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Wednesday, July 27, 2011

Grisotto

Luigi Speranza

Il merito di Erberto Paolo Grice (inglese, 1913-1988) sta nell’aver considerato la comunicazione come un processo inferenziale in cui l’ascoltatore
deve invece ricostruire il significato del parlante basandosi non tanto su ciò che il parlante ha detto, quanto piuttosto su ciò che aveva intenzione di dire.

Un enunciato non è quindi la
codifica di un messaggio, ma un indizio che il parlante intenzionalmente offre al suo interlocutore,
che parte da lì per costruire l’interpretazione del significato del parlante.

Dunque,
a chi viene dopo Grice, non resta che gestire i suoi tre “lasciti” più impegnativi (p. 11):

a) la comunicazione come espressione e riconoscimento di intenzioni e come

b) comportamento cooperativo razionale guidato da certi standard (Principio di Cooperazione e massime
conversazionali); e infine

c) la distinzione tra ciò che il parlante dice e ciò che implica
con l’uso di un determinato enunciato.

È dalla discussione dell’eredità di Grice che si apre un primo interrogativo che più volte riemerge nell’analisi delle varie posizioni teoriche successive: quanto Grice è un difensore del modello del codice e quanto è invece un suo acerrimo nemico?

Da una parte si potrebbe
dare ragione a leggere Grice come “in tutto
e per tutto un teorico del codice” (cit. a p. 32): ciò che è detto a livello esplicito è per Grice
largamente determinato dal significato convenzionale dell’enunciato, perché processi inferenziali
intervengono solamente per determinare i riferimenti ed eliminare eventuali ambiguità.

Il ruolo delle massime conversazionali è invece confinato nell’ambito di ciò che è
comunicato implicitamente.

D’altra parte Bianchi rimprovera più volte ai teorici della pertinenza di non riconoscere abbastanza il debito del loro modello
inferenziale nei confronti di Grice e, più in particolare, di non avere compreso appieno la
natura del Principio di Cooperazione, che si applicherebbe a qualsiasi attività collaborativa,
anche alla determinazione di quanto è detto esplicitamente.

Eppure la problematicità
dell’alternativa fra le due interpretazioni di Grice come “teorico del codice” e come “teorico
dell’inferenza” viene riconosciuta dall’autrice.

Più in là nel testo, infatti, Bianchi considera
l’ipotesi che l’interpretazione che lo identifica come un teorico del codice possa essere
stata incoraggiata dal fatto che “Grice, che pure intendeva scardinare la visione tradizionale
del linguaggio rappresentata dal modello del codice, ha in realtà fornito gli strumenti
teorici per difenderla” (p. 74).

La posizione di Grice è infatti compatibile con la tesi letteralista per cui la determinazione
del contenuto esplicito dell’enunciato avviene tramite il processo di saturazione e di disambiguazione
a partire da uno schema di proposizione che corrisponde al significato convenzionale
dell’enunciato (proposizione minimale).

Il senso implicito dell’enunciato si ottiene
tramite processi pragmatici di arricchimento, transfert, ed infine dalle implicature
conversazionali. Tuttavia i neo-griceani hanno sostenuto che le implicature non dipendono
dalla proposizione minimale, ma da una proposizione già “arricchita” da processi pragmatici.
Ritenendo che processi di tipo pragmatico intervengano anche nella determinazione
del senso esplicito, introducono dunque un ulteriore livello di senso (proposizione massimale
o implicitura) che si ottiene dalla proposizione minimale in seguito alla derivazione
delle implicature generalizzate e che porta al senso implicito attraverso la derivazione delle
implicature particolarizzate.

L’obiettivo dei neo-griceiani è quello di isolare il livello propriamente
semantico, ossia la proposizione minimale, dalle “letture generali e sistematiche”
che si basano su assunzioni condivise e conoscenze enciclopediche di come il linguaggio
è usato normalmente e che riguardano invece la proposizione massimale.

Tuttavia
proprio questa distinzione fra proposizione minimale e massimale appare fuorviante agli
occhi dei post-griceani, convinti che la proposizione minimale non corrisponda “alle nostre
intuizioni pre-teoriche su «ciò che è detto»” (p. 88).

Un ulteriore motivo di dissenso dei neo-griceiani rispetto a Grice sono le massime conversazionali,
ritenute inadeguate sia dal punto di vista descrittivo che esplicativo e sostituite
ora da tre euristiche aventi la doppia prospettiva parlante/destinatario, ora dalla
sola Massima di Qualità unita a due principi orientati a minimizzare lo sforzo del destinatario
e del parlante.

Inoltre, le regole di inferenza non
vengono mai veramente esplicitate nel processo comunicativo: quando comunichiamo non
facciamo quasi mai affidamento sulle lunghe catene inferenziali previste nell’ottica griceana
classica.

In un’ottica pienamente
modularista, si interrogano sulla plausibilità psicologica di alcune tra le più interessanti
ipotesi di Grice, mettendo letteralmente “alla prova dei fatti” la sua teoria. A tal proposito
Bianchi ribadisce tuttavia che “i percorsi argomentativi proposti da Grice non hanno
l’ambizione di rispecchiare i processi psicologici effettivi di comprensione: i due progetti,
processamento psicologico e giustificazione ideale o razionalizzazione, devono essere tenuti distinti” (p. 44). Riferendosi ad un testo di Marina Sbisà pubblicato recentemente, Detto
non detto. Le forme della comunicazione implicita [2007], l’autrice sottolinea il carattere
normativo e non psicologico delle implicature griceane, che si rifanno ad una concezione
argomentativa della razionalità (riguardante i fini dei nostri comportamenti linguistici o
meno), più che ad una concezione strumentale (riguardante i mezzi utilizzati dal nostro apparato
cognitivo), più propria dei teorici della pertinenza (p. 211).

Cosa succede quando si passa dai modelli teorici a come i parlanti in carne ed ossa comunicano
e si comprendono nei reali contesti d’uso? La teoria della pertinenza vuole rispondere
precisamente a questa domanda. Due sono le nozioni che definiscono il principio di
pertinenza: la nozione di effetto cognitivo e la nozione di costo di elaborazione. Un proferimento
verbale è pertinente se produce un effetto cognitivo positivo, che modifica la nostra
rappresentazione del mondo. Tanto maggiore sarà la pertinenza quanto maggiori saranno
gli effetti cognitivi ottenuti e minori gli sforzi di elaborazione richiesti (p. 111).

Secondo
Bianchi, più critiche possono essere mosse a questa prospettiva: non solo sembra
molto difficile misurare la pertinenza degli stimoli, ma sembra anche poco plausibile che ci
sia un solo modo per soddisfarla! Inoltre, la teoria della pertinenza “sembra concentrarsi
esclusivamente sugli effetti in termini informativi o cognitivi, senza considerare […] altri
tipi di benefici – sociali, o in termini di cortesia – che sono cruciali nelle nostre interazioni
comunicative” (p. 112).
I principali limiti del modello del codice risiedono nella mancata distinzione fra “significato
dell’enunciato” e “significato del parlante” e nel presupposto della coincidenza
dell’informazione del pensiero di chi parla e di chi ascolta. Molti dati fanno pensare che la
comunicazione non avvenga in questo modo, che l’elemento pragmatico sia onnipresente
nelle situazioni comunicative a tal punto che nella maggior parte dei casi l’intenzione del
parlante va oltre la struttura semantica dei suoi proferimenti. Se per Grice la cooperazione
comunicativa e le massime facevano capolino soprattutto là dove si dava una implicatura
conversazionale, il processo di comprensione inferenziale guidato
dalla pertinenza è onnipresente e onnipervasivo, e va esteso anche al livello esplicito,
là dove si dà un’esplicatura. La proposizione espressa non sarebbe allora quella minimale,
ma quella massimale, completata dai processi di arricchimento e transfert. A questo proposito,
Bianchi discute uno degli aspetti più recenti e innovativi della teoria della pertinenza:
la pragmatica lessicale, ovvero lo studio di quei processi pragmatici di modulazione lessicale
(“narrowing” e “broadening”) che permettono il passaggio dalla forma logica al significato
esplicito. La forma logica è una rappresentazione concettuale incompleta, risultato di
un modulo semantico di decodifica linguistica, e costituisce l’input di un modulo pragmatico
dal quale ricaviamo dei concetti ad hoc o occasionali [Barsalou 2008], legati ad un determinato
contesto e ad un determinato compito. Questa spiegazione del significato esplicito
dell’enunciato permette di abbandonare la distinzione tradizionale tra usi letterali e usi
figurati del linguaggio, perché la stessa “letteralità” non è altro che “il risultato di un processo
di costruzione di un concetto ad hoc” (p. 146).
Ma come può l’interlocutore capire il significato del parlante se non coincide con il significato
delle sue espressioni? Quali dispositivi cognitivi permettono di “leggere” che cosa ha
in mente? L’autrice mostra, ricollegandosi anche alle ricerche empiriche di Simon Baron-Cohen, Adam Leslie e Uta Frith, che una risposta interessante a queste domande viene dallo
studio delle patologie della comunicazione e, in particolare, dall’autismo. La capacità di
leggere la mente gioca chiaramente un ruolo molto importante nello sviluppo sociale, emotivo
e comunicativo del bambino poiché consente di comprendere nella loro interezza e nella
loro complessità di attori umani gli altri individui. Con “Teoria della Mente” ci si riferisce
proprio a quel complesso insieme di competenze identificabile con la comprensione intuitiva
che le persone possiedono rispetto alla mente e agli stati mentali (propri e altrui) e
all’abilità di prevedere il comportamento umano sulla base di tali stati. Essa affonda le sue
radici nella psicologia ingenua o del senso comune: l’insieme di idee e pensieri che gli esseri
umani sviluppano in relazione alla propria mente e alla mente degli altri, e in particolare
agli stati mentali interni, più o meno complessi, quali desideri, emozioni, credenze e intenzioni,
come principali cause del comportamento manifesto [Marraffa-Meini 2005].
Se per Grice la comunicazione è il risultato di una “lettura della mente” a livello personale,
i teorici della mente ritengono che sia largamente determinata da meccanismi cognitivi inconsci
e automatici a livello subpersonale. In una prospettiva massivamente modulare,
hanno recentemente proposto di postulare un meccanismo specificamente dedicato alla
comunicazione, un sotto-modulo interno al modulo della Teoria della Mente, piuttosto che
un modulo generico come sostengono Bloom e Tomasello. Quanto è plausibile l’idea della
modularità della pragmatica? Per l’autrice ci sono buone ragioni per sostenere la necessità
di un meccanismo specifico, data la complessità dei livelli metarappresentazionali richiesti
dalla comunicazione. Tuttavia alcuni dati clinici sembrano andare contro l’esistenza di dissociazioni
fra la capacità generale di lettura della mente e quella di comunicazione inferenziale,
che sarebbero invece prove utili a stabilire la modularità della pragmatica.
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Francesca Ervas – Recensione di C. Bianchi, Pragmatica cognitiva
Periodico On-line / ISSN 2036-9972
Il contestualismo è infine vincente – a parere di Bianchi – rispetto alle altre prospettive per
almeno tre motivi: innanzitutto, il fenomeno della sottodeterminazione semantica non può
essere colmato con la sola risoluzione degli elementi di ambiguità o di indicalità, siano essi
espressi in superficie come sostengono i minimalisti, o nascosti nella forma logica della
frase come vorrebbero gli indicalisti. In secondo luogo, è più economico ipotizzare un solo
sistema responsabile sia dell’attribuzione della proposizione completa sia della derivazione
delle implicature conversazionali. In terzo luogo, la prospettiva contestualista assegna alla
proposizione espressa delle condizioni di verità intuitive, rispettando così le intuizioni semantiche
dei parlanti che partecipano all’incontro comunicativo: “comprendere un enunciato
dichiarativo significa sapere quali stati di cose lo renderebbero vero, sapere in quali
circostanze concrete esso sarebbe vero” (p. 184). Inoltre, la teoria della pertinenza, alla ricerca
di una conferma empirica, può portare a suo favore dei risultati sperimentali che dicono
che i tempi di elaborazione di enunciati contenenti usi figurati del linguaggio, come
le metafore, non sono più lunghi di quelli dovuti alla lettura e alla comprensione di enunciati
letterali. Non ci sarebbe dunque un’elaborazione di default che parte dal significato
letterale per arrivare al senso implicito: l’elaborazione pragmatica avverrebbe già al livello
dell’esplicito, mettendo in crisi la nozione stessa di proposizione minimale e di “letteralità”.
Tuttavia il contestualismo è andato incontro anche a severe e condivisibili critiche, rivolte
in particolare contro i pertinentisti, spesso poco disposti – come riconosce giustamente
l’autrice – al confronto con prospettive alternative. In particolare, è la stessa nozione di
pertinenza a non essere chiara: i teorici della pertinenza dovrebbero spiegare innanzitutto
come avvenga il calcolo dei benefici a fronte dei costi cognitivi, calcolo costoso da un pun-
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Francesca Ervas – Recensione di C. Bianchi, Pragmatica cognitiva
Periodico On-line / ISSN 2036-9972
to di vista delle risorse cognitive. Inoltre, i due principi – cognitivo e comunicativo – attraverso
cui viene formulata la nozione di pertinenza sembrerebbero ineludibili, impossibili
da violare. Ciò renderebbe infalsificabile la teoria della pertinenza: un grave limite per una
teoria che pretende di essere empiricamente controllabile. Si rimprovera ancora, al contestualismo
in genere, di utilizzare lo stesso genere di soluzione per fenomeni linguistici
molto diversi tra loro, limitandosi a fornire una spiegazione non di tipi di enunciati, ma di
occorrenze di enunciati, con una conseguente perdita di potere esplicativo. Rimane poi ancora
controverso il concetto stesso di inferenza, estesa a tutti i fenomeni pragmatici nella la
teoria della pertinenza, riservata solo alle implicature conversazionali per altri teorici come
Récanati, secondo il quale i processi di saturazione e di arricchimento libero sarebbero invece
di natura associativa.
Nonostante le aporie e le difficoltà dette, il lettore è portato comunque a riconoscere nella
teoria della pertinenza una “spiegazione elegante ed unitaria” di alcune delle maggiori questioni
della filosofia del linguaggio contemporanea. L’autrice, come un detective intento a
seguire le piste più plausibili, guida il lettore attraverso un percorso argomentativo che è
lungi dall’essere una disputa terminologica sul confine tra semantica e pragmatica o una
questione di “stipulazioni”, come sostiene Récanati. Alla fine del testo, Bianchi ritorna allora
alla domanda iniziale sull’uso letterale (e non) del linguaggio, un mito della filosofia
del linguaggio, la cui analisi ha agli occhi dell’autrice “il grande pregio di proporre un attento
esercizio di analisi concettuale su nozioni − «condizioni di verità», «esplicito», «significato
letterale» − spesso date per scontate, e che celano invece veri e propri grovigli teorici”
(p. 213).
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Francesca Ervas – Recensione di C. Bianchi, Pragmatica cognitiva
Periodico On-line / ISSN 2036-9972


BIBLIOGRAFIA


Barsalou L.W. (in press), “Ad hoc Categories”, in Hogan P.C. (ed.), The Cambridge encyclopedia of the language sciences, Cambridge University Press, New York. Disponibile
all’indirizzo web:
http://psychology.emory.edu/cognition/barsalou/papers/Barsalou_entry_in_press_ad_hoc_
categories.pdf

Bianchi C. (ed.) (2004),
The Semantics/Pragmatics Distinction, CSLI, Stanford.


Marraffa M., Meini C. (2005), La mente sociale. Le basi cognitive della comunicazione,
Laterza, Roma-Bari.

Preyer G., Peter G. (eds.) (2005), Contextualism in Philosophy: Knowledge, Meaning, and
Truth, Oxford University Press, Oxford.

Preyer G., Peter G. (eds.) (2007), Context Sensitivity and Semantic Minimalism: New Essays
on Semantics and Pragmatics, Oxford University Press, Oxford.

Sbisà M. (2007), Detto non detto. Le forme della comunicazione implicita, Laterza, Roma-
Bari.

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