuggi fuggi generale; il primo è conseguente all’apparire dei soldati di Egeo e allo scontro tra essi e la famiglia reale di Corinto, il secondo alla confessione dell’infanticidio da parte di Medea. Gli atti chiudono così con sezioni dinamiche ed incalzanti, e non lirico-riflessive. I numeri conclusivi d’altronde sono interamente concepiti come episodi d’azione. Il primo prevede un concertato molto breve a cui si arriva progressivamente, dopo due strofe di coro cerimoniale d’apertura e una sezione dialogica. Mayr concepisce questa sezione non solo come avvicinamento al cantabile, ma come vera e propria unità drammatico-musicale
costruita con strofe parallele analogamente intonate, circolari dal punto di vista tonale (Do-Sol-Do) e dal punto di vista tematico: nella terza strofa la conclusione della melodia di PRINCIPESSA CREUSA riprende il tema d’apertura cantato ad esordio della prima di Creonte.

Chiuse in questo circolo armonico e tematico le tre strofe della famiglia reale di Corinto – GIASONE  è già stato accolto tra i suoi membri –, resta effettivamente a parte la quarta strofa, cantata a due da Medea ed Egeo: è eccentrica sia dal punto di vista tematico, perché non ha alcuna parentela con quanto precede, sia armonico, perché collocata in altro ambito tonale (Do minore-La bemolle), sia metrico, perché costruita su frasi di 5 + 5 battute invece che di 3 o 4 come nelle prime tre strofe di ottonari. La ripresa del coro cerimoniale d’apertura, prevista dal libretto, è scritta per esteso in partitura; nel prosieguo delle strofe di ottonari tra le prime parti, prescritto a cinque da Romani dopo il refrain del coro, Mayr riprende la modalità strofica: ignora insomma la 399 Prima del 1800 a Milano si preferivano Finali complessi mentre a Venezia no (e infatti la Lodoiska milanese complica un finale originariamente semplice). Dopo quell’anno, invece il Finale complesso si era affermato anche nella città lagunare. Tre dei librettisti di Mayr, Foppa Sografi Gonella, si erano affermati ben prima che Mayr cominciasse a comporre e non avevano dimostrato alcun interesse per questa forma. Sografi lo usa solo due volte su 17 libretti (le due opere per Milano strutturazione del libretto e, anziché far cantare il giuramento di fede nuziale dagli sposi uniti, lo fa ripetere a turno testualmente, sia dal punto di vista poetico che musicale, prima da GIASONE , con controcanto a parte di Medea, poi da PRINCIPESSA CREUSA e Creonte, a terze paralle, con controcanto a parte di Egeo; solo dopo che sono state così cantate le tre strofe previste da Romani, il reciproco giuramento è solennizato da una lunga sezione di 25 battute a cinque strutturata a frasi ripetute aabbcc400, che per stabilità armonica e povertà tematica suona come coda conclusiva della sezione. La ripresa del coro iniziale, questa volta non testuale e cantata in Sol maggiore, dovrebbe concludere la cerimonia se non fosse interrotta dall’intervento di Medea che rovescia l’altare e terrorizza il popolo: a Medea basta una frase di otto battute per commettere il delitto e tre frasi in costante contrazione metrica, per cantare i sei versi di minaccia.


Come si vede in queste semplici battute, nei finali di Mayr prevale una logica di tipo additivo che tende di volta in volta ad esaurire il contenuto delle singole situazioni giustapposte e a consumarne la carica drammatica senza spingere in avanti, anticipandola, l’azione. Questo vale sia per la costruzione di singole frasi sia per le principali sezioni formali: grazie alle tecniche imitative, esse sono spesso costruite per somma di pochi incise tematici principali. Il Concertato che segue questo ampio e variegato tempo d’attacco, per esempio, è diviso in due sezioni, la prima costruita sull’esposizione di un periodo di 4 + 9 battute; la seconda, invece, su una melodia di 11 battute complessive, trattata con procedimenti imitativi che combinano incisi tratti dalle due frasi della prima sezione (es. 17). Sebbene il codice formale del Finale rossiniano sembri già delineato, soprattutto per la polarità tonale impostata sul Do maggiore prevalente e il La bemolle del concertato, fra I pilastri principali della struttura tutte le sezioni hanno un assetto ben diverso da quello che si affermerà pochi anni dopo: il processo di accumulo di materiale messo in opera da Mayr privilegia di gran lunga il tempo d’attacco e la stretta, almeno per dimensioni complessive. Come si vede dallo schema, le molte sezioni in cui è articolato il tempo d’attacco necessitavano di un adeguato contrappeso a ridosso della fine dell’atto per chiudere il sipario in una situazione drammatica aperta e togliere l’illusione di stabilità imposta dalla cerimonia nuziale401: precedenti al 1800). Su tutto questo cfr. Scott L. Balthazar, Mayr Rossini, and the Development of the Early Concertato Finale -- Charles Brauner osserva giustamente come questo non sia uno schema usuale per le sezioni lente: in effetti l’intera sezione a 5 non è la sezione concertata del finale, ma solo l’amplificazione solenne del reciproco giuramento di GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA: Brauner definisce questa costruzione strofica con coda «cumulative strophic ensemble» (Charles Brauner, Vincenzo Bellini and the Aesthetics of Opera Seria in the First Third of the Nineteenth Century. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio osserva che nella partitura della Donna del Lago non c’è una musica che accompagni il movimento del coro previsto dalla Coro Larghetto (Fa). C tagliato. TEMPO D’ATTACCO Moderato Do-Sol-do-Lab, C Coro Larghetto Fa, C tagliato Andante, Si bemolle ¾ Coro/Medea Allegro vivace Sol, C Medea/Coro, Allegro vivace, Mi bemolle, C CONCERTATO Andante, La bemolle, C TEMPO DI MEZZO [Andante, La bemolle-Do, C] STRETTA Allegro vivace, Do, C Il concertato è ridotto a poco più di una frase tematica sviluppata con scrittura contrappuntistica e senza forma coerente. Un rapidissimo tempo di mezzo modula e in 10 battute torna dal La bemolle del concertato al Do maggiore.

La stretta conclude, infine, in una settantina di battute in Allegro vivace il Finale I: come il cantabile, anch’essa è costruita su un lungo fugato, senza articolazioni o riprese interne, elaborato su una semplice frase di dieci battute. Mentre i personaggi principali si alternano e ripetono nella massima irregolarità frammenti di questa frase iniziale, il coro insiste con regolari interventi omoritmici di due/quattro battute, dall’armonia molto regolare: garantisce così coerenza formale alla sezione ed evita che la pagina musicale si frantumi in effetti sonori dispersivi. Il procedimento lo si trovava già nella GIASONE E MEDEA  di Cherubini e lo si ritroverà ancora nella Zelmira di Rossini, sempre con effetto descrittivo del disperdersi della folla. Il Finale I di Medea in Corinto dimostra come l’articolazione in quattro sezioni fosse stato l’approdo del vecchio duetto bipartite tardosettecentesco, dopo che erano state acquisite le articolazioni in più movimenti elaborate nell’opera comica: come nel duetto descritto da Choron e Gervasoni, I pilastri principali del numero sono infatti una serie di strofe parallele dei protagonisti e una seconda sezione a ritmo incalzante e fugata dove tutti gli attori presenti in scena cantano simultaneamente. La funzione tutto sommato accessoria in cui Mayr relega il concertato e il tempo di mezzo è evidente anche nel Finale II dove le due sezioni intermedie sono del tutto assenti. TEMPO D’ATTACCO didascalia del libretto alla fine dell’atto I; in Medea in Corinto, invece, sebbene la musica termini con le ultime battute del coro, senza coda orchestrale, il coro stesso è in grado di reggere e scandire tutti I frenetici movimenti previsti dalla didascalia scenica di Romani. Cfr. Marco Emanuele, L’ultima stagione italiana. Le forme dell’opera seria di Rossini da Napoli a Venezia. Ma l’idea del fugato come descrizione di una folla che si disperde si trovava già nelle Storie bibliche di Johann Kuhnau o nei mottetti concertati secenteschi. Sull’analogia dei movimenti di apertura e chiusura dei numeri in più sezioni con gli originari movimenti bipartiti, cfr. anche Scott L. Balthazar, Mayr and the Development of the Two- Movement Aria. Allegro agitato, Do minore, C [Allegro agitato], Do maggiore-Mi bemolle-, C STRETTA Allegro vivace Re minore 6/8 Certo, le dimensioni più ridotte di questo numero rispetto al precedente si giustificano col fatto che la vera conclusione dell’opera è collocata, come spesso avviene, subito prima della scena finale, nel Rondò della prima donna404; il Finale II, conferma però che le 112 battute di fugato conclusivo servono a controbilanciare la lunga serie di strofe parallele (141 battute) che contraddistingue, qui come nel Finale I, il tempo d’attacco.

Tanto questo è definito, dal punto di vista tematico e dal punto di vista drammatico, tanto l’altro è indefinito e tematicamente inconsistente: i Finali sono insomma veri drammi nel dramma, che definiscono e sviluppano situazioni diverse dei personaggi per poi liquidare le tensioni accumulate.

Esistono due tipi di introduzioni.

Uno e basato sull’uso del coro cui si aggiunge un personaggio comprimario e se ne forma un completo pezzo, sebbene secondario ne’ suoi esecutori.

L’altro, l’introduzione squisita che nell’includere uno o più personaggi principali diviene un composto quadro musicale che nella gradazione delle parti tien il carattere della grande scena.

Le indicazioni proposte da Ritorni sulla natura, sulla struttura e sulla funzione del numero introduttivo nell’opera in musica del primo Ottocento non calzano nel caso di Giasone e Medea in Corinto405. In essa Romani aveva chiaramente ricalcato modelli francesi tratti dal libretto che Hoffman stese per Cherubini406, eccentrici rispetto alle consuetudini italiane.

Come dimostrato nell’analisi del libretto, infatti, in entrambe le Medee l’esordio prevede la principessa in ambasce d’amore accudita e consolata dal coro di damigelle che provano a rassicurarla sulla sua felice sorte. L’introduzione si configura insomma come dialogo tra coro e comprimaria, ed evita quindi sia le forme della «proemiale cerimonia» destinata a Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. Tortora osserva che, «qualunque sia l’esito del dramma, lieto o tragico … esso richiede comunque un momento forte, carico dal punto di vista drammatico, che funga da raccordo, da ‘riduttore’ tra tutto ciò che è accaduto prima (mi riferisco alle altre parti dello scioglimento) e ciò che costituisce l’ultimo gesto, perlopiù squisitamente musicale, dell’intera vicenda». È un fatto di enorme importanza nell’economia della materia drammatica all’interno dell’ultimo atto e dell’opera tutta: il momento cruciale, fondante dell’intera unità non coincide con l’ultimo numero, o meglio, con la parte terminale dell’ultimo numero, ma si situa al di qua delle battute conclusive della partitura. In altre parole il baricentro dell’atto non è spostato, come nel caso della prima unità, verso il numero conclusivo, … ma lo precede seppure di pochissimo, o semmai ne costituisce la parte iniziale». Ritorni, Ammestramenti; sulla questione cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio che dà alcune indicazioni sul numero introduttivo. Romani rispetta invece perfettamente le convenzioni sui numeri che seguono l’introduzione: «Dopo l’introduzione bisogna pensare alle così dette sortite de’ primari personaggi, le quali sogliono dar luogo ordinariamente a tre cavatine,precedute da breve recitativo, e più spesso ex abrupto …. Qualche volta ed è il nostro caso si concerta un duetto fra due primi, avantiché esca il terzo personaggio colla cavatina» (Carlo Ritorni, Ammaestramenti), ma cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio ritardare l’avvento dell’azione vera a propria, con il conseguente fasto musicale e ricchezza scenica, sia quelle del «modesto principio» invocato per «far pianamente narrare di che si tratta.

Il trattamento del segmento introduttivo nell’opera rossiniana avrebbe previsto, accanto al contenuto parzialmente espositivo, l’inclusione di frammenti d’azione o lo svolgimento di intere sequenze dinamiche, che avrebbero sovvertito sostanzialmente l’equazione tardo settecentesca dell’introduzione come situazione statica408. Ma la tradizione testuale di Giasone e Medea in Corinto consentiva d’accostare un comprimario al coro e di avviare così l’opera con un numero musicale complesso, su un nodo affettivo cruciale, senza impegnare necessariamente la prima donna o il primo uomo. Mayr e Romani articolano allora il numero in quattro sezioni e prevedono che PRINCIPESSA CREUSA s’aggiunga all’ultima delle tre strofe del coro, così da fare del brano corale una sorta di tempo d’attacco. Cavano poi un’aria per PRINCIPESSA CREUSA, i cui due movimenti lento/veloce sono separati da un lungo tempo di mezzo dialogico. Coro e poi PRINCIPESSA CREUSA (Moderato, Fa maggiore) I (Allegretto, Fa maggiore) TEMPO DI MEZZO (Moderato, Si bemolle) STRETTA (Allegretto con moto, Fa maggiore) Parrebbe una aria in “solita forma” regolare, ma è difficile indentificare un cantabile nel primo movimento successivo al coro, vista l’indicazione ‘Allegretto’ e il ritmo propulsivo che lo caratterizza; difficile anche riconoscere nella sezione conclusiva una vera stretta, visto che si presenta piuttosto strofica col tema cantato in apertura da PRINCIPESSA CREUSA, immediatamente ripetuto da Creonte e amplificato poi da una lunga coda. La suddivisione in due parti dell’aria e l’ampia espansione del dialogo a strofe parallele del tempo di mezzo sono però chiaramente delineate e conciliano ottimamente esigenze espressive (l’ansia di PRINCIPESSA CREUSA), retoriche (frizzante apertura dello spettacolo e adeguato contraltare alle note tragiche dell’overture prevalentemente composta in Re minore), informative (dialoghi che spiegano la situazione del mito dalla quale muove lo spettacolo. Carlo Ritorni, Ammaestramenti.

Diverrà così uno degli ambiti privilegiati per la creazione di un momento forte, capace di dare avvio all’azione drammatica se non altro in termini di contrapposizione affettiva; frequente sarà anche l’inclusione di un personaggio che dissente, il cui sentimento non risulti omologato al clima festoso e/o funesto dello scenario circostante: cfr. Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio cit., Sulle introduzioni settecenesche, sebbene in altri àmbiti stilistici, cfr. Stefan Kunze, Per una descrizione tipologica della «introduzione» nell’opera buffa del Settecento e particolarmente nei drammi giocosi di Carlo Goldoni e Baldassare Galuppi, in Galuppiana, Studi e Ricerche. Atti del Convegno internazionale (Venezia), a cura di Maria Teresa Muraro e Franco Rossi, Firenze, Olschki, Philip Gossett, Gioachino Rossini and the Conventions of Composition, in «Acta Musicologica», XLII, sosteneva che l’introduzione rossiniana ha una struttura ternaria, con sezione d’apertura riservata al coro e includente uno dei personaggi comprimari, un Per il resto sono qui presenti altri criteri convenzionali delle introduzioni rossiniane: l’introduzione è tonalmente coesa; non compare la protagonista, così che il numero introduttivo resta al di qua dell’azione vera e propria; il coro, sebbene femminile e non maschile come vorrà l’uso successivo all’affermazione dello standard rossiniano410, è presente e resta in scena anche durante il recitativo successivo all’introduzione. Quanta attrazione abbia esercitato il modello rossiniano perfino sui più autorevoli maestri della generazione appena precedente, è evidente dalla regolarizzazione che l’introduzione di Medea in Corinto subì nell’allestimento scaligero del 1823, poi adottata anche in quello al Carcano del 1829. La stretta originaria rimase intatta, ma venne circoscritta da una nuova cabaletta, con tanto di ripresa. Nei teatri milanesi l’Allegretto con moto cominciò infatti con una nuova melodia di Creonte, ‘Vederti felice d’un prode consorte’, che in 22 battute cantò una nuova lassa di otto versi, prima che PRINCIPESSA CREUSA potesse intonare il suo ‘Ah!, splenda propizio’.

La vecchia stretta divenne una lunga transizione al termine della quale Creonte ripeté la cabaletta iniziale prima che tutti si siano uniti a lui nella coda conclusiva del numero. È evidente che in questo modo la voce di Creonte assunse maggior rilievo nell’economia dell’introduzione: fu d’altronde una conseguenza del nuovo assetto del numero, inteso a concedere più spazio alla voce di basso, trascurata nelle prime rappresentazioni napoletane. Anche il tempo di mezzo, infatti, venne sostituito: un Allegro dell’intero coro introdusse una cavata di Creonte (Maestoso). In 26 battute di melodia aperta il sovrano cantò i sei versi che annunciano alla principessa la vittoria di GIASONE  e il favore paterno alle sue nozze con l’eroe. movimento lento (cantabile) per la presentazione di un personaggio principale, cui fa seguito una cabaletta (terza sezione) con aggiunta di coro e di altri eventuali personaggi presenti in scena. Secondo Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio cit., già nell’opera rossiniana vi erano però trope eccezioni a questo modello per poterlo considerare standard. L’assenza di vere e proprie cabalette e la sostanziale sostituzione del cantabile con un numero propulsivo in ritmo ternario confermerebbero che almeno nel 1813 la convenzione di cui parla Gossett era ancora assai poco consolidata. 410 Anche questo spiega perché il Teatro della Società di Bergamo nel 1821 ritoccò le introduzioni per trasformare il coro da femminile a maschile. Rispetto allo standard rossiniano ricostruito da Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio cit., nell’introduzione di Medea in Corinto mancano anche cavatine tenorili. Le Opere serie allestite al San Carlo di Napoli tra l’arrivo di Giuseppe Bonaparte e la caduta di Murat412 1806-1807 sono: Artemisia di Marcello Marchesini e Domenico Cimarosa, Il trionfo di Tomiri di Filippo Cammarano e Gaetano Andreozzi, Elisa di Gaetano Rossi e J. Simon Mayr, Climene di C. De Palma – Giuseppe Farinelli, 1807-1808, Aristodemo di Gaetano Rossi e Stefano Pavesi, Orazi e Curiazi di Antonio Simone Sografi e Domenico Cimarosa, Penelope di Giuseppe Maria Diodati e Domenico Cimarosa, I Pittagorici di Vincenzo Monti e Giovanni Paisiello, Edipo a Colono di Nicolas François Guillard (tr. G. Schmidt) e Antonio Sacchini, Trajano in Dacia di Michelangelo Prunetti e Giuseppe Niccolini, 1808-1809, Argete di Francesco Gnecco, Giulietta e Romeo di Giuseppe Foppa e, Nicola Zingarelli, Giulio Sabino di Gabriele Rossetti e Giovanni Battista De Luca, La clemenza di Tito del Metastasio e Wolfgang A. Mozart, Aristodemo di Gaetano Rossi e Stefano Pavesi, 1809-1810, Annibale in Capua (missing line) Bajazet di Piovene e Giovanni Battista De Luca, Cesare in Egitto di Giovanni Schmidt e Giacomo Tritto, 1810-1811, Marco Albinio in Siria di Giacomo Tritto, Adelasia e Aleramo di Foppa e J. Simon Mayr, Odoardo e Cristina di Giovanni Schmidt e Stefano Pavesi, La conquista del Messico di Luigi Romanelli e Ercole Paganini, 1811-1812, La Vestale di De Jouy-Schmidt e Gaetano Spontini, Pirro di Giovanni De Gamerra e Giovanni Paisiello, Il salto di Leucade di Mosca e Schmidt, 1812-1813, Ifigenia in Aulide di Gluck e Du Roullet-Schmidt, I Manlii di Giovanni Schmidt e Giuseppe Niccolini, Ecuba di Giovanni Schmidt e Nicola Manfroce, Zaira di ? e Vincenzo Federici, Gaulo ed Oitona di Leopoldo Fidanza e Pietro Generali, Nefte di Andrea Leone Tottola e Valentino Fioravanti, I riti d’Efeso di Gaetano Rossi e Giuseppe Farinelli, 1813-1814, Marco Curzio di Giovanni Schmidt e Luigi Capotorti, I Manlii di Giovanni Schmidt e Giuseppe Nicolini. L’elenco è tratto da Elvidio Surian, Organizzazione, gestione, politica, teatrale e repertori operistici a Napoli e in Italia, 1800-1820 cit., e dalla cronologia del San Carlo in Il Teatro di San Carlo, cit., I riti d’Efeso di Gaetano Rossi e Giuseppe Farinelli, La Vestale di de Jouy-Schmidt e Gaspare Spontini “Giasone e Medea in Corinto” di Felice Romani e J. Simon Mayr, I baccanali di Roma di Andrea Leone Tottola e Giuseppe Niccolini, Partenope di Antonio Maria Ricci e Giuseppe Farinelli, Donna Caritea di Paolo Pola e Giuseppe Farinelli, 1814-1815, “Giasone e Medea in Corinto” di Felice Romani e J. Simon Mayr I Manlii di Giovanni Schmidt e Giuseppe Nicolini, La Vestale di de Jouy-Schmidt e Gaspare Spontini, Donna Caritea di Paolo Pola e Giuseppe Farinelli, Ginevra di Scozia Gaetano Rossi e J. Simon Mayr, Alonso e Cora di P. Antonio Bernardoni e J. Simon Mayr, Sargino di Giuseppe Foppa e Ferdinando Paër La morte di Semiramide di Sebastiano Nasolini. La Ricostruzione dello schema dell’opera precedente ai tagli napoletani del 1813 e cosi. Nei faldoni dell’archivio Mayr conservati alla Biblioteca civica di Bergamo si trovano diversi fogli sciolti con recitativi previsti nell’opera Medea in Corinto, che tuttavia non vennero compresi né nel libretto né nelle partiture manoscritte. Un primo documento413 indica il progetto di un trio tra GIASONE , Creonte ed Egeo; il testo del recitativo precedente venne parzialmente accolto nelle scene edite sì, ma per brevità non cantate, del libretto napoletano del 1813 (I,12): Dopo la sortita di Egeo. Subito. CREONTE Principe, tutto è pronto in pochi istanti con vincolo d’amore a me stretto sarai. GIASONE  La man di sposo a PRINCIPESSA CREUSA porgendo oggi son io doppiamente felice perché padre, o signor, dirti mi lice. CREONTE A Medea favellasti? Il suo decreto come ascoltò? GIASONE  Come ascoltar lo puote colpevol donna, che sdegnati i numi ai rimorsi fan serva. Ella mi accusa de’ suoi delitti e degli affanni suoi. Ma perché mai tu vuoi di lei parlando funestarmi, o sire, questo felice dì? CREONTE Di lei si taccia: nulla mi cal purché a partir sia presta. A PRINCIPESSA CREUSA or n’andiam, sieguimi. EGEO T’arresta. Segue scena e terzetto di GIASONE , Egeo, e Creonte, numeri del terzetto 18, 19, 20. GIASONE , Creonte. “CREONTE Principe, tutto è pronto. In poch’istanti, “ con vincolo d’amore, “ a me stretto sarai. “GIASONE  La man di sposo “ a PRINCIPESSA CREUSA porgendo, oggi son io “ doppiamente felice; “ perché padre, o signor, dirti mi lice. “CREONTE A Medea favellasti? Il suo decreto “ come sentì? “GIASONE  Vedila... (oh dio!) s’avanza. [Segue terzetto di Medea, GIASONE  e Creonte e quartetto degli stessi con Egeo, anch’esso non cantato] Al terzetto, il cui testo è ora perduto, sarebbe dovuta seguire un’altra scena tra Egeo e Medea, forse con duetto conclusivo: Dopo il terzetto EGEO Oh mio furor, né ad impedir tal nozze avrò poter? In faccia a tutti i greci soffrirò tanto oltraggio? A chi mi volgerò? MEDEA Al tuo coraggio. Siegui i miei passi. Onta comune abbiamo, comune avrem vendetta. EGEO E tu chi sei che dei torti miei osi a parte venir? MEDEA Medea son io. Ti basti il nome mio. Vieni, raduna i tuoi seguaci; all’abborrite nozze non invitati andremo. EGEO Teco son io. Piena vendetta avremo Nell’Archivio Mayr conservato dalla Biblioteca civica di Bergamo si trovano 5 faldoni di carte relative a Medea in Corinto: 319-322, 381. Questi recitativi stanno nel faldone 322: d’ora in avanti indicherò le carte bergamasche con l’abbreviazione «Bergamo, numero faldone/numero documento al suo interno». In questo caso Bergamo, 322/6. Bergamo, 322/19.

Sempre a Bergamo si trova anche una lunga scena di recitativo415 che doveva preludere ad un duetto tra Medea e Creonte: i versi del recitativo sono in parte disciolti nella scena antecedente il duetto di PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE  nel second’atto (II,6-7). Dopo l’aria di Egeo TIDEO Signor, come imponesti pronto è il naviglio che da questi lidi tragga lunge Medea. CREONTE Vanne, e l’iniqua alla partenza affretta. TIDEO Ella i tuoi cenni prevenire sembra: non fu vista mai così tranquilla e al suo destin sommessa: io temo in lei fin la sua calma istessa. GIASONE  Sì, parta all'istante: infine che spira l’aura di questo ciel io non ho pace. CREONTE Io d’imeneo la face un’altra volta estinta mirar temo, e comparir funesta l’empia dell’ara al piè. ISMENE Signor, Medea invia … MEDEA (!), PRINCIPESSA CREUSA, GIASONE  Medea che chiede? ISMENE Pria di spiegar le vele brama ottener al suo fallir perdono ed alla sposa in dono la preziosa invia veste regale che da Colco recò. Né a voi chiede del dono suo mercede, fuor che per pochi istanti al re parlar. CREONTE No, non mi venga innanti. La perfida si tenga tutti i suoi doni. ISMENE Di pentita donna puoi tu sdegnar le preci? PRINCIPESSA CREUSA Ah, cedi, o padre, non t’irritare; purché a noi s’involi, questo accordar ti piaccia lieve ad essa favor. CREONTE Ebben si faccia. Venga Medea; se te il suo dono alletta. teco, o figlia, rimanga. Ambi frattanto al domestico altar mi precedete: pronti al felice imene, raggiungerovvi in breve. Ite, ella viene. Segue Scenetta e duetto di Medea e Creonte. [Dopo l’aria di Egeo] CREONTE Amico, a te soltanto obbligo io porto della salvezza di PRINCIPESSA CREUSA. Egeo forse a noi la rapìa, se il tuo soccorso a tempo non giungea. Dimmi: vedesti cotanta audacia mai? L’empia Medea capace io non credea di sì feroce esempio, in faccia a’ numi, innanzi all’ara, al tempio. TIDEO: Tradita donna e che non osa mai? CREONTE: Finché tra noi rimane, ogni altro eccesso macchinar potria. TIDEO: Dì: la vedesti più? CREONTE: Più non la vidi. L’empia non osi comparirmi innanti. SCENA 7: PRINCIPESSA CREUSA, Creonte, Tideo PRINCIPESSA CREUSA: Padre, per poch’istanti, pria di partir, chiede Medea, placata, i suoi figli veder. CREONTE: Lo chiede invano. PRINCIPESSA CREUSA Ah! de’ misfatti suoi pentita appieno, misera!, implora pace e il tuo perdono. Di così lieve dono m’offre in mercede la gemmata vesta che di Colco recò. CREONTE Tutti si tenga la perfida i suoi doni. PRINCIPESSA CREUSA Ah! no; se m’ami, t’arrendi al suo pregar: recale i figli, e le accorda il perdon che a te richiede, la spoglia accetta, che donar concede. Dopo alquanta pausa. CREONTE Ebben, lo vuoi: si faccia. appaga il tuo desio. Sappia Medea ch’io le perdono. Addio. Parte con Tideo [segue scenetta e duetto di PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE ]. Previsti dopo l’aria di Egeo del second’atto, questo recitativo e il seguente duetto tra Medea e Creonte dovevano interporsi fra la seconda aria di Egeo e il duetto Medea/Egeo: non è inverosimile, visto che anche nel primo atto la successione originaria dovette essere aria di Egeo, terzetto Egeo/Creonte/GIASONE  e, probabilmente duetto Medea/Egeo.  Un ultimo recitativo conservato a Bergamo potrebbe d’altronde confermarlo: si tratta di poche battute di Ismene, dove la confidente esprime l’ansia e il dubbio di essere diventata complice inconsapevole della vendetta di Medea, un’idea che sarà di lì a poco ripresa da Della Valle. Bergamo, 322/17. Bergamo, 322/9.ISMENE Dove corre?

E qual nel suo sembiante gioia traspar feroce, or che perduta ogni speranza è in lei e gli odiati imenei compiuti sono? Qual mistero fatal cela il suo dono? O ciel! Me stessa avria forse ministra eletta di terribil vendetta? Mel predice quest’improvviso e nuovo turbamento crudele che in petto io provo. Segue scena e aria di GIASONE. Questo recitativo sembra seguire una precedente sortita di Medea furiosa. Poiché deve necessariamente seguire il duetto tra Medea e Creonte, visto che dal recitativo precedente a questo risulta che la vendetta non è ancora stata consumata, e poiché deve invece precedere la drammatica aria con coro di GIASONE  in cui si rende noto che la vendetta ha già avuto effetto, si deve presumere che tra quei due numeri Medea abbia avuto modo di esprimere adeguatamente il suo furore.  Non può averlo fatto con Creonte stesso, con il quale per logica drammatica e per tradizione testuale deve certamente essere stata remissive.  Potrebbe averlo fatto da sola, ma si dovrebbe allora contemplare una sua quarta aria solistica – oltre alla cavatina nel prim’atto, alla scena dello scongiuro e al rondo ‘Ah! che tento’ del secondo –, tre delle quali, inoltre, collocate nel second’atto.  Resta da presumere che abbia avuto modo di incontrare nuovamente Egeo e di esprimere col complice la propria furia.

Proviamo a ricostruire lo schema originario dell’opera in questo modo e indichiamo con carattere grassetto i numeri soppressi:

1) Introduzione

2) Coro e cavatina di GIASONE  

3) Coro e cavatina di Medea

4) Duetto Medea - GIASONE  (musico)

5) Aria di Egeo

6) Terzetto di Creonte, GIASONE  ed Egeo  

7) Duetto Egeo - Medea  

8) Finale I

9) Introduzione II

10) Aria dello scongiuro di Medea

11) Duetto GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA

12) Aria di Egeo

13) Duetto di Creonte e Medea

14) Duetto Egeo - Medea  

15) Rondò di Medea

16) Finale II.

In tutti i testi che ho esaminato e di cui rendo conto nel  dedicato al libretto, nel secondo incontro con Creonte Medea ha già deciso di ricorrere alla vendetta e dà fondo a tutte le sue doti dissimulatrici per tranquillizzare il sovrano e assicurarsi il successo del delitto.

L’appendice non comprende le recensioni successive al 1823 che videro protagonist Giuditta Pasta.  

Il numero dei testi sarebbe eccessivamente cospicuo e gran parte di essi si posson leggere nelle biografie della cantante citate nelle note al . «Il Monitore delle due Sicilie», 30.11.1813419.

MEDEA IN CORINTO, melodramma tragico di G. F: Romani, rappresentato nel Real Teatro di San Carlo; musica del Maestro Mayer.

Un felice successo ha ottenuto questa magistrale composizione di  Romani e Mayr, e creder dobbiamo che sarebbe stato più grande e compiuto se la Signora Colebrand (“Medea”) si fosse trovata perfettamente guarita da un’ostinata infreddatura, che da alcuni giorni innanzi aveale sensibilmente indebolita la voce.

Uno degli argomenti più irrepugnabili, che la composizione è degna della fama cui meritatamente gode il compositore, è che i pezzi musicali sono molti, alcuni di essi si succedono senza intervallo di recitativo e che ciò non stanca né annoia gli uditori.

Così di fatto deve andar la bisogna, non già quando il maestro per musicare un dramma va a frugare o ne’ suoi o negli altrui vecchi scartabelli, per appiccicare ad un’aria, o ad un duetto tale o tale altro pezzo di musica, che spesso è un abito di militare posto in dosso ad un vecchio e grave magistrato, ma quando il maestro ha un ricco fondo d’immaginazione, di discernimento, e di mezzi somministrati dall’arte onde i pezzi sono legittimi ed originali, e perciò si mostrano tutti con una certa fisionomia di famiglia, e con quella necessaria varietà di tratti, e di sembianza che la natura del sentimento e la qualità delle parole richiedono. Tutti adunque i pezzi di melodia sono in generale belli e dilettevoli, ma i bellissimi sono al parer nostro i due finali degli atti, e le due scene di Medea dell’atto secondo.

Le diverse passioni di questa crudelissima e feroce donna sono espresse con acconce frasi di musica e con maestrevoli passaggi che dispongono l’animo ora alla compassione ora l’orrore. Forse, come abbiamo osservato, non hanno prodotto tutto il loro effetto per lo stato di voce, in cui si trova la Signora Colbrand, ma s’egli avviene, come deve naturalmente avvenire, e come di buon cuore le auguriamo, che ella ricuperi i suoi schietti armonici suoni, allora certamente assai meglio rileveranno gli scelti modi musici e la loro giudiziosa combinazione immaginata dal Signor Mayer, poiché la Colbrand oltre la felice esecuzione della musica riesce ad accompagnarla e ad avvivarla col dignitoso portamento della persona e con naturale, analoga gesticolazione. Quanto è da dolersi che oggidì il gusto, non già quello di pochi ed intelligenti amatori dell’arte ma dell’universale, sia così guasto e corrotto, che si ami più l’armonia degli strumenti, che la melodia del canto? Aver dimostrata in questa, come in altre sue opere che egli conosce i vantaggi ed i ripieghi che posson trarsi dai suoni della lingua italiana per una perfetta melodia. Ora perché adunque si abbandona anch’egli alla corrente della moda col lusso dell’istrumentazione negl’intervalli preparatorj, e perché talvolta affoga anch’egli la melodia del canto con la fragorosa armonia dell’orchestra, che lo accompagna? Forse non si va dietro le tracce degli antichi compositori italiani nell’economia degli accompagnamenti, perché al mancar di questi insigni maestri, sono ancora mancati i cantanti, e fra questi spezialmente quei che appellavansi propriamente musici?

Se così è, noi ripeteremo a proposito della Medea di Mayer ciò che il sagace marchese Caracciolo scriveva al D’Alembert sull’Orfeo di Gluck. Potrebbe darsi che questo sistema di musica teatrale sia il limite di una buona musica d’opera, perché gl’italiani hanno degenerato, e dovendosi sempre più cuoprire e sostener le voci debbonsi per conseguenza far regnare gl’istrumenti sopra esse. 419 Cambierà poi titolo in «Giornale delle due Sicilie», e sotto tale titolo è schedato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, sotto l’indicazione B Prov. Per. 179. La voce musicare è registrata nel Vocabolario della Crusca per cantare in musica, ma il Machiavelli l’ha usata ancora per mettere in musica; ecco le sue parole. “Noi abbiamo fato cinque canzoni nuove … e si sono musicate per cantarle tra gli atti” ecc. Neppure il diligentissimo Alberti ha notato questa voce nel suo gran Dizionario» (nota originale). Nel Duetto del Primo Atto, nel Finale, ed altri Pezzi Cantabili Del Secondo si sono pure distinti il signor Nozzari e la Signora Pontiggia – questi per la maestria del canto e l’arte di ben condurlo, e questa per il non comune pregio di una distinta e Chiara sillabazione, per una voce grata ed estesa, e le fondate speranze che ella dà di riuscire una delle migliori cantanti d’Italia, spezialmente se ella si studia di formarsi ad una azione più disinvolta ed espressiva.

Diciamo qualche cosa del libretto.

Quanto allo stile non differisce dagli altri di simil genere, ma nella seconda parte nelle espressioni di Medea vi è qualcosa di bene immaginato per la proprietà del personaggio e per suggerire buoni e varj modi musicali all’avveduto maestro. Non si sa per altro perché l’autore abbia introdotto quella parte parassita d’Egeo, che potendo fare un’azione da se stessa distrae gli animi dalla principale azione.

Il Signor Garzia l’eseguisce benissimo, ma nessuno potrà figurarsi che il padre di Teseo si ponesse in attitudini sì ricercate e leggiadre e cantasse mollemente.

Questo eroe arriva a Corinto con una forte armata, e nessuno de’ Corinti se n’è accorto, onde in tal guisa può agevolmente disturbare le nozze di GIASONE  con PRINCIPESSA CREUSA. Ma queste ed alter considerazioni sono superflue, ed inutili. La musica è originale e di buon genere. Lo spettacolo è magnifico e ben decorato secondo il consueto, ed è suscettivo di maggior effetto in proporzione che la Signora Colbrand riacquisterà la sua voce. 15 dicembre 1813, p. 3 Real Teatro di San Carlo. Medea in Corinto – La Colonia Quanto più si ascolta con attenzione questa musica del maestro Mayer, tante più sono le bellezze intellettuali di composizione che gl’intelligenti vanno scuoprendo, ne’ diversi pezzi, già da noi un’altra volta notati, come pezzi d’effetto sia per le frasi felici e veramente conformi all’idea delle cose, come per la loro originalità per la loro varietà e per la dottrina musicale che traluce da per tutto. La composizione potrebbe dirsi del buon genere gluckiano di quel genere cioè che i profondi conoscitori e gli apprezzatori della musica antica, appellavano il migliore e il più conveniente avuto riguardo ai continui cangiamenti a cui vanno soggette tutte le cose umane. Invano sperano coloro che furono dotati dalla natura di felice e ben costrutto orecchio d’uscire dal teatro canterellando e ripetendo qualche aria o qualche duetto: i passaggi, le frasi e la loro costruzione sono sì varj e sì difficili che la memoria ed il gusto più squisito non giunge mai ad afferrarli con sufficiente precisione.

Vi sono certamente due specie di musica, una cioè che occupa lo spirito e la mente, e l’altra che muove ed agita il cuore. La prima sembra regnare nell’opera del Signor Mayer, ma non debbe dirsi affatto priva della seconda, come per esempio nel duetto del secondo atto fra GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA e sopra tutto nella scena di Medea co’ figli. A noi pare che le magistrali moderne composizioni per rispetto al genere musicale stiano a quelle dei Sacchini, dei Pergolesi, dei Paisiello come per rispetto alle teatrali rappresentazioni di dolci e facili drammi del Metastasio alle studiate e severe tragedie dell’Alfieri. Ed è ben vero che queste nel loro genere sono ottime, o si accostano all’ottimo, ma vi ha molto da dubitare che il passaggio da un genere all’altro nelle composizioni musicali abbia migliorato l’altre ed i suoi effetti, come nelle drammatiche.

Le bellezze d’invenzione ne’ modi musicali, nel primo genere, sono, a parer nostro, sensibili nella scena V dell’atto II, nella quale Medea evoca le ombre infernali, per ammaliare la veste destinata in funesto dono alla rivale.

Non crederemo quasi che possa farsi una musica più esprimente il soggetto, né più analoga alle parole della maga, ed alla qualità del coro che risponde, e non solo questo coro, che per se stesso è bene immaginato, ma ancora li altri sono stati lavorati con tant’ arte che fa sentire una certa melodia ed impedisce le ordinarie stonature dei Coristi. Noi finiremo questo breve articolo con l’osservare una cattiva conseguenza che nasce dal troppo numero di pezzi cantabili che sogliono introdursi nelle opere moderne, ed è che quando si succedono senza interruzione una sera dopo l’altra i cantanti si trovano spossati di voce e di forze; il che diminuisce d’assai l’azione e l’effetto del canto.

Nell’antico sistema non si avevano tanti pezzi concertati, tante arie, e tanti duetti, terzetti ecc. né il canto era così complicato e difficile onde potersi mettere in iscena un’opera per tre o quattro sere consecutive senza alcuno inconveniente. Noi crediamo di dover ascrivere a questa causa il sensibile indebolimento di alcune voci nella rappresentazione della scorsa sera di domenica, poiché la stessa opera della Medea era stata ancora cantata nella sera precedente del sabato… «Giornaletto teatrale ragionato», LXXVII, Milano, I. R. Teatro alla Scala. Medea – Musica di Mayr. A primo aspetto si direbbe che il più odioso carattere e l’evento più orribile sono suggetti esclusi dalla tragedia medesima, semprecché non sia quella che rappresentasi dinanzi ai figli del Tamigi, tanto più accetta quant’è più truce. Cionnondimeno i francesi ne han quattro e perfino tre drammi in musica (Autori delle quattro tragedie sono Jean de la Peruse, Binet, Corneille e Longepierre -- autori dei drammi Tommaso Corneille, l’abate Pellegrin, ed Hofman; la musica di quest’ultimo è lavoro di Cherubini.

La maga Medea trinciando a brani il fratello, per agevolare all’amante il conquisto del Vello d’oro; facendo triturare le membra d’un vecchio padre da credule figliuole, che fidano di restituirlo per tal’opera in giovinezza; o trasvolata nella reggia di Creonte per pugnalare i nati dal seno di lei, dopo avere indossato a PRINCIPESSA CREUSA una veste non meno fatale del sanbenito.

La maga Medea non parve a’ poeti d’Italia argomento di scena, e meno ancora da melodramma, prima che un valoroso compositore persuaso con Beaumarchais «che quanto è buono da dire, può esser buono da cantare» , le avesse prestato il sostegno di una musica sapientissima, e Mayr riuscì nell’impresa. -- Del resto, prescindendo dall’atrocità del suggetto, poiché quel di Medea combina eloquenza di affettuosi sentimenti, di esacerbate passioni, la reppresentanza di misterj magici, e una ceremonia nuziale, ha tutto ciò che serba l’impronta d’un carattere grandioso e di contrasti che favoreggiano il riparto e il colorito d’una splendida composizione.

Infatti questa musica di Mayr è si pregevole che si risguarda come uno di que’ lampi di luce che balenò allorquando il vero gusto cominciava a trovarsi alle prese col falso, e mantiene il suo splendore anche fra gli odierni trionfi di questo, essendo che la forza drammatica vi si combina colle dolcezze del canto, e sovente in modo originale.

Questo dramma fu nello scorso gennaio cantato dagl’italiani in Parigi , e que’ fogli ne parlarono con lode e senza passioni. Uno, fra gli altri, definì la musica da perfetto intelligente, né sapremo in miglior modo annunziare, a questo proposito, l’opinion nostra, che facendone interpreti le sue stesse parole.

La sinfonia di Medea è gradevole; ma senza carattere deciso e senza unità.

L’introduzione e il principio dell’allegro annunzierebbero bastevolmente bene il suggetto, se la gravità dei motivi, l’agitazione anzi la veemenza dello strumentale, rispondessero quinci a questo principio. Il maestro non mantiene ciò che parea promettere. Odonsi a solo istromenti da fiato nel mezzo della sinfonia scritta in re minore.

Dopo il gran riposo in fa, Mayr modula in toni troppo lontani dal punto dond’è partito.

Il ripiglio del motive principale non è felice per esser troppo rapida la transizione; e pare che il maestro non si tragga con bastevol destrezza dal passo difficile ov’erasi volontariamente inoltrato. Questa sinfonia sarebbe più da opera semiseria che da opera tragica. Nell’introduzione è assai bello il coro; la cavatina di GIASONE  non è di effetto sicura; ma Medea appare, e la musica s’ingigantisce come il personaggio che inspira.

Se il duetto con GIASONE  avesse un più vivace andamento sarebbe inattaccabile.

La scena della nuzial ceremonia è magnifica.

Il cantico religioso seguito dall’invocazione cantata dalla PRINCIPESSA CREUSA, da GIASONE  e da Creonte, e a cui s’uniscono le minacce di Medea e di Egeo, un coro generale, ed una perorazione splendida, calda ed attraente compongono questo pezzo che piacerà mai sempre ad ogni amatore, e che gli intelligenti, oltre a ciò, terranno mai sempre in gran conto.

Nella scena in cui Medea apparisce coi proprj figli, Romani fu maggior di se stesso.

Il corno inglese mesce I suoi lugubri suoni agli accenti d’un dolore acerbissimo e concentrato, che nello scoppiare dovea riuscir sì funesto. -- Se il finale dell’atto primo è veramente grandioso, quel del secondo è pregiudicato in parte dalle combinazioni calcolate per l’effetto materiale; il tuono, il balenare, il fragore de’ fuochi artificiali impediscono all’uditore il giudicar del merito di questa parte della composizione. Per altro l’occhio segue Medea negli spazj dell’aria ed è abbagliato dalla luce; i tromboni vanno a gara col tuono nel fragore, l’orchestra mena uno strepito d’inferno, i coristi van modulando a gola aperta, il sipario cala, e il pubblico è soddisfatto. Tanti pregi riuniti in una composizione, già nota in Italia e fuori, per i ripetuti felici successi che ottenne e annoverata fra le poche moderne che possono per molti conti server di esemplare, giustificano la scelta che se ne fece tra noi, onde produrla come terzo spettacolo nella corrente stagione; essendo il più delle volte assai miglior consiglio l’aver ricorso a spettacoli già esperimentati, che avventurare i diletti del pubblico ai rischi d’una novità.

Aggiungasi a ciò che il "GIASONE E Medea in CORINTO" di Romani e Mayr da lunghissimo tempo non erasi udita in Milano; e che in Parigi, ove dopo una guerra a morte al genere musicale dominante sì seducente ad un tempo e sì contrario ai principj della grande scuola, i partiti si composero, aggiudicando un’effimera corona a quest’ultimo, la Medea risvegliò l’antico amore dell’arte, e ottenne l’onor del trionfo, in cui ebbe singolar parte il canto e l’azione della Pasta nostra concittadina, non che degli altri suoi valenti compagni. -- Questo saggio poteva confermare nel proponimento di rimettere sulle nostre scene una composizione sì distinta; e quantunque l’esito nella totalità non sembra aver corrisposto all’idea che se n’era concepita, cionnondimeno non è da dire, che siasi conosciuto il merito di Mayr.

Altronde se l’importanza di tante parti principali ch’entrano nel dramma, non sembra proporzionata ai mezzi di alcuni degli attuali cantanti, non è da dire che la signora Belloc non vesta il carattere di feroce consorte e di madre atroce con quella forza che si addice a sì difficile personaggio; e non combini i più disperati contrasti con un artificio di mosse e di modulazioni, che non è sì facile per chi non abbia quelle doti ch’ella possiede, quell’uso della scena che la distingue e quello zelo con che si adopera mai sempre nel disimpegno delle sue parti. -- Se quella di Lablache, quantunque primaria in diritto, non fosse pel fatto secondaria, e se la bella voce di lui si combinasse in maggior numero di pezzi colla voce della prima donna, la musica dal lato dell’esecuzione acquisterebbe in forza e in effetto. Cionnodimeno nessuno potrà negare che il finale dell’atto primo singolarmente, e la grande scena di Medea, l’uno dalla totalità degli attori, l’altro dalla signora Belloc, non traggano quella luce, la quale è bastevole a giustificare anche al presente il posto assegnato alla composizione di Mayr. Carteggi relativi all’allestimento di Medea in Corinto promosso dalla Accademia Filarmonica Romana Sessione del Consiglio de’ 3 Agosto 1824 Il Sig.r Presidente ha comunicato l’atto del Congresso di Musica tenuto il due corrente in cui propone al Consiglio per il Saggio Pubblico di Settembre prossimo il Tancredi di Rossini, e la Medea di Maïr. Il Consiglio ha scelto questo a pieni voti, ed ha raccomandato al Sig. Presidente, che nel parteciparlo al Congresso, lo faccia ricredere delle false supposizioni, che si leggono nell’atto suddetto. Sig.r Direttore della Musica, 4 agosto 1824. Si è letto nella sessione del Consiglio di jeri l’atto del Congresso di Musica del giorno antecedente e rimesso in copia dall’Archivista del Segretario. Il Consiglio, sapendo di non aver fatto alcun atto per proporre al Congresso l’esecuzione della Medea di Maïr, né di aver asserito che questo spartito non fosse in Roma reperibile, è rimasto sorpreso come il Congresso abbia potuto supporlo. Ha gradito però che ad onta di questa intelligenza, siasi il Congresso deciso a presentargli la detta musica e ne ha decretato l’esecuzione per il venturo settembre a precedenza dell’altro proposto spartito. Ha ordinato il Consiglio in proposito de’ destinati Esecutori che siano subito interpellati, quindi avvenendo che qualcuno chiedesse di esser dispensato, né darà immediatamente avviso a V. S. ill.ma o al Sig. Direttore dell’Orchestra, secondo che trattisi di Cantanti o suonatori. Si è avvertito che il Sig. Viviani, dovendo sostenere la parte di Egeo, non potrebbe supplire per il Sig. Moroni in quella di GIASONE ! Forse però sarà incorso errore nella copia dell’atto. Mancando inoltre gli esecutori de’ parti di Tideo e Ismene, su questi due articoli la prego trasmettermi i suoi riscontri. Passando alla proposta delle due musiche per novembre . 7 Agosto 1824.

Eccellenza, Incaricato dal Congresso di Musica del carteggio circa l’affare della Medea, mi faccio lecito presentarle alcune mie riflessioni che la prego di partecipare al Consiglio.

Non mi sembra che il Congresso abbia a torto supposto che il Consiglio volesse arrogarsi alcuno de’ suoi diritti. Quali sono questi lo scegliere le opere da eseguirsi, ordinare le copie, distribuire le parti. Non sembra che possa esservi altro oggetto nell’acquisto di una opera fuori che la volontà di eseguirla, dunque il Consiglio nell’acquistare, anzi nell’ordinare la copia della Medea, ha scelto Medea per una delle opere da eseguirsi in qualche epoca dall’Accademia Filarmonica, diritto che sarà del Congresso finché esisteranno i Statuti dell’Accademia. Non basta: ne ha ordinata la copia delle parti. A quale oggetto questa ordinazione se non per la pronta esecuzione dello spartito la quale appartiene solo al Congresso di stabilire? Di più il Consiglio ha offerte ad alcuno degli Accademici le parti da sostenersi: non si propone una parte in un opera senza la certezza della di lei esecuzione, e come ottenere quella certezza senza un decreto del Congresso? Poteva però dopo tali passi il Consiglio essere certo che il Congresso di musica, nemico delle questioni, per un riguardo al Consiglio, ed all’impegno da esso contratto con i soci destinati all’esecuzione delle principali parti e per un giusto riflesso d’economia, primo sostegno dell’Accademia, avrebbe scelto l’opera già copiata e di cui già sapeva essersi destinate le parti. Poteva è vero il Congresso escluderla valendosi de’ suoi dritti ma questo non sarebbe stato un cooperare al bene dell’Accademia scopo cui dovrebbe principalmente tendere ogni Socio. Spero che questi riflessi giustificati da fatti, se non da scritti, faranno comparire non vana la supposizione del Congresso che desidera peraltro impor fine ad una tal questione, e mantenere col Consiglio la più grande intelligenza. La parte di Evandro, può essere unita a quella di Tideo non essendo che due confidenti che non s’incontrano a cantare insieme. Per quella d’Ismene, si potria interpellare alcuna delle coriste essendo parte di nessuna entità e perciò da non accettarsi facilmente.

Il supplemento a GIASONE  si crede  che sia equivoco da destinato a Viviani, lo potrebbe far Compagnoni.

Niuna difficoltà circa il Sig. Avv. Cecconi, tanto più se canta, o ha cantato il tenore, Sono etc. Domenico Capraia Sessione del Consiglio del 13 agosto 1824 Letto dal Segretario il Biglietto scritto dal Presidente al Direttore della Musica coerentemente all’art. 3 della precedente Sessione, e la risposta di esso Direttore, il Consiglio sebbene non soddisfatto del contenuto di questo ha deciso di non farsi replica, ma che si sia conservato con inserirsi una Nota di osservazione secondo la mente spiegata. “Medea” in prima edizione o prima rappresentazione tra il 1750 e il 1850.

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L’elenco comprende tutte le Medee edite in italiano tra il 1750 e il 1850, quelle cioè che più probabilmente potevano essere conosciute in Italia.

Non si considera, quindi né quelle inglesi e tedesche (Lessing, Miss Sara Sampson, 1755; Friedrich Julius Heirich von Soden, Medea, 1785; Friedrich Maximilan von Klinger, Medea in Korinth, 1786), né quelle rimaste manoscritte e non rappresentate come il melologo Medea di Francesco Saverio Salfi (1813).

Resta esclusa anche una GIASONE E MEDEA che Alfonso Lamartine scrisse nell’ottobre 1813 dopo un soggiorno a Napoli e dopo aver probabilmente assistito al GIASONE E MEDEA  di Milcent e Fontanelle (Lamartine era Parigi tra l’aprile e il settembre 1813, e la tragédie lyrique fu rappresentata nell’agosto di quell’anno all’Opéra). La tragedia è nota solo da una edizione postuma: A. de Lamartine, OEuvres poetiques, Paris, Gallimard. Lamartine è il primo che inventi la situazione di Medea in Corinto sotto le mentite spoglie di principessa schiava di GIASONE .

È un’idea che Benedetto Castiglia avrebbe sfruttato nel libretto che predispose per Pacini, perché consentiva di creare un primo atto con molte scene dedicate alla prima donna senza dover rinunciare all’efficace effetto sorpresa dell’agnizione nel finale del second’atto.  

L’espediente serve, invece, a Lamartine per inserire scene di amicizia tra PRINCIPESSA CREUSA e Medea prima del disvelamento della vera identità della maga.  Questa situazione sarà poi ripresa con maggior ampiezza da Grillparzer prima e da Legouvé, poi. L’idea di far sì che sia PRINCIPESSA CREUSA a concedere a Medea l’ultimo, fatale saluto ai figli, è in Lamartine ma anche in Della Valle. Sulla GIASONE E MEDEA  di Lamartine si diffonde A. Caiazza, Medea: fortuna di un mito cit. Pierre Corneille, GIASONE E MEDEA , Paris, 1635. Tragedia, 5 atti. Personaggi: Créon, re di Corinto; Égée, re d’Atene; Jason, marito di GIASONE E MEDEA ; Pollux, argonauta, amico di Jason; Créuse, figlia di Créon; GIASONE E MEDEA , moglie di Jason; Cléone, governante di GIASONE E MEDEA ; Nérine, seguace di GIASONE E MEDEA ; Théudas, domestico di Créon; guardie di Créon. La scena è a Corinto [palazzo di Créon], grotta magica. Hilaire-Bernard de Requeleyne, baron de Longepierre, GIASONE E MEDEA , Paris, 1694. Tragedia, 5 atti. Personaggi: GIASONE E MEDEA, figlia d’Aete re di Colco, e moglie di Jason; Jason, principe di Tessaglia; Créon, re di Corinto; Créuse, figlia di Créon; figli di GIASONE E MEDEA ; Rhodope, confidente di GIASONE E MEDEA ; Iphite, confidente di Jason; Cydippe, confidente di Créon; seguito di Créon. La scena è a Corinto, nel palazzo di Créon. Trad. it.: Medea, tragedia di Longepierre, Venezia 1746 e Medea, tragedia del signor Longe-Pierre fatta italiana da Filandro Cariteo [Francesco Ubaldo de’ Nobili] da recitarsi nel pubblico teatro di Lucca, nel carnevale dell’anno 1757 dagli Accademici dilettanti della Comica. In Lucca, per Francesco Narescandoli a Pozzotorelli, 1777. Richard Glover, Medea, London, 1761. Tragedia, 5 atti. Personaggi: Jason; Aeson; Créon; Licandre; primo Colco; primo Corinto; GIASONE E MEDEA ; Théane; Hécate; primo Feace, Colchi, Feaci, Tessalici e corinzi. La scena è nella cittadella di Corinto, tra un boschetto dedicato a Giunone e il palazzo dei re; si vede il mare in prospettiva nel fondo del teatro. I 421 Quelle cioè che Romani o i poeti che adattarono il suo libretto per intonazioni successive potevano aver conosciuto. Le teorie dell’intertestualità sostituiscono alla nozione di influenza quella di ‘stratificazione interna di linguaggi’ allo scopo di spostare l’oggetto di studio dall’originalità del testo letterario alla sua ‘pluridiscorsività’. Al proposito cfr., dal punto di vista del musicologo, la rapida ma efficace sintesi in A. Addessi, Claude Debussy e Manuel De Falla. Un caso di influenza stilistica, Bologna, Clueb. Il melologo è edito da Lucio Tufano in Un melologo inedito di Francesco Saverio Salfi: «Medea», in Salfi librettista, studi e testi a cura di Francesco , Vibo Valentia, Monteleone, Ringrazio Lucio Tufano per avermene messo a disposizione il dattiloscritto prima della pubblicazione; su Salfi cfr. anche Franco Piperno, «Stellati sogli» e «immagini portentose» cit. dati sono citati dalla tr. fr. in Traduction du théâtre anglais depuis l’origine des spectacles jusqu’à nos jours, V, Paris, 1784.

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Giovanni-Giorgio Noverre, GIASONE E MEDEA.
Stuttgart, 1763.
Ballo, tre atti.

Personaggi: GIASONE , principe della Tessaglia, sposo di Medea ed amante di PRINCIPESSA CREUSA
Medea, principessa di Colco e sposa di GIASONE ; PRINCIPESSA CREUSA, principessa di Corinto ed amante di GIASONE ; Creonte, re di Corinto, padre di PRINCIPESSA CREUSA; due figli di Medea e GIASONE ; governante de’ suddetti e confidente di Medea; principi e principesse di Corinto; guardie reali; Furie: la Vendetta, il Ferro, il Fuoco, il Veleno, altre furie. La scena si finge in Corinto nel peristilio del Palazzo di Creonte, nel gabinetto di PRINCIPESSA CREUSA, in una grotta spaventevole, in un luogo magnifico con trono.

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Friedrich Wilhelm Gotter - Jiri-Antonin Benda, Medea, Leipzig, 1775. Melologo, 1 atto. Personaggi: Medea, moglie ripudiata da GIASONE ; GIASONE  principe reale di Tessaglia; Cleonte e Olinto piccioli figli di Medea, e di GIASONE ; PRINCIPESSA CREUSA principessa di Corinto e novella sposa di GIASONE ; Selene, governatrice dei detti due principini; gente di seguito. L’azione si rappresenta in Corinto. Scena: in prospetto la veduta della città di Corinto. Da una parte Palazzo Reale. Dall’altra un tempio magnifico dedicato alla dea Giunone. I dati sono tratti dalla traduzione italiana MedeaAzione tragicadi un solo attotratta dal tedesco da B. B.Parmapresso Filippo CarmignaniStampatore per privilegio di S.A.R. MDCCLXXX. Altre traduzioni sono Medea monodramma di Gotter, messo in musica da Giorgio Benda, in «Novelle letterarie», II/17, 26 aprile 1782, coll. 257-272 (anonima); La Medea, monodramma del Sig. Gotter messo in musica dal sig. Giorgio Benda, in Aurelio de’ Giorgi Bertòla, in Idea della bella letteratura alemanna, II, Lucca, Francesco Bonsignori, 1784; Medea, azione tragica di un solo atto,scrittadal signorEngel,e | messa in musicadalcelebre maestro di Cappella Giorgio Benda.Traduzione dal tedesco [libretto, I-Nc. Rari 9.8 (7)]424. 423 Programmadel primo Balloche si rappresentanel Regio-Ducal Teatro di Milano Il Carnovale dell’Anno1773 Medea, e GIASONE Ballo tragicod’invenzioneDel celebre Sig. NoverrePersonaggi | Medea Principessa di Colchide, e sposa di GIASONE signora Anna BinettiGIASONE  Principe di Tessaglia, Sposo diMedea, ed Amante di PRINCIPESSA CREUSASig. Carlo Le Piq PRINCIPESSA CREUSA Principessa di Corinto, Amante di GIASONE Signora Maria CasacciCreonte Re di Corinto, padredi PRINCIPESSA CREUSASig. Giuseppe Salamonidama di Corinto, confidente di PRINCIPESSA CREUSA, Signora Regina Cabalatifigli di Medea, e GIASONE tessalosignora Teresa MengalliALCIMENESignora Marianna Magistretti,  governante dei figli suddetti, e confidente di MedeaSignora Maria Antonia Gessatilottatori, dame di Corinto, cavalieri di Corinto,la Vendetta, Sig. Riccardo Blekil Velenosig. Francesco Clericoil Fuocosig. Luigi Corticelliil Ferrosig. Giorgio Santa Mariafurie [---].

La circolazione del melologo di Benda in Italia meriterà uno studio particolare. Bartolomeo Borroni, germanista, autore di un dizionario italiano-tedesco, ne scrisse una versione in prosa (di cui non ho però trovato traccia), che successivamente rielaborò in versi. Le date delle riedizioni citano tutte la musica di Giuseppe Poffa: Pavia, Bianchi, 1780; Trieste, Teatro Regio, Tommasini, 1783; Milano, Pirola, s. d.; Milano, Pirola, 1783; Milano, Teatro Contrada dei due muri, Barelle, 1791 (per una esecuzione di Teresa Brenna con Carlo Barelle, Carolina Nappi, i fratelli Bazzera, Gaetana Combe; alle macchine era Giuseppe Tanzi). L’edizione di Parma che cito nel testo è invece curata da Faustina Tesi che la dedica «alle Nobilissime dame», e ai «nobilissimi cavalieri» di Parma di cui ricorda «l’umanissime accoglienze che in ogni tempo avete fatta alle rappresentazioni della comica mia compagnia». È l’anno in cui la sua compagnia portava in giro Medea, come testimonia l’«Indice de’ Teatrali spettacoli», Pesaro, Fondazione Rossini, 1996, che cita una rappresentazione ad Alessandria e Parma nel 1781. (La compagnia era composta da Cristoforo Merli, Gio Ferrari, Caterina Ferrari, Andrea Cardosi, Pietro Cimarelli, Giovanna Missieri, Angela Caidosi, Domenico Nerini oltre alle maschere Antonio Vinacesi, Filippo Nicolini, Petronio Calici, Camillo Missieri nei panni di Pantaleone, Dottore, Brighella, Arlecchino.) La seconda edizione milanese è invece curate direttamente da Bartolomeo Borroni e dedicata alla marchesa Margherita Aresi-Lucini, germanista anch’essa. Nella prefazione, il traduttore annuncia di aver voltato in versi la sua precedente traduzione per «uno di que’ tanti problemi poetici, la cui soluzione mi si richiederebbe invano, perché io medesimo non saprei analizzarla»: l’astruso «problema poetico» stava semplicemente nel «nostro gusto, come le nostre complessioni ammorbidite o dall’ educazione, o dall’abito, o dal clima, o che so io» che «non è gusto inglese, nò, non è tedesco, ma è vero gusto nazionale italiano» ma è sufficiente a non ammettere una tragedia in prosa, come era l’originale di Gotter. Delle traduzioni di Medea di Jean-Marie-Bernard Clément, GIASONE E MEDEA , Paris, 1779. Tragedia. 5 atti. Personaggi: GIASONE E MEDEA , femme de Jason; Créon, re di Corinto; Jason principe di Tessaglia; Phénice, confidente di GIASONE E MEDEA ; Arbas, capo delle guardie; guardie. La scena a Corinto, nel palazzo di Créon. Cosimo Giotti/Giuseppe Moneta,  La vendetta di Medea: melodramma in cinque atti”, Firenze, Luchi,  1787. Personaggi: Medea, principessa di Colco, moglie ripudiata di GIASONE ; GIASONE , principe di Tessaglia e capo degli argonauti; Creonte, re di Corinto; PRINCIPESSA CREUSA, nuova sposa di GIASONE ; Clearco, aio di GIASONE  e confidente di Medea; Menandro, grande del regno di Creonte; Leucippe, confidente e custode dei figli di GIASONE  e Medea; Olinto e Aristo, piccoli figli di GIASONE  e Medea; grandi e guardie del seguito di Creonte; nobili donzelle del seguito di PRINCIPESSA CREUSA; sacerdoti e popolo. La scena è a Corinto, nel palazzo reale di Creonte: atrio magnifico che porta in un ampio cortile. Gaetano Marinelli, La vendetta di Medea, Venezia, 1791. Dramma per musica, 2 atti. Personaggi Medea, consorte di GIASONE  ripudiata da lui; GIASONE , sposo di Glauce; Creonte, re di Corinto; Glauce, di lui figlia; Narbale, ajo de’ figli di Medea; Idamante, seguace di Medea; due figli di Medea, che non parlano; coro di furie; coro di soldati; guardie di Creonte. Mutazioni di scene: logge, gabinetto, sotterraneo nella reggia di Creonte, galleria, galleria, gabinetto, logge, reggia. François-Benoît Hoffman/Luigi Cherubini, Medea, 1797. Tragédie in 3 atti. Personaggi: GIASONE E MEDEA ; Jason; Créon, re di Corinto; Dircé, figlia di Créon; Néris, schiava sciita; capo delle guardie; confidente di Dircé, due figli di Jason e GIASONE E MEDEA ; damigelle di Dircé; argonauti; guardie di Créon; popolo di Corinto; sacerdoti; [le eumenidi]. La scena è a Corinto: I nel palazzo di Créon; II all’esterno, con tempio di Giunone sullo sfondo; III montagna rocciosa con grotta e sullo sfondo il palazzo reale.  Onorato Balsamo/Francesco Piticchio, La vendetta di Medea: dramma serio per musica in due atti” (Napoli, 1798) Personaggi Medea, consorte di GIASONE  ripudiata da lui; GIASONE , sposo di Glauce; Creonte, re di Corinto; Glauce, di lui figlia; Narbale, ajo de’ figli di Medea; Idamante, seguace di Medea; due figli di Medea, che non parlano; coro di furie; coro di soldati; guardie di Creonte. Mutazioni di scene: sala reale, folto bosco, sala reale, sala reale, gabinetto con porte, ed arcova, reggia cogli appartamenti di Medea a quelli vicini. Bartolomeo Borroni accenna A. L. Bellina nel suo «Ah! degg’io svenarli». La riduzione di Medea cit.

Il chiarimento di Borroni, circa la riduzione in versi di una precedente traduzione in prosa, mi lascia però perplesso, perché non ho trovato la prima versione a cui egli si riferisce, e ho verificato che la prima edizione a me nota, quella parmense, è già in versi. La traduzione di Aurelio de’ Giorgi Bertòla circolò a Napoli ed ebbe diverse vicende letterarie e sceniche.  Aurelio de’ Giorgi Bertòla pubblicò “La Medea” nell’edizione del 1784 della sua “Idea della bella letteratura” (Lucca, Francesco Bonsignori) assieme ad “Arianna a Nasso” e preceduta da alcune “Riflessioni sopra il monodrama”.  Probabilmente il melologo fu poi effettivamente rappresentato nel 1790, con un testo derivato, con varianti, dalla sua traduzione, come dimostrano sia il libretto, sia una copia manoscritta della partitura di Benda con le parole italiane, entrambi conservati dalla Biblioteca del Conservatorio di Napoli.  Su queste vicende cfr. Lucio Tufano, Teatro musicale e massoneria: appunti sulla diffusione del melologo a Napoli (1773-1792), in Napoli 1799 tra storia e storiografia, Atti del convegno (Napoli, 21-24 gennaio 1999), a cura di Anna Maria Rao, Napoli, Vivarium, in corso di stampa. Ringrazio Lucio Tufano per avermene messo a disposizione il print out. La vendetta di Medea cit. In quarta di copertina si specifica che «queste edizioni formeranno una collezione delle più accreditate rappresentanze che fin’ora venivano inutilmente ricercate.  In Firenze, alla stamperia Luchi in via dello studio se n’è intrapresa una ristampa e se ne pubblica una la settimana nel sabato al prezzo di un paolo per quelli che si obbligano di prendere l’altre che si succederanno». Questo è il fascicolo VII della collezione.  La datazione è tratta da Robert Lamar Weaver e Norma Wright Weaver, A Chronology of Music in the Florentine Theatre, 1751-1800. Operas, Prologues, Farces, Intermezzos, Concerts and Play with incidental Music, Warren, Harmonie Park Press. Domenico Morosini, Medea in Corinto, Venezia, 1806. Tragedia, 5 atti. Personaggi: Medea, figlia di Aeta re di Colco; GIASONE , figlio di Esone re di Iolco, argonauta; Creonte, re di Corinto; Tideo, re di Etolia, argonauta; Teuda, confidente di Creonte; Climene, seguace di Medea; guardie, che non parlano. La scena è in Corinto: grande atrio che introduce da una parte all’interno della reggia, e dall’altra all’appartamento di Medea. Felice Romani - Simone Mayr, “Giasone e Medea in Corinto: melodramma tragico in due atti” (Napoli, 1813).

Personaggi: Creonte, re di Corinto; Egeo, re d’Atene; Medea, moglie di GIASONE ; GIASONE ; PRINCIPESSA CREUSA, figlia di Creonte; Evandro, confidente di Creonte; Ismene, confidente di Medea; Tideo, amico di GIASONE ; due figli di GIASONE  e Medea; corinzi; damigelle; sacerdoti; seguaci d’Egeo.  La scena è a Corinto: atrio nella reggia, tempio, appartamento reale, sotterraneo, appartamenti, carcere, appartamenti, intercolonnio con magnifiche gallerie e mare in prospetto.

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Giovanni Battista Gabriel Marie de Milcent – Granges de Fontenelle,  “Giasone e Medea: tragedia lirica in tre atti” (1813).  Personaggi: Créon, re di Corinto, conquistatore di Iolco; Jason; GIASONE E MEDEA ; Théane sacerdotessa di Giunone; due figli di Medea; Iphicrates confidente di Medea; Giunone; sacerdoti; popolo. Scene: il teatro rappresenta la cittadella di Corinto, un bosco sacro che circonda il tempio di Giunone, e il palazzo di Creonte; sul fondo si vede il mare. Maria Fulvia Bertocchi, Medea: tragedia in cinque atti” Roma, 1815.  Personaggi: Medea; GIASONE ; Creonte; PRINCIPESSA CREUSA; Clito; una guardia; 2 fanciulli; sacerdoti; donzelle; guardie; popolo.  La scena è nella reggia di Corinto in un peristilio che mette a vari anditi, tanto in fondo che lateralmente. Nicola Santi, “Medea: tragedia in cinque atti” (Ancona, 1816). Personaggi: Medea; GIASONE ; Creonte; Nutrice; soldati; fanciulli. Scena. la reggia di Creonte in Corinto.

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Troilo Malipiero, “Medea: tragedia in cinque atti”.
Padova, 1818.

Personaggi:

GIASONE
Medea
PRINCIPESSA CREUSA; Creonte; sacerdoti; damigelle e guardie che non parlano. Scene: peristilio del delubro sacro a Giunone nella reggia di Corinto, con portici dai lati e porta praticabile nel mezzo aperta, dalla quale si vedrà l’ara e il simulacro della dea. Cesare Della Valle, duca di Ventignano, Medea, Trani, 1818. Tragedia, 5 atti. Personaggi: Medea; GIASONE ; Creonte; Glauca; Licisca; Eumelo; Corinzi. Scena: la reggia di Corinto.  

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Francesco Gambara, “Medea: tragedia in cinque atti”, Brescia, 1822.  Personaggi:  GIASONE Medea Glauce; Creonte; Amicla; coro di donzelle e popolo di Corinto; due piccioli figli di Medea che non favellano; guardie e popolo.  

Scena: atrio terreno che guida a vari appartamenti: in lontano fra intercolonnio la vista del giardino di Creonte. Franz Grillparzer, Medea, Wien, 1822, tragedia in 5 atti, personaggi: Creonte, re di Corinto; PRINCIPESSA CREUSA, sua figlia; GIASONE ; Medea; Gora, nutrice di Medea; un araldo degli Anfizioni; un contadino; servi e ancelle; i figli di Medea. Scene: davanti alle mura di Corinto; atrio nella reggia di Creonte; atrio della rocca di Creonte; vestibolo della rocca di Creonte. Medea,Tragedia di Maria Fulvia Bertocchi Sit medea ferox invictaque. Orazio, De art poet., in Biblioteca teatrale osia Raccolta di scenici componimenti originali, e tradotti, III, 1815, Roma, Puccinelli. Opere di Nicola Santi Riminese Ancona Tipografia Sartorj 1816. Si vende in Rimino (sic!) dal libraio Angelo Lanfranconi. Medea: Tragedia prima Sit Medea ferox invictaque. Dedicata al signor conte Podestà Gaetano Gaspero Battaglini. Medea: tragedia di Troilo Malipiero venezianoin Padova dalla Tipografia e Fonderia della Minerva    MDCCXVIII. Altre edizioni sono in «Teatro scelto italiano antico e moderno», XXX, Milano, 1824; poi Firenze 1825; Roma 1826; Napoli, Tramer, 1830 commentata; Palermo 1831; Pisa 1864, Firenze 1871. Giornale Teatrale ossia Scelto teatro ineditoitaliano tedesco e francese, XXXIV, Venezia, 1822, dalla tipografia Rizzi, Antonio Bazzarini Editore, fascicolo LXVII/1 ottobre 1822.  Giovanni Battista Niccolini, “Medea: tragedia in cinque atti” (Firenze, 1825). Personaggi: Medea; GIASONE ; Creonte; Rodope, confidente di Medea; Adrasto, confidente di GIASONE ; due figli di Medea uno maggiore e l’altro minore; popolo. Scene: atrio della reggia di Creonte: da una parte sono le stanze di Medea, nel fondo un tempio (NOTA 431) Felice Romani/Prospero Selli, Medea in Corinto, Roma 1839, melodramma tragico, 2 atti. Personaggi: Creonte, re di Corinto; Egeo, re d’Atene; Medea, moglie di GIASONE ; GIASONE ; PRINCIPESSA CREUSA, figlia di Creonte; Ismene, confidente di Medea; Tideo, amico di GIASONE  e confidente di Egeo; due figli di GIASONE  e di Medea; un confidente di Creonte; cori di Grandi di Corinto, di damigelle, di sacerdoti, e di seguaci d’Egeo. Scena in Corinto: atrio nella reggia; estremità dei giardini appartenenti al regio palazzo e piena veduta del mare; tempio, appartamenti reali – gran sala; interno, appartamento reale; giardino come nell’atto primo; intercolonnio con gallerie. Benedetto Castiglia - Giovanni Pacini, Medea, Palermo, 1843. Tragedia lirica in tre atti. Personaggi: Medea; Creonte; GIASONE ; Cassandra; Calcante. Scene: vasta convalle in fondo alla quale è il bosco di Apollo; stanza in casa di Medea; tempio di Pallade; atrio nella reggia di Creonte; pantheon; atrio nella reggia di Creonte; strada innanti al bosco delle furie.  Giuseppe Pini, “Medea: tragedia lirica in due atti” (Como, 1849)  Personaggi:  Medea, figlia di Aete, re di Colco; GIASONE , figlio di Esone re di Iolco, argonauta; Creonte, re di Corinto; PRINCIPESSA CREUSA; Leonilla; Emone; due fanciulli dai sette agli otto anni; coro di grandi del regno di Corinto; damigelle di PRINCIPESSA CREUSA e delle vergine del tempio di Giunone; grandi; ancelle; guerrieri; popolo. Scena: reggia di Creonte in Corinto: sala delle stanze destinate a Medea con porta grande nel mezzo; Reggia. Peristilio del delubro sacro a Giunone nella reggia di Corinto, porticato dai lati, e gradinate che mettono agli appartamenti reali: avrà il tempio un a porta praticabile nel mezzo, atrio che guarda il tempio annesso alle stanze di Medea.  F. Romani – Salvatore Cammarano – Saverio Mercadante,  “Giasone e Medea in Corinto: tragedia lirica in tre atti”, Napoli, 1851. Personaggi: Creonte, re di Corinto; PRINCIPESSA CREUSA, figlia del Re; GIASONE ; Medea; Timante, principe di Samotracia; Ismene, ancella di Medea; Stenelo, seguace di Timante; due fanciulli, figli di Medea; ancelle di PRINCIPESSA CREUSA; sacerdoti; guerrieri e popolo di Corinto; seguaci di Timante. Scene: l’azione si svolge in Corinto «pochi anni prima della guerra troiana»; reggia, luogo deserto in vicinanza del mare… fra enormi scogli; tempio; luogo deserto in vicinanza del mare; sotterraneo; reggia; atrio nel soggiorno di Medea.

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Giusepppe Montanelli,  Ernesto Légouvé, Medea: tragedia in tre atti, voltata in versi italiani da Giuseppe Montanelli, Napoli, 1854.

Personaggi: Creonte; PRINCIPESSA CREUSA; GIASONE ; Medea; Orfeo; popolo; Canefore, nutrice di PRINCIPESSA CREUSA; Melanto e Licaone, figli di Medea; popolo di Corinto. Scena: piazza alla porta di Corinto, a destra bosco di olivi a sinistra statua di Diana collocata alla soglia del suo tempio che non si vede, in fondo una collina che scende dalla città. Altre edizioni Napoli 1832, Firenze 1863. “Medea: tragedia lirica” di Giuseppe Piniveronese in Como. MDCCXLIII dalla ditta di Pietro Ostinelli a spese dell’autore dedicata allo stimatissimo signore Benigno Curti, benemerito fondatore e direttore della società filodrammatica in Como, Marciana, DRAMM 1584, 7.  

Sul testo di Legouvé cfr. M. Booth, J. Stokes, S. Bassnett, Three Tragic Actresses. Siddons, Rachel, Ristori, Cambridge University Press. Oltre a E. Aston, Ristori’s Medea and Her Nineteenth Century Successors in «Women and Theatre: occasional papers. Medea in Corinto” di Domenico Morosini, Venezia, 1806,  

ATTO 1

Scena 1

Grande atrio che introduce da una parte all’interno della reggia, e dall’altra all’appartamento di Medea. GIASONE  e Tideo. Antefatto delle vicende avvenute in Colco e in Iolco e dei crimini commessi da Medea. Introduce l’amore di GIASONE  per PRINCIPESSA CREUSA. Scena 2: GIASONE , Creonte, Teuda, guardie. Creonte lamenta che Medea ancora non sia ancora partita in esilio. Ricorda come solo l’intercessione di GIASONE  abbia mutato la sua condanna a morte in esilio. GIASONE  riconosce che lei «rea si fecesolo in mio pro…». Teuda va a chiamare Medea, GIASONE  parte. Scena 3: Creonte, guardie, indi Medea, Climene, Teuda. Creonte chiede a Medea come mai essa si trovi ancora in Corinto, nonostante il decreto d’esilio. Su insistenze di lei, le concede ancora un giorno. Scena 4: Medea, Climene. Medea progetta la vendetta, mentre Climene cerca di dissuaderla. ATTO II. Scena I: Medea. Monologo. Riflette sulla vendetta progettata, a cui si sente spinta dal destino e da Amore. Scena 2: GIASONE , Medea. GIASONE  cerca di convincere Medea a partire per il suo stesso bene, per non vederlo nelle braccia di PRINCIPESSA CREUSA. Le offre doni, rifiutati da Medea, che possano mantenere lei e i figli in esilio. Scena 3: Teuda e detti. Teuda annuncia che Acasto ha accettato l’esilio di Medea come pena per l’omicidio del padre. La guerra è scongiurata. GIASONE  esorta ancora Medea a partire, e Medea entra imprecando con furore. Scena 4: Teuda, Creonte, GIASONE , Tideo, Teuda. Commentano lo stato di agitazione di Medea. Scena 5 GIASONE , Creonte. Si confermano reciproca stima e affetto. ATTO III. Scena 1 Tideo, GIASONE . GIASONE  sente rimorso per aver abbandonato Medea. Tideo ne descrive lo stato di prostrazione, ma GIASONE  teme la calma apparente della sposa: la vede arrivare e fa per sfuggirle. Scena 2 Medea, GIASONE . Medea esce ed arresta GIASONE ; dopo un dialogo teso in cui si rinfacciano delitti e ingratitudine, Medea chiede a GIASONE  di tenere lui i figli con sé. Scena 3 Medea, Climene. Medea ha deciso la sua vendetta: ucciderà PRINCIPESSA CREUSA e renderà GIASONE  più infelice di lei. Scena 4: Tideo, dette. Tideo annuncia che Creonte ha ceduto e terrà i figli di Medea a Corinto. GIASONE  spera di convincere anche PRINCIPESSA CREUSA. Medea ordina a Climene di inviare I figli da PRINCIPESSA CREUSA con la veste gemmata in dono. Scena 5: Medea si assicura che i suoi ordini siano stati eseguiti e ribadisce l’intenzione di vendicarsi su PRINCIPESSA CREUSA e sui figli: «Se cessata ancoranon è la rabbia mia, credi, non sonovendicata abbastanza. Io, sì, speraiche dell’empia rival bastasse il sanguema di sangue la sete estinta ancoranon è…». Scena 6: Creonte è contento di saperla ormai placata e la tranquillizza sulla sorte dei figli.  Le promette di ospitarla un giorno, quando Acasto e Aeta saranno morti e l’amore di lei per GIASONE  spento. Scena 7. Creonte, tranquillo, è convinto che i figli siano ormai ostaggi contro la vendetta di Medea. ATTO IV, Scena 1: Creonte, GIASONE , Teuda, guardie. Attendono Tideo con i figli e PRINCIPESSA CREUSA per le nozze ma nessuno si fa vivo. Iniziano a preoccuparsi e Creonte va a cercarli. Scena 2 GIASONE  solo esprime la propria felicità per essere giunto al trono di Corinto. Vede arrivare Medea e sfugge. Scena 3: Nuovi commenti di MEDEA sulla vendetta e conferma della risoluzione per l’infanticidio. Scena 4. Tideo, con i figli, conferma che PRINCIPESSA CREUSA sta per provare la veste avvelenata. Medea lo esorta a recarsi da GIASONE  per accompagnarlo da PRINCIPESSA CREUSA che certo non potrà raggiungerlo all’altare. Va poi dai figli a cercare «l’orme de’ baci di PRINCIPESSA CREUSA». Scena 5 Tideo, Climene. Turbato dalle parole di Medea, Tideo chiede spiegazioni a Climene. Essa rivela che in quel momento PRINCIPESSA CREUSA starà morendo. Tideo corre da GIASONE . Scena 6: Medea esce furiosa con un pugnale in mano ed esorta Climene ad allontanare da lei i figli. Atto V, Scena 1: Tideo informa che non è riuscito a raggiungere GIASONE  perché le porte della reggia erano chiuse. Climene preannuncia un delitto anche peggiore di quello. Scena 2 Climene, sola, teme gli eccessi di Medea. Scena 3: Climene prega Medea di risparmiare i figli, ma Medea è risoluta. Scena 4. Teuda le esorta a fuggire e narra dettagliatamene quanto è accaduto a PRINCIPESSA CREUSA, e a Creonte accorso ad aiutare la figlia.  Medea è soddisfatta per la non prevista morte di Creonte.  Teuda conferma che GIASONE  ha visto tutto. Scena 5: Teuda solo piange la morte del re e di PRINCIPESSA CREUSA. Scena 6: GIASONE  è orripilato dallo spettacolo del supplizio di Creonte e PRINCIPESSA CREUSA; lamenta l’assenza di Tideo che però, in quel momento, arriva. Scena 7: Tideo avvisa GIASONE  del rischio che corrono i figli: i corinzi vogliono vendicare su loro la morte del sovrano. GIASONE  invia Teuda a riprendere i propri figli dalla casa di Medea. Scena 8: Commentano la vendetta di Medea mentre attendono che Teuda arrivi con i bambini. Teuda torna, ma solo: Medea non vuole riconsegnare i figli a GIASONE . Scena 9: Medea compare rivela l’infanticidio e scappa.  GIASONE  sviene tra le braccia di Tideo.  Il sipario cala prima che Medea sia del tutto rientrata.

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Pietro Corneille, “GIASONE E MEDEA: tragedia in cinque atti”
Parigi, 1635.

Personaggi:

GIASONE, marito di Medea.
Creonte, re di Corinto. EGEO, re d’Atene.
Pollux, argonauta, amico di Jason Creusa, figlia di Créon Medea, moglie di Jason Cléone, governante de GIASONE E MEDEA  Nérine, seguace di GIASONE E MEDEA  Théudas, domestico di Créon; guardie di Créon.  La scena è a Corinto, nel palazzo di Créon, grotta magica.  

ATTO I

Scena 1

Esposizione dell’antefatto fino alla decisione di Giasone di sposare Creusa.

Scena 2 Jason, solo, esprime amore per Créuse e rimorsi per GIASONE E MEDEA . Scena 3 Jason e Créuse. Jason chiede alla principessa di tenere con sé i figli avuti con GIASONE E MEDEA . Créuse accetta in cambio di un favore che esprimerà al momento opportuno. I,4 GIASONE E MEDEA , sola, invoca le furie e minaccia vendetta. Ricorda l’aiuto prestato a Jason per la conquista del vello d’oro. I,5 GIASONE E MEDEA  e Nérine. GIASONE E MEDEA  esprime la rabbia e i propositi di vendetta. La confidente cerca di confortarla. II,1 GIASONE E MEDEA  e Nérine. Nérine cerca di convincere GIASONE E MEDEA  a non colpire Jason per poi non dover soccombere al rimorso. GIASONE E MEDEA  la rassicura perché ama ancora il marito. II,2 Créon, GIASONE E MEDEA , Nérine, guardie. Créon torna adirato ad intimare l’esilio a GIASONE E MEDEA . La informa che i figli staranno con Créuse, ma le concede ancora un giorno di tempo prima di partire. II,3 Créon, Jason, Créuse, Cléone, guardie. Si discute sui modi di convincere Égée a rinunciare alla mano di Créuse. II,4 Jason, Créuse, Cléone. Créuse chiede a Jason il vestito da sposa di GIASONE E MEDEA  in cambio della cura dei suoi figli. II,5 Créuse, Cléone, Égée. Créuse rifiuta la proposta di nozze di Égée e questo minaccia guerra. III,1 Nérine, sola. In un monologo compatisce Créuse, oggetto della vendetta di GIASONE E MEDEA . III,2 Jason, Nérine. Jason chiede a Nérine di aiutarlo a farsi cedere la veste pretesa da Créuse. IIII,3 Jason, Nérine, GIASONE E MEDEA . GIASONE E MEDEA  rinfaccia a Jason l’aiuto prestatogli a Colco. Poi, fingendosi ormai convinta a partire, chiede di poter tenere i figli con sé. Jason rifiuta: il suo punto debole è ormai scoperto. III,4 Nérine, GIASONE E MEDEA . Nérine suggerisce il modo di vendicarsi di Créuse. IV,1 Nella grotta magica. Nel corso della scena di magia volta ad avvelenare le vesti per Créuse, si viene a sapere che Égée ha attaccato battaglia ma è stato sconfitto ed imprigionato. IV,2 Créon, Pollux, soldati. Créon ringrazia Pollux per averlo aiutato contro Égée. Pollux lo mette in guardia contro i pericoli di GIASONE E MEDEA . IV,3 Arriva la veste per Créuse ma tutti diffidano. Sarà una condannata a morte a fare da cavia. IV,4 Égée in prigione. Monologo. IV,5 GIASONE E MEDEA  libera Égée con la bacchetta magica. (LINE MISSING) V,2 GIASONE E MEDEA , sola. Decide di uccidere anche i figli per completare la propria vendetta. V,3-4 Muoiono il re, in una scena di pazzia, e Créuse. V,5 Arriva Jason e, sul corpo di Créuse, promette vendetta. V,6 Compare GIASONE E MEDEA  e mostra a Jason il pugnale sporco del sangue dei figli. Fugge sul carro trainato dai draghi. V,7 Jason si uccide.

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Hilaire-Bernard de Requeleyne, baron de Longepierre,
“GIASONE E MEDEA: tragedia in cinque atti”
Parigi, 1694.

Personaggi:

GIASONE, principe di Tessaglia.
GIASONE E MEDEA , figlia d’Aete, re della Colco, e moglie di Jason
Créon, re di Corinto; Créuse, figlia di Créon; figli de GIASONE E MEDEA ; Rhodope, confidente di GIASONE E MEDEA ; Iphite, confidente di Jason; Cydippe, confidente di Créon; seguito di Créon. La scena è a Corinto, nel palazzo di Créon. (LINE MISSING)  Longe-Pierre fatta italiana da Filandro Cariteo (Francesco Ubaldo de’ Nobili) da recitarsi nel pubblico teatro di Lucca, nel carnevale dell’anno 1757 dagli Accademici dilettanti della Comica. In Lucca, per Francesco Narescandoli a Pozzotorelli, 1777.  ATTO I, Scena 1: Jason giustifica l’amore per Créuse e sottolinea com’esso si accordi con la ragione; Iphite cerca di persuaderlo a non lasciare GIASONE E MEDEA : teme la vendetta della maga. I,2 Jason, Créuse, Cydippe, Iphite. Jason corteggia Créuse che si ritrae ricordando il suo matrimonio con Medea; Créuse teme anche l’infedeltà Jason; questi cerca di rassicurarla. I,3 Jason, Créuse, Créon, seguito. Créon annuncia le ostilità di Acasto e la decisione di consegnargli GIASONE E MEDEA ; evidenzia anche la necessità di purgare Corinto dalla sua funesta presenza. II,1 GIASONE E MEDEA . GIASONE E MEDEA , disperata, sente canti nuziali. Invoca il sole e le divinità infernali, annuncia vendetta contro Corinto. II,2 GIASONE E MEDEA , Rhodope. GIASONE E MEDEA  chiede notizie delle nozze; lamenta l’ingratitudine di Jason; decide di uccidere Créon e Créuse ma di lasciar in vita il marito: la confidente cerca di calmarla. II,3 GIASONE E MEDEA , Créon, Rhodope, seguito. Créon informa GIASONE E MEDEA  delle nuove nozze e le comunica il decreto di esilio; Medea ne chiede spiegazioni visto che essa è innocente in Corinto. Sostiene anche di aver salvato gli eroi greci, e che Jason ha colto il frutto dei suoi crimini. Créon risponde con ironia GIASONE E MEDEA  sbotta in minacce. II,4 GIASONE E MEDEA , Rhodope. Breve invocazione al dio dell’amore per riconquistare Jason; minacce contro Créon. II,5 GIASONE E MEDEA , Jason, Rhodope. GIASONE E MEDEA  passa in rassegna tutti i luoghi dove ha commesso delitti, ormai impraticabili per l’esilio; rinfaccia al marito il suo aiuto. Chiede, nfine, di poter tenere con sé i figli: Jason glieli nega. II,6 GIASONE E MEDEA , Rhodope. Scena brevissima di commento del dialogo e di minacce contro Jason. III,1 Jason, Créuse, Iphite. Jason vince le ultime resistenze di Créuse al suo amore; alcune frasi di compatimento per GIASONE E MEDEA  da parte di Créuse. III,2 Jason, Iphite. Commentano l’arrendevolezza di Créuse. Jason rivela di essere ossessionato da GIASONE E MEDEA . La vede sopraggiungere e cerca di sfuggirle. III,3 Jason, GIASONE E MEDEA , Iphite, Rhodope. GIASONE E MEDEA  ferma Jason che era in atto di partire e gli chiede perdono; Jason la prega di riprendere la sua collera, meno tollerabile del dolore. GIASONE E MEDEA  lo prega ancora di poter tenere figli ma Jason rifiuta; si rassicura allora della sorte dei figli e della intercessione di Jason nei confronti di Créuse. III,4 GIASONE E MEDEA  e Rhodope. Invocazione ad Ecate. GIASONE E MEDEA  decide di mandare i propri figli a recare i doni per Créuse. I doni non sono richiesti dalla principessa, ma offerti da spontaneamente da GIASONE E MEDEA  con la scusa di garantire ai propri figli l’affetto della nuova madre. IV,1 GIASONE E MEDEA  e Rhodope. Si prepara l’incantesimo. IV,2 GIASONE E MEDEA . Incantesimo: appaiono gli spettri del fratello e del padre. IV,3 GIASONE E MEDEA  e Rhodope. GIASONE E MEDEA  invia la confidente a cercare i figli. IV,4 GIASONE E MEDEA  sola attende l’arrivo dei figli. IV,5 GIASONE E MEDEA , figli, Rhodope. GIASONE E MEDEA  ha espressioni di tenerezza nei confronti dei figli; li invia poi da Créuse con i doni IV,6 GIASONE E MEDEA . GIASONE E MEDEA  prevede la morte di Créon e Créuse, ma non sa come punier Jason. Cerca una punizione terribile: inizia a pensare di sopprimere i figli. IV,7 GIASONE E MEDEA , figli, Rhodope. GIASONE E MEDEA  piange sulla sorte dei figli; al pensiero che ormai siano sottoposti Créuse le monta la rabbia e tenta, invano, l’omicidio. IV,7 GIASONE E MEDEA . GIASONE E MEDEA  decide di portare a termine il crimine per salvare i bambini dalle ingiustizie di Créuse. V,1 GIASONE E MEDEA  e Rhodope. La confidente esorta GIASONE E MEDEA  a fuggire. Descrive la morte di Créuse: Medea rimpiange di non poter assistere alla scena. V,2 Jason cerca GIASONE E MEDEA . V,3 Jason, Créuse, Rhodope. Créuse muore tra le braccia di Jason; Jason cerca GIASONE E MEDEA  per vendicarsi. V,4 Jason, GIASONE E MEDEA . GIASONE E MEDEA  si mostra: lo ferma con la magia; lo informa dell’infanticidio, poi fugge sul carro e lo abbandona.

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Richard Glover, “Giasone e Medea: tragedia in cinque atti”
Londra, 1761.

Personaggi:
GIASONE
Aeson; Créon; Licandre; primo Colco; primo Corinto; GIASONE E MEDEA ; Théane; Hécate; primo Feace, Colchi, Feaci, Tessalici e Corinzi. La scena è nella cittadella di Corinto, tra un boschetto dedicato a Giunone e il palazzo dei re; si vede il mare in prospettiva nel fondo del teatro.  I dati sono citati dalla tr. fr. in Traduction du théâtre anglais depuis l’origine des spectacles jusqu’à nos jours, V, Paris, 1784.

ATTO I

SCENA I

Licandre, Théane. Licandre informa la sorella dell’urgenza manifestata da Créon di celebrare le nozze; la sorella racconta una profezia di Giunone circa l’arrivo di stranieri. I,2 Théane, uomo del seguito di Medea. La sacerdotessa dà il benvenuto agli stranieri e chiede da dove arrivino; al sapere che si tratta di GIASONE E MEDEA  annuncia loro cattive nuove; al sopraggiungere di Créon esorta gli stranieri a nascondersi nel tempio. I,3 Théane, Créon. Il re chiede alla sacerdotessa perché rinvii le nozze; la sacerdotessa rimprovera il sovrano e lo informa che GIASONE E MEDEA  è giunta a Corinto con i figli; il dialogo termina con un aspro scontro fra i due. I,4 Créon, Licandre. Il sovrano chiede spiegazioni del comportamento di Théane; viene però informato dell’arrivo di Aeson, padre di Jason. I,5 Detti, Aeson, seguito. L’ospite chiede asilo. Mandano un messo a cercare Jason, ma concordano di non farlo incontrare con GIASONE E MEDEA . I,6 Créon, Aeson. Vedono arrivare GIASONE E MEDEA  ma si sottraggono e imprecano contro di essa; Créon decide di bandirla subito dallo Stato. I,7 GIASONE E MEDEA , due figli, seguaci. GIASONE E MEDEA  impreca contro Jason: invoca il Sole e gli spiriti infernali; ricorda tutti i gesti che ha compiuto per favorirlo. I,8 Seguaci. Inni e canti elevati per calmare Medea. II,1 Jason, Théane, GIASONE E MEDEA  nascosta. Théane rimprovera Jason, già turbato per aver tradito la sposa; GIASONE E MEDEA  parla, non vista, e turba ulteriormente lo sposo; Théane lo informa che GIASONE E MEDEA  è a Corinto: GIASONE  decide di rinunciare Créuse. II,2 Detti, Licandre. Licandre comunica che Théane è convocata a corte. II,3 Jason, Licandre. Jason è informato dell’arrivo del padre. II,4 Jason, Aeson. Scontro fra padre e figlio nei confronti di GIASONE E MEDEA ; Aeson cerca di convincere il figlio a sposare Créuse per preservare il proprio rango. II,5 Jason, GIASONE E MEDEA , seguaci. GIASONE E MEDEA  insulta Jason. Jason, remissivo, riconosce i meriti di GIASONE E MEDEA , ma non lo ascolta, neppure quando lui manifesta l’intenzione di non sposare Créuse, e parte infuriata. II,6 Jason, Aeson. Jason, indispettito dalla furia della sposa, si piega agli ordini del padre. II,7 Seguaci. Testi gnomici di commento. III,1 Théane, seguace di GIASONE E MEDEA . La sacerdotessa chiede di essere guidata da GIASONE E MEDEA . III,2 Théane, GIASONE E MEDEA , figli, seguaci. I figli chiedono alla madre perché devono scappare ancora, dopo che finalmente sono giunti dal loro padre; GIASONE E MEDEA  risponde «voi non avete più padre»; la sacerdotessa informa GIASONE E MEDEA  del bando decretato da Créon, ma le assicura il proprio sostegno; GIASONE E MEDEA  rifiuta ogni aiuto ma le affida i propri figli. III,3 GIASONE E MEDEA , seguaci, Créon, Licandre. Alterco tra Créon, arrogante e protervo, e GIASONE E MEDEA , che chiede ancora tre ore di tempo. III,5 GIASONE E MEDEA , seguace. GIASONE E MEDEA , sollecitata dalla seguace, decide di affidarsi alla magia per vendicarsi. III,6 GIASONE E MEDEA , seguaci. Sortilegio. III,7 GIASONE E MEDEA , Ecate. GIASONE E MEDEA  chiede vendetta su Créon, non su GIASONE  né sul padre; Ecate le rivela il futuro in modo ambiguo: morranno oggetti a lei cari, e lei, disperata, vagherà per il mondo. III,8 GIASONE E MEDEA  sola. GIASONE E MEDEA  teme che la profezia si riferisca a Jason. III,9 GIASONE E MEDEA , seguaci. GIASONE E MEDEA , timorosa per Jason, invia una seguace a cercarlo: vuole provare a riappacificarsi con lui. III,10 Seguaci. Canti di lutto. IV,1 Jason, seguace di Medea. Jason chiede perché è richiamato da GIASONE E MEDEA , e rifiuta di vederla ancora. IV,2 Jason, figli, seguaci di GIASONE E MEDEA . I figli esortano il padre a tornare con la madre; Jason propone di tenere con sé i figli, ma questi rifiutano. VI,3 Detti, GIASONE E MEDEA , seguaci. GIASONE E MEDEA  chiede Jason di renderle l’amore dei genitori, la reputazione, l’innocenza; il dialogo è di riconciliazione ma quando Jason afferma di aver ormai firmato il contratto nuziale, Medea sbotta in minacce e invoca gli inferi. IV,4 Jason, seguace di GIASONE E MEDEA . Jason è ormai risoluto ad abbandonare Créuse. IV,5 Detti, Licadre. Jason è informato che deve scacciare con la forza GIASONE E MEDEA , ma egli rifiuta. IV,6. Detti, Créon, seguito. Créon teme che Jason ci ripensi e rifiuti di convolare a nozze con la figlia; Jason conferma I suoi timori e lo informa di aver deciso di abbandonare Créuse. IV,7 Créon, seguito, Licandre. Créon decide di costringere Jason con la forza alle nozze. IV,8 Detti, Théane. La sacerdotessa rimprovera Créon suscitandone l’ira. IV,9 Théane e Licandre. Breve commento alla scena precedente. IV,10 Théane, Licandre, Jason. Jason è ormai risoluto a tornare con Medea; la sacerdotessa ha però presagi di sventura. IV,11 Jason, Licandre. Licandre informa Jason del progetto di Créon, ma gli assicura il suo sostegno. IV,12 Jason, Aeson. Il padre è furioso per la decisione del figlio; Jason lo esorta a fuggire assieme a lui da Corinto: lo convince. IV,13 Jason. Invocazione alle divinità nuziale; monologo di conforto. IV,14 Seguaci. Canti di commento e invocazione al Sole. V,1 Théane, Aeson, seguaci di GIASONE E MEDEA . Appare GIASONE E MEDEA  stravolta; la sacerdotessa informa gli astanti dell’infanticidio; descrizione della scena omicida; Théane annuncia, poi, un proclama di condanna della dea contro Créon. V,2 GIASONE E MEDEA , seguaci. GIASONE E MEDEA , furiosa, annuncia che ha appena dato avvio alla sua vendetta: sul carro del Sole darà alle fiamme l’intera Corinto. Solo successivamente si riprende e, disperata, si rende conto del suo crimine al quale si sente essere stata spinta da destino. V,3 Detti e Jason. Jason informa GIASONE E MEDEA  della sua decisione di lasciare Créuse; GIASONE E MEDEA  disperata rivela il suo crimine; scena di tenerezza fra i due sposi e di imprecazioni contro Créon; GIASONE E MEDEA  tenta di uccidersi ma una voce dal tempio la ferma. V.4. (TO SPECIFY) V,5 Detti, Licandre. Licandre esorta Jason a fuggire, ma l’eroe rifiuta, anche a rischio della vita; comincia un temporale e arrivano i Corinti per vendicarsi. V,6-7 Detti, Aeson. Il padre di Jason avvisa dell’arrivo di Créon intenzionato ad affermare la propria autorità. Grande battaglia fuori scena. V,8 Detti, Théane. La sacerdotessa annuncia il decreto della dea: le nozze di Jason e GIASONE E MEDEA  sono sciolte; a quel punto GIASONE E MEDEA  sorvola la scena sul carro del Sole senza gettare un ultimo sguardo su Corinto. Jason tenta il suicidio ma Théane lo ferma e lo esorta ad andare a riprendersi il suo regno.

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Giovanni-Giorgio Noverre,
"GIASONE E MEDEA",
Stoccarda, 1763.

Ballo, tre atti.

Personaggi:

GIASONE, principe della Tessaglia, sposo di Medea ed amante della PRINCIPESSA CREUSA.
Medea, principessa di Colco e sposa di GIASONE ; PRINCIPESSA CREUSA, principessa di Corinto ed amante di GIASONE ; Creonte, re di Corinto, padre di PRINCIPESSA CREUSA; due figli di Medea e GIASONE ; governante de’ suddetti e confidente di Medea; principi e principesse di Corinto; guardie reali; Furie: la Vendetta, il Ferro, il Fuoco, il Veleno, altre furie. La scena si passa in Corinto nel peristilio del Palazzo di Creonte, nel gabinetto di PRINCIPESSA CREUSA, in una grotta spaventevole, in un luogo magnifico con trono. I dati sono tratti dalla prima ripresa milanese del 1773. I,1 Piazza nella città di Corinto. Arrivano Medea, GIASONE , figli. Festa di accoglienza, con cerimonie e lotte di gladiatori, GIASONE  premia il vincitore. S’innamora poi di PRINCIPESSA CREUSA che lo ricambia con sguardi affascinati I,2 Gabinetto nel palazzo di Creonte. Creonte, PRINCIPESSA CREUSA. Creonte propone a PRINCIPESSA CREUSA di unirsi a GIASONE . Il rossore della principessa conferma al sovrano che la principessa accetterà di buon grado la proposta. I,3 GIASONE  e detti. Creonte accoglie GIASONE  con tenera amicizia, poi esce e lascia soli i due giovani. GIASONE  dichiara il proprio amore a PRINCIPESSA CREUSA che lo ricambia. Si giurano eterna fede. I,4 Medea sopraggiunge e interrompe l’incontro affettuoso: aggredirebbe PRINCIPESSA CREUSA se non fosse trattenuta dallo sposo. I,5 Creonte offre la corona di Corinto a GIASONE . Questi è però incerto sul da farsi. Sta per accettare, quando... I,6 Entra Medea che, in ginocchio, lo prega di riprenderla con sé. GIASONE  commosso sta per tornare con Medea, quando PRINCIPESSA CREUSA con moine lo richiama a sé. I,7 GIASONE  vola tra le braccia di PRINCIPESSA CREUSA e intima l’esilio a Medea. I,8 Medea è a terra immobile. Allontana, poi, i figli da sé. A quel punto la scena si muta in una grotta spaventevole: incantesimo con Gelosia, Ferro, Fuoco, Veleno dove vengono preparati i doni per Creonte e PRINCIPESSA CREUSA. I,9 Medea chiama i figli con l’intenzione di ucciderli. Non riesce a dare corso alla vendetta e li abbraccia: poi si avvia con essi a portare i doni avvelenati a PRINCIPESSA CREUSA. I,10 La scena si cangia e rappresenta un gran salone con magnifico trono sul fondo. Creonte incorona GIASONE  e gli offer la tazza nuziale. I,11 Compare Medea «e tutto cambio aspetto». GIASONE  è ricolmo di vergogna, e di dispetto, PRINCIPESSA CREUSA timida non osa levar gl’occhi da terra. Creonte è penetrato dallo sdegno il più più violento e il popolo in costernazione aspetta fremendo il fine d’un tale evento. Medea dissimula la rabbia e consegna i doni avvelenati; grati, PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE  abbracciano Medea. I,12 PRINCIPESSA CREUSA e Creonte aprono i doni e sono contaminati dal veleno e muoiono. Compare Medea sul carro: un figlio è morto, l’altro viene ucciso scena. Le furie trattengono GIASONE , poi su ordine di Medea la Vendetta gli consegna il pugnale col quale il principe si uccide. Crollo della reggia di Corinto in fiamme. Medea s’invola sul carro. Versione della prima ripresa napoletana, curata da Domenico Lefèvre nel 1794.

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Giovanni Giorgio Noverro,
“Giasone e Medea: melodramma in tre atti”
Stoccarda, 1763.

Personaggi:

GIASONE , principe della Tessaglia, sposo di Medea ed amante della PRINCIPESSA CREUSA.
Medea, principessa di Colco e sposa di GIASONE ; PRINCIPESSA CREUSA, principessa di Corinto ed amante di GIASONE ; Creonte, re di Corinto, padre di PRINCIPESSA CREUSA; due figli di Medea e GIASONE ; governante de’ suddetti e confidente di Medea; principi e principesse di Corinto; guardie reali; Furie: la Vendetta, il Ferro, il Fuoco, il Veleno, altre furie. La scena si passa in Corinto nel peristilio del Palazzo di Creonte, nel gabinetto di PRINCIPESSA CREUSA, in una grotta spaventevole, in un luogo magnifico con trono.

ATTO I

SCENA I

Medea, GIASONE, figli.

Egeo innamorato di Medea arrivano a Corinto.

Durante la festa di accoglienza, GIASONE  s’innamora di PRINCIPESSA CREUSA e le chiede un appuntamento segreto; la proposta è sorpresa Medea che, gelosa, dissimula per non interrompere la festa. II,1 Damigelle e PRINCIPESSA CREUSA che attende GIASONE . In seguito egli sopraggiunge. Scena d’amore con PRINCIPESSA CREUSA ritrosa: GIASONE  allontana le damigelle. II,2 Creonte osserva condiscendente l’incontro tra i due giovani. II,3 GIASONE  corteggia PRINCIPESSA CREUSA che, infine, cede alle sue avances. II,4 Medea sopraggiunge e interrompe l’incontro affettuoso: tenta di aggredire PRINCIPESSA CREUSA ma è trattenuta da GIASONE . II,5 Creonte offre la corona di Corinto a GIASONE . Questo è però incerto sul da farsi. II,6 Medea, in ginocchio, prega GIASONE  di riprenderla con sé. GIASONE  commosso sta per tornare con Medea, quando PRINCIPESSA CREUSA con moine lo richiama a sé. II,7 Egeo dichiara il suo amore per Medea, ma Medea, dopo averlo respinto come amante, chiede il suo aiuto: Egeo deve uccidere PRINCIPESSA CREUSA. Al suo rifiuto, il pretendente è scacciato. II,8 Medea è a terra immobile. Allontana, poi, i figli da sé. A quel punto la scena si muta in una grotta spaventevole: incantesimo con Gelosia, Ferro, Fuoco, Veleno dove vengono preparati i doni per Creonte e PRINCIPESSA CREUSA. II,9 Medea chiama i figli con l’intenzione di ucciderli. Non riesce a dare corso alla vendetta e li abbraccia: poi si avvia con essi a portare i doni avvelenati a PRINCIPESSA CREUSA. III,1 Creonte incorona GIASONE . III,2 All’arrivo di Egeo, GIASONE  chiede notizie di Medea; Creonte offre a GIASONE  la tazza nuziale. III,3 Compare Medea, «e tutto cambio aspetto». Medea dissimula la rabbia e consegna i doni avvelenati; PRINCIPESSA CREUSA abbraccia Medea che respinge per l’ultima volta le avances di Egeo. III,4 PRINCIPESSA CREUSA e Creonte aprono i doni e sono contaminati dal veleno. III,5 Compare Medea sul carro: un figlio è morto, l’altro viene ucciso scena. Le furie trattengono GIASONE  ed Egeo: su ordine di Medea consegnano a GIASONE  il pugnale e il principe si uccide. Egeo sviene in braccio alle furie. Crollo della reggia di Corinto in fiamme.  Frederico Guillelmo Gotter - Jiri-Antonino Benda, “Medea: melodramma in un atto” (Leipzig, 1775. Melologo, sonata. Personaggi: Medea, moglie ripudiata da GIASONE ; GIASONE  principe reale di Tessaglia; Cleonte e Olinto piccioli figli di Medea, e di GIASONE ; PRINCIPESSA CREUSA principessa di Corinto e novella sposa di GIASONE ; Selene, governatrice dei detti due principini; gente di seguito. L’azione si rappresenta in Corinto. Scena: in prospetto la veduta della città di Corinto. Da una parte Palazzo Reale. Dall’altra un tempio magnifico dedicato alla dea Giunone. I dati sono tratti dalla traduzione italiana MEDEAAZIONE TRAGICADI UN SOLO ATTOTRATTA DAL TEDESCO DA B. B.PARMAPRESSO FILIPPO CARMIGNANIStampatore per privilegio di S.A.R.MDCCLXXX.  Altre traduzioni sono Medea monodramma di Gotter, messo in musica da Giorgio Benda, in «Novelle letterarie», II/17, 26 aprile 1782, coll. 257-272  (anonima).

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GIASONE E Medea, monodramma del Sig. Gotter
messo in musica dal sig. Giorgio Benda, in Aurelio de’ Giorgi Bertòla, in Idea della bella letteratura alemanna, II, Lucca, Francesco Bonsignori, 1784;

Medea, azione tragica di un solo atto,scrittadal signorEngel,emessa in musica dal celebre maestro di Cappella Giorgio Benda, libretto, I-Nc.-Rari-9.8-7.  

1 Medea discende dal cielo su di un carro; GIASONE  è già sposo di PRINCIPESSA CREUSA, i figli sono con lui. Medea invoca Giunone e implora vendetta; proclama il suo potere magico. In un momento di sconforto si chiede dove rifugiarsi: sente canti nuziale e impreca.

2 Pantomima muta con GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA felici; Medea a parte commenta con rabbia la scena: è indecisa sul da farsi. Interrompere le nozze o uccidere la coppia col favore delle tenebre? Invoca le divinità infernali; vorrebbe uccidere i figli di PRINCIPESSA CREUSA, se ne avesse: comincia pensare ai propri figli, ma si pente del solo pensiero; frasi di tenerezza nei confronti dei figli; timore di vederli disprezzati dalla nuova madre: in delirio vede GIASONE  ai piedi dei figli morti, poi si riprende.

3 Detta, nutrice e figli. Tenero incontro tra Medea e i figli.

4 Medea e figli. I figli vorrebbero stare accanto alla madre; Medea ne respinge uno, quello che più assomiglia a GIASONE . Vorrebbe scappare con essi; poi il furore ha il sopravvento: fa gesto di ucciderli, ma subito si riprende e li scaccia da sé.

5 Medea. Nuovi canti nuziali; Medea diventa nuovamente furiosa, pronta alla vendetta; invoca Ecate; fra tuoni e lampi esce di scena per rientrarvi con il pugnale insanguinato. Invocazione a Giunone, poi chiede alle furie di portargli GIASONE .

6 GIASONE . Disperato vede la catastrofe di Corinto. 7 Medea sul carro del Sole. Chiama GIASONE , che stupito e impaurito, inizialmente non capisce da dove venga la voce della donna; Medea si libera del pugnale con cui ha ucciso i figli; le furie gettano il corpo dei figli di Medea sulle scale del palazzo e impediscono a GIASONE  il suicidio; l’intero palazzo crolla nell’abisso.

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Giovanni Maria Bernardo Clemente,
Giasone e Medea: tragedia in cinque atti.
Parigi, 1779.

Personaggi:

GIASONE
MEDEA, femme de Jason
Créon, re di Corinto; Jason principe di Tessaglia; Phénice, confidente di GIASONE E MEDEA ; Arbas, capo delle guardie; guardie. La scena a Corinto, nel palazzo di Creon.

ATTO I

SCENA I

Phénice, GIASONE E MEDEA . Phénice invita GIASONE E MEDEA  a partire perché ormai è stato deciso il suo esilio e le prossime nozze di Jason con Créuse. Rapido antefatto sulle vicende di Colco. I,2 Créon, GIASONE E MEDEA , Phénice, Arbas, guardie. Il sovrano esilia GIASONE E MEDEA . Questa però tenta di coinvolgere anche Jason nel suo destino, ricordando che lui è responsabile dei crimini da lei commessi. Il re lascia a GIASONE E MEDEA  ancora un giorno di tempo prima di lasciare la città. I,3 GIASONE E MEDEA , Phénice. GIASONE E MEDEA  informa la confidente che ha chiesto ancora un giorno per avere il tempo della vendetta; prima, vuole però provare le vie dell’amore. I,4 GIASONE E MEDEA  e Jason. GIASONE E MEDEA  chiede al marito di poter tenere i figli. Al rifiuto di Jason, GIASONE E MEDEA  prorompe in minacce. II,1 Jason, solo, vorrebbe rinviare le nozze con Créuse, per riguardo a GIASONE E MEDEA . Racconta una visione dove GIASONE E MEDEA  si scagliava contro Créuse e la feriva. II,2 Arbas, Jason. Arbas sollecita Jason a recarsi alle nozze, ma Jason prende tempo. È pentito e commosso dai pianti di GIASONE E MEDEA . Arbas lo convince ad accettare il patto con Créon. II,3 GIASONE E MEDEA , sola. Ha saputo che Jason ritarda a recarsi all’altare. Spera di averlo riconquistato. II,4 GIASONE E MEDEA , Phénice. La confidente la disillude: Jason sta per sposare Créuse, ma solo per salvare GIASONE E MEDEA . In caso contrario il popolo si rivolgerebbe contro di lei. GIASONE E MEDEA  decide però di dare corso alla vendetta: ucciderà Créuse col dono avvelenato, ma arriverà anche a punire Jason. II,5 GIASONE E MEDEA , Phénice, Arbas. Arbas viene a prendere i figli di GIASONE E MEDEA , che Créon ha deciso siano adottati da Créuse. GIASONE E MEDEA  afferma che li consegnerà solo al sovrano in persona. III,1 GIASONE E MEDEA  col pugnale insanguinato. In un lungo monologo esprime rimorsi per aver ucciso i propri figli e invoca contro sé le furie. III,2 Detta, Phénice. Phénice esorta GIASONE E MEDEA  a fuggire e racconta la morte di Créuse. III,3 Dette, Jason. Jason chiede i figli e le impone di fuggire da regno di Corinto. GIASONE E MEDEA  rivela la morte dei bambini, e chiede a Jason di ucciderla. Jason, per punirla, la lascia in vita fra i tormenti dei rimorsi ed entra. GIASONE E MEDEA  chiude la tragedia lasciando intendere il proprio suicidio: «Je me délivre enfin de l’horreur de t’aimer».

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Cosimo Giottik Giuseppe Moneta,
La vendetta di Medea: melodramma in cinque atti
Firenze, Luchi, 1787.

Personaggi:

GIASONE, principe di Tessaglia e capo degl'argonauti.
Medea, principessa di Colco, moglie ripudiata di GIASONE
Creonte, re di Corinto; PRINCIPESSA CREUSA, nuova sposa di GIASONE ; Clearco, aio di GIASONE  e confidente di Medea; Menandro, grande del regno di Creonte; Leucippe, confidente e custode dei figli di GIASONE  e Medea; Olinto e Aristo, piccoli figli di GIASONE  e Medea; grandi e guardie del seguito di Creonte; nobili donzelle del seguito di PRINCIPESSA CREUSA; sacerdoti e popolo. La scena è a Corinto, nel palazzo reale di Creonte: atrio magnifico che porta in un ampio cortile. I,1 Si finge che Medea arrivi a Corinto dove sono rifugiati GIASONE  e figli. Medea, avanzandosi con segni di raccapriccio e di orrore, guarda la reggia, poi soffermandosi impreca contro GIASONE . I,2 Medea, Clearco. Medea s’incontra con Clearco che la esorta a fuggire da Corinto; Medea risponde di essere venuta a riprendersi i figli e a vendicarsi su PRINCIPESSA CREUSA e su Creonte: interromperà le nozze davanti all’ara e ucciderà PRINCIPESSA CREUSA. Prega poi Clearco di andare da GIASONE  e rammentargli i delitti da lei compiuti in suo favore. Sopraggiungono GIASONE  e Creonte, e Medea, su consiglio di Clearco, si nasconde dietro una colonna. I,3 GIASONE , Creonte, Clearco, Medea. Creonte invia Clearco a convocare PRINCIPESSA CREUSA. Nel dialogo che segue si completa il resoconto dell’antefatto con la narrazione dell’amore ormai spento di GIASONE  per Medea, della pietà che egli nutre per la sposa e del timore che essa ormai sia morta per mano di Acasto che ne aveva chiesto l’esilio da Corinto. I,4 PRINCIPESSA CREUSA con seguito e detti. «Nel tempo che PRINCIPESSA CREUSA discende dalla gradinata e si avanza, musica allegra per dar luogo a dessa di spiegar con la pantomima il rispetto verso Creonte e l’amore verso GIASONE , ed a questi la reciproca soddisfazione». Il dialogo che segue annuncia il matrimonio imminente. I,5 GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA. PRINCIPESSA CREUSA è incredula che GIASONE  possa aver dimenticato Medea. Manifesta poi angoscia per un vago presentimento. I,6 Detti, Menandro con seguito di grandi Corinti. Lunga didascalia che prescrive tra l’altro «odesi di dentro un suono di strumenti e di giulivi applausi. Vien Menandro preceduto da banda militare e da una nobile vanguardia, e fiancheggiato da due ali di guerrieri. Vedesi comparire un magnifico cocchio trionfale adorno di festoni, di mirti e rose. Sovra a lui vagamente aggruppate pendono vari fasci di ricche piume e nei lati e nel di dietro del cocchio si scorgono dei geroglifici analoghi ad amore e Imene. Successivamente si avanza un’altra schiera a cui si uniscono le guardie rimaste in scena ed il popolo che in bell’ordine di marcia deve seguire il cocchio, allora che sieno in quello assisi PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE . All’entrar di Menandro in scena marcia strepitosa e lietissima la quale resta interrotta dalle di lui parole». Menandro chiama i due amanti alle nozze. Poi riprende la pantomima che descrive la partenza dei due amanti: il corteo entra «dopo un giro per la scena». I,7 Medea e Clearco. Clearco trattiene Medea che esce dal nascondiglio: «Medea – Lasciami! Clearco – Ferma! Medea – No! Clearco – Ferma ti dico!Medea – Lo speri invan! Clearco – Oh ciel! dove? Medea –- A sfogareSul re malvagio e su la coppia infameL’odio, la rabbia e la vendetta...». II,1 Lunga didascalia per descrivere un gran tempio magnificamente addobbato e la pantomima dell’arrivo del corteo nuziale con sacrifici di animali, scambio di coppe da cui gli sposi bevono liquore. Preghiera di Creonte. Tuoni e prodigi interrompono, però, le nozze: PRINCIPESSA CREUSA ne è sconvolta mentre Creonte e GIASONE  tentano di concludere la cerimonia.Si scambiano le destre. II,2 Medea si rivela fra l’orrore e lo stupore generale. La cerimonia si interrompe fra le imprecazioni reciproche. II,3 Medea, GIASONE , e Clearco in disparte. Medea ferma GIASONE  e gli rinfaccia tutti i favori di cui lei lo ha elargito. II,4 Medea e Clearco. Medea manda Clearco a chiedere a Creonte di concederle un ultimo saluto ai figli. II,5 Medea sola. Decide di vendicarsi sui figli (tutto il monologo è punteggiato da « musica forte ed espressiva ma che rientra in dolce e passionata»). I,6 Medea, Leucippe con i figli. Olindo parla di PRINCIPESSA CREUSA come «madre novella»: a Medea risorge lo sdegno. Scena molto combattuta tra l’odio e l’affetto sia per Medea che per i figli qui parti effettive e non presenze mute, come generalmente accade. Medea sta per colpirli ma riesce Leucippe che la ferma in extremis. III,1 GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA. PRINCIPESSA CREUSA chiede a GIASONE  il cinto di Medea. III,2 Clearco e detti. Breve scena di transizione: PRINCIPESSA CREUSA entra. III,3 Clearco e GIASONE . Clearco annuncia a GIASONE  che Medea vuol salutarlo prima di ripartire. Ma al sopraggiungere della sposa, GIASONE  cerca, invano, di sfuggirle. III,4 Medea e detti Medea, dissimula serenità. Chiede a GIASONE  di poter riavere I figli perché teme che PRINCIPESSA CREUSA li maltratti. GIASONE  ne approfitta per chiederle il cinto preteso da PRINCIPESSA CREUSA. III,5 Medea sola, furente. Invoca Ecate e si avvia a compiere il sortilegio. IV,1 Medea indi Leucippe. Orrido e oscuro sotterraneo tempio dedicato agli dei d’averno in cui si discende per una comoda gradinata. Nel mezzo del simulacro di Plutone. Esce Leucippe a rito concluso. IV,2 Dette con Clearco, ignaro di tutto. Medea affida a Clearco il cinto da portare a PRINCIPESSA CREUSA tramite i figli. IV,3 Leucippe e Medea. Medea, in delirio, vede l’ombra del fratello che la esorta alla strage. IV,4 Creonte e dette. Il sovrano è lieto per il dono fatto a PRINCIPESSA CREUSA. La scena si svolge ancora nell’orrida sotterraneo. Creonte chiede a Medea perché si trovi lì e lei risponde che intendeva compiere un sacrificio a Dite. IV,5 Medea e Leucippe. Medea risolve di uccidere anche i figli. IV,6 Arrivano i bambini e Medea finge di voler scappare con essi. Manda Leucippe ad avvisare GIASONE  che lei li terrà fino al momento di partire. Quando Leucippe è uscita, Medea tenta di uccidere i figli, ma cede di fronte ai loro pianti. Li affida a Leucippe, nel frattempo nuovamente uscita, ed entra furiosa e turbata. V,1 Medea sola. Lunga didascalia che presenta tra l’altro la comparsa di Medea sul limitare della porta con pugnale in mano tinto di sangue, pallida in volto, tremante e tutta scarmigliata. Monologo di dolore e rimpianto per il delitto commesso. V,2 Detta e Leucippe. Leucippe sopraggiunge per esortarla a fuggire Racconta l’effetto della magia di Medea su PRINCIPESSA CREUSA e su Creonte che tentava di salvare la figlia. V,3 Leucippe e Menandro. Menandro cerca GIASONE  per informarlo dei delitti commessi da Medea: descrive PRINCIPESSA CREUSA moribonda che lo esortava ad avvisare GIASONE . V,4 GIASONE  sopraggiunge alla ricerca di Medea. V,5 PRINCIPESSA CREUSA moribonda sostenuta da Creonte e da Clearco. Cercano Medea per pregarla di guarire la principessa in cambio della restituzione dei figli. PRINCIPESSA CREUSA muore. Tuoni, fulmini e terremoto: mentre l’intera Corinto crolla compare Medea. V,6 Medea e detti. Medea con disprezzo verso GIASONE , mostra il pugnale sporco di sangue, poi fugge sul carro trainato da draghi. GIASONE  vuole uccidersi ma viene impedito dai Corinte da Creonte.

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Gaetano Marinelli,
La vendetta di Medea: dramma per musica in due atti”
Venezia, 1791.

Personaggi:

GIASONE, sposo di Glauce.
Medea, consorte di GIASONE  ripudiata da lui;
Creonte, re di Corinto; Glauce, di lui figlia; Narbale, ajo de’ figli di Medea; Idamante, seguace di Medea; due figli di Medea, che non parlano; coro di furie; coro di soldati; guardie di Creonte. Mutazioni di scene: logge, gabinetto, sotterraneo nella reggia di Creonte, galleria, galleria, gabinetto, logge, reggia.

ATTO I

SCENA I

Idamante e Narbale, figli di Medea. Nel dialogo chiariscono che Creonte ha esiliato Medea e che GIASONE  corteggia ormai Glauce. Descrive in dettaglio i gesti di disperazione di Medea. (Aria di Narbale.) I,2 Medea, sola, impreca contro GIASONE  e Glauce. (Aria di Medea.) [I,3] Creonte con guardie. Creonte le intima l’esilio, poi consente a lasciarle un giorno di tempo, minacciandola di non sollecitare la sua ira. (Aria di Creonte.) I,4 Medea sola. È contenta per aver strappato il tempo necessario per la vendetta. I,5 GIASONE  e Glauce. Glauce teme che GIASONE  possa tornare ad unirsi a Medea. GIASONE  la rassicura del suo amore. (Aria di GIASONE .) I,6 Medea nel sotterraneo della reggia, con le furie. Sortilegio. (Aria con coro.) I,7 Glauce e Idamante. Glauce, gelosa, lamenta l’assenza di GIASONE . (Aria di Glauce.) I,8 GIASONE  e Medea. Scontro tra i due sposi. (Duetto conclusivo dell’atto.) II,1 Glauce, Idamante. Glauce ha saputo che GIASONE  ha appena parlato con Medea ed è gelosa. Idamante la rassicura. (Aria di Idamante.) II,2 Glauce sola e inquieta. (Aria di Glauce.) II,3 GIASONE , Medea, figli, Narbale con veste. Medea chiede a GIASONE  di tenere con sé I figli: offre le veste in dono a Glauce per assicurarsi il suo consenso. GIASONE  è contento di vederla rassegnata. (Aria di GIASONE .) II,4 Narbale, Medea e figli. Medea guarda i figli con tenerezza, indi volgendosi altrove dà in furore. Narbale tenta di calmarla. (Aria di Narbale.) II,5 Medea con i figli. Scena di tenerezza, poi di nuovo irata. (Aria di furore di Medea.) II,6 Creonte, GIASONE , Glauce morta con indosso la veste di Medea. Creonte e GIASONE  stanno in atto di maraviglia e dolore. Lamentano la morte di Glauce. (La scena si conclude con l’aria di Creonte.) II,7 Idamante, poi Medea. Idamante esorta Medea di fuggire dai Corinti e GIASONE  che la cercano per vendicare al morte di Glauce. Prova a rimproverarla ma Medea lo scaccia con minacce. II,8 Medea sola. Commenta l’esito delle sue azioni. II,9 Creonte, GIASONE , guardie, furie, Medea, figli, Narbale, Idamante, soldati. Medea uccide in scena i figli fra l’orrore generale. (Finale con coro.)

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Francesco-Benoît Hoffman e Luigi Cherubini, Medea: tragedia in tre atti
1797.

Personaggi:

GIASONE
MEDEA
Créon, re di Corinto; Creusa, figlia di Créon; Néris, schiava sciita; capo delle guardie; confidente de Dircé, due figli di Jason e GIASONE E MEDEA ; damigelle di Dircé; argonauti; guardie di Créon; popolo di Corinto; sacerdoti; [le eumenidi]. La scena è a Corinto: I nel palazzo di Créon; II all’esterno, con tempio di Giunone sullo sfondo; III montagna rocciosa con grotta e sullo sfondo il palazzo reale.

ATTO I

SCENA I

Dircé. Ancelle.  Le ancelle festeggiano con Creusa le nozze imminenti. Ma Creusa è triste per un funesto presagio che la tormenta. Escono Creonte e Giasone mentre il re sta assicurando Giasone che proteggerà i figli da lui avuti con GIASONE E MEDEA . I,3 Créon, Dircé, Jason, ancelle di Dircé, Argonauti, donne di Corinto, popolo di Corinto, soldati. Comincia la festa del trionfo del vello d’oro. Marcia. I,4 Detti, messaggero. La festa è interrotta dal messaggero che annuncia la visita di una donna straniera. I,5 Detti, GIASONE E MEDEA  coperta. GIASONE E MEDEA  esce, e appena si rivela, il popolo fugge atterrito. I,6 GIASONE E MEDEA , Jason, Créon, Dircé, seguito di Dircé. Minacce reciproche. Créon intima a GIASONE E MEDEA  l’esilio. I,7 GIASONE E MEDEA  e Jason. GIASONE E MEDEA  rinfaccia al marito l’aiuto prestatogli a Colco e le promesse d’amore. II,1 GIASONE E MEDEA , sola, esprime la sua rabbia ed i propositi di vendetta. Invoca le furie e decide di vendicarsi su Dircé e Créon. II,2 Néris e GIASONE E MEDEA . L’ancella esorta GIASONE E MEDEA  a fuggire perché il popolo la cerca per metterla a morte. II,3 GIASONE E MEDEA , Créon, Néris, guardie. Créon Torna per intimare l’esilio a GIASONE E MEDEA . GIASONE E MEDEA , in parte dissimulando i propri propositi, chiede ancora un giorno di tempo. II,4 GIASONE E MEDEA , Néris. Néris compatisce la sorte di GIASONE E MEDEA , ma questa la mette a parte del suo progetto di vendetta. La manda con i figli a consegnare i doni avvelenati. II,5 GIASONE E MEDEA , Néris, Jason. GIASONE E MEDEA  si mostra calma e persuasa a partire per poter tenere con sé i figli. Al rifiuto di Jason la decisione è presa: il punto debole è stato scoperto. II,6 GIASONE E MEDEA , Néris. Néris cerca di convincere GIASONE E MEDEA  a salvare i figli. II,7 GIASONE E MEDEA  e Néris sul davanti della scena; Créon, Jason, Dircé, sacerdoti, soldati, ancelle, popolo nel fondo. Inizia il sacrifico propiziatorio per le nuove nozze di Jason. GIASONE E MEDEA  sente i canti nuziali dietro la scena. GIASONE E MEDEA  in scena impreca; poi, a cerimonia conclusa, compie gesti sacrileghi sull’altare. III,1 GIASONE E MEDEA , sola, vede i figli con Néris che portano la veste in dono a Dircé. Decide di ucciderli. III,2 GIASONE E MEDEA , Néris, figli. Tornano i figli e GIASONE E MEDEA  tenta di colpirli. Esita e li scaccia. Néris li nasconde nel tempio. III,3 GIASONE E MEDEA , sola, decide nuovamente di ucciderli. Si sentono i canti funebri per la morte di Dircé e del padre. III,4 Jason, popolo di Corinto in tumulto. Cercano GIASONE E MEDEA  per vendicare la morte di Dircé. III,5 Jason, popolo, Néris, Néris avvisa Jason che GIASONE E MEDEA  sta cercando di colpire I figli. III,6 Jason, popolo, Néris, GIASONE E MEDEA , Eumenidi. Compare GIASONE E MEDEA  tra le Eumenidi e rivela la morte dei figli. Minaccia Jason prospettandogli una vita tormentata dai rimorsi e dalla solitudine. Scompare nel palazzo in fiamme per raggiungere i figli.

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Onorato Balsamo e Francesco Piticchio,
La vendetta di Medea: dramma serio per musica in due atti”
Napoli, 1798.

Personaggi:

GIASONE, sposo di Glauce
Medea, consorte di GIASONE  ripudiata da lui.
Creonte, re di Corinto; Glauce, di lui figlia; Narbale, ajo de’ figli di Medea; Idamante, seguace di Medea; due figli di Medea, che non parlano; coro di furie; coro di soldati; guardie di Creonte. Mutazioni di scene: sala reale, folto bosco con caverna, sala reale, sala reale, gabinetto con porte, ed arcova, reggia cogli appartamenti di Medea a quelli vicini.

ATTO I

SCENA I

Medea, indi Creonte. Medea, sola, impreca contro GIASONE  e Glauce. Creonte sopraggiunge, le concede ancora un giorno di permanenza a Corinto ma la minaccia di non sollecitare al sua ira. (Aria di Medea, scena, Aria di Creonte.) I,2 Medea sola. È contenta per aver strappato il tempo necessario per la vendetta. I,3 GIASONE , Glauce, indi Creonte e finalmente Medea e Idamante, GIASONE  cerca di rassicurare Glauce. All’arrivo di Medea, Glauce fugge mentre Creonte e GIASONE  ricevono Medea e Idamante che supplicano di lasciarli a Corinto. (Quartetto.) I,4 Narbale coi figli di Medea, indi GIASONE  e Glauce. Narbale prova compassione per i figli di Medea; GIASONE  sopraggiunge ed ha gesti di tenerezza per i bimbi, ma è sorpreso da Glauce, gelosa. (Duetto GIASONE  e Glauce.) I,5 Creonte e Narbale. Narbale mette in guardia Creonte dai pericoli di Medea. (Aria di Narbale.) I,6 Medea, indi le furie. Sortilegio. (Aria con coro di furie.) I, 7 Glauce, Idamante. Glauce esprime pene d’amore. (Aria di Glauce.)I,8 Medea, GIASONE , Scontro tra gli sposi. (Duetto.)II,1 Glauce, Idamante. Glauce è ancora in ansia per la gelosia, Idamante commenta le sue eccessive preoccupazioni. (Aria di Idamante.) II,2 Glauce, sola. Commenta il buon senso di Idamante. II,3 GIASONE , Medea con i figli, poi Narbale che reca la veste. Medea dissimula e finge di essere ormai piegata. supplica il marito di tenere lui i figli: lei donerà la veste a Glauce per convincerla ‘(Aria di GIASONE , felice per la ritrovata serenità.) II,4 Narbale, con i figli, e Medea. Narbale la informa che Glauce ha accettato di tenere con sé i figli. I,5 Medea con i figli. Medea incerta tra affetto e odio per i figli. L’affetto ha il sopravvento. (Aria d’affetto per i figli.) I,6 GIASONE , Creonte. Piangono la morte di Glauce. (Duetto.) I,7 Idamante, poi Medea. Idamante esorta Medea a fuggire. La rimprovera per il delitto commesso, ma Medea lo scaccia I,8 Medea, sola commenta con ferocia i propri delitti. I,9 Creonte, GIASONE , guardie indi furie, Medea e figli. Mentre tutti la cercano per metterla a morte, Medea appare con le furie, chiama a sé i figli e fugge sul carro del Sole con loro. (Finale con coro.)

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Domenico Morosini, “Giasone e Medea in Corinto: tragedia in cinque atti”
Venezia, 1806.

Personaggi:

GIASONE, figlio d'Esone, re di Iolco, argonauta.
Medea, figlia di Aete re di Colco
Creonte, re di Corinto; Tideo, re di Etolia, argonauta; Teuda, confidente di Creonte; Climene, seguace di Medea; guardie, che non parlano. La scena è in Corinto: grande atrio che introduce da una parte all’interno della reggia, e dall’altra all’appartamento di Medea.

ATTO I

SCENA I

GIASONE  e Tideo. Lunghissima scena in cui si racconta tutto l’antefatto. I, 2 Detti, Creonte, Teuda, guardie. Creonte lamenta che Medea non sia ancora partita in esilio. I, 3 Creonte, guardie, indi Medea, Climene, Teuda. Creonte sollecita Medea a partire; poi, sulle insistenze di lei, le concede ancora un giorno di tempo. I,4 Medea, Climene. Medea considera che un giorno le sarà sufficiente per vendicarsi. II,1 Medea incerta tra vendetta e amore per GIASONE . II,2 GIASONE  e Medea. Lite tra sposi interrotta da Teuda che sollecita GIASONE  alle nuove nozze. II,3 Teuda e detti. Teuda annuncia che Acasto ha accettato il patto e riporta la pace. (Medea parte.) II,4 Teuda, Creonte, GIASONE , Tideo. GIASONE  informa della violenta reazione di Medea. II,5 GIASONE , Creonte. incontro di conferma di reciproca stima e delle prossime nozze. III,1 Tideo, GIASONE . GIASONE  esprime rimorsi, ma anche timore per ciò che può tramare Medea. III,2 Medea, GIASONE . Nuovo scontro tra i due sposi, poi Medea chiede a GIASONE , perplesso, di tenere i figli con sé e PRINCIPESSA CREUSA. Lei avrebbe offerto in dono una veste per convincere la rivale. III,3 Medea, Climene. Medea promette vendetta per rendere GIASONE  più infelice di lei. III,4 Dette e Tideo. Tideo annuncia che Creonte ha ceduto e che GIASONE  spera di convincere anche PRINCIPESSA CREUSA a tenere a Corinto i figli. Sollecita Climene ad andare coi bambini e la veste da PRINCIPESSA CREUSA. III,5 Medea si informa da Climene se tutti i suoi ordini sono stati adempiuti. III,6 Dette, Creonte, Teuda. Creonte è contento di saperla ormai placata la tranquillizza sulla sorte dei figli; le promette ospitalità in futuro, quando i nemici Acasto e Aete saranno morti e l’amore di lei per GIASONE  spento. III,7 Creonte e Tideo. Creonte è tranquillo, convinto che ora i figli siano anche ostaggi contro la vendetta della madre. IV,1 Creonte, GIASONE , Teuda, guardie. Sono preoccupati perché attendono Tideo con I figli di GIASONE , e PRINCIPESSA CREUSA per le nozze; nessuno di loro però arriva. Creonte va a cercare la figlia. IV, 2 GIASONE , solo, esprime la propria felicità per essere giunto al trono di Corinto. Vede arrivare Medea e fugge IV,3 Medea, Climene. Commentano la fuga di GIASONE . IV,4 Arriva Tideo con i figli. Medea sa che PRINCIPESSA CREUSA sta per indossare la veste. Esorta Tideo ad andare da GIASONE  per accompagnarlo da PRINCIPESSA CREUSA che certo non potrà raggiungerlo all’altare. Va poi dai figli, «l’orme a cercar de’ baci di PRINCIPESSA CREUSA». IV,5 Tideo, Climene. Turbato da quelle parole Tideo chiede a Climene spiegazioni. Essa rivela che in quel momento PRINCIPESSA CREUSA starà morendo. IV,6 Medea, Climene. Medea esce furiosa con un pugnale in mano. Chiama Ismene, esortandola a salvarle i figli. V,1 Climene e Tideo. Climene annuncia un delitto anche peggiore di quello. V,2 Climene sola teme per gli eccessi di Medea. V,3 Medea e Climene. Climene prega Medea di salvare i figli. Medea è però risoluta. V,4 Teuda e dette. Teuda le esorta a fuggire e narra dettagliatamente quanto è accaduto a PRINCIPESSA CREUSA e a Creonte, accorso ad aiutare la figlia; conferma anche che tutto si è svolto sotto gli occhi di GIASONE . Medea è soddisfatta anche per la imprevista morte di Creonte. V,5 Teuda, solo, piange la morte del re e di PRINCIPESSA CREUSA. V,6 Detto, GIASONE . GIASONE  lamenta la strage. V,7 Tideo avvisa GIASONE  del rischio che corrono i suoi figli inseguiti e cacciati dai Corinzi che vogliono vendicare la morte del re. GIASONE  ordina a Teuda di andare a riprendere i bambini da Medea, che lui non vuol più rivedere. V,8 Tideo e GIASONE . In attesa del ritorno di Teuda, commentano le vicende di Corinto. Al suo rientro, Tideo li informa, però, che Medea non vuole riconsegnare i figli. V,9 Detti, Medea. Medea rivela di aver ucciso i figli: ha colpito ripetutamente il maggiore che portava scolpita l’immagine di GIASONE . Esce da mezzo alla scena. Il sipario cala prima che Medea sia entrata.

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Francesco Gambara, "Giasone e Medea: tragedia in cinque atti"
Brescia, 1822.

Personaggi:

GIASONE
Medea;
Glauce; Creonte; Amicla; coro di donzelle e popolo di Corinto; due piccioli figli di Medea che non favellano; guardie e popolo. Scena: atrio terreno che guida a vari appartamenti: in lontano fra intercolonnio la vista del giardino di Creonte.

ATTO I

SCENA I

Creonte, Glauce, GIASONE . Creonte è contento per le prossime nozze, GIASONE  conferma che non era altrettanto contento per tutte le sue vittorie militari. Glauce in apprensione chiede di esiliare Medea, ma Creonte dubita che essa accetti l’esilio. I,2 Amicla e detti. Amicla intima a GIASONE  di accorrere perché Medea ha saputo delle prossime nozze e agisce come pazza. Glauce vede confermati i propri timori. I, 3 Amicla, sola, piange l’arrivo degli Argonauti n Colco, inizio delle sventure di Medea. I,4 Detta e Medea. Medea si chiede perché GIASONE  non sia con lei. Poi vaneggia e vede lo spettro del fratello chiedere vendetta. Quando Amicla per calmarla le ricorda i figli Medea li rinnega perché figli di GIASONE . II,1 Glauce, GIASONE . Glauce rimprovera GIASONE  di pensare ancora a Medea. È dunque gelosa. Ma GIASONE  si ribella a tal sospetto, e rivela invece di essere preoccupato per gli eccessi a cui essa può giungere. II,2 Detti, Creonte, Amicla. Decidono di tenere Corinto i figli. II,3 Glauce, GIASONE , Creonte commentano e partono. II,4 Creonte, solo, aspetta Medea a colloquio. II,5 Medea, Creonte. Creonte le intima l’esilio e Medea, apparentemente placata, si stupisce ricordandogli che le aveva promesso asilo. Creonte le rifaccia tutti i suoi delitti e le dice che i figli resteranno a Corinto. Medea chiede un giorno di tempo. Creonte lo concede. II,6 Medea, sola, medita vendetta. III,1 Creonte e Glauce. Creonte commenta il fatto che Glauce, lasciata sola per un sol momento da GIASONE , se ne lamenti. III,2-3 Detti e GIASONE ; indi Amicla. Proseguono i dubbi sulla buona fede di Medea e Creonte decide di anticipare al giorno stesso le nozze. III,4 Amicla e GIASONE . GIASONE  chiede come Medea abbia preso l’ordine di esilio. Amicla gli suggerisce di chiederlo direttamente a lei, che sta per sopraggiungere. III,5 Detti, Medea. Medea esorta Amicla a lasciarli soli. III,6 Medea e GIASONE . GIASONE  le confessa di dover sposare subito PRINCIPESSA CREUSA e Medea decide di donarle la veste. IV,1 GIASONE , solo. Esprime ansia per l’eccessiva calma della situazione. IV,2 Detto e Creonte. Creonte augura felicità a GIASONE . IV,3 Creonte, solo, esprime gioia per le nozze imminenti. IV,4 Amicla e Creonte. Amicla conferma che Medea sta istruendo i figli ad amare PRINCIPESSA CREUSA; anticipa il dono della veste. Creonte nutre qualche senso di colpa, ma un coro, in quinari, avvia la cerimonia con canti nuziali. IV,5 Glauce, GIASONE , seguito. Il coro canta inni nuziali Creonte esprime poi felicità per vedere Glauce in abito nuziale accanto a GIASONE . I canti proseguono «mentre il corteggio s’incammina, esce Medea colli due piccioli figli che recano sopra due bacili dei donativi a Glauce». IV,6 Medea consegna platealmente la vesta a Glauce, ed esorta i figli ad amarla come madre. Commozione generale. Poi riprendono i canti nuziali. IV,7 Medea esorta Amicla a seguire il corteo perché vuole restare sola con i propri figli. IV,8 Medea. Breve invocazione alle furie (tre versi). V,1 Medea, sola, infuriata e preoccupata perché non ha ancora notizia della sua vendetta e non ha cuore di colpire i figli. V,2 Detta e Amicla. Amicla la esorta a fuggire. Poi racconta la morte di Glauce al tempio. V,3 Amicla, sola, commenta gli eccessi di Medea e della sua stirpe. V,4 GIASONE  con seguito numeroso. Circonda la reggia ed cerca di catturare Medea. V,6 GIASONE  con seguito numeroso, Amicla. Amicla rivela a GIASONE  l’infanticidio. GIASONE . ‘Inorridito, impallidisce il sole Ed asconde la faccia? Ardenti lampiallumano le volte? Ohimè! che sentoQual tuono spaventevole, qual sibiloDi folgori tremende? Ah Dei crudeli | voi di natura favorir l’iniquaConfondete il disposto? che vegg’io? |(nel lontano giardino vedesi passare Medea sopra un carro tirato da draghi alati, avente seco i corpi degli estinti fanciulli). Qual lagrimevol vista i guardi mieicolpisce e fere? Ecco gli esangui corpiDe’ trucidati figli. Empia! RispondiGli torni a me così? Va dispietataI fulmini di Giove a che si stanno | d’incenerirti? Ah, se percorri impunele pure vie del ciel, s’ei non ti strugge,Attesterai che son favole i numi!»

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Cesare Della Valle, duca di Ventignano, “Medea: tragedia in cinque atti”
Trani, 1818.

Personaggi:

Giasone
Medea
Creonte
Creusa; Licisca; Eumelo; corinzi.

Scena: la reggia di Corinto.

Creonte proclama che sposo di Glauca e futuro re di Corinto sarà GIASONE. Creusa rivela la propria angoscia per lugubri presentimenti; teme anche che GIASONE, troppo schivo negli ultimi tempi, possa non esserle fedele.  GIASONE  spiega che la sua incostanza era dovuta al fatto di aver taciuto il suo passato. Giasone rivela allora le sue nozze con Medea e l’aiuto dà lei prestatogli nella conquista del vello d’oro; rivela anche tutti crimini di cui ci sono macchiati; racconta che è fuggito da Medea portandosi dietro i propri figli, spacciati in Corinto per figli del proprio servo. Creusa ricorda di averli già accarezzati. Creonte lo perdona a patto che assicuri la successione del trono ai figli di Creusa.. Il confidente Eumelo annuncia l’arrivo diuna donna straniera. GIASONE presenta al sovrano i propri figli, che vengono ben accolti da Creusa e da Creonte. Medea è arrivata a Corinto e attende di essere accolta dal sovrano. Creonte augura il benvenuto all’ignota straniera, presenta la figlia Creusa, poi le lascia sole. Colloquio sereno fra Medea e Creusa, solo a quel punto Medea viene sapere che Creusa sta per sposare GIASONE e che diverrebbe matrigna dei suoi figli. La principessa Creusa è in ansia per le dure espressioni della donna sconosciuta. Glauca informa GIASONE dell’arrivo della straniera; teme che essa sia Medea, ma GIASONE  prova a rassicurarla e a convincerla dell’impossibilità di Medea di arrivare a Corinto. In realtà GIASONE  ha il sospetto che Creusa possa aver ragione e che la straniera possa essere Medea. Medea dichiara che lei, da sola, avrà la forza di vendicare il tradimento. GIASONE  vede Medea è cerca di sfuggirle ma essa lo richiama: gli rinfaccia il tradimento; si dichiara ancora innamorata di lui. Lo supplica di non contrarre nuove nozze. Ma lo sposo è irremovibile e la informa anche che terrà lui i loro figli. La principessa Creusa riconosce Medea e la tratta con arroganza; Medea minaccia. Creonte riconosce Medea, la bandisce dal regno, sollecita GIASONE  e Glauca ad avviarsi all’altare. Licisca descrive la disperazione di Medea. Licisca cerca di calmare Medea ormai risoluta alla vendetta. Creonte si stupisce alla vista di Licisca, perché comprende che Medea è ancora in Corinto; afferma di provare pietà per lei. Medea chiede potere di rivedere i figli prima di partire ma Creonte risponde che questa decisione ormai compete a Creusa, loro nuova madre; tuttavia intercederà in suo favore. Liciscaconforta Medea e le conferma che Creusa ha acconsentito a farle rivedere figli per l’ultima volta. Medea teme che i suoi piani falliscano. GIASONE  è commosso dall’incontro di Medea con I figli; sta per ripartire con i bimbi, quando sente le urla di Creusa. Accorre e nella fretta lascia figli con Medea. La confidente è sconvolta dal delitto compiuto inconsapevolmente recapitando i doni avvelenati; esorta Medea fuggire e le narra la morte di Creusa. Creonte vuole vendicare la morte di Glauca sui figli di GIASONE ; GIASONE  cerca di difenderli; entrambi, intanto cercano Medea. Medea appare improvvisamente, indica dove sono i corpi del figli morti, e si uccide.  

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Gianbattista Gabrielle Maria di Milcent e Granges di Fontanella,
“GIASONE E MEDEA: tragedia lirica in tre atti”.
Parigi 1813:

Personaggi:

GIASONE
Créon, re di Corinto, conquistatore di Iolco
MEDEA ; Théane sacerdotessa di Giunone; due figli di Medea; Iphicrates confidente di Medea; Giunone; sacerdoti; popolo. Scene: il teatro rappresenta la cittadella di Corinto, un bosco sacro che circonda il tempio di Giunone, e il palazzo di Creonte; sul fondo si vede il mare.

ATTO I

SCENA I

GIASONE solo. Lamenta lo stato di prigionia del padre e l’obbligo di un matrimonio odioso impostogli da Créon. I,2 Théane. Racconta un sogno premonitore che annunziava l’arrivo di una straniera. I,3 Théane, seguito di Medea. Incontro tra Théane e gente del seguito di GIASONE E MEDEA . Questi annunciano l’arrivo della principessa e sono informati che Jason sposerà presto Créuse: Créon che ha conquistato Iolco e imprigionato il padre di Jason, impone le nozze per liberarlo. I,4 Si preparano le nozze: Créon, Jason, Théane, sacerdoti, popolo, soldati. I,5 Théane, Jason, GIASONE E MEDEA . Scontro tra GIASONE E MEDEA  e Jason. I,6 GIASONE E MEDEA , Théane. GIASONE E MEDEA  minaccia la morte di Jason, di PRINCIPESSA CREUSA, e il proprio suicido. II,1 GIASONE E MEDEA . GIASONE E MEDEA  invocazione al Sole. II,2 Créon, Jason, Théane, sacerdoti. Divertissement con danze. Iniziano le nozze, ma sono interrotte da fulmini e tempeste. II,3 Jason, Théane. Théane cerca di convincere Jason a respingere il ricatto di Créon. II,4 Jason, solo. Compatisce GIASONE E MEDEA  ma teme per la sorte del padre. II,5 GIASONE E MEDEA  e Jason. Cercano di chiarirsi, infine si riconciliano. II,6 GIASONE E MEDEA , Jason e figli. GIASONE E MEDEA  esorta i figli a salutare il padre. Duetto di riconciliazione sui figli. II,7 Detti, Créon. Di fronte a GIASONE E MEDEA , Créon rimprovera Jason e minaccia di uccidergli il padre. Il principe lo sfida e l’alterco si protrae fino a quando Créon ordina di arrestare GIASONE E MEDEA . Jason e Théane reagiscono all’ordine di arresto: la scena si interrompe con GIASONE E MEDEA  e figli che rientrano nel tempio mentre Créon entra minacciando, e Jason è incerto sul da farsi. III,1 GIASONE E MEDEA  prostrata. III,2 Detta, Théane. Théane le comunica l’ordine di esilio, e la informa che Jason ha ceduto al ricatto. III,3 GIASONE E MEDEA , con i figli, sente da dentro le musiche nuziali. III,4 GIASONE E MEDEA  impazzita uccide i figli. III,6 Iphicrates la informa che il popolo e Jason hanno ucciso il tiranno sull’altare. III,7 Jason torna, felice della sorte, a GIASONE E MEDEA , ma questa rivela la morte dei figli. III,8 Detti e Junon. La dea riporta i figli ancora in vita, sfuggiti ai colpi della madre.Lieto fine.  

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Alfonso Lamartino, Medea: tragedia in cinque atti
Parigi, 1813.
Personaggi:

GIASONE
Creonte, re d'Atene
Egiste, confidente di Jason
MEDEA
Créuse, figlia di Créon; Iphise, confidente di GIASONE E MEDEA.

La scena è ad Atene.

ATTO I

SCENA I

Egisthe, Jason. Si incontrano dopo lungo tempo. Egisto lo esorta a seguirlo per liberare la patria dall’usurpatore. Jason lo informa che ha abbandonato GIASONE E MEDEA  ed è ormai preso da nuovo amore per Créuse. Egisthe lo mette in guardia dalla vendetta di GIASONE E MEDEA : nonostante ella sia già fuggita in Scizia, saprebbe tornare a vendicarsi. Jason gli dice però che in realtà GIASONE E MEDEA  si trova nel palazzo d’Atene sotto mentite spoglie, per nasconderla al decreto d’esilio che la persegue in tutta la Grecia. Ormai GIASONE E MEDEA  stessa è amica di Créuse. I,2 Detti, Créon. Jason chiede di rinviare le nozze per recarsi in battaglia a liberare la sua terra dall’usurpatore. Créon risponde che piuttosto anticipa le nozze per lasciarlo partire prima possibile.I,3 Egisthe, Jason. Jason commenta la sua buona sorte. Egisthe teme invece sventure. Jason si dichiara, però, capace di tenere testa a GIASONE E MEDEA . I,4 GIASONE E MEDEA , Jason. GIASONE E MEDEA  non tollera più di sopportare nascosta l’incostanza di Jason. Jason si professa fedele e le rinfaccia di aver lasciato tutto per seguirla in esilio. GIASONE E MEDEA  riconosce i meriti di Jason ma lo supplica di fuggire con le da Atene. Jason, ambiguo, le promette che il giorno successivo lei lascerà la città- II,1 GIASONE E MEDEA , Iphise. GIASONE E MEDEA  rivela alla confidente l’imbarazzo con cui Jason cercava di nascondere la sua infedeltà. Iphise cerca di rassicurarla. II,2 GIASONE E MEDEA , Créuse, Iphise. Créuse esce e cerca di confortare GIASONE E MEDEA  di cui da tempo intravede ignote angosce. GIASONE E MEDEA  rivela che nutre pene d’amore; Créuse confida le proprie: essa ama Jason. GIASONE E MEDEA  reagisce con turbamento e reprime l’ira. II,3 GIASONE E MEDEA , Créuse, Créon, Iphise. Créon annuncia alla figlia la partenza di Jason, ma le conferma che prima di partire vuole unirsi a nozze con lei. Fanno per avviarsi all’ara ma GIASONE E MEDEA , sconvolta e furente, li ferma e si fa riconoscere. II,4 GIASONE E MEDEA , Créon. Scontro tra il sovrano e la maga. GIASONE E MEDEA  sfida Créon: questo non la colpisce solo perché è ancora sposa di Jason. Chiama le guardie e la fa arrestare. II,5 GIASONE E MEDEA , in ferri, e Iphise. GIASONE E MEDEA  invia Iphise a chiamare Jason e chiede alle guardie di essere lasciata sola,. II,6 GIASONE E MEDEA , sola, ricorda tutti i delitti commessi, e immagina che gli spiriti delle sue vittime stiano ora venendo a vendicarsi. III,1 Créon, Jason. Créon non vuol cedere alle suppliche di Jason che chiedono salva la vita di GIASONE E MEDEA . Dopo molte resistenze accetta di commutare la pena di morte in esilio. III,2 Jason, solo, commenta con soddisfazione la concessione di Créon. III,3 GIASONE E MEDEA , in catene, e Jason. Jason rivendica con orgoglio il suo ritrovato eroismo e la forza riacquistata di liberarsi di lei. La esorta a fuggire, visto che Créon lo consente. GIASONE E MEDEA  minaccia che prima di fuggire vorrà godersi lo spettacolo della sua vendetta. Poi pentita si getta ai piedi di Jason e cerca di commuoverlo. Jason è però irremovibile. Ordina alle guardie di liberarla delle catene. III,4 GIASONE E MEDEA  e Iphise. GIASONE E MEDEA  commenta la scena e assicura che saprà vendicarsi. IV,1 GIASONE E MEDEA  e Iphise. Iphise racconta che stava perorando la causa di GIASONE E MEDEA  davanti a Créuse, commovendola, quando è entrato Jason con i figli di GIASONE E MEDEA . Lui li ha presentati a Créuse come la loro nuova madre. GIASONE E MEDEA  ne freme. IV,2 GIASONE E MEDEA , Jason. GIASONE E MEDEA  chiede a Jason se davvero vuol sottrarle i figli. Jason rifiuta ed entra. IV,3 GIASONE E MEDEA , Iphise. Ormai abbandonata da tutti GIASONE E MEDEA  ritrova il suo coraggio. Sta per lanciarsi alla vendetta, ma Iphise la trattiene. La avvisa dell’intenzione di Créuse di venirle a parlare. IV,4 Dette, Créuse. Créuse si presenta commossa a GIASONE E MEDEA , rivelandole di essere costretta ad accettare nozze che non avrebbe voluto essere di offesa a lei. GIASONE E MEDEA  risponde con ironia e fierezza. In fine GIASONE E MEDEA  le chiede di farle rivedere i propri figli. Créuse è titubante perché Jason glieli ha affidati proibendole espressamente di farli rivedere alla madre. Tuttavia accetta. Créuse entra mentre GIASONE E MEDEA , a parte, minaccia con sarcasmo. IV,5 GIASONE E MEDEA , Iphise. GIASONE E MEDEA  spiega alla confidente come vuole vendicarsi di Créuse. Iphise cerca, invano, di dissuaderla. V,1 GIASONE E MEDEA , sola, vaneggia, e si sente spinta a vendette atroci. V,2 Iphise, GIASONE E MEDEA . Iphise racconta l’avvio del corteo nuziale, con popolo festante e Créuse angosciata, come fosse una vittima sacrificale. Annuncia anche l’arrivo dei figli. V,3 Dette, figli di GIASONE E MEDEA . GIASONE E MEDEA  accoglie affettuosamente i figli, poi decide non li renderà più. Invia Iphise a controllare che l’attentato abbia successo. V,4 GIASONE E MEDEA , sola con un pugnale. Invoca l’Odio e gli dei infernali. S’avvia per uccidere i figli ma davanti alla porta della loro stanza si arresta. Poi riprende coraggio, ma una mano invisibile pare fermarla. Mentre ancora si dibatte tra odio e affetto, sente rumori da dentro. V,5 GIASONE E MEDEA , Iphise. Iphise esce e racconta la morte di Créuse. GIASONE E MEDEA  teme che I corinzi vengano a uccidere i suoi figli per vendetta: entra infuriata nella stanza dei figli, poi ne esce col pugnale sporco di sangue e invoca gli dei perché la puniscano. V,6 GIASONE E MEDEA , Iphise, Créon, seguito. Entra Créon con seguito a spade sguainate. GIASONE E MEDEA  intima loro di fermarsi. V,7 Detti, Jason, Egisto. Jason supplica Créon di non colpire i suoi figli, ma GIASONE E MEDEA  lo interrompe annunciando la morte di bimbi. Jason fugge e GIASONE E MEDEA  si uccide.  Giovanni Battista Niccolini, “Medea: tragedia in cinque atti” (Firenze, 1825) Personaggi: Medea; GIASONE ; Creonte; Rodope, confidente di Medea; Adrasto, confidente di GIASONE ; due figli di Medea uno maggiore e l’altro minore; popolo. Scene: atrio della reggia di Creonte: da una parte sono le stanze di Medea, nel fondo un tempio. I,1 Rodope, Medea. Rodope ha appena confermato a Medea che GIASONE  intende abbandonarla. Medea minaccia gesti tremendi. Rodope cerca di calmarla ricordandole, che è ormai abbandonata da tutti. Medea intende rinfacciare a GIASONE  tutti i suoi favori, prima di rivolgersi alla vendetta. Già pensa ai figli. I,2 GIASONE  e Rodope. Alle rampogne di Rodope, GIASONE  risponde raccontando l’orrore provato per i delitti efferati di Medea: ormai necessità li divide, e il suo desiderio per una rifugio dove ritrovare ormai la pace. Rodope lo saluta paventando tragedie. I,3 GIASONE . Commenta i timori di Rodope. I,4 Creonte, GIASONE . Creonte avrebbe voluto consegnare Medea ad Acasto: solo sulle insistenze di GIASONE  acconsente al solo esilio. I,5GIASONE , solo, riflette sul fatto che la sua gloria è confusa e inscindibilmente legata ai delitti di Medea. I,6 GIASONE , Adrasto. Adrasto racconta il dolore di Medea, che «tien fise a terrale attonite pupille, o verso il cielolacrimando le innalza», e allontana da sé i figli. Insieme concertano di rinviare un poco le nuove nozze. I,7 Adrasto, solo. Un verso di commento angosciato alla situazione. II,1 Medea, sola. Sente i canti nuziali Pensa alla vendetta. II,2 Rodope, Medea. Rodope informa Medea che non è riuscita a convincere GIASONE . Medea annuncia vendetta tremenda «qual da Medea s’aspetta». II,3 Creonte, Medea, Rodope. Creonte si stupisce di vedere ancora Medea a Corinto. Medea rivendica la sua innocenza entro le mura di Corinto,: accetta però di partire, purché accompagnata da GIASONE . Creonte ironico la insulta e le lascia un sol giorno di tempo. II,4 Medea, Rodope. Dopo aver dissimulato con Creonte, commenta le parole del sovrano, ma vede sopraggiungere GIASONE . II,5 GIASONE , Medea. GIASONE  scusa il proprio comportamento invocando necessità. Medea gli rinfaccia i suoi favori e minaccia PRINCIPESSA CREUSA. II,6 GIASONE , solo teme gli eccessi della sposa. III,1 Rodope, Medea. Rodope le annuncia che per rispetto a Medea le nozze sono rinviate, e che GIASONE  vuol rivedere i figli. Medea non si lascia commuovere. III,2 GIASONE  e Medea. Medea accoglie ironica GIASONE . III,3 Detti, figli di Medea e GIASONE , Rodope. Medea esorta i figli ad abbracciare il padre. GIASONE  commosso, anziché tornare con Medea, decide di tenere con sé la prole. III,4 Detti, Creonte, guardie. Creonte esorta GIASONE  a recarsi al tempio. Medea minaccia di morte PRINCIPESSA CREUSA. III,5 Rodope, Medea. Medea vorrebbe dar fuoco al tempio. Rodope glielo impedisce, ma le assicura il suo aiuto in una vendetta meglio meditata. IV,1 Medea. Riflette sulla vendetta,: s’accorge di amare ancora GIASONE : colpirà PRINCIPESSA CREUSA. Ma pensa anche ad altro«Vi son delitti che il mio braccio ignora». IV,2 Rodope, Adrasto. Commentano le sembianze d’ira i Medea: «Medea sorride, e quel sorriso è morte». Adrasto racconta come PRINCIPESSA CREUSA si sia recata all’altare, riluttante, comead un sacrificio. IV,3 Medea, Rodope. Medea consegna alla confidente i doni per PRINCIPESSA CREUSA in cambio del permesso di rivedere i figli per un’ultima volta. IV,4 Medea, sola, commenta e svela che quei doni sono avvelenati. IV,5 GIASONE  e Medea. GIASONE  constata che Medea pare placata, ma afferma di temerla di più che non irata. Chiede spiegazione del dono inviato a PRINCIPESSA CREUSA che ritiene un modo per ricordagli sempre la sposa abbandonata. Medea con frase ambigue lo esorta a tornare da PRINCIPESSA CREUSA per «nella sposa ritrovar Medea». IV,6 Medea, sola, commenta felice che tutto proceda secondo i suoi piani. IV,7 Medea, Rodope e figli. Rodope avvisa Medea che PRINCIPESSA CREUSA le concede di rivedere i figli per pochi istanti, e all’insaputa di GIASONE . Un figlio ricorda i gesti d’affetto di PRINCIPESSA CREUSA e Medea ne freme. Medea pensa ai fratelli che essi avranno e da cui saranno discriminati. Rodope cerca di difendere i comportamenti di PRINCIPESSA CREUSA «non sì rea». Al pensiero che essi non allieteranno comunque la sua vecchiaia, «Ferve un disegno ardito | nell’egra mente » di Medea. Esorta i figli ad entrare per venerare gli dei. IV,8 Medea, Rodope. Medea informa Rodope che il cinto inviato a PRINCIPESSA CREUSA era avvelenato. Ora intende fuggire coi figli non appena il delitto provocherà scompiglio nella reggia. Rodope, sconvolta dall’inganno vorrebbe andare ad avvisare PRINCIPESSA CREUSA. Medea, però, glielo impedisce, ricordandole che piuttosto che lasciarli a Corinto li ucciderebbe. IV,9 Medea, sola. Quando sente che il delitto è ormai compiuto lascia uscire Rodope. V,1 Medea, sola. Delira pensando alla notte in cui uccise il fratello; ne vede lo spirito ed Erinni che la spingono al nuovo delitto. V,2 Medea e i figli. Dopo un attimo di commozione versi i figli che le parlano affettuosi, al vedere nei loro volto le sembianze del padre, sente rinascere in lei la furia. Fa per ucciderli, ma le loro suppliche glielo impediscono. V,3 Rodope e Medea. La confidente conferma a Medea che arrivò tardi, quando ormai erano chiuse le porte della reggia. Narra in dettaglio l’agonia di PRINCIPESSA CREUSA e la morte di Creonte. Esorta Medea a fuggire perché i corinzi la stanno cercano per metterla a morte assieme ai suoi figli. Medea entra pronunciando parole ambigue. V,4 Rodope, sola, teme gli eccessi di Medea. V,5 Rodope, Adrasto. Adrasto, allarmato, avvisa che ormai tutte le vie di fuga sono precluse. Sentono da dentro i lamenti dei figli di Medea. V,6 Popolo, GIASONE , Rodope, Adrasto. Il popolo entra: vuol linciare Medea e i figli. GIASONE  cerca di impedirlo, Rodope cerca, invano, di richiamare l’attenzione di GIASONE sulla tragedia che si sta compiendo dentro. V,7 Detti, Medea. Entra Medea che annuncia l’infanticidio, e si uccide. Nicola Santi, “Medea: tragedia in cinque atti” (Ancona, 1816). Personaggi: Medea; GIASONE ; Creonte; Nutrice; soldati; fanciulli. Scena. la reggia di Creonte in Corinto. I,1 Medea e nutrice. Medea si confida con la nutrice. Questa è stupita che nonostante la pace trovata a Corinto Medea sia angosciata, Medea le rivela che da quando sono a Corinto GIASONE  non è più lo stesso. I,2 Medea, GIASONE . Medea è gelosa ma GIASONE  professa la sua buona fede e riconosce che la sua gloria è merito di Medea. La assicura che darebbe la vita per lei. In prova, Medea gli chiede di ripartire con lei e lasciare Corinto. Al rifiuto di lui, entra furiosa. I,3 Creonte, GIASONE , guardie. Creonte chiede a GIASONE  se è riuscito a ripudiare Medea e se conferma di accettare la mano di Glauce. Vista la reticenza di lui, insiste e lo convince dell’opportunità delle nuove nozze. II,1 Creonte, Medea, nutrice, guardie. Decreto d’esilio per Medea. Tutta la scena è costruita in versi spezzati. II,2 Medea, nutrice. Si chiede perché sia stata esiliata: sospetta che Creonte abbia destinato Glauce a GIASONE . Medea decide così di vendicarsi su Creonte. Prima, però, vuol parlare con lo sposo. II,3 Nutrice. Tre versi di compatimento per Medea. II,4 Nutrice, GIASONE . La nutrice informa GIASONE  che Medea lo sta cercando; tenta anche di convincerlo a non ripudiare Medea; GIASONE  afferma di non aver più il coraggio di incontrare la sposa. II,5 Detti, Medea, figli. Medea sorprende le ultime parole di GIASONE  Alterco. Il principe ordina alla sposa di lasciargli anche i figli. Al rifiuto di Medea GIASONE  minaccia di ucciderla. III,1 Medea, nutrice. Medea lamenta la perdita dei figli: comincia a pensare di ucciderli come ultimo gesto di materno. III.2 Creonte, dette, guardie. Creonte spiega il proprio comportamento appellandosi al dover di stato. Medea si finge rassegnata e chiede di poter rivedere i figli per un ultimo addio. Glielo concedono. Arrivano i figli: scena d’amor materno davanti al sovrano; quando Medea, in delirio, comincia a parlare di ucciderli, Creonte glielo impedisce. III,3 Detti e GIASONE . Medea è ancora in delirio. Quando essa si riprende, Creonte s’accinge ad entrare, disturbato dagli inutili pianti della madre derelitta. Medea s’infuria e minaccia. IV,1 GIASONE  solo. Lamenta la sua sorte, strattonata tra Medea e Creonte. Fa per uccidersi, ma è sorpreso da Creonte, e dissimula. IV,2 Detto, Creonte, guardie. Creonte annuncia con sollievo la partenza di Medea. GIASONE  nutre però rimorsi per quanto ha fatto: decide di sciogliere la promessa con Creonte e tornare con Medea. IV,3 Detti e nutrice. La nutrice interrompe il dialogo porta un anello in dono a Glauce. Violenta lite tra Creonte e la nutrice colpevole, a detta del sovrano, di risvegliare il senso del dovere in GIASONE . GIASONE , al colmo del dolore, va per uccidersi. Creonte ordina alle guardie di seguirlo ed evitare il suicido. Poi, Creonte fa arrestare la nutrice che ha provocato il ravvedimento di GIASONE . V,1 Medea, sola, con una spada. Notte. Entra in incognito e di nascosto nella reggia. IV,2 Nutrice, sola. È fuori dal carcere, liberata da mano ignota. Cerca Medea per informarla del pentimento di GIASONE , che lei stessa ha visto ferito al fianco in modo non mortale. V,3 Medea intrisa di sangue con uno de’ figli che strascina pe’ capelli. Cerca GIASONE  per completare la sua vendetta. Sopraggiunge la nutrice disperata. V,4 Dette, GIASONE . GIASONE  vede la strage, cerca di fermare la mano di Medea contro il figlio superstite. V,5 Nutrice (sola) commenta disperata i delitti. V,6 Medea chiama la nutrice per la fuga … GIASONE  invoca morte. Troilo Malipiero, Medea, Padova, 1818. Tragedia, 5 atti. Personaggi: Medea; GIASONE ; PRINCIPESSA CREUSA; Creonte; sacerdoti; damigelle e guardie che non parlano. Scene: peristilio de delubro sacro a Giunone nella reggia di Corinto, con portici dai lati e porta praticabile nel mezzo aperta, dalla quale si vedrà l’ara e il simulacro della dea. I,1 PRINCIPESSA CREUSA, GIASONE . PRINCIPESSA CREUSA chiede se GIASONE  ha davvero soffocato l’amore per Medea. GIASONE  la rassicura e racconta gli omicidi di Assirto e Aete. I,2 Creonte e detti. Creonte chiede a GIASONE  di garantirgli che mai egli giurò fede a Medea e se si ritiene in grado di assicurare un futuro prospero a lui e a PRINCIPESSA CREUSA. Solo dopo le risposte affermative di GIASONE  gli concede la mano di PRINCIPESSA CREUSA. I,3 GIASONE , solo, invoca Giove. I,4 Medea, GIASONE . Con l’inganno GIASONE cerca di avere con sé il figlio (qui è uno solo), fingendo di voler partire tutti insieme (lui, il bimbo e Medea). Medea, feroce e sospettosa, non gli crede: l’atto si chiude sulla lite fra marito e moglie in sei versi sticomitici. II,1 GIASONE , Creonte. GIASONE  informa il sovrano di non essere riuscito a convincere Medea a consegnarli i figli: provvederà con la forza. Creonte annuncia l’attacco militare delle truppe di Acasto. II,2 Detti, PRINCIPESSA CREUSA.. PRINCIPESSA CREUSA racconta che Medea si è presentata a lei per supplicarla di rinunciare alle nozze con GIASONE : in caso contrario minaccia di uccidere il figlio. PRINCIPESSA CREUSA vorrebbe rinunciare alle nozze, ma Creonte rivela che Acasto vuole uccidere GIASONE : l’unico modo per rifiutarsi di consegnarlo è un legame di sangue fra lui e il principe. I due giovani si scambiano la mano, sorpresi da Medea appena sopraggiunta. II,3 Detti, Medea. «Con fredda calma» Medea invoca «pace agli sposi»; poi minaccia di uccidere il proprio figlio. Creonte ordina ai soldati di arrestarla. Davanti a Medea in ferri, GIASONE  giura eterna fedeltà a PRINCIPESSA CREUSA. Turbata, la principessa vorrebbe rifiutare, ma Creonte le impone di accettare il patto nuziale, e ordina di preparare le nozze. Medea, fra sé, impreca. Versi spezzati in fine scena. III,1 Medea entra con face in mano. È notte. Spiega di essersi liberata con la corruzione, e va a cercare la veste nuziale che l’uso di Corinto voleva essere esposta la notte prima delle nozze. Sortilegio. III,2 GIASONE , Creonte. GIASONE  teme per il figlio che non si trova: vorrebbe parlare con Medea, ma Creonte glielo impedisce e cerca di calmarlo. Nel dialogo ribadisce che Medea non ha poteri soprannaturali e non costituisce quindi alcun pericolo fintanto che resta in prigione. III,3 Detti, PRINCIPESSA CREUSA, sacerdoti. PRINCIPESSA CREUSA si avvia alle nozze terrorizzata. GIASONE  cerca di rincuorarla. Creonte ordina l’avvio della cerimonia ma una tempesta, un terremoto, la pioggia che spegne il fuoco sacro la interrompono. IV,1 Medea, sola, pensa alla vendetta, nel caso che GIASONE , nonostante la morte di PRINCIPESSA CREUSA, non torni da lei. Esce il figlio. IV,2 Detti, GIASONE . GIASONE  è stupito di vedere Medea libera. Alterco tra i due davanti al figlio continuamente minacciato di morte dalla madre. Poi Medea fugge col figlio, ormai risoluta alla vendetta. IV,3 GIASONE  solo. Brevissima scena di imprecazione (tre versi). IV,4 Nuove nozze. GIASONE , PRINCIPESSA CREUSA e Creonte. Le nozze si avviano sebbene entrambi gli sposi siano ora profondamente turbati. IV,5 Detti, Medea a parte. Medea attende di vedere la morte di PRINCIPESSA CREUSA. PRINCIPESSA CREUSA inizia a vaneggiare, vede le Erinni, poi sviene in scena. GIASONE  e Creonte proclamano la loro intenzione di vendicarsi. V,1 Medea esce scarmigliata col ferro in mano. Afferra il figlio incerta sul da farsi. Monologo che oscilla tra odio e tenerezza. Entra al sopraggiungere di Creonte. V,2 Creonte, solo, esprime il proprio turbamento in soli 12 versi. V,3 GIASONE  e Creonte. GIASONE  porta la notizia che PRINCIPESSA CREUSA è morta e racconta nei particolari l’agonia della principessa. Si avviano all’ara per giurare vendetta contro Medea, ma, là giunti, vedono la donna col figlio disteso sull’ara. Tentano di avventarlesi contro, ma Medea li ferma minacciando il figlio. Medea «alza il braccio armata di pugnale sopra il fanciullo. GIASONE  retrocede inorridito tutto forma quadro e si chiude l’azione». Maria Fulvia Bertocchi, Medea, Roma, 1815. Tragedia, 5 atti. Personaggi: Medea; GIASONE ; Creonte; PRINCIPESSA CREUSA; Clito; una guardia; 2 fanciulli; sacerdoti; donzelle; guardie; popolo. La scena è nella reggia di Corinto in un peristilio che mette a vari anditi, tanto in fondo che lateralmente. I,1 Medea dal fondo, Clito dal lato sinistro. Clito conferma a Medea che GIASONE  la tradisce e che avvalla il decreto d’esilio emesso da Creonte. I,2 Medea, sola, aspetta GIASONE . I,3 Detta, GIASONE . GIASONE  si stupisce che essa sia già al corrente di tutto. Si giustifica sostenendo di essere stato abbandonato da tutti, da quando s’è unito a lei, e che Corinto offer asilo solo a lui e ai figli. Medea si stupisce apprendendo che lui voglia sottrarle i figli, ma GIASONE  rivendica amore paterno e preoccupazione per il futuro dei bimbi. I,4 Medea, sola, si rivolge alle arti magiche: ferro fuoco veleno. Pensa ad uccidere la rivale e ardere la reggia. II,1 Creonte, PRINCIPESSA CREUSA. PRINCIPESSA CREUSA è in apprensione perché vede il padre preoccupato. Creonte la tranquillizza. I lettori capiscono dal dialogo che è PRINCIPESSA CREUSA che vuole sposare GIASONE  nonostante le perplessità del padre. Creonte racconta, infine, un brutto sogno premonitore e rivela che è turbato per l’ingiustizia inflitta a Medea e per la leggerezza di GIASONE . PRINCIPESSA CREUSA racconta il fascino che già in lei giovinetta suscitava il nome dell’eroe, e quanto fosse gelosa di Medea. II,2 Detti e Clito. Annuncia la visita di Medea. II,3 Creonte, PRINCIPESSA CREUSA. PRINCIPESSA CREUSA non vuole che il padre accolga Medea. Creonte la allontana e la principessa entra preoccupata. II,4 Creonte, solo, per una battuta d’attesa. II,5 Creonte, Medea. Con orgoglio Medea chiede un giorno ancora e Creonte glielo accorda. II,6 In soli due versi Medea, sola, commenta soddisfatta quanto ottenuto. III,1 PRINCIPESSA CREUSA, GIASONE . PRINCIPESSA CREUSA, gelosa, non vuole che GIASONE  tenga con sé i figli. Piuttosto li lasci a balia altrove. Infine cede, in cambio del cinto di Medea. III,2 GIASONE  lamenta la gelosia e i capricci della promessa sposa, a cui ha ceduto solo per cupidigia del trono e per il futuro dei figli. III,3 Detto, Medea, Clito. GIASONE  chiede a Medea il cinto, e le ricorda di consegnargli i figli entro il tramonto. Verrà lui stesso a prenderli. III,4 Medea, Clito. Medea, furibonda, non rivela in dettaglio i propri progetti di vendetta, ma afferma di aver «opra tremenda» in mente. IV,1 Medea, Clito, due fanciulli. Medea invia Clito col cinto da PRINCIPESSA CREUSA. Clito teme di essere ministra di delitti ancora ignoti. IV,2 Clito parte con i fanciulli per consegnare il dono. IV,3 Creonte, PRINCIPESSA CREUSA, GIASONE , preceduti e seguiti dalla pompa nuziale. Clito ed I fanciulli in disparte. Creonte vorrebbe passare con discrezione sotto le finestre di Medea e ferma i clamori del seguito. PRINCIPESSA CREUSA si dimostra invece arrogante, rimprovera la sensibilità del padre e l’apparente incostanza di GIASONE. Riprendono le nozze. IV,4 Detti, Clito, fanciulli. Clito consegna i doni e supplica GIASONE  di lasciare i figli con la madre fino al giorno seguente, quando sarà orami scaduto la proroga dell’esilio. GIASONE  non vorrebbe, ma PRINCIPESSA CREUSA, sempre gelosa dell’affetto dello sposo per la prole di Medea, lo convince. IV,5 Creonte, PRINCIPESSA CREUSA, GIASONE , seguito. Riprende il corteo nuziale, ma PRINCIPESSA CREUSA vacilla. Viene condotta dentro V,1 Notte. Medea con i fanciulli. All’idea di doversi uccidere per sfuggire alla caccia dei corinzi desiderosi di vendetta, Medea comincia a pensare di abbandonare i figli, poi a ucciderli per salvarli dalla furia del popolo. V,2 Medea, Clito. Clito informa Medea che ormai le vie di fuga sono tutte precluse. Le narra la morte di PRINCIPESSA CREUSA. Medea decide l’infanticidio. V,3 Meda sola. Si prepara all’ultimo delitto. V,4 Detta, guardie, Medea, GIASONE , seguito con fiaccole ed armi. GIASONE  sta per vendicarsi su Medea ma si stupisce che essa non abbia con se i bambini. Medea lo ricatta: I figli sono il prezzo della sua vita. GIASONE  accetta di lasciarla in vita, così che Medea ha la misura del suo amore paterno. Medea entra. V,5 GIASONE , seguito; Clito e Medea da dentro. Clito urla ed esorta Medea a fermarsi. V,6 Detti, Medea, dal fondo con capelli irti, volto pallido, vesti e pugnale insanguinato. Medea vaneggia fra i fantasmi di tutte le sue vittime, e muore in scena.

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Grillparzer, Francesco.
"Giasone e Medea: tragedia in cinque atti".
Vienna, 1822.

Personaggi:

GIASONE
Creonte, re di Corinto; PRINCIPESSA CREUSA, sua figlia; Medea; Gora, nutrice di Medea; un araldo degli Anfizioni; un contadino; servi e ancelle; i figli di Medea. Scene: davanti alle mura di Corinto; atrio nella reggia di Creonte; atrio della rocca di Creonte; vestibolo della rocca di Creonte. Dalla traduzione di Claudio Magris e M. Longo, in Medea. Variazioni sul mito, a cura di Maria Grazia Ciani, Venezia, Marsilio]

ATTO I

Medea, accampata fuori dalle mura di Corinto, attende GIASONE  che è entrato a chiedere asilo. Nonostante le perplessità di Gora, ancora adirata per l’aiuto prestato da Medea a GIASONE , Medea sotterra di nascosto uno scrigno con il vello d’oro e tutte le sue pozioni magiche. Lite tra Medea e Gora che le rinfaccia le scarse attenzioni che ormai GIASONE  le presta.Esce GIASONE  con uno schiavo che gli annunzia l’arrivo di Creonte. Esce Medea, e in un dialogo teso e reticente, GIASONE  mostra di disprezzare Colco e tutti i ricordi che ha di quella terra. Manifesta anche l’odio, ricambiato, che nutre per Gora. Escono i figli che si presentano al padre ricordandogli ancora la loro estraneità al mondo greco. GIASONE  è sempre più turbato. Esce il re Creonte. Dopo freddi saluti, il sovrano chiede conto dei delitti compiuti a Iolco. GIASONE  si discolpa, ma il dialogo è interrotto dall’arrivo di PRINCIPESSA CREUSA. PRINCIPESSA CREUSA salute l’ospite con affetto, in ricordo degli anni passati assieme da ragazzi in Corinto. È convinta che mai egli avrebbe potuto commettere i delitti di cui lo si accusa e nemmeno sposare una donna barbara come Medea. Medea esce e conferma il matrimonio con GIASONE  e la prole che ne è nata. Creonte e PRINCIPESSA CREUSA compiangono l’eroe. PRINCIPESSA CREUSA ha gesti d’affetto per i figli di Medea, che chiama «orfani, senza patria». Medea se ne risente e richiama a sé i figli che la raggiungono dopo alcune incertezze, abbracciando PRINCIPESSA CREUSA. Creonte assicura asilo a GIASONE . Non ancora a Medea e figli. Creonte, GIASONE  e PRINCIPESSA CREUSA stanno per uscire. PRINCIPESSA CREUSA si volge a chiamare anche Medea, ed ha parole di affetto per lei. Medea, riconoscente, le si affida e la prega di insegnarle gli usi greci, così che lei non sia più considerata una barbara. Uscite le donne, GIASONE  rende conto all’incredulo Creonte delle sue avventure in Colco e del motivo della sua unione con Medea, ma nega ogni delitto. Creonte riluttante acconsente a ospitare anche Medea e i figli.

ATTO II

PRINCIPESSA CREUSA cerca di insegnare a Medea a suonare con la lira una canzone cara a GIASONE . In Nel dialogo, Medea confida a PRINCIPESSA CREUSA le difficoltà della sua unione con GIASONE : PRINCIPESSA CREUSA se ne adonta e fa per entrare, quando Medea torna a chiederle affetto. Esce GIASONE , allontana Medea con una scusa, e sfoga con PRINCIPESSA CREUSA i tormenti della sua vita matrimoniale, maledetta dal padre di Medea. Ricordano, poi, assieme i tempi in cui GIASONE  era a Corinto. Esce ancora Medea, ma GIASONE  prosegue il discorso ignorandola: la sposa prende al lira e propone di fargli sentire ciò che ha appena imparato. GIASONE  prosegue il dialogo con PRINCIPESSA CREUSA senza risponderle, fino a che PRINCIPESSA CREUSA stessa non lo interrompe. GIASONE  è insofferente: con sufficienza le consente di cantare. Medea è impacciata e non riesce a usare la lira. PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE  cercano di riprendersi lo strumento che Medea non vuol consegnare: la lira si spezza. Esce Creonte che annuncia l’arrivo di un messaggero che porta la notizia del bando dalla Grecia di GIASONE  e Medea. Medea ammette di essersi recata all’insaputa del marito da Pelia ammalato, di non essere riuscita a guarirlo ma di aver preso ugualmente in ricompensa il vello d’oro. Creonte, per salvare GIASONE , annuncia che gli darà in sposa la figlia, e bandisce la sola Medea. Medea fa per andarsene e chiama a sé GIASONE , il quale tuttavia la respinge. La sposa gli rinfaccia tutto quello che essa ha fatto per lui. Creonte afferma che l’ospitalità è estesa anche ai figli e che Medea dovrà partire sola. Medea entra, sola, ma minaccia vendetta. 3 Gora sobilla Medea a vendicarsi. La maga entra, ed escono Creonte e GIASONE . Creonte impone a Gora di chiamare la sua padrona, ma Gora rifiuta. Vogliono recuperare il vello d’oro che Medea ha ripreso dalla casa di Pelia. Esce Medea. Creonte la informa che l’esilio è anticipato: entro la giornata lei dovrà partire. Medea chiede in cambio i figli. Creonte rifiuta, ed entra, lasciandola sola a parlare con GIASONE . Dialogo teso tra marito e moglie, con molta ironia di Medea che rinfaccia allo sposo i delitti mentre discolpa se stessa. Medea tenta un’ultima volta di ricomporre la famiglia, poi chiede ancora di renderle i figli. GIASONE  è disposto a cederne uno: saranno loro stessi a decidere. Escono Creonte, PRINCIPESSA CREUSA e i figli: anche i figli preferiscono PRINCIPESSA CREUSA. Medea è disperata. 4 Gora, e Medea disperata. Nella maga sorge l’odio per i figli che l’hanno rifiutata. Esce Creonte e chiede a Medea il vello d’oro. Medea rifiuta ma Creonte le dice di aver trovato sepolto uno scrigno. Medea ottiene lo scrigno in cambio della cessione del vello d’oro. Si finge vinta e offre anche un dono a PRINCIPESSA CREUSA, che aveva intercesso con Creonte affinché rimandassero da lei i figli per un ultimo saluto. Creonte accetta il dono e acconsente a rimandarle per un ultimo momento i figli. Con una formula magica Medea apre lo scrigno e ritrova gli oggetti materni capaci di ridarle poteri magici. Arrivano i figli con una schiava di Creonte, che subito riparte, accompagnata da Gora con il dono avvelenato per PRINCIPESSA CREUSA. Medea con i figli ascolta le loro rimostranze: non vogliono ripartire con lei; vanno a riposare. Mentre i figli dormono, Medea pensa al suo futuro da esule solitaria. Vede le fiamme nella reggia e capisce che il suo attentato ha avuto successo.  L’arrivo di Gora, sconvolta per l’efferatezza del delitto, glielo conferma. Si sentono da dentro i lamenti di Creonte e GIASONE . Medea entra. 5 Creonte interroga Gora sul dono avvelenato. Gora afferma di essere stata ingannata da Medea, ma avvisa che un delitto ancora più atroce è stato commesso: Medea ha ucciso I propri figli. Entra GIASONE , e Gora conferma anche a lui la morte dei figli. Creonte arresta Gora e scaccia GIASONE . GIASONE , in fuga e ferito, chiede aiuto ad un contadino che, non appena sente il nome dell’eroe, lo scaccia in malo modo. Appare Medea. Gli rinfaccia la sua vita senza onore e parte, dichiarandosi incapace di uccidersi, e pronta a espiare il dolore per il resto della vita; GIASONE  dovrà fare lo stesso.

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PACINI, Giovanni 
Medea: tragedia lirica in tre atti, su libretto di Benedetto Castiglia”.
Palermo, 1843.

Personaggi:

GIASONE
Medea
Creonte
Cassandra
Calcante. Scene: vasta convalle in fondo alla quale è il bosco di Apollo; stanza in casa di Medea; tempio di Pallade; atrio nella reggia di Creonte; pantheon; atrio nella reggia di Creonte; strada innanti al bosco delle furie.

ATTO I

SCENA I

Sacerdoti, Calcante, Creonte. Rito di fronte al tempio: gli dei sono interrogati sulla liceità della separazione di GIASONE  da Medea e sulle nuove nozze. Il rito è interrotto da folgori funeste.

SCENA 2

Detti, donne di Glauce. Arrivano le donne che informano il sovrano dello stato di prostrazione cui versa la figlia. I,3 Medea, sola. Lamenta che GIASONE  ancora non sia rientrato a casa. Giura vendetta nel caso GIASONE  si dimostri infedele. I,3 Detta, Licisca, figli. Licisca annuncia l’arrivo di GIASONE . Medea le impone di uscire con i bimbi. I,4 Medea, GIASONE . Lite tra gli sposi. Nonostante GIASONE  la rassicuri sul suo affetto, Medea gli chiede di giurarlo. GIASONE  rifiuta e lei entra furiosa. II,1 Popolo, Cassandra, Calcante. Rito propiziatorio. II,2 Detti, GIASONE . Prosegue il rito propiziatorio. II,3 Medea, sola, attende Creonte. II,4 Creonte, Medea. Medea è sotto falsa identità. Creonte la conosce come PRINCIPESSA CREUSA. Medea chiede conto a Creonte dell’atteggiamento scostante di GIASONE . Creonte la informa delle prossime nozze con Glauce. Medea minaccia la vendetta di Medea, sempre dissimulando la propria identità. La scena si chiude con lo scontro verbale tra i due. II,5-8 Popolo, donne, Cassandra, poi Creonte, Cureti, donne, Calcante, GIASONE . Riprende il rito oracolare: può GIASONE  sposare Glauce e lasciare Medea? II,9 Detti, Medea. Quando l’oracolo sta per esprimere il verdetto, Medea interrompela cerimonia. Fra lo stupore generale, per il gesto sacrilego, Medea esorta GIASONE  arivelare la sua vera identità. Dopo che viene riconosciuta, fra il terrore generale, viene scacciata. I suoi figli sono però trattenuti. Medea impreca e invoca gli dei. III,1 Donzelle, donne, fanciulli e uomini. Festeggiano le nozze imminenti. III,2 Detti, Medea. Appare Medea, e, nel terrore generale, chiede che le sia chiamato GIASONE . II,3 Medea, sola. Attende GIASONE . II,4 GIASONE  e Medea. Supplica di lasciarla a Corinto, anche come schiava, pur di restare con i figli. Scongiura che le siano resi i figli. III,5 Detti e Creonte. Dopo molte insistenze, Medea convince il sovrano di concederle almeno un ultimo saluto a bimbi. III,6 Popolo. Si preparano le nozze III,7 Popolo, GIASONE , Glauca, Creonte, Cassandra, Calcante, Arconti. Proseguono le nozze. III,8 Medea con i figli. Aria di affetti combattuti verso i figli. Mentre da dentro al tempio proseguono i canti nuziali. Medea entra nel tempio con i figli (lascia quindi la scena vuota) e subito ne esce col pugnale insanguinato, dopo aver ucciso Glauca e i propri figli. GIASONE  e tutti gli altri la inseguono, ma Medea si uccide.

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Giuseppe Pini,
Medea: tragedia lirica in due atti”, Como, 1849.

Personaggi:

GIASONE, figlio di ESONE, re di Iolco, argonauta.
Medea, figlia di Aete, re di Colco
Creonte, re di Corinto, PRINCIPESSA CREUSA, Leonilla Emone. Due fanciulli dai sette agli otto anni; coro di grandi del regno di Corinto, damigelle di PRINCIPESSA CREUSA e delle vergine del tempio di Giunone grandi; ancelle; guerrieri; popolo.  

Scena: reggia di Creonte in Corinto: sala delle stanze destinate a Medea con porta grande nel mezzo; Reggia. Peristilio del delubro sacro a Giunone nella reggia di Corinto, porticato dai lati, e gradinate che mettono agli appartamenti reali: avrà il tempio un a porta praticabile nel mezzo, atrio che guarda il tempio annesso alle stanze di Medea. «Volendo onorarla di Musica. Tutti i versi virgolati si possono omettere per brevità.

ATTO I

SCENA I

In una scena di folla, con damigelle, grandi del regno. GIASONE è innamorato di PRINCIPESSA CREUSA, e ne chiede la mano.

Creonte si assicura che nessun vincolo leghi GIASONE  a Medea. GIASONE  giura di essere libero da ogni vincolo: solo a quel punto Creonte acconsente. Coro iniziale in settenari, dialogo in ottonari.

SCENA 2

Emone annuncia la visita improvvisa d’una donna sconosciuta. Concertato a tre in ottonari. Coro di damigelle che chiudono la scena nel trionfo iniziale. I,3 Escono Medea e ancella, introdotte da un servo che poi entra. Scena e aria in settenari modellata sull’esordio di Gotter. I,4 Dette, Creonte. Saluti e convenevoli. Medea non si fa riconoscere e Creonte la ospita volentieri. I,5 PRINCIPESSA CREUSA con ancelle, è felice per le prossime nozze. I,6 Incontro casuale tra Medea e GIASONE . GIASONE  la informa delle prossime nozze con PRINCIPESSA CREUSA. Si viene a sapere che i figli staranno con la nuova sposa. I, 7 Si preparano le nozze, ma PRINCIPESSA CREUSA arriva tremante. I,8 PRINCIPESSA CREUSA racconta che al tempio le è apparso un fantasma. I,9 Tutti gli altri cercano di convincerla di presentarsi all’ara, ma PRINCIPESSA CREUSA rifiuta intimorita. I,10 Appare Medea. Al suo apparire concertato a 4 più coro con stretta finale. II,1 Creonte con grandi e damigelle. Concertano di esiliare Medea. II,2 Medea impreca contro l’ordine di esilio. II,3 PRINCIPESSA CREUSA, Medea e ancelle. Medea finge pentimento e raccomanda a PRINCIPESSA CREUSA I propri figli; chiede però di poterli rivedere per l’ultima volta. PRINCIPESSA CREUSA intercederà con GIASONE . II,4 Timori di Creonte. II,5 Leonilla e Medea: Medea le affida il cinto e un messaggio per PRINCIPESSA CREUSA. Esce GIASONE  con i figli e presenzia al loro incontro con la madre fino a che non sente le urla di PRINCIPESSA CREUSA da dentro. A quel punto accorre dalla sposa e lascia i figli con Medea. II,6 Leonilla, sconvolta dal delitto compiuto su PRINCIPESSA CREUSA, la esorta a fuggire. II,7 Medea coi fanciulli. È sconvolta e furiosa perché non riesce a fuggire dal palazzo chiuso dalle guardie. II,8 Cerimonia funebre per PRINCIPESSA CREUSA con GIASONE , sacerdoti e donzelle. II,9 Detti, Creonte e guerrieri. Ci si prepara alla vendetta; GIASONE  prega di salvare I suoi figli. II,10 Cercano Medea, che tuttavia appare improvvisamente e mostra i figli morti. Dopo di che si uccide. Anche GIASONE  sta per uccidersi, ma viene salvato dalle guardie e da Creonte. «Quadro di terrore». Fine.

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MONTANELLI, Giuseppe -- Ernesto Légouvé,
Medea: tragedia in tre atti”. Napoli, 1854.

Personaggi:  

GIASONE
Creonte
PRINCIPESSA CREUSA
Medea
Orfeo
Popolo di Corinto.
Canefore, nutrice di PRINCIPESSA CREUSA
Melanto e Licaone, figli di Medea.

La Scena: piazza alla porta di Corinto, a destra bosco di olive a sinistra statua di Diana collocata alla soglia del suo tempio che non si vede, in fondo una collina che scende dalla città.

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ATTO I

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Scena 1

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Piazza alla porta di Corinto.
Creonte, Orfeo, popolo di Corinto, GIASONE.

Creonte annuncia al popolo il nome del prossimo re e sposo di CREUSA.

Quando rivela che sarà GIASONE, Orfeo s’adombra e chiede di poter parlare da solo con GIASONE

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SCENA 2

Orfeo, GIASONE.

Orfeo rimprovera GIASONE e gli chiede conto della sorte di Medea.

SCENA 3

PRINCIPESSA CREUSA, Canefore. Preghiera e offerte al tempio di Diana. Rito d’addio alla verginità. PRINCIPESSA CREUSA con le donne entra nel tempio. Fuori resta la nutrice.

SCENA 4

Medea, con i figli Melanto e Licaone. Non riconosciuta, Medea parla con la nutrice e chiede se si trova in terra d’Epiro. I,5 Medea e figli. I figli si lamentano per la stanchezza e la fame; Medea si commuove. Decide però di ritirarsi e lascia i figli soli per commuovere PRINCIPESSA CREUSA, ed ottenere ospitalità. I,6 Detti e PRINCIPESSA CREUSA. Lungo dialogo prima con i figli di Medea, poi con Medea che si mostra. Le due donne si attraggono reciprocamente in una sorta di solidarietà femminile. I,7 Dette e Orfeo. Orfeo riconosce Medea, e tutto si svela con terrore di PRINCIPESSA CREUSA. Alterco e sfida finale tra le due donne. II,1 Creonte, PRINCIPESSA CREUSA, Orfeo. Imbarazzo, rabbia e incertezza in assenza di GIASONE  impegnato sui campi di battaglia. Orfeo prega per la salvezza dell’eroe. II,1 Arriva GIASONE , seguito dalla folla. Nonostante le minacce di Orfeo, GIASONE  conferma di ripudiare Medea; è però felice che essa abbia portato con sé i suoi figli. II,2 La nutrice annuncia l’arrivo di Medea infuriata. II,3 GIASONE  e Medea. Lite tra i due sposi. II,4 Medea, sola, poi i escono i figli. Medea scaccia i figli, poi, pentita, li abbraccia. I figli entrano inquieti II,5 Medea sola. Medita vendetta, ma sopraggiunge PRINCIPESSA CREUSA. II,6 PRINCIPESSA CREUSA e Medea. PRINCIPESSA CREUSA mette in guardia Medea: il popolo vuole linciarla; la esorta a fuggire. Medea le chiede per l’ultima volta di lasciarle GIASONE  ma PRINCIPESSA CREUSA risponde di essersi consegnata ad Amore e rifiuta. Nuove minacce di Medea. II,7 Dette poi popolo, Creonte, GIASONE , figli di Medea. Creonte le intima l’esilio. Medea chiede un giorno ancora: le viene concesso ma le viene anche detto che i figli sarebbero rimasti con GIASONE . Medea balza sui figli e sfida il marito di venirseli a prendere. II,8 Detti e Orfeo. Orfeo sopraggiunge in tempo per calmare il popolo pronto al linciare Medea. III,1 PRINCIPESSA CREUSA, GIASONE , Orfeo, figli e nutrice. GIASONE  conferma le prossime nozze. Orfeo si stupisce che Medea abbia accettato di essere ripudiata. Ma GIASONE  spiega che Medea, placata, ha accettato tutto in cambio di un solo giorno di tempo e di una nave carica d’oro. III,2 Detti, PRINCIPESSA CREUSA. Scena famigliare con i figli che riconoscono PRINCIPESSA CREUSA come madre e Orfeo che li rimprovera di aver dimenticato la loro vera madre. III,3 Esce Medea: vede la scena e capisce che GIASONE  ama i propri figli come PRINCIPESSA CREUSA. In un monologo a parte rivela di aver avvelenato con veleno di vipera la veste. III,4 Orfeo e Medea. Orfeo annuncia che i figli stanno arrivando per l’ultimo saluto. Capisce che Medea non ha alcuna intenzione di abbandonarli a Corinto. III,5 Detti, Creonte, GIASONE , PRINCIPESSA CREUSA, figli, nutrice. Medea prega che le siano resi I figli. Orfeo ne sostiene la richiesta. GIASONE  decide di lasciarne solo uno: che sia lei a scegliere quale. Dopo molta incertezza, Medea ne chiama uno che le si avvicina piangendo al pensiero del fratello e del padre. Vistasi abbandonata anche dai figli, Medea accusa PRINCIPESSA CREUSA di averne rapito il cuore. Chiede di essere lasciata sola. III,6 Medea, commenta la propria solitudine. III,7 Medea e figli che arrivano con la nutrice. Orfeo la convince a fuggire con I figli: in quel momento si sentono le grida di morte di PRINCIPESSA CREUSA. Orfeo sdegnato cerca di riprendere con sé i figli di Medea. III,8 Creonte e popolo. Tutti si avventano su di lei, la coprono agli occhi del pubblico, si sentono due grida e si scoprono i figli morti. Arriva GIASONE  disperato: Medea lo maledice.

REFERENZE:

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