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Monday, April 8, 2024

GRICE E CASALEGNO -- L'IMPLICATURA CONVERSAZIONALE -- IL CONCETTO D'IMPLICATURA NELLA FILOSOFIA LINGUISTICA -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA

Grice e Casalegno: l'implicatura conversazionale del concetto d’implicatura nella filosofia linguistica del Novecento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me! Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!”  Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem; “Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi, un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio, Carocci,  Verità e significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci,  (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità: problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e riferimento, in  Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera, Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del linguaggio.  I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e Marco Santambrogio.  I testi antologizzati consentono al lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e i concetti chiave che emergono dalla sua opera.  Apre il classico Senso e significato di Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi  Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Quine, Nomi e riferimento di Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Putnam, Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e conversazione” di Grice, Dispute metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice - è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si attenga a quattro “ massime ” che possono...  Introduzione alla filosofia del linguaggio  Paolo Casalegno. Significato e condizioni di verità. Prendiamo in considerazione un’idea del primo Wittgenstein:  “Comprendere una proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus, 4.024). Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi wittgensteiniana?  Un  modo  può  essere  questo:  usiamo  il  linguaggio  per  descrivere  la  realtà.  Una proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’.  Evitiamo di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere  che  il conoscere  le condizioni di  verità di  una  proposizione equivalga  a  sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera.  La tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci su alcune di queste.  Le obiezioni possono essere, principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità.  Al termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false. La prima obiezione  si basa sull’ovvia  constatazione che esistono  espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attribuibili condizioni  di  verità.  Ci  sono  espressioni  sintatticamente  ben  formate  che  non  sono  frasi complete, parole singole  o espressioni come  ‘valigia  pesante’. Che  queste  espressioni abbiano  un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In  secondo luogo,  ci sono frasi  complete come  le interrogative  e le  imperative. Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte di espressioni deve ricorre a nozioni  diverse  da quella di verità.  Sembra  dunque  impossibile  che  proprio  su  questa  nozione  si fondi tutta quanta una teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale. Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono enunciati ha a che fare con la verità.  Consideriamo il caso delle parole singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla, equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa — e, più in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH).  Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra capacità di capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente: queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono in modo ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il rispondere ‘Sì’ alla domanda equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o un’affermazione,  e  delle  frasi  imperative.  La  centralità  della  nozione  di  verità  sembra  così  essere confermata.  Della  seconda  obiezioni  esistono  più  varianti,  potremmo  perciò  formularla  come  segue.  Concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per concentrarsi in modo esclusivo sul  loro ruolo di  veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci tro-viamo,  delle  informazioni  di  cui  i  nostri  interlocutori  già  dispongono,  delle  loro  aspettative  ecc.; inoltre, ci sono regole precise di costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò  che si può comunicare con un dato  enunciato varia enormemente con il variare dei contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio di Charles Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e pragmatica.  Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica feconda.  Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle condi-zioni di  verità degli enunciati  svolga un  ruolo essenziale anche  quando sono  coinvolti fattori  che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo  2 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi.  Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi  sono  “costituenti  psichici”.  Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso comune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingente.  5 stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi sono “costituenti  psichici”. Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagine vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini.  (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingente. Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa,  e quindi che P  ha senso, solo se fossimo sicuri che  C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV) Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.  Devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio.  NB. In questo ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa consta appunto degli oggetti”.  La proposizione (I) non è dunque un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente analizzate.  Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.  Vediamo  ora cosa Wittgenstein  sostiene  riguardo  le  proposizioni complesse. La  sua  idea  è  che  le proposizioni  complesse  siano  funzioni  di  verità  delle  proposizioni  elementari  che  figurano  come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione, disgiunzione, condizionale…).  Per visualizzare il modo in cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti, Wittgenstein propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole di verità’. Tavola di verità della negazione:  P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1). Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione (inclusiva):  Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici. Per Frege ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i connettivi non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi.  A queste considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la concezione wittgensteiniana della logica.  Né Frege né Russell avevano saputo spiegare  che cosa contraddistingue una proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al valore di verità di una pro-posizione  complessa  come  determinato  dai valori di verità dei  suoi  costituenti  elementari,  si  può constare che ci sono due casi limite: quello in cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’.  Ciò che Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni.  Avevamo detto che il senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle  proposizioni complesse questa nozione di  senso non  può essere  applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di  verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP QTTTTFTFTTFFF 7  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO” di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA E’VERA(alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es: l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI  NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morri s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI: studia segni in quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  - conversazione = ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di mezzo   2. QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE = cose pertinenti   4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna + alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE  D. es: Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  -conversazione = ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo   QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE = cose pertinenti    .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato = riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York  *descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione=  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam FREGE, “SENSO E SIGNIFICATO”; ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE e INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K VERBI DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enunciate  quindi non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2. Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA che riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattere che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si avvnga a massime sotto quattro categorie conversazionali (alla funzioni di Kant): CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE: dire cose perttnenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo. parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.


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