Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Monday, September 15, 2025

Grice e Colagrosso

 FRANCESCO COLAGROSSO 

SULLA COLLOCAZIONE DELLE PAROLE 


MEMORIA 



NAPOLI 

TIPOGRAFIA DELLA R. UNIVERSITÀ 
Ditta A. Tessitoke'& C. 

' 1906. 

I 






Estratto dal Rendiconto delle tornate e dei lavori della R. Accademia 
di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli. 




La collocazione delle parole può essere argomento tanto di 
grammatica quanto di stilistica. Non è facile vedere, dove l’ar¬ 
gomento cessi d’essere grammaticale, e cominci ad essere sti¬ 
listico : questa volta, anzi, grammatica e stilistica s’intreccia¬ 
no, e, per così dire, le radici della seconda penetrano e si di¬ 
stendono nella prima. L’ordinarsi delle parole nella proposi¬ 
zione non è un fatto semplice: se il pensiero vi riflette la sua 
vita, la lingua, d’ altra parte, vi rivela la sua indole, le sue 
necessità di struttura e anche le sue vicende. Non tutli poi 
s’accordano nel qualificare il vario disporsi delle parole nella 
proposizione. Alcuni chiamano indifferentemente grammaticale 
o logico l’ordine che viene alle parole dalle relazioni sintatti¬ 
che, e chiamano psicologico quello per cui esse schieransi, per 
quanto possano, come si son presentate alla mente e succedute 
le idee che esprimono. Altri invece non danno a grammaticale 
e logico lo stesso significato. 

Per il iWeyer-Liibke (t) l’ordine grammaticale è diverso dal 
logico, a cui è pure d’inciampo: l’ordine logico, libero per sè 
stesso, cambierebbe secondo l’occasione, se non dovesse a volte 
rispettare i posti a cui certi gruppi di parole han diritto per 
i loro rapporti grammaticali. Nel disporsi delle parole il Meyer- 

(I) . il cap. VI del terzo volume della sua Romaniche Qram- 

matik, Leipzig 1899. 


4 


Lubke distingue alla spiccia due modi, l’occasionale e l’usuale; 
e usuale sarebbe l'ordine conforme alle comuni esigenze della 
grammatica. Avverte poi l’illustre professore viennese, che 
all’ordine delle parole contribuisce pure la rispettiva loro ac¬ 
centuazione nel congegno della proposizione , in grazia della 
quale alcune parole perdono la propria individualità, e costrette 
ad appoggiarsi, sminuite come sono di significato, a un’altra che 
le preceda o segua, prendono per forza un posto fisso. E in 
codesta accentuazione trova l’ordine logico od occasionale un 
novello inciampo. Sicché nell’ordine delle parole agiscono lo¬ 
gica, grammatica e accentuazione; e questi fattori non vanno 
sempre d'accordo. Faro la storia dell’ ordine delle parole in 
una lingua varrebbe, dice il Meyer-Liibke, quanto esporre la 
lotta de’ tre fattori, la quale in certi momenti più si complica 
e rinvigorisce , perchè alcune costruzioni, cho sono in origi¬ 
ne prettamente logiche od occasionali , diventano, a furia di 
ripetersi, grammaticali o usuali. Potrebbe un tal caso somi¬ 
gliare oH’allro de’ «novi accozzi di vocaboli», che, «passati 
di bocca in bocca, accrescono il tesoro del parlar comune » (1), 
e mentre da questa parte « lo stile diventa lingua », da quella 
l’occasione diventa uso, e grammaticale il fenomeno logico: 
potrebbero i due casi ancho coincidere. Poco è stata poi con¬ 
siderala l’accentuazione, terzo de’ fattori dell'ordine delle pa¬ 
role. Il ritmo della frase, il maggiore o minor valore quanti¬ 
tativo delle parole, più o meu forti d’accento, le pause dall’uno 
all’ altro membro della proposizione sono, del resto, cose, di 
cui non è agevole cogliere i riflessi nel modo di collocarsi delle 

(1) V. Manzoni, Opere inedite o rare, voi. V, p. 381 e sg , 
Milano 1898. 




parole. Possiamo soprattutto coglierli, quando si tratti d'una 
lingua viva, che sappiamo come s'intlette, s’accentua, si scan¬ 
disce in bocca a chi pronunzii una proposizione, un periodo. 

Parrebbe più giusto chiamar psicologico 1 ordine che \iene 
alle parole dal loro disporsi secondo che siano apparse alla 
mente le idee eh’ esse significano. Quest’ ordine ritrae il mo¬ 
vimento del pensiero. Che un'idea si presenti prima di un'altra 
o dopo, e che s’avvicini e stringa a questa più che a quella, 
son fatti psicologici. I rapporti psicologici delle idee non sono 
i rapporti logici: questi le distaccano dalla psiche ove son na¬ 
te, e ne danno in astratto il valore rispettivo. Quando Dante, 
in principio del canto trentatreesimo dell’ Infetto, dice: 

La bocca sollevò dal flet'O pasto 
Quel peccator, 


comincia la proposizione con una parola che, secondo l’ordine 
logico o grammaticale, sarebbe dovuta esser la terza, e venire, 
come complemento oggetto, dopo sollevò, che. alla sua volta, 
doveva esser preceduto dal soggetto {quel peccator). Ma, se Dan¬ 
te avesse detto (mi si permetta per un istante la profanazione): 

Quel peccatore sollevò la bocca 
Dal fiero pasto, 

non avrebbe più seguito l’ordine psicologico, nè sarebbe stato 
nel vero, perchè, come racconta alla fine del canto prece¬ 
dente, egli era stato colpito dal vedere uno de’ due ghiacciati 
della buca mangiare il capo all’altro, e perciò, descrivendo 
quel peccatore nel momento che, interrogato, cessava dall’atto 





- tì - 


bestiale, doveva cominciare col mostrarci di lui proprio la 
parte, che nella sua mente occupava ancora il primo posto, 
cioè la bocca insanguinata.il Brizeux, rendendo francese il verso 
di Dante (ce pècheur dètourna sa bouche du feroce rcpas), 
sostituì l’ordine logico o grammaticale delle parole all’ordine 
psicologico, capovolto, invece, nella traduzione, pur tanto mi¬ 
gliore, del Lamennais (de l' horrible pdliire ce pècheur sou- 
leva la bouche ) (1). Il Littré però, traducendo VInferno in an¬ 
tico francese e in versi, conserva fedelmente l'ordine psicolo¬ 
gico delle parole, sebbene, col sostituire i denti alla bocca , 
alteri alquanto la rappresentazione: 

Ses dens leva de la pasture fiere 
Icil pechere (2). 

(1) Il De Sanctis, ne’suoi primi Saggi critici , per far vedere 
di quanto il Lamennais, traducendo Dante, si lasci addietro il 
Brizeux, esamina, tra gli altri versi, il primo del canto di Ugo¬ 
lino. E scrive della versione del Lamennais: « Quanta proprietà 
in quel pàture , che ti risveglia nella monte la natura di quel 
pasto, atto bestiale, come dice piti sopra il poeta! E nell’ordino 
delle parole e nell’armonia che ne nasce, non sentite qualche cosa 
d’insolito! » Ma il De Sanctis non s’accorge che al poeta il La¬ 
mennais non altera meno del Brizeux l’ordine delle parole. 

(2) Questa è la traduzione dell’intera terzina dantesca : 

Ses dens leva de la pasture fiere 
Icil pechere, s’essuiant la maissele 
A us crins du chef qu’il avoit mors deridere. 

V. È. Littré, L'Enfer mis en viettee langage franpois et en vers, 
Paris 1879. 


- 7 - 

De’ due ordini, il grammaticale, che chiamano anche diretto, 
e lo psicologico, più chiaro è creduto il grammaticale. Ma è 
chiarezza, osserva il Parodi (1), superliciale, apparente, anzi 
falsa, perchè in tanti casi il pensiero non si è generato e svolto 
così come lo rendono le parole disposte in ordine diretto. Vera 
chiarezza si avrebbe, invece, con l’ordine psicologico. Ma ogni 
parola può nella proposizione occupar sempre il posto in cui 
è apparsa, nel generarsi e svolgersi del pensiero, quella parto 
di esso che le corrisponde? I rapporti grammaticali saltau su 
a voler le parole a que’ posti da cui essi risultino evidenti. 
Nella nostra lingua, come in altre moderne, non porta ogni 
parola scritto in fronte l’uflìcio che esercita nella proposizio¬ 
ne. Ciò avveniva nel latino e nel greco, di cui sempre udiamo 
rimpiangere quella beala libertà di costruzione, che concede¬ 
va , per esempio, a Plauto il gusto di mettere in fila, 1’una 
di costa all’altra, a dispetto delle loro diverse funzioni gram¬ 
maticali , che le chiamavano altrove, più parole della stessa 
natura o più forme della stessa parola, e scrivere : «isteeum 
sese ait qui non est esse » (2). Questa frase di Plauto parrebbe 
un giuoco di parole, ma è innegabile l'efticacia dell'avvicina¬ 
mento de' tre pronomi iste eum sese, che indicano a un trailo 
le tre funzioni grammaticali o logiche per cui passa nella pro¬ 
posizione il nome onde fanno le veci, come pure dal trovarsi 
esse subito dopo non est balza fuori forte il contrasto; senza 

(1) V. noi Bollettino della Società dantesca italiana, die. 1902, 
le fine e acute osservazioni di grammatica e stilistica eh’ egli fa 
esaminando L’arte del periodo ecc. del Lisio. 

(2) Queste parole Plauto mette in bocca ad Aristofonte nella 
quarta scena del terzo atto de’ Capteivei. 



8 


dire che esse lì, in coda di frase, fa sentire la sodisfazione 
deH’aflFermare, quasi il riposo che ne viene. E alla libertà di 
costruzione si deve quella , diremmo, civetteria della torma , 
che ogni buon lettore avverte in ì'usticus urbanwti murem 
mus con cui comincia la tavoletta oraziana de due topi (1). 
Il poeta , sorridendo , introduce come un compagnuolo e un 
cittadino i due personaggi che poi specifica chi sono , e per 
l’arguta presentazione mette a profitto quel po' di sosta a 
cui ci obbliga dopo xtrbanum, seconda parola dell esametro, 
la cesura pentemimera. Collocazioni efllcacissime di parole con¬ 
sente anche la nostra lingua, e pittoresca davvero è la seguen¬ 
te del Carducci: 

Dove e a che move questa, che affrettasi 
a’ carri foschi, ravvolta e tacita 
gente? (2). 

Gente che si stacca da questa e, preceduto da ravvolta e ta¬ 
cita, chiude il contesto, ci dà una unità di rappresentazione, 
per cui noi abbracciamo tutti insieme, e in tutta la monoto¬ 
nia delle loro figure, que’ viaggiatori affrettantisi a’ vagoni del 
treno in una mattina d’autunno. Si ha qui una inversione, una 
deviazione da quello che falsamente si dice ordine naturale dello 
parole: si dovrebbe piuttosto dire ordine grammaticale o lo¬ 
gico , chè naturale è invece la inversione, rispecchiante ap¬ 
punto l’ordine psicologico, la sfilata, quale si è avuta, delle 

(1) V. Sermonum lib. II, 0, v. 79 e sgg. 

(2) Son versi dell’ode barbara Alla stazione in una mattina 

di autunno. 





9 


idee. L'inversione carducciana è poi una inversione poetica, 
né la nostra lingua ò tale da permetterne anche al poeta quante 
ne vuole, senza eh' egli incappi nel pericolo di non farsi capire. 

Parrebbe adunque, che solo nelle lingue antiche, in cui le 
parole erano impresse del segno della loro funzione gramma¬ 
ticale, potesse sempre serbarsi l'ordine psicologico e aver luogo 
qualsiasi inversione. E inversive sono stale qualificate la lin¬ 
gua latina e la greca, e analitiche, invece, la nostra lingua 
e le altre romanze, nelle quali l’ordine delle parole è dato dalla 
cosi detta analisi logica o sintattica, e regolarmente perciò si 
succedono soggetto, verbo, attributo co’ rispettivi complementi. 
In vero si dovrebbe parlare d'inversione, trattandosi di lingue 
moderne, non di antiche; perchè, se per inversione s’intende 
l'infrazione dell’ordine grammaticale, questa non poteva aversi 
nelle lingue antiche, in cui si ammette che quell’ ordine non 
fosse riconosciuto. Inversive quindi sono piuttosto le lingue mo¬ 
derne, obbligate di regola a una costruzione fissa. La quale co¬ 
struzione dovrebbe essere un effetto e insieme un risarcimeuto 
della perdita de’ casi : i posti fissi degli elementi della propo¬ 
sizione farebbero le loro veci. A questa spiegazione della co¬ 
struzione fissa, che nel francese moderno s’attua con più insi¬ 
stenza che nelle altre lingue romanze, qualcuno non si rasse¬ 
gna, ritenendo inverosimile, che, perdutisi i casi, si rinunziasse, 
per amor di chiarezza , alla libera collocazione delle parole. 
A dare, infatti, il senso d’ una frase contribuisce il contesto, 
l’intero discorso, non la sola giacitura delle parole. Cosi la 
frase staccata il figlio il padre uccise (l’esempio tragico non 
è mio) per sè stessa non è chiara, ma diventa chiarissima, se 
riprende il suo posto nel discorso, dove, mettiamo, si è nar¬ 
rata la morte violenta d’ un povero padre: se spostassimo le 

o 

v 





10 


parole, e dicessimo il padre il figlio uccise, la frase, i icollo- 
cata, s’ intende, nel contesto, non diminuirebbe di chiarezza. 
Spesso, come osserva il Diez (1), son trascurati i rottami dell’an¬ 
tica flessione, che chiarirebbero i rapporti grammaticali o logici 
delle parti d’una frase, e si lascia all’ascoltatore o al lettore l'in¬ 
terpretazione del senso di essa. Dante, scrivendo (Inf., XI, 8 sg.): 

Anastasio papa guardo , 

Lo qual trasse Fotin della via dritta , 

non si diè pensiero dell’ambiguità della proposizione relativa, 
che avrebbe potuto togliere col sostituire cui , caso obliquo 
del pronome , a lo qual , che può esser pure caso retto. 
Dunque la perdita de’ casi non ha aperto tra le lingue an¬ 
tiche e le moderne quell’ abisso che di solito si crede, e 
non ha tolto tanto vantaggio alla collocazione delle parole 
nelle lingue moderne quanto 1’ esistenza de’ casi ne dava ad 
essa nelle antiche. Nè è vero, che la costruzione delle lin¬ 
gue moderne sia da paragonarsi alla numerazione arabica, in 
cui ciascun numero, oltre al valore proprio, ha un valore di po¬ 
sizione,o che le lingue moderne, secondo una spiritosa imma¬ 
gino del Bréal, somiglino press’ a poco a quelle serrature a 
secreto, il cui congegno non agisce, se non so ne siano prima 
disposti i pezzi in un dato modo (2). 

Tutto ciò che finora abbiam detto, dimostra che la faccenda 
della collocazione delle parole non è tanto liscia. Parecchi se 

(1) V. la Qrammaire des langues romanes, t. Ili, trad. par A. 
Morel-Fatio et G. Paris, p. 114, Paris 1876. 

(2) V. Bréal, Essai de Sèmantique, p. 238, Paris 1899. 








-li¬ 


ne sono occupati di proposito, ponendo mente più a una lingua 
che a un’altra. Anche un filosofo, il VVundt (1), ne ha trattato, 
e vi accennano quanti han discorso , più o inen recentemen¬ 
te, di scienza del linguaggio, come il Wegener, il Gabelentz, 
il Siitterlin (2). Ricerche speciali e pazienti intorno al modo 
tenuto da scrittori francesi nel collocar le parole han fatte più 
filologi tedeschi, quali il List, il Glauning, l'Ebering. Il Morf ha 
studiato la collocazione delle parole nella Chanson de Roland, 
e il Kriiger quella della prosa letteraria francese del secolo 
XIII (3). Tali indagini linguistiche o sintattiche, che sarebbe 

(1) Il primo volume, diviso in due parti, della Vdlkerpsychologie 
(Leipzig 1900) del Wundt è tutto dedicato alla lingua (Sprar.he) 
Il sesto paragrafo del capitolo che tratta della sintassi , ha per 
oggetto 1’ Ordnung der Satzylieder. 

(2) Il libro del Sutterlin , intitolato Das Wcsen der sprach- 
lichen Gebilde (Heidelberg 1902), si compone tutto di osservazioni 
critiche alla Sprachpsycliologie del Wundt. 

(3) L. Wespy, a p. 6 del suo pregevole libretto Die historische 
Entwickelung der Jnversion des Subjectcs im Fransósichcn und 
der Gebrauch derselbcn bei Lafonlaine (Oppeln 1884), osserva 
opportunamente : « Das Interesse der Wissenschaft hat sich schon 
seit geraumer Zeit dem Studium der Satzlconstruktion zugewcndet, 
und das mit Recht, denn die verschiedene Anordnung der syntak- 
tiscben Elemente der Rede verleiht den einzelnen Sprachen ihren 
Charakter, der sich erst muhsam endgiltig feststellen lassi, da er 
so ausserst mannigfaltig ist. Ja, nicht nur verschiedene Sprachen 
unterscheiden sich durch die Wortstellung von einander, sondern es 
bietet segar hinsichtlich derselben jede einzelne Sprache ein ver- 
schiedenes Bild auf ihren verseliiedenen Entwickelungsstufen dar »• 


12 


desiderabile si facessero anche per i nostri scrittori, possono, 
alla lor volta, essere feconde di osservazioni stilistiche. La ri¬ 
cerca sintattica è, per non piccola parte, la vera base della 
osservazione stilistica. Studiare la collocazione delle parole è 
studiare come atteggiasi o può atteggiarsi una lingua , e in 
questi atteggiamenti lampeggia lo stile. Conoscere qual collo¬ 
cazione soglia, o possa, una lingua consentire alle parole è co¬ 
noscere uno de’ mezzi dello stile, i limiti anche, entro i quali 
gli scrittori si vedono costretti. A giudicar più o meno oppor¬ 
tuna, più o meno efficace la sede assegnata da uno scrittore a 
una parola , a lodarlo perciò o biasimarlo risica di prendere 
abbaglio chi non muova dalla ricerca sintattica. 

Sono notabili due lavori intorno alla collocazione delle parole, 
uno francese, che, uscito la prima volta nel 1844, fu ristampato 
nel ’69 e nel '79, e un altro recente tedesco. Nel primo, che 
è di Enrico Weii, Lordino delle parole quale si ha nelle lin¬ 
gue antiche ò messo a raffronto con quello delle lingue mo¬ 
derne; nel secondo Elisa liichter studia la derivazione della 
costruzione romanza dalla latina, come cioè il modo di ordinar 
le parole pròprio dell'italiano e delle lingue sorelle si riattac¬ 
chi a quello della lingua madre (i). Eccellenti osservazioni 
spiccano nel lavoro francese, e il paragone delle lingue anti¬ 
che con le moderne, dal lato dell’ordine delle parole nella pro- 

(1) Il lavoro del Weii. s’intitola De t ordre dee mole dans 
les langues anciennea comparto aux langues modernes, e fa parte 
del liecueil de travaux originaux ou traditile rélalifs à la 1‘/lito¬ 
logi e et à l'hntoire lillèraire edito dal Vieweg in Parigi. Il la¬ 
voro di Elisa Richter, pubblicato il 1903 in Halle, s’intitola Zar 
Entwicklung der romanischen Wortstel/ung aus der la tei nàsciien. 




- 13 - 


posizione e anche delle proposizioni nel periodo, è condotto con 
molta finezza e perspicuità. Ma ili una cosa soprattutto il Weil 
non si rende conto, ed è questa : se le lingue romanzo sono 
uno sviluppo della latina, come la nuova collocazione delle pa¬ 
role venne fuori dall’antica? È veramente del tutto nuova la 
costruzione romanza ? Negli scrittori latini della migliore età 
non si ebbero strutture romanze di frasi, come in scrittori ita¬ 
liani o francesi o spagnuoli se ne hanno di latine? Manca nel 
Weil la indagine storica. Il quesito della derivazione del modo 
romanzo di costruir la frase dal modo latino e discusso e ri¬ 
soluto nel lavoro tedesco. 

È mio proposito esporre prima il nuovo e il meglio di que¬ 
sto bel lavoro, di cui non mi pare si abbia presso di noi altra no¬ 
tizia oltre di quella brevissima dàlane dal chiaro prof. Savj-Lopez 
in una rivista siciliana i.i). All’esposizione frammischierò, 
s’intende, osservazioni mie e d' altri. Poi esaminerò alcuni 
punti salienti dello scritto del Weil, che la Richter non ha letto, 
come neppure ha letto 1 eccellente Essai sur la construction 
grammaticale del Bergaigne, comparso sin dal 1878 ne'Mèmoi- 
res de la Sortele de Linguistique de l’arts (2). Indi passerò a 
studiare la collocazione dell’aggettivo e insieme costruzioni e 

(1) Cioè nel Nuovo Ateneo siciliano (Anno I, fase. I). 

(2) Non possiamo dire che la Richter abbia ignorato entrambi 
i lavori , perchè son citati in altri da lei letti e registrati nella 
bibliografia, quello del Weii. in principio delle Bemerkungen 
ùber plautinische Wortsteltung und Wortgruppen di F. Leo e 
anche nel YAntikc Kunslprosu del Norden, e quello del Bergaigne 
nella dissertazione Ueber cin Gcselz der indogermanischen Wori- 
stellung del Wackbbnagel, inserita nel voi. I delle Indogerma• 
nische Furschungen. 




- 14 - 


nessi sintattici di speciale importanza. E sulla tela grammati¬ 
cale, che si andrà così tessendo, vedremo disegnarsi i rilievi 
stilistici, quelle particolari collocazioni di parole, in cui s’im¬ 
primono, sto per dire, gli sforzi che fa la lingua per rispon¬ 
dere alle esigenze del pensiero. 

Rifacciamoci adunque dal lavoro della Richter. 

I. 

Il latino suol mettere in principio di proposiziono il soggetto, 
in fine il verbo preceduto, se l'ha, dal complemento oggetto o 
accusativo, e le altre parti nel mezzo. Nella piena libertà della 
costruzione latina si osservano, dice il Bergaigne, delle abitu¬ 
dini, da cui la lingua consapevolmente si poteva sciogliere, e 
che costituivano i suoi principìi grammaticali, e per una di co- 
deste abitudini relegavasi il verbo in coda alla proposizione (1). 
Invece la lingua italiana c le sue sorelle amano disporre suc¬ 
cessivamente soggetto, verbo, oggetto e poi il resto delle pa¬ 
role. Son modi diversi di concepire la proposizione. Nella strut¬ 
tura Ialina di essti la parte che determina precede quella che 
è determinata, e cosi l’oggetto precede il verbo, al quale vanno 
innanzi pure gli altri complementi; nella struttura romanza la 
parte determinata precede la determinante (2). Si vuol vedere 

(1) V. i cit. Mémoires de la Soc. de Linr/uist., t. Ili, p. £>. 

(2) Non mi pare inutile esporre, comesi venissero secondo il Ber¬ 
gaigne collocando in origine i membri della proposizione; e cercherò 
di rifare questa storia grammaticale con la maggior brevità e chia¬ 
rezza. 

Dobbiamo ammettere, che nel primitivo linguaggio indoeuropeo 
il seggono fosse preceduto dal predicato o verbo : solo cosi pos- 









15 


un progresso in questa seconda maniera di collocare le parti della 

siamo spiegarci il saldamento del soggetto pronominale alla ra¬ 
dice verbale. (Nel piano originario delle nostre lingue, dice il Bréal, 
il verbo si faceva seguire dal soggetto, come si vede, per esempio, 
in 8[Sw|u, òtSuai). Quando nella proposizione il predicato non è più 
messo in relazione con un sol termine, che è necessariamente il 
soggetto, ma con due o più, uno di questi termini riman sempre 
il soggetto, e 1‘ altro o gli altri non possono essere che de’ com¬ 
plementi. Se con soggetto e predicato non si dànno che due com¬ 
binazioni , diventan poi sei quelle di soggetto, predicato e com¬ 
plemento. Per vedere da quale delle sei combinazioni si comin¬ 
ciasse, o meglio per ripescare la primitiva giacitura di que’ tre 
membri della proposizione, dobbiamo interrogare gli antichi com¬ 
posti, che, essendo tra le forme organiche originarie, possono ben 
rivelarci con quale ordine, prima clic fosse creata la flessione de’ 
casi, si succedessero per regola il complemento d’un attributo di 
forma impersonale, d'un aggettivo cioè o d’un participio, e questo 
attributo stesso. È costatato, che in siffatti composti il termine 
retto precedeva il termine reggente. Or, se non è da negare la 
grande affinità tra la funzione dell’attributo di forma personale, 
cioè del predicato o verbo, e quella dell' attributo di forma im¬ 
personale, dobbiam supporre, che i complementi dell' uno e del- 
1' altro attributo occupassero dapprima lo stesso posto. Dunque 
ammetteremo, che in origine anche il predicato fosse preceduto 
da’ suoi complementi. 

Il predicato o verbo si usava anche, e si usa, senz’ altro soggetto 
che la propria desinenza. In questo caso non si poteva avere che la 
costruzione complemento-predicato. Quando poi il soggetto viene 
espresso da un termine speciale, si complicano, coinè abbiam vi¬ 
sto, i vicendevoli rapporti tra soggetto, complemento e predica- 




- 16 - 

proposizione; che, come osserva il Lessing, è proprio dell’or- 

t0 . Tuttavia si noti, che tra soggetto e predicato da una parte e 
tra predicato e complemento dall'altra i rapporti sono immediati, 
e che mediati son quelli tra soggetto e complemento , e vengono 
stabiliti dal predicato. Dovendo, per la nota regola, il complemento 
precedere il predicato e il predicato il soggetto, vien su natural¬ 
mente la costruzione complemento-prcdicato-soggetto, la quale s ha 
da ritener primitiva. La proposizione MYIhacle (A, 43) vou o e/./.uc 
<j)oì]io; 'AkóUcov è un esempio di questa costruzione, abbastanza fre¬ 
quente in Omero. 

La costruzione predicato-soggetto non rimase per lungo tempo 
esclusiva o dominante. Anzi ben presto si procedette ali’ inver- 
sione del predicato per meglio distinguere questo attributo perso¬ 
nale dall’impersonale, che è l’aggettivo o il participio. Furono 
allora al predicato preposti insieme soggetto e complemento. Ma 
con quale ordine? Quale de’ due termini si strinse di più al pre- 
dicalo? Nella più antica prosa latina, in cui per regola il predi¬ 
cato va in fine di proposizione, vediam succedersi liberamente 
soggetto e complemento. Però lo studio de’ composti ci fa crede¬ 
re, che in principio la proposizione si dividesse in due parti, co¬ 
stituite l’una dal soggetto e l’altra dal predicato e da’ suoi com- 
plementi. Si deduce quindi facilmente , che nella proposizione in 
cui si rovesciò l’ordine originario predicato-soggetto, il soggetto 
formasse la prima parte e il predicato preceduto da’ complementi 
la seconda. Cosi alla prima costruzione complemento-predicato-sog- 
getto si aggiunse la seconda soggetto-complemento-predicato, che 
ben presto ebbe il predominio. 

Se poi si considerano le proposizioni nel loro reciproco rappor¬ 
to, è agevole comprendere, come 1’ associazione logica delle idee 
possa esigere che innanzi al soggetto vadano tutti i complementi 





17 - 


dine naturale del pensare l’aver prima conoscenza della cosa 

o ne vada uno soltanto. L’esistenza de’ due tipi di costruzione già 
riconosciuti permetteva di sodisfare a tali esigenze senza che si 
confondessero le due parti principali della proposizione, la quale 
terminava col soggetto quando occorreva che cominciasse col com¬ 
plemento. Tuttavia, consolidandosi da una parte il predominio del 
secondo tipo di costruzione (soggetto-complemento-predicato), e 
dall’altra rimanendo costantemente il predicato in coda alla pro¬ 
posizione non avente per soggetto un termine distinto, speciale, si 
stabilì un nuovo principio, per il quale aH’ultimo posto relegavasi 
il predicato, e al di qua di questo, ch’era il limite estremo del qua¬ 
dro in cui dovevano situarsi, andavano liberamente gli altri ter¬ 
mini. Cosi si ebbe il terzo tipo di costruzione soggetto o comple¬ 
mento-complemento o soggetto-predicato. 

S’ intende che questo terzo tipo, che abbraccia il secondo, rac¬ 
chiudeva soltanto, come il primo che lasciava il predicato senza 
soggetto, i termini essenziali della proposizione. Moltiplicatisi i 
termini, il quadro era troppo stretto per poterli contenere tutti, 
e alcuni naturalmente ne scappavan fuori. Ma codeste eccezioni 
non s’ hanno da considerar necessariamente come inversioni del- 
l’ordine antico; potevan anzi essere state in qualche modo con¬ 
sacrato insiem con la regola stessa. L’applicazione rigorosa di que¬ 
sta regola, che voleva il predicato dopo tutti i termini per nume¬ 
rosi che fossero, deve essersi avuta relativamente tardi. Così in 
tedesco il medesimo tipo di costruzione fu consacrato nelle pro¬ 
posizioni subordinate sin da’ più antichi monumenti della lingua, 
ma questi monumenti stessi , anche se in prosa, presentano del¬ 
le eccezioni alla regola, che poi l’uso moderno non ha più ammesse. 
(V. i cit. Mémoires, t. Ili, p. 133 e sgg.). 




18 - 


e poi delle sue accidentalità (1). Certo è, che la collocazione 
romanza delle parole, mentre fa capolino ne’ più antichi docu¬ 
menti letterarii di Roma (2), non si lascia poi soffocare dall’uso 
più largo e diffuso della collocazione prettamente latina, anzi va 
a questa sottraendo sempre più terreno (3), e finisce quasi per 
cacciarla di nido. E verbo-oggetto diventa collocazione più usuale 
di oggetto-verbo. Questa collocazione, che possiam dire pro¬ 
priamente moderna, e che vediamo più vigoreggiare quanto 
più popolari sono i documenti, trionfa nel quarto secolo, come 
mostrano gli Acta Apostolorum apocripha, la Vulgata e le Pc- 
regrinationes Hierosolymitanac, le cui buone forme latine so¬ 
no , per cosi dire, impresse di stile romanzo (4). 

Se non che il perpetuo contatto tra lingue romanze e latino (5) 
fa sì che più costruzioni di questo continuino o passino in quelle; 
e quindi in italiano vediamo l’avverbio, l’oggetto, ('attributo 
precedere tante volte il verbo, e il verbo di modo infinito an¬ 
dare innanzi al verbo di modo finito in frasi come, ad esem¬ 
pio, questa del Convivio : « apertamente dunque veder può chi 
vuole». Si osserva anzi, che nelle proposizioni subordinate e 
relative le collocazioni latine delle parole durano più a lungo 
che non nelle proposizioni principali, dove ricorrono solo ec- 
cezionalmento (0). Non vogliamo fermarci a spiegare questo fe¬ 
nomeno sintattico, che dipenderà da una doppia causa, formale 

(1) V. Richter, Op. cit., p. 7. 

(2) V. Richter, Op. cit., p. 3 e sgg. 

(3) V. Richter, Op. cit., p. 5 e sgg. 

(4) V. Richter, Op. cit., p. li. 

(5) V. Richter, Op. cit., p. 12 e sgg. 

(0) V. Richter, Op. cit., p. 37 e sg. 








- 19 - 

e psicologica ( 1 ). Piuttosto è da avvertire, che i verbi in fin di 
proposizione, o i complementi oggetti precedenti il loro verbo, 
che troviamo in Dante o in altri antichi, possono parere vezzi 
latini proprii di questi scrittori, mentre rientrano nella comune 
tradizione linguistica, fida ancora ad alcuni costrutti latini, e gli 
scrittori,collocando a quel modo le parole, non fecero che seguire 
l’uso del tempo. La proposizione subordinata e la relativa tendo¬ 
no. nell’ordine delle parole, a uniformarsi sempre più alla prin¬ 
cipale, a cui, come abbiam detto, è ormai abituale la costru¬ 
zione romanza. S’intende, che imbattendoci, dopo codesto com¬ 
pleto trionfo della costruzione romanza, in scrittori ricaccianti 
solitamente il verbo in fine di proposizione, dobbiamo ammet¬ 
tere in essi l’intenzione d’imitare l’andatura della frase latina. 
E se il Cellini, in cui non è certo da supporsi l’ubbia del la¬ 
tineggiare, scrive: «quanto immaginar si possa», questa co¬ 
struzione latina o è ricascata dal linguaggio colto e letterario 
nella parlata usata dall’artista fiorentino, o è un'eco popolare 
di altre simili costruzioni già scomparse. La frase « quanto 
immaginar si possa », che conserva 1’ impronta d’ una gram¬ 
matica più antica, è usata spessissimo dal Cellini, e potrebbe 

anche entrar nel novero delle così dette frasi fatte (2). 

* 

(1) La Richter spiega questo fatto sintattico a p. 38 dell’ Op. 
citata. 

(2) Questa frase ricorre nell’Autobiografia (ediz. Guasti) a p. 54 
(fogliami e maschere, quante immaginar si possa), a p. 57 (le più 
pretesche spagnolissime parole che immaginar si possa), a p. 73 (il 
più faceto e il più piacevole che immaginar si possa), a p. 88 (era 
una nebbia folta quanto immaginar si possa), a p. 92 (con tutta 
quella virtù e sollecitudine migliore che immaginar potevo), a 





- 20 - 

11 verbo, adunque, vien ritirato dalla line della frase, dove 
il latino amava di porlo; e questo cambiamento di costruzione, 
che abbiam visto compiersi lentamente, riposa sopra una ra¬ 
gione psicologica, non sopra una ragione ritmica, come voleva 
il Thurneysen (1). Il quale, movendo dal principio del Wackerna- 
gel, che tutte le lingue indogermaniche tendono a unire, co¬ 
rno enclitiche, alla prima parola della proposizione quelle de¬ 
bolmente accentate, quand’ anche abbiano con altro un più 
stretto legamo logico, ammetteva che il verbo , elemento di 
tono debole, si ritraesse dall’ultimo al secondo posto della pro¬ 
posizione, e si appoggiasse alla prima parola, fortemente ac¬ 
centata. Ma il secondo posto della proposizione non è incon¬ 
dizionatamente di tono debole, come di tono torte non è incon¬ 
dizionatamente il primo, e il verbo nel mezzo della proposizione 
non suona più debolmente che alla line, e se stesse in princi¬ 
pio, non gli cadrebbe addosso di necessità il tono torte. Chè 

p. 120 (il papa mostrò aver tanto caro queste parole, quanto im¬ 
maginar si possa), a p. 126 (voleva a lui tanto smisurato beno, 
quanto immaginar si possa), a p. 128 ( con quanta prestezza im¬ 
maginare si possa). E potremmo continuare lò citazioni. I ìuttosto 
occorro osservare, che su questa frase tutta, ricorrente spesso sullo 
labbra o sotto la penna, il Cellini forso rifoggiava altre inversioni, 
e diceva per es. a p. 52 : <t parecchi mottetti che loro bellissimi 
scelti avevano », a p. 08: « con un povero mio fattorino, il quale 
mai lasciar mi volse », e anche « da poi che io son qui, medicare 
ti voglio», a p. 09: « spacciato ero». Fino a p. 128 non incon¬ 
trasi altra inversione. 

(1) V., anche per le pagine seguenti, l’intero cap. Psycholo- 
gische Begriindung der Ver Under ung dell’Oyj. cit. della Ricuter. 










- 21 - 

l’accentuazione delle parole non è espressamente stabilita dal 
posto materiale ch’esse occupino nella proposizione, ma dalla 
loro importanza. E l’importanza è segnata dallo svolgersi stesso 
del discorso, il quale, sempre che proceda pacatamente, sen¬ 
za scatti enfatici o mosse di passione, va dal noto all’ignoto o 
nuovo. Il primo membro della proposizione, che per lo più è 
il soggetto, esprime una cosa risaputa, e si riannoda a quanto 
sia stato detto innanzi. E invece del soggetto può essere spinto 
al primo posto della proposizione un altro suo membro, se que¬ 
sto riattacchi meglio il filo del discorso. Così il Guicciardini, de¬ 
scritte le crudeltà che i turchi commisero dopo aver presa 
l’isola di Rodi, conchiude: «questo line ignominioso al nome 
Cristiano, questo frutto delle discordie dei nostri Principi ebbe 
l’anno 1522, tollerabile se almanco l’esempio del danno passato 
avesse dato documento per il tempo futuro ». I due comple¬ 
menti, questo fine ignominioso e questo frutto, stanno a capo 
della proposizione come annodamento al già noto, e 1’ anno 
do’ terribili avvenimenti, che è il soggetto, venendo dopo, ci 
s’imprimo bene nella mente. 

Nella proposizione, corno si vedo, si ha da un lato ciò su 
cui siam chiamali a pensare, il tema, dall’altro ciò che sul to¬ 
ma abbiam da pensare, e che del discorso ò lo scopo, 1 idea 
principale. Quest’idea principale dobbiamo, col Siitterlin, de¬ 
nominare predicato psicologico della proposizione, mentre il 
tema ne è il soggetto: il Wundt scambia le parti, facendo del¬ 
l’idea principale il soggetto psicologico della proposizione, non 
il predicato. Ora ogni membro della proposizione può conte¬ 
nere l'idea principale. Più comunemente questa s annida in 
uno de’ membri che determinano il verbo, quali il comple¬ 
mento oggetto, 1’ attributo, 1’ avverbio; talvolta sta nel verbo 






- 22 


stesso e di rado nel soggetto. Sarà accentata, s’intende, la pa¬ 
rola significante 1* idea principale, e che costituisce il predi¬ 
cato psicologico della proposizione. Sicché cogliere la vera ac¬ 
centuazione d’una proposizione vai quanto rilevare quel pre¬ 
dicato, e a ciò menerebbe il vedere, come la proposizione ri¬ 
congiungasi all’altra precedente o alla seguente. Una lingua 
però nell’ ordinare secondo lo scopo le parti del discorso s'u- 
niforma al modo in cui il popolo o la razza che la parla con¬ 
cepisce la proposizione, e nella pronunzia si accentuano natu¬ 
ralmente le parole giusta l’intenzione, onde, per così dire, s’im¬ 
pronta l’ordine loro. 

In latino l’ordine delle parole era, come sappiamo, soggetto- 
resto-oggetto-verbo ; in italiano e nelle altre lingue sorelle è 
soggetto-verbo-oggetto-resto. È spontanea la domanda : qual 
rapporto passa dall'accentuazione del latino a quella delle lin¬ 
gue romanze? Si deve certo ammettere che in ogni struttura 
di proposizione, o antica o moderna , più forte accento abbia 
avuto, e abbia sempre, la parte principale, meno forte la se¬ 
condaria. Posto ciò, non sembra giusta l’opinione, che l’ac¬ 
cento principale giaccia nel principio della proposizione, e i 
membri di essa, discostandosene, scapitino sempre più d'im¬ 
portanza. Il Wundt non esita a ritenere il soggetto , con cui 
per lo più s’ apre una proposizione, il membro più importante 
di essa, al quale, per la maggiore importanza, vien l’accento 
principale, e, in grazia di questo, il primo posto tra le pa¬ 
role. Per il Wundt la proposiziono RoììuUus Romcim condidit 
dovrebbe considerarsi come la risposta schematica alla doman¬ 
da : chi fu il fondatore di Roma ? L’altra proposizione Romulus 
condidit Romani risponderebbe, invece, alla domanda : chi 
fu Romolo? Anche questa seconda delle domande presupposte 



il Wundt considera, come la prima , domanda di soggetto, 
mentre pare piuttosto domanda di predicato. Quando doman¬ 
diamo, chi fu Romolo, mostriamo già di conoscere questo perso¬ 
naggio , se non che desideriamo saperne qualcosa di preciso. 
Quindi nella risposta Romulus condidit Romam il soggetto 
è il noto Romolo , di cui ci vien detto che fondò Roma. Nè 
poi la proposizione Romulus Romam condidit (a presupporre 
che si sia domandato chi fosse il fondatore di Roma. Quella 
proposizione ci vuol comunicare la fondazione di Roma , e 
sarebbe piuttosto risposta adatta alla domanda : che fece Ro¬ 
molo? In entrambe le proposizioni, adunque, Romulus è la 
parte nota della comunicazione, ciò da cui muove il discor¬ 
so; è il tema di esso, non il predicato. Il soggetto Romulus 
sarebbe il membro più importante della proposizione, se si 
presupponesse nota la fondazione di Roma, ma dubbio o con¬ 
troverso il fondatore. In tal caso il posto più naturale del 
soggetto Romulus sarebbe in fine di proposizione; a non vo¬ 
lere usare, beninteso, la forma passiva, la quale ci ripresen- 
terebbo una proposizione avente appunto in principio, come 
soggetto, la cosa a noi nota ( Roma condita est a Romulo). 
La proposizione Romam condidit Romulus sarebbe in posi¬ 
zione chiastica con un’ altra, presupposta o data , che comin¬ 
ciasse per un soggetto denotante una persona diversa, con la 
proposizione, mettiamo, Remus Romam condidit. 

Che in una proposizione comune, non enfatica, il soggetto, 
sebbene al primo posto, non sia accentato più fortemente de¬ 
gli altri membri, mostra il fatto, che vien soppresso appena 
lo permetta la chiarezza ; e proposizioni senza soggetto gram¬ 
maticale sono infinite tanto in latino quanto in italiano. Man¬ 
cato il soggetto, si presenta naturalmente a capo della propo- 




) 


- 24 - 

sizione, non certo per esser messa in rilievo, la parte di essa 
che occupava il secondo posto. Nella proposizione Ernesto è 
un traditore la parte nota è il soggetto Ernesto ; la ignota 
o nuova, ch’egli è un traditore. Nell’altra proposizione il tra¬ 
ditore è lui si sa che esiste un traditore, ma si dà per cosa 
nuova, che a tradire è stato lui. Se nelle due proposizioni o- 
meltiamo, come parte nota, il soggetto grammaticale, avremo 
è un traditore , è lui. Nella proposizione è lui il traditore, 
nella quale è accodato il soggetto, la prima parola (è) non ha 
accento , la seconda {lui) è fortemente accentata, e la tei za 

{traditore) manca quasi d’ accento. 

Sparendo, come superfluo, il soggetto, si troverà a capo della 
proposizione il verbo, se ne occupava il secoudo posto. Ciò vale 
anche per la proposizione esortativa o imperativa, la quale per 
struttura non differisce dall’assertiva, e, come questa, aveva in an¬ 
tico il verbo alla fine, dove lo ha conservato sinoa’tempi moderni. 

Non reggo l’opinione, che il verbo all’imperativo contenga 
l'idea principale della proposizione, e perciò vada a capo di 
essa. Difatli tanto nel comando energico , quanto nella pre¬ 
ghiera garbata, il verbo ò spesso soppresso. A un servo, invece 
di dire : portate un bicchier d’acqua , diciamo semplicemente: 
un bicchier d' acqua ! Nè, offrendo a un amico una tazza di 
caffè, gli diciamo sempre: prenda una tazza di caffè ; ma, 
senz’altro, tante volte: una tazza di caffè! In questi casi il 
complemento oggetto, non il verbo, contiene l’idea principale 
della proposizione. D’altra parte, se nelle nostre lingue l’im¬ 
perativo occupa sempre più il primo posto della proposizione, 
la ragione sta in ciò, che, mentre, secondo la maniera mo¬ 
derna di concepire, il verbo precede il suo complemento, non 
c’è poi altra parola che possa aprire la proposizione. Il verbo 


> 






25 


non ha nell'imperativo un accento più forte che nell'indicativo, 
come si vede riscontrando le proposizioni il figlio ami il padre 
e il figlio ama il padre, e le uguali latine filius patrem amato e 
filius patrem amai. Lo stesso è dell’imperativo e dell’indicativo 
di seconda persona, come nelle proposizioni ama il padre e ami 
il padre, che corrispondono a patrem ama e patrem amas. 

Anche per rispetto all'imperativo e al congiuntivo esortativo 
la costruzione romanza ha degli esempii negli albori stessi 
della letteratura latina, e il fac populo audientiam di Ennio 
ci si presenta insieme con l 'evocate huc Sosiam di riauto. Del 
resto nella proposizione propriamente latina, soppresso il sog¬ 
getto, si aveva resto-verbo, e poiché la lingua tende eviden¬ 
temente a rimuovere dal principio della frase la parte più 
importante e a metterci quella che lo è meno, ecco spinto a 
capo della proposiziono il verbo che si trovava d’esser la parto 
di minore importanza. Cbe esso anche nella proposizione as¬ 
sertiva non sia 1’ elemento principale, lo prova il medesimo 
fatto che abbiamo osservato nella proposizione imperativa o 
esortativa, cioè che se ne fa di meno, quando non serva alla 
chiarezza. Cosi si sopprimono in latino le forme di esse in tante 
frasi, come omnia praeclara rara, e quelle di dare e dicare 
in tutte le iscrizioni : soppressioni che si hanno in frasi ita¬ 
liane afflili. Tanti proverbii vanno in giro senza verbo, come 
casa fatta, possession disfatta , o unto alle ruote , o uomo 
avvisato mezzo salvalo. In italiano talora si fa di meno anche 
dell'infinito, che esprime propriamente l’azione; e Dante dice 
nella parafrasi del Padre nostro ( Purg., XI, 8 sg.): 

Che noi ad essa [pace] non potem da noi, 

S’ella non vien, con tutto nostro ingegno. 

4 







- 26 


S'intende: non volani uettfre.Ellissi simili son frequenti in Dante, 
e ricorrono in tanti proverbii e anche in tante espressioni comu¬ 
ni (1). Qualche altra volta la proposizione si riduce al solo com¬ 
plemento del verbo, complemento oggetto o complemento av¬ 
verbiale che sia, come in questo passo del Lasca : « il priore 
disse:... dagli ad intendere dove e come hanno a stare le li¬ 
gure... 11 Tasso, risposto che volentieri, s’avviò inanzi ». Nel 
qual passo tutta una proposizione si rannicchia entro l’avver¬ 
bio volentieri. 

Dove sta il verbo, ivi l’accento cade un po’ debolmente, ina 
prova ne è questa, che, quando in una proposizione narrativa 
l’idea predominante giace nel soggetto grammaticale, la lingua 
s’ adopera a smuoverlo dal principio della proposizione e a 
spingerlo in un posto in cui 1’ accento, cadendo con forza, lo 
faccia spiccare ; e vediamo allora farsi avanti il verbo, come 
nel verso del Carducci : 

Narrcm le istorie e cantano i poeti (2), 

e come nella proposizione « venne finalmente il giorno tanto te¬ 
muto e bramato », con cui principia un capoverso della storia 
di Gertrude ne’Promessi Sposi. Già l’antico novelliere indiano 
cominciava di solito il sue racconto con un c’ era una volta 
un principe. Premettendo il verbo, dice il Delbriick, quel no- 

(1) V. noi gran Dizionario del Tommaseo sotto la voce potere. 

(2) Con questo verso comincia il son. Mito e verità. Si può 
citare pure il primo verso dell’ode barbara La iurte di Ne¬ 
rone: 

Narra la fama, e ancor ti ha orrore il popolo. 


\ 




- 27 - 


velliere voleva manifestamente far pensare agli uditori, che 
qualcosa di notevole sarebbe stato raccontato. E con questa 
osservazione l’illustre filologo urta contro la sua medesima 
dottrina, che dà il primo membro della proposizione come in¬ 
condizionatamente accentato. Si confronti poi 1’ accento della 
parola re nella proposizione c’era una volta un re con quello 
eh' essa ha nell'altra proposizione un re aveva un unico tì¬ 
glio, e si capirà subito che nella prima è oggetto della comu¬ 
nicazione il re, e nella seconda il fatto ch’egli aveva un unico 
figlio. E’ evidente, adunque, il bisogno di allontanare il sog¬ 
getto dal principio della proposizione, quando, contenendo l'idea 
principale, abbia diritto a un accento forte. In francese, come 
anche in tedesco, s’apre si la proposizione col soggetto gram¬ 
maticale, rappresentato dal pronome, ma il soggetto vero, in 
cui s’ annida 1’ idea principale, compare sol dopo il verbo, al 
posto di rilievo. Gautier de Coincy scriveva: « il fu uns pre- 
stre »; Apuleio aveva invece scritto: « erant in quadam ci- 
vitate rex et regina ». 

Stanno naturalmente al primo posto della proposizione, come 
poco significanti, i verbo dicendi. Ne vediamo la pochissima 
importanza nel dialogo, dove quel che interessa si è l’avvicen¬ 
darsi degl’interlocutori. Non pensa così il Delbriick, al quale 
l’importanza di que’ verbi par dimostrata dalla solennità con cui 
sono introdotti i discorsi ne’poemi omerici.Ma la pausa più o me¬ 
no lunga, che imporla ognuna di quelle introduzioni, non serve 
a far risaltare il fatto, per sè stesso semplice, del parlare; deve 
bensì disporre l’ascoltatore {YIliade e l’ Odissea erano recitate 
o cantate da’ rapsodi) al cambiamento della persona, deve di¬ 
sporlo a un nuovo ordine di sentimenti che in bocca a questa 
egli avrà a trovare. Una riprova di ciò vien data dal discorso 



28 


destinato a lettori, non a uditori, nel quale si omette tante volte 
il verbum dlcendi. E l'ometle volentieri Dante. Il buon mae¬ 
stro a me, e il duca a lui, ed egli a me, ed io, e quegli si 
vanno ripetendo di canto in canto del divino poema senza che 
al lettore sembri mai necessario, per 1’ una o l'altra espres¬ 
sione , un disse o un rispose o un soggiunse. Basta indicare 
le persone che si fanno a parlare. 

La conclusione di quanto fin qui ahbiam detto è questa: nè 
il soggetto nè il verbo sono i membri di maggior rilievo nella 
proposizione, e perciò i posti cli'essi vi occupano, non sono 
posti d’accento. Or se in latino la proposizione normale s’apre 
col soggetto e si chiude col verbo, nel mezzo han certo da 
stare i membri più importanti di essa, e nel mezzo s eleverà 
forte l’accento. Sicché, se si rappresentasse graficamente, con 
una linea, l’ascendere dell’accento nella proposizione, la linea, 
avanzandosi verso il mezzo, sempre più salirebbe, per poi ab¬ 
bassarsi sempre più nel suo movimento verso la fine, dove il 
verbo ne accoglierebbe la caduta. Dorò tanto nell ascendere, 
quanto nel discendere, V accento fa delle soste, più o meno 
brevi, ha quasi, si direbbe, il movimento dell’onda; e un let¬ 
tore intelligente saprà interrompere la linea d’ ascesa e di 
discesa, descritta dall’accento, fermandosi opportunamente dopo 
1’ una o 1’ altra parola (1). Nella proposizione liviana bellum 
ulrimque summa opc parabatur la linea d’accento da bellum, 
dopo una breve interruzione, si eleva a ulrimque, pei di¬ 
scendere, dopo un’altra interruzione, a summa ope, dove però 
si tiene più .alta che qon a bellum, e cadere finalmente, dopo 
una terza interruzione, a parabatur, la quale ultima parola 

(1) V. Richter, Op. cit p. 81 e sgg. 


> 






29 - 


viene a stare, quanto alla linea d’ accento, nello stesso piano 
della prima. Talvolta le brevi interruzioni o pause son rap¬ 
presentate nella proposizione stessa da que’ membri di scarso 
significato, che si potrebbero quasi dire riempitivi. Nel verso 
di Pacuvio , composto , assai abilmente , dell’ affermazione di 
Pilade ego sum Oresles e dell’altra immediata di Oreste immo 
enim vero ego sum, inquam, Orestes, la linea d’ accento 
muove da ego\ interrotta da sum , sale a O/'estes; interrotta 
di nuovo, ma più lungamente, da immo enim vero, raggiunge 
la massima altezza in ego ; dirimente, dopo un'ultima inter¬ 
ruzione, rappresentata da sum, inquam, discende a Oresles. 
In sostanza, l’affermazione pronunziata tanto da Pilade quanto 
da Oreste, si riduce a ego Orestes-, Pilade accentua, come de¬ 
ve, Oresles, e Oreste, alla sua volta, ego. Ma, mentre VOre- 
stes di Pilade è preceduto da una breve pausa (sum), V ego 
di Oreste, in cui l’accento poggia alla maggiore altezza, è in¬ 
trodotto da tre parole (immo enim vero), che, se di poco va¬ 
lore per sè stesse, servono alla voce come di rincorsa. Tutto 
codesto meccanismo di pause e di accenti, conviene anche os¬ 
servare, ritrae efficacemente la situazione de' due amici : chè 
nella breve, rapida affermazione di Pilade (ego sum Orestes) 
si sente lo slancio generoso dell’amico sacrilìcantesi all amico; 
nelle molte parole di Oreste traspare, invece, ch’egli vuole, 
respingendo il sacrificio di Pilade, far ben riconoscere la pro¬ 
pria identità personale, dare, quasi direi, a chi 1 ascolta il 
tempo di riconoscerla. 

Nella proposizione romanza , che non si chiude col verbo, 
la linea d’ accento va sempre salendo por toccare la parola 
esprimente il concetto principale o più importante, che, come 
abbiam visto, è spinta verso la fine. Apriamo a caso il Man- 



- 30 - 

zoni: « quando si venne al nome terribile del mandante, bi¬ 
sognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giura¬ 
mento ; e don Abbondio, pronunziando quel nome, si rovescio 
sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le 
mani, in atto insieme di comando e di supplica , e dicendo: 
per amor del cielo ! » In ogni proposizione di questo bel pe 
riodo la linea d’accento, interrompendosi talvolta, s’innalza 
sempre più verso la fine. 11 lettore accentuerà nella prima 
proposizione le parole al nome temibile del mandante, e 
nella seconda un nuovo e più solenne giuramento ; nella 
terza, che è proposizione tanto più complessa , la voce, dopo 
essersi tenuta bassa su pronunziato quel nome, parole rap¬ 
presentanti, nella linea d’ascesa dell' accento, ciò che abbiam 
chiamato interruzione o pausa, si leverà a si rovesciò sulla 
spalliera della seggiola , e ancora di più si leverà per tutto 
il resto della proposizione, per quegl’incisi accavallantisi, in 
cui si sente l’afFannarG del povero curato. 

Si è creduto, e in questa opinione son fermi il Norden, il 
Woltr e 1’ Engelbrecht (1), che sulla collocazione latina delle 
parole abbia, nella prosa d’arte, molto influito il ritmo, e la fa¬ 
mosa clausola ritmica abbia proprio spadroneggiato (2). Secondo 
il Norden l’ordine psicologico dello parole, 1’ ordine destinato 
a riprodurre il cammino del pensiero , era modificato nel la¬ 
tino, come nel greco, dal ritmo, mentre nell’italiano e in altre 

(11 V. dell’ Engelbrecht lo scritto Slilfragen bei latcinischen 
Autoren in ihrer Nutsanwendung auf die Kh-chenschriflsteller, 
pubblicato nella Zeitschrift fùr die tìsterreichùchen Uymnasien 

(fase. I del 1902). 

(2) V. Richter, Op. cit., p. 101. 


ì 






31 


lingue moderne è modificato dalla sintassi (1). Che gli antichi 
cercassero l’effetto musicale della frase, e, per quanto il senso 
lo concedesse, ordinassero le parole armonicamente, è cosa 
risaputa; come ognuno comprende quanta importanza, per 1 ef¬ 
fetto retorico, dovessero dare alla chiusa della proposizione 
o del periodo. Ma l’effetto retorico non dipende solo dal rit¬ 
mo, segnatamente quando alla chiusa ritmica si sia già a\- 
vezzi , come ora il caso de’ latini: la lingua , in questa mem¬ 
bratura diventata abituale, doveva pure offrire il modo d’or¬ 
dinar le parti della proposizione secondo le esigenze del pen¬ 
siero, le esigenze psicologiche. Alle quali, per esempio, Cicerone 
certamente ubbidiva, anche quando voleva ottenere, mediante 
la disposizione delle parole, effetti musicali e chiudere ìit- 
micamcnte la frase. Gli effetti musicali e la chiusa ritmica non 
gl’ impedivano di muovere dalle parti meno importanti della 
proposizione per preparare l’uditore alle più importanti, odi 
situare due parole 1’ una di faccia all' altra per rilevarne il 
contrasto. Non è però raro il caso che si scambiasse, nello 
spiegare 1’ effetto d’ una frase, la ragione psicologica con la 
ragione ritmica , si attribuisse cioè quell’ effetto al nume- 
rus anziché alla disposizione psicologica delle parole. E Ci¬ 
cerone s’ingannava , quando spiegava con la clausola ditro¬ 
caica la bellezza della frase, tanto applaudita, del tribuno C. 
Carbone patris dicium sapiens temeritas ftlii comprobamt. 
Se si dicesse , egli osservava , comprobavit filli temeritas , 
non si avrebbe più l’effetto : le parole della frase son le 
stesse, come lo stesso n’è il senso, ma , se lo spirito se ne 
contenta , non se ne contenta 1’ orecchio. Ma è poi vero (ci 


(1) V. Norden, Die antike Kunstprosa, Leipzig 1898, p. 65 e sg. 





- 32 - 

perdoni l’ombra del grande oratore), che comprobavil fi¬ 
ni temerità ,s offendesse l’orecchio? Questa frase termina con 
un peone , che è un ritmo raccomandato da Cicerone stesso 
e posto tra 1 più efilcaei da Aristotile e da altri. Dunque la 
bellezza dell’intera proposizione pcdris dicium sapiens teme- 
mas fllii comprovami non sta nella chiusa ditroca.ca , nel 
riimo delle sillabe, ma nella successione delle ulee : sta prò- 
«riamente nel cozzo di due concetti dicium sapiens e teme- 
ri tas, messi 1’ uno di rincontro all’ altro, i quali per un mo¬ 
mento par che debbano distruggersi a vicenda, e invece fini¬ 
scono per conciliarsi, per essere il secondo prova del primo 
ua temerità del figlio confermò la sapienza del padre) (1). 

Non si può ammettere che in latino tutti gl’intrecci artificio¬ 
si di parole si dovessero alla gran passione del ritmo e della 
clausola ritmica. L’intreccio di parole non era un ripiego pei 
cavarsela col ritmo ; si ha piuttosto da ritenere che piacesse 
a’ buongustai, i quali non dovevano esser pochi. E tanto p 
la lingua si prestava a codesta varietà di costrutti in quanto 
che quella che ora chiamiamo collocazione romanza delle pa¬ 
role , s* era già fatta strada nell' uso, e lo scrittore credeva 
di poterla , senza commetter peccato, adoperare in cam io 
dell’ altra propriamente latina. La latinità classica s era svol¬ 
ta per rispetto a quelle due maniere di collocar le paio e, 
in un periodo che si direbbe di passaggio, nel quale 1 una co¬ 
struzione dava quasi la mano all’ altra. Quando Cicerone per 
combinare, mettiamo, una clausola ritmica, ritraeva il verbo 
dalla fine della proposizione, spingendolo nel mc/.zo 
o al principio, e passava cosi dalia costruzione latina alla ro- 


(1) V. Weii., Op. cit., p. 3 e sg. 







33 - 


manza , dobbiam credere che questa seconda costruzione gli 
gradisse , nè gli paresse di spostar violentemente le parole; 
che altrimenti avrebbe fatto presto a cambiare espressione, a 
scegliere un altro ritmo. Di un trecentocinquanta costruzioni 
ciceroniane che il Wolfif ritiene forzate, dugentosettanta sup¬ 
pergiù possono rientrare nelle costruzioni romanze (1). In mol¬ 
tissimi casi la clausola ritmica, che si era ottenuta collocando 
latinamente le parole, si poteva ottenere pure collocandolo 
alla maniera romanza ; e Cicerone avrebbe avuta ugualmente 
la clausola in dicretico, se a suscipi non iwtest , costruzio¬ 
ne latina , avesse preferito non potest suscipi , costruzione 
romanza (2). 

Il ritmo, adunque , non può essere 1’ unica chiave degl’ in¬ 
trecci artificiosi di parole che troviamo in latino. Nè vale a 
spiegarli, all’ occasione , la strapotenza della clausola ritmi¬ 
ca, perchè se n' avevano anche fuori di essa. Vero è però, 
che secondo il Bornecquo tutta la frase latina , non la sola 
chiusa , era costruita ritmicamente. Ma nemmeno da questa 
teoria si è messi con le spalle al muro, so yediamo i nostri 
poeti, stretti dalle rigide leggi del verso , lasciarsi rare volte 
andare a costrutti adatto irregolari. L’ invidiabile arrendevo¬ 
lezza del latino, per la quale ogni parola poteva occupare 
quel posto dove secondo lo scrittore sarebbe riuscita efficace 

(1) Nella Introduzione al Ritmo delle orazioni di Cicerone (Ro¬ 
ma 1905, p. 31) il Ceci dice che per ragion della clausola si ha una 
traieclio verborum insolita tanto in esse possit bcatus quanto in apud 
praetorem essent professi. Ma in entrambe le frasi non riecheggia 
la collocazione romanza? 

(2) V. Richter, Op. cit., p. 103. 


5 



- 34 - 

e piacevole, derivava dalla doppia maniera di collocare le 
parti della proposizione, dalla maniera propriamente latina e 
dalla romanza (i). 

Il Norden crede, che la ragione psicologica della costruzione 
rimanesse, e dovesse rimanere, nascosta agli antichi, i quali 
non potevano paragonare con la propria altre lingue che ub¬ 
bidissero a norme diverse. Non è diflìcile osservare che, dato 
pure che un antico non si sapesse render conto della differenza 
tra patron dixit e dixit patrem , i due tipi di costruzione 
finiscono, dopo secoli, di coesistere, e mentre il tipo latino 
languisce, il romanzo vive e prospera. Or se il tipo romanzo, 
progredendo sempre, riuscì a trionfare, dobbiam credere che 
rispondesse a un bisogno psicologico de’ parlanti, e non deri¬ 
vasse da artificiosità di dotti. È anzi, si direbbe, sintomatico, 
che in scrittori della decadenza, artificiosissimi di stile, co¬ 
me Apuleio, le costruzioni romanze siano relativamente piu 
rare che non in Cicerone, Cesare, Sallustio, Livio (2). 


(1) V. Richter, Op . cit ., p. 104. 

(2) V. Richter, Op . cit ., p. 107. 

Quando lodiamo la semplicità d’uno scrittore, noi costatiamo 
eh’ egli, senza ricorrere a costruzioni insolite, ina servendosi di 
quelle che sono alla portata di tutti, è riuscito a esprimersi effi¬ 
cacemente e bellamente, come, con gli stessi mezzi, tutti certo non 
saprebbero. E in siffatti scrittori possiamo avere un documento 
sicuro della collocazione delle parole più propria d’ una lingua e 
piii in voga. Cesare, ad esempio, per l’estrema semplicità del suo 
stile, è, secondo il Bergaigne, uno degli scrittori che più importa 
consultare nelle quistioni intorno alla collocazione delle parole nella 
lingua latina. 


i 





- 35 - 


II. 

Accanto al lavoro della Richter , di cui ho in certo qual 
modo rifatta, aggiungendo o togliendo, la parte più notabile, 
citai in principio 1' altro del Weil. Questi non ammette, e in 
ciò s’ accorda con 1’ egregia autrice tedesca, che nel latino e 
nel greco il ritmo modificasse l’ordiue delle parole, al quale, 
come sappiamo, è riserbato di ritrarre il cammino del pen¬ 
siero. Ammette invece, che tra ordine delle parole e sintassi 
corra nelle lingue moderne un rapporto diverso da quello che 
si aveva nelle antiche. La sintassi, che ci pone sott’ occhio 
il dramma svolgentesi tra le parti della proposizione, non aveva 
secondo il Weil nulla da spartire in latino con l'ordine delle 
parole, ma non poco invece ha da spartire con esso in italiano 
o in altra lingua romanza. Or quale la ragione, egli si do¬ 
manda, di questo diverso rapporto? E’ mutato l'ordine delle 
parole, o è mutata la sintassi? Se fosse mutato, egli risponde, 
l’ordine delle pardo, si dovrebbe supporre in noi moderni un 
cambiamento nella successione delle idee, e ciò importerebbe 
una gravissima differenza da noi agli antichi nel modo di pen¬ 
sare. Le buone traduzioni dal latino o dal greco, egli sog¬ 
giunge, ci attestano dal canto loro, che nelle parole, e per¬ 
ciò nelle idee, noi teniamo lo stesso ordine degli antichi (1). 

Il Weil non procede qui cauto. Anzi, per ciò che affer¬ 
ma in seguilo, lo possiam cogliere in contradizione. La po¬ 
stura del verbo, afferma egli in seguito, decide della fisono- 
mia della proposizione, e poiché il latino preferiva di rele- 

(1) V. Weil, Op. cit., p. 27 e sgg. 



- 36 


garlo alla Qne della proposizione, e le lingue moderne amano 
di porlo in mezzo, tra soggelto e attributo, differente è la 
costruzione latina dalla romanza. Non è, aggiunge, differenza 
fondamentale di senso, ma una caratteristica sfumatura impri¬ 
mono le due costruzioni alla compagine della frase (1). Dunque, 
osserviamo subito al Weil, dagli antichi a noi un cambiamento, 
sia pur lieve, nella successione delle idee bisogna ammettere. 
E il Weil stesso spiega poi, col confronto del tedesco, la diversa 
portata delle due costruzioni. In tedesco la natura della proposi¬ 
zione assegna il posto al verbo: nella proposizione principale, 
che ha il verbo nel mezzo, è adottato, per dir cosi, il sistema 
romanzo, o nella subordinata, col verbo in line, il latino. Le 
due proposizioni (è sempre il Weil che ragiona) diversificano, 
tra l’altro, in questo, che la principale stabilisce un rapporto 
tra due idee , la subordinata lo dà come stabilito. Or, so il 
verbo, posto nel mezzo della proposizione, fa risaltare l’egua¬ 
glianza tra lo duo parti di essa, o no impedisce, separandole, 
la confusione, devosi ritenere, che lo lingue confinanti il \erbo 
all’ultimo posto, non mettano in rilievo la dicotomia e il ca- 
cattere affermativo della proposizione. Questo carattere, invece, 
lo lingue romanze imprimono a tutte le proposizioni. Una ri¬ 
prova di codesta sua spiegazione il Weil vede nella proposi¬ 
zione interrogativa, la quale, non essendo l’espressione totale 
d’ un giudizio, che aspetta d’ esser completato dalla risposta, 
ha il verbo, cioè l’affermazione, in principio, per indicare che 
contiene la metà del giudizio. 

Non vogliamo rilevar tutte lo grinze di questo ragionamen¬ 
to. Notiain però di passata , che il Weil stesso "nega altrove, 


(1) V., anche per quanto si dirà dopo, Weil, Op. cit., p. 47 c sgg. 







- 37 


che il modello su cui son lavorate tutte le proposizioni, e che 
ha determinato le forme grammaticali, sia quello d’un giudi¬ 
zio o d'una equazione algebrica. Avrebbe potuto in proposito 
osservare, che lo stesso verbo essere, che la scolastica medieva¬ 
le aveva dichiarato una semplice « copula », nell’ italiano e nel 
francese antichi formava con la parola funzionante da attributo 
un’unica espressione, sicché l’avverbio di quantità si unhaal 
verbo invece che all'attributo, e si diceva molto è mio umico, 
mout est preuz. Spesso il soggcllo d’ una proposizione, avverte 
poi il Weil, non è il vero soggetto del giudizio che in essa 
si chiude, e quando un latino diceva liunc iuvenem intem- 
perantia perdidit , non portava un giudizio sull’intemperan¬ 
za, ma, se mai, sul giovane, che pur non è il soggetto della 
proposiziono. Più che considerarla divisa in due parti, messe 
in equazione dal verbo, il Weil presenta la proposizione come 
un dramma, con personaggi immutabili, quali il soggetto, che 
fa l’azione, il verbo che la enuncia, 1’ oggetto che la riceve, 
i complementi di luogo, di tempo, che ne sono lo circostanze 
concomitanti o quasi la scena, o cosi via. Ma sia quel che si 
sia della spiegazione del Weil (anche sulla riprova della pro¬ 
posizione interrogativa ci sarebbe da ridire, che essa non 
comincia sempre col verbo) ; a noi importa solo far vedere , 
che egli pure finisce per riconoscere che le due costruzioni, 
la latina e la romanza , implicano una diversa maniera di 
concepire la proposizione, e quindi una diversa successione 
nelle idee. 

11 Weil non ha torlo a dire, che la forma di proposizione 
che la sintassi prescrive quando abbiam da esprimere un pen¬ 
siero, è essenzialmente drammatica, perchè a un’azione ap¬ 
punto si riduce il più delle volte il contenuto della proposi- 





- 3ft - 

zione (1). É mette bene in luce questo dramma sintattico, 1 cui 
personaggi, come abbiam visto più su. son sempre gli stessi. 

1 loro rapporti sono i rapporti grammaticali tra le parti della 
proposizione. Or se una lingua, dice il Weil, sa dare a ciascuno 
de’ personaggi del dramma sintattico un’impronta particolare, 
essi possono essere ordinati in un modo o nell’altro, senza che 
no mutino i rapporti. Romulus Romani condidit , Romam 
condidit Romulus, condidit Romam Romulus (ormai l’esem¬ 
pio di Romolo è di prammatica) son tre proposizioni in cui 
non muta il dramma sintattico o la sintassi che si voglia dire, 

perchè non muta l’azione, che è l’aver Romolo fondato Roma. 

Mula, invece, nelle tre proposizioni il modo di enunciarla, e 
si hanno tre processi diversi del pensiero : nella prima si vuol 
far sapere di Romolo, su cui pare sia caduto il discorso, un latto 
particolare che gli appartiene; con la seconda potrebbe essere 
informato della fondazione di Roma un viaggiatore nell'atto che 
gli si mostrasse la città; nella terza spicca piuttosto il fatto della 
fondazione di Roma, che si deve a Romolo, come quella di Tebe 
a Cadmo o quella di Atene a Cecrope. 11 latino, come si vede, dà a 
ciascun personaggio del dramma sintattico una f.sonomia propria 
mediante le desinenze de’ casi, ed eccolo perciò padrone di se¬ 
guir tutti i movimenti del pensiero con l’ordinare in un modo 
piuttosto che in un altro que’ personaggi, che sono i membri 
della proposizione. Al latino quindi non importava affatto che 
il movimento delle idee e il movimento sintattico fossero o 
no identici. La lingua italiana e le sue sorelle, invece, si ser¬ 
vono, piu o meno, dell’ordine delle parole per esprimere an¬ 
che i rapporti sintattici ; esse, dice il Weil, tendono a ridurre 

(i) V. Weil, Op. cit p. 15 e sg. 







sempre più a un solo il doppio movimento della frase, il gram¬ 
maticale e lo psicologico, l’oggettivo e il soggettivo, e sul sog¬ 
getto della proposizione, per esempio , da cui suol muovere 
l’azione, rappresentata dal dramma sintattico, cercano di far 
cadere a un tempo la mossa stessa del pensiero, mettendolo 
così a capo della proposizione. 

Veramente nelle lingue moderne, o in una di esse almeno, 
il Weil stringe troppo il rapporto tra ordine delle parole o 
sintassi, e dà troppa importanza alla perdita delle desinenze 
de’ casi. Possiamo, infatti, rendere italiane le tre frasi latine, 
lasciando sempre Romolo e Roma al loro posto, o spostando 
Roma solo nella prima frase per evitarne la chiusa col verbo 
ed avere così la costruzione propriamente romanza. Possiam 
dunque dire Romolo fondò Roma (Romulus Romam condidit), 
Roma la fondò Romolo (Romam condidit Romulus), fondò 
Roma Romolo (condidit Romam Romulus). Nella seconda frase 
duplichiamo il reggimento, facendo seguire a Roma il prono¬ 
me (te), che ne .rileva subito l’esatta funzione sintattica ; e 
questa duplicazione del reggimento o ripresa pronominale, che 
al Monti pareva una sgrammaticatura, il Bonghi mette tra i 
mezzi di stile (1), tra i mezzi da adoperarsi per dare alle parole, 
come è nel caso nostro, una particolare, appropriata disposizio¬ 
ne. Niente è da ridire sulla terza frase (fondò Roma Romolo), 
chò l’urto tra le due parole Roma o Romolo, cascanti l’una 
sull’ altra, si evita naturalmente nella lettura mediante una 
piccola pausa dopo Roma. 

D’altra parte, si può ammettere la piena libertà di costru¬ 
zione del latino e del greco , e chiamar queste due lingue, 


(1) V. Bonghi, Lettere critiche, Milano 1873, p. 207 e sg. 






40 


come vorrebbe il Weil, lingue a costruzione libera , per di¬ 
stinguerle dalle lingue romanze, che sarebbero a costruzione 
fissa (1)? Questa distinzione de’ due gruppi di lingue va presa 
all’ingrosso, che ci son riserve da fare tanto alla fissità di co¬ 
struzione del gruppo moderno, quanto alla libertà dell’antico. 
Le lingue antiche, dice il Bergaigne, «en dépit de toutes leurs 
libertés de construction, connaissaient des types préférés, des 
types dominants, des types historiques (2) ». Il Ktihner ritrova 
nel greco un ordine delle parole, e se le eccezioni ogni tanto 
lo turbano, non per questo si ha da dire ch’esso manchi del 
tutto, e senza nessuna regola le parole si collochino nella pro¬ 
posizione. In latino non si sarebbe detto possum non, o pos¬ 
simi non elicere , o possum elicere non, e forse nemmeno 
non elicere possum : si diceva poi populus romanus, res pm- 
blica, e non romanus populus o publica res. E se le sei per¬ 
mutazioni , a cui dà luogo la proposizione Romulus Romam 
conelidit , avessero ciascuna un particolare significato, come 
sostiene il Wundt (per tre di esse anche noi l’abbiamo or ora 
ammesso), la costruzione latina si dovrebbe dire meno libera 
dello altre. Sappiamo del resto che il latino preterisce confi¬ 
nare il verbo all’estremità della proposizione. Nè fissa si può 
assolutamente ritenere la costruzione italiana o di altra lingua 
romanza, se in queste lingue son pur suscettive di spostamenti 
le parole d’una proposizione, alle quali poi il valore sintattico 
vien tante volte più dal contesto che dal posto che occupano. 
È da osservare anche, che quando a ritrarre il movimento 
del pensiero non si presta un costrutto sintattico siamo padi o- 

(1) V. Weii., Op. cit., p. 41 e sg. 

(2) V. i oit. Mémoires, t. Ili, p. 4. 










41 


uissimi di sostituirgliene un altro che ci permetta di collocare 
debitamente le parole. Così cerio non si dimostra che la co¬ 
struzione della nostra lingua sia libera, ma si prova che non 
siamo obbligati a sacrificar l’ordine delle idee alla sintassi, e 
ben possiamo adattar questa a quello. Il passivo, per questa 
parte, rende de' veri servigi (1). Tutto ciò sperimentiamo nel 
tradurre: per conservare alle parole l’ordine del lesto ci basta 
spesso mutare il costrutto sintattico, e mihi est liber è fe¬ 
delmente tradotto da io ho un libro, come il senofonteo Aa- 
ps!ou xal napuoixtSc.; vtwovxai -at8ij JOo da DClì'iO e Pcii'iSCllidC 

hanno due figli ( 2 ). 

Il Weil ha ragiono a dire che la sintassi rappresenta, ne’ 
rapporti grammaticali dello parole, il contenuto reale della 
proposizione, scevro di qualunque tinta soggettiva, e l’ordino 
delle parole, dal canto suo, ritrae come un tal contenuto sia 
stato concepito, lo colora cioè di quella tinta. Nell’esaminare 

(1) Il de Sacy, citato dal Weil, osserva assai bene ne’ Prin¬ 
cipe! de Grammaire generale: « QtieUpiefois on emploie le passif, 
lorsqu’ on veut fixer l’attention de ceux à qui 1’ on parie, sur la 
personne ou la cliose qui est l’objet de Paction, plutòt quo sur le 
sujet qui agit. Alors le sujet n’est exprimó quo cornine uno cir- 
constance de Paction, au inoyen d’une préposition à laquolle il sert 
de complément. Quo je raconte l’histoire de Britannicus, je la ter¬ 
minerai en disant, Britannicus fui empoisonné à la (able de Néron 
et par Néron lui-mime. Si au contraire j’avais pourbut de faire 
le détail des Crimea de Néron, je dirais Néron empoisonna à sa 
table Britannicus, parce quo je m’ occuperai moins de faire con- 
naitre la mort de Britannicus que lo crime de Néron ». 

(2) V. Weil, Op. cit., p. 29. 

6 








42 


quest’ aspetto soggettivo della proposizione , dato dall - ordino 
delle parole, e rispecchiante il cammino del pensiero, distingue 
nella proposizione il punto di partenza, la nozione iniziale, che, 
presente e a chi parla o scrive e a chi ascolta o legge, è come 
il luogo d’incontro delle due intelligenze , e dall’altra parte 
il punto d’arrivo, il fine del discorso, ciò che propriamente si 
enuncia(i). Sono suppergiù i due membri della proposizione che 
più indietro abbiam chiamati soggetto e predicato psicologici (2). 

(1) V. Weil, Op. cit., p. 20. 

(2) Di questi due principali elementi psicologici della propo¬ 
sizione il soggetto, dice il Gabelentz, va prima e il predicato 
dopo. Bisogna mostrarci il tale oggetto , se abbiam da conside¬ 
rarlo, darci in mano il tale istrumento se abbiam da servircene, 
condurci nel tal luogo se di là abbiam da guardare. Non occorro 
questa preparazione sol quando già abbiam l’oggetto innanzi agli 
occhi, già teniamo in mano lo strumento, già ci troviamo nel luo¬ 
go. E anche il Gabelentz fa rilevare quanto diversa funzione 
esercitino nella proposizione soggetto e predicato grammaticali 
e soggetto e predicato psicologici. Se diciamo Napoleone fu scon¬ 
fìtto a Lipsia o a Lipsia fu sconfìtto Napoleone, apprendesi 
la stessa cosa con entrambe le proposizioni, ma dal lato psico¬ 
logico la differenza tra di esse è profonda. Nella prima proposi¬ 
zione vogliam parlare di Napoleone, nella seconda di Lipsia, 
e questa seconda proposizione equivarrebbe a Lipsia è la citici 
presso la quale Napoleone fu sconfìtto. Nella prima il soggetto 
psicologico è Napoleone, che è pure soggetto grammaticale; nella 
seconda il soggetto psicologico è Lipsia. V. Gabelentz, ldeen zu 
einer vergleichenden Syntax nel voi. VI della Zeitschrift fiir Voi- 
kerpsychologie und Sprachwissenschafl , p. 379 e sg. 




- 43 - 


Ogni elemento della proposizione può esserne la nozione ini¬ 
ziale. Per lo più, dice il Weil, si muove da rapporti di tempo 
e di luogo. Soglion con tali nozioni cominciare i racconti, e 
con una di tempo (che è il verso Nel mezzo del cammin di 
nostra vita) Dante apre il suo poema. Siffatte nozioni gene¬ 
rali son come i punti cardinali che ci permettono di rac¬ 
capezzarci in un paese ignoto. Spesso un complemento deno¬ 
tante la causa o il mezzo è il punto da cui si parte per ar¬ 
rivare al fatto, come nella sentenza latina concordia res par- 
vac crescunt, discordia magnae dilabuntur. Ma si può puro 
partire dal fatto per arrivare alla causa o al mezzo, come in 
parvae res augentur audacia, magnae prudentia conser¬ 
vanti' (1). Entrambe le sentenze, tradotte in italiano, pre¬ 
senterebbero inalterati i punti di partenza e d'arrivo. 

Or, succedendosi due proposizioni, la nozione iniziale della 
seconda si può riferire alla nozione iniziale o anche alla finale 
della prima. (Possiam chiamare nozione finale ciò che si enun¬ 
cia ed è propriamente il fine del discorso). Sicché da una pro¬ 
posizione all’altra si ha un movimento o parallelo o progres¬ 
sivo. Quando alla nozione finale della prima proposiziono si 
riattacca la iniziale della seconda, questa proposizione si salda 
all’ altra, ed è il nuovo anello che allunga la catena. Se poi 
la nozione iniziale della seconda proposizione si riferisce alla 
iniziale della prima, da questo parallelismo nasce un rapporto 
d'opposizione tra le due proposizioni (2). 

Accade anche, che sia invertito l’ordine delle due nozioni, e 
si ponga la finale prima e l’iniziale dopo. In alcuni casi si omette 

(1) V. WEir,, Op. cit., p. 22 e sg. 

(2) V. Weic, Op. cit., p. 34 e sg. 




- 44 - 

addirittura la nozione iniziale. Quando la nostra immaginazione 
è assai eccilata o c’invade una profonda commozione, saltiamo 
j’un tratto a quello che in altra condizione d’ animo sarebbe 
stato il termine del discorso; ciò che andava detto in princi¬ 
pio , diciamo dopo, o non diciamo affatto. 11 Leopardi nella 
canzone All'Italia, traducendo il simonideo 8'ó wfo S (la 
vostra tomba è un'ara), ricolloca al suo posto la nozione ini¬ 
ziale (6 -Mùfos, la tomba), e toglie così all’espressione il movi¬ 
mento enfatico che aveva nel testo greco. Quest’ordine inverso 
delle due nozioni è chiamato « ordre pathétique » dal Weil. 
11 quale osserva giustamente, che siffatta inversione non coin¬ 
cide con l’altra che viola l’ordine sintattico. Anzi può acca¬ 
dere che si osservi l’ordine sintattico, e sia intanto enunciata 
la nozione finale prima della iniziale, come quando Livio fa 
dire a Tarquinio : ferrum in manu est, e poi a Lucrezia: 
vesllgia viri alieni, Collaline, in ledo sunt tuo. L andatili a 
tranquilla e pacata dell' espressione avrebbe guastato 1 ordine 
sintattico, perchò il primo posto delle proposizioni sarebbe 
toccato a in manu e in ledo tuo, che ne sono, per quel che si 
è già esposto, le due nozioni iniziali (1). Iacopo Nardi, traducen¬ 
do la prima delle frasi liviane, ne turba un po' l’ordine, e fa 
dire a Tarquinio: ho l’arma in mano. La qual proposizione, 
per poter corrispondere esattamente alla latina, dovrebbe co¬ 
minciare con l’arma, non con ho. 

Nella distinzione de’punti di partenza c d’arrivo, delle no¬ 
zioni iniziale e finale non si esaurisce l’analisi dell’ordine delle 
parole d’una proposizione. Per rispetto al posto delle due no¬ 
zioni non possiamo ammetter divario dalle lingue antiche alle 

(1) V. Weii., Op. cit., p. 36 e sgg. 


/ 





*- 45 - 

moderne. Il divario da lingua a lingua si ha nella collocazione 
del complemento e del termine che lo regge, della parola de¬ 
terminante e della determinata. Le lingue secondo il Weil o- 
scillano tra due sistemi opposti, di cui 1’ uno pospone il com¬ 
plemento al termine che ne è determinato o lo regge, l’altro 
questo a quello (1). Oscillano tra due costruzioni, la discendente 
e l’ascendente. Se, per esempio, si pone l’aggettivo dopo il so¬ 
stantivo, o l’oggetto dopo il verbo, si ha la costruzione discen¬ 
dente; se si fa precedere l’aggettivo o l’oggetto, si ha l’ascen¬ 
dente. Nell’un caso dal nome, che tutte le racchiude , si di¬ 
scende a una delle sue qualità, o dal verbo esprimente 1 azione 
al termine su cui essa cade; nell’altro dalla qualità si ascende 
al nome che la possiede, dal termine ricevente I azione all azio¬ 
ne stessa espressa dal verbo. Nella costruzione ascendente si 
salda, per dir così, l’unità del pensiero, nella discendente so 
no sfaldano quasi le parti. 

Al Weil che attribuisce queste diverse proprietà alle due co¬ 
struzioni si può osservare, che talvolta si ha giusto il contra¬ 
rio, il disgregamento del pensiero nella costruzione ascendente 
e l’unità nella discendente. Ciò càpita , allorché in italiano o 
in francese il termine determinante sia un sostantivo, o anche 
un infinito, retto da preposizione. Questo termine determinan¬ 
te , questo complemento, posto avanti all altro termine onde 
dipende, se ne distacca. Nel verso di Dante ( Inf X, 43): 

Io, ch'era d'ubbidir desideroso 


(1) V. in Weil, Op. ni. , il cap. De la construction descen- 
datile et de la construction ascendante. 




- 46 - 


Tacciamo dopo d' ubbidir una pausa , che questa volta coin¬ 
cide ancho con la cesura. E pei- il naturai distacco di siffatto 
termine determinante dal determinato che gli succede, il Pe¬ 
trarca nella canz. Italia mia potè dire senza rimorso : 

Ma il desir cieco e ’ncontr al suo ben fermo. 

Dopo il complemento incontr' al suo ben ci arrestiamo un 
tantino, e diventa chiara la funzione della seguente parola 
fermo. Invece, leggendo il verso: 

Nel mezzo del cammin di nostra vita, 


non ci fermiamo dopo mezzo nè, malgrado la cesura , dopo 
cammin, e leghiamo i due genitivi del cammin e di nostra 
vita, termini determinanti, ai loro rispettivi termini determi¬ 
nati ( mezzo e cammin). E negli altri versi di Dante (Tnf., 
X, 130 sg.): 

Quando sarai dinanzi al dolce ì aggio 
Di quella, il cui bell’occhio tutto vede, 

non ci fermiamo adatto dopo raggio, non possiamo fermarci, 
e uniamo raggio a di quella, producendo un'unità di pensiero, 
che non sarebbe propria della costruzione discendente. In co- 
desta violazione dell’indipendenza sintattica del verso abbiamo 
un caso di enjambernent, come si dice nella metrica francese. 


t 






Sul collocarsi dell’ aggettivo prima o dopo del sostantivo si 
è molto discusso. Che 1’ aggettivo , precedendo il sostantivo , 
gli si saldi meglio, è stato ben osservato dal Weil ; nè egli 
sbaglia, quando dice che l’aggettivo riecheggiante in un modo 
più energico, più vivo l’idea espressa dal sostantivo, deve le¬ 
gargli molto più stretto di un altro che gli aggiunga un’idea 
nuova, e quindi questo va posposto e quello preposto al sostan¬ 
tivo (1). Ma anche tal regola non è cosi spiccia come la crede 
il Weil, il quale non ha poi badato al valore diverso, o alla 
diversa sfumatura , che un aggettivo può acquistare secondo 
che sia preposto o posposto al sostantivo, nè ha studiato ne’ 
varii periodi di una lingua e ne’ varii scrittori 1’ uso della 
doppia collocazione dell’aggettivo. Più d’ una teoria è andata 
in frantumi, quando si è sottoposto ad esame un numero di 
fatti maggiore di quello su cui era fondata. Questa sorte è toc¬ 
cala alla teoria del Grober (2), esposta largamente e applicata 
dal Cron. Maestro e discepolo assegnano una ragione psicolo¬ 
gica alla collocazione dell’aggettivo, e ritengono che, posposto 
al sostantivo, esso ne specifichi intellettivamente una qualità, 
e preposto, gliel’attribuisca affettivamente: l’aggettivo nel pri¬ 
mo caso, cioè posposto, distinguerebbe un oggetto da un al¬ 
tro. Quindi gli aggettivi significanti paese, colore o altra qua¬ 
lità percepita da’ nostri sensi lasceranno il loro posto dopo il 

(1) V. Weil, Op. cit., p. 53. 

(2) V. il Orundrm der roinanischen Philologie, voi. I, p. 2i4. 





48 


sostantivo sol quando vogliamo scaldarli del nostro sentimento. 
Diremo L’esercito italiano per distinguerlo dal francese o dal 
tedesco, e Vitaliano esercito, se, raccontandone una battaglia, 

10 seguiamo col palpito del nostro cuore. Il Leopardi, cantan¬ 
do la povera Silvia, ne ricorda le negre chiome, e prepone, 
come si vede, l’aggettivo al nome. Il Grbber e il Cron ritro¬ 
verebbero corto in questa collocazione dell’aggettivo negre la 
tenerezza del poeta. Ma ne’ celebri versi del Petrarca: 

• 

Qual fior cadca su ’l lembo. 

Qual su le treccie bionde, 
di' oro forbito e perle 
Eran quel dì a vederle, 

bionde, posposto a treccie, varrebbe a denotarne unicamente 

11 colore, a distinguerle dalle nere o castane? Si potrebbe qui 
osservare, che l’aggettivo è in rima. Sia pure; ma non è in 
rima in quest’altro verso del Petrarca (1) : 

Son questi i capei biondi e l'aureo nodo. 


Biondi, senza danno del verso, poteva stare innanzi a ca¬ 
pei o capelli. Nè credo, che per amor del chiasmo , in cui 
si presentano ora i due nomi (capei e nodo) e i due ag¬ 
gettivi (biondi e aureo) , avrebbe messer Francesco rinun¬ 
ziato alla collocazione affettiva di biondi. Il Manzoni poi do¬ 
veva dire, secondo la teoria gròberiana, che a Renzo fuggia- 


(1) Canz. Quando il soave , v. 50. 





49 


sco, vegliante « su quel letto che la Provvidenza gli aveva 
preparato » a poca distanza dall’ Adda, si presentavano, qua¬ 
li immagini « strettamente legate nel cuore », una nera 
treccia e una bianca barba, o non una treccia nera e 
una barba bianca. Se davanti al sostantivo , osserva pure 
il Gròber , poniamo un aggettivo denotante un difetto fisi¬ 
co , questa collocazione sarà dovuta o alla nostra passione o 
alla nostra rozzezza. E passi 1* ossservazione. Ma nell’espres¬ 
sione o Dio Immortale l’aggettivo che è posposto al sostan¬ 
tivo, non serve certo a distinguerlo, perchè allora si dovreb¬ 
be ammettere un Dio mortale. 

Lo Schdningh in un suo notevole scritto (1) passa a rassegna 
molte dissertazioni sulla collocazione dell’aggettivo nelle lingue 
antiche e moderne, e ce ne mostra la gracilità o la manche¬ 
volezza. Non teme, per altro, di esporre anche una teoria sua, 
la quale, movendo dal principio che ogni essere ci si presenta 
o come sostanza o come accidente o come forza, e a questi tre 
modi di presentarsi degli esseri corrispondono, nell'espressione 
linguistica, sostantivo, aggettivo o verbo, stabilisce che come 
l'accidente presuppone la sostanza, così logicamente il sostan¬ 
tivo precede l’aggettivo. Ma nella lingua, soggiunge lo Schò- 
ningh, insiem con la logica ha una parte grande anche l’affetto, e 
quindi accanto alla collocazione logica sostantivo-aggettivo c’è 
l’affettiva aggettivo - sostantivo, nella quale si rispecchia una 
maniera fantastica e poetica di concepire le cose. Nè basta : 
per l’aspirazione al bello, che non manca mai in ogni opera 

(1) È contenuto nel fase. VII de’ Neuphilologische Studien oditi 
dal Kòrting, e s’ intitola Die Slellung des attributioen Adjectivs 
irn Fransósische». 


7 






50 - 


dell’uomo, anche l’estetica influisce sulla collocazione delle pa¬ 
role. Sicché, potendo predominare nella lingua o la logica o 
l’affetto o l’estetica, l’aggettivo è collocato o dopo del sostan¬ 
tivo, o prima , od ora prima e ora dopo. Lo Schoningh non 
si scosta gran che dal Griiber e dal Cron , piuttosto ne com¬ 
pleta la teoria con raggiungere la ragione estetica (das ast/ieti- 
schen Moment). Tali teorie sarebbero applicabili a molte 
lingue. 

Nel latino il Kuhner distingue tre modi di collocar l’agget¬ 
tivo, il grammaticale (sostantivo - aggettivo), il retorico o in¬ 
verso (aggettivosostantivo) e l’estetico. Lo Schmalz restringe 
le collocazioni a due, alla grammaticale o tradizionale e all’oc¬ 
casionale, che serviva al rilievo o all' armonia. Con lui s’ac¬ 
corda il Reckzey, secondo il quale la lingua dello stato e della 
letteratura ebbe presso i latini un’ impronta decisamente re¬ 
torica, e perciò l’aggettivo non fu posposto, come voleva la 
tradizione, ma preposto al sostantivo. Anche l’Albrecht dimo¬ 
stra , col De re rustica di Catone alla mano, la prevalenza 
della posposizione dell’aggettivo nel periodo antico del latino, 
e osserva che Cesare e Cicerone continuarono a posporre gli 
aggettivi, se derivati da nomi proprii. Sicché secondo il Kuhner, 

10 Schmalz, il Reckzey, l’Albrecht e anche, possiamo aggiun¬ 
gere, lo Schlee e l’Eussner, la collocazione sostantivo-agget¬ 
tivo, che è, diciam così, la collocazione logica dell’aggettivo, 
è nel latino la collocazione originaria. È il vetus orcio che il 
Rohde distingue dal novus orcio (aggettivo-sostantivo). Ma per 

11 Bergaigne, che lo Schoningh trascura affatto, l'antica costru¬ 
zione latina portava 1’ aggettivo innanzi al sostantivo , e Ca¬ 
tone posponeva quello a questo , specialmente nel De re ru¬ 
stica , perchè un così sobrio scrittore uon adoperava gli ag- 


< 



- 51 


gettivi se non per restringere termini troppo generali (1). 
1,'una e l’altra collocazione dell’aggettivo, la logica e l’affet- 
tiva, dice poi lo Schdningh, furono più volte, per il carattere 
retorico della lingua latina, attraversate da influssi estetici. I 
quali influssi il Cron non riconosce; nè ammette che una lin¬ 
gua di carattere logico preferisca la collocazione logica an¬ 
che per gli aggettivi essenzialmente affettivi, e un’altra di 
carattere affettivo preferisca la collocazione affettiva anche 
per gli aggettivi attribuenti solo logicamente. Il Cron, dice 
lo Schdningh , non considera lo spirilo della lingua , il suo 
carattere affettivo o logico, che inconsciamente governa la 
costruzione, ma soltanto lo spirito del parlante che a questa 
o quella collocazione annette il tale o tal altro intento. 

Importa vedere come si collocasse l’aggettivo nel latino della 
decadenza , in quel latino che non era poi tanto lontano dal¬ 
la schiusa delle lingue romanze. Logica ed estetica, nota lo 
Schdningh , indietreggiarono di fronte all’ affetto : in quel la¬ 
tino prevalse la collocaziono affettiva dell’ aggettivo. Nel De 
spectaculis di Tertulliano ricorrono cenlosessantuno aggetti¬ 
vo, di cui centoventi precedono il sostantivo, e quelli che lo 
seguono, si trovano per lo più in fin di frase, dove acquistano 
maggior rilievo. Nella Vita Sanclac Itadegundls di Venanzio 
Fortunato son preposti al sostantivo centosette di cencinquanta 

aggettivi. Il più notevole documento della prevalenza della col- 

* 

locazione affettiva dell’aggettivo si ha nel secondo libro delle 
llisloriae adversum paganos di Paolo Orosio: di trecento- 

(1) V. i cit. Mémoires, t. Ili, p. 36. 11 Bekgaigne, tra le altre 
frasi di Catone, cita questa: « Vendat boves vetulos ». E osserva 
che Cafone intendeva dire: «venda i buoi, quando son vecchi». 





- 52 - 


quarantuno aggettivo vanno trccenluno innanzi al sostantivo. 
Se fosse vera la teoria del Grdber e del Cron , dovrebbero 
di que’ trecentoquarantuno aggettivo soltanto quaranta attri¬ 
buire logicamente ; e si tratta nientemeno di un' opera stori¬ 
ca. Possiam concludere con lo Schòningh, che nella prosa cri¬ 
stiano-latina del principio del medio evo l’aggettivo è per lo 
più preposto al sostantivo. 

Nel francese antico prevale l’uso di far precedere l’agget¬ 
tivo. Che con ciò si volessero evitare equivoci per esser mancate 
le desinenze de’ casi, non è da credere, perchè era preposto 
l’aggettivo anche nel latino volgare, che non aveva ancora per¬ 
duto la flessione. Piuttosto bisogna ammettere l'influsso del te¬ 
desco , che colloca sempre l’aggeltivo innanzi al sostantivo. 
Quando quesl’ influsso diminuì, e rinacque dall’altro canto la 
cultura classica, allora cominciò a venire in voga la colloca¬ 
zione logica dell’aggettivo, che doveva prevalere nel francese 
moderno. In uno scrittore del secolo XII!, quale lo Joinville, 
gli aggettivi indicanti colore , che sono in gran parte d’ ori¬ 
gine germanica, vanno per lo più innanzi al nome; posterior¬ 
mente, con lo scemare dell’influsso germanico, la collocazio¬ 
ne di tali aggettivi oscilla molto dall’ affettiva alla logica. 11 
Darmesteter , citato dallo Schòningh , crede difficile stabilire 
regole sulla collocazione degli aggettivi sia nella vecchia lin¬ 
gua francese del secolo XVI sia nella moderna; e che si pos¬ 
sa dire soltanto, che 1’ aggettivo si stringe maggiormente al 
nome quando lo precede , e quando lo segue è più attributo 
che epiteto. 

Lo Schòningh tace dell’ italiano. Non so se qualcuno abbia 
mai avuto la pazienza di osservare ne’ nostri testi , da’ più 
antichi a’ più moderni, come si vada collocando l'aggettivo. 


t 



- 53 - 


Una rapida corsa io ho falla per molte prose e poesie, co* 
«linciando dalle vecchie carte, dove ancora il latino si ostina 
a servire all’espressione del pensiero, come sarebbe, per esem¬ 
pio, la carta capuana del 900, nella quale son preposti quasi 
tutti gli aggettivi. Nella lirica provenzaleggiante son sempre 
in maggioranza gli aggettivi precedenti il sostantivo. Quando 
a questo si accompagnano due aggettivi, non è raro che l’uno 
gli si metta innanzi e l’altro dietro, e Odo delle Colonne dice 
distretto core e amoroso oppure ria ventura e fiera-, la qual 
collocazione sarà poi frequentissima nella prosa del Boccaccio. 
Ricorrono spesso in rima gli aggettivi posponentisi al sostan¬ 
tivo. Guitlone tanto in poesia quanto in prosa ama di preporre 
l’aggettivo. Lo prepone quasi sempre Guidotto nella sua pre¬ 
fazione al Fiore di Iiettorica, e lo stesso fanno suppergiù an¬ 
che Ristoro d'Arezzo e l’autore del Novellino. Gli aggettivi po¬ 
sposti restano in minoranza anche nel Guinicelli. Lo stesso 
abbiamo in Dante. Uno studio sulla collocazione dell aggettivo 
nelle diverse sue opere potrebbe menarci a utili considera¬ 
zioni, ma non ci darebbe modo d’imbastir regole o leggi. Dante 
prepone talvolta l’aggettivo anche se fornito d’un proprio com¬ 
plemento, e dice : in simile elude a quella in che ecc. (1). Gli 
aggettivi posposti, che non sono tanto scarsi nella l ita Nuova, 
diminuiscono di numero nel Convivio. Si affollano , per dir 

(1) V. Vita Nuova, ediz. D’Ancona, cap. XL. L’edizione del Ca¬ 
sini non ha a quella, e Dante direbbe semplicemente: in simile 
etade ne la quale. Anche il Beck, che dichiara d’ aver riscon¬ 
trato 35 manoscritti per la sua edizione della Vita ùuooa (Mini- 
chen 1890), omette a quella, come il Casini. 





- 54 


così, nel principio del primo canto dell’ Inferno , ina dopo la 
quattordicesima terzina spesseggiano, invece, gli aggettivi pre¬ 
posti. Mentre nell’episodio di Francesca gli aggettivi posposti 
raggiungon quasi il numero de’ preposti , in quello del Conte 
Ugolino appena quattro di diciassette aggettivi seguono il nome. 
Nè si può dire che in Dante si verifichi la teoria del Gròber 
e del Cron, perchè se della sua passiono si riscaldano nel fa¬ 
moso canto di Cacciaguida gli aggettivi spielata e perfida pre¬ 
cedenti noverca, non meno caldi succedono a compagnia gli 
aggettivi malvagia e scempia. Anche il Peti-arca prepone l'ag¬ 
gettivo al nome. Nella canz. Ne la stagion nemmeno una volta 
esso è posposto, e nell'altra Chiare fresche e dolci acque gli 
aggettivi preposti superano i posposti d’una metà. Poche volte 
si pospongono gli aggettivi nella canz. 0 aspettala in del. 

Degli scrittori del cinquecento il Cellini, che non ha preten¬ 
sioni letterarie, e detta o scrive come gli viene, suol preporre 
l’aggettivo al nome (l). Veniamo agli scrittori moderni e con¬ 
temporanei. Chi consideri la prima delle Operette morali del 
Leopardi, cioè la Storia del genere umano, gli aggettivi pospó¬ 
sti non restano per numero mollo al di sotto de’ preposti (2), 
ma nelle Ricordanze, che è una delle più perfette poesie, e in 
cui i versi non sono legati da rime, gli aggettivi preposti supe 
rano per più d’una metà i posposti. Si bilanciano invece nel 

(1) V. Vossi.f.r, Benvenuto Cet/ini's Sii/ in seiner Vita in Bei- 
trago sur romanisrhen Philologie (Festgabe f 'ùr G. Gròber). Hal¬ 
le 1899, p. 430. 

(2) In questa prosa del Leopardi diciannove volte 1’ aggettivo 
superlativo s’accompagna al nome, e una volta sol,-. ( un genio 
grandissimo) gli si pospone. 




55 


canto A Silvia, che è rimato. Nel primo capitolo de’ Promessi 
S2)osi gli aggettivi preposti ai nomi sono un po’ meno de’ po¬ 
sposti, ma se essi son quasi in egual numero nell' episodio di 
Cecilia , i preposti si riducono a meno del terzo de’ posposti 
nell'addio di Lucia al paesello natio, e a meno della metà nel 
ritratto della Monaca di Monza. Dal De Amicis l’aggettivo è 
quasi sempre posposto al nome. Nell’TOimo addio, che è forse 
il miglior capitolo dei suoi Amici, e nel quale gareggiano in¬ 
sieme artista e psicologo, di più d’un centinaio e mezzo di ag¬ 
gettivi fi) son preposti appena un quaranta. Il Carducci suole in 
prosa far seguire l’aggettivo al nome, come risulta dall’esame 
del suo discorso sull’Opera di Dante. Ma nel non breve Idillio 
maremmano e nella lunga ode Alle fonti del Clitumno, che 
sono tra le sue più belle poesie, gli aggettivi preposti supe¬ 
rano di circa una metà i posposti. 

I dati di fatto che abbiam finora raccolti c’ inducono a ri¬ 
tenere, che l’italiano moderno tenda più dell’antico a posporre, 
almeno in prosa, l'aggettivo al nome. In questo s’accordereb¬ 
be col francese: che 1’ accordo sia stalo facilitato dal contat¬ 
to continuo delle due lingue e letterature, non sarebbe forse 
da escludere. 

Secondo il Kreizner, lo Knebel, il Plbtz, il Collmann, elio 
s’occupano del fraucese, il buon suono, l’armonia deciderebbe 
della collocazione dell’aggettivo. Il Cron esclude questa etllca- 

(1) A spiegarci bene, un centinaio c mezzo di volte aggettivi 
s’accompagnano a sostantivi. Spesso si accompagnano insieme duo 
aggettivi e anche tre a un sol sostantivo. Quindi il numero degli 
aggettivi nella prosa del De Amicis supera di molto il centinaio 


e mezzo. 





50 


eia dell'armonia non solo nel francese, antico e moderno, ma 
anche nel latino. 11 Diihr non trova necessario nel francese, 
che dopo il nome breve si collochi l'aggettivo lungo, nè vede 
in tale collocazione una ragione estetica. È però innegabile, che 
a disporre gli aggettivi contribuisca tanto volte l’armonia o la 
bellezza estrinseca della espressione , della frase. Cosi, se il 
Manzoni, descrivendo il vestire della Monaca di Monza, mette 
nello stesso periodo l’aggettivo nero una volta dopo del nome 
(un velo nero) e un’ altra volta prima (un nero saio) , non 
può essere stato indotto da una diversa sfumatura di senso. 
Sempre descrivendo Gertrude, il Manzoni prima dice soprac¬ 
cigli neri e poi neri capelli. Da ragione d’armonia, da ragione 
estetica spesso deriva la posizione chiastica degli aggettivi qua¬ 
lificanti due nomi consecutivi. Un esempio ce n’oflre il Carducci, 
quando nel citato discorso dice di Dante: « dovea far salire alle 
più alle cime del pensiero la lingua italiana e d'italiana gloria 
improntare il mondo più saldo e duraturo, il mondo degli spi¬ 
riti ». Traggo un altro esempio da una pagina dello stupendo 
volume del I)’Ovidio sul Purgatorio di Dante: « Eccoci cosi 
alla genesi della valle sordelliana e della sordelliana rassegna 
de’principi ». Lo Schmitz, per il francese, porta tra gli altri 
l’esempio dello Chateaubriand: « la nouvelle nature et les 
moeurs nouvelles que j’ ai peintes »; ed aggiunge che la lin¬ 
gua del freddo intelletto non si serve di simili alternative re¬ 
toriche, e il Thiers perciò scrisse: « une confiance aveugle doit 
amener un désespoir aveugle ». 

11 posto dell’ aggettivo spesso ha una ragione puramente 
eufonica. Non diremmo mai secco colpo. A ripescare per la 
varia collocazione dell’ aggettivo, spiegazioni di questo ge¬ 
nere non si stenterebbe affatto; senza dire che non dobbiam 



- 57 - 

dimenticare che parecchi aggettivi, cambiando posto, cam¬ 
biano significato. Piuttosto par notabile 1’ osservazione del 
Koschvitz e del Beyer, la quale, fatta per il francese , si 
potrebbe estendere anche all’ italiano ; ed è che si suole ac¬ 
centare la parola con cui finisce una frase o un membro di 
frase. Sicché quando alla fine d' una frase o d’ un membro 
di frase l’aggettivo è stato accentato e vien per conseguen¬ 
za seguito da pausa, esso, posposto com' è al nome, riceve 
spesso tanto rilievo affettivo quanto ne ha l’aggettivo prepo¬ 
sto. Anche secondo Giusto Ilendrich l’aggettivo posposto può 
attribuire efficacemente la qualità ch’esprime e fare una forte 
impressione, e adduce l’esempio francese: «elle ne s'étaitpas 
trompée , elle élait une artisle véritable ». In italiano noi di¬ 
ciamo che il tale è un artista vero , facendo forza su vero. 
Ma la stessa efficacia d’espressione conseguiremmo , prepo¬ 
nendo vero ad artista. Se non che, in questo caso, accentiamo 
1’ aggettivo, cioè facciamo cader 1’ accento principale su di 
esso, non sul nome che vien dopo. Rientriamo così nella teo¬ 
ria del Diez, trascurata dallo Schòningh, e che si fonda sul- 
1' accento oratorio e sull’ equilibrio ritmico del discorso , più 
su quello che su questo. Quando s’accompagnano, dice il Diez, 
nome o aggettivo, ha 1’ accento principale quello de’ due che 
occupa il secondo posto ( alta montagna , àbito vérde). Perciò 
l'aggettivo, che si voglia far risaltare, va messo dopo il nome. 
Ma la legge dell'accentuazione consente pure l’inversione, che 
cioè si preponga al nome 1’ aggettivo che, dovendo spiccare, 
sarebbe obbligato a venir dopo: naturalmente esso porta con 
sé l’accento principale, che passa così dal secondo al primo 
posto. Per conseguenza artista véro e véro artista sarebbero 
in perfetta equazione. L’equilibrio ritmico poi, che è la se- 

8 



- 58 - 


conda delle leggi, regolanti, secondo il Diez. la collocazione 
dell’ aggettivo, assegna volentieri a questo il secondo posto, 
quando sia d’ una certa lunghezza o si carichi d’ uno o più 
complementi. 

È stata notata ne’ romanzieri francesi, quali i Goncourt, lo 
Zola, il France, il Daudet, la tendenza di preporre, come si 
faceva nel periodo classico, l’aggettivo al nome, e in parecchi 
loro scritti la proporzione tra gli aggettivi preposti e i pos¬ 
posti sarebbe, a conti fatti, di cinque a otto. Si è pure osser¬ 
vato, che più scrittori francesi preferiscono oggi di dire, per 
esempio, un Ut de misere invece di un lit misèì'able, sosti¬ 
tuiscono cioè all’aggettivo il nome corrispondente in genitivo. 
Questa seconda osservazione non credo s’adatti a’ nostri scrit¬ 
tori, sebbene le locuzioni oratore di fuoco , letterato di va¬ 
lore e altre consimili non siano rare in italiano; dobbiam però 
riconoscere che tali costrutti, che hanno un loro proavo nel 
dantesco vas d' elezione , riescono più energici del semplice 
aggettivo. A’ nostri romanzieri non va fatta nemmeno la pri¬ 
ma osservazione. 


IV. 

Nelle lingue classiche ilWeil distingue quattro modi di disporre 
la parola determinante e la determinata, cioè altre due costruzio¬ 
ni oltre la discendente e l’ascendente (1). Quando i greci dicevano 
a toO xopoo StSiaxaXoc e i latini gravissima belli offensio, essi strin¬ 
gevano in un saldo fascio gli elementi di un concetto, e raggiun¬ 
gevano quasi l’unità della parola composta : si aveva allora la co- 


(1) V. Weil, Op. cit., p. 62 e sgg. 





- 69 - 


struzione raccolta o chiusa. Altro volte gli antichi sparpagliava¬ 
no, per così dire, i componenti del fascio, gli elementi d’un grup¬ 
po sintattico, e Cicerone diceva : « animorum nulla in terris origo 
inveniri potest ». Nella qual proposizione animorum è distac¬ 
cato da origo, e mentre in nulla in terris origo (nessuna 
terrena origine) possiam vedere un esempio di costruzione 
raccolta o chiusa, nel distacco di animorum da origo abbia¬ 
mo la costruzione sparsa o l’inversione. Che possa giovare al- 
l’efllcaeia dell’espressione ora raccogliere e stringere insieme 
gli elementi d’un gruppo sintattico, ora sparpagliarli nella 
proposizione di cui fan parte, non si mette nemmeno in dub¬ 
bio. Due mezzi, dice il Wundt, offre una lingua per unire 
strettamente più idee, l’intreccio cioè delle parole componenti 
la proposizione e la trasformazione di proposizioni subordinate 
in attributi nominali. Questo secondo mezzo, che il Wundt fa 
rientrare nella trattazione dell’ordine delle parole, non è, os¬ 
serva giustamente il Sutterlin, al suo posto (1). Ma le lingue 
romanze si prestano alle due costruzioni, alla raccolta e alla 
sparsa? L’italiana certamente. Nella nostra poesia gli esempii 
di costruzione raccolta abbondano. Uno de’ meno felici però è 
questo che ci presenta il Foscolo nell’ ode A Luigia Palla¬ 
vicini : 


i dall'elmo liberi 
Crin. 


Ma non possiam sempre metter la mano sui nessi sintattici 
e sgrupparli come ci pare e piace : ce ne sono degli stretti e 


(1) V. Sutteri.in, Op. cit., p. 165. 





60 - 


de’ lenti. Verbo e avverbio, o verbo e oggetto formano un 
nesso più stretto di verbo finito e verbo infinito o participio, 
e perciò questi ultimi possono esser separati mediante un 
avverbio, un oggetto, un attributo, o mediante avverbio, og¬ 
getto e attributo insieme (1). Il disgregamento di codesto 
nesso ricorre più spesso nella nostra lingua del trecento, la 
cui sintassi aveva per la sua libertà maggior somiglianza con 
la sintassi latina. In alcuni scrittori del cinquecento, così tenero 
della imitazione classica, troviamo talvolta forse ancor più spar¬ 
pagliati che non in quelli del trecento, gli elementi del nesso, 
e il Machiavelli, per esempio, scrive: « aveva Cosimo dei Me¬ 
dici, veggendo la ricchezza e nobiltà di costoro, la Bianca sua 
nipote con Guglielmo congiunta » : 1’ un elemento del nesso 
{aveva) apre, e l’altro {congiunta) chiude e suggella la lunga 
proposizione. Se col distacco de’ due elementi il Machiavelli 
qui non giova alla dizione, che acquista, per altro, una certa 
andatura latina, riesce a rendere molto efficace questo passo del 
Principe-. « fu [Oliverotto], insieme con Vitello/zo , il quale 
aveva avuto maestro delle virtù e scelleratezze sua, strango¬ 
lato». Nella separazione de’ due elementi del nesso (fu stran¬ 
golato) vediamo, per dir cosi, il capestro allargarsi e ricon¬ 
giungere Vitellozzo e Oliverotto, maestro e discepolo, nella 
stretta mortale. Lento invece ò il nesso di soggetto e verbo. 
Mancava anzi in latino; per trovarlo bisogna venire a un pe¬ 
riodo linguistico molto posteriore, ma i due termini non rie¬ 
scono mai a legarsi insieme, come verbo e avverbio, in nes¬ 
suna lingua, nemmeno in francese, che pur non lasciando mai 

(1) V., anche per quanto si dirà dopo intorno a’ nessi sintat¬ 
tici, Richter, Op. cit., p. 134 e sjjg. 


t 




- fil 


il verbo senza soggetto, inserisce tra l’uno e l’altro l'oggetto 
pronominale e la particella negativa. Se rifacciamo a ritroso 
il cammino della nostra letteratura , passando dagli scrittori 
più moderni ai meno moderni e agli antichi, il nesso tra sog¬ 
getto e verbo si va sempre più allentando. 

Ora, posti siffatti nessi sintattici, si comprende , che se ne 
sciogliamo, uno, separando una parola dalla sua compagna , 
la parola separata non può a suo arbitrio andare a mettersi 
in mezzo a quelle formanti un altro nesso. Se il soggetto per 
una ragione retorica o psicologica vien tolto dal primo posto 
della proposizione , e al secondo, immediatamente prima del 
verbo, sta l’avverbio o l’oggetto o 1’ attributo, che per natura, 
come sappiamo, si stringono mollo volentieri al verbo, il sog¬ 
getto non può andare che dopo il verbo. Se poi rimosso il sog¬ 
getto dal primo posto della proposizione, viene a trovarcisi il 
verbo, seguito questa volta da oggetto o attributo o avverbio, 
il soggetto non può più stare che dopo il complemento o i 
complementi del verbo, al posto libero più vicino. Sicché ab¬ 
biamo oggetto o attributo o avverbio-verbo-soggetto oppure 
verbo-oggetto o attributo o avverbio-soggetto. La seconda col- 
locazione, di cui gli esempii sono infiniti, prova che, se nella 
prima il verbo occupa il secondo posto , ciò non avviene per 
un principio ritmico, come ha creduto il Thurneysen. Questo 
principio, se fosse destinato a regolare la posizione del verbo, 
dovrebbe valer sempre, e il verbo non dovrebbe mai apparire 
al primo posto, o solo quando, come ammette il Thurneysen, 
un’enclitica pronominale gli rinforzi l’accento. Il che accade 
nel verso di Dante ( Inf V, 4): 


Slami Minosse orribilmente e ringhia. 







- f>2 - 


Il poeta non avrebbe potuto dire Vi sla Minosse ecc. perlina 
legge sintattica in vigore a’ suoi tempi, e assai bene illustra¬ 
ta dal Mussafìa (1). Ma Dante dice pure ( Inf V, 97): 

Siede la terna , dove nata fui : 

qui il verbo è in cima alla proposizione senza rincalzo di en¬ 
clitica. 

Lo stesso nesso di oggetto o attributo o avverbio e verbo 
spiega anche il prodursi dell’ inversione nella proposizione 
interrogativa. Sappiamo che , cadendo 1’ interrogazione su un 
sol membro, questo , nella forma più antica , e ancor viva , 

(1) L’ha illustrata nello scritto Una particolarità sintattica delta 
lingua italiana dei primi secoli, che fa parte della Miscellanea 
di Filologia e Linguistica in memoria di N. Caix e U. A. Ca- 
nello, Firenze 1886, pag. 255 e sgg. Il Mussafìa crede che « un 
fine sentimento» facesse rifuggire gli antichi scrittori «dall’ in¬ 
cominciare la proposizione (che nei piti casi è quanto dire il pe¬ 
riodo) con un monosillabo pronominale privo di proprio accento, 
e quindi di suono e di significato soverchiamente tenue ». Questa 
ragione pare insufficiente al Thurneysen. Il quale osserva: « Man¬ 
che Sàtze, z. B. die meisten Nebensalze, beginnen ja thatsàchlich 
mit tonlosen Partikeln ; ttnd solite dee heutige Italiener, der ti 
piaccia spricht, weniger feinfiihlig sein als der alte mit seinem 
piacciati ? Vielmehr war es ein Resi uralten Sprachgebrauchs; einige 
Romanen haben ihn mit der Zeit iiber Bord geworfen ». V. in 
Zeitschrift fiir romanische Phi/ologie , voi. X VI, 1’ articolo del 
Thurneysen, Zar Stcllung des Verbums im Altfranzósischen, a 
p. 303. 


e 




- 63 


della proposizione, sta al posto stesso che occuperebbe la cosa 
domandala , se fosse nota. Si confrontino , per chiarezza , le 
proposizioni noi che faremo? e noi un dono faremo : il che 
interrogativo occupa lo stesso posto di un dono. Or se la parola 
interrogativa passa a capo della proposizione, si tira con sè 
pure il verbo, di cui è complemento. Quando Dante chiede a 
Virgilio (Inf, Vili, 8 sg.): 

Questo che dice? e che risponde 
Quell’altro foco? 

ci offre le due forme della proposizione interrogativa, la più 
antica (Questo che dice?) e l'altra con inversione ( che risponde 
quell’ altro foco ?). L’uso delle due forme è fatto qui ad arte, 
e ne risulta una bellezza stilistica, tenue si, ma tale, per altro, 
da esser avvertita dal lettore, che subito s’imbatte nella terza 
domanda di Dante : 


e chi son quei che il fenno ? 

la quale, allargandosi in due proposizioni, si presenta, con tal ri¬ 
lievo perifrastico, alquanto diversa dalla prima e dalla seconda. 

Non si sgruppano dunque senza violenza verbo e avverbio, e 
perciò se la parola capitata innanzi ad essi avrà da cambiar 
posto per una ragione qualsiasi, andrà a star dopo quel nesso. 
Una riprova è che quando qualche avverbio passa a funzionare 
da semplice congiunzione, è facilmente distaccato dal verbo. Di 
una stessa parola nella doppia funzione d'avverbio e congiunzione 
si ha un esempio in questo luogo del Novellino-. « Lo ’mperadore 
trasse la sua [spada], ch’era maravigliosamente fornita d’oro e 




di pietre. Allora disse messe! 1 Asolino: molto è bella, ma la mia 
è assai più bella. E trassela fuori. Allora secento cavalieri ch’c- 
rano con lui trassero tulli mano alle loro ». Il primo allora è 
un vero avverbio di lempo ; il secondo vale quanto la congiun¬ 
zione e : nel primo caso, non nel secondo, il nesso avverbio- 
verbo è rispettalo, e il soggetto si colloca dopo il verbo. Po¬ 
trebbe qualcuno negare una distinzione cosi sottile tra l’uno e 
l’altro allora in uno scrittore assai alla buona e quasi primi¬ 
tivo, quale appare l’autore della narrazioncella, e ritenere sba¬ 
gliato l’esempio. Ma c' è da meravigliarsi che s’abbiano finezze 
nell’uso di vocaboli e costrutti pure in bocca o sotto la penna 
di persone incolte, guidate dal loro naturai senso linguistico e 
non da arte ? Si potrebbe credere, che il secondo allora abbia 
conservato, come il primo, il valore di avverbio, e si violasse il 
suo nesso col verbo, perchè questa volta il soggetto da spostare 
(secento cavalieri) aveva con sè il pesante bagaglio d’una pro¬ 
posizione relativa {elierano con lui). Ma che il secondo allora 
non valga più d’una semplice congiunzione, risulta dal conte-, 
sto, inteso come dev’ essere. Ricorriamo , del resto, ad altri 
allora. Ognun sente la differenza tra 1 ' allor del verso ( Inf,'., 
X, 52): 


Allor surse alla vista scoperchiata 
e 1’ allor de’ versi (ibid., 109 sg.): 

i 

Allor, come di mia colpa compunto, 
Dissi: Or direte dunque a quel caduto. 


Il primo allor, stretto a surse, ha il suo pieno valore d’avver- 





bio, e, per così dire, fissa con energia nel tempo l'azione del 
verbo, mentre il secondo propriamente non determina dis¬ 
si , da cui è separato per tutta la distesa d’ un verso. Se si 
scrivesse : 

Ed io, come di mia colpa compunto, 

non sarebbe sentita la mancanza di attor. Al quale nemmen 
l 'or che precede direte (Or direte) ci consiglia di dar la forza 
avverbiale del primo attor, perchè il dunque, che subito se¬ 
gue ( Or direte dunque), prova, chi ben l'intenda, l’andamento 
abbastanza pacato di quest’ultima parte dell episodio di Faii- 
nata. Il Littré comprese esattamente il valore di questo se¬ 
condo attor, e cosi tradusse in antico francese la terzina dan¬ 
tesca : 


Et je alani, coni de coulpe compoins: 

« Faites savoir à ce poure cheu 

Qu’ encor ses fls aus vivans est conjoins. 

Poteva il Littré adoperare anche alo-rs , che è dell’ antico 
francese come del moderno, ma preferì interpretare, piu che 
tradurre, l’ attor del testo. Nel verso, poc' anzi citato : 

Stacci Minosse orribilmente e ringhia, 

se orribilmente si distacca, per l’interposizione di Minosse, da 
stacci, con cui dovrebbe formare un sol nesso , gli è perchè 
ha la forza più d’ una espressione avverbiale (in atteggiamento 
orribile) che d’avverbio, e riesce, cosi collocato, assai descrit- 




66 


tivo. Anche la cesura dopo la quarta sillaba giova al rilievo di 
orrìbilmente , che vien perciò a separarsi dalle parole che 
precedono , come per 1’ accento forte sulla sua penultima 
sillaba , che è 1’ ottava del verso , non si stringe al seguente 
e ringhia. 

Il Bonghi pone tra le inversioni di genio italiano, com'egli 
le chiama, questa del Cellini: « donisi a Benvenuto cinquecento 
scudi d'oro subito (1) ». Ma non pare che l'avverbio subito ar¬ 
rivi troppo tardi, e sia violento e anche inefficace il suo distacco 
dal verbo donisi ? 0 bisogna ammettere che subito, cacciato 
cosi in fine di frase , segni un nuovo pensiero sopraggiunto, 
venga dopo, o a tanta distanza da donisi , perchè sbocciato 
dopo nella mente del parlante. Dal contesto però questo non 
traluce. Il Bonghi trova soverchia, sebben leggerissima, l’in¬ 
versione del Giordani : « nè solamente a’ poveri e idioti si gio¬ 
verebbe; ma pure a moltissimi di noi che già fummo alle scuo¬ 
le »; e ordinerebbe così le parole: « nè solamente si gioverebbe 
a’ poveri e idioti ecc. » (2). Credo miglior collocazione quest’al¬ 
tra : « nè si gioverebbe solamente a’ poveri e idioti, ma pure 
a moltissimi di noi ecc. ». 

Il Bonghi, nel riproporsi la vecchia quistione, se alla nostra 
lingua competa o no l’inversione, si burla, e giustamente, di 
tanti scrittori, viventi o morti, persuasi che non ci sia « al¬ 
tra inversione a questo mondo se non quella che consiste nel 
mettere il verbo in punta, e fuori di quel posto che, secondo 
il nesso logico de’ concetti, dovrebbe tenere ». Su ogni cento 
loro inversioni, egli dice, per lo meno novantanove e mezzo 

(1) V. Bonghi, Op. cit., p. 209. 

(2) V. Bonghi, Op. cit., p. 212. 


- 67 - 


si devono a codesta semplice persuasione, che si accompagnava 
all’altra, non meno curiosa, che una buona parte deU’artifìcio 
dello stile consistesse appunto nel mettere il verbo fuori di 
posto (1). 

11 Meyer-Liibke mette tra i gruppi inseparabili quello di ag¬ 
gettivo e nome, intendendo che in mezzo a codesti due ele¬ 
menti, pur suscettivi, come sappiamo, d’inversione, non se ne 
possa cacciare un terzo. Veramente nella nostra lingua si con¬ 
seguono effetti stilistici non piccoli, in prosa e in verso, con 
l’introdurre tra aggettivo e nome qualche altra parola deter¬ 
minante l’uno o 1' altro. Cosi il Manzoni fa dire nell' Adelchi 
al diacono Martino, che narra il suo arduo viaggio, d’aver udito 

un agitarsi 
D'uomini immenso. 

Riuscirebbe tanto meno pittoresca questa espressione, se im¬ 
menso precedesse o seguisse immediatamente agitarsi. Nel 
verso : 


Il divino del pian silenzio verde , 

con cui si chiude il sonetto carducciano del pio bove, si deve, io 
credo, pure al frammettersi di del pian tra divino e silenzio, 
se riesce acconcio l’uso del seguente aggettivo verde. Il verso 
s’interrompe, per la cesura, a pian, e si sofferma anche un po’, 
per il non debole accento sull’ottava sillaba , a silenzio; sic¬ 
ché verde resta alquanto staccato, e pur riferendosi gramma- 

(1) V. Bonghi, Op. cit., p. 200. 


/ 




68 


lealmente a silenzio, rimbalza, attratto per il concetto, a pian, 
più lontano di posto , ma fortemente accentato. Risulta , in- 
somma , ben fusa la rappresentazione della tacita campagna 
verde da un così bel verso, che dopo la cesura tronca si di¬ 
stende mollemente , increspandosi solo un tantino al dittongo 
raccolto della penultima parola. 

Il Cellini, che abbiam visto sciogliere arditamente il nesso 
sintattico di verbo e avverbio , lancia talvolta 1’ aggettivo a 
gran distanza dal suo sostantivo, come nella frase: «questo 
è fratello di quello che tu vedi là carnaio. Carnale, che, messo 
immediatamente dopo fratello, sarebbe servito, secondo la teo¬ 
ria gròberiana, a distinguerlo, ora dal forte distacco, dice il 
Vossler, riceve un rilievo affettivo. Ma a me pare che questo 
sia uno de’ casi in cui il Cellini ordina le parole, come scrive 
lo stesso critico tedesco, « mit kùhner Souverànitàt und oft im- 
gewollten Gegensalz zum gewòhnlichen Sprachgebrauch » (1). 

V. 

Il Rivarol, nel suo discorso sull'universalità del francese, af¬ 
fermava , che questa lingua per un singolare privilegio è ri¬ 
masta fedele solo all’ordine logico delle parole, come se essa 
fosse tutta ragione. Le passioni, egli esclamava , agitandoci, 
invano ci stimolano a seguir nel discorso 1’ ordine loro : « la 
syntaxe frànqaise est incorruptible » ! E soggiungeva , che da 
ciò è derivata al francese quella mirabile chiarezza, che ne è 
proprio la base eterna. Chiarezza mirabile, ma fors’anco su¬ 
perficiale , chè una lingua , se vuole esser completa , esatta 

(1) V. i cit. Beitràge sur romanischen Phitologie, p. 431 e sg. 


manifestazione del pensiero, non deve restringersi a ritrarnè 
le relazioni logiche, ma deve presentarne il movimento, la 
vita, deve presentarlo così come si è prodotto e svolto dentro 
di noi. Se non che il Rivarol esagerava le qualità logiche del 
francese, quelle qualità per cui il Leopardi ebbe a chiamarlo 
lingua geometrica (1), Anche il francese ha le sue inversio¬ 
ni, è pur atto a dare alle parole un ordine che non è il logi¬ 
co o grammaticale. L'italiano certamente è più libero, è più atto 
alla inversione. La quale si fonda per una certa parte sopra un 
fatto linguistico che mi par bene chiarire, e che alla sua volta 
aiuta anche a spiegare quella differenza tra italiano e francese. 

Secondo Guglielmo Humboldt noi portiamo nel nostro spirito 
una specie di grammatica che presto o tardi finisce per se¬ 
gnare la sua impronta nel linguaggio, quella ch’egli dice for¬ 
ma linguistica interiore ( die innere Sprachform ). 11 Bréal 
crede che si possa consentire col gran filologo tedesco, pur¬ 
ché per forma linguistica interiore intendiamo « le souvenir de 
la langue maternelle » (2). In grazia di questo ricordo accade 
che in una lingua, la quale ha avuto una flessione e 1 ha poi 
perduta, la morte materiale d’una desinenza non ne sospenda 
l’uso, e la lingua sia in grado di fare appello ad essa e chie¬ 
derle de’ servigi come se esistesse ancora ; si ha insomma quel 
fenomeno linguistico, che il Bréal denomina sopravvivenza del¬ 
la flessione (3). Nella locuzione pausato l'anno, che si può di- 

fi) V. la mia Memoria La teoria leopardiana delia lingua 
(Rendiconto dell' Accad. di Archeol. Lettere e Belle Arti di Na¬ 
poli — Anno XIX, 1905). 

(2) V. Bréal, Op. cil., p. 334. 

(3) V., anche per ciò che si dirà dopo, Bréal, Op. cit., p. 55 e sgg. 




- 70 - 

re, come tante altre consimili, un ablativo assoluto, ci si offre 
un caso di sopravvivenza della flessione , della flessione ma¬ 
terialmente abolita. La qual sopravvivenza, che è, si capisce, 
dentro di noi, in fondo alla nostra coscienza, ci obbliga pure, 
quando , per esempio , diciamo vi rispetto e vi voglio bene , 
a non omettere il secondo vi , perchè questo vi è un dativo , 
mentre il primo è un accusativo, e non si può confondere 
1’ uno con 1’ altro. Or 1’ inversione suppone tante volte code¬ 
sta sopravvivenza. Può ben accadere, che le sopravvivenze 
della flessione, scomparse dalla lingua popolare, si mantengano 
nella letteraria. Perciò quelle libertà sintattiche che sono le 
inversioni ricorrono maggiormente nella lingua letteraria. Chi 
si propone di scrivere come si parla, di rispecchiare nella lin¬ 
gua scritta la parlata , suol dare alle parole 1' ordine diretto 
che abbiam chiamato anche grammaticale o logico, di seguire 
quell’ordine che esige la comune, abituale maniera di pensare. 
Perchè l'ordine diretto, invalso nelle lingue romanze, dovè es¬ 
sere più causa che eft’elto della perdita della flessione, o per 
lo meno causa insieme ed effetto : le desinenze cominciarono 
a cadere quando P ordine delle parole non ne faceva sentire 
più il bisogno, e cadendo le desinenze diveniva, d'altra par¬ 
te, più vivo l’obbligo d’attenersi a quell’ordine, eh’ era ap¬ 
punto il diretto. 

La forma più sottile dell' arcaismo , dice il Bréal , è quella 
per cui s Y fa appello a mezzi grammaticali che più non esi¬ 
stono nella coscienza popolare. Non si stenta a rimettere in 
circolazione parole disusate, ma è molto difficile resuscitare e 
far comprendere giri antichi di frase, costrutti complicati a 
cui non si piega più la parlata ordinaria. Si fa appello alle so¬ 
pravvivenze della flessione materialmente abolita , e la chia- 


71 


rezza del discorso dipende dall’ uso di esse più o meno largo, 
più o meno acconcio. Maggior uso delle sopravvivenze può 
fare l'italiano che non il francese, perchè l’italiano porta ora 
più impresse, per cosi dire, le tracce della lingua madre, ne 
serba meglio il ricordo, e perciò più inversivo è l’italiano del 
francese, come più inversivo dell' italiano moderno era 1’ an¬ 
tico. « La survivance, dice il Bréal, est une loi du langage 
dont il appartieni à chacun, selon l’idiome et selon 1’occa- 
sion, de mesurer les justes limites » (1). 

Nelle lingue romanze, osserva il Diez (2), continuò 1' uso 
delle inversioni così comune nella latina, non solo perchè lo 
stile di questa, non perduto mai di vista, divenne per quelle 
un modello perenne, ma anche perchè in principio le lingue 
romanze servirono quasi esclusivamente alle composizioni poe¬ 
tiche, in cui era inevitabile un ordinamento più libero e più 
ardito delle parti del discorso. Anche i rimatori poco colti, ag¬ 
giunge il Diez, sentivano l’attrattiva e la portata dell’inver¬ 
sione , mentre i colti passavano talvolta i limiti imposti dal 
buon senso. E cita queste parole d’una canzone di Pannuccio 
del Bagno (3): 


non manca a di si gran valenza 
Signoria provedenza. 

(1) V. Bréai-, Op. cil., p. (51. 

(2) V. la cit. Grammaire ctc., t. IH, p. 413. 

(3) È la canz. Di sì alta valenza e signoria, riportata anche da 
Ad. Bartoli nella Crestomazia della poesia italiana del periodo 
delle origini, Torino 1882. Non pare, come sospetterebbe il Diez, 
che qui la lezione del testo sia errata. 




72 - 


Le quali parole andrebbero così ordinate : non manca pro- 
vedenza a signoria di sì gran valenza. Ora il Diez non ha 
torto, ma sta, d’altronde, il fatto, che una libera collocazione 
delle parti del discorso presentano anche scritture in prosa, 
lontanissime da ogni intenzione d’arte e coeve a quelle in verso 
dianzi rammentate, come, per esempio, i Ricordi di banchieri 
fiorentini o quelli di Mattasalà di Spinello senese. Gli è che era 
tenace ancora l’impronta della jlingua madre, e nella strut¬ 
tura della proposizione e del periodo riecheggiava , per cosi 
dire, l’abitudine dell’ uso de’ casi, non smessa da troppo tem¬ 
po. Tutti sappiamo, che il francese e il provenzale nel primo 
periodo della loro storia serbavano due forme di casi, il nomi¬ 
nativo e P obliquo, che erano due bei ruderi dell’ antica fles¬ 
sione. 

No comments:

Post a Comment