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Tuesday, July 12, 2011

Guazo e Grice: l'arte della conversazione

Luigi Speranza

Quando la sedicenne Pimentel Fonseca fu cooptata nell’Accademia dei Filaleti, appena poco prima di esserlo addirittura nell’Arcadia, si dice fosse investita dell’onore nel corso di un ricevimento a Palazzo Serra di Cassano.

Il salotto era luogo deputato alla conversazione, ai dialoghi, agli incontri di vario genere.

Come i caffè, era allora l’equivalente della agorà per l’elite che aspirava a preziose discussioni.

Così immagina Striano il fuggire della fanciulla Eleonora, emozionata, appena ricevuto l’alto onore:

“Finalmente libera, si precipitò verso Sanges, il quale le sorrise. Anche Mariangela la salutò. Lui generosamente le pilotò al gruppo delle dame che gustavano sorbetti siciliani dai colori
bellissimi.

- Mia cara – esclamò Maddalena Serra – vi siete finalmente decisa ad abbandonare le Muse?
Avrete le labbra asciutte e il gelato ci vuole. Mon trésor. – sorrise a Mariangela – Toi aussi tu as
décidé d’abandonner Orphée? Un sorbetto per rinfrescarti il cuore -.
Le altre continuavano a ridere intorno a Chiara Spinelli. In un angolo vide Pagano, pallido, teso,
che non cessava di fissare la leggiadra principessa. Giulia Carafa esplose, la voce ghiotta di bella
rossa opulenta: - Dicci la verità, Chiaretta. Le insegnerai davvero proprio tutto quel che tu sai? -

- Elle n’aura pas besoin de maitresse pour certaines choses! – insinuò la duchessa di Popoli” 1

Le chiacchiere delle dame riguardavano nientemento che la Regina Maria Carolina, che i
cortigiani aspiravano a giudicare e forse ad ammaestrare, sperando nel suo favore per il
progresso: e pareva ce ne fossero le premesse, in quel 1768! Tra l’alto rango dei cortigiani della
cultura salottiera del ‘700 e la magia della pagina di Striano, possiamo dubitare di un simile
esempio letterario d’una conversazione ben tenuta?

Conversando, nel farsi gruppo di pochi che
poi si riapre al discorso generale di tutti, si poteva parlare di se stessi, confessare passioni,
tessere trame; e poi, tornando al discorso più ampio, scambiare informazioni di politica e
cultura.
1 F. STRIANO, Il resto di niente, Loffredo 1995, pp. 54-5. 2
Eppure dove si studiava metodicamente di educare alla conversazione, al corretto ragionare civile
che intreccia il rapporto tra gentiluomini e gentildonne, e perciò si stabilivano regole, il brano citato
sarebbe potuto andare in esempio di una conversazione scorretta.

*******************************************
Nel St. John College di Oxford, ad esempio 2,

dove la conversazione tra studenti a cena

era in uso e sollecitata ancora negli anni 1950,

si ricorda che era proibito l’uso di più

di 5 parole straniere.

In noltre occorreva non
parlare di lavoro o di argomenti comunque ristretti, né fare nome di donne o lanciarsi in parafrasi
che indulgessero al chiacchierio pettegolo.

Altrimenti s’incorreva nello sconcing, consistente
nell’offerta di birra a tutta la tavolata per farsi perdonare l’errore.

Simili scorrettezze si riteneva
impedissero il fluido procedere della conversazione per le incomprensioni ed esclusioni di alcuni,
per l’esibizione di sentimenti personali che zittiscano altri. Se si impedisce il libero scorrere
alternativo di tesi ed interventi, si rompe l’armonia del consesso.
Certo da queste regole emerge una conversazione paradigmaticamente inglese, necessariamente
ristretta alle frasi fatte ed al tempo che fa: mostrando nello spaccato di un tessuto linguistico
comune le abitudini di una comunità di parlanti. In quel semplice essere sociali, si fanno confluire
gli interessi alla superficie: donde si può procedere verso il profondo; intanto, si agisce
comunitariamente, affidandosi al logos.
E non contano solo le parole. Prendiamo un brano di Zola:

“Tanto più, diceva seccamente Clémence, che l’operaio non è maturo e deve essere diretto”.

Lei
parlava raramente. Quella ragazza alta e seria, unica donna tra tanti uomini, aveva un modo
professorale di ascoltare chi stava parlando di politica. Si appoggiava al tramezzo inclinando la
sedia, beveva il grog a piccoli sorsi, e guardava gli interlocutori aggrottando le sopracciglia e
dilatando le narici, con approvazione e disapprovazione completamente mute, ma che dimostavano
che capiva, che aveva idee molto precise sugli argomenti più complessi. A volte si arrotolava una
sigaretta, soffiando poi sottili sbuffi di fumo dagli angoli delle labbra, e assumendo un’espressione
più attenta. Sembrava che la discussione si svolgesse davanti a lei, che, alla fine, avrebbe distribuito
i premi. Era convinta di conservare il suo ruolo di donna non dando mai il suo parere e non
perdendo il controllo come gli uomini”3.

Clémence partecipa alla conversazione col suo silenzio, con gesti osservati dagli altri parlanti ed
attentamente valutati: è una effettiva partecipazione al discorso comune. E’ spesso il modo dei
partecipanti eminenti, meglio conosciuti ed osservati, avari di interventi ma non alieni al prender
parte, autorevolmente. Oltre alla complicazione delle parole, alle frasi ed alle modalità da evitare /
adoperare, emerge la centralità del ruolo dei silenzi. Essi non sono solo partecipazione di tipo
speciale, sono anche attesa del turno, dell’opportunità data a ciascuno di prender parte, elemento

2 P. BURKE, L’arte della conversazione, Il Mulino, Bologna 1987 (1993).
3
essenziale perché quel parlare possa essere definito conversazione e non conferenza, ad esempio.
Silenzi, parole, regole, turni, sono tutti binari in cui si attua la comprensione che assicurano il
decorso corretto della comunicazione.

Studiare la conversazione, perciò, può essere una ricostruzione di storia della cultura come navigazione di superficie, ambientarsi romanzesco in una comunità.

Se la forma è inseparabile dal
contenuto, né il recto senza il verso di una pagina, secondo l’immagine di Saussure, alla storia di
superficie si potrà accompagnare la profondità. Diceva Nietzsche che “la coscienza in generale si
(è) sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione4, è questo a rendere
necessaria quella continuità che rende possibile la comunicabilità. Già da ciò s’intende la
configurazione onniramificata di quella particolare forma di comunicazione che è la conversazione,
che è il problema della sua analisi.

Tutto quel che è discorso è parte di una conversazione, ad usare il termine in modo indeterminato.

Dall’immagine rinascimentale della conversazione del micro e del macrocosmo al soliloquio di un uomo con i suoi autori5. Kuhn, Lakatos, Feyerabend, Rorty hanno definito filosofia e scienza una
sorta di conversazione ininterrotta. Mentre già definirla come ambito del discorso quotidiano
(Goffman 1981) si riferisce ad una complessità difficilmente dominabile: trovarvi delle regolarità
che fungano da regole comuni risulta superiore anche al robusto respiro delle filosofie del
linguaggio (Putnam 1975), conducendo a definizioni negative, come gli speech acts di Foucault o
l’ambito della conoscenza comune di Gomperz (1982). Perciò si è andati alla divisione per generi
(Reichman 1985), allo sforzo di codificazione. Via che rende praticabile l’analisi, ma ostacola la
tenuta di quell’insieme ricco di unità verbali e non verbali che è l’oggetto del discorso. Si propone
un circolo vizioso tra l’analisi e la completezza necessaria al fondamento di essa. Un problema su
cui torneremo fra breve, dopo aver tentato una sommaria definizione del nostro oggetto6.
Se la teoria della comunicazione studia le modalità della trasmissione dall’emittente al ricevente, la
conversazione ne è parte: in specie lo è della pragmatica (Morris 1946, Habermas 1981 -- vide Speranza, "Un Grice tedesco").

Per Watzlawick “tutti i comportamenti, non solo l’uso di parole, sono comunicazione
(il che è diverso dal dire che il comportamento è solo comunicazione), e dal momento che non
esiste un non-comportamento, è impossibile non comunicare"7. L’osservazione procede con un
3 E.ZOLA, Il ventre di Parigi, Roma 1997 p.138 (1873 in feuilleton e in volume).
4 F.NIETZSCHE, La Gaia scienza, afor. 354.

5

J.L.BORGES, Conversazioni, Bompiani 1986 (1985).

6 Una definizione in cui facciamo convergere l’esposizione storica delle teorie,

cfr.

John WILSON, On the boundaries of conversation, Pergamon Press, Oxford New York 1989 e T.TAYLOR – D. CAMERON, Analysing conversation, ivi
1987.
7 P.WATZLAWICK – J.H.BEAVIN, Alcuni aspetti della comunicazione, in P.W – J.H. WEAKLAND, La prospettiva
relazionale, Astrolabio, Roma 1978 (1976), p. 58.
4
approccio sistemico, evitando di accentare il rapporto tra intenzione e prassi, per soffermarsi
sull’emissione – ricezione – feedback, disegnando una pragmatica che è visione dell’interrelazione
dal punto di vista dell’esplicito passaggio di informazioni verbali e non verbali: che qualifica una
nuova psicologia, ma interessa in genere la teoria della comunicazione8.
Tra gli elementi della comunicazione individuati da Jakòbson (1971, contatto, messaggio, codice,
contesto), si può notare come nella conversazione l’elemento del messaggio sia presente solo in
relazione al modo della sua articolazione (turni/interruzioni)9. Pertanto si avvicina al circuito
seduttivo, che per Jakòbson si differenzia dalla comunicazione qua talis per l’assenza delle funzioni
metalinguistica e referenziale, legate al messaggio. Così le funzioni presenti si riducono ad
espressiva, fatica, poetica e conativa. Anche conativa, perché se è osservazione comune
l’impossibilità di comandi espliciti nella conversazione, c’è un’implicita natura di comando nella
costituzione delle persone: ciascuno impone agli altri di assumere le informazioni, comportamenti e
codici forniti come costituzione di un soggetto (Bateson 1951), per affermare il pari diritto
nell’interrelazione conversazionale.
La vicinanza al circuito seduttivo indica la qualificazione del discorso, l’essere i conversatori
interessati in primo luogo all’instaurazione di una comunità. Difatti lo scambio d’informazione può
avvenire anche nell’infrazione alle regole, non la conversazione, che vi si lega in modo essenziale.
La teoria della conversazione è l’osservazione del rapporto tra gli allocutori secondo regole di volta
in volta diverse. Esse si comportano come leggi, ma non sono leggi di natura, perché violabili e non
predittive. Non sono leggi giuridiche, perché non codificate. Non sono norme perché non sono né
scritte né comunicate – con grave danno di chi non le intende se non all’interruzione della
comunicazione: difatti Garfinkelcerca di determinarle studiando le rotture, in una definizione
negativa. Sono inoltre molto più variabili delle regole di qualsiasi gioco. Eppure sono conosciute e
rispettate dalla comunità dei parlanti. Una comunità di volontari, non costretta da ragioni di
appartenenza genetica o sociale, una sorta di Repubblica delle Lettere in formato culturalmente alto
o anche minuscolo: che però nella conversazione lega non solo i pochi eletti ma l’intera umanità.

D.D. Jackson dice chiara la difficoltà di definire le consuetudini riscontrate nella comunicazione
familiare: “definiamo regola, ma solo per mancanza di un linguaggio adatto, una formula per una
relazione”10 un quid pro quo, l’emergenza visibile di un accordo interpersonale sotterraneo. Ci si
può riferire ad esse come anomiche, per indicarne la difformità dall’essere legge, senza che venga
meno la capacità di farsi rispettare: che anzi si afferma più della volontà del legislatore, più della
8 P.WATZLAWICK – J.H.BEAVIN – D.D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma
1971 (1967).
9 Cfr. (anche per i rimandi di bibliografia) C. KERBRAT-ORECCHIONI,Universali e variazioni culturali nei sistemi
conversazionali, in C.GALIMBERTI (a cura di), La conversazione, Guerini, Milano 1992.
10 D.D.JACKSON, Lo studio della famiglia, in La prospettiva relazionale,cit.
5
volontà della natura - che prescriverebbe costumi diversi da quelli che ognuno adotta. Perché come
dice Wittgenstein, nominare è iniziare l’addestramento, lo sforzo di perlustrazione che è una
ricerca11.

La conversazione è un evento del linguaggio caratterizzato da una tipica formalità / informalità; il
suo essere sapere non specialistico la caratterizza come informale, ma si realizza nel contesto di
leggi anomiche, dunque comporta la formalità. Se l’educazione è agire strategico e l’informale agire
comunicativo, il loro punto d’incontro sarà nel mondo della vita che per Habermas12 è l’incrocio dei
molteplici livelli dell’agire, dove il nuovo si appoggia nel contesto del senso comune. La formalità
del percorso non è teorica ma pratica, il linguaggio si caratterizza come azione dalle valenze
etiche13. Conversare più che parlare è agire (Austin 1962), un ponte di passaggio tra il soggettivo e
l’oggettivo, luogo di combinazione di competenze specifiche in un’ottica di confronto, utilizzando
anche saperi non logici, ma permanendo in un sapere pragmatico che non nega la diversità ma la
utilizza in un confronto regolato. La creazione del vocabolario in uso nella comunità dei parlanti
diventa allora, più che un modo di espressione, una realizzazione14.
Occorre perciò determinare la caratteristica che fa di una azione comunicativa una conversazione.
Essa è la turnazione, l’intervento mutuo dei partecipanti, garantiti in tale diritto dalle leggi
anomiche - ad esempio il discorso della comunità ristretta evita gli argomenti che possano rendere
dispari gli allocutori e turbare il turno. La forma della conversazione ha il fondamento essenziale
nell’eguaglianza dei diritti dei parlanti, tanto che si interrompe quando viene meno. Si può prendere
l’esempio da ogni conversazione in cui intervenga un comando o un intervento d’autorità. Meglio
vale ricordare il periodo d’oro della conversazione, quella società del ‘700 che nei Salotti, nelle
Accademie, nei Caffè praticò quell’eguaglianza dei comuni ragionari, che aveva un esplicito,
profondissimo, significato etico politico. Gli ideali illuministici correvano nelle società colte con la
forza del temporale, generando conversazioni di ogni tenore, che avevano visto le loro prime
consistenti affermazioni nelle atmosfere raffinate dei salotti.
“Là conversavano insieme, in un clima di eguaglianza, civiltà, tolleranza e galanteria, uomini e
donne di rango e di temperamento più diversi, delle opinioni più oposte, dalle vocazioni più
differenti, dai talenti in apparenza i meno simili…. Società letterarie, la lusinga di una repubblica
delle Lettere inedita sin’allora, che comprendeva nei suoi ranghi eruditi e filosofi, poeti e sapienti,
calvinisti e cattolici, uomini e donne del gran mondo letterato”.

11 L.WITTGENSTEIN, Ricerche logiche, Einaudi, Torino 1967, p.23.

12 Cfr. J.HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino. Bologna 1986.

13 Cfr. K.O.APEL, Etica della comunicazione, Jaka Book, Milano 1992.

14 A. M. MARIANI, Educazione informale tra adulti, pedagogia e conversazione,
Unicopli 1997
6
E’ il salotto di Mlle de Scudery, nella Parigi di Foucquet più che del Re Sole. Intorno a Foucquet si
riunivano, in uno spazio letterario dominato dall’Astrée e dagli Essais di Montaigne, “banchieri e
uomini d’affari, diplomatici, faccendieri dai difficili intrighi, trovando anche così una distensione e
una palestra dove esercitare il loro spirito sui soggetti più interessati. Parimente i filosofi e sapienti
perseguitati dall’Università, condannati dalla Chiesa, ignorati dalla Corte, trovavano ascolto attento
e un’accoglienza favorevole in questa informale Accademia di Parigi, che non manca di naso per
riconoscere i talenti veri né di gusto di festeggiare le novità”15.
Era la nascita di un’opinione pubblica distinta dalle Corti, segnata da una vivacità culturale che
dava nascita alle Accademie letterarie, alle prime associazioni politiche moderne: il che diveniva
evidente alla nascita dei giornali politici, nelle Rivoluzioni16. Salotti e Caffè insieme al profumo
hanno l’aura del nuovo tempo, sono l’immagine musicale, conversazionale, di quella “sfera di
privati riuniti come pubblico” che teorizzava Kant nel Conflitto delle facoltà descrivendo l’uso
pubblico della ragione, slegato dall’aderenza a sette e poteri costituiti, sciolto da ogni adhocness
(ideologia). Vi si manifesta la responsabilità di uno “studioso davanti all’intero pubblico dei
lettori”, davanti ad una comunità che non si definisce “dalla sua appartenenza istituzionale”,
mirando all’universale17. D’altronde, le chiacchiere su Kant lo dicono conversatore attento a
scegliere con cura un numero contenuto di persone per gli inviti a cena, così da poter sviluppare un
discorso unitario; riunioni per cui preparava appunti di argomenti, nel timore di dimenticare la
sequenza del discorrere. Nel simposio si celebra la discussione tra pari, come comunità degli amici.
L’eguaglianza dei diritti dei parlanti (non dei parlanti ut sic) è il criterio stesso che decide la
qualificazione di un certo discorso come conversazione. Indica l’assoluta predominanza della
comunione nel logos senza premesse autoritarie. La presenza di comandi, è considerata negazione
della qualificazione. La comunità dei parlanti si costituisce nell’uso di luoghi topici a tutti noti, che
si rivelano struttura di interrelazione atta a produrre nuove conversazioni. Le regole comprendono
molte eccezioni, perché molto dipende dalla strategia iniziale, che genera nel comportamento di
conversazione la possibilità di chiusure che interrompano la procedura.
Sono possibili modelli di produzione diversi, diretti dai topici, che funzionano come direzioni
scelte a seguito di una procedura iniziale organizzando cornici subtopiche oppure topic drift, delle
procedure di deriva, che consentono al procedimento unitario, generalizzabile con le dovute misure
ad altri eventi del linguaggio, di assumere le diverse configurazioni specifiche. Molte delle
incomprensioni che conducono alla rottura della conversazione, all’errore di comunicazione, sono
dovute all’inavvertita deriva da una forma all’altra delle direzioni topiche.

15 FUMAROLI Marc, Le poéte et le roi, Jean de la Fontaine en son siécle, Edition de Fallois, Paris 1997, pp.195 e sgg.

16 G. RICUPERATI, Giornali e società nell’ancien régime 1688-1798, in La stampa italiana dal 500 al 700, Bari 1976.

17 R. CHARTIER, Le origini della Rivoluzione francese, Laterza 1991 (Duke University e Laterza), p. 26.
7
Simile unità nella molteplicità è analizzabile solo con una visione che sappia andare oltre l’analisi..
Si ricordi l’insoddisfazione di Habermas per la prospettiva della filosofia del linguaggio o di una
filosofia analitica nella descrizione della azione comunicativa: se si privilegia, come fa la filosofia
del linguaggio, il concreto delle espressioni e le intime relazioni di esse, il vero rischio è la
sopravvalutazione della dimensione soggettiva, di intima coerenza, il “modello atomistico di azione
di un attore solitario trascurando i meccanismi di coordinamento dell’azione, mediante i quali si
stabiliscono relazioni interpersonali”18. Insomma, senza l’analisi determinata non si repericsce il
materiale di osservazione, ma solo con l’analisi si perde di vista l’oggetto nel suo insieme. E’ la
solita difficoltà del circolo vizioso: su cui va ripresa la soluzione dell’ermeneutica.
1.4 Il circolo ermeneutico
Gadamer ha insegnato che l’istanza filologica non è in contrasto con l’apprendimento dell’intero,
ma anzi lo consente e sostiene, se il dettaglio sottende l’intero consentendo la comprensibilità di
entrambi solo nell’interrelazione. Il riflesso di un discorso nell’altro è quel consente l’eco e
l’apertura della dimensione del testo nell’ermeneutica, divenendo interpretazione senza curialità.
D’altronde la teoria della conversazione si lega all’ermeneutica già nelle riflessioni di
Schleiermacher. Nel suo primo Discorso Accademico diceva:
“Né l’ermeneutica è semplicemente da limitarsi alle produzioni degli scrittori, giacché assai spesso
io mi sorprendo, nel mezzo di una conversazione, a compiere operazioni ermeneutiche allorché
non mi contento di un normale grado d’intendimento ma mi studio di accertare come sia avvenuto
nell’interlocutore il passaggio da un pensiero all’altro o allorché cerco di comprendere quali
vedute, giudizi e intenti abbian fatto sì che egli su un oggetto del discorso si sia espresso in quel
certo modo. Simili fatti, che certo ogni persona attenta ammetterà di avere a sua volta sperimentato,
mostrano credo con sufficiente evidenza che l’attuazione del compito alla cui teoria stiamo per
l’appunto applicandoci non si limiterà affatto a quello stato del discorso che la scrittura ha fissato
per l’occhio, sì invece che s’imporrà dovunque si tratti di cogliere pensieri, o serie di pensieri, per
mezzo di parole” 19. L’ermeneutica si esercita sul detto come su di un testo ed obbedisce alle stesse
regole. Fonda nell’intero partendo dal dettaglio.
“Confesso che io considero questo esercizio dell’ermeneutica nel campo della lingua materia e nel
rapporto diretto con le persone una parte essenzialissima del viver colto, e ciò prescindendo da tutti
gli studi filologici e teologici. Chi mai potrebbe frequentare uomini di alto intelletto senza sforzarsi
di udire tra le parole allo stesso modo che in uno scritto denso e ricco d’intelligenza si è usi leggere
tra le righe, chi vorrebbe giudicare una conversazione notevole, che in vari sensi può diventare pure
atto significativo, non degna di considerazione altrettanto vigile, e non porne in rilievo i punti più
18 J. HABERMAS, op.cit., p.379-80
8
vivi, non coglierne le interne connessioni, non seguire le sottili allusioni che contiene? “. Anzi forse
l’ermeneutica recuperata dall’ottica del conversare diviene più intuibile, raffrontabile a quei normali
giri di interpretazione in cui siamo continuamente presi nel vivere quotidiano, girando tra l’esplicito
e l’implicito, il detto ed il suggerito. Perciò “il pressante consiglio è di esercitare diligentemente
l’interpretazione di un colloquio per qualche verso notevole. Giacché la presenza immediata del
parlante, la viva espressione che testimonia della partecipazione di tutto il suo essere spirituale, il
modo in cui qui i pensieri scaturiscono dalla comunanza delle menti, tutto questo stimola, assai più
che non la solitaria considerazione di uno scritto isolato, a intendere a un tempo una serie di pensieri
come il prorompere di un momento vitale, come un atto che sta in relazione con molti altri anche
d’altra specie, e proprio questo lato è quello che nel commentare gli scrittori più si è soliti
sacrificare e anzi, il più delle volte, trascurare del tutto”. Osservare l’ermeneutica nella
conversazione è andare oltre la pagina scritta, verso il confronto vis à vis, restituire il tono orale al
detto e confrontarsi col parlante. Sottolineando lo spirito di comunità che è sotteso all’interpretare,
legarsi ad altro nella consistenza di una parola dà accesso alle interpretazioni possibili.
Schleiermacher pensa a tutte le armonie possibili alla conversazione, non pone limiti d’analisi. Si
riferisce all’intero, con quella leggerezza che gli proviene da una prospettiva non analitica. Simile
considerazione è indispensabile per decidere le direzioni: altrimenti, sarebbe come se si volesse fare
la storia di qualche cosa che ci si rifiuta di definire - si metterebbero assieme nello stesso elenco
diversi incompatibili, si vanificherebbe anche la banalità di una tassonomia.
Visione d’insieme che però nemmeno basta, Schleiermacher diceva nel 1819 che “non tutti i
discorsi sono in pari misura oggetto dell’interpretazione: alcuni hanno per questa un valore che è
pari a zero, altri un valore assoluto, i più stanno tra questi due punti (...). Valore pari a zero ha ciò
che è privo sia di interesse come atto, sia di significato per la lingua. Si parla perché la lingua si
conserva solo nella continuità della ripetizione, ma ciò che ripete quanto è già stato non è di per sé
nulla. Conversazioni sul tempo. Solo che questo zero non è il nulla assoluto ma solo il minimo,
giacché per esso si sviluppa il significante” 20. L’interpretazione è tanto più sostenuta in presenza di
quei valori metalinguistici che non rientrano nella conversazione: ma le conversazioni sul tempo, il
valore zero, valgono da sviluppo del significante, da creazione del vocabolario, da ricognizione
delle possibilità della lingua. La conversazione è il luogo dove si esercita un’interpretazione
complessa, limitata agli esercizi preliminari dell’informazione sulla lingua. Ma come parte del
percorso linguistico, risente di tutta la complessità della traduzione ed interpretazione del mondo
che si teorizzano nelle filosofie del linguaggio.
19 P.SZONDI, Introduzione all’ermeneutica letteraria, Einaudi, Torino 1992, pp.129 e sgg.
9

Nello sfondo i colori assumono la sonorità dello spazio che prosegue oltre il quadro, senza rientrare
nella cornice21. Ma chi pone la cornice e sceglie il protagonista, ha visto lo spazio intero, che lo
rende sfondo tra il visto ed il suggerito. Così, dietro il parlare conversazionale i tracciati indicati
sono necessari per la qualificazione del problema, che di volta in volta ne trae elementi. Così la
conversazione tra il micro ed il macrocosmo, le scienze come conversazione ininterrotta, la sfera
pubblica della ragione, l’ermeneutica. Così anche il conversare amoroso e il dialogo.
Già la bilateralità e l’esclusività del discorso esclude il conversare amoroso dall’essere una normale
conversazione; il numero dei partecipanti alla conversazione non è mai definito, ma resta essenziale
il riferimento kantiano di discorso aperto a tutti, nelle intenzioni degli attanti. Il discorso d’amore è
invece un codice di comunicazione bilaterale, in cui si ritraduce quel che la coppia ritiene
importante per stabilire una comunione profonda, un codice che tende ad intrinsecarsi alla vita
individuale in modo integrale: il che ne fa il rapporto comunicativo di livello più alto non perché
concerna tutto ma perché si fonda in una comunione del senso. Nella conversazione l’elemento
linguistico è solo uno dei cardini del percorso, l’altro è quello della creazione di un meccanismo
consensuale comunitario. Perché non sempre l’agire comunicativo è ricerca della concordanza su di
un tema, specie nella conversazione, che non è un incontro di lavoro. La si ricerca per sé stessa, e in
molti esempi la conflittualità regolata dà mordente agli scambi, consentendo che si eviti quel livello
zero che diceva Schleiermacher.
Tenere conto dei conversari amorosi consente di mettere a fuoco qualche elemento comune, cioè il
valore del tempo e della differenza. Il tempo è uno degli elementi del gioco amoroso, ma non è
tempo oggettivo ma un ritmo di scansioni, il succedersi di eventi. Non conta lo spazio temporale
convenzionale, ma la concatenazione che annoda la vita della comunità – la sua storia. Altrettanto
accade per la conversazione, dove non si è legati al conseguimento di un risultato, mentre è
essenziale la scansione successiva degli interventi che misura la vitalità dell’interesse degli
allocutori, la prosecuzione o la fine della conversazione.
La differenza è l’altra caratteristica essenziale comune, che pone l’incomunicabilità come
necessario fondamento della comunicabilità. Nell’amore, specie nell’amore romantico oggi
sociologicamente prevalente, è protagonista la sincerità, che porta incomprensioni e insieme lo
sforzo di superarle per sempre meglio definire l’intimità. L’elemento dell’informazione e
dell’elaborazione dell’informazione, la necessità dell’autodescrizione ed autoposizione del soggetto
in sé ed in rapporto all’ambiente diventano centrali. L’amore diventa il “trovare un senso nel mondo
di un altro“ mettendo in comune l’esperire e il progetto d’azione, pur senza perdere con ciò la
20 P.SZONDI precisa che si tratta del § II, p.82 sgf.
10
libertà, la “qualità di essere risultato di scelta autonoma, il valore espressivo di disposizioni durature
di colui che agisce” 22. Una incomunicabilità, dunque, che non viene spenta ma anzi richiesta come
base del rapporto: si ama finché ci si incuriosisce, finché non si vorrebbe integralmente omologare a
sé l’altro, perdendo il gusto di approfondirne la diversità.
Così nella conversazione, dove la difficoltà è spesso quella di trovare argomenti che possano
lasciare all’incomunicabilità di comunicare senza perdersi. A questo mira la scelta dell’argomento
di conversazione, che è bensì del tutto libera – si può conversare di tutto, con regole diverse – ma è
tale da generare le modalità del colloquio e le sue capacità di interessare. Se la scelta del rispetto
assoluto dell’alterità porta a privilegiare temi di discussione assolutamente indifferenti, la scelta
invece del contrasto può guadagnare nel rendere desiderato il riprendere della conversazione; e se si
rischia il fallimento per la colpa di ferire la sensibilità degli attanti, lo si rischia anche per
l’abbandono del campo dovuto alla noia. Nei diversi modelli di conversazione, dunque, vi sono
diverse possibilità di riuscita. Le conversazioni combattive
sono coinvolgenti, danno vitalità alle comunità dei parlanti. Scriveva la Pimentel Fonseca ad
Alberto Fortis nel 1785 a proposito di una sua idea appena detta: “ecco un soggetto di
conversazione, poiché, essendo stato deciso che non dovremo mai trovarci d’accordo, bisogna
trovare dei soggetti di conversazione, per i quali ci si possa grandemente contrariare, senza che
alcuna possa portare sulla veste alcuna offesa” 23. Riuscire a trovare un buon argomento è reperire
un tema capace di spingere al confronto senza portare all’effrazione della regola. Brilla chi è capace
di rispettare le regole spingendole al rischio, perché quel che si richiede è la differenza senza
omologazione degli attanti. Nell’amore e nella conversazione la parola fa da ponte tra
l’incomunicabilità e la comunicazione, la loro tensione si caratterizza come stimolo alla creazione
di complessi sistemi di interazione umana. Quando si crede che il ponte sia divenuto una strada
senza pericoli, una via dove si cammina senza trovare ostacoli, in realtà si è persa la differenza
dell’alterità e del rischio, si è entrati nella pace dei sensi, nella cecità alle ragioni dell’altro.
Le dimensioni della comunicazione si misurano con lo sforzo di superare il rumore e lasciar
preponderare il messaggio targhettizzato. E’ quindi fondante la consapevolezza della
incomunicabilità, e persino la si adopera metodologicamente nella dimensione del conferimento di
senso, dove la possibilità di ancorare più significati alle stesse espressioni diviene più che
arricchimento configurazione del testo comunicativo come simbolico. Un testo cioè che vive nella
dimensione della lettura e consapevolmente suggerisce più che asserire. La comunicazione si
cimenta con la differenza senza omologarla, servendosene per una superiore comprensione che
21 L.WITTGENSTEIN, Della certezza, Einaudi 1978: si rifaceva a tesi di G.E.Moore.
22 N. LUHMANN, Amore come passione, Laterza1985 (1982), pp.210-211.
23 E. URGNANI, La vicenda letteraria e politica di Eleonora de Fonseca Pimentel, La città del Sole, Napoli 1998.
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intrecci nella parola gli sviluppi possibili. Verso una configurazione ipertestuale del testo, che si
qualifica progressivamente. Senza diventare coerente, getta un ponte tra il detto e la possibilità del
dire, tra comunicazione ed incomunicabile. Nel simbolo e nell’ipertesto della differenza si prende
atto senza poterla né volerla vincere.
“Una conversazione potrebbe essere semplicemente questo, il tracciato di un divenire” dice
Deleuze, capace di creare, come la musica di Mozart, “un’evoluzione a-parallela, dunque
nient’affatto uno scambio”, ma “una ‘confidenza senza interlocutore possibile’, come dice un
commentatore di Mozart”24. Una confidenza senza interlocutore possibile è il soliloquio che non
conosce dimensione d’appartenenza (come l’uso pubblico kantiano della ragione) che si riconosce
in una evoluzione diversa ritrovandovi una somiglianza rivelatrice, ma a-parallela. Dunque
convergente divergente, comunicabile incomunicabile. Impossibile portarla al detto, vive la
dimensione di un’ombra cui ci si abbandona per qualificare se stesso, prima ancora dell’altro.
“Siamo dei deserti popolati di tribù, di fauna e di flora. Passiamo il tempo a radunare queste tribù, a
disporle in altri modi, a farne prosperare altre... Il deserto, la sperimentazione su noi stessi, è la
nostra unica identità, la nostra unica possibilità per tutte le combinazioni che ci abitano”25.
L’appropriarsi di una idea altrui è doveroso, in questa ottica, per il suo profondo significato di
rivelazione di noi a noi stessi – significa l’incontro con quel se stesso che solo l’altro ci rivela,
fornendoci una luce che non avevamo coscientemente colto, la cui consistenza ci inchioda,
perfettamente detta, musica superiore di un consenso eletto. Un balbettio, forse, più che un taglio
(precisa Deleuze facendo differenza tra Pick up e quel che Borroughs definiva Cut up), un
riappropriarsi lento di una familiarità, riassaporante, prendendo e ripetendo: non è una piega che si
dispiega rivelando una complessità organica capace di mostrare la sua intima profondità in
incommensurabili armonie – il procedere al riconoscimento della differenza, nella conversazione
con l’altro, configura una serie di tagli in dimensione crescente che sono la dimensione di una
solitudine sceneggiata dalla conversazione con unità ben presenti, prepotenti, non omologabili -
cristalli di cui osservare i riflessi. La dimensione di rime tornanti, nel castone della memoria: che
non se ne appropria omologandole a sé, ma solo le ripete; per conservarsi la possibilità di ricavare
altre suggestioni. E’ la magia della citazione.
L’alterità viene al soliloquio nella comune appropriazione, rende intima la dinamica tra
comunicazione ed incomunicabilità, visibile lo sforzo della comprensione che corteggia il mistero.
Ciò fa capire come nella conversazione sia profonda e non banalmente formale la natura del rischio
che spinge al rispetto della regola, cioè l’onnipresente antinomia tra la volontà di manifestare sé ed
il proprio patrimonio ideale e la coscienza del possibile fallimento della comunicazione,
24 G. DELEUZE – C. PARNET, Conversazioni, Ombre corte, Verona 1998 (1977) p.8-9.
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dell’imminente rottura dell’approccio conversazionale. Perché la differenza che viene così
presentata è essenziale al pensiero perché è il suggerimento di ogni determinazione. E’ la
costituzione di una comunità in cui venire in presenza dell’Altro, che deve essere differente per
essere rivelatore di quel che io stesso sono. Perciò non si rinuncia facilmente all’amore né
all’incontro con l’Altro, ci si sforza volontariamente di capire le regole con cui poter mantenere
animato il deserto delle tribù.
1.6. L’Io e il Tu: il dialogo
In quanto la conversazione è una comunicazione che fonda nel legame con altri, non con
l’universale Altro, non con un Oggetto. Si disegnano storie della conversazione e non protocolli,
perché non ci sono conclusioni. Somiglia ad una sceneggiatura più che ad una teoria, delinea
personaggi che si incontrano nella loro corpulenza. L’io e il tu si incontrano nel discorso a due, nel
dialogo – di nuovo un tema che non può rientrare nella comune definizione della conversazione per
l’accentuazione del logo che rende protagonista l’oggetto del discorso.
“L’uomo si fa Io nel Tu. Ciò che sta di fronte all’Io viene e va, gli eventi relazionali si condensano e
si disperdono, e nel cambio si chiarisce sempre più forte la coscienza di quello tra i due termini che
rimane uguale, la coscienza dell’Io. E’ solo nella trama della relazione, nella relazione con il Tu,
che l’Io appare sempre e ancora come un affermarsi di ciò che viene dopo il Tu e non è ancora Tu;
ma che, facendosi strada con forza sempre maggiore, giunge a spezzare il legame, e l’Io, liberatosi,
può guardare se stesso per un attimo come se fosse un Tu; potrà così prendere subito possesso di sé
ed entrare, da allora pienamente consapevole, nella relazione” 26. E’ il limite che costituisce l’egoità
e insieme la presenza del Tu che la rende possibile; la relazione nel dialogo è il confronto che l’Io e
il Tu decidono di avere, scoprendo in ciò la propria consistenza e la propria relazione: che si
determina nel processo attivo che sta tra l’uno e l’altro.
Non si dialoga con l’amicus, chi è disposto ad applaudire ogni nostra parola per simpatia, né con
l’inimicus, colui che nega in via di principio per appartenenza contraria: il dialogante ideale è colui
che afferma ciò che nego o viceversa, ma che decide di cimentarsi nel dialogo, che accetta l’uso
della ragione, il valore proprio della parola. Allora, dal succedersi delle battute, si costituiscono i
parlanti in un rapporto intimo e profondo che ha per fine la coerenza e l’intimità, lo stabilimento di
una comunità di dialoganti.
La ricchezza di un dialogo è nell’io e nel tu, due libertà che solo nella chiusura operativa di un sé,
nella costituzione storica e soggettiva dei parlanti, trovano la configurazione della differenza. Nel
dialogo la comunità tende ad una superiore unità, al manifestarsi dell’Eros dialogico27, al
25 Ivi, p.17.
26 Ivi, p.30.


27 M. BUBER, Il principio dialogico, Comunità 1959 (54-69, p.138.

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superamento del sé nell’avvicinamento all’altro; nella conversazione si resta alla premessa di tali
relazioni superiori: e la comunità resta protagonista, ma fonda nella stessa fiducia nella possibilità
di cimentarsi attraverso la parola, attraverso un discorso comune. Per realizzare una connessione
ampia quanto possibile dando corso all’esercizio collettivo della parola, espressione dello spirito,
mostrando ciascuno a ciascuno, così che ognuno possa compiere nel fluire delle formule e dei topoi
la scelta del dialogante più adatto. Nella conversazione si realizza la dinamica di una comunanza
elementare ma suscettibile di grandi sviluppi, non radicata in lontani rapporti di fratria ma nell’uso
della parola, nell’apertura alle ragioni dell’altro (Bulmer 1992). E poiché è comunanza di logoi,
dialettica, comunanza di parole secondo regole, è capace di smentire quella organizzata
diminuzione della personalità ch’è tipica di ogni forma di collettività 28, che nel declino della
tradizionale concezione dell’individuo viene ad assumere un livello di pericolosità incontrollabile.
La scelta del dialogante ideale, uno dei fini di quella comunicazione preliminare che è la
conversazione, fonda nella ricerca di una diversità né amica né inimica, non ideologicamente
contraria: invece capace di arricchire ciascuno nel mutuo rispetto.
L’amore ed il dialogo, le forme più alte del rapporto e dello scambio discorsivo, rivelano così
l’importanza che la differenza si coaguli e si renda stabile, mantenendo il nucleo che fonda il
concetto di individuo, in una chiusura operativa29 analoga ma slegata da metafisiche non attuali.
L’amante, l’amico, il tu, l’allocutore, mantiene la distanza che lo fa Altro che suscita curiosità con
una consistenza ignota. Solo così la differenza cessa di essere omologabile e riassorbibile, di
divenire una più completa comprensione di noi stessi, un solipsismo a potenza interconnessa, e
assume l’aspetto della consistenza storica da interrogare. Così non va perduto lo sforzo che ciascun
comunicante compie nel disegnare in se stesso e nel discorso che diviene capace di fornire, con
parole e scelte, una diversità interessante.
La comunità che si stabilisce nella conversazione è elementare, comunità di parlanti che precede le
forme più alte dell’amicizia e dell’amore: ma è capace di dischiudere alla comunità civile, perché
pur richiamandosi alla comunità non indulge in sauvageries rituali o anche newager perché parte
dal logos, la forma alta della comunicazione umana ed afferma la fiducia che il mondo della parola
possa mediare la complessità grazie ad un nomos speciale, che consenta la comunità senza
annullare né le differenze né i valori conseguiti nell’operare.

Nel 1620 Mme de Rambouillet inaugura il suo salotto alla francese in Rue Saint-Thomas du
Louvre, dal 1650 Mle de Scudéry inizierà a ricevere il sabato nella sua casa del Marais, dando
28 Ivi, p. 142.
14
spazio alla costituzione di un’opinione pubblica estranea alla corte.

Il giudizio del gran mondo il
cavaliere di Méré rivendicava contro Luigi XIV, anche se l’opinione pubblica dei salotti era più
consolatoria che potere eversivo30, mentre si esautorava il reale potere della nobiltà31.

S’inaugurava
così l’ambiente ideale per il fiorire dell’abilità dei conversatori.

Ma certo molti erano già gli stili del conversare, quando venne quell’epoca.

**************************************
L’Italia del
Rinascimento, la Gran Bretagna del 700, la Francia del Grande Secolo furono luoghi della
definizione di questi stili, nel concreto dei rapporti umani ma anche nella scrittura di manuali e
testi32.
**********************************

Se si volessero indicare da tutto ciò caratteristiche atte a definire in breve il genere, si
potrebbe dire del

principio di cooperazione,

dell’uguale distribuzione del diritto di parlare, della
spontaneità ed informalità degli scambi, del tono non affaristico o specialistico. Francois La Mothe
Le Vayer la paragonava al tennis:

Così com’è inutile colpire forte la palla se questa non viene
respinta, la conversazione non è piacevole se manca una risposta valida.

Il desiderio di brillare
caratterizza alcuni conversatori, come alcuni tennisti, il che rende importante tener presenti
nell’analisi anche le caratteristiche della competizione, oltre che della collaborazione. Nel
Rinascimento, ad esempio, prevaleva una discussione tendente alla vittoria di una argomentazione,
come permane nei paesi latini, mentre la cultura anglosassone tende a

“considerare le violazioni
delle normali pratiche del parlare a turno quali atti di scortesia e mancanza di educazione”(
Schegloff).

Tracciare la storia della conversazione significa dare conto di quanto le sue regole siano
mutevoli.

Come i luoghi ove si svolge, dall’intimità, come voleva Seneca, al convivio, come per
Socrate o Dione Crisostomo.

Se il buon conversatore è chi “introduce i giusti argomenti di
conversazione .. al fine di creare armonia”, Cicerone ha ragione a reputare l’esercizio della conversazione un dovere sociale.

Egli ritiene non abbia regole ben stabilite, come il discorso
pubblico.

Dev’essere un discorrere lenis, tollerante, senza pettegolezzi, atto a far entrare tutti nel
gioco.

Tipico dell’homo urbanus, dice Varrone emulato da Aulo Gellio.

Marcabru, il trovatore,
elenca i pregi del conversatore nel decoro, nella mensura, nella parlata gentile. Andrea Cappellano
fornisce esempi di dialoghi adatti a situazioni diverse, come il corteggiamento o la conversazione
cortigiana.

Castiglione, Della Casa, Guazzo tengono presente anche il tema della conversazione nel
disegnare il loro gentiluomo, che genera la parità tra i conversatori praticando una via media, che
eviti volgarità e specializzazioni che ridurrebbero il numero degli interessati.

Tra i manualisti del ‘700 furono anche Washington, de la Salle, Renaud. Tutti concordano nel far
differenza tra un discorso ed una conversazione per la necessità della turnazione e la cortesia
caratteristica. Perciò, interrompere o sembrar di ripetere a memoria un trattato, cedere al turpiloquio

29 Cfr. H. MATURANA F.J. VARELA L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano 1987.

30 D. GORDON, Citizens without sovereignity, Princeton Press 1996

31 E’ nella recensione al volume di Burke di Benedetta CRAVERI, La Repubblica, 7.1.98
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o allo scatto d’ira, sono da evitare. La Rouchefoucauld distingue la conversazione alta delle
Accademie da quella leggera dei salotti: in cui però egualmente non bisogna scendere troppo in
basso: è opportuno evitare le saccenterie, le note a margine, il tono sentenzioso, ma anche le
canzonature, le vanterie, le arringhe, i toni autoritari o egocentrici; ovvero temi come il governo
della casa, le attualità della moda. Da evitare sono anche le questioni che appassionino gli animi,
come la religione e politica, o le domande dirette che possano mettere in imbarazzo l’interlocutore;
se proprio si debba dire qualcosa di molto concreto, scegliere gli eufemismi e le circonlocuzioni.
Basti di ciò. Se si volessero elencare le regole della conversazione dettate dai manuali, il discorso
diverrebbe lungo, visto che tra il 600 ed il 700 vi furono numerosi esempi di tale letteratura:
Watteau le dedicò anche un suo celebre quadro. Valga per tutti i formalismi che vi furono precisati
e codificati, l’immagine più famosa, forse, dei salotti, la figura della Preziosa ridicolizzata da
Moliére, autrice con le altre di un gergo ipercorrettista, divertente quanto incomprensibile, divenuto
fine a se stesso, nella fissazione di una regola della comunicazione che spesso diveniva idioletto.
Evidenziando l’aspetto di cui abbiamo mostrato la rilevanza teorica della determinazione di una
comunità di parlanti, che si riconosce attraverso l’uso di regole comuni.
Regole che sono atte ad assicurare il decorso della conversazione, non a reprimere i complessi
meccanismi di confronto e scontro che pure in queste forme l’uomo porta con sé. Prendiamo ad
esempio un tema che a questa patria della discussione leggera, si lega nel tempo e nello spazio, il
salotto di Mme Verdurin. Lo snobismo Proust definisce con forza caricaturale nella rivalità che lo
oppone al salotto Guermantes, descrivendo bene in quel meccanismo di contrapposizione dei due
ambienti conversazionali quel che poi si riproduce del pari nell’ambito dello stesso salotto tra i
gruppi che lo animano – e vale in genere nel meccanismo dei rapporti interpersonali. I due salotti si
contrappongono in modo chiaro per identità antitetiche, da un lato il culto dell’arte e dei valori
estetici nell’ambiente borghese dei Verdurin, dall’altro la tradizione genuinamente aristocratica dei
Guermantes. Questo genera lotta per il predominio mondano, gelosie e continue reciproche prese di
misura, che generano una ricorsa ad occupare lo spazio dell’altro: nell’odio e nel disprezzo si cela
così una valenza di adorazione ed imitazione - la Verdurin non sospira che per la nobiltà, la
Guermantes per l’arte: i due salotti si contrappongono come doppi in imitazione negativa l’uno
dell’altro. Una comunione dovuta alla contrapposizione, una rincorsa che finisce con annullare i
valori propri da ognuno costruiti in una lotta fatua: René Girard vede in questo meccanismo una
violenza da considerare come valenza per intendere la tendenza ad imitare mimeticamente una
pienezza d’essere che ci affascina e che imitiamo pur differenziandocene, sul modello del legame
nevrotizzante del double blind, teorizzato dalla scuola di Palo Alto (tipo imitami - non imitarmi

32 P. BURKE, L’arte della conversazione, Il Mulino 1997 (1993)
16
dell’adulto al bambino). Esso rivela la compresenza di un comando verbale insidiato da uno
implicito che ne contemperi le ristrettezze – creando una contraddizione insanabile dall’effetto
nevrotizzante e negativo: ma non solo. E’ anche la dimostrazione del pregio della confusione, cioè
la possibilità di adire a quella disattenzione deliberata, indeterminata, che lo Zen consiglia per porre
l’insieme di una acquisizione in un unico ritmo progressivo, che porta ad un’azione senza fratture.
Come nelle azioni complesse e faticosamente apprese degli sport, dove tutto diventa poi possibile
grazie ad una beata disattenzione alla procedura di realizzazione, all’abilità dell’esperienza, al
perfezionamento della gestualità. L’autentica pienezza di essere che il bambino avverte nell’adulto -
modello scatena insieme imitazione e violenza. D’altronde in greco il concetto ha due definizioni –
kydos, trionfo, e thymos, senso soggettivo di quel trionfo – il primo è momentaneo ed aleatorio
mentre il secondo permane come coscienza della vittoria su di sé e sui propri limiti33. Ciò giustifica
la lotta per la supremazia garantendo un’acquisizione permanente: quel che si cerca
nell’antagonismo. Affermare la propria differenza e supremazia è anche conquista mimetica di una
pienezza di essere che ci manca, in una doppia mediazione in cui ognuno è discepolo e modello,
ricerca della differenza e conseguente uniformità - l’esempio tipico è nella moda - che Girard
definisce imitazione negativa.
L’imitazione negativa è tipica dei rapporti umani e trova un luogo anche nella conversazione, dove
la sua scaturigine nella violenza cerca un luogo di mediazione ed affabulazione, norme di
contenimento e procedura. La conversazione è uno dei luoghi dell’interazione umana, dove è tutto
l’uomo, anche se nel procedere ovattato della conversazione si tende a glissare piuttosto che a
ripetere come invece accade nel rito. “La comunità è contemporaneamente attratta e respinta dalla
sua stessa origine; prova il bisogno costante di riviverla in forma velata e trasfigurata… lasciando
che la violenza si scateni un poco, come la prima volta, ma non troppo, ripetendo cioè quello che
riesce a rammentrasi dell’espulsione collettiva in un quadro e su oggetti rigorosamente fissati e
determinati”34. Più che rivivere in una drammatizzazione, la conversazione disarticola l’interessante
e lo ripropone in un luogo di mediazione dove la sublimazione non è ripetizione ma mescolamento
in un luogo culturale ricco, dove l’alternarsi dei punti di vista, la punteggiatura del discorso35,
mettano in opera la disinformazione necessaria, la confusione positiva, il confronto sciolto
dall’ossessione del risultato. In tal modo si offre la comprensione delle possibilità, nelle frasi e
negli attanti, di delineare infiniti mondi.
33 R.GIRARD, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 (1972), p. 213. In propositivo v.a. S.MORIGI, La metafora
del radio: aperture sociologiche nel ‘primo’ Girard, critico letterario, in A. NESTI, Potenza e impotenza della
memoria. Scritti in onore di V.Dini, Tibergraph, Arezzo 1997.
34 Ivi, p.143.
35 P.WATZLAWICK, La realtà della realtà, Astrolabio, Roma 1976.
17
Perciò la conversazione è un’arte, che ha cercato regole complesse e ridondanti, mirando a
obbiettivi diversi da luogo a luogo. Così che chi ha voluto farne un manuale si è trovato presto
impigliato nel qui lo dico e qui lo nego, nel particolare sovrabbondante ed inessenziale che
moltiplica a dismisura la codificazione. Come dimostrano anche gli sforzi dei pensatori che
procedono anche oggi all’analisi del tema.
2.2 Concezioni della conversazione
L’analisi conversazionale ha avuto un grande sviluppo soprattutto nella direzione del discorso
quotidiano, creando un quadro di riferimenti ampio e ricco, capace di esempi numerosi e di
interpretazioni costruttive. Difatti la via intrapresa ha generato tanti studi che è indispensabile in
questa sede dare un’idea del percorso più che pretendere ad una analisi dei contributi36.
I primi contributi dei linguisti (Z. Harris 1952) applicarono strumenti come la segmentazione, la
classificazione, la combinazione di modelli e detti, di sintagmi e paradigmi con buon successo,
tracciando una direzione dove fosse possibile programmare l’osservazione. Ma elementi
caratteristici della conversazione, come l’agrammaticalità, la discontinuità, la dipendenza
contestuale, l’interattività, complicavano la realizzazione dell’intento (J. R. Firth 1957), mentre una
impostazione strutturalista era meglio atta a muoversi in simile mobilità delle regole, intendendole
come funzioni. Se la conversazione è una joint production (M. Stubbs 1981), occorre descriverne il
dominio, accettando i suggerimenti di Wittgenstein, fonte comune di tante direzioni37. Un dominio
in cui le costanti sono presenti, ma non possono pensarsi come leggi, visto che non vengono da
ipotesi, sono violabili, non sono predittive; si propongono come piano cosciente di dare forma al
comportamento – sono pensabili come regole di tipo generativo (Harré 1974)38.
Determinare queste costanti diventa il tema dell’analisi: gli psicologi sociali Duncan e Fiske nel
1977 hanno tentato la via così detta ‘etica’, registrazione di libere conversazioni tra studenti da cui
individuare costanti, anche gestuali; si elencarono 49 possibilità con un sistema di osservazione
esterna del comportamento. Ma la metodologia, che aveva avuto successo nell’osservazione della
comunicazione animale, non ha ottenuto gli stessi risultati. Clarke nel 1983 tentò invece un
approccio ‘emico’, soggettivo, sforzandosi di raggiungere una paradigmaticità attraverso una
qualifica delle unità linguistiche operata dai soggetti sottoposti a test. Lo schema essenziale che
delinea una conversazione sintetizza così: Saluto – saluto – domanda – risposta – combinazione –
attesa – assenso – accordo. Già dallo schema risulta l’impossibilità di giungere ad una definizione,
senza rendere elementare il risultato, per l’eccessiva variabilità delle conversazioni e dei turni di
36 Cfr. T. TAYLOR – D. CAMERON, Analysing Conversation, Pergamon Press, Oxford New York 1987.
37 Non solo nelle Ricerche Filosofiche, dove tanti giochi sono delle conversazioni o brani, ma anche in L.
WITTGENSTEIN, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano 1990 (1980).
38 Mentre le regole della grammatica generazionale di Chomsky sono appunto predittive, perché mentali ed ereditarie, e
perciò inviolabili.
18
intervento (Jaffe e Feldstein 1970). Anche se l’elenco delle successioni è elementare, però,
caratterizza uno schema applicabile generalmente, evidenziando una regolarità.
Ricche acquisizioni sono venute dall’etnometodologia, che difatti ha moltiplicato gli studi
sull’argomento; iniziò Garfinkel, negli anni ’40, osservando il comportamento di una giuria e
ricavandone l’esempio del practical reasoning, una comunità che si organizza in un comportamento
sociale settoriale dalle regole comuni. Ciò si consegue grazie ad un metodo di drammatizzazione –
vale a dire non la sceneggiatura vera e propria del testo, ma la realizzazione della recita: nel silenzio
del proscenio, a teatro vuoto, gli attori mettono in campo la loro professionalità specifica, la
conoscenza dei comportamenti che identificano, quel senso comune di gesti e atteggiamenti e tratti
logici. Essi creano l’accountability dei personaggi, la loro persona, si direbbe, usando il termine
nell’accezione teatrale in cui nacque. Il practical reasoning, così, continuato nel tempo e dotato di
una qualche persistenza, costituisce l’architettura dell’intersoggettività, la comunità dei parlanti che
si riconoscono in quella conversazione: i rapporti esterni che danno forma, i vestiti per gli ignudi,
gli automatismi semplici come le meccaniche di saluto (Heritage 1984). Evanescenze, che però
tengono insieme le assi del teatro e creano il coinvolgimento dello spettatore, come danno
consistenza di comunità a gruppi che vi trovano soddisfacenti definizioni con impalcature rigide
quanto fragili.
L’architettura dei rapporti si diversifica sin dalla definizione dei turni – che difatti differisce se
caratterizza il gruppo dei pari o quello degli attori o dei giurati. Addirittura le regole, essendo
finalizzate alla creazione di comunità di parlanti, mutano da gruppo a gruppo, da famiglia a
famiglia. Dallo studio dei turni emerge la sequenzialità dei silenzi e delle pause, una delle strutture
portanti della conversazione. Il turno non è automatico, ma si articola su selezione dello speaker,
che la manifesta con un comportamento che segnala la scelta, che avviene più che per preferenza
psicologica per una regola formale intersoggettiva, nota agli attanti benché non definita. E come
potrebbe esserlo, visto che tra gli strumenti regolatori dei percorsi sono il ridere, il sorridere, il
gesticolare, le pause, di congiunzione e di esitazione (Boomer e Dittman 1962), e addirittura il
silenzio, che specie nel secondo turno di partecipazione vale di per sé come argomento di grande
complessità (Levinson 1983)?
Si badi, per inciso, che questo del silenzio è uno dei punti maggiormente discussi oggi, nelle teoria
dell’informazione per tradurre in linguaggio digitale i silenzi. Si pensi ad una frase tipo: “Io penso
che puoi averlo – è più difficile nelle scuole cattoliche” (Hindle 1983): la pausa indica riflessioni
specifiche che il ricevente intuisce nel suo corretto significato - ma è una discontinuità molto
difficile da codificare in linguaggio macchina. La pausa dell’emittente rende necessario l’editing del
ricevente, il completamento del testo (Labov 1966). Un vero problema informatico che moltiplica
19
gli algoritmi sul possibile completamento del testo; si tende alla crasi e al riannodamento alla parola
precedente l’interruzione, per rendere metodico l’editing: ma nell’esempio citato ciò è impossibile.
Sono osservazioni che mettono in luce la costante collaborazione dell’uditore su cui fonda lo
scambio più elementare e la possibilità di inserirvi procedure di deriva personalizzate, come nei
colloqui familiari, ovvero le brachilogie riassunte in un gesto o in una parola, nelle comunità di
conversatori abituali. L’automatica comprensione del conversatore della stessa comunità di parlanti
resta un ideale difficile da raggiungere per il linguaggio macchina: la discontinuità nella
conversazione non solo ha senso, ma può rivelare elementi aggiuntivi, che una frase senza
interruzione non avrebbe avuto. La pausa, la ripetizione, la retorica della composizione, compone le
sfumature del percorso, articola la melodia complessa, è diretta al pensare analogico e non al
digitale. Non la intende la macchina, ma nemmeno lo straniero o colui che non fa parte della stessa
comunità autoreferente, perché articola un messaggio in cui il detto è solo una parte del senso
intero, che va ricostruito facendo confluire i diversi messaggi in un testo unitario di cui non c’è
vocabolario.
Perciò l’osservazione della novellistica ha dato grandi spunti all’analisi, presentando stralci in cui si
esemplifica l’uso di questo vocabolario. Austin e Searle si sono dedicati a Henry James, cercando le
regole della produzione, dell’interpretazione, della sequenzialità della conversazione. Non si può
restare alle parole, occorre individuare l’intenzione dell’atto, la conoscenza delle regole, il modo
della comunicazione. L’osservazione sistematica ha colto la presenza di regole convenzionali
assertive, direttive, commissive ed espressive, che si mostrano mutevoli nelle diverse comunità
parlanti. Sono molto più costanti le regole dei giochi.
L’essenziale dunque è la relazione più che la parola. Chi si è dedicato fin da principio all’analisi
della conversazione, come il gruppo funzionalista di Birmingham, ha cominciato difatti
dall’interazione, focalizzando l’essenziale della conversazione nella scansione dei membri, nella
sequenza, nella transazione (in cui solo compare l’elemento metalinguistico); definendo le
connessioni dei discorsi come additive avversative e causali. Si tenta uno schema grammaticale, sul
presupposto però dell’intenzionalità, che fa prevalere la funzionalità sulla staticità della
grammatica, dando spazio alla considerazione delle sfumature, delle espressioni, del contesto
relazionale (Sinclair e Coulthard 1984). Il feedback spiega la rilevanza dell’errore di procedura.
Come nella grammatica generativa, il problema più che nelle parole è nella deriva. Nella
indefinibilità delle regole, non resta che fare ricorso, come la grammatica generativa, ad una non
meglio precisata competenza linguistica, conversazionale, che dirima le questioni problematiche. Di
questo tipo è anche il principio di rilevanza dei griceani Sperber e Wilson.
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Elementi per la determinazione della conversazione possiamo trovare nella pragmatica griceana. Di
nuovo troviamo centrale la parità degli attanti, ceteris paribus (CP). Che però è anche un
cooperative principle, cioè mette in opera l’interazione capace di aumento d’informazione, perciò
occorre rispettare regole come l’opportuna proprietà del detto, la scelta dei tempi, e soprattutto la
capacità di seguire una direzione comune, che si delinea di volta in volta nel corso della
conversazione. Grice39 così si sforza di porre le massime della conversazione, organizzandole
secondo uno schema di ispirazione kantiana:
A. Quantità 1. sii informativo 2. non troppo informativo
B. Qualità 3. non dire il falso 4. evitare ciò che è poco evidente
C. Relazione 5. sii incisivo
D. Modalità 6. mai oscuro 7. ambiguo 8. sempre breve 9. ed ordinato
Si deve dire che si tratta di uno schema già sottoposto a discussioni e mutazione dagli allievi diretti;
ma l’efficacia di uno schema non è tanto nella sua improbabile apoditticità, ma nella capacità di
suggerire nuove osservazioni. Sono comunque regole non derivate dalle analisi, benché desunte
dall’osservazione del comportamento conversazionale. Esse consentono alla variabilità di sottoporsi
a regole funzionali per la conservazione della comunità dei parlanti. Ad esse Leech (1983) aggiunge
il PP, political politness, una sorta di fair play in cui gioca molta importanza quell’elemento che con
efficacia comunicativa Brown e Levinson definiscono il salvare la faccia. CP e PP sono
inversamente proporzionali (Sperber e Wilson 1986): il massimo di correttezza porta un minimo di
informazione e cooperazione.
Anche le dimensioni che si sono dirette all’analisi della conversazione per ricavarne le regole,
mostrano la necessità di fare ricorso ad elementi che esulano dall’analisi per individuare quel
practical reasoning che abbiamo visto sostenere le attività di conversazione. Il suo primo problema
è che le regole sono anomiche, che si pongono senza essere dette, ma sono da tutti conosciute, nella
loro elementarità, anche al di là delle differenze di costumi e di lingua. Uno schema come quello
che abbiamo citato del Saluto – saluto – domanda – risposta – combinazione – attesa – assenso –
accordo è riscontrabile persino in conversazioni tra stranieri, nel linguaggio a gesti, nei colloqui con
popolazioni primitive. Costituendo un esperanto di regole comuni di cui ci serviamo
quotidianamente portandolo a livelli di raffinata complessità, senza mutarne le basi elementari.
39 U. VOLLI (Il libro della comunicazione Il Saggiatore 1994) cita i i principi conversazionali di Grice che mostrano
come queste norme di cortesia in verità rispondano a principi morali: ad es. il principio di cooperazione (Il tuo
contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio cui avviene, dallo scopo e orientamento accettato
dello scambio linguistico in cui sei impegnato). Ma anche una massima quantitativa della conversazione come “dà un
contributo tanto informativo quanto richiesto” indica una premessa qualitativa “ tenta di dare un contributo vero perciò -
non dire il falso”; oppure “non dire quel di cui non hai prove” implica il ‘sii perspicuo’ quindi - evita l’oscurità di
espressione, l’ambiguità. Altre norme sono di essere brevi ed ordinati. Nella pragmatica è centrale la pertinenza, che
21
Leggi anomiche che si costituiscono senza codici, senza altra penalità che quella del fallimento
della conversazione. Ma forse perché, come hanno detto in tanti, da Nietzsche a Palo Alto, è
impossibile non comunicare: questa sola pena della rottura della conversazione risulta davvero
esiziale, e la si rispetta.
L’analisi del carattere formale della conversazione dà quindi molti stimoli ma non può arrivare al
codice, forse anche per la relativamente breve storia del suo cammino. Ma afferma comunque la
particolare legislatività ovunque presente, che pur nel costituire una regola anomica ha la capacità
di porre ordine nel disordine. Solo che forse più delle forme tradizionali del pensiero vi si deve
vedere all’opera un particolare esercizio della ragione, quel practical reasoning che si esercita
professionamente nel teatro vuoto, nella comunità degli attori, mettendo a frutto i saperi comuni.
Un’attività in cui si esercita con buone capacità professionali l’intera umanità nell’esercizio del
parlare quotidiano creando nessi tra le concezioni tradizionali e le nuove idee, in un procedere non
irrazionale ma slegato dalle modalità della logica rigorosa, dove grande spazio si lascia al pensare
analogico. Così che i luoghi del sapere comune si innovano nel continuo rimescolamento delle
opinioni.
3. La conversazione e le rappresentazioni sociali
A riprova del legame del ragionamento pratico con i saperi comuni, si può citare Moscovici, che per
determinare le rappresentazioni sociali cerca “materiale da campioni di conversazioni che hanno
luogo normalmente in una società. Alcuni di questi scambi conversazionali hanno a che fare con
argomenti importanti, mentre altri riguardano temi che potrebbero essere estranei al gruppo - alcune
azioni, eventi, o personalità, intorno ai quali ci si domanda “Di che cosa si tratta?”, “Perché è
accaduto?”, “Perché lo fa?”, “Qual era lo scopo di quell’azione?” - ma tutti tendenti verso il
reciproco accordo”. Operando in tal modo seguiva un suggerimento di Tarde (1910) che appunto
osservava le opinioni prendere corpo in conversazioni, cioè in modi elementari di mettersi in
relazione ed informarsi; aspirava ad una futura scienza sociale come studio comparato di
conversazioni. Le interazioni conversazionali abilitano individui e gruppi a familiarizzarsi con
oggetti o idee nuove e a dominarli. “Tali infra-comunicazioni e tale pensiero, fondati sulla diceria,
costituiscono una sorta di strato intermedio tra la vita privata e la pubblica, e facilitano il passaggio
dall’una all’altra. In altri termini la conversazione è come il punto centrale dei nostri universi
consensuali, poiché essa modella ed anima le rappresentazioni sociali, e dà loro una vita propria” 40.
Sperber e Wilson, 1992, descrivono come capacità dell’informazione di dare luogo a nuove informazioni,
moltiplicandole, grazie alla combinazione di premesse vecchie e nuove.
40 S. MOSCOVICI, Rappresentazioni sociali, Il Mulino, Milano 1989 (1984), p.76.
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La conversazione è quindi anche luogo di informazione culturale, dove si possono reperire nuove
fonti e si possono indicare possibili approfondimenti contribuendo all’elaborazione del senso
comune. Perché vi si attua uno scambio di notizie, ma la levità della trattazione consente di tentare
l’innovazione come un gioco di familiarizzazione e decostruzione garantito dalla formalità /
informalità. Essa consente l’esercizio ludico del sapere fatto di sguardi rapidi, aperto all’azzardo, al
rischio, alla boutade. In questa forma un pensiero originale si può confrontare con la tradizione, il
caratteristico costeggiamento della verità e dell’interessante, per la leggerezza della trattazione che
non chiede conclusioni, dà alla ricognizione e alla critica un carattere oltre che ludico, sperimentale.
Condotto con piena libertà, visto che il fine del conversare non è l’affermazione logica ma
l’esercizio di un’attività sociale.
L’universo consensuale, la comunità dei parlanti, discute democraticamente, il che “richiede una
certa complicità, cioè le convenzioni linguistiche, domande che non si devono porre, argomenti che
possono o non possono essere ignorati. Questi mondi oggi sono istituzionalizzati nei club, nelle
associazioni e nei caffè, così come in passato lo erano nei ‘salotti’ e nelle accademie. Essi fanno
prosperare l’arte della conversazione, ormai in declino. E’ proprio l’arte della conversazione che li
mantiene in vita, e che incoraggia le relazioni sociali che altrimenti diminuirebbero. A lungo
andare, la conversazione crea nuclei di stabilità e ridondanza, una comunanza di significato tra
coloro che vi partecipano. Le regole di quest’arte conservano tutto un complesso di ambiguità e di
convenzioni senza le quali non esisterebbe vita sociale. Esse mettono gli individui in grado di
condividere un insieme implicito di immagini e di idee, che sono assunte come date e sono
condivise da tutti. Il pensiero è espresso ad alta voce. Pensare diventa una rumorosa attività
pubblica che soddisfa il bisogno di comunicare, e così conserva e consolida il gruppo, mentre
trasmette il carattere che ogni membro gli richiede di esprimere. Se noi pensiamo prima di parlare e
parliamo per aiutare noi stessi a pensare, noi parliamo anche per fornire una realtà sonora alla
pressione interna di quelle conversazioni attraverso le quali e nelle quali noi ci leghiamo agli
altri”41.
La comunità dei parlanti è resa tale dalla condivisione di riflessioni a voce alta su quegli insiemi
impliciti di immagini e idee comuni, che entrano a far parte di quel lungo soliloquio descritto da
James Joyce. Un soliloquio in cui sono esperienze e personali modi di vedere nel cimento con le
idee tradizionali e culturali, al cui rifiuto - accettazione - discussione ci si impegna in ogni atto del
vivere. Così quel parlare insieme, anche attraverso il mondo dei media, è il modo per rendere di
nuovo comune il patrimonio comune, per pensare e far pensare, per pensare insieme collaborando in
una nuova visione creando una nuova comunità di significato in cui si realizza un ideale
41 Ivi.
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prossemico, una vicinanza costruttiva ed imitativa, che ci rende parte ed attori di una nuova
costruzione del senso comune.
4. La conversazione in cui siamo immersi
Un ideale prossemico che per Maffesoli diventa ideale orgiastico, celebrando il ritorno di Dioniso42,
proprio per lo smembramento ricomposizione che si compie nella conversazione. E se la
conversazione percorre tutti gli ambienti e si affida ad un practical reasoning che è una ragione
pratica di senso comune, ben impiantata nel corpo e nei suoi umori, non è possibile non fare
rientrare nelle figure dello stile comunitario43 il riferimento alla grande conversazione in cui siamo
immersi, che muta la nostra configurazione cognitiva – la conversazione audiovisiva.
Di conversazione audiovisiva ha parlato Gianfranco Bettetini, precisando che a rigor di termini
meglio sarebbe definirla solo comunicazione, mancando l’elemento dell’interattività col mezzo – il
che non però esclude l’interazione44. “Lo spettatore è il luogo di una assenza”, un corpo sintetico e
simbolico che traduce in una drammatizzazione onirica un sapere complesso: che si presenta come
sapere testuale, soggetto perciò ad interazione tra emittente e ricevente, pur senza configurare una
‘conversazione’ per la predominanza dell’emittente. L’utente vi può avere rapporto di mera
assistenza, come quando si partecipa involontariamente all’altrui conversazione, oppure di
partecipazione, se invece che illeteracy è in grado di manifestare competence 45. Ma in entrambi i
casi non si configura una ‘conversazione’, difatti vengono meno i turni e persino la presenza
contemporanea dei conversatori. Ma la definizione mostra che il mancato rispetto di talune
caratteristiche tradizionali non evita l’identificazione, anche se bisognosa di aggettivazione. Sia per
le caratteristiche stesse della comunicazione mediatica, in modo particolare di giornali, radio e
televisione; sia per la capacità di creare delle comunità che si riconoscono in un senso comune,
dando unità al mondo col graduale unificarsi dei grandi flussi di notizie.
Il mondo dei media inizia con i giornali, che rendono compiuta la configurazione dell’opinione
pubblica che i salotti lasciavano presagire. In essi la conversazione acquista una natura testuale ma
conserva il proprio essere ariosa, deperibile, quotidiana, non volta né al solo intrattenimento né alla
conclusione logica. Il giornale è aperto alle lettere del pubblico ed ai contributi non redazionali, alla
possibilità di sviluppare un’informazione in progress, ragionata ed aggiornata di volta in volta. Il
turno dei parlanti vi è, più che abolito, sostituito dalla varietà degli interventi sugli stessi temi di
diversi collaboratori. I giornali creano gruppi che organizzano consapevolmente un sapere comune.
42 M. MAFFESOLI, L’ombra di Dioniso, Garzanti, Milano 1990.
43 M. MAFFESOLI, La contemplazione del mondo, Costa & Nolan, Milano 1966 (1963).
44 Come precisava G. JACQUINOT in una conferenza del 1998 a Napoli.
45 G. BETTETINI, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano 1984(p.95)
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“La verità, come lo stesso tempo, è il prodotto di una conversazione che l’uomo ha con se stesso
riguardo alle tecniche di comunicazione e per il loro tramite” 46.
Inoltre i media del ‘900, la radio e la televisione, adoperano esplicitamente come linguaggio
prevalente la conversazione, invece della strutturazione di un testo rigido. “La vocazione orale della
televisione è stata riconosciuta subito nei dibattiti”47, ed è caratteristica ereditata dalla radio, con cui
per tanti versi fa corpo comune, completandola con l’immagine: è evidente nei concerti
teletrasmessi, che creano una musica per tutti i sensi. ”La televisione giunge, senza averlo previsto,
a cambiare il regime della percezione, a introdurre il frammento nella durata, a strappare il pubblico
al suo ascolto distante per spingerlo a interrogarsi su ciò che vede” 48; il suono si lega all’istante ed
alla percezione plurisensoriale ed altera il tempo lineare49 perché lascia spazio all’immagine, che in
televisione è scia, più che presenza. Connettendo la parola e la voce, il senso e l’emozione,
moltiplica l’immaginazione creativa e provoca “l’ascolto attivo, l’ascolto che fa parlare, fa
muovere, fa vedere”50 : per i molteplici registri congiunti in uno che lascia spazio creativo alla
ricezione. Insomma, è la configurazione ipertestuale del palinsesto, comune al giornale, alla radio,
alla televisione, che mostra la natura conversazionale del percorso, consentendo la partecipazione
attiva alla dinamica del testo. Presenta una superficie che lega insieme frammenti secondo leggi
anomiche che la comunità (i conversatori, il target) riconosce nella loro validità consentendone il
successo – o viceversa decretandone il fallimento.
L’opera che nasce radiotelevisiva ha una regia discorsiva e mobile, si modella sulla diretta anche
quando è in differita. Tale resta il linguaggio comune dall’informazione ai programmi contenitore,
ai varietà, ai talk show. Persino la fiction prende forma di conversazione nelle serie, conformandosi
al modello della letteratura popolare, cioè divenendo più interessata alla ricezione che alla
configurazione dell’Opera. Serie sono anche i diversi generi televisivi, configurando opere aperte al
colloquio attivo col pubblico, perché l’ascolto va affezionato, e dunque va codificata la ripetitività,
per garantire i binari comunicativi che educhino il target al consumo dei prodotti – trasmissioni e
pubblicità. La ripetitività delle serie si esplica conseguendo regolarità. E’ interessante notare che
queste regole sono pur sempre anomiche, anche se stavolta né implicite, né non scritte, né
misteriosamente presenti. Esse, frutto di osservazioni statistiche, psicologiche, sociologiche,
comunicazionali, sono, più che asserite, imposte. Ma restano anomiche, perché derivano
dall’osservazione del costume e non si richiamano a norme di ragione o di gusto – come tanto si
46 N. POSTMAN, Divertirsi da morire, Longanesi 1986 (1985), p. 30.
47 P. SORLIN, Estetiche dell’audiovisivo, La Nuova Italia, Firenze 1997, p.212.
48 Ivi, p.230.
49 cfr. il nostro Temporalità e comunicazione, Parresia, Napoli 1996.
50 G. BACHELARD, L’eau et les reves, in Il diritto di sognare, Bari, Dedalo 1987.
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lamenta - : semplicemente vanno seguite, necessariamente, perché la comunità lo impone. Per la
stessa elementare ragione di quelle della conversazione comune: perché consentono di proseguire.
Anche il rapporto dell’utente col televisore è di tipo interlocutorio, cioè di conversazione. Mentre al
cinema si assiste, come si leggesse un libro, nel silenzio concentrato della platea, con la televisione
si parla: quasi mai direttamente, per la mancata interattività del mezzo; ma la normalità della
ricezione televisiva, tenuta nel debito conto dagli autori, è l’ascolto distratto, gli interventi a
commento che si allacciano in tutte le fasi dell’utenza, non ambientata in luoghi predeterminati.
Interventi che si moltiplicano poi nella ricaduta delle informazioni mediatiche nella conversazione
quotidiana, oggi sempre più popolata di elementi tratti dal vissuto televisivo, generando una forma
di interazione poderosa con i temi proposti da questa grande, ossessiva, conversazione, cui è
praticamente impossibile sottrarsi. Quel che una volta era la politica, il tempo, le chiacchiere di
paese, sono oggi i frammenti di televisione. Far parte di una comunità d’ascolto significa
riconoscersi e partecipare di una comune attenzione, confrontarsi. Nella chiacchiera quotidiana la
decadenza della conversazione è un luogo comune, ma se si presta orecchio a questa conversazione
che ci sovrasta bisogna riconoscere l’osservazione come una falsa impressione. Un processo cui
occorre prestare la massima attenzione perché nel passaggio mediatico è cambiato non solo il
modello della conversazione ma addirittura il processo cognitivo, che per via dell’iconismo passa
dal logico all’analogico, dal conseguenziale al frammentario, al palinsesto 51.
“Clov: Che cos’è che ci trattiene qui?
Hamm: La conversazione (... che fornisce) continuamente un commento dei maggiori avvenimenti,
orientamenti nazionali, scientifici o cittadini, e sono perciò l’equivalente moderno del coro greco
che sebbene non più presente sul palcoscenico della storia continua ad aleggiare nell’aria.” 52
La noosfera (Lotman) o semiosfera (Morin) rimbomba degli echi sia della cultura tradizionale che
della neocultura massmediatica. Nel moderno coro greco del senso comune convivono
approfondimenti culturali, mediati dalle letterature, con immagini e conversazioni comunicate
istantaneamente dal mondo dei media. La grande conversazione in cui siamo immersi ci
accompagna verso uno smembramento ed una ricomposizione dei modelli tradizionali, dando la
sensazione di un’orgia di significati orientarsi tra i quali diventa la prospettiva di un gruppo.
Approfondire simile complessità da un’angolazione introspettiva diventa impossibile anche per le
psicologie 53, il mondo dell’uomo può cercare la connessione di una nuova narrazione, un
significato, solo nel legame comune. I deserti popolati di tribù di Deleuze comprendono sempre di
più tutti i popoli della terra.
51 Cfr. D. DE KERCKHOVE, Brainframes, Baskerville, Milano 1993 (1991)
52 Th. BECKETT, Endgame, lo richiama S. MOSCOVICI, Rappresentazioni sociali, cit., pp. 42 - 3.
53 J. BRUNER, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, 1992 (1990 Harvard)
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5. La conversazione cibernetica
Il modello del palinsesto si ritrova non solo nel mondo dei media, ma anche in quello del computer,
dove già la videoscrittura si presenta come un patchwork 54, come un testo in perenne apertura, mai
definitivo, a molte derive possibili. Una conversazione, perché legata alla contrattazione di un
significato55. Una compresenza di direzioni ed angolazioni che è più una struttura di conversazione
che di testo, cui la contemporaneità delle presenze nella rete restituisce una struttura anche
formalmente analoga alla conformazione di un salotto: la diffusione della posta elettronica e delle
chat line mostra evidentemente la prosecuzione informatica di questo tipo di interazione umana,
dando un’ulteriore conferma di quanto sia fallace l’impressione della fine della conversazione.
Tramontano solo certi suoi costumi.
Nell’interazione uomo computer è utile tenere presenti le regole anomiche che generano il successo
e l’insuccesso delle conversazioni. Perché nell’interazione si generano aspettative che, se
insoddisfatte, portano al fallimento della comunicazione: spiegare l’errore comunicativo di alcune
interfacce grafiche è possibile a volte facendo ricorso non ai segreti del design ma ricorrendo a
spiegazioni fondate nell’osservazione della normale interazione umana (Brennan 1990). Occorre
cioè immaginare “il modo in cui un partner di conversazione rappresenta se stesso” per immaginare
“lo stile in cui risponde”: è la guida più sicura per “disegnare espressioni per quel partner”. Le
strategie per disegnare, perciò, richiamano le regole di Grice: “Non continuare una spiegazione
quando sia stato raggiunto lo scopo - Assumi che gli errori possono accadere e provvedi modi per
contenerli - Articola la domanda e la risposta in modo da preservare da ingerenze con il problema o
il comando - Rappresenta l’interfaccia in maniera che l’invisibilità costringa l’utente ad agire nelle
maniere che il sistema capisce per rimanere nelle applicazioni - Integra gli input con dei punti e altri
canali interattivi. Applicando queste strategie si può praticare un’interazione conversazionale, sia
attraverso la scrivania che il linguaggio naturale” 56. Stabilire una struttura conversazionale instaura
una fantasia interattiva sistematica, coinvolgente, che evita l’imposizione di regole da parte
dell’emittente.
Brenda Laurel descrive il modo in cui conseguire simili capacità paragonando la scrittura di
interfacce all’improvvisazione teatrale, dove tutti si adattano l’un altro, non solo per comunicare ma
per rappresentare un’azione. Essi mettono in gioco l’architettura IF 57, sovrastruttura cognitiva
dell’improvvisazione teatrale. Di essa si servono gli scrittori nello sceneggiare, gli attori nel dare
54 G. BETTETINI, Nell’era dell’elettronica il mondo è più veloce, in “Il Sole 24ore” dicembre 1998.
55 A.ABRUZZESE, La vetrina della Regina Vittoria, in C.Gily Reda, Frammenti di mondo. 30 sguardi sulla pubblicità,
Editoriale Scientifica, Napoli 1999, p. 158.
56 B.LAUREL, Computers als Theatre, Routledge, London 1993, p.152.
57 Ivi: Laurel delineò quest’architettura nella tesi di laurea.
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figura ai personaggi, e fonda nel fare ricorso ad una capacità di intendere non progettuale, che
sembra naturale, automatica. Insomma, un practical reasoning. Si crea così “uno spazio libero
congiunto, dove le convinzioni prendono forma attraverso la collaborazione e la successiva
approssimazione dei partecipanti” (Brennan 1990). Vi sono casi in cui progettare l’interazione come
una sceneggiatura d’azione è esplicito: è il caso del soft Grunt, la guida dei percorsi in auto, dove il
proposito è la massima naturalezza di domanda e risposta, generando divertenti colloqui nel
modello del tit-format (Walker), cioè del colpo per colpo, domanda risposta. Ma l’intero cammino
all’interno dei programmi va pensato come la sceneggiatura di un’azione: perché si tratta sempre di
programmare azioni intersoggettive, dove conta la capacità di trovare un accordo complesso.
“Prendiamo due persone che lavorano insieme ad un duetto, si danno la mano, giocano a scacchi,
ballano il walzer, insegnano o fanno l’amore. Per procedere, loro due devono coordinare insieme il
contenuto ed il processo di quel che stanno facendo. Alan e Barbara, al piano, devono suonare lo
stesso duetto di Mozart. Questa è coordinazione del contenuto. Devono anche sincronizzare le loro
entrate ed uscite, coordinare quanto forte deve essere suonato il forte ed il pianissimo, e d’altronde
accordarsi al tempo e alle dinamiche dell’uno e dell’altro. Questo è coordinazione del processo.
Non possono cominciare a coordinarsi sul contenuto senza assumere una vasta gamma di
informazioni determinate o di senso comune - che è comune conoscenza, comuni credenze, e mutue
assunzioni. E per seguitare la coordinazione essi devono retrodatare o rivedere il loro accordo
momento per momento. Tutte le azioni collettive sono costruite sul senso comune e le sue
accumulazioni” (Clark e Brennan 1990).
Disegnare interfacce significa individuare gli elementi che possono funzionare come binari per la
comunicazione e la costruzione comune di derive, di topic drift. Cioè i luoghi comuni coordinati da
regole anomiche che consentano il proseguire sintanto che non si instauri il coordinamento e
l’accordo – consentendo la recezione del feedback e il nuovo modellamento. L’addestramento che
diceva Wittgenstein.
Per chi non si occupi di soft, è difficile credere che simili osservazioni siano di giovamento
all’effettivo uso del computer ed alla sua progettazione. Ma basta avere anche poca esperienza per
ricordare esempi d’insuccessi in sezioni di lavoro dovuti appunto a fraintesi oppure ad una poco
attenta progettazione dell’azione, cioè errori nella regia del percorso commessi da chi ha disegnato
le interfacce o dall’utente - che difatti Laurel chiama sempre agente umano invece che ‘utente’, a
rinforzare l’immagine di un’azione svolta in collaborazione, in una sorta di conversazione. La tesi
da lei proposta è appunto che se l’interazione uomo computer è un’azione, le maggiori suggestioni
cui occorre prestare attenzione non sono quelle del design o della cibernetica, ma quelle della
drammaturgia. Il teatro ha sempre sceneggiato l’azione umana trovandone regole e modi di renderle
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fluenti e contestuali. Come articolazione di una conversazione di vari livelli, orientata all’esibizione
di una trama, di un evento esemplare. Perché questo accada occorre quella naturalezza data dalla
natura non progettuale dell’opera teatrale, quella capacità di ricollocare lo spettatore in un
coinvolgimento che è collaborazione alla fantasia interattiva sistematica in cui consiste l’opera: un
recupero, insomma, di una natura conversazionale accanto alla rigidità di uno script – la virtù
dell’attore, oltre che dello sceneggiatore. Per conoscere il mondo dell’uomo, il modo con cui si
rapporta alla macchina, i suoi scopi, le sue probabili incertezze. Dunque, esercitare la fantasia per
prevedere i suoi progetti. Una interfaccia funzionale sarà dunque il frutto di una conversazione viva
con un utente simbolico; solo riuscendo a programmare l’azione del computer insieme a quella
dell’agente umano, come in una danza, senza dover ricorrere alla guida, senza interrompere la
confusione benefica che è naturalezza, il rapporto sarà felice, affezionando all’uso del computer.
6. L’accordo sotterraneo delle regole
La conversazione va considerata come quel gioco del linguaggio in cui la doppia articolazione dei
segni si apre maggiormente al rumore ed alla confusione, contro cui, di solito, la comunicazione
rivolge la propria cura. Ma grazie alla sua regola, indefinibile, questo ’spazio di gioco’ (Gadamer)
rivela le sue potenzialità. Perché essa non è pregnanza di simbolo estetico, aperto a tutti i silenzi, ad
ogni narcisismo; non è semplicemente difetto, confusione: è piuttosto la rivelazione delle implicite
possibilità del linguaggio perché ha natura più che linguistica comunicativa, è parola rivolta ad un
altro, che intende e risponde. Addestrandosi in un esercizio atletico che mette alla prova la ragione
comune. Esercitando a coordinare un accordo nella misura del feedback - la musica di Mozart
suonata nel duetto, l’improvvisazione comune degli attori (practical reasoning e architettura IF),
l’accordo implicito tra gli attanti di una conversazione.
Il costituirsi di regole anomiche si deve alla tutela dello spazio di gioco, alla sua conservazione per
consentire l’addestramento. Sono a guardia di un mistero che non si svela, la costituzione della
comunità dei parlanti. Non si svela non perché sia mistico ma perché non c’è una logica del tutto, o
una storia, o una lingua; come lo spirito di Laplace, ha un ordine segreto indicibile. Non si spiega
con un punto di vista o con alcuni, ma col concorso di ciascuno; non di un gioco ma di tutti i giochi;
non solo degli allocutori, ma della lingua e del senso comune. Grande coinonia di possibili che si
ordina in un senso grazie a binari rigidi che consentano l’esplorazione dell’orizzonte. “Vero e falso
è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una
concordanza delle opinioni ma della forma di vita” 58.
58 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, cit., n. 241.
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Ordine indicibile, ma che trova espressione nell’arte, nella somiglianza della musica e della danza.
In esse il calcolo si unisce all’immaginario in un mistero additato sin dall’antichità come arcano.
Che si tenta di definire con immagini numeriche, per dare forza alla ragione: senza intendere che
esso invece è il limite, cui occorre fermarsi, lo specchio in cui non si può entrare senza che il
linguaggio prenda vita propria e disegni un corpo alle fantasie ed ai modi di dire, come volle Lewis
Carroll. La dialettica del riflesso disegnata da Schelling nel dialogo del 1804 Bruno, in cui
l’immagine del pensiero di Bruno diventa momento di elaborazione dialettica, rifiuta le dialettiche
della contrarietà e della contraddittorietà disegnate dall’antichità per definire la dialettica
dell’infinito, nata nel nostro Rinascimento con Cusano e Bruno (Franchini 1964). Entrambe godono
di un terzo, di una possibile conciliazione, nell’identità o nell’esclusione. La vera dialettica
dell’infinito è quella del riflesso: l’immagine nello specchio che è identica ma inconciliabilmente
diversa, che obbliga a tornare al dettaglio, che impone il diverso come dannazione e ricchezza, che
non consente pace – all’infinito. Nel dettaglio è la verità possibile, e insieme la condanna del sogno
di Prometeo: ma è la verità, per affermare la quale, il rogo può anche essere un’alternativa
accettabile 59.
Occorre perciò non tentare il disvelamento della dea Sais, ma costituire un’immagine capace di
rendere l’armonia, come risuonava una volta la musica delle sfere; nitida e rivelatrice, essa svelava
consistenze che si tentava di eternare, di rendere permanenti. Un mondo antico, una favola dal senso
perduto.
“Ciò che io chiamo ‘immaginazione uditiva’ è il senso delle sillabe e del ritmo, che penetra molto al
di sotto del livello cosciente del pensiero e sentimento, dando nerbo ad ogni parola; sprofondando
nel più primitivo e dimenticato, ritornando all’origine e riportandosi indietro qualcosa, alla ricerca
dell’inizio e della fine”60. L’immaginazione uditiva di Eliot si abbandona al senso sotteso
all’espressione, all’inespresso che cerca ordine. Ritmo, perché musicale: nella comunicazione la
musica non ha funzione fatica ma implicativa; rinforza il contatto perché ha funzioni ludiche,
imperative, mnemoniche e riflessive 61. Un gioco che impone di essere con altri, di seguire una
coreografia, contandone i passi successivi – una memoria che apre a nuove sensazioni. Si va al di là
delle note, alla globalità del testo e del movimento, si va in cerca, nella ripetizione regolata.
Lo stile di vita per Maffesoli è il ritmo segreto dell’accordo prossemico con cui ci si unisce al
sociale 62. Per Deleuze, lo stile “non è una struttura significante, né un’organizzazione riflessa, né
un’organizzazione spontanea, né un’orchestrazione, né una musichetta. E’ un concatenamento, un
59 G.W.F. SCHELLING, Bruno, ESI 1994. V. il ns. articolo di prossima pubblicazione nella “Nuova Antologia”.
60 Una frase di Th. ELIOT che cita DELEUZE, op. cit., p.196.
61 U.VOLLI, op. cit.
62 M.MAFFESOLI, La contemplazione del mondo, cit., pp. 28-31.
30
concatenamento di enunciazione. Uno stile significa riuscire a balbettare nella propria lingua”63.
Balbettare, cioè esercitare la lingua non in funzione semantica ma assaporandone la musicalità.
Ponendosi sulle sue scie. Se la musica – come ogni arte - è liberazione dal tempo convenzionale per
la creazione di un tempo autonomo 64, in essa si presenta la forma depositata dalla ripetizione,
combinando la concretezza di molti sensi, un balbettio che decostruisce e ricostruisce.
Ritmo, stile, conversazione, sono una ripetizione governata da regole che può tentare la nuova
combinazione: dove sia possibile appropriarsi di ciò che si riconosce, dell’immagine allo specchio
che ci riflette e cristallizza l’effimero eternandolo. Una vibrazione mantenuta e sospesa,
indefinibile, misteriosa, che non trascende quel che si va intendere. Piuttosto l’accompagna e la
modula nella comunità in cui si pratica il gioco degli occhi nell’attesa del logo. Il silenzio non vi è
mistico: è una pausa di esercizio del ragionevole che si protende nell’immaginario. La comunità che
pratica quest’esercizio si riconosce nella fiducia nella ragione possibile, nel consenso su di una
regolarità da rispettare senza necessità. Le regole, perciò, sono un atto di fiducia, non una codifica;
un comune consenso che fonda la comunità in un ritmo che consente l’intersoggettività.
Il ritmo, dice Herman Hesse nel disegno del grande gioco delle perle di vetro 65, immagine di gioco
con cui si conclude questo troppo sintetico discorso – un disegno di attività futura -, per i cinesi è la
caratteristica della musica ordinata, al contrario delle melodiche decadenti, romantiche. “Dal ritmo
(il battere delle mani e dei piedi, la percussione di pezzi di legno, il primitivo stamburare) essa era
un mezzo energico e provato per ‘accordare’ alcuni o molti uomini, per uniformare il palpito del
loro cuore, il respiro e lo stato d’animo, per invitarli a invocare e scongiurare le potenze eterne, a
danzare, a lottare, a partire per la guerra, a compiere riti sacri. Questa natura originaria, pura e
potente, la natura magica, fu mantenuta alla musica molto più a lungo che alle altre arti… in pratica
la marcia e la danza non hanno mai perduto il loro significato”. Perciò lega la comunità, come
vollero gli adepti della Montagna della Verità, la grande comunità di inizio secolo in cui tanti
aspetti richiamano l’attuale comunità newage. Però il gioco delle perle che Hesse immagina, ala di
gabbiano nell’orrore del nazismo, conserva quell’idea del ritmo in un disegno molto più raffinato di
una rifondazione sauvage, fuori del contesto della civilizzazione.
Il gioco delle perle di vetro indica piuttosto il processo combinatorio (Trione, 1992, 1999) per cui la
riduzione all’essenziale delle note consente la formazione di derive che modellano nuovi giochi
possibili. Ridotta alla sua ultima essenza, segnata nel riflesso di una Perla di Vetro, la linea di un
gioco di coerenza è certo lontana dal suo senso storico, si priva del suo significato metadiscorsivo.
Ne resta il segno, che non indica oggetti, ma una possibile intima coerenza che nella riduzione
63 DELEUZE, op. cit., p.10
64 C. DALHAUS – H.H. EGGEBRECHT, Che cos’è la musica, Il Mulino, Bologna 1988.
65 H. HESSE, Il gioco delle perle di vetro, Milano 1997 (43), p.27
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lineare può combinarsi ad altre. In nuove connessioni che possono figurare anche “l’insieme della
vita. Sia fisica che spirituale, è un fenomeno dinamico del quale il Giuoco delle perle di vetro
contempla in fondo solo il lato estetico e lo contempla soprattutto nel quadro di fenomeni ritmici”66.
Il Gioco delle perle di vetro giocato in Castalia, è la possibile combinazione dei significati; il
Maestro del Gioco detta le regole del gioco ogni anno, e tutti i Giocatori vi partecipano accettando
quell’idea di combinazione. Waldzell, dove in Castalia si educano i Giocatori, è il Collegio cui
vengono destinati coloro che non eccellono in una sola materia, hanno piuttosto l’istinto della
connessione; per tutta la vita ricercano liberamente i luoghi della possibilità. Il Gioco delle Perle di
Vetro nacque dopo l’epoca appendicistica, l’età della Terza Pagina, dove s’intuì la ricchezza del
palinsesto, la capacità di stare nel disordine, nella confusione positiva dello Zen, alla ricerca
dell’eleganza di regole provvisorie, senza necessità, da rispettare pel comune accordo.
Il bello delle Perle di Vetro bene s’intende nel protagonista, Josef Knecht (Servo – colui che
ascolta), Maestro del Gioco: sviluppare la sublime astrattezza della combinazione delle perle, non è
astrarsi dalla storia. La purezza della combinazione indica invece una possibilità di esistenza, verso
cui avere rispetto – un Weltkind slegato dal panlogismo: “Poiché, quand’anche in certo qual modo e
per uomini leggeri le cose non esistenti possano rappresentarsi con parole più facilmente e con
minore responsabilità delle esistenti, allo storico pio e coscienzioso accade esattamente il contrario:
nulla si sottrae tanto alla rappresentazione mediante la parola e d’altro canto nulla è tanto necessario
porre davanti agli occhi dell’uomo quanto certe cose, la cui esistenza non è né dimostrabile né
probabile, le quali però appunto perché uomini pii e coscienziosi, le trattano quasi fossero cose
esistenti, si avvicinano un poco all’essere e alla possibilità di nascere” 67. La quasi esistenza del
nuovo rende necessario il rispetto della consistenza, ma anche inevitabile il corteggiamento senza
possesso, la vicinanza nell’ombra che svela senza rivelare. La razionalità è una premessa ed un
ascolto, non una prevaricazione. Ed è essa, in fondo, la regola indefinibile del percorso.
66 Ivi, p.110
67 E’ l’Introduzione, ivi, firmata da Albert Secundus

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