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Thursday, July 7, 2011

Varchi, "L'ercolano, ovvero agli alberi, dialogo nel quale si ragiona generalmente delle lingue, e in particolare della fiorentina e della toscana"

Luigi Speranza

Dedica

ALL’ILLUSTRISSIMO ED ECCELL. SIG. SUO
E PADRONE OSSERVANDISS.

IL SIGNOR

DON FRANCESCO MEDICI
PRENCIPE DELLA GIOVENTÙ FIORENTINA,

E DI QUELLA DI SIENA,
UMILE E DIVOTISSIMO SERVO

BENEDETTO VARCHI

Tutte le cose che si fanno sotto la Luna, si fanno, Illustriss., ed Eccellentiss. Prencipe, o dalla natura, mediante Dio, o dall’arte, mediante gli uomini.

Delle cose che si fanno dalla natura, mediante Dio, la più nobile, e la più perfetta è, senza alcuna controversia, l’uomo, sì in quanto alla materia sua, cioè il corpo, il quale non ostante che sia generabile, e corrottibile, come quello degli altri animali, è non di meno il più temperato, e il meglio organizzato, e insomma il più degno, e il più maraviglioso, che ritrovare si possa, e sì massimamente in quanto alla forma, cioè all’anima; conciossiacosaché l’intelletto umano posto (come diceva quel grandissimo Arabo Averrois) nel confine del tempo, e dell’eternità, come è l’ultima, e la men perfetta di tutte l’intelligenze divine, e immortali, così è la prima, e la più nobile fra tutte le creature mortali, e terrene. Delle cose che si fanno dall’arte, mediante gli uomini, lo scrivere, non lo scrivere semplicemente, ma lo scrivere copiosamente, e ornatamente, cioè con eloquenza è la più disiderabile da tutti, e la più disiderata dagl’ingegni nobili, non dico che sia, ma che essere possa. La qual cosa, perché non dubito che debba parere a molti come nuova, così ancora strana, e forse non vera, proveremo chiarissimamente in questa maniera.
Tutte le cose, qualunque, e dovunque siano, per lo innato disiderio d’assomigliarsi al facitore, e mantenitone loro, cioè a Dio ottimo, e grandissimo, quanto sanno, e possono il più, disiderano ciascuna sopra ogni cosa l’essere: l’essere è di due maniere, sensibile ovvero materiale, e intelligibile, ovvero immateriale; l’essere sensibile è quello che ciascuna cosa ha nella sua materia propria fuori dell’anima altrui, come (per cagion d’esempio) un cane, o un cavallo considerato in sé stesso come cane, o come cavallo; l’essere intelligibile è quello che ciascuna cosa ha fuori della sua propria materia nell’anima altrui, come un cane, o un cavallo considerato non in sé stessa, ma come egli è inteso dall’intelletto umano, e in lui riserbato, il quale per questa cagione si chiama da’ filosofi il luogo delle spezie, ovvero delle forme, cioè de’ simulacri, e delle sembianze, ovvero similitudini delle cose intese, e per conseguenza ricevute da lui.

Di questi, duo’ esseri, per dir così, non il sensibile, il quale essendo materiale, è necessario che quando che sia si corrompa, ma l’intelligibile, il quale essendo sensa materia, può durare sempre, è fuori d’ogni dubbio il più degno, e conseguentemente il più desiderabile; onde un cane, o un cavallo, e così tutte l’altre cose, hanno più perfetto essere, e più nobile nella mente di chiunche l’intende, che elleno non hanno in se stesse: anzi in tutto questo mondo inferiore nessuna cosa, essendo tutte composte di materia, può avere né più nobile essere né più perfetto, che nell’intelletto umano, quando ella è intesa, e riserbata da lui; e quanto è più nobile, e piú perfetto intelletto che intende alcuna cosa, tanto ha quella cosa la quale è intesa, più perfetto, e più nobile essere; senza che, l’essere sensibile, non potendo alcuna cosa avere se non una forma sola, non può essere se non un solo, dove gl’intelligibili possono esser tanti, quanti sono gl’intelletti, e conseguentemente quasi infiniti; perché da quanti intelletti è intesa, e riserbata alcuna cosa, tanti esseri intelligibili viene ad avere, e per conseguenza a perpetuarsi quasi infinitamente, e ciò in due modi, di tempo, e di numero, potendo essere intesta da infiniti intelletti infinito tempo; cosa veramente divina, e oltra tutte le meraviglie maravigliosa, posciaché quello che non potette far natura per la imperfezione della materia, cioè perpetuare gl’individui in sé stessi, fece doppiamente l’arte per la perfezione dell’intelletto umano.

A voler dunque che qualsisia cosa consegua la più nobile perfezione, e la più perfetta nobiltà, e insomma la maggior felicità, e beatitudine che si possa, non dico avere in questo mondo, ma desiderare, e farla eterna; e a volerla eternare, bisogna farla intendere dagl’intelletti umani, e a farla intendere agl’intelletti umani, ci sono tre vie senza più, due imperfette, e ciò sono la pittura, e la scultura, che fanno conoscere solamente i corpi, e a tempo, e una perfetta, cioè l’eloquenza, la quale fa conoscere non solamente i corpi, ma gli animi, non a tempo, ma perpetualmente.

E questo è quello che volle dottissimamente, e non meno con verità, che con leggiadria, significare M. Francesco Petrarca, quando scrivendo al Sig. Pandolfo Malatesta da Rimini, così famoso nelle lettere, come nell’armi, disse: Credete voi, che Cesare, o Marcello, O Paulo, od Affrican fusser cotali, Per incude giammai, né per martello?, Pandolfo mio, queste opere son frali, A lungo andar, ma ’l nostro studio è quello, Che fa per fama gli uomini immortali, Dunque se l’essere è la prima, e la più degna, e la più non solo desiderevole, ma disiderata cosa che sia, anzi, che essere possa, e l’essere intelligibile è più nobile, e più perfetto senza comparazione dell’essere sensibile, e le belle, e buone scritture ne danno l’essere intelligibile, certa cosa è che lo scrivere bene, e pulitamente è la più nobile, e la più peretta cosa, e insomma la più desiderevole non solo che facciano, ma eziandio che possano fare gli uomini per acquistare eterna fama, e perpetua gloria o a se medesimi, o ad altri, e conseguentemente o per vivere essi, o per far vivere altrui infinite vite infinito tempo. E di quì si dee credere che nascesse, che gli antichi così poeti, come prosatori erano in tanta stima tenuti, e in così grande venerazione avuti in tutti i paesi, e appresso tutte le genti quantunque barbare.

E che Giulio Cesare, ancorché fusse non mena eloquente, che prode, portava una grandissima, ma lodevolissima, invidia a Marco Tullio Cicerone, dicendo essere stato maggior cosa, e viepiú degna di loda, e d’ammirazione l’avere disteso, e accresciuto i confini della lingua Latina, che prolungato, e allargato i termini dell’imperio Romano.

Onde non senza giustissima cagione affermano molti, con assai minor danno perdersi le possessioni de’ Regni, che i nomi delle lingue; e che maggiormente deve dolersi la città di Roma, e tutta l’Italia delle nazioni straniere, perché elleno le spensero si bella lingua, che perché la spogliarono di sì grande imperio; e io vorrei che alcuno mi dicesse quello che sarebbero gli uomini, e quanto mancherebbe al mondo, se non fossero le scritture così de’ prosatori, come de’ poeti. Queste sono le cagioni, Illustrissimo, ed Eccellentissimo Principe, perché io, senza avere alla mia bassezza risguardo avuto, ho preso ardimento d’indirizzare all’Altezza vostra un Dialogo fatto da me novellamente sopra le lingue. E di vero, se io altramente fatto avessi, egli mi parrebbe d’aver commesso scelleratezza non picciola, perciocché, oltra che io sono e servo, e stipendiato del sapientissimo, e giustissimo non meno, che grandissimo, e fortunatissimo Padre vostro, e conseguentemente di voi, la materia della quale si ragiona, è tale, che ad altri che alla sua, o alla vostra Eccellenza indirizzare giustamente non si potea. Ma considerando io il grandissimo peso delle tante, e tanto grandi, e così diverse faccende che ella nel proccurare la salute, e la tranquillità del suo fiorentissimo, e felicissimo stato di Firenze, e di Siena continovamente regge, e sostiene, giudicai più convenevole, e meno alle riprensioni sottoposto, il mandarlo a voi.

La cagione del componimento del Dialogo fu, che avendo io risposto per le cagioni, e ragioni lungamente, e veramente da me narrate, alla risposta di M. Lodovico Castelvetro da Modona fatta, contra l’Apologia di M. Annibal Caro da Civitanuova, e mostratala ad alcuni carissimi amici, e onorandissimi maggiori miei, eglino, i quali comandare mi poteano, mi pregarono strettissimamente che io dovessi, innanzi che io mandassi fuori cotal risposta, fare alcuno trattato generalmente sopra le lingue, e in particolare sopra la Toscana, e la Fiorentina; e poi così pareva a me, come a loro, mostrare quanto non giustamente hanno cercato molti, e cercano di torre il diritto nome della sua propria lingua alla vostra città di Firenze. È adunque tralle principali intenzioni mie nel presente libro, il quale io dedico per le cagioni sopraddette a Vostra Eccellenza la principalissima, il dimostrare, che la lingua colla quale scrissero già Dante, il Petrarca, e il Boccaccio, e oggi scrivono molti nobili spiriti di tutta Italia, e d’altre nazioni forestiere., come non è, così non si debba propriamente chiamare né Cortigiana, né Italiana, né Toscana, ma Fiorentina; e che ella è, se non più ricca, e più famosa, più bella, più dolce, e più onesta che la Greca, e la Latina non sono; la qual cosa se io ho conseguita, o no, niuno né può meglio, né dee con maggior ragione voler giudicare, che l’Eccellenza Vostra, e quella dell’Illustrissimo Padre vostro, sì per l’intelligenza, e integrità, e sì per l’imperio, e potestà loro; dalla cui finale sentenza come niuno appellare non può, così discordare non doverebbe; e nondimeno io per tutto quello o poco, o assai che a me s’aspetta, sono contentissimo di rimettermi liberalissimamente ancora al giudizio di tutti coloro a cui cotal causa in qualunqne modo, e per qualunque cagione appartenere si potesse, solo che vogliano non l’altrui autorità, ma le ragioni mie considerare, e più che l’interesse proprio, o alcuno altro particolare rispetto, la verità risguardare, come giuro a Vostra Eccellenza per la servitù, e divozione mia verso lei, e per tutte quelle cose le quali propizie giovare, e avverse nuocere mi possono, d’aver fatto io.
Resterebbemi il pregarla umilmente, che si degnasse d’accettare questo dono, tuttoché picciolo, e non ben degno della grandezza sua, volentieri, e con lieto viso; ma io sappiendo che ella premendo tutte l’orme in così giovenile età, e calcando altamente tutte le vestigia di tutte le virtù paterne, è non meno benignamente severa, che severamente benigna, la pregherò solo, che le piaccia, per la sua natia bontà, di mantenermi nella buona grazia di lei, e di tutta l’Illustrissima, ed Eccellentissima Casa sua; la quale nostro Signore Dio conservi felicissima, e gloriosissima sempre.

DIALOGO DI

MESSER

BENEDETTO VARCHI INTITOLATO

"L'ERCOLANO, OVVERO AGLI ALBERI"

Nel quale si ragiona generalmente
delle lingue,

e in particolare della

LINGUA FIORENTINA, e della

LINGUA TOSCANA.

Interlocutori

Il Molto Rev. D. Vincenzio Borghini Priore degl'Innocenti,E Messer Lelio Bonsi Dottore di Leggi.

Che vi par di questa villa, Messer Lelio? Dite il vero,piacevi ella?


BONSI

Bene, Monsignore, e credo che a chi ellanon piacesse, si potrebbe mettere per isvogliato.

E purtesté guardando io da questa finestra, considerava tra me medesimo, che ella essendo quasi in sulle porte di Firenze, e fatta con tanta cura, e diligenza assettare, e coltivare da V. S. debbe arrecare moltissimi non solamente piaceri, e comodi, ma utili a quei poveri, e innocenti figliuoli i quali oggi vivendo sotto la paterna custodia vostra, si può dire che vivano felici; né vi potrei narrare, quanto questa bella vigna, ma molto più quelli alberi ond'io penso che ella pigliasse il suo nome, mi dilettino, sì per la spessezza, e altezza loro, i quali al tempo nuovo deono soffiati da dolcissime aure porgerne gratissima ombra, e riposo, e sì per lo esser eglino con diritto ordine piantati lungo l'acqua in sulla riva di Mugnone, sopra la quale (come potete veder) non molto lontano di quì fu un tempo con M. Benedetto Varchi, e con M. Lucio Oradini il luogo de' Romiti di Camaldoli la mia dolce Accademia, è 'l mio Parnaso; e quello che mi colma la gioja, è l'aver io trovati quì per la non pensata tutti quelli onoratissimi, e a me si cari giovani, fuori solamente Messer Giulio Stufa, e M. Jacopo Corbinegli, in compagnia de' quali vissi così lietamente, già è un anno passato, nello Studio di Pisa.

E ciò sono M. Jacopo Aldobrandini, M. Antonio Benivieni, M. Baccio Valori, eM. Giovanni degli Alberti; la cortesia de' quali, e le molte loro virtù mai della mente non m'usciranno. Per le quali cose non V. S. a me, come dianzi mi diceva, ma io a lei sarò dello avermi ella fatto quì venire perpetuamente tenuto.

BORGHINI.

Pensate voi, M. Lelio, ciò essere stato fatto a caso, e senza veruna cagione?

BONSI.

Signor no, perché la S. V. è prudentissima, e i prudenti uomini non fanno cosa nessuna a caso, né senza qualche cagione.

BORGHINI.

Di grazia lasciamo stare tante Signorie, e chiamatemi, se pur volete onorarmi, e lodarmi, non prudente, ma amorevole; perciocché dovete sapere che questi quattro con alcuni altri giovani miei amicissimi, e per avventura vostri, i quali mi maraviglio che non siano a quest'ora arrivati, ma non possono stare a comparire, avendo inteso del ragionamento che fece a' giorni passati sopra le lingue M. Benedetto Varchi col Conte Cesare Ercolani in vostra presenza, e desiderando grandemente, d'intenderlo, mi pregarono strettissimamente che io dovessi mandar per voi, e oprar sì, che vi piacesse in questo luogo dove non fussimo né interrotti, né disturbati, raccontarlo; perché io, il quale molto disidero soddisfare a cotali persone, ed anco aveva caro d'udirlo, sappiendo qual fusse la cortesia, e amorevolezza vostra, feci con esso voi a sicurtà, e ora colla medesima confidenza vi prego che non vi paja fatica di compiacere e a loro, e a me; se già non pensaste che ciò dovesse dispiacere a M. Benedetto; il che io, e per la natura sua, e per la scambievole amistà nostra, e per l'amore che egli a tutti, e a ciascuno di questi giovani porta grandissimo, non credo.

BONSI.

Troppo maggior fidanza che questa non è stata, potevate, Monsignore, e
potete, quantunque voglia ve ne venga, pigliare di me, il quale né in questa, la quale però non so come sia per riuscirmi, né in altra cosa alcuna la quale per me fare si possa, né voglio, né debbo non ubbidirvi, e M. Benedetto non solo non si recherà ciò a male, ma gli sarà giocondissimo, sì per le ragioni pur ora da voi allegate, e sì ancora per quelle che poscia nel ragionar mio sentirete. Ma ecco venire di quaggiù Piero Covoni Consolo dell'Accademia, con Bernardo Canigiani, e Bernardino Davanzati; oggimai questo giorno sarà per me da tutte le parti felicissimo; e se la vista non m'inganna, quei due, i quali alquanto più addietro s'affrettano di camminare, forse per raggiugnerli, sono Baccio Barbadori, e Niccolò del Nero.

BORGHINI.

Sono dessi; chiamiamo questi altri giovani, e andiamo loro incontra; ordinate intanto da desinare voi; e voi,

Bonsi mio caro, desinato che aremo, e riposatici alquanto, potrete cominciare senza altre scuse, o cirimonie, che vi so dire che arete gli ascoltatori non solamente benivoli, ma attenti, e per conseguente docili.

BONSI.

Quando le parrà tempo, V. S. m'accenni, che io di tutto quello che saprò, e potrò, non sono per mancare, che che avvenire mene possa, o debba.

BORGHINI.

Messer Lelio, le nostre vivande non sono state né tante, né tali, e voi insieme con questi altri di quelle poche, e grosse avete sì parcamente mangiato, che io penso che ne voi, né eglino abbiano bisogno di riposarsi altramente; però potete, quando così vi piaccia, incominciare a vostra posta.

BONSI.

Tutto quello che a V. R. Sig. e a così orrevole brigata piace ed aggrada, è forza che piaccia, e aggradi ancora a me. Avete dunque a sapere, molto Reverendo Signor mio, e voi tutti nobilissimi, e letteratissimi giovani, che il Conte Cesare Ercolano, giovane di tutti i beni da Dio, dalla Natura, e dalla Fortuna abbondevolmente dotato, passando, non ha molti giorni, di Firenze per andarsene a Roma, volle per la somma, ed inestimabile affezione che si portano l'uno l'altro, vicitare Messer Benedetto, e benché avesse fretta, e bisogno di ritrovarsi in Roma con M. Giovanni Aldrovandi Ambasciatore de' Signori Bolognesi, uomo di singolarissime virtù, starsi tutto un giorno con esso seco, e non l'avendo trovato in città, come si pensava, se ne andò alla villa sopra Castello, dove egli abita, nella quale mi trovava ancora io; e perché giunse quasi in sull'ora del desinare, dopo le solite accoglienze, e alcuni brevi ragionamenti d'intorno per lo più al bene essere del Sig. Cavaliere suo padre, e di tutti gli altri di casa sua, spasseggiato così un poco in sul pratello, ch'è dinanzi alla casa, e dato una giravolta per l'orto, il quale molto gli piacque, ancoraché vi fosse stato un'altra volta più giorni col Conte Ercole suo fratello, e commendata con somme, e verissime lodi la liberalità, e cortesia dell'Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signor Duca nostro, il quale così comoda stanza e così piacevole conceduto gli avea, ce ne andammo a desinare in su uno terrazzino, il quale posto sopra una loggetta con maravigliosa, e giocondissima veduta scuopre, oltra mille altre belle cose, Firenze, e Fiesole; dove, fornito il desinate, il quale non molto durò, il Conte Cesare con dolce, e grazioso modo verso M. benedetto rivoltosi cominci a favellare in questa maniera. Deh caro, ed eccellente M. Benedetto mio, ditemi per cortesia, se egli è vero quello che M. Girolamo Zoppio, e molti altri m'hanno in Bologna affermato per verissimo, cioè voi aver preso la difiesa del Commendatore M. Annibale Caro contra M. Lodovico Castelvetri. Alle quali parole rispose subitamente M. Benedetto: io non ho preso la difensione di M. Annibale Caro, ancorché io gli sia amicissimo, ma della verità, la quale molto più m'è amica, anzi (per meglio dire) di quello che io credo che vero sia e ciò non contra M. Lodovico Castelvetri, al quale io nemico non sono, anzi gli disidero ogni bene, ma contra quello che egli ha contra M. Annibale scritto; e (per quanto posso giudicare io) con poca, e forse niuna ragione, e certo senza apparente non che vera cagione. Sta bene, soggiunge allora il Conte Cesare, ma io vorrei sapere quai ragioni, o quai cagioni hanno mosso voi a dovere ciò fare. Poiché vi par poco (rispose allora M. Benedetto) adoperarsi in favore della verità, la quale tutti gli uomini, e spezialmente i Filosofi, deono sopra tutte le cose difendere, e ajutare, quattro sono state le cagioni principali le quali m'hanno, e (secondoché io stimo) non senza grandissime, e giustissime ragioni a ciò fare mosso, e sospinto; la prima delle quali è la lunga, e perfetta amicizia tra 'l Cavalier Caro e me; la seconda, la promessione fatta da me al Caro per conto, e cagione del Castelvetro; la terza, il difendere insieme con esso meco tutti coloro i quali hanno composto o in prosa, o in verso nella lingua nostra; la quarta, ed ultima, non mi pare per ragionevole rispetto, che si debba dire al presente. E perché il Conte Cesare pregò M. Benedetto che gli piacesse di più distesamente, e particolarmente dichiarargli ciascuna di quelle quattro cagioni, egli in cotal guisa continovò iil. favellar suo: quanto alla prima, sappiate che la familiarità che io tengo con M. Annibal Caro, ed egli meco infino da' suoi, e miei più verdi anni, è piuttosto fratellanza, che amistà, e forse non inferiore ad alcuna di quelle quattro, o cinque antiche, le quali con tanta maraviglia sono raccontate, e celebrate dagli scrittori così Greci, come Latini; perché io non potea, né dovea, ricercandomene egli con tanta instanza, e per tante lettere, non pigliare a difendere le ragioni sue in quel tempo massimamente che egli per le molte, e importantissime faccende dell'Illustrissimo, e Reverendissimo Cardinale Farnese suo padrone, il quale si trovava in Conclave, non aveva tempo di poter rifiatare, non che di rispondere alla Risposta del Castelvetro. Quanto alla seconda, che vi parrà forse maggiore, M. Giovanni... il quale per la Dio grazia si trova oggi vivo, e sano, mi venne, sono già più anni varcati, a trovare in sulla piazza del Duca, e salutatomi da parte di M. Lodovico Castelvetro molto cortesemente, mi disse per nome di lui, come egli avea inteso per cosa certissima, che l'Apologia del Caro era nelle mie mani, e di più, che sapeva che esso M. Annibale o la stamperebbe, o non la stamperebbe secondoché fusse a ciò fare, o non fare, da me consigliato: perché mi mandava pregando quanto sapeva, e poteva il più, che io non solo volessi consigliarlo, ma pregarlo, ed eziandio sforzarlo, per quanto fusse in me, a doverla, quanto si potesse più tosto, stampare, e mandare in luce; della qual cosa egli mi resterebbe in infinita, e perpetua obbligazione, soggiugnendo, che la spesa la quale nello stamparla si facesse, pagherebbe egli, e a tale effetto aver seco portati danari. Parvemi strana cotale proposta, e dubitando non dicesse da beffe, gli domandai se egli, diceva da vero, e se M. Lodovico gli aveva, che mi dicesse quelle parole, commesso; e avendomi egli risposto, che sì, soggiunsi: M. Lodovico ha egli veduto l'Apologia? E avendo egli risposto di no, anzi che faceva questo per poterla vedere, gli risposi: Fategli, intendere per parte mia, poiché voi dite ch'è m'è amico, e tiene gran conto del mio giudizio, che non si curi né di vederla egli, né di procurare che altri vedere la possa, e che se ne stia a me, il quale l'ho letta più volte, e considerata, che ella dice cose le quali non gli piacerebbono. Al che M. Giovanni tostamente replicò: Egli sa ogni cosa per relazione di diverse persone che veduta l'hanno, e a ogni modo disidera sopra ogni credere che ellasi stampi, e vada fuori. Deh diteli (gli dissi io un'altra volta) da parte mia, che non se ne curi, perciocché se egli in leggendola non verrà meno, farà non piccola pruova, e di certo egli per mio giudizio suderà, e tremerà in un tempo medesimo. Lasciate di cotesto (rispose egli) la cura, e il pensiero a chi tocca, e non vi caglia più di lui, che a lui stesso; e altre così fatte parole. Andate, che io vi prometto (risposi io allora), e così direte a M. Lodovico per me, che io farò ogni opera che egli sia sodisfatto, non ostante che io fossi più che risolutissimo di volermi adoperare (come ho fatto infin quì) in contrario. E così scrissi tutta questa storia al Cavaliere, e rimandandogli l'Apologia lo confortai, e pregai a doverla stampare, e far contento il Castelvetro, allegandogli quel proverbio volgare: A un popolo pazzo, un prete spiritato; e perché egli si conducesse a fare ciò più tosto, e più volentieri, gli promisi di mia spontana volontà, che rispondendo il Castelvetro (cosa che io non credeva) piglierei io l'assunto di difendere le ragioni sue. E perché non crediate che queste sieno favole, avendomi M. Giovambatista Busini amicissimo mio mandato da Ferrara una nota di forse sessanta errori fatti nello stampare la sua risposta, molto nel vero leggieri, e per inavvertenza commessi o de' correttori, o degli stampatori, gli scrissi che lo dimandasse se le cose dettemi in nome suo erano vere, come io credeva; ed egli mi rispose di sì, e che avea ciò fatto per lo intenso desiderio che egli aveva di poter rispondere, e giustificarsi. Quanto alla terza cagione, oltre l'avere io detto a M. Giovanni, che io non pensava che niuno potesse rispondere alle ragioni, e alle autorità allegate da M. Annibale contra l'opposizioni del Castelvetro, se non se forse colui che fatte l'avea, dico ancora che tutte quelle parole che egli riprende nella Canzone del Caro, e molte altre di quella ragione, sono state usate non solo da me ne' componimenti miei o di versi, o di prosa, eziandio, da tutti coloro i quali hanno o prosato, o poetato in questa lingua, come nel suo luogo chiaramente si mostrerà. E rendetevi certo che se le regole del Castelvetro fossero vere, e le sue osservazioni osservare si dovessero, nessuno potrebbe non dico scrivere correttamente, ma favellare senza menda, e, per non aver a replicare più volte, anzi a ogni passo, una cosa medesima, intendete sempre, che io favello secondo il picciolo sapere, e menomissimo giudizio mio, senza volere o offendere alcuno, o pregiudicare a persona in cosa nessuna, prestissimo a corregger mi sempre, e ridirmi ogni volta che da chiunque si sia mi saranno mostrati amorevolmente gli errori miei. Quanto alla quarta, e ultima, io disiderava e, sperava, meditanti gli esempi di molti, e grandissimi uomini così dell'età nostra, come dell'altre, quello che io ora desidero bene, ma non già spero, e se pure lo spero, lo spero molto meno che io non faceva, e ch'io non disidero. Tacquesi, dette queste cose, M. Benedetto, ma il Conte Cesare ripigliando il parlare, Voi m'avete, disse, cavato d'un grande affanno, conciossiacosaché io aveva sentito che molti sconciamente vi biasimavano, i quali si credevano che voi, chi a bel diletto, chi per capriccio, chi per mostrare la letteratura vostra, foste o presuntuosamente entrato in questo salceto, o non senza temerità; il che veggo ora essere tutto l'opposito, e conosco che niuno non dovrebbe credere cosa nessuna a persona veruna senza volere udire l'altra parte, e il medesimo direi a coloro i quali dicono, ciò non essere altro che un cercare brighe col fuscellino, e comperar le liti a contanti. Ma che rispondete voi a quelli che, molto teneri della salute vostra mostrandosi, dicono che l'avere il Castelvetro fatto uccidere Messer Alberigo Longo Salentino; il che voi da prima non potevate credere, vi doveva render cauto, e farvi più maturamente a' casi vostri pensare? Risponderei (rispose subito M. Benedetto) che l'uficio dell'uomo da bene, e il debito del vero amico non dee altro risguardare che il giusto, e l'onesto, e che mai non si debbe un ben certo lasciare per un male che incerto sia; e s'io nol potei credere infino alla presenza vostra, e di tanti gentiluomini tanti cavalieri me ne fecero in Bologna tante volte con testimonianze ampissima fede non dee parere ad alcuno maraviglia, perché . . . . . Non certo (rispose il Conte Cesare anzi che M. Benedetto avesse fornito) e incontanente soggiunse: Non occorre che me ne rendiate altre cagioni, e tanto più che voi sapete che io so benissimo come andò la bisogna; ma vorrei sapere due cose, l'una, se come a' soldati è conceduto combattere coll'arme nelli steccati, così alle persone di lettere si conviene non solamente disputare a voce ne' circoli, ma adoperare eziandio: la penna, e rispondere, colle scritture: l'altra, se dell'opere che escono in pubblico con consentimento degli autori loro, può ciascuno giudicare come gli piace senza tema di dovere essere tenuto o presuntuoso, o arrogante. Ma io, Lelio, ho pensato, per fuggire la lunghezza, e 'l fastidio di replicare tante volte quegli disse, e colui rispose, ragionarvi non altramente che se essi ragionatori fossero quì presenti, cioè recitarvi tutto quello che dissero senza porre altri nomi, o soprannomi, che il Conte, e il Varchi. Dico dunque che il Varchi rispose al Conte Cesare così:

Varchi.

Quanto alla prima dimanda vostra, dico che solo queste due professioni, l'armi, e le lettere, e sotto il nome di lettere comprendo tutte l'arti liberali, hanno onore, cioè deono essere onorate, e chiunque ha onore può essere offeso in esso, e chiunque può essere offeso nell'onore, dee ragionevolmente avere alcun modo mediante il quale lo possa o difendere, o racquistare.

Laonde tutti coloro i quali concedono il duello a' soldati, e a' capitani, sono costretti di concedere il disputare, e il rispondere l'un l'altro, eziandio colla penna, e con gl'inchiostri, agli scolari, e a' dottori. È ben vero che, come il modo del combattere è corrottissimo tra' soldati, non si osservando più né legge, né regola alcuna che buona sia; così, e forse, peggiormente, è guasto il modo dello scrivere, e del disputare tra' dottori non solamente di leggi, ma ancora (il che è molto più brutto, e biasimevole) della santissima Filosofia. Quanto alla seconda, tosto che alcuno ha mandato fuori alcuno suo componimento, egli si può dire che cotale scrittura, quanto appartiene al poterne giudicare ciascuno quello che più gli pare, non sia più sua.

Ma come i ciechi non possono, né debbono giudicare de' colori, così né possono, né debbono giudicare l'altrui scrittore, se non coloro i quali o fanno la medesima professione, o s'intendono di quello che giudicano; e questi cotali non pure non deono essere incolpati né di presunzione, né d'arroganza, ma lodati, e tenuti cari, come amatori della verità, e disiderosi dell'altrui bene.

Anzi crederei io che fosse maravigliosamente non solo utile, ma onorevole sì generalmente per tutte le lingue, e sì in ispezie per la nostra, che qualunque volta esce alcuna opera in luce, alcuni di coloro che sanno, la censurassino, e di sentenza comune ne dicessero, e anco ne scrivessono il parere, e la censura loro. Ben' è vero che io vorrei che cotali censori fossero uomini non men buoni, e modesti, che dotti, e scienziati, e che giudicando senza animosità non andassero cercando, come è nel nostro proverbio, cinque pié al montone, ma contentandosi di quattro, e anco talvolta di tre, e mezzo, piuttosto che biasimare quelle cose che meritano lode, lodassono quelle che sono senza biasimo; e insomma, dove ora molti si sforzano con ogni ingegno di cogliere cagioni addosso agli autori per potergli riprendere, essi s'ingegnassero con ogni sforzo di trovare tutte le vie da dovergli salvare.

C. Se cotesto che voi dite, si facesse, la copia degli Scrittori sarebbe molto minore che ella non è.

VARCHI.

Voi non dite che ella sarebbe anche molto migliore; del che nascerebbe che la verità delle cose si potrebbe apparare non solo più agevolmente, ma ancora con maggiore certezza.

C. Io per me la loderei, e mi piacerebbe che si censurassino ancora degli Scrittori antichi; perché io ho molte volte imparato una qualche cosa da alcuno autore, e tenutola per vera, la quale poi per l'autorità d'un altro Scrittore, o mediante le ragioni allegatemi da chicchesia, e talvolta colla sperienza stessa, la quale non ha riprova nessuna, ho conosciuto manifestamente esser falsa. Ma, lasciando dall'una delle parti quelle cose le quali si possono più agevolmente disiderare che sperare, e più sperare che ottenere, scioglietemi questo dubbio: Se voi siete dell'oppenione che voi siete, perché non volevate voi che il Caro rispondesse all'apposizioni fattegli dal Castelvetro, come si può vedere nella vostra lettera stampata nella fine dell'Apolologia?

VARCHI.

Per molte, e diverse cagioni; la prima: Io non poteva persuadermi che cotali
opposizioni fossero state fatte da vero, né da peraona tinta di lettere, non che da M. Lodovico, il quale io aveva per uomo dotto, e giudizioso molto: la seconda, elle mi parevano tanto parte frivole, e ridicole, parte sofistiche, e false, che io non le giudicava degne, a cui da niuno, non che da M. Annibale, si dovesse rispondere: la terza, elle non erano fatte né con quel zelo, né a quel fine che vo' dire io; oltreché elle mancavano di quella modestia la quale in tutte le cose si ricerca, e da tutti gli uomini, e spezialmente da coloro che fanno professione di lettere, si debbe usare.

C. Dichiaratevi un poco meglio.

VARCHI.

Voglio dire che il fine è quello che giuoca, e che in tutte l'operazioni umane attendere, e considerare si debbe; perciocché siccome molte cose non buone, solo che siano fatte a buon fine, lodare si deono, così molte buone fatte con non buono animo, sono da essere biasimate. Non accadeva al Castelvetro né favellare tanto dispettosamente, né così risolutamente le sue sentenze, (quasi fossero oracoli) pronunziare, dico, quando bene avesse avuto e cagioni, e ragioni da riprendere il Caro.

C. Sì, ma poiché voi sapeste di certo, l'opposizioni essere del Castelvetro, e avevate l'Apologia del Caro nelle mani, non volevate voi che ella s'imprimesse? A me par necessario, poiché voi concedete che si possa rispondere colla penna, e in iscrittura, che voi giudicaste che M. Annibale non si fosse difeso o bene, o a bastanza.

V. Voi v'ingannate.

C. Perché?

V. Perché oltre l'altre cose non fate la division perfetta.

C. In che modo?

V. Perché egli poteva difendersi e bene, e a bastanza, e nondimeno errare nel modo del difendersi.

C. Voi volete dire (secondo me) che egli procedette troppo aspramente; ma se egli fu il primo ad essere offeso, e ingiuriato senza cagione, non doveva egli offendere, e ingiuriare l'avversario suo con cagione per vendicarsi?

V. Forse che no.

C. Io mi vo' pur ricordare che non solo Poggio, il Filelfo, Lorenzo Valla, e molti altri fecero invettive contra i vivi, ma eziandio contra i morti, i quali non potevano avergli offesi; e se pure offesi gli aveano, co' morti non combattono (come dice il proverbio) se non gli spiriti.

V. È vero, ma voi vedete bene a qual termine si condussero le lettere, e che conto tengono i Principi de i letterati, i quali, se fanno quelle cose che gli uomini volgari, e talvolta peggio, non si debbono né maravigliare, né dolere d'essere trattati come gli uomini volgari, e talvolta peggio.
C. È si vede pure che i soldati, che fanno tanto stima dell'onore, quando sono offesi, o ingiuriati con soperchieria, cercano con soperchieria di vendicarsi.
V. E' fanno anco male.
C. Perché?
V. Perché se uno vi tagliasse la borsa, già non vorreste voi, né vi sarebbe lecito tagliarla o a lui, o a un altro per vendicarvi.
C. Che rimedio c'è se il mondo va così?
V. Lasciarlo andare, ma gli uomini prudenti l'hanno a conoscere, e i buoni se ne debbono dolere, e amenduni dove, e quando possono, ripararvi.
C. Pare egli a voi, come a molti, che la risposta del Castelvetro all'Apologia del caro sia scritta modestamente?
V. Non a me, anzi tutto il contrari, perciocché egli ha cercato non pure di difendere, e scaricare se, ma d'offendere e di caricare in tutti quei modi, e per tutte quelle vie che egli ha saputo, e potuto, M. Annibale.
C. E Annibale, che fece verso lui?
V. Il peggio che egli seppe e poté.
C. Dunque il Castelvetro ha avuto ragione a render pane per cofaccia, e il Caro non si può dolere, se quale asino dà in parete, tal riceve.
V. Sì, secondo l'usanza d'oggi, ma a me sarebbe piaciuto che l'uno, e l'altro si fosse più modestamente portato.
C. Deh ditemi chi vi pare ch'abbia detto peggio, o il Caro o il Castelvetro?
V. Il Castelvetro senza dubbio, perché quel di M. Annibale è altro dire.
C. Io non dico quanto allo stile, ma quanto a biasimare l'un l'altro.
V. Amendue si son portati da valentuomini, e hanno fatto l'estremo di lor possa; ma dove M. Annibale procede quasi sempre ingegnosamente, e amaramente burlando, M. Lodovico sta quasi sempre in sul severo.
C. Voi volete inferire, che M. Annibale morde come le pecore, e M. Lodovico come i cani.
V. Cotesto non voglio inferire io, perché tutti e due mordono rabbiosamente, come begli orsi, ma che camminano per diverse strade.
C. Ditemi ancora, qual giudicate voi più bell'opera, o l'Apologia del Caro, o la risposta del Castelvetro? Ma guardate che l'amore non v'inganni, Che spesso occhio ben san fa veder torto; perché voi dovete sapere che come il Castelvetro è biasimato da molti grandissimamente, come uomo poco buono, e poco dotto, così è da moti grandissimamente non meno di bontà che di dottrina lodato.
V. Per rispondere prima all'ultima cosa, io non voglio favellare di M. Lodovico, il quale, perché vorrei che fosse come coloro che lo lodano, dicono che egli è, mi giova di credere che così sia; ma solamente dell'opera sua, la quale a me non pare che tale lo dimostri, anzi, se non tutto l'opposito, certamente molto diverso, qualunche se ne sia stata la cagione, perché alcuni l'attribuiscono allo sdegno non ingiustamente preso per le cose che di lui si dicono nell'Apologia. In qualunche modo io non intendo di volere entrare nella vita, e costumi di persona, se non quando, e quanto sarò costretto dal dover difendere la verità; e allora (per rispondere alla seconda dimanda vostra) mi guarderò molto bene (come mi avvertite) che l'amore, Che spesso occhio ben san fa veder torto, non m'inganni; e tanto più che io in questo giudizio voglio essere (se ben non sono stato chiamato se non da una delle parti) non avvocato, o proccuratore, ma arbitro, e arbitro lontano da tutte le passioni; perché siate certo che tutto quello che io dirò, sarà, se non vero, certo quello che io crederò che vero sia. Ora rispondendo alla prima domanda, dico che l'Apologia del Caro, se egli è lecito (come voi, e molti altri si fanno a credere) procedere cogli avversarj in quella maniera, e insomma fare il peggio che l'uomo può è la più bell'opera che io in quel genere leggessi mai: dove la risposta del Castelvetro mi pare altramente, e insomma che abbia a fare poco, o nulla, con quella e in quanto alla vaghezza dello stile, e in quanto alla lealtà della dottrina, in quel modo che dichiarerò più apertamente nel luogo suo.

C. Molto mi piace che voi abbiate cotesto animo di non volere pregiudicare a nessuno, e così vi conforto, e prego, e scongiuro che facciate, e anco giudico che vi sia necessario il così fare; perché tutto quello che direte, dovrà esser letto, e riletto, considerato, e riconsiderato diligentissimamente da molti, i quali cercheranno o riprendere voi, o difendere lui, e forse biasimare insiememente ambodue, e, se non altro, egli vi doverà voler rispondere, poiché ha risposto a M. Annibale.

V. Io pensava bene che m'avesse a esser risposo non già da lui, ma da alcuno creato, o amico suo, ora intendo per lettere di M. Giovanbatista Busini, che egli vuole rispondere da sé.

C. A me era stato detto che M. Francesco Robertello, il quale legge Umanità in Bologna, voleva, se voi difendevate il Caro rispondervi egli.

V. E a me era stato riferito il medesimo da persona amicissima di lui, e degna di fede; la qual cosa m'avea indotto nell'oppenione che io v'ho detta, che non egli, ma altri mi dovesse rispondere per lui ad instanza, e petizione sua; il che trovo non esser vero, essendo ito Maestro Alessandro Menchi mio nipote a Ferrara con Maestro Francesco Catani da Montevarchi, che è quel grande, e dabbene uomo che voi sapete, per dover medicare l'Illustrissima ed Eccellentissima Signora Duchessa, mi disse, tornato che fu, che aveva visitato Messer Lodovico, e tra l'altre cose dettogli, come mi pareva cosa strana che alcuno pensasse di voler rispondere a quelle cose che io non aveva non che dette, pensate ancora gli fu da lui risposto: Il Robertello non ha difeso sé, pensate come difenderà altri excl Dissemi ancora che il medesimo Castelvetro gli aveva detto, raccontando d'uno che per difendere il Caro si scusava con esso lui d'averlo solamente in cinque luoghi ripreso; Io non voglio essere ripreso in nessuno; il che mi fa credere quello che prima non credeva, cioè, che egli si creda che le cose scritte da lui contra M.Annibale siano vere tutte, dove a me pare che tutte, o poco meno che tutte, siano false. Laonde arei caro che non solamente il Robertello, ma tutti coloro che possono, volessero scrivere l'oppenione loro, affinché la verità rimanesse a galla, e nel luogo suo, e si sgannassino coloro che sono in errore, tra' quali, se la risposta del Castelvetro sarà giudicata dagli uomini dotti, e senza passione, o buona, o bella, confesso liberamente essere uno io, e forse il primo. E comeché a ciascuno soglia piacere la vittoria, a me non dispiacerà il contrario, affermando Platone, il quale come è chiamato, così fu veramente divino, che nelle disputazioni delle lettere è più utile l'essar vinto che il vincere.

C. Uno a cui chicchessia avesse scritto contra, è egli obbligato sempre a dover rispondere, e difendersi?

V. Non credo io.

C. Quando dunque sì, e quando no?

V. In questi casi ha ciascuno il suo giudizio, e può fare quello che meglio pare a lui che gli torni; io per me, quando alcuno o non procedesse modestamente, o si movesse ad altra cagione che per trovare la verità, o veramente dicesse cose le quali agl'intendenti fossono manifestamente o false o ridicole, non mi curerei di rispondere.

C. Voi portereste un gran pericolo di rimanere in cattivo concetto della maggior parte degli uomini.

V. A me basterebbe rimanere in buono della migliore; perché, quando si può far di meno mai non debbe alcuno venire a contenzione di cosa nessuna con persona; e non è tempo peggio gettato via che quello che si perde in disputare le cose chiare contra coloro i quali o per parer dotti, o per altre cagioni vogliono non imparare, né insegnare, ma combattere, e tenzonare, non difendendo, ma oppugnando la verità; cosa piuttosto degna di gastigo, che di biasimo.

C. Presupponghiamo che uno scrivendovi contro procedesse modestamente, si movesse a fine di trovare la verità, e in somma vi riprendesse a ragione, che fareste voi?

V. Ringrazierelo, e ne gli arei obbligo non picciolo.

C. Dunque non terreste conto della vergogna?

V. Di qual vergogna?

C. Di non sapere, e, se volete che ve la snoccioli piú chiaramente, d'esser tenuto un ignorante.
V. Signor Conte, il non sapere, quando non è restato da te, non è vergogna, ma sibbene, il non volere imparare. Sapete voi qual è vergona, e quale è ignoranza, e merita tutti i biasimi da tutte le persone intendenti? Il perfidiare, e non voler credere alla verità; la quale a ogni modo si scuopre col tempo, di cui ella è figliuola. La Natura quando produsse Aristotile, volle (secondo che testimonia più volte il grandissimo Averrois) fare l'ultimo sforzo d'ogni sua possa, onde quanto può sapere naturalmente uomo mortale, tanto seppe Aristotile, e contuttociò le cose che egli non intese, furono più senza proporzione, e comparazione alcuna, che quelle le quali egli intese, dunque io, o alcuno altro si doverà vergognare di non saperne, non dico una, o due, o mille, ma infinite?

C. Cotesta ragione mi va, ma mi pare che militi contra di voi.

V. In che modo?

C. Perché essendo la risposta del Castelvetro quale dite voi, ella manca di tutte e tre quelle condizioni poste di sopra, il perché non meritava che le si dovesse rispondere.

V. Ben dite, e, se a me interamente stato fosse, non se le rispondeva. Erasi determinato che a ogni modo si rispondesse, ma alcuni volevano, in frottola, alcuni, in maccheronea; chi con una lettera sola, chi solamente con alcune postille, e annotazioni da doversi scrivere nelle margini, e stampare insieme con tutta l'opera: altri giudicavano esser meglio, e più convenevolmente fatto procedere per via d'invettiva, introducendo alcuno uomo o ridicolo, o maledico, o l'uno, e l'altro insieme, come giudiziosamente aveva fatto il Caro, e non solo difendere M. Annibale, ma offendere ancora il Castelvetro, affermando, ciò non pure potersi fare agevolmente, ma doversi fare giustamente. Nessuna delle quali cose piacendomi, dissi, che io era fermato o di non rispondere, o di risponder il meglio, e nel miglior modo che io sapessi, e potessi; né perciò era l'animo mio di volere altro fare che quello che io promesso aveva; cioè difendere il Caro da quelle diciassette opposizioni le quali il Castelvetro fatto gli avea; ma ora non so quello che io mi farò.

C. Perché?

V. Perché M. Lodovico ha fatto quello che egli non poteva né doveva fare, cioè ha mutato la querela, o almeno accresciutola perciocché l'usanza portava, e la ragione richiedeva che egli innanziché entrasse in altro, rispondesse alle ragioni, e autorità del Caro capo per capo, come il Caro aveva risposto alle sue; e poi (se così gli pareva) entrare a riprenderlo di nuovo nell'altre cose di per se dalle prime. Conciossiacosaché chi avesse detto a un soldato che egli fosse codardo, e vile, non potrebbe, contestata la lite, dire, lui essere ancora traditore, e mancatore di fede, e così mutare, e ampliare la querela, mescolando, e confondendo l'una coll'altra: perciocché egli è possibile che uno sia codardo, e vile, ma non traditore, e, per lo rovescio, sia traditore, e mancator di fede, ma non già codardo, e può volere confessare l'uno, e difendere l'altro, e a niuno si debbono impedire né per via diretta, né per obliqua, non che torre, le difensioni sue. Oltra questo il Castelvetro è proceduto colla sua risposta (o a caso, o ad arte che egli fatto se l'abbia) con un modo tanto confusamente intricato, e tanto intricatamente confuso, che rispondergli ordinatamente è piuttosto impossibile che malagevole; perciocché oltra l'altre confusioni, e sofisticherie delle quali è tutto pieno il suo libro, egli o perché paressero più, e maggiori i falli di M. Annibale, che così li chiama egli o per qualche altra cagione, lo riprende più volte d'una cosa medesima in più, e diversi luoghi, il che come allunga molto l'opera sua, così fa che non se le possa brevemente rispondere, e con ordine certo, e diterminato, la qual cosa è di non poca briga, e fastidio a chi ha dell'altre faccende, e impiega malvolentieri il tempo in cose di gramatica, le quali non sono cose, ma parole, e che piuttosto si dovrebbono sapere, che imparare, e imparate, servirsene a quello che, elle son buone, e per quello che furono trovate, non ad impacciare inutilmente, e bene spesso con danno se, e altrui; e massimamente che se mai si disputò dell'ombra dell'asino, com'è 'l proverbio Greco, della lana caprina, come dicono i Latini, o questa è quella volta, da alcune poche, anzi pochissime cose in fuora.

C. Del modo col quale possiate rispondere, potrete rispondere a bell'agio, rispondetemi ora a quello che io vi dimanderò.

V. Sibbene.

C. La verità in tutte le cose non è una sola?

V. Una sola.

C. E l'obbiettivo dell'anima nostra, cioè dell'intelletto umano, non è la verità?

V. È.

C. Dunque la verità è naturalmente sopra tutte altre cose dall'intelletto nostro, come sua propria, e vera perfezione disiderata?

V. Senza dubbio; ma che volete voi inferire con queste vostre proposizioni
filosofiche?

C. Che egli mi par cosa molta strana, e quasi incredibile, per non dire impossibile, che l'opera del Castelvetro sia tanto da tanti lodata, e tanto da tanti biasimanta, non essendo la verità più d'una, e disiderandola naturalmente ciascuno; e vorrei mi dichiaraste, questa diversità di giudizj donde proceda.

V. Il trattare del giudizio è materia non meno lunga che malagevole, per lo che lo riserberemo a un'altra volta; bastivi per ora di sapere che il giudizio del quale intendete, è, come ancora l'intelletto, virtù passiva, e non attiva, cioè patisce, e non opera, sebbene cotal passione è perfezione; e che coloro che dicono, il tale è letterato o Greco o Latino: ma non ha giudizio nelle lettere, o il tale intende bene la pittura, ma v'ha dentro cattivo giudizio, dicono cose impossibili, e (come si favella oggi) un passerotto, e tanto è vero che alcuno possa dar buon giudizio di quelle cose le quali egli non intende, quanto è vero che i ciechi veggano.

C. E mi pare d'intendervi: la diversità de' giudizj nasce dalla diversità de' saperi, perché quanto ciascuno sa più, tanto giudica meglio.

V. Non che egli sappia più semplicemente, ma in quella, o di quelli cosa la quale, o della quale egli giudica; perché può alcuno intendere bene una lingua, e non un'altra, esser dotto in questa scienza, o arte, e non in quella; sebbene tutte le scienze hanno una certa comunità, e colleganza insieme, di maniera che qual s'è l'una di loro non può perfettamente sapersi, senza qualche cognizione di tutte l'altre.

C. Io l'intendeva ben così; ma donde viene che niuna cosa si ritrova in luogo nessuno né così bella, né così buona, la quale non abbia chi la biasimi; e per lo contrario nessuna se ne ritrovi in luogo niuno né tanto brutta, né tanto cattiva, la quale non abbia chi la lodi?

V. Dalla Natura dell'universo, nel quale (come di sopra vi dissi) debbono essere tutte le cose, che essere vi possono, e niuna ve n'è né sì rea, né sì sozza, che rispetto alla perfezione dell'universo non vi sia necessaria, e non abbia parte così di bontà, come di bellezza. E perché credete voi che tutti gli uomini, e similmente tutti gl'individui di tutte le spezie degli animali abbiano i volti varj e differenziati l'uno dall'altro, se non perché hanno varj differenziati gli animi? In guisa che mai non fu, e mai non sarà, ancorché durasse il mondo eterno, un viso il quale non sia da qualunque altro in alcuna cosa differente, e dissomigliante; come si trovano di coloro i quali prendono maggior diletto del suono d'una cornamusa, o d'uno sveglione, che di quello d'un liuto, o d'un gravicembolo, così non mancano di quelli i quali pigliano maggior piacere di leggere Apuleio, o altri simili autori, che Cicerone, e tengono più bello stile quel del Ceo, o del Serafino, che quello del Petrarca, o di Dante. Non raccontano le storie che Gajo Caligula Imperadore non gli piacendo quello stile, ebbe in animo di voler fare ardere pubblicamente tutti i poemi d'Omero e che egli, non gli piacendo il lor dire, fece levare di tutte le librerie tutte l'opere di Vergilio, e di Tito Livio? Non raccontano ancora che Adriano pur lmperadore preponeva, e voleva che altri preponesse Marco Catone a Marco Tullio, e Celio a Salustio? Non mancarono mai, né mancano, né mancheranno cotali mostri nell'universo.

C. A questo modo (per tornare al ragionamento nostro) l'ignoranza sola è cagione della varia diversità de' giudizj umani.

V. Sola no, ma principale, perciocché oltra l'ignoranza, le passioni possono molto nell'una parte, e nell'altra, cioè così nel lodare quelle cose che meritano biasimo, come nel biasimare quelle che meritano loda. Coloro che amano, non solamente scusano i vizj nelle cose amate, ma gli chiamano virtù; similmente coloro che odiano, non solo giudicano le virtù essere minori di quello che sono nelle cose odiate, ma le reputano vizj, chiamando verbi grazia uno che sia liberale, prodigo, o scialaquatore, e uno benparlante, gracchia, o cicalone.

C. Ond'è che quasi tutti gli uomini s'ingannano più spesso, e maggiormente in giudicando se stessi, che gli altri, e le lor cose proprie che l'altrui?

V. Levate pure quel quasi, e rispondete: perché tutti amano più se stessi che altri, e più le loro cose proprie che l'altrui; e perché i figliuoli sono la più cara cosa che abbiano gli uomini, e i componimenti sono i figliuoli de'componitori, quinci avviene che ciascuno, e massimamente coloro che sono più boriosi degli altri, ne' loro componimenti s'ingannano, come dicono che alle bertucce paiono i loro bertuccini la più bella, e vezzosa cosa che sia, anzi che possa essere, in tutto 'l mondo.

C. Intendo: ma sonoci altre cagioni della diversità de' giudizj?

V. Sonci. Quanti credete voi che si trovino i quali non dicono le cose come le intendono, parte perché non vogliono dispiacere, parte perché vogliono piacer troppo, e parte ancora per non iscoprirsi, né lasciarsi intendere? Quanti che dicono solamente, e affermano per vero quello che egli hanno sentito dire, o vero, o falso che egli sia? Quanti i quali, o seguitando la natura dell'uomo, la quale è superba, e pare in non so che modo, che più sia inchinata a riprendere che a lodare; o pure la lor propria, per mostrare di sapere a quelli che non sanno, o sanno manco di loro, danno giudizio temerariamente sopra ogni cosa, e tutte le biasimano; e se pure le lodano, le lodano cotale alla trista, e tanto a malincorpo, che meglio saria che le biasimassero? Sono oltre ciò non pochi i quali pigliandosi giuoco delle contese, e travagli altrui, parte si stanno da canto a ridere, e parte uccellando (come si dice) l'oste, e il lavoratore, danno, per mettergli al punto, ora un colpo al cerchio, e ora uno alla botte; e quelli che non possono all'asino, usano di dare al basto. Può eziandio molto l'invidia, e non meno l'emulazione, senzaché l'ambizione degli uomini è sempre molta, e molto d'abbassar gli uomini disiderosa, dandosi a credere in cotal modo, o d'innalzare se, o d'avere almeno nella sua bassezza compagni per non dir nulla, che a coloro i quali o sono veramente, o sono in alcuna cosa tenuti grandi, pare alcuna volta di poter dire, senza tema di dovere esser ripresi, tutto quello che vien loro non solo alla mente, ma nella bocca. Or non s'è egli letto in Autore letteratissimo in tutte le lingue, e di grandissima dottrina, e giudizio nelle lettere umane, in un Dialogo contra l'imitazione, intitolato Il Ciceconiano, oltra molte altre cose indegne d'un tanto uomo, esser anteposto Fra Batista Mantovano a Messer Jacopo Sincero Sanazzaro, e poco dipoi affermare che egli val più un inno solo di Prudenzio che tutti e tre' libri della Cristeide, ovvero del Parto della Vergine?

C. E trovasi chi dica cotesto?

V. Questo appunto che io v'ho detto.

C. E trovasi chi gliele creda?

V. Cotesto non so io.

C. A me pare che egli vi sia quella differenza che è dal Cielo alla Terra.

V. E a me, quella che è dalla Terra al Cielo, e più, se più si potesse.
C. Io non mi maraviglio più, che alcuni tengano più bella la Risposta del Castelvetro, che l'Apologia del Caro. Ma ditemi, il vero non vince egli sempre alla fine, e si rimane in sella?

V. Io per me (come dissi di sopra) credo di sì.

C. Ditemi ancora, è egli vero che il tempo, come tutte l'altre cose, così muti ancora i giudizj degli uomini, e gli faccia variare?
V. Ben sapete; perché non pure un uomo medesimo ha altro giudizio da vecchio, che egli non aveva da giovane; il che però non è cagionato dal tempo: se non per accidente; ma molti uomini d'una età hanno diverso giudizio in quelle medesime cose che non avevano molti uomiui d'un'altra età.

C. Datemene un esempio.

V.

Dopo la morte di Cicerone, e di Vergilio, due chiarissimi specchi della lingua Latina, cominciò il modo dello scrivere Romanamente, così in versi, come in prosa, a mutarsi, e variare da sé medesimo, e andò, tanto di mano in mano peggiorando, che non era quasi più quel desso.

E nondimeno tutti gli Scrittori che venivano di mano in mano, seguitavano la maniera dello scrivere del tempo loro, come quelli i quali o la tenevano per migliore, ancorché vi fosse differenza maravigliosa, o, se pur la conoscevano, come confessano alcuna volta, pareva loro o di non poter fare altramente, o di non volere.

Il medesimo né più, né meno avvenne nella lingua fiorentina.

Perché, spenti Dante Alighieri, Petrarca, e Boccaccio, cominciò a variare, e mutarsi il modo, e la guisa del favellare, e dello scrivere fiorentinamente, e tanto andò di male in peggio, che quasi non si riconosceva più.

Come si può, vedere ancora, da chi vuole, nelle composizioni dell' Unico Aretino, di M. Antonio Tibaldeo da Ferrara, e d'alcuni altri, le quali sebbene sono meno ree, e più comportevoli di quelle di Panfilo Sasso, del Notturno, dell'Altissimo, e di molti altri, non però hanno a far cosa del mondo né colla dottrina di Alighieri, né colla leggiadria del Petrarca.

C.

Che segno avete voi che eglino si persuadessino che lo stile nel quale essi così laidamente scrivevano, fosse o più dotto di quel di Dante, o più leggiadro di quel del Petrarca?

E con quale argomento potrete voi provare che gli altri il credessero loro?

V.

Se essi si fossono altramente persuasi, non avrebbero gran fatto il corrotto, e guasto scrivere della loro, ma il puro, e sincero dell'antica età seguitato.

E gli altri se non avessino loro creduto, e non si fossero maggiormente di quel dire, che di quell'altro dilettati, non avrebbono, lasciati dall'una delle parti gli Antichi.

Apprezzati, letti, lodati, e cantati i componimenti moderni, come fecero.

A questo s'aggiugne che Giovanni Pico Conte della Mirandola, uomo di singolarissimo ingegno, e dottrina, in una lettera Latina la quale egli scrive al Magnifico Lorenzo de' Medici vecchio, che comincia:

Legi, Laurenti Medices, rithmos tuos, non solo lo pareggia, ma lo prepone indubitatamente così a Dante, come al Petrarca; Perché al Petrarca (dic'egli) mancano le cose, cioè i concetti, e a Dante le parole, cioè l'eloquenza.

Dove in Lorenzo non si disiderano né l'une, né l'altre, cioè né le parole, né le cose.

Poi in rendendo le cagioni di questo suo giudizio, e sentenza, racconta molte cose le quali non sono approvate nel Petrarca, e molte le quali sono riprovate in Dante, delle quali niuna, dice, ritrovarsi in Lorenzo.

E insomma conchiude che nelle rime di Lorenzo sono tutte le virtù che si trovano in quelle di Dante, e del Petrarca.

Ma non già nessuno de' vizj. Le quali cose egli mai affermate così precisamente non arebbe, se i giudizj di quel secolo fossero stati sani, e gli orecchi non corrotti.

C.

Il fatto sta, se egli scriveva coteste cose non perché gli paressero così.

Ma per voler piaggiare, e rendersi amico Lorenzo, il credito, e la potenza del quale erano in quel tempo grandissimi.

V.

Troppo sarebbe stata aperta, e manifestamente ridicola cotale adulazione, se dagli uomini di quella età, la buona, e vera maniera dello scrivere conosciuta si fosse.

E il Magnifico, il quale non era meno prudente, che egli si fosse potente, n'arebbe preso o sdegno, o giuoco, e se non egli, gli altri.

Né sarebbe mancata materia al Pico di potere veramente commendare Lorenzo, senza biasimare non veramente il Petrarca, e Dante.

Perché nel vero egli con M. Agnolo Poliziano, e Girolamo Benivieni furono i primi i quali cominciassero nel comporre a ritirarsi, e discostarsi dal volgo, e, se non imitare a volere, o parere di volere imitare il Petrarca, e Dante, lasciando in parte quella maniera del tutto vile, e plebea la quale assai chiaramente si riconosce ancora eziandio nel Morgante Maggiore di Luigi Pulci, e nel Ciriffo Calvaneo di Luca suo fratello, il quale nondimeno fu tenuto alquanto più considerato, e meno ardito di lui.

C.

Io ho sentito molti i quali lodano il Morgante di Luigi maravigliosamente, e alcuni che non dubitano di metterlo innanzi al Furioso dell'Ariosto.

V.

Non v'ho io detto ch'ognuno ha il suo giudizio?

A me pare che il Morgante se si paragona con Buovo, col Danese, colla Spagna, coll'Ancroja, e con altre così fatte, non so se debba dire composizioni, o maladizioni, sia qualche cosa.

Ma agguagliato al Furioso rimanga poco meno che nulla, sebbene vi sono per entro alcune sentenze non del tutto indegne, e molti proverbj, e riboboli Fiorentini assai proprj, e non affatto spiacevoli.

C.

Credete che queste oppenioni così stratte abbiano secondo la sentenza di Platone a ritornare le medesime in capo di trentasei mila anni?

V.

Non so, so bene che Aristotile afferma che tutte l'oppenioni degli uomini sono state per lo passato infinite volte, e infinite volte saranno nell'avvenire.

C.

Dunque verrà tempo che il Morgante sarà un'altra volta tenuto da alcuni più lodevole che 'l Furioso?

E la Risposta di Messer Lodovico Castelvetri più lodata che l'Apologia di Messer Annibal Caro?

V.

Verrebbe senza fallo, non dico una volta, ma infinite, se quello vero fosse che dice il' Maestro de' Filosofi, cioè, se il mondo fosse eterno, e, come non ebbe principio mai, così mai non dovesse aver fine.

C.

Io vi dirò il vero, coteste mi pajono prette eresie, e per conseguente falsità.

V.

Elle vi possono ben parere, poiché elle sono.

C.

Perché dunque le raccontate?

V.

Perché, se io non v'ho detto, io ho voluto dirvi che io favellava in quel caso secondo i Filosofi, e massimamente i Peripatetici.

C.

E perché non secondo i Teologi?

V.

Perché le sentenze de' Teologi essendo verità, non che vere, s'hanno a credere, e non a disputare, e, se pur s'hanno a disputare, s'hanno a disputare da quelle persone solamente alle quali da' loro superiori è suto che ciò fare debbiano, commesso, e ordinato.

C.

Se quei tre che voi avete raccontati di sopra, tra' quali il Poliziano, come mostrano le sue dottissime Stanze, benché imperfette, fu più eccellente, vollero piuttosto imitare il Petrarca, che eglino l'imitassero; chi fu il primo, il quale osservando le regole della grammatica, e mettendo in opera gli ammaestramenti del bene, e artifiziosamente scrivere, l'imitò da dovero, e rassomigliandosi a lui mostrò la piana, e diritta via del leggiadramente, e lodevolmente comporre nella lingua Fiorentina?

V. Il Reverendissimo Monsignor Messer Pietro Bembo Veneziano, uomo nelle Greche lettere, e nelle Latine, e in tutte le virtù che a gentiluomo s'appartengono, dottissimo, ed esercitato molto, e insomma, benché da tutti gli uomini, o dotti sommissimamente, non però mai bastevolmente lodato.

C. Egli mi pare strana cosa che un forestiero, quantunque dotto, e virtuoso, abbia a dar le regole, e insegnare il modo del bene scrivere, e leggiadramente comporre nella lingua altrui: e ho sentito dire a qualcuno che egli ne fu da non so quanti de' vostri Fiorentini agramente, e come presuntuoso, e come arrogante, ripreso.

V. Ella non è forse così strana, quanto ella vi pare e coloro che così aspramente, e falsamente lo ripresero, fecero così, perché così credevano per avventura che a fare s'avesse; e la regola di Aristotile è, che egli non si debba por mente a quello che ciascuno dice, potendo ognuno dire ogni cosa. Ma perche chiamate voi il Bembo forestiero, se egli fu da Venezia, e Vinegia è in Italia? e' pare che voi non sappiate che quasi tutti coloro i quali scrivono o nella lingua, o della lingua volgare, la chiamano Italiana, o Italica; dove quelli che la dicono Toscana, sono pochi, e quelli che Fiorentina, pochissimi.

C. Io so cotesto; ma io so anche che voi quando eravate in Bologna col Reverendissimo Vicelegato Monsignor Lenzi Vescovo di Fermo, mi diceste una volta, andando noi a vicitare i Frati in San Michele in Bosco su per quell'erta, e un'altra me lo raffermaste spasseggiando sotto la volta della Vergine Maria del Baracane, che come chi voleva chiamar me pel mio proprio, e dritto nome, mi doveva chiamare Cesare Ercolani, e non uomo, o animale.

Così chi voleva nominare propriamente, e dirittamente la lingua colla quale oggi si ragiona, e scrive volgarmente, l'appellasse lingua iorentina, e non lingua toscana, o italica.

La qual cosa mi dié molte volte che pensare, mentre io leggeva la risposta del Castelvetro.

Perché, oltra che egli dice nella seconda faccia della quarta carta, che la lingua toscana o la lingua italica o la lingua italiana è la volgare scelta, e ricevuta per le scritture, egli la chiama molte fiate lingua italica, e M. Annibale poeta Italiano, e spesso ancora usa dire nella lingua nostra.

Il che vorrebbe significare, se egli lingua italiana non la credesse, lingua modanese, essendo egli da Modana.

Ora, io non sapeva, né so ancora, se la lingua toscana è la lingua scelta, e ricevuta per le scritture, perché egli scrivendo la chiami ora nostra, e ora italica e ora italiana.

E se dicesse che vuol porre alle sue scritture nome a suo modo, oltraché ciò per avventura lecito non gli sarebbe, egli doveva chiamare Messer Annibale poeta, se non Fiorentino, non facendo egli menzione alcuna in luogo nessuno, che la lingua sia Fiorentina.

Almeno Toscano: perché di grazia vi prego che non vi paja fatica, dichiarandomi come questa benedetta lingua battezzare, e chiamare si debbia, sciormi questo nodo, il quale mi pare avviluppatissimo, e stretto molto.

V. La strettezza, e avviluppamento di questo nodo, il quale per sua natura è piuttosto cappio, che nodo, nacquero da due cagioni principalmente, l'una delle quali è la poca cura che tennero sempre i Fiorentini della loro lingua propria; l'altra il molto studio che hanno posto alcuni Toscani, e Italiani per farla loro.

Ma sappiate, Conte mio caro, che a volere che voi bene, e perfettamente la risoluzione intendeste di questo dubbio, sarebbe di necessità che io vi dichiarassi prima molte, e diverse cose intorno alle lingue; le quali dubito, che a un bisogno non vi paressero o poco degne, e profittevoli, o troppo sazievoli, e lunghe, sicché io penso che per questa volta sarà il meglio che ce la passiamo.

C.

Voi m'avete toccato appunto dove mi doleva, conciossiacosaché io da che fui con quella lieta, e onorata compagnia alla Pieve di San Gavino concedutavi dal Duca vostro, e vi sentii un giorno fra gli altri ragionare sotto l'ombra di quel frascato che copriva la fonte, parte dalla natura, e parte manualmente fatto, della bellezza, e onestà della lingua la quale voi dicevate essere Fiorentina, ma la chiamavate, non mi ricordo, e non so per qual cagione, Toscana, e alcuna volta Italica, arsi d'un disiderio incredibile d'appararla. Ma come coloro i quali s'imbarcano senza biscotto, o si trovano in alto mare senza bussola, non possono gran fatto o non morirsi di fame, o non lungamente andare aggirandosi per perduti; così io, essendo in questo cammino senza quelle cose entrato che a ben fornirlo sono necessarie, e non avendo chi la via m'insegnasse, e mostrasse i cattivi passi, non poteva in modo alcuno, non che felicemente, compirlo perché quanto più procedeva innanzi, e m'affrettava di doverne giugnere al fine, tanto mi trovava maggiormente dalla buona, e diritta strada, non che dalla destinata, e disiderata meta, lontano: né vi potrei narrare, quante dubitazioni e circa il favellare, e circa lo scrivere mi nascevano, non dico ogni giorno, ma a tutte l'ore. Laonde se vi cale di me; come so che vi cale, e se volete fare gran cortesia, come son certo che volete, o voi mi cavate di questo laberinto voi, o voi mi porgete lo spago mediante il quale possa uscirne da me.

V.

Che vorreste voi che io facessi, non sappiendo io più di quello che mi sappia, e non potendo voi soprastare quì, e soggiornare più che questa sera sola?

C.

Del primo lasciatene il pensiero a me: del secondo m'incresce bene, ma mi basterebbe per oggi, che voi mi dichiaraste quanto potete agevolmente, e minutamente più, alcune dubitazioni, e quesiti che io vi proporrò di mano in mano, pertinenti generalmente alla cognizione delle lingue, e in ispezie della Fiorentina, e della Toscana, avendo in ciò fare non al disagio, e fatica vostra, ma al bisogno, e utilità mia, risguardo.

V.

Così potess'io soddisfarvi quanto vorrei, come vi compiacerò come debbo, e quanto saprò, tanto più che non solo il Magnifico Messer Lelio Torelli, ed il molto Reverendo Priore delli Innocenti Don Vincenzio

BORGHINI

-- uomini di buontà, e dottrina piuttosto singolare che rara, mi hanno, che io ciò fare debbia, caldissimamente molte volte richiesto, e pregato; ma eziandio l'Eccellentissimo Maestro Francesco Catani, col quale sono con molti, e strettissimi nodi indissolubilmente legato. Dimandatemi dunque di tutte quelle cose che volete, che io vi risponderò tutto quello che ne saprò, senza farvi più solenne scusa, o protestazione del sapere, e voler mio, se non che io, già sono molti anni, ho ad ogni altra cosa vacato, che alle lingue; e che tutte quelle cose che io dirò, saranno, se non vere, certo da me vere tenute, e dette solamente, affinché voi, e gli altri (se ad altri voi, o

M. LELIO Bonsi, le direte mai) sappiano quale è l'oppenione mia, e possano coll'altre comparandola, che moltissime, e diversissime sono, quella eleggere la quale, se non più vera, almeno più verisimile parrà loro che sia, non aspettando io di ciò, non che maggiore, altra lode alcuna, d'avere lealmente, e con sincerità proceduto, e rimettendomi liberamente al giudizio, e determinazione di tutti coloro i quali sanno di queste cose, e più dentro vi sono esercitati di me. Perché, potete cominciare a posta vostra.

C. Per non perdere tempo, né usare, cerimonie in ringraziarvi, vi propongo primieramente queste sei dubitazioni: 1. Che cosa sia favellare. 2. Se il favellare è solamente dell'uomo. 3. Se il favellare è naturale all'uomo. 4. Se la Natura poteva fare che tutti gli uomini in tutti i luoghi, e in tutti i tempi favellassino d'un linguaggio solo, e colle medesime parole. 5. Se ciascuno uomo nasce con una sua propria, e naturale favella. 6. Quale fu il primo linguaggio che si favellò, e quando, e dove, e da chi, e perché fosse dato.

V.

**************************************
Il parlare, ovvero "favellare" umano
esteriore non è ALTRO CHE MANIFESTARE
AD ALCUNO I CONCETTI DELL'
ANIMO MEDIANTE LE PAROLE.
************************************ (Griceian point)

C.

Sebbene egli mi pare avere inteso tutta questa

DFIFINIZIONE di "parlare" o "favellare"

assai ragionevolmente, nondimeno io avrò caro che voi per mia maggior certezza la mi dichiariate distesamente parola per parola.

V.

Della buona voglia.

Io ho detto

"PARLARE" OVVERO "FAVELLARE",

perché questi due verbi sono (come dicono i Latini con Greca voce)

sinonimi

-- cioè significano una cosa medesima, come ire, e andare, e molti altri somiglianti.

Ho detto UMANO, a differenza del Divino, conciossiacosaché gli Angeli (secondo i Teologi) favellino anch'essi non solamente tra loro, ma ancora a Dio, benché diversamente da noi.

---- e non animale.

E il medesimo si deve intendere degli avversarj loro, e nostri.

Ho detto "ESTERIORE", ovvero "ESTRINSECO", a differenza dello interiore, ovvero intrinseco, cioè interno, perché molte volte gli uomini favellavano tra loro stessi, e seco medesimi, come si vede in Messer Francesco Petrarca, che disse:

Io dicea fra 'l mio cor, perché paventi? e altrove nella Canzone grande:

E dicea meco, se costei mi spetra, e più chiaramente in tutto quel Sonetto, che comincia: Che fai alma? che pensi? e

C.

"Ho detto "MANIFESTARE", cioè

"sprimere", e

"dichiarare",

il qual verbo è il genere del favellare in questa diffinizione.

Ho detto

"AD ALCUNO",

perché non solo favellavano gli uomini tra se medesimi,
come pure testé vi diceva,
ma eziandio in sogno,
e talvolta o a' monti o alle selve,
come quando Vergilio dice di Coridone nella seconda Egloga. . . . . . .

ibi haeligc incondita solus Montibus, et sylvis studio jactabat inani: o al vento, onde il Petrarca disse: Dopo tante, che 'l vento ode, e disperde. o a chi non può, o non vuote udire, come quando il medesimo Petrarca disse: Poi (lasso) a tal che non m'ascolta, narro Tutte le mie fatiche ad una ad una, E col Mondo, e con mia cieca Fortuna, Con Amor, con Madonna, e meco garro.

Ho detto

"I CONCETTI DELL'ANIMO",

******************************************************
perché il fine [TELOS] di chi favella è principalmente

mostrare di fuori quello che egli ha racchiuso

dentro nell'animo, ovvero mente."
*********************************************************


"cioè nella

"fantasia", perché nella virtù fantastica si riserbano le immagini, ovvero similitudini delle cose, le quali i Filosofi chiamano ora

"Spezie", ora

"Intenzioni"

--- VERY Griceian point --

"ed altramente."

"E noi le diciamo propriamente

Concetti, e talvolta Pensieri, ovvero Intendimenti, e bene spesso con altri nomi."

"Ho detto "MEDIANTE LE PAROLE",

perché

-------------- Griceian use of "utterance" ---:

"ancora con

atti, con

cenni, e

con gesti

si possono, come per istrumenti,

significare le cose."

"Come si vede chiaramente ne' mutoli tutto 'l giorno."

"E meglio si vedeva anticamente in coloro i quali, senza mai favellere recitavano le commedie, e le tragedie intere intere, solamente co'

gesti,

la qual cosa i Latini chiamavano

saltare."

"E chi non sa che chinando alcuno la testa a chi alcuna cosa gli domanda, egli con tale atto acconsente, e dice di

"sì,"

onde i Latini fecero il verbo Annuere; e chi dimena il capo, e per lo contrario, dice di

"no",

onde i medesimi Latini formarono il verbo

Abnuere?

---

"Onde nacque che, vendendosi un giorno in Roma allo 'ncanto alcune robe del fisco, Cajo Imperadore (sebben mi ricorda) veggendo uno il quale vinto dal sonno inchinava il capo (come si fa spessamente), comandò a colui che incantava che crescesse il prezzo fuori d'ogni dovere, e volle (secondoché racconta Suetonio) che colui (quasi avesse detto di sì col chinar la testa) pagasse quel cotal pregio.

C.

Cotesto fu atto da Cajo, e non d'Imperadore.

Ma ditemi, perché aggiugneste voi, quando favellavate degli Agnoli, quelle parole, secondo i Teologi?

V.

Perché i Filosofi non vogliono che all'Intelligenze (che così chiamano essi gli Agnoli) faccia di mestieri il favellare in modo alcuno, intendendonsi tra loro immediatamente, e (come noi diciamo) in ispirito.

C.

Egli mi pare avere inteso che nelle diffinizioni non si debbono porre nomi sinonimi, perché dunque diceste voi PARLARE, ovvero FAVELLARE?

V.

Egli è vero che nelle diffinizioni, parlando generalmente, non si deono mettere né nomi sinonimi, né metafore, ovvero, traslazioni.

Ma quando il porvi o queste, o quelli giova ad alcuna cosa, come, essempigrazia, a rendere la materia della quale si tratta, più agevole, non solo non è vizio il ciò fare, ma virtù, come si vede che fece Aristotile stesso contra le sue regole medesime.

E devete sapere che alcuni vogliono che tra parlare, e favellare sia qualche differenza.

Non solamente quanto all'

etimologia

-- ovvero origine, dicendo che favellare viene da fabulari, verbo Latino.

Il che noi crediamo: e parlare, da _____ _____, verbo Greco.

Il che non crediamo, avendolo i Toscani, per nostro giudizio, preso, come molte altre voci, dalla lingua Provenzale.

Ma ancora in quanto al significato.

La qual cosa a me non pare, usandosi così nello scrivere, come nel favellare, quello per questo, e questo per quello.

C.

Non ha la lingua Toscana più verbi che questi due per isprimere così nobile, e necessaria operazione, quanto è il parlare, o il favellare?

V. Hanne certamente.

C. Di grazia raccontatemegli.

V. Eglino sono tanti, e tanto varj, che il raccontargli, e dichiararvegli, perché altramente non gli intendereste, sarebbe cosa, non dico lunga, e massimamente essendo noi quì per ragionare tutto quanto oggi, ma che ci travierebbe per avventura troppo dall'incominciato cammino; ben vi prometto che se mi verrà in taglio il ciò fare, e se ne arò destro, e, se non prima, spedite che saranno le quistioni proposte da voi, non mancherò, per quanto per me si potrà, di contentarvi.

Ma ricordatemi la quistione che seguita.

C. Se il favellare, ovvero parlare è solamente dell'uomo.

V.

*********************************************************
Solo l'uomo, e niuno altro animale propriamente, favella.
*********************************************************

C. Perché?

V.

***********************************************************
Perché solo l'uomo ha bisogno di favellare.
***********************************************************

C. La cagione?

V.

La cagione è perché l'uomo è animale più di tutti gli altri sociabile, ovvero compagnevole, cioè nasce non solamente disideroso, ma eziandio bisognoso, della compagnia, non potendo, né dovendo vivere per li boschi solo, e da sé, ma nelle Città insieme con gli altri.

Se già non fosse o grandissimamente perfetto, il che si ritrova in pochi.

O del tutto bestia.

C.

Dunque il parlare fa che l'uomo è animale civile, ovvero cittadino?

V.

No, anzi il contrario;

****************************************

l'essere l'uomo animai civile, o

cittadino da natura fa che

egli ha il parlare.
****************************************

C.

A cotesto modo le pecchie, che hanno i loro Re, e le formiche, che vivono a repubblica, e molti altri animali, i quali, se non sono civili (perché questa parola non credo che caggia se non tra glia uomini) sono almeno sociabili, e gregali (per dir così), hanno bisogno del favellare, come si vede in

alcuna sorte d'uccelli

che volano in frotta, e

nelle pecore,

e negli altri animali che vanno a schiera?

V.

Ancora a cotesti non mancò la natura, perciocché invece del parlare diede loro la voce la quale, siccome è spezie del suono, così è il genere del favellare, mediante la qual voce possono mostrare e a se stessi, e agli altri quello che piace, e quello che dispiace loro, cioè

la letizia,
e il dolore,
e tutte l'altre passioni,
ovvero perturbazioni che nascono da questi due.

C.

E credete che possano gli animali mediante la voce significare i concetti loro l'uno all'altro, o a noi uomini?

V.

I concetti no, ma gli affetti dell'animo.

Cioè le perturbazioni sì.


C.

Dante disse pure: Così per entro loro schiera bruna S'ammusa l'una coll'altra formica Forse a spiar lor via, e lor fortuna.

V.

Dante favellò come buon poeta, e di più v'aggiunse, come ottimo filosofo, quella particella forse, la quale è avverbio di dubitazione.

C.

Ditemi un poco, gli stornelli, i tordi, le putte, ovvero gazze, e le ghiandaje, e gli altri uccelli i quali hanno la lingua alquanto più larga degli altri, non favellano?

V.

Signor no.

C.

Lattanzio fimiano scrive pure nel principio del decimo capitolo della falsa sapienza, che gli animali non solamente favellano, ma ridono ancora.

V.

Egli non dice (sebben mi rammento) che gli animali, né favellino, né ridano, ma che pare che ridano, e favellino.

C.

Io mi ricordo pure che Macrobio nel secondo libro de' Saturnali, racconta come un certo sarto, quando Cesare avendo vinto Antonio se ne ritornava come trionfante a Roma, gli si fece innanzi con un corvo il quale, disse, come era stato ammaestrato da lui.

Ave, Caeligsar victor Imperator.

Delle quali parole maravigliandosi Cesare, lo comperò un gran danajo.

Per la qual cosa un compagno di quel sarto, avendogli, invidia, disse a Cesare.

Egli n'ha un altro, fate che egli ve lo porti; fu portato il corvo, e non prima giunto alla presenza d'Augusto, disse (secondoché gli era stato insegnato) Ave, Antoni victor Imperator.

La qual cosa non ebbe Cesare a male, né volle che a quel sarto il quale per giucare al sicuro aveva tenuto il pié in due staffe, si desse altro gastigo, che fargli dividere per metà col suo compagno quel prezzo che Cesare pagato gli avea. Soggiugne ancora che un altro buon uomiciatto, mosso da cotale esempio, cominciò ad insegnare la medesima salutazione ad un suo corvo; ma perché egli non l'imparava, lamentandosi d'aver gettato via il tempo, e i danari, diceva: Opera, et impensa periit.

Finalmente avendo imparato, salutò Cesare che passava, e avendo Cesare risposto: Io ho in casa di cotali salutatori pure assai; il corvo, sovvenutogli di quello che soleva dire il suo padrone, soggiunse. Opera, et impensa periit; per le quali parole Cesare cominciò a ridere, e lo fece comperare molto più che non aveva fatto gli altri. Se queste sono storie, e non favole, si può dire che anche degli animali favellino.

V.

Qual volete voi maggiore, o più bella, che quel pappagallo che al tempo de' padri nostri comperò il Cardinale Ascanio in Roma cento fiorini d'oro, il quale, secondoché racconta Messer Lodovico Celio, uomo di molta, e varia letteratura, nel terzo capitolo delle sue Antiche Lezioni, pronunziava tutto quanto il Credo non altramenteché arebbe fatto un uomo ben letterato? e contuttociò, questo non si chiama, né è favellare, ma contraffare, e rappresentare le parole altrui senza, non che sprimere i proprj concetti, sapere quello che dicano; onde a coloro che favellano senza intendersi, e in quel modo (come volgarmente si dice) che fanno gli spiritati, cioè per bocca d'altri, s'usa in Firenze di dire:

"Tu favelli come i pappagalli".

Come quello che dicono degli elefanti, non si chiama scrivere propriamente, ma formare, e dipignere le lettere.

C.

Gli auguri antichi, e Apollonio Tianeo non intendevano le voci degli uccelli?

V.

Credo di sì, perché tutti quelli chesordi non sono, le intendono.

Ma le significazioni delle voci, credo di no, se non in quel modo che s'è detto sopra.

C.

Che direte voi delle statue d'Egitto, le quali (secondoché alcuni autori affermano) favellavano?

V.

Non dirò altro, se non che io nol credo.

C.

Pur ve ne racconterò una che voi crederete, e non potrete negarla.

V.

Quale?

C.

L'Asina di Balaam.

V.

Cotesto avvenne miracolosamente, e noi favelliamo secondo l'ordine, e possanza della natura.

C.

State saldo, che io vi corrò a ogni modo, e vi farò confessare che non alcune, ma tutte le bestie favellano, quandoché sia.

V. Alle mani; dite su.

C.

Non dice Aristotile che quello che credono tutti, o la maggior parte degli uomini, non è mai vano, e del tutto falso?

V. Dicelo.

C. Dunque non negherete voi che il giorno di Befania favellino le bestie.

V. Anzi lo negherò, perché il detto comune non dice ciò del giorno di Befania, ma della notte, onde possiamo conchiudere con verità che il parlare è solamente dell'uomo; e venire alla terza dubitazione.

C. Ditene dunque, Se il parlare è naturale all'uomo.

V. Che intendete voi per naturale?

C. Se l'atto, e l'operazione che fanno gli uomini del favellare, viene loro dalla natura, o pure d'altronde.

V. Dalla natura senza alcun dubbio.

C. Per che ragioni?

V. Per due principalmente.

C. Quali?

V. Voi dovete sapere che la natura non dà mai alcun fine, che ella non dia ancora i mezzi, e gli strumenti che a quel fine conducono: e, all'opposto, quantunque volte la natura dà gli strumenti, e i mezzi d'alcuna cosa, ella dà ancora il fine; perché altramente così il fine conce i mezzi sarebbono invano; e la natura non fa nulla indarno.

C. Credolo; ma vorrei mi dichiaraste un poco meglio l'una, e l'altra di queste due ragioni.

V. Volentieri: il favellare fu dato agli uomini, affinché potessero conversare, e praticare insieme: il conversare, e praticare insieme è all'uomo naturale; dunque anco il parlare gli viene dalla natura.

C. Come vale cotesta conseguenza?

V. Come, come? Se chi dà il fine, dà i mezzi; e il fine del favellare è il praticare, e conversare l'uno coll'altro; e il praticare, e conversare l'uno coll'altro è da natura; dunque anco il favellare, che è strumento, e mezzo che si pratichi, e conversi insieme, è da natura.

C. Ho inteso; ma per cotesta ragione parrebbe che anco quelli animali che pascono a branchi, e vivono insieme, come le gregge, e gli armenti, dovessero avere il parlare.

V. Io v'ho detto di sopra che cotesti hanno in quello scambio la voce, la quale serve loro a significare e tra se, e agli altri, quanto loro abbisogna; ma gli uomini hanno a sapere, e sigficare ancora quello che giova, e quello che nuoce, cioè l'utile, e il danno; il bene, e il male; il bello, e il brutto; il giusto, e l'ingiusto; e sopra tutto l'onesto: le quali cose né intendono, né curano gli altri animali.

C. Come no? lasciando stare le tante, e tanto maravigliose cose che racconta Plutarco, scrittore gravissimo, in quella operetta che egli scrisse grecamente, e intitolò: Se gli animali bruti erano dotati di ragione; non sapemo noi che quello elefante che fu mandato nel tempo di Lione a Roma, sopra 'l quale si coronò poi l'Abate di Gaeta, non voleva, giunto che fu al mare, imbarcarsi a patto nessuno, né mai (per molto che stimolato fosse) si potè condurre a entrare in nave, infinoché colui che n'era guardiano non gli promise di doverlo vestire d'oro, e porgli una bella collana al collo; e altre cose così fatte?

V. Io non dico che gli animali bruti non facciano cose maravigliosissime; come sono i nidi delle rondini, e le tele de'ragni; e che non si muovano, e ubbidiscano alle parole, e a' cenni di chi li minaccia, o accarezza; come si vede ne' cani, e ne' cavalli; ma dico che fanno ciò non per discorso, mancando essi di ragione, ma o per instinto naturale, o veramente per consuetudine.

C. Dichiarate, se vi piace, la seconda ragione.

V. La natura ha dato agli uomini gli strumenti mediante i quali si favella, dunque ha dato, ancora il fine, cioè il favellare.

****************************************************

C. Quai sono gli strumenti mediante i quali si favella?

*******************************************************

V.

Sono molli, e importantissimi, perciocché gran faccenda è il favellare.

E come è malagevole mandar fuori la voce, ma molto più la loquela, così è agevolissimo corromperla, e guastarla, non altramenteché veggiamo negli orivoli, ne' quali bisognano molti ordigni per fargli sonare, i quali difficilmente s'accozzano, e uno poi che ne manchi, o si guasti.

Il che agevolissimamente addiviene.

L'orivolo si stempera, e non suona più, o, se pure suona, suona inordinatamente, e con tristo suono.

C.

Di giazia raccontatene qualcuno.

V.

Sono contento:

Il polmone,
la gola,
l'arteria,
l'ugola,
il palato,
la lingua,
i denti dinanzi,
la bocca, e
le labbra:

parte de quali sono principali, e parte concorrono come ministri.

C.

I bruti non hanno ancora essi tutte coteste cose?

V.

Messer no, ma hanno solamente quelle che bastano a poter formare la voce, se già non sono mutoli, come i pesci, i quali perciò mancano del polmone, e non hanno, si può dire, lingua.

Che tutte le lingue non sono atte a sprimere le parole, ma l'umana solamente, o più l'umana che tutte l'altre, così per la forma, ovvero figura sua, come per alcune altre qualità.

C.

Se io concedo che il parlare sia na turale agli uomini, mi pare esser costretto a concedere una cosa la quale è manifestamente falsissima, e ciò è, che tutti gli uomini favellino d'un medesimo linguaggio.

V. Come così?

C.

Ditemi, tutti gli uomini non sono d'una spezie medesima?

V.

Sono; e tutte le donne ancora.

C.

Ditemi più oltra, tutto quello che conviene per natura a uno individuo, cioè a un particolare d'alcuna spezie, come all'uomo divenir canuto nella vecchiaja, non conviene egli anche di necessità a tutti gli altri individui di quella medesima spezie?

V.

Conviene senza dubbio nessuno.

Onde.

Aristotile volendo provare che tutte le stelle erano di figura rotonda, se ne spacciò molto dottamente, e con grandissima brevità, dicendo: La Luna è tonda, dunque tutte le stelle son tonde.

C.

Come sta dunque questa cosa, che il parlare sia naturale agli uomini, e che tutti gli uomini non favellino d'una lingua stessa, e colle medesime parole?

V.

Dirollovi.

Il favellate è ben comune, e naturale a tutti gli uomini.

Ma il favellare più in un linguaggio che in un altro, e piuttosto con queste parole, che con quelle, non è loro naturale.

C.

Donde l'hanno adunque?

V.

O dal caso, nascendo chi in questa.

E chi in quella città.

O dalla propria volontà, e dallo studio loro, apparando piuttosto questa lingua, che quella, o quella, che questa.

Onde Dante, il quale pare a me che sapesse tutte le cose, e tutte le dicesse, lasciò scritto nel 26. canto del Paradiso queste parole:

Opera naturale è ch'uom favella:
Ma così, o così, natura lascia Poi fare a vuoi, secondo che v'abella.

C.

Se il favellare è proprio, e particolare dell'uomo, perché non favella egli sempre, siccome il fuoco cuoce sempre, e le cose gravi sempre vanno allo 'ngiù?

V.

Perché l'uomo non ha da natura il favellare, come il fuoco di cuocere, e le cose gravi d'andare al centro.

Ma ha da natura

************************
il poter favellare;
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siccome il suo proprio non è il ridere, ma il poter ridere, perché altramente riderebbe sempre, come sempre il fuoco scalda, e sale all'insù.

C.

Se l'uomo ha la potenza del favellare da natura, perché non favella egli tosto che egli è nato?

V.

Perché, oltraché gli strumenti per la tenerezza, e debilità loro non sono ancora atti, è necessario che egli prima oda, e poi favelli.

E per questa cagione tutti coloro che nascono sordi, sono necessariamente mutoli, onde hanno ben la voce, ma non già la favella, e ber questo possono ben gracchiare, e cinguettare, ma parlare non già.

C.

Io ho pur letto che si son trovati di quelli i quali favellarono il primo giorno che nacquero, e di quelli i quali essendo stati molti anni mutoli ebbero poscia la favella.

V.

Cotesti sono casi o mostrosi, o miracolosi, o almeno rarissimi, e straordinarj, e noi ragioniamo di cose naturali, e ordinarie; che ben so quello che racconta Erodoto del figliuolo di Creso.

Né è gran fatto, non che impossibile, che alcuni accidenti repentini producano effetti maravigliuosi, e, se non contra, almeno fuori di natura.

Benché Aristotile nella terza sezione al ventisettesimo problema pare che ne renda la ragione naturalmente.

Ma conchiudiamo oggimai che come il favellare ci viene dalla natura, così il favellare o in questa lingua, o in quell'altra, e piuttosto con parole Latine, che Greche, o Ebraiche, procede o dal caso, o dallo studio, e dalla volontà nostra.

C.

Quanto alla quarta dubitazione, vorrei mi dicesti.

Se la natura poteva fare che tutti gli uomini favellassino in tutti i luoghi, e in tutti i tempi d'un linguaggio solo, e colle medesime parole.

V.

Dite prima voi a me, se ella, potendo ciò fare, dovea farlo.

C.

Chi dubita di cotesto?

V.

Io per uno.

C.

Come è possibile che voi, il quale solevate vino, e ora solete morto amare tanto, tanto ammirare il Reverendissimo Cardinal Bembo, dubitiate ora di ciò?

Non vi ricorda egli che il proemio delle sue Prose fatte a Monsignor M. Giulio Cardinal de' Medici non contiene quasi altro che questo?

V.

Sì, ricorda: ma io mi ricordo anche, e voglio a voi ricordare, che io non amai, non ammirai, e non celebrai tanto già vivo, e ora non amo, non ammiro, e non celebro morto il Reverendissinto Cardinal Bembo, quanto la rara dottrina, l'inestimabile eloquenza, e l'incredibile bontà sue, giunte con una umanità, con una cortesia, e con una costumatezza piuttosto inudita, che singolare; né per tutte queste cose mi rimasi, né rimarrei di non dire liberamente quello che a me paresse più vero, quando l'opinione mia discordasse dalla sua: ben' è vero che sappiendo io per isperienza quanto egli era diligente, e considerato scrittore, e quanto pesasse, e ripesasse ancora le cose menomissime che egli affermare voleva, vo adagio a credere che in così fatto giudizio ingannato si sia; e perciò presupponendo, per l'autorità sua, che la natura, delle mondane cose producitrice, e de suoi doni sopra esse dispensatrice, dovesse porre necessità di parlare d'una maniera medesima in tutti gli uomini, rispondo alla dimanda vostra, che ella ciò fare non poteva.

C. Per qual cagione?

V. Perché la natura fa sempre ogni volta ch'ella può, tutto quello che ella debbe: né crediate a patto veruno, che ella quando fa uno stornello, non facesse più volentieri un tordo, o altro più perfetto uccello, se la materia lo comportasse.

C. Io non ho dubbio di cotesto: ma, quanto al Bembo, dico che il credere all'autorità le quali sopra le ragioni fondate non sono, non mi par cosa molto sicura, né da uomini che cerchino d'intender la verità delle quistioni.

V. Voi dite il vero; ma il Bembo allega in prò del suo detto molte ragioni, e molto probabili, come può vedere ciascuno che vuole.

C. Verché dunque dubitavate?

V. Dubitava, perché quello che non può essere, non fu mai, e mai non sarà.

C. Che volete voi dire?

V. Quello che disse Dante, il quale sapea che dirsi, sopra i versi allegati poco fa: Che nullo affetto mai razionabile Per lo piacere uman che rinovella, Seguendo il Cielo, sempre fu durabile,

C. Hovvi inteso: voi volete dire, con Dante, che nullo affetto razionabile (che affetto debbe dire, e non effetto, come dicono alcuni), cioè nessun desiderio umano; perché solamente gli uomini; avendo essi soli la ragione, si chiamano razionabili, ovvero ragionevoli; può essere eterno, cioè durare sempre; anzi per più vero dire non può non mutarsi quasi ogni giorno, perciocché gli uomini di dì in dì mutano voglie, e pensieri; e ciò fanno, perché sono sottoposti al cielo, e il cielo non istà mai in uno stato medesimo, non istando mai fermo; onde variandosi egli, è giuocoforza che anco i pensieri, e le voglie degli uomini si vadano variando; e questo è quello che dovette voler significare Omero, padre di tutti i poeti, quando disse che tale era la mente degli uomini ogni giorno, quale giove, cioè Dio ottimo, e grandissimo, concedeva loro. Ma ditemi che bene o quale utilità seguita dalla varietà, e diversità di tante lingue che anticamente s'usarono, e oggi s'usano nel mondo?

V. Nell'universo deono essere, come mostra il suo nome, tutte quelle cose le quali essere si possono; e niuna cosa è tanto picciola, né così laida, la quale non conferisca, e non giovi alla perfezione dell'universo; per non dir nulla, che la varietà, se non sola, certo più di tutte l'altre cose, ne leva il tedio, e toglie via il fastidio che in tutte quante le cose a chi lungamente l'esercita suole naturalmente venire. Egli è il vero che se fosse uno idioma solo, noi non aremmo a spendere tanti anni, e tanti in apprendere le lingue con tanta fatica; ma, dall'altro lato, noi non potremmo per mezzo delle scritture, o velete di prosa, o volete di versi, acquistare grido, e farci immortali; come tutti gli animi generosi disiderano; conciossiacosaché i luoghi sarebbono presi tutti; e come (per cagione d'esempio) Vergilio non arebbe potuto agguagliare Omero, così a Dante non sarebbe stato conceduto pareggiare l'uno, e l'altro; e il medesimo dico di tutti gli altri o Oratori, o Poeti che in diverse lingue sono stati eguali, o poco inferiori l'uno all'altro. E chi sarebbe mai potuto nella medesima lingua non dico trapassare, ma avvicinarsi collo scrivere o ad Aristotile, o a Platone? Perché, conchiudendo, dico che la natura non poteva, né forse deveva, fare per tutto 'l mondo un linguaggio solo.

C. Se ciascuno uomo nasce con una sua propia, e naturale favella, come dicono alcuni, (che è la quinta dubitazione) m'avviso quasi per certo quello che voi siate per dirne.

V. Che?

C. Che ella è cosa da ridersene, e farsene beffe.

V. Gli altri (come si dice), si sogliono apporre alle tre, ma voi vi sete apposto alla prima. Come può nascere ciascuno con una favella naturalmente propria, e particolare, che tutti nasciamo sordi, e per conseguenza mutoli, rispetto all'indisposizione degli strumenti che come mezzi a favellare si ricercano? Il che è tutto l'opposito della dubitazione. A questo si aggiugne, che prima fa di mestieri apparare quello che s'ha a dire, e poi dirlo; senzaché, se ciò fosse vero, non pure la potenza del favellare, ma il favellare stesso, dalla natura, e non dall'arte, e industria nostra, sarebbe, e non solamente il principio, e i mezzi, ma eziandio il fine, e il componimento, cioè l'atto stesso del favellare; e le parole medesime ci sarebbono naturali; del che di sopra si conchiuse il contrario. Ora, se quello è vero, questo di necessità viene ad essere falso, perché sono contrarj; e i contrarj possono bene essere amenduni falsi, ma ameudue veri non già. Oltraciò ne seguiterebbe che niuno fosse mutolo, ancorché nascesse sordo; per non dire che questa favella propria, e naturale si sarebbe qualche volta sentita in chicchesia; dove ella non s'è mai sentita in nessuno: argomento certissimo che ella non è.
C. E' dicon pure che Erodoto racconta nelle sue storie di non so qual Re d'Egitto, il quale fece condurre due bambini, tostoché furon nati, in un luogo diserto, e quivi segretamente allevargli, senzaché alcuno favellasse loro mai; e che eglino in capo di quattro anni condotti dianzi a lui, dissero più volte questa parola Be e, la qual parola in lingua Frigia dicono che significa pane: e solo per questo argomento fu dichiarato che quelli di Frigia erano i primi, e più antiche uomini del mondo.

V. Il Boccaccio arebbe aggiunto ancora, o di maremma, come fece quando volle provare che i primi, e più antichi uomini del mondo erano i Baronci di Firenze che stavano a casa da Santa Maria Maggiore.

C.. Secondo me, voi volete inferire che quella d'Erodoto, non ostanteché fosse padre della storia Greca, vi pare più novella che storia. Ma ditemi per vostra fede, se un fanciullo s'allevasse in luogo segreto, e riposto, dove egli non sentisse mai favellare persona alcuna in modo niuno, parlerebbe egli poi, e in qual linguaggio?

V. Egli per le cose dichiarate di sopra non parlerebbe in altro linguaggio, che in quello de' mutoli.

C. E quale è il linguaggio de' mutoli?

V. Lo star cheti, o favellare con cenni.

C. E i mutoli non hanno la voce?

V. Si, ma non hanno il sermone, al quale si ricercano più cose, che alla voce; perché, sebbene (come dice Aristotile) chiunche favella, ha la voce, non però si converte, che chiunche ha la voce, favelli; in quel modo che tutti gli uomini hanno naturalmente due piedi, ma non già si rivolge, che tutti gli animali che hanno due piedi, siano uomini.

C. Non potrebbe egli servirsi della voce, se non altramente, almeno come i bruti?

V. Potrebbe, chi ne dubita? Anzi se avesse sentito o cantare uccelli, o belare pecore, o ragghiare asini, e, non che altro, fischiare i venti, o stridere i gangheri; s'ingegnerebbe di contraffargli, e potrebbe anco mandar fuori qualche voce, la quale in qualche lingua significasse qualche cosa.

C. Dunque non è vero che egli (come molti si fanno a credere) favellasse in quella lingua che si parlò prima di tutte l'altre del mondo?

V.

Male potrebbe favellare nella prima lingua del mondo, se non favellasse in lingua nessuna.

C.

E se s'allevassero più fanciulli insieme in quella maniera, senzaché sentissero mai voce umana, favellerebbono eglino in qualche idioma?

V.

Quì bisognerebbe essere piuttosto indovino, che altro: pure, io per me credo che eglino favellerebbono, formando da se stessi un linguaggio nuovo, col quale s'intenderebbono fra loro medesimi.

C.

Restaci la sesta, e ultima dubitazione, cioè, Qual fu il primo linguaggio che si favellò, e quando, e dove, e da chi, e perché fosse dato.

V.

Tutte queste cose sono agevoli a sapere secondo la certezza de' Teologi Cristiani, perciocché il primo linguaggio del mondo fu quello del primo uomo, cioè d'Adamo, lo quale gli diede Messer Domeneddio tosto che egli l'ebbe formato nel Paradiso terrestre, o dove egli se 'l formasse, affinché per mezzo delle parole potesse (come si disse di sopra) quei pensieri, e sentimenti mandar fuori che egli aveva dentro racchiusi, e insomma palesare ad altri quello che teneva celato in sé; perché non essendo l'uomo né tanto perfetto, e spirituale quanto gli angeli, né così imperfetto, e materiale come gli animali, gli fu necessario un mezzo col quale facesse intendere l'animo, e la mente sua agli altri uomini, e questo fu il favellare.

C.

Perché diceste voi, secondo la certezza de' Teologi Cristiani?

V.

Dissilo, perché, secondo l'oppenione de' Filosofi Gentili, e massimamente de' Peripatetici, i quali pongono il mondo ab eterno, né vogliono che mai avesse principio, non solo non si può sapere, ma non si dee anco cercare, qual linguaggio fosse il primo, conciossiaché essendo sempre stato uomini, sempre necessariamente s'è favellato.

Onde niuno può dire chi fosse il primo a favellare, né di qual linguaggio favellasse.

Similmente non si dee cercare, né si può sapere, né quando, né dove fosse dato quello che mai in nessun luogo particolare, né in nessun tempo dato non fu. Puossi solamente sapere che la natura diede all'uomo il favellare in quel modo, e per quelle cagioni le quali di sopra raccontate si sono.

C.

Io vorrei sapere ancora tre cose d'intorno a questa materia: la prima, quale fosse

il linguaggio d'Adamo.

La seconda, quanto egli durasse: la terza, ed ultima, quando, come, dove, da chi, e perché nascesse la diversità, e la confusione de' linguaggi.

V.

Quanto alla prima, e seconda dimanda vostra, sono varie l'oppenioni; imperocché sono alcuni, i quali vogliono che Adamo insieme co' suoi discendenti favellasse quella propia lingua la quale in processo di tempo fu da Eber nominata prima Eberea, e poi, levatane la sillaba del mezzo, Ebrea.

E di questa sentenza pare che fosse Santo Agostino nel terzo, e quarto capitolo del diciassettesimo libro della Città di Dio; e che questa fosse quella lingua nella quale Moisè scrisse la Legge sopra il Monte Sinai, e colla quale favellano ancora oggi tra loro gli Ebrei.

Altri dicono che non l'Ebrea, ma la Caldea fu la prima lingua che si favellasse; le quali due lingue però sono tra loro somigliantissime. Altri scrivono, che, come la prima terra che fosse abitata, fu la Scitia, così per conseguenza la prima lingua fosse la Scitica: e altri altramente. Né mancano di coloro i quali vogliono provare che la lingua la quale oggidì favellano tra loro i Giuei, non è quella antica colla quale parlò Adamo, e nella quale fu scritta la Legge di Moisè, allegando che Esdra sommo Sacerdote degli Ebrei, quando per tema che ella non si perdesse, o per qualunche altra cagione, fece dopo la servitù Babbilonica riscrivere la Legge in settantadue volumi, variò non solamente la lingua da quello che ella era anzi la servitù, ma eziandio mutò l'alfabeto, trovando nuove lettere, e nuovi punti. Dante, non si contentando, per quanto si può presumere, di nessuna di queste oppenioni, e volendo sotto colore d'appararla egli, insegnare altrui la verità, induce nel ventiseiesimo canto del Paradi so, allegato già due volte da noi, Adamo stesso, il quale dimandato da lui di questo dubbio, gli risponde così: La lingua ch'io parlai, fu tutta spenta Innanzi che all'opra inconsumubile Fosse la gente di Nembrot intenta. Ora, se Adamo medesimo confessa che la lingua che egli parlò, si spense tutta, e venne meno innanziché Nembrotto cominciasse a edificare la torre, e la città di Babbilonia, certissima cose è che la lingua nella quale fu scritta la Legge, e colla quale favellano gli Ebrei d'oggidì, non è quella antica colla quale favellò Adamo.

C.

Fermatevi di grazia un poco: io mi voglio ricordare che Dante stesso nella fine del sesto capitolo del primo libro di quell'opera la quale egli scrisse latinamente, e intitolò, De Vulgari Eloquentia, dice dirittamente il contrario, cioè che con quella lingua che parlò Adamo, parlarono ancora tutti i suoi posteri fino all'edificazione della

torre di Babello,

la quale s'interpreta la torre della confusione.

E di più, che quella istessa lingua fu ereditata da' figliuoli d'Eber, che diede il nome agli Ebrei, e rendene anco la cagione, dicendo ciò essere stato fatto, affine che il Redentor nostro GESÙ CRISTO, il quale dovevo nascere di loro, usasse, secondo l'umanità, della lingua della grazia, e non di quella della confusione, onde a me pare che questa sia una grandissima, e manifesta contraddizione, e da non doversi tollerare a patto nessuno in un uomo di meno che di mezzana dottrina, non che in un Dante, il quale fu e poeta, e filosofo, e teologo singolarissimo.

V.

Aggiugnete ancora, e astrologo eceellentissimo, e medico.

C.

Tanto meglio; come sta dunque questa cosa? Egli è quasi necessario (secondo me) che l'una di queste due opere non sia di Dante: e perché si sa di certo che la Commedia fu sua, resta, che il libro della Volgare Eloquenza fosse d'un altro.

V. Così rispose M. Lodovico Martelli al Trissino

C. E il Trissino che gli rispose?

V. Avendo allegato Dante, il quale nel suo Convivio promette di voler fare cotale opera, allegò il Boccaccio, il quale nella sua Vita di Dante scrive che egli la fece.

C.

Non sono mica piccioli, né da farsene beffe questi argomenti: ma il Libro che voi dite scritto in Lingua Latina da Dante trovasi egli in luogo alcuno?

V. Io ver me non l'ho mai veduto, né parlato con nessuno che veduto l'abbia; e vi narrerò brevemente tutto quello che io ho da diverse persone inteso di questo fatto: voi poi, come prudente, e senza passione, piglierete quello che più vero, o più verisimile vi parrà; che io non intendo di volere per relazione d'altrui fare in alcun modo pregiudizio a chiunche si sia, e meno alla verità, la quale sopra tutte l'altre cose amare, e onorare si dee. Avete dunque a sapere, che M. Giovangiorgio, Trissino Vicentino, uomo nobile, e riputato molto, portando oppenione che la lingua nella quale favellarono, e scrissero Dante, il Petrarca, e il Boccaccio, e colla quale favelliamo, e scriviamo oggi noi, non si devesse chiamare né Fiorentina, né Toscana, né altramente che Italiana; e dubitando di quello che gli avvenne, cioè di dovere trovar molti i quali questa sua oppenione gli contraddicessero, tradusse (non so donde, né in qual modo se gli avesse) due libri della Volgare Eloquenza, perché più o non ne scrisse l'autore d'essi, chiunche si fosse, o non si trovano, e sotto il nome di M. Giovambatista d'Oria Genovese gli fece stampare, e indirizzare a Ippolito Cardinal de' Medici; il qual Messer Giovambatista io conobbi scolare nello Studio di Padova, e, per quanto poteva giudicare io, egli era uomo da potergli tradurre da sé.

C. A che serviva al Trissino tradurre, e fare stampare quell'opera?

V. A molte cose; e fra l'altre a mostrare che la lingua vostra, cioè la Bolognese, era la più bella lingua, e la più graziata di tutta Italia.

C. Voi volete la baja, e dubito che non aggiugniate poi, come poco fa diceste che soggiunse il Boccaccio, o di maremma.

V. La baja volete voi: Dante, o qualunche si fosse l'autore di quei libri, scrisse così, anzi quanto lodò la lingua Bolognese, tanto blasimò la Fiorentina.

C. Guardate che egli non si volesse vendicare, col tor loro la lor lingua propia, dell'esilio che a torto (secondoché testimonia Giovan Villani nelle sue storie) gli fu dato da' Fiorentini.

V. Io non so, né credo cotesto: so bene che egli scrisse che il volgare illustre non era né Fiorentino, né Toscano, ma di tutta Italia; anzi (quello che è più) scrive che i Toscani per la loro pazzia insensati, arrogantemente se l'attribuivano, e molte altre cose dice peggiori che queste non sono, come intenderete poco appresso quando m'ingegnerò di chiaramente mostrarvi che la lingua della quale, e colla quale si ragiona, è, e si dee così chiamare, lingua Fiorentina, come voi Cesare Ercolani.

C. Egli mi pare ognora mille d' intendere le ragioni che avete da produrre in mezzo sopra cosa tanto, e da tanti in contrario creduta, e disputata; ma seguite intanto il ragionamento vostro.

V. Io, perché udiate piuttosto quello che tanto desiderate, non voglio dire ora altro d'intorno a questa materia.

C. Ditemi, vi prego, innanziché più oltra passiate, se voi credete che quell'opera dell'Eloquenza Volgare sia di Dante, o no.

V. Io non posso non compiacervi, e però sappiate che dall'uno de' lati il titolo del libro, la promessa che fa Dante nel Convito, e non meno la testimonianza del Boccaccio, e molte cose che dentro vi sono, le quali pare che tengano non so che di quello di Dante, come è dolersi del suo esilio, e biasimar Firenze, lodandola, mi fanno credere che egli sia suo; ma, dall'altro canto, avendolo io letto più volte diligentemente, mi son risoluto meco medesimo, che se pure quel libro è di Dante, che egli non fosse composto da lui.

C. Voi favellate enigmi; come può egli essere di Dante, se non fu composto da lui?

V. Che so io; potrebbelo aver compro, trovato, o esserli stato donato; ma, per uscire de' sofismi, i quali io ho in odio peggiormente che le serpi, il mio gergo vuor dir questo, che se quel libro fu composto da Dante, egli non fu composto né con quella dottrina, né con quel giudizio che egli compose l'altre cose, e massimamente i versi, e in ispezie l'opera grande, cioè la Commedia; perciocché oltra la contradizione della quale avete favellato voi, vi se ne trovano dell'altre, e di non minore importanza, e vi sono molte cose parte ridicole, e parte false, e insomma tutta quella opera insieme è (per mio giudizio) indegna, non che di Dante, d'ogni persona ancoraché mezzanamente letterata.

C. Di grazia ditene qualcuna.

V. Ecco fatto.

Primieramente egli (per non andar troppo discosto) dice nel primo capitolo che i Romani, e anco i Greci avevano due parlari, uno volgare, il quale senza altre regole imitando la balia s'apprendeva, e uno gramaticale, il quale se non per ispazio di tempo, e assiduità di studj si poteva apprendere.

Poi soggiugne, che il volgare è più nobile, sì perché fu il primo che fosse dall'umana generazione usato, e sì eziandio perché d'esso, o veramente con esso, tutto il mondo ragiona; e sì ancora per essere naturale a noi, dove quell'altro è artifiziale.

C.

Sicuramente, se egli dice coteste cose, abbia pur lodato Bologna quanto egli vuole, io non crederò mai che di bocca di Dante fossero uscite cotali scempiezze; e non sarebbe gran fatto che la disputa che nacque tra M. Lionardo d'Arezzo, uomo per altro ne' suoi tempi di gran dottrina, e 'l Filelfo, fosse uscita di quì; né so immaginare, come alcuno si possa dare a vedere di far credere a chiunche si sia che i Romani favellassero Toscanamente, come facciamo noi, e poi scrivessero in Latino, o che i Greci avessero altra lingua che la Greca.

V.

Non disputiamo le cose chiare, e ditemi che Dante, se cotale opera di Dante fosse, contradirebbe un'altra volta manifestissimamente a se medesimo, perciocché egli nel Convito, il quale è opera sua legittima, afferma indubitatamente, e più volte, che il Latino è più nobile che il volgare, quanto il grano, più che le biade, facendo lungamente infinite scuse, perché egli comentò le sue Canzoni piuttosto in volgare che in Latino.

C.

Io per me, senza volerne udir più, mi risolvo, e conchiuggo che quell'opera non sia di Dante.

V.

E così dicono, e credono molti altri: e quello che muove me grandissimamente, è l'autorità del molto Reverendo Don Vincenzio Borghini Priore dello Spedale degl'Innocenti, il quale essendo dottissimo, e d'ottimo giudizio così nella lingua Greca, come nella Latina, ha nondimeno letto, e osservato con lungo, e incredibile studio le cose Toscane, e l'antichità di Firenze diligentissimamente, e fatto sopra i poeti, e in ispezialità sopra Dante, incomparabile studio; né può per verso alcuno recarsi a credere che cotale opera sia di Dante, anzi, o si ride, o si maravigilia di chiunche lo dice, come quegli che, oltra le cagioni dette afferma non solo non aver mai potuto vedere, né manco udito che uomo del mondo veduto mai abbia, per moltissima diligenza che usata se ne sia, il proprio libro Latino, come fu composto da Dante; onde quando e' non ci fosse altro rispetto (dice egli), che mille ce ne sono, l'averlo colui così a bella posta celato, farà sempre con ogni buona ragione sospettare ciascuno, che o e' lo abbia tutto finto a gusto suo, pigliando qualche accidente, e mescolandoci qualche pa rola di quei tempi, per meglio farlo parere altrui di Dante, o che, se pure e' l'ebbe mai, egli l'abbia anco mandato fuora, come è tornato bene a lui, e non come egli stava.

C.

Così crederò io da quì innanzi. Ma trapassiamo omai alla terza, e ultima dimanda, che io feci, cioè, Quando, dove, come, da chi, e perché nascesse la diversità, e confusione de' linguaggi.

V.

Questa è cosa notissima per la Bibbia e anco Giuseppo nelle sue storie dell'Antichità la racconta, cioè, che Nembrotto nipote di Noè, essendo in ispazio già di circa a duemila anni cresciuta la malizia, e malvagità degli uomini, cominciò per la sua superbia a edificare una torre, la cui cima voleva che toccasse il cielo, o per non avere ad aver più paura de' diluvj, o per poter contrastare a Dio; e di quì per avventura ebbe origine la favola de' Giganti, quando soprapposto un monte all'altro cercarono di torre il Regno a Giove, e cacciarlo del cielo. Basta, che Dio per punire l'insolenza, e stoltizia di Nembrotto, e quella di coloro i quali creduto gli aveano, e gli prestavano ajuto a cotale opera, i quali erano concorsi d'ogni parte molti, discese dal cielo in quel modo che racconta Santo Agostino nel luogo di sopra allegato, e fece di maniera, che quanti diversi esercizj erano in quella fabbrica, che furono settantadue, tanti vi nacquero diversi linguaggi: onde se un maestro di cazzuola chiedeva, verbigrazia, calcina, o sassi, i manovali gli portavano rena, o mattoni; e se un maestro d'ascia addimandava legni o aguti, gli erano portati sassi, o calcina, dimanieraché non intendendo l'un l'altro, furono costretti d'abbandonare l'opera: e ritornandosi alle lor case, si sparsero per tutto il mondo.

C.

Fornite queste sei, primaché io vi proponga innanzi dubitazioni nuove, arei caro che mi raccontaste tutti quei verbi, coi lor composti, e dirivativi, i quai significano favellare, o al favellare, o al suo contrario in qualunche modo, ancorché di lontano, o propriamente, o per translazione appartengono, e quelli massimamente i quali; come vostri proprj, più nella bocca del volgo Fiorentino, o nell'uso degli scrittori burlevoli si ritrovano, che nel parlare degli scienziati, o ne' libri degli autori nobili, senza guardare che vi paressero o bassi, o plebei.

V.

Tutti no, essendo eglino in numero quasi innumerabile; ma quelli che mi verranno non solamente nella memoria, ma eziandio in bocca, di mano in mano.

C.

Così s'intende; e non vi paja fatica soggiugnere, o porre innanzi la dichiarazione di tutti quei i quali voi penserete ch'io per esser forestiere in questa lingua, e si può dire novizio in cotale studio, non intenda; e quanti più me ne direte, e più dalla comune intelligenza lontani, tanto mi farete maggiore il piacere.

V.

E' saranno tanti, che voi ne sarete non che sazio, ristucco primaché io ne venga, non dico a capo, ma al mezzo; ma vengasi al fatto.

Favellare, e parlare significano (come s'è detto di sopra) una cosa medesima.

Dal primo de' quali diriva

"favellatore", e

"favella".

Che così mi concederete che io dica per maggiore agevolezza, e brevità.

Sebbene fu prima la favella che il favellare.

Dal secondo, "parlatore", e anticamente "parlieri", e "parlatura", e ancora "parlantina", perché de' gerundj, come favellando, e parlando, e de' participj, come favellante, e parlante, non mi pare che occorra ragionare, se non di rado.

C.

Avvertite che egli mi pare (se ben mi ricordo) che Messer Annibale, e alcuni altri si ridano del Castelvetro, perch'egli usa questa parola "Parlatura".

V. Ridansi ancor di me, il quale l'ho posta, sì perché ella è voce della lingua Provenzale, dalla quale ha pigliato la Fiorentina di molte cose, e sì per l'autorità di Ser Brunetto Latini, maestro di Dante, il quale l'usò nella traduzione della Rettorica di Cicerone, e sì ancora, perché l'uso d'oggi non mi pare che la rifiuti, e anche l'analogia nolla vieta.

Perché sebbene da favellare non si forma

"favellatura",

da fare nondimeno si forma

"fattura", e da creare,

"creatura"; e l'oppenione mia è stata sempre che le lingue non si debbiano ristrignere, ma rallargare; senzaché, umana, e ragionevole cosa è, che c'ingegniamo non d'accusare, e riprendere, ma di scusare, e difendere tutti coloro che scrivono, ingegnandosi eglino colle loro fatiche, le quali non hanno altro premio che la loda, arrecare o diletto, o giovamento, o l'uno, e l'altro insieme alla vita de' mortali; per tacere, che io, secondo la richiesta che fatta m'avete, guarderò, non se le parole che io dico, si trovino scritte appresso gli autori o da vero, o da burla, ma se si favellino in Firenze, o da' plebei, o da' patrizj: onde ripigliando il filo dico, che da parlare si compone riparlare; il che non avevano, che io sappia, i Latini.

Cioè parlare di novo, e un'altra fiata; e sparlare, che quello significa che i Latini dicevano, obloqui, cioè dir male, e biasimare, e alcuni dicono, straparlare, cioè parlare o troppo, o in mala parte.

Parlamentare si dicono coloro, i quali nelle Diete, o ne' Consigli favellano per risolvere, e diterminare alcuna diliberazione, onde far parlamento si diceva a Firenze ogni volta che la Signoria o forzata, o di sua volontà, con animo che si dovesse mutare lo Stato, chiamava al suono della campana grossa il popolo armato in piazza, e lo faceva d'in sulla ringhiera dimandare tre volte, se egli, che così, o così si facesse, si contentava; ed egli (come s'era il più delle volte ordinato prima) rispondeva gridando, e alzando l'arme, Sì, sì. Dicesi ancora tenere parlamento, cioè favellare a dilungo."

"Ragionare", onde si formano "ragionatore", e, "ragionamento", viene dal verbo Latino "ratiocinari".

Il perché, come ben dice il Castelvetro, si piglia, benché radissime volte, per usare la ragione, e discorrere.

C.

Non avete voi questo altro verbale ragioniere?

V.

Abbiamlo, e si dice d'uno il quale sia buono abbachista, cioè sappia far bene di conto, perché gli abbachieri, quando fanno bene, e prestamente le ragioni, si dicono far bene i conti.

Sermonare, che appresso i Latini si disse con voce deponente (per usare le parole de' graramatici antichi Latini più note, e meglio intese, che quelle dei grammatici moderni volgari) ora sermonari, e ora sermocinari, vuole propriamente significare parlare a lungo, e, come noi diciamo, fare un sermone.

Prologare direbbono per avventura alcuni non altramente, che i Greci __o_o_____, cioè fare il prologo, che i Latini dicevano praeligfari, e proaeligmiari, donde era detto proemio, e prefazione.

Che così seguiremo di dire, sebbene praeligfari, e proaeligmiari sono detti da prefazione, e da proemio.

"Predicare" è verbo latino, e significa dir bene d'alcuno, espressamente lodarlo, ma oggi è fatto proprio de' "predicatori" che dichiarano in su i pergami la Scrittura Santa, onde si forma predica, ovvero "predicazione".

Dicesi ancora essere in buono, o in cattivo predicamento.

"Prosare", onde prosatori, sebbene ha il suo proprio significato, cioè scrivere in prosa, ovvero, come dicevano i Latini, non avendo un verbo proprio, scrivere in orazione sciolta, ovvero pedestre.

Nondimeno quando in Firenze si vuole riprendere uno che favelli troppo adagio, e ascolti se medesimo, e (come si dice) con prosopopeja, s'usa di dire: egli la prosa; e coloro che la prosano, si chiamano prosoni.

Poetare, o poeteggiare s'usano non solamente per iscrivere in versi che noi diciamo verseggiare, e più latinamente versificare, ma propriamente rimare, onde rimatori; ma ancora per favellare poeticamente, o recitando, o componendo, o biscantando versi. Provvisare, ovvero dire all'improviso, è comporre, e cantare versi ex tempore (come dicevano i Latini, mancando del verbo proprio), cioè senza aver tempo da pensargli, in sulla lira. I Greci felicemente dicevano d'una cosa fatta subito, e senza tempo, __________.

"Favoleggiare", o "favolare", onde è detto "favolone", tratto da "fabulari" Latino, significa raccontare favole, o fole, o scrivere cose favolose, e novellare, che è proprio de' Toscani, raccontare, o scrivere novelle, come il frottolare, di far frottole, e favole, come anticamente, e così ancora oggi si chiamano lue commedie.

Aprir le labbra, e sciogliere la lingua, e rompere il silenzio sono locuzioni topiche cavate dal luogo de' conseguenti, o piuttosto dagli antecedenti, perché niuno può favellare, se prima non iscioglie la lingua, non apre la bocca, non rompe il silenzio.

Questi verbi comincianti tutti dalla lettera C, cicalare, ciarlare, cinguettare, cingottare, ciangolare; ciaramellare, chiacchierare, e cornacchiare, si dicono di coloro i quali favellano non per aver che favellare, ma per non aver che fare, dicendo senza sapere che dirsi, e insomma cose o inutili, o vane, cioè senza sugo, o sostanza alcuna.

Dal primo si formano cicala, cioè uno che favella troppo, e senza considerazione; cicaleria, ovvero cicaleccio; cicalino, e cicalone, cioè una cicala grande; tratto, come si vede, dalle cicale.

Dal secondo, "ciarla", "ciarlatore", e "ciarlone", la qual ciarla si piglia alcuna volta in parte non cattiva, dicendosi di chi ha buona parlantina: il tale ha buona ciarla, cioè non fa mal cicaleccio; ma ciarlatore, e ciarlone si pigliano sempre in cattiva: dal quinto diriva per avventura il nome di cianghella, del quale fa menzione Dante; e il Boccaccio nel Laberinto d'Amore disse della setta Cianghellina: dal sesto, ciaramella: dal settimo, chiacchiera, che così si nominano coloro che mai non rifinano di cinguettare, e dir cose di baje; onde si dicono ancora chiacchieroni, e chiacchierini: dall'ottavo, cornacchia, e cornacchione, e viene dal verbo Latino cornicari, cioè favellare come le cornacchie. Dicesi ancora dalle mulacchie gracchiare, cioè cicalare come le putte, onde vien gracchia, cioè uno che non parli, ma cinguetti come le gracchie: e d'una donna, ella fa come la putta al lavatoio, tratto da quelle che lavano i bucati, cinguettando. Nel medesimo significato si piglia tattamellare, onde nasce tattamella, cioè uno che cicala assai, e non sa che, né perché. Similmente quando alcuno cicala, e non sa che, né perché, si dice: egli non sa ciò che egli s'abbaja, e viene dal verbo Latino baubari, onde abbajatori si chiamano coloro i quali abbajano, e non mordono, cioè riprendono a torto, e senza cagione coloro che non temendo dei loro morsi, non gli stimano; il perché da alcuni sono chiamati latratori, dal verbo Latino latrare, che è proprio de' cani, de' quali si dice quando abbajano, che non mordono, o non pigliano caccia.

Quando alcuno, non si contentando d'alcuna cosa, o avendo ricevuto alcun danno, o dispiacere, non vuole, o non ardisce dolersi forte, ma piano, e fra se stesso, in modo però che dalla voce, e dagli atti si conosca, lui partirsi mal sodisfatto, o restare mal contento, si dice: egli brontola, o borbotta, o bufonchia, donde nasce bufonchino, per uno che mai di nulla non si contenta, e torcendo il grifo a ogni cosa, si duole tra sé brontolando, o biasima altrui borbottando; e di cotali si suol dire: egli apporrebbono alla babà. Chi sgrida alcuno, dicendogli parole o villane, o dispettose, si chiama, proverbiare: chi garrendolo, o rinfacciandogli alcuno beneficio, rampognare, e rimbrottare, onde nascono rampogna, e rimbrotti, cioè doglienze, e borbottamenti, e quando si fa per amore, o (come il volgo dice) per martello, si chiama rimorchiare.

C.

Dunque rimorchiare in quella Novella del Boccaccio della Belcolore, e del Prete da Varlungo, il quale quando vedeva il tempo, guatatala un poco in cagnesco per amorevolezza la rimorchiava, non significa (come spongono alcuni) la riguardava con qualche atto, o segno d'amore, o veramente la rimirava di traverso, o conlo sguardo la tirava a guardar lui; verbo tratto da' marinari, quando rimorchiano le navi?

V. Io vi dirò sempre liberamente quello che sento senza intenzione di voler riprendere, o biasimare alcuno: pigliate poi voi quella oppenione che più vi piace, o giudicate migliore. Rimorchiare è verbo contadino, e se ne fa menzione nel pataffio; e benché io non sappia la sua vera etimologia, tanto credo che venga da remulco nome, onde si fece il verbo remulcare, cioè rimorchiare, quanto dalla morchia, che è la feccia dell'olio: e significa dolersi, e dir villania amorosamente, come, verbigrazia, per discendere a così fatte bassezze, affinché meglio m'intendiate: ah crudele traditoraccia, vuoimi tu far morire a torto? e così fatte paroline, o parolette, o parolozze che dicono i contadini innamorati.

C. Seguitate; che voi mi date la vita.

V. Quando altri vuol la berta di chicchessia, e favella per giuoco, o da motteggio, o per ciancia, o da burla, si chiama dal verbo Latino giocarsi, e dal Toscano, motteggiaire, cianciare, burlare, e berteggiare, onde vengono cianciatore, e ciancione, burlatore, burlone, e burlevole, come motteggievole; ma se fa ciò per vilipendere, o pigliarsi giuoco ridendosi d'alcuno, s'usa dire, beffare, e sbeffare, dileggiare, uccellare, e ancora galeffare, e scoccoveggiare; benché questo sia piuttosto Sanese, che Fiorentino. Dicesi ancora tenere a loggia, gabbarsi d'alcuno, e, da un luogo così detto sopra Firenze verso Bologna cinque miglia, del quale fece menzione Dante, e donde voi siete passato poco fa, mandare all'Uccellatojo: e medesimamente tenere alcuno in sulla gruccia, dalle civette, le quali in sulle gruccie si tengono, dalle quali nacque il verbo civettare non solo per uccellare, ma in quel proprio significato che i Greci dicono _____o______, cioè fare alla civetta, cavando ora il capo della finestra, e ora ritirandolo dentro. Quando chicchessia ha vinto la pruova, cioè sgarato un altro, e fattolo rimanere o con danno, o con vergogna, dicono a Firenze: il tale è rimaso scornato, o scornacchiato, o scorbacchiato, o scaracchiato, o scatellato, o smaccato, o scaciato; che tutti cominciano (come vedete) dalle lettere S. C, fuori che smaccato: dicesi ancora rimaner bianco, e, più modernamente, con un palmo di naso. Quando alcuno in favellando dice cose grandi, impossibili, o non verisimili, e insomma quelle cose che si chiamano non bugiuzze, o bugie, ma bugioni, se fa ciò senza cattivo fine, s'usa dire: egli lancia, o scaglia, o sbalestra, o strafalcia, o arrocchia, o ei lancia cantoni, ovvero campanili in aria: ma se lo fa artatamente per ingannare, e giuntare chicchessia, o per parer bravo, si dice: frappare, tagliare; frastagliare; onde viene frastagliante, e frastagliatamente, e con più generale verbo, ciurmare, dai Ciurmatori che cantano in banca, o danno la pietra di San Pagolo, i quali perché il più delle volte sono persone rigattate, e uomini di scarriera, mostrano altrui la luna nel pozzo, o danno ad intendere lucciole per lanterne, cioè fanno quello che non è, parere che sia, e le cose picciole, grandi. D'uno che dica male d'un altro, quando colui non è presente, s'usano questi verbi: cardare, scardassare, tratti da' cardatori; e dagli scardassieri: lavargli il capo, da' barbieri; e vi s'aggingne spesse volte, col ranno caldo, e talora, col freddo, e più efficacemente, co' ciottoli, ovvero, colle frombole: levarne i pezzi dai beccai, o da' cani, lavorarlo di straforo, da quelli che fanno i bucherami, o i ferri damaschini: così, dargli il cardo, il mattone, e la suzzacchera, massimamente quando se gli nuoce: e alcuni quando vogliono significare che si sia detto male d'alcuno, sogliono dire: e' s'è letto in sul suo libro, o, la palla è balzata in sul suo tetto, e talvolta: e' n'ha avuta una buona stregghiatura, ovvero mano di stregghia. Ogni volta che ad alcuno pare aver ricevuto picciolo premio d'alcuna sua fatica, o non vorrebbe fare alcuna cosa, o, dubita se la vuol fare, o no, mostrando che egli la farebbe, se maggior prezzo dato, o promesso gli fosse, si dice: e' nicchia, e' pigola, e' miagola, e' la lella, e' tentenna, ovvero, si dimena nel manico, si scontorce, si divincola, si scuote, e' se ne tira indietro, e' la pensa: e se v'aggiugne parole, o atti che mostrino, lui aver preso il grillo, essere saltato in sulla bica, cioè essere adirato, e avere ciò, per male, si dice: e' marina, egli sbuffa, o, soffia; e se alza la voce, e si duole che ognun senta, si dice scorrubbiarsi, arrangolarsi, e arrovellarsi, onde nascono rangole, e rovello; e se continova nella stizza, e mostra segni di non volere, o non potere star forte, e aver pazienza, si dice: egli arrabbia; e' vuol dar del capo, o, batter il capo nel muro; egli è disperato, e si vuole sbattezzare, dare alle streghe; e' non ne vuol pace, né tregua; e vuole affogarsi, o, gettarsi via; e, brevemente, rinnegar la pazienza; e, rendersi frate, e, farsi romito: e se ha animo di volersi, quando che sia, vendicare, stralunando, o strabuzzando gli occhi verso il cielo, si morde il secondo dito, e' minaccia; e, più stizzosamente, mordersi, o, manicarsi, o, mangiarsi le mani per rabbia. Quello che i Latini dicono adulari, si dice Fiorentinamente piaggiare, e quello che essi dicono obsequi, noi diciamo andare ai versi, o veramente con una parola sola, secondare, e quello che dicono blandiri, diciamo noi lusingare, onde vengono lusinghe, lusinghieri, che usò il Petrarca, e lusinghevole; ancorché il Boccaccio, in luogo di lusinghe, usasse in una delle sue ballate blandimenti, che noi propriamente diciamo carezze, dal verbo carezzare, o accarezzare, cioè far carezze; il che diciamo ancora far vezzi, e vedere alcuno volentieri, e fargli buona cera, cioè buon viso, accoglierlo, o accorlo lietamente. Usansi ancora in vece d'adulare, soiare, o, dar la soia, e così dar l'allodola, dar vaccabaldole, moine, roselline, la quadra, e la trave, e più popolarmente, andare a Piacenza, ovvero, alla Piacentina, e talvolta, ligiar la coda. Imbecherare nella lingua Fiorentina significa quello che i Latini dicevano subornare, onde ancora si dice subornato, cioè convenire con uno segretamente, e dargli (come si dice) il vino, cioè insegnargli quello che egli debba o fare, o dire in alcuna bisogna, perché ne riesca alcuno effetto; che propiamente si dice indettarsi. Dicesi ancora quasi nel medesimo significato imburchiare, e imburiassare, onde buriassi si chiamavano coloro, i quali mettevano in campo i giostranti, e stavano loro d'intorno, dando lor colpi, e ammaestrandogli, come fanno oggi i padrini a coloro che debbono combattere in isteccato. Buriassi si chiamano eziandio coloro i quali rammentano, e insegnano a' provvisanti, o ancor a quelli che compongono: le quali cose si dicono ancora da coloro che hanno cura de' barberi perché vincano il palio, imbarberescare, e dalle balie, imboccare, e imbeccare, dagli uccelli; onde imboccare col cucchiajo volo, si dice per un cotal motto, e proverbio di coloro che voglion parere d'insegnare, e non insegnano. Dicesi ancora con vocabolo cavato da' cozzoni de' cavalli scozzonare, e con voce più gentile, e usata da' compositori nobili, scaltrire, onde viene scaltro, e scaltrito, cioè accorto, e sagace; e quando s'è insegnato alcun bel tratto, si dice: questo è un colpo da maestro, o, egli ha dato un lacchezzino. Quando alcuno fa, o dice alcuna cosa sciocca, o biasimevole, e da non dovergli per dappocaggine e tardità, o piuttosto tardezza sua, riuscire, per mostrargli la sciocchezza e mentecattaggine sua, se gli dice in Firenze.

Tu armeggi, tu abbachi, tu farnetichi, tu annaspi, tu t'aggiri, tu t'avvolgi, o veramente, avvolli, alla Sanese, tu t'avviluppi, tu t'avvolpacchi, tu non dai in nulla; e altri modi somiglianti, come: tu perdi il tempo, tu non sai a quanti dì è San Biagio, tu farai la metà di nonnulla, tu non sai mezze le messe, tu saresti tardi alla fiera a Lanciano, tu ti morresti di fame in un forno di schiacciatine, tu non accozzeresti tre pallottole in un corno, ovvero, bacino, tu non vedresti un bufolo nella neve, tu arresti il mellone, tu inciamperesti nelle cialde, ovvero, cialdoni, o, ne' ragnateli, o, in un filo di paglia, tu faresti come i buoi di Noferi, tu rimarresti in Arcetri, tu affogheresti alla Porticciuola, o, in un bicchier d'acqua; e' non ti toccherebbe a dir Galizia; e' non ti toccherebbe a intignere un dito, se tutto Arno corresse broda; se gli altri somigliassin te, e' si potrebbe fare a' sassi pe' forni.

C.

E trovansi di quelli che osano dire, la lingua vostra esser povera?

V.

Trovansene, e a migliaja; ma da quì innanzi non dite vostra, ma Fiorentina.

C.

Perché?

V.

Perché alcuni vogliono che io, sebbene fui nato, e allevato in Firenze, non sia Fiorentino.

Per lo essere mio padre venuto a Firenze da Montevarchi.

C.

Voi volete il giambo; io dirò come bene mi verrà.

V.

Fate voi.

A me basta avervi detto quello che dicono, e per quello che il dicono.

E farò anch'io il medesimo; e però seguitando, dico che coloro i quali favellano consideratamente, si dicono masticar le parole, prima che parlino.

Quelli che non le sprimono bene, mangiarsele, e quelli che peggio, ingojarsele.

Quelli che penano un pezzo, come i vecchi, e sdentati, biasciarle.

E quelli che per qualunche cagione, avendo cominciato le parole, non le finiscono, o non le mandano fuori, ammezzarle; onde il Petrarca disse.

Tacito vo, che le parole morte Farian pianger la gente, ec.

Benché alcuni interpetrano morte, cioè meste, e dogliose, o che di cose meste, e dolorose ragionano. Quelli che favellano piano, e di segreto l'uno all'altro, o all'orecchio, o con cenni di capo, e certi dimenamenti di bocca, e insomma che fanno bao bao (come si dice) e pissi pissi, si dicono bisbigliare, e ancora, ma non così propriamente, con verbi Latini, susurrare, e, mormorare. Avvertite però, che sebbene da bisbigliare si dice bisbigliatore, e bisbiglio, o da bisbiglio bisbigliare, non pertanto si dice ancora bisbiglione, ma in quella vece si dice susurrone: e quando non si sa di certo alcuna cosa, ma se ne dubita, o si crede dalla brigata, e se ne ragiona copertamente, si dice: e' se ne bucina, e si dee scrivere con un c solo, e non con due, perché allora sarebbe il verbo latino buccinare, che significa tutto il contrario, cioè trombettare, e dirlo su pe' canti ancora a chi ascoltarlo non vuole. Quelli che dicono cose vane, o da fancaiulli, hanno i lor verbi proprj, vaneggiare, o come disse Dante, vanare, e pargoleggiare, i quali si riferiscono ancora al fare, e anticamente, bamboleggiare. Di coloro i quali (come si dice) confessano il cacio, cioè dicono tutto quanto quello che hanno detto, e fatto a chi ne gli, dimanda, o nel potere della giustizia, o altrove che sieno, s'usano questi verbi: svertare, sborrare, schiodare, sgorgare, spiattellare, cantar d'Aiolfo, votare il sacco, e scuotere il pellicino.

C.

Che cosa sono i pellicini? Forse quei vermini che nascendo nella palma della mano tra pelle, e pelle, ce le fanno pruire, e con quel prurito c'inducono,grattandoci noi, molestia, e piacere insiememente?

V.

I Toscani dicono pizzicare, e pizzicore, non pruire, e prurito; e cotesti che voi dite, non si chiamano pellicini, ma pellicelli. Pellicini sono quei quattro, come quasi orecchi d'asino, che si cuciono nella sommità delle balle, due da ogni parte, affinché elle si possano meglio, pigliare, e più agevolmente maneggiare; il che si fa ancora molte volte nel fondo de'sacchi; e perciò si dice non solo votaree, scuotere il sacco; ma ancora, i pellicini del sacco, ne' quali entrano spesse volte, e si racchiuggono delle granella del grano, o d'altro di che il sacco sia pieno; e, aprire, o, sciorre il sacco significa cominciare a dir male; e, essere alle peggiori del sacco, essere nel colmo del contendere; essere al fondo del sacco, essere al fine: traboccare il sacco, è quando non ve ne cape più, cioè non si può avere più pazienza: dicesi ancora sgocciolare l'orciuolo, ovvero, l'orciolino, e talvolta, il barlotto. Se alcuno ha detto alcuna cosa, o vera, o falsa che ella sia, e un altro per piaggiarlo, e fare ch'ella si creda, gliele fa buona, cioè l'appruova, affermando così essere come colui dice, e talvolta accrescendola, sono in uso questi verbi: rifiorire, ribadire, rimettersela, o, rimandarsela l'un l'altro, rimbeccarsela, o, rirnpolpettarsela.

C. Io odo cose che io non sentii mai più, ma che vuol significare propriamente ribadire?

V.

Voi n'udirete, e sentirete dell'altre, se arete pazienza, e non vi venga a fastidio l'ascoltarle. Quando un legnajuolo, che gli altri dicono falegname, o marangone, avendo confitto un aguto, e fattolo passare, e riuscire dall'altra parte dell'asse, lo torce così un poco nella punta col martello, e poi lo ripicchia, e ribatte, e, brevemente, lo riconficca da quella banda, perché stia più forte, si dice ribadire.

C. Ora intendo io la metafora, e ne rimango soddisfattissimo; però seguitate, se avete più verbi di questa ragione, che a me non solo non viene a noja, ma cresce il disiderio di ascoltare.

V. Di coloro i quali per vizio naturale, o accidentale non possono profferire la lettera r, e in luogo di frate, dicono fate, si dice non solamente balbotire, o, ballotire, come i Latini, ma balbettare ancora, e talvolta, balbezzare, e, più Fiorentinamente, trogliare, o, barbugliare, e di più, tartagliare: e il verbo proprio di questo, e altri cotali difetti è scilinguare; onde d'uno che favella assai, s'usa di dire: egli ha rotto, o, tagliato lo scilinguagnolo, il quale si chiama ancora filetto, che è quel muscolino che tagliano le più volte le balie di sotto la lingua a' bambini; e quando uno barbugliando si favella in gola, di maniera che si sente la voce, ma non le parole, e s'usa il verbo gorgogliare, onde Dante disse: Questo inno si gorgoglian nella strozza: dicesi ancora gargagliare, onde nasce gargagliata. Se avviene che alcuna cosa sia seguita o di fatti, o di parole, e che colui a chi tocca, non vuole, per qualunche cagione, che ella si ritratti, e se ne favelli più, dice: Io non voglio che ella si rimesti, o, rimeni, o, rimescoli, o, ricalcitri più: dicesi ancora riandare, cioè: io non voglio riandarla, o, che ella si riandi, anzi che vi si metta su pié per sempre. E quello che si dice ripetere, onde nasce ripititore, fu dal Petrarca detto, rincorrere.

C. Che vuol dire ripititore?

V. Ripititore si chiamano proprio quei sottomaestri (per dir così) i quali, letta che hanno i maestri la lezione, la fanno ripetere, e ridire a' discepoli; e, quando io era piccino, quelli che avevano cura de' fanciulli, insegnando loro in quel modo che i Latini dicono subdocere, e menandogli fuora, non si chiamavano, come oggi, pedanti, né con voce Greca pedagogi, ma con più orrevole vocabolo, ripititori; benché Ser Gambassi che stava in casa nostra per ripititore, del quale io ho poco da potermi lodare, voleva che si dicesse ripetitore per e nella seconda sillaba, dal verbo repetere, e non per i, e faceva di ciò un grande scalpore, come se ne fosse ito la vita, e lo stato.

C. Egli dovea essere piuttosto pedante, o pedagogo, che ripititore, perché per la medesima ragione dovea volere anco che si dicesse repetitore, e non ripetitore; ma seguitate. VAR. Gridare, che i Latini dicevano solamente in voce neutra exclamare, si dice da noi eziandio attivamente, come anco garrire; ma sgridare, onde il Boccaccio formò sgridatori, è solamente attivo: stridere, per lo contrario, è sempre neutro, come anco appresso i Latini; benché essi lo fanno della seconda congiugazione, cioè dicono stridere, coll'accento circunflesso in sulla penultima sillaba, il quale accento la mostra esser lunga; e noi faccendolo della terza diciamo stridere coll'accento acuto in sulla antepenultima, il quale dimostra la penultima sillaba essere breve; benché la lingua volgare non tien conto principalmente della quantità delle sillabe, ma della qualità degli accenti. Guaire, che i Latini dicevano ejulare, onde nacque la voce guai, è anch'egli solamente neutro, e così urlare; benché Vergilio l'usasse in voce passiva; e non è proprio de li uomini, ma dei lupi, sebbene i Latini dicevano ululare ancora degli assiuoli, come noi, de' colombi. Strillare, il che si dice ancora mettere urli, o urla, stridi, o strida, strilli, e tifoli, è proprio quello che i Latini dicevano vociferari, cioè gridare quanto altri n'ha in testa, ovvero in gola: e ringhiare con ringhiosi, che disse Dante, è irringere Latino, che è proprio de' cani, quando irritati, che noi diciamo aissare, mostrano con rigno, digrignando i denti, di voler mordere.

C. Ringhiare non si dice egli ancora de' cavalli?

V. Rignare si dice, ma il proprio è annitrire. Stordire, onde nasce stordito, e stordiglione, è verbo così attivo, come neutro, perché così si dice: io stordisco a questo rumore, come: tu mi stordisci colle tue grida, ovvero: i tuoi gridi mi stordiscono; e storditi si chiamano propriamente quelli i quali, per essere la saetta caduta loro appresso, sono rimasi attoniti, e sbalorditi, i quali si chiamano ancora intronati, perché intronate, appresso i Toscani, è attivo, e non neutro, come, appo i Latini, intonare, e significa propriamente quel romore che fanno i tuoni, chiamato da alcuni frastuono, onde Dante disse: Così si fecer quelle facce lorde Dello demonio Cerbero, che' ntruona L'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.

Quello che i Latini dicevano Grecamente reboare, dicono i Toscani rintronare, e rimbombare, da bombo voce Latina, che significa certo suono di tromba; onde disse il Poliziano nella fine d'una delle sue altissime Stanze: Di fischi, e bussi tutto 'l bosco suona, Del rimbombar de' corni il ciel rintruona. E nella Stanza seguente: Con tal tumulto, onde la gente assorda, Dall'alte cateratte il Nil rimbomba.

C.

Quel verbo che i Romani i quali da Romulo, che fu nominato Quirino, si chiamavano Quirites, formarono, quando volevano significare, gridar soccorso, e chiedere ajuto, massimamente dal popolo, cioè quiritare, ovvero, quiritari, truovasi egli nella lingua Toscana, o Fiorentina?

V.

Con una parola sola che io sappia, no, ma si dice gridare a corriuomo, ma bene avete fatto a interrompermi, perché io era entrato in un lecceto da non uscirne così tosto, tanti verbi ci sono che significano le voci degli animali; nel che però siamo vinti da' Latini, e anco eramo troppo discosto dalla materia del favellare.

C.

Troppo lontani no, perché ogni cosa fa per me, e non ve ne dimando, perché mi ricordo di quei versi che sono nella vostra Dafni, dove mi pare che siano quasi tutti.

V.

Io non me ne ricordo già io; di grazia ditegli, per vedere se così è come voi dite.
C. I serpenti fischiar, gracchiaro i corvi, Le rane gracidar, bajaro i cani, Belarono i capretti, urlaro i lupi, Ruggirono leon, mugghiaro i tori, Fremiron gli orsi, e gli augei notturni Civette, ed assiuol, gufi, e cuculi S'udir presaghi del gran danno in lungo Dall'alte torri, e'n cima a' tristi nassi Strider con voci spaventose, e meste.

V.

Anzi ce ne sono molti altri, come de' cervi il crociatare, piuttosto che gracchiare; squittire de' pappagalli; ragghiare degli asini; miagolare delle gatte; schiamazzare delle galline, quando hanno fatto l'uovo, pigolare de' pulcini; cantare de' galli e trutilare dei tordi; ma io non me ne ricordo; e anco non fanno a proposito, come ho detto, della nostra materia: però sarà bene che seguitiate, come avete seguitato, a dimandar voi di quello che più disiderate di sapere.

C.

Quel verbo che i Latini dicono compellare, non dico quando significa parlare famigliarmente, né chiamare uno per nome, né accusare chicchessia, ma chiamare uno forte per uccellarlo, e fargli baja, hannolo i Toscani in una parola?

V.

Hannolo.

Perché bociare significa proprio cotesto, sebbene si piglia ancora per dare una voce ad alcuno, cioè chiamarlo forte.

C.

Come direste voi nella vostra lingua quello che Terenzio disse nella Latina subservire orationi?

V.

Secondare, o, andar secondando il parlare altrui, e, accomodarsi al parlare.

C. E quando disse: Munus nostrum ornato verbis?

V. Abbellisci il dono, o il presente nostro colle parole; ma Dante, che volle dirlo altramente, formò un verbo da se d'un nome agghiettivo, e d'una preposizione Latina, e disse Mal dare, e mal tener lo mondo pulcro Ha tolto loro, e posti a questa zuffa, Quale ella sia, parole non ci appulcro.

C.

Dite il vero, piacevi egli, o parvi bello cotesto verbo appulcro?

V.

Non mi dimandate ora di questo.

C.

Voi pigliate quì abbellisce
in significazione attiva, cioè per far bello, e di sopra quando allegaste quei versi di Dante.

Opera naturale è ch' uom favella.

Ma così, o così, natura lascia Poi fare a voi, secondo che v'abbella. pare che sia posto in significazione neutra, cioè per piacere, e per parere bello.

V.

Voi dite vero, ma quello è della quarta congiugazione, ovvero maniera de' verbi, e questo è della prima.

Quello si pone assolutamente, cioè senza alcuna particella innanzi, e questo ha sempre davanti se o mi o ti, o gli, secondo le persone che favellano, o delle quali si favella: questo è modo di dire Toscano, come mostra Dante stesso, inducendo nella fine del XXVI. canto del Purgatorio Arnaldo Daniello a dire Provenzalmente:

Jam m'abellis votre cortois deman. e gli altri versi che seguitano; benché per mio avviso siano scritti scorrettamente. Dicesi eziandio, come 'l Boccaccio nell'Ameto: De' quai la terza via più s'abbelliva.

C.

Voi non avete detto nulla del verbo arringare?

V.

Aringare si pronunzia oggi, e conseguentemente si scrive per una r sola, e non, come anticamente, con due, e significa non solamente correre una lancia giostrando, ma fare un'orazione parlando, ed è proprio quello che in Firenze si diceva favellare in bigoncia, cioè orare pubblicamente o nel consiglio, o fuori: ed aringo, usato più volte non solo da Dante, ma dal Boccaccio, significa così lo spazio dove si corre giostrando, o si favella orando, come esso corso, o giostra, ed esso parlare, ovvero orazione; ed è questo verbo in uso ancora oggi in Vinegia tra gli Avvocati; e da questo fu chiamata in Firenze la Ringhiera, luogo dinanzi al Palazzo, dove, quando entrava la Signoria, il Podestà salito in bigoncia; che così si chiamava quel Pulpito fatto a guisa di pergamo, dentro 'l quale aringava; faceva un'orazione (che in quel tempo si chiamavano dicerie) a' Signori, da quella parte dove è il Marzocco, ovvero il lione indorato che ha sotto la lupa, al quale in quelli, e in tutti gli altri giorni solenni si metteva, e si mette la corona dell'oro.

C.

Piacemi intendere cotesti particolari de' costumi, e usanze di Firenze; ma che vuol dire berlingare?

V.

Questo è verbo più delle donne, che degli uomini, e significa ciarlare, cinguettare, e tattamellare, e massimamente quando altri avendo pieno lo stefano, e la trippa (che così chiamano i volgari il corpo, o il ventre), è riscaldato dal vino: e da questo verbo chiamano i Fiorentini berlingaiuoli, e berlingatori coloro i quali si dilettano d'empiere la morfia, cioè la bocca, pappando, e leccando: e Berlingaccio quel giovedì che va innanzi al giorno del carnesciale, che i Lombardi chiamano la giobbia grassa; nel qual giorno per una comune, e prescritta usanza così fatta, pare che sia lecito a ciascuno, faccendo stravizj, e tafferugli, attendere con ghiottornie, e leccornie, senza darsi una briga, o un pensiero al mondo, a godere, e trionfare; il che oggi si chiama far tempone. E sono alcuni i quali credono che da questo verbo, e non dal nome borgo, sia detta berghinella, cioè fanciulla che vada sberlingacciando, e si truovi volentieri a gozzoviglie, e a tambascià, e, per conseguente, di mala fama: e talvolta furono di quì chiamati i berlingozzi, i quali in cotali giorni si dovevano usare a 'conviti nel principio della mensa, come ancora oggi si fa: e forse ancora il casato de' Berlinghieri, o per fare spesse volte pasto; che anticamente si diceva metter tavola; o per intervenire volentieri nelle tresche, e a' trebbj per darsi piacere, e buon tempo. E contuttoché i furfanti non siano troppo usi a sguazzare, e stare co' pié pari; il che si chiama scorpare, e, stare a panciolle; nondimeno in lingua furbesca si chiama berlengo quel luogo dove i furbi alzano il fianco, quando hanno che rodere; siccome refettorio, quello dove fanno carità i frati, quando non digiunano.

C.

Bene sta; ma che dite voi del verbo rancurare? Viene egli da rancore, ovvero ruggine, cioè da odio occulto; che i Latini dicevano simultas; come afferma Messer Cristofano Landini in quel verso di Dante nel ventesimosettimo canto dell'Inferno: E sì vestito andando mi rancuro; ed è egli sì mala cosa, e così da doversi fuggire, come alcuni lo fanno?

V.

Rancuro, donde si venga, è verbo Provenzale, e significa attristarsi, e dolersi, come si vede in quel verso d'una canzone di Folchetto da Genova; benché egli si chiamò, e volle essere chiamato da Marsilia; la quale canzone comincia: Per Deu amors ben sabez veramen, dove dice dolendosi della sua donna: Cum plus vos serf chascuns, plus se rancura; cioè, per tradurlo così alla grossa in un verso: Com' più vi serve alcun, più sene duole. Usalo ancora Arnaldo di Miroil in una sua canzone che comincia: Sim destringues donna vos, et amor. Da questo discende rancura, cioè tristizia, e doglienza; nome usato da Dante, che disse una volta: La qual fa del non ver vera rancura; ma molte, da' poeti Provenzali, come si può vedere nella medesima canzone del medesimo Folchetto; e Pietro Beumonte nella canzone che comincia: Al pariscen de las flors, cioè, all'apparir de' fiori, disse: Qui la en paez ses rancura cioè Chi l'ha in pace senza tristezza, o, dolore.

C.

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Io non intendo questa lingua Provenzale,
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e per non interrompere il corso del nostro ragionamento non ve ne voglio dimandare ora.

Ma ditemi, non avete voi altri verbi, senza andare fino in Provenza, che significhino questa passione?

V.

Abbiamne tre Latini,

dolersi,
lamentarsi, e
querelarsi, e due nostri, lagnarsi, e rammaricarsi, che si dice anco per sincopa rammarcarsi, come si vede in Dante, e da questo nascono rammarico, ovvero rammarco, e rammarichio nel medesimo significato.

C. Perché dunque usò Dante rancuro, e rancura, forse per cagion della rima?

V. Appunto mancavano rime a Dante, e massimamente in coteste parole, che se ne trovano le migljaia excl ma il fece (credo io) a per arricchir la lingua, o perché cotali voci erano a quel tempo in uso.

C. Musare, che usò Dante quando disse nel ventesim'ottavo canto dell'Inferno: Ma tu chi sei che 'n su lo scoglio muse? viene egli dal verbo Latino mussare, cioè parlare bassamente, come ho trovato scritto in alcuni libri moderni?

V. Non credo io, sebbene pare assai verisimile; perché il mussare Latino, che è il frequentativo di mutire, come mussitare di mussare, significa più cose, e non mi pare che egli abbia quella proprietà che ha il nostro musare, che viene da muso, cioè viso, o volto, che si dice ancora ceffo, grifo, niffolo, grugno, e mostaccio, e massimamente negli animali; onde noi, quando alcuno maravigliando, e tacendo ci guarda fissamente col viso levato in su, e col mento che sporti in fuora, e pare che voglia colla bocca favellare, e non favella, diciamo: che musi tu? o, che sta colui a musare? ovvero, alla musa; nella quale oppenione tanto mi confermo più, quanto ella non è mia (benché anco mia), ma del molto Reverendo, e dottissimo Priore degli Innocenti, già da me più volte allegato.

C. Voi m'avete fatto venire una gran voglia di conoscere, e onorare cotesto Priore, essendo egli tanto buono, e tanto dotto, e tanto amorevole, quanto voi dite. Ma che intendete voi per millantarsi, e donde viene cotal verbo?

V. Vanagloriarsi, ammirar se stesso, dir bene di se medesimo, e innalzare più su che 'l cielo le cose sue, faccendole maggiori non pure di quello che sono, ma di quello che esser possono; e fu tratto da quelli che, parendo loro essere il seicento, hanno sempre in bocca mille, e la prima tacca della stadera de' quali dice un migliajo: e di questi tali che s'ungono, o untono gli stivali da lor posta, cioè si lodano da se medesimi, si suol dire che hanno cattivi vicini.

C. Avete voi altro verbo che senza tante migliaja, e millanterie, e millantatori, significhi quello che i Latini dicono jactare se, e gloriari?

V. Jactare se è somigliantissimo a millantarsi; e noi abbiamo, oltra il gloriarsi, che è Latino, un verbo più bello, il quale è vantarsi, o, darsi vanto; il quale verbo, e nome non hanno i Latini, ma i Greci sì, che dicono felicemente ____&___ ed ___o_ Gli antichi nostri usavano ancora da bora, boriare, onde borioso.

C. In che significato pigliate voi ghiribizzare?

V. Ghiribizzare, fantasticare, girandolare, e arzigogolare si dicono di coloro i quali si stillano il cervello, pensano a ghiribizzi, a fantasticherie, a girandole, ad arzigogli, cioè a nuove invenzioni, e a trovati strani, e straordinarj, i quali o riescono, o non riescono; e cotali ghiribizzatori sono tenuti nomini per lo più sofistici, indiavolati, e, come si dice volgarmente, un unguento da cancheri, cioè da trarre i danari dalle borse altrui, e mettergli nelle loro.

C. Che vuol dire apporre?

V. Dire che uno abbia detto, o fatto una cosa la quale egli non abbia né fatta, né detta; il che i Latini dicevano conferre aliud in aliquem, o, conferre culpam.

C. Quando voi faceste menzione di cicalare, ciarlare, e di quegli altri verbi che cominciano da c, lasciaste voi nel chiappolo in pruova, o piuttosto nel dimenticatojo, non ve ne accorgendo, il verbo sbajaffare, che alcuni, come bella, e molto vaga voce, lodano tanto? o, forse parendovi troppi quelli, e di soverchio, non voleste raccontare questo?

V. Quanti più fossero stati, me' sarebbero paruti: ma io non lo raccontai, perché mai non ho letto, né udito né sbajaffare, né sbajaffatori, né sbajaffoni, né mai favellato con alcuno che l'abbia letto, o sentito pur ricordare; e anco non vi conosco dentro molta né bellezza, né vaghezza, anzi piuttosto il contrario; e, se pure è Toscano, o Italiano, non è Fiorentino; che è quello che pare a me che voi cerchiate: credo bene ch'i Gianni nelle loro commedie dicano sbajare.

C. Anfanare non significa anch'egli ciarlare, e si dice di coloro, o a coloro che ciarlano troppo, e fuori di proposito?

V. Che sappia io no, perché è verbo contadino, che significa andare a zonzo, ovvero aione, ovvero aiato, cioè andare quà, e là senza sapere dove andarsi, come fanno gli scioperati, e a chi avanza tempo; il che si dice ancora: andarsi garabullando, e, chicchirillando.

C. Zazzeando, che è nella Novella del Prete da Varlungo ne' testi stampati già da Aldo, non vuole egli dire cotesto medesimo?

V. Credo di si; dico, Credo, perché alcuni altri hanno zazzeato, da questo medesimo verbo, e alcuni zacconato, la qual voce io non so quello si voglia significare.

C. In qual significazione s'usa orpellare?

V. Quando alcuno, mediante la ciarla, e per pompa delle parole, vuol mostrare che quello che è orpello, sia oro, cioè fare a credere ad alcuno le cose o picciole, o false, o brutte, essere grandi, vere, e belle.

C. Che dite voi del verbo bravare?

V. Che egli con tutta la sua bravura, e ancorché sia venuto di Provenza a questo effetto, non è però stato ancora ricevuto dagli Autori nobili di Toscana, se non da pochissimi, e di rado, e pure è bello, e, se non necessario, molto proprio, perché svillaneggiare, o, dir villania, minacciare, oltraggiare, e, sopraffare, ovvero, superchiare di parole, e altri tali, non mi pare che abbiano quella forza, ed energia (per dir così), né anco quella proprietà, e grandezza, che bravare; e insomma egli mi pare un bravo verbo, sebbene le sue braverie sono state infin quì a credenza; e quei bravoni, o bravacci che fanno il giorgio su per le piazze, e si mangiano le lastre, e vogliono far paura altrui coll'andare, colle bestemmie, faccendo il viso dell'arme, si dicono cagneggiarla, o, fare il crudele.

C. Come direste voi Fiorentini nella vostra lingua, quello che Terenzio nell'altrui: Injeci scrupulum homini?

V. Io gli ho messo una pulce nell'orecchio: dicesi ancora mettere un cocomero in corpo, onde coloro che non vogliono stare più irresoluti, ma vederne il fine, e farne dentro, o fuora, e finalmente cavarne (come si dice) cappa, o mantello, dicono: sia che si vuole, io non voglio star più con questo cocomero in corpo; e se volete vedere come si deono dire queste cose in lingua nobile, e leggiadramente, leggete quel Sonetto del Petrarca che comincia; Questa umil fera, ec.

C. E quello che Plauto disse: Versatur in primoribus labiis, cioè, Io sto tuttavia per dirlo, e parmene ricordare, poi non lo dico, perché non me ne ricordo?

V. Io l'ho in sulla punta della lingua.

C. Benissimo: e quello che Vergilio disse nel principio del secondo dell'Eneida: Spargere voces ambiguas, come lo direste?

V. Non solamente con due voci, come essi fanno, cioè dare, o, gittar, o, sputare bottoni, ma eziandio con una sola, sbottoneggiare, cioè dire astutamente alcun motto contra chicchessia per torgli credito, e riputazione, e dargli biasimo, e mala voce, il che si dice ancora appiccar sonagli, e, affibbiar bottoni senza ucchielli.

C. Far cappellaccio, che cosa è?

V. I fanciulli, quando vogliono girare la trottola, ed ella percotendo in terra non col ferro, e di punta, ma col legnaccio, e di costato, non gira, si dicono aver fatto cappellaccio, come chi volendo far quercio, e cadendo, fa un tombolo, ovvero un cimbottolo. Ma questo significato è fuori della materia nostra; però diremo che fare un cappellaccio, ovvero, cappello (nella materia della quale ragioniamo) ad alcuno, è dargli una buona canata, e fargli un bel rabbuffo colle parole, o veramente farlo rimanere in vergogna, avendo detto, o fatto alcuna cosa della quale si garreggiava meglio di lui.

C. Che vuol dire far quercia?

V. Non sapete voi che l'uomo si dice essere una pianta a rovescio, cioè rivolta all'ingiù? Onde chiunche distese, e allargate ambo le braccia s'appoggia colle mani aperte in terra, e tiene i pié alti, e diritti verso' l cielo, si chiama far quercia.
C. Buono; ma a me non sovviene più che dimandarvi dintorno a questa materia del favellare, né credo a voi, che dirmi, veggendovi stare tutto pensoso, e quasi in astratto.

V. Oh come disse bene Dante excl Veramente più volte appajon cose Che danno a dubitar falsa matera, Per le vere cagion che sono ascose. Io stava così penseroso, e quasi in estasi, non perché io non avessi che dire, ma perché mi pareva aver che dir troppo sopra un subietto medesimo, e dubitava d'avervi o stanco, o fastidito.

C. Stando a sedere, e in sì bel luogo, e con tali ragionamenti, e con sì fatte persone, non si stracca. E che altra faccenda ho, io, anzi qual faccenda si dee a questa preporre? o in che si può spendere meglio il tempo che in apparare? Seguite, per l'amor di Dio, che se io potessi esservi più tenuto di quello che sono, vi direi di dovervene restare in perpetua obbligazione.

V. Bucherare, ancorché significhi far buche, e andar sotterra, si dice in Firenze quello che i Latini dicevano anticamente ambire, e oggi a Venezia si dice far brolo, cioè andare a trovare questo cittadino, e quello, e pregarlo con ogni maniera di sommessione, che quando tu andrai a partito ad alcuno magistrato, o ufizio, ti voglia favorire, dandoti la fava nera: e perché gli uomini troppo disiderosi degli onori, molte volte per ottenergli, davano, o promettevano danari, e altre cose peggiori, si fecero più leggi contra questa maladetta ambizione e in Roma, e in Firenze, e in Vinegia, le quali sotto gravissime pene proibivano che niuno potesse né ambire, né bucherare, né far brolo; e tutte in vano. Perfidiare, o, stare in sulla perfidia, è volere, per tirare, o mantenere la sua, cioè per isgarare alcuno, che la sua vada innanzi a ogni modo, o a torto, o a ragione: e ancoraché egli conosca d'avere errato in fatti, o in parole, sostenere in parole, e in fatti l'oppenione sua, e dire, per vincer la prova, se non avere errato; del che non può essere cosa alcuna né più biasimevole, né più diabolica; e, insomma, perché la sua stia, e rimanga di sopra, e quella dell'avversario al disotto, difendere il torto, e fare come quella buona donna la quale, quando non potette dir più forbice colla bocca, perché boccheggiava, e dava i tratti che i Latini dicevano agere animam, lo disse colle díta, aprendo e ristringendo a guisa di forbice l'indice, e'l dito di mezzo insieme.

Ricoprire, in questo soggetto, è, quando alcuno il. quale ha detto, o fatto alcuna cosa la quale egli non vorrebbe avere né detta, né fatta, ne dice alcune altre diverse da quella, e quasi interpetra a rovescio, o almeno in un altro modo, se medesimo; onde propriamente, come suole, disse il nostro Dante: Io vidi ben siccome ei ricoperse Lo cominciar con altro che poi venne: Che fur parole alle prime diverse. La qual cosa si dice ancora rivolgere, o, rivoltare, e talvolta, scambiare i dadi. Il verbo proprio è ridirsi, cioè dire il contrario di quello s'era detto prima. Scalzare, metaforicamente, il che oggi si dice ancora cavare i calcetti, significa quello che volgarmente si dice sottrarre, e, cavare di bocca, cioè entrare artatamente in alcuno ragionamento, e dare d'intorno alle buche per fare che colui esca, cioè dica, non se ne accorgendo, quello che tu cerchi di sapere. E quando alcuno per iscalzare chicchessia, e farlo dire, mostra, per corlo al boccone, di sapere alcuna cosa, si dice far le caselle per apporsi. Origliare e, quando due, o più ritiratisi in alcun luogo favellano di segreto, stare di nascoso all'uscio, e porgere l'orecchie per sentire quello dicono. Il verbo generale è spiare, verbo non meno infame, che origliare: sebbene si piglia alcuna volta, in buona parte, dove far la spia si piglia sempre in cattiva, il che si dice volgarmente esser referendario. D'uno ch'è benestante, cioè agiato delle cose del mondo, e che ha le sue faccende di maniera incamminate se gli può giustamente dire quel proverbio: asin bianco gli va al mulino; e nondimeno o per pigliarsi piacere d'altrui, o per sua natura, pigola sempre, e si duole dello stato suo, o fa alcuna cosa da poveri, si suol dire, come delle gatte: egli uccella per grassezza; e' si rammarica di gamba sana; egli ruzza, o veramente, scherza in briglia; benché questo si può dire ancora di coloro che mangiano il cacio nella trappola, cioè fanno cosa della quale debbono, senza potere scampare, essere incontanente puniti; come coloro che fanno quistione, e s'azzuffano essendo in prigione: e quando alcuno, per lo contraria, faccendo il musone, e stando cheto, attende a' fatti suoi senza scoprirsi a persona per venire a un suo attento, si dice: e' fa fuoco nell'orcio, o, e' fa, a' chetichegli; e tali persone che non si vogliono lasciare intendere, si chiamano coperte, segrete, e talvolta, cupe, e dalla plebe soppiattoni, o, golponi, o, lumaconi, e massimamente se sono spilorci, e miseri, come di quelli che hanno il modo a vestir bene, e nondimeno vanno mal vestiti, si dice: chi ha 'l cavallo in istalla, può andare a pié. D'uno il quale non possa, o non voglia, favellare, se non adagio, e quasi a scosse, e, per dir la parola propria de' volgari, cacatamente, si dice, e ponza, quasi penino un anno a rinvenire una parola; come, per lo contrario, di chi favella troppo, e frastagliatamente in modo che non iscolpisce le parole, e non dice mezze le cose, si dice: e' s'affolta, o, e' fa una affoltata, o, e' s'abborraccia. Quando uno dice il contrario di quello che dice un altro, e s'ingegna con parole, e con ragioni contrarie alle sue di convincerlo, si chiama ribattere, cioè latinamente retundere; ma se colui, conosciuto l'error suo, muta oppenione, si chiama sgannare, onde sgannati si dicono quelli i quali persuasi da vere ragioni, sono stati tratti, e cavati d'errore. Subillare uno, è tanto dire, e tanto per tutti i versi, o con tutti i modi pregarlo che egli a viva forza, e quasi a suo marcio dispetto, prometta di fare tutto quello che colui il quale lo subilla, gli chiede; il che si dice ancora serpentare, e, tempestare, quando colui non lo lascia vivere, né tenere i piedi in terra; il che i Latini dicevano propriamente sollicitare. Se alcuno ci dice, o ci chiede cosa la quale non volemo fare, sogliamo dire: e' canzona, o, e' dice canzone.

C: Cotesto mi pare linguaggio furbesco.

V. E' ne pizzica, anzi ne tiene più di sessanta per cento; ma che noja dà, o qual mia colpa? Voi mi dite che io vi dica tutto quello che si dice in Firenze; ed io il fo.

C. È vero; e me ne fate piacere singulare; e, poiché non vi posso ristorare io, Dio vel rimeriti per me. Ma ora che io mi ricordo, che volete voi significare quando voi dite: questa sarebbe la canzone dell'uccellino? quale è questa canzone, o chi la compose, o quando?

V. L'autore è incerto, e anco il quando non si sa, ma non si può errare a credere che la componesse il popolo, quando la lingua cominciò, o ebbe accrescimento la lingua nostra, cavandola o dalla natura, o da alcun'altra lingua; perché Ser Brunetto ne fa menzione nel Pataffio, chiamandola favola, e non canzone, che in questo caso è il medesimo; onde quando si vuole affermare una cosa per vera, si dice: questa non è né favola, né canzone. Il verso di Ser Brunetto dice: La favola sarà dell'uccellino; ma comunche si sia, ella è cotale. Quando alcuno in alcuna quistione dubita sempre, e sempre o da beffe, o da vero ripiglia le medesime cose, e della medesima cosa domanda, tantoché mai non sene può venire né a capo, né a conchiusione, questo si dimanda in Firenze la canzone, o volete, la favola dell' uccellino.

C. Datemene un poco d'esempio.

V. Ponghiamo caso, ch'io vi dicessi: La rosa è 'l più bel fiore che sia; e voi mi dimandaste: Perch'è la rosa il più bel fiore che sia? e io vi rispondessi: Perch'ell'ha il più bel colore di tutti gli altri; e voi di nuovo mi dimandaste: Perch'ha, ella il più bel colore di tutti gli altri? e io vi rispondessi: Perché egli è il più vivo, e il più acceso; e voi da capo mi ridomandaste:

Perch'è egli il più vivo, e 'l più acceso?

E così, se voi seguitaste di domandarmi, e io di rispondervi, a cotal guisa si procederebbe in infinito, senza mai conchiudere cosa nessuna.

Il che è contra la regola de' filosofi, anzi della natura stessa.

La quale aborre l'infinito, il quale non si può intendere, e quello che non si può intendere, si cerca in vano, e la natura non fa, e non vuole che altri faccia cosa nessuna indarno.

Chiamasi ancora la canzone dell'uccellino, quando un dice: Vuoi tu venire a desinare meco? e colui risponde; E' non si dice, Vuoi tu venire a desinare meco; e così si va seguitando sempre tanto che non si possa conchiuder cosa nessuna, né venire a capo di nulla.

C. Per mia fe, che la canzone, o la favola dell'uccellino potrebbe essere per mio avviso non so se meno lunga, ma bene più vaga; ma seguitate i vostri verbi; se già non ne sete venuto al fine, come io creo.

V. Adagio; io penso che e' vi paja mille anni ch'io gli abbia forniti; e io dubito che, se vorrete che io seguiti, ella non sia la canzone della quale avemo favellato.
C. Volesselo Dio, quanto alla lunghezza; che io non udii mai cosa alcuna più volentieri: però, se mi volete bene, seguitate.

V. Ragguagliare, non le partite, come fanno i mercatanti in su i loro libri, ma alcuno d'alcuna cosa, è o riferirgli a bocca, o scriverli per lettere tutto quello che si sia o fatto, o detto in alcuna faccenda che si maneggi; il che si dice ancora informare, instruire, far sentire, avvisare, e dare avviso. Di chi dice male d'uno, il quale abbia detto male di lui, il che si chiama rodersi i basti, e gli rende, secondo il favellare d'oggi, il contracambio, ovvero la pariglia, la qual voce è presa dagli Spagnuoli, s'usa dire, egli s'è riscosso; tratto per avventura da' giuocatori, i quali quando hanno perduto una somma di danari, e poi la rivincono, si chiamano risquotersi; il che avviene spesse volte; onde nacque il proverbio: Chi vince da prima, perde da sezzo. Dicesi ancora riscattare, come de' prigioni, quando pagano la taglia, e, ritornare in sul suo, ma più gentilmente, egli ha risposto alle rime, o, per le rime, e più Boccaccevolmente, rendere (come diceste voi di sopra) pane per cofaccia, o, frasche per foglie. D'uno il quale avea deliberato, o, come dicono i villani, posto in sodo, di voler fare alcuna impresa, e poi, per le parole, e alle persuasioni altrui, se ne toe giù, cioè se ne rimane, e lascia di farla; che i Latini chiamavano desistere ab incepto; si dice: egli è stato svolto dal tale, o, il tale l'ha distolto, e generalmente, rimosso. Coloro che la guardano troppo nel sottile, e sempre, e in ogni luogo, e con ognuno, e d'ogni cosa tenzonano, e contendono, né si può loro dir cosa che essi non la vogliano ribattere, e ributtarla, si chiamano fisicosi, e il verbo è fisicare; uomini per lo più incancherati, e da dovere essere fuggiti. Appuntare alcuno, vuol dire riprenderlo, e massimamente nel favellare; onde certi saccentuzzi che vogliono riprendere ognuno, si chiamano ser Appuntini. Tacciare alcuno, e, difettarlo, è, nollo accettare per uomo da bene, ma dargli nome d'alcuna pecca, o mancamento. Bisticciarla con alcuno, e, star seco sul bisticcio, è volere stare a tu per tu, vederla fil filo, o pur quanto la canna; e se egli dice, dire; se brava, bravare; né lasciarsi vincere, o soperchiare di parole; e questi tali, per mostrarsi pari agli avversarj, e da quanto loro sogliono dire alla fine; per tacere altri motti o sporchi, o disonesti, che a questo proposito dicono tutto 'l giorno i plebei: tanto è da casa tua a casa mia, quanto da casa mia a casa tua; e nel medesimo significato, e a questo stesso proposito, sogliono dire: rincarinmi il fitto. Riscaldare uno, non è altro che confortarlo, e pregarlo caldamente che voglia o dire, o fare alcuna casa in servigio, e benefizio o nostro, o d'altrui. Gonfiare alcuno, è volergli vendere vesciche, cioè dire alcuna cosa per certa, che certa non sia, acciocché egli credendolasi, te ne abbia ad avere alcuno obbligo. Dicesi ancora: tu mi vuoi far cornamusa, e, dar panzane, cioè promettendo Roma, e Toma, e stando sempre in su i generali, ben faremo, e ben diremo, non venir mai a conclusione nessuna. Dicesi ancora ficcar carote, e spezialmente quando alcuno faccendo da se stesso qualche finzione, o trovato, che i Latini dicevano comminisci, lo racconta poi non per suo, per farlo più agevolmente credere, ma per d'altrui; e ancoraché sia falso, l'afferma per vero, o per volere la baja, o per essere di coloro che dicono le bugie, e credonsele; e questi due verbi dar panzane, ovvero, baggiane, e, ficcar carote, sono non pur Fiorentini, e Toscani, ma Italiani, ritrovati da non molti anni in quà. Altercare, onde nacque altercazione, è verbo de' Latini, i quali dicono ancora altercari in voce deponente, in vece del quale i Toscani hanno tenzionare, ovvero, tenzonare, cioè rissare, contendere, e combattere, cioè quistionare di parole, onde viene tenzione, ovvero, tenzone, cioè la rissa, il contendimento, ovvero la contesa, il combattimento, ovvero il contrasto di parole, e bene spesso di fatti. Dicesi ancora, ma più volgarmente, fare una batosta, darsene infino a'denti, e, fare a'morsi, e, a' calci, e, fare a' capelli. Quando alcuno vuol mostrare a chicchessia di conoscere che quelle cose le quali egli s'ingegna di fargli credere, sono ciancie, bugie, e bagattelle, usa dirgli: tu m'infìnocchi, o, non pensar d'infinocchiarmi, e talora si dice: tu mi vuoi empier di vento, o, infrascare. Se alcuno chiama un altro, e il chiamato o non ode, o non vuole udire; il che è la peggior sorte di sordi che sia; si dice al chiamante: tu puoi zufolare, o, cornare, o, cornamusare; tu puoi scuotere; che è in su buon ramo. E quando alcuno o ha udito in verità, o finge d'aver udito, il rovescio appunto di quello che avemo detto, il che i Latini chiamavano obaudire; noi diciamo: egli ha franteso. Quando ci pare che alcuno abbia troppo largheggiato di parole, e detto assai più di quello che è, solemo dire: bisogna sbatterne, o tararne, cioè farne la tara, come si fa de' conti degli speziali, o, far la Falcidia, cioè levarne la quarta parte, tratto dalla legge di Falcidio tribuno della plebe, che ordinò che de' lasci, quando non v'era pago, si levasse la quarta parte; e talvolta si dice fare la Trebellianica, dal Senatoconsulto Trebelliano il verbo generale è difalcare. Quelli che sanno trattenere con parole coloro di cui essi sono debitori, e gli mandano per la lunga d'oggi in dimane, promettendo di volergli pagare, e soddisfare di giorno in giorno, perché non si richiamino di loro, e vadansene alla ragione, si dicono: saper tranquillare i lor creditori; e, levarsi dinanzi, ovvero, torsi da dosso, e, dagli orecchi i cavalocchi; che così si chiamano coloro i quali prezzolati risquotono per altri. Quelli i quali avendo udito alcuna cosa, vi pensano dipoi sopra, e la riandano colla mente, si dicono Toscanamente, ma con verbo Latino, ruminare, e Fiorentinamente, rugumare, e talvolta rumare, tratto da' buoi, e dagli altri animali, i quali, avendo l'ugna fesse, ruminano: il qual verbo si piglia molte volte in cattivo senso, cioè si dice di coloro i quali avendo mali umori in corpo, ed essendo adirati, pensano di volere, quando che sia, vendicarsi, e intanto rodono dentro se stessi; il che si dice eziandio rodere i chiavistelli. A coloro che sono bari, barattieri, truffatori, trappolatori, e traforelli, che comunemente si chiamano giuntatori, i quali per fare star forte il terzo, e il quarto colle barerie, baratterie, trufferie, trappolerie, traforerie, e giunterie loro, vogliono o vendere gatta in sacco, o cacciare un porro altrui, si suol dire, per mostrare che le trappole, e gherminelle, anzi tristizie, e mariolerie loro sono conosciute, e che non avemo paura di lor tranelli: i mucini hanno aperto gli occhi, i cordovani sono rimasi in Levante: non è più 'l tempo di Bartolommeo da Bergamo: noi sappiamo a' quanti dì è San Biagio: noi conosciamo il melo dal pesco; i tordi da gli stornelli; gli storni dalle starne; i bufoli dall'oche; gli asini da' buoi; l'acquerel dal mosto cotto; il vino dall'aceto; il cece dal fagiuolo; la treggea dalla gragnuola; e altri cotali, che o per non potersi onestamente nominare, o per essere irreligiosi, non intendiamo di voler raccontare; e in quello scambio diremo che quando alcuno, per esser pratico del mondo, non è uomo da essere aggirato, né fatto fare, si dice: egli se le sa; egli non ha bisogno di mondualdo, o, procuratore; egli ha pisciato in più d'una neve; egli ha cotto il culo ne' ceci rossi; egli.ha scopato più d'un cero; egli è putta scodata; e se si vuol mostrare, lui essere uomo per aggirare, e fare stare gli altri, si dice: egli è fantino; egli è un bambino da Ravenna, egli è più tristo che i tre assi; più cattivo che banchellino; più viziato, e più trincato, che non è un famiglio d'otto; e generalmente d'uno che conosca il pel nell'uovo, e non gli chiocci il ferro, e sappia dove il diavol tien la coda, si dice: egli ha il diavolo nell'ampolla.

C. Io posso imbottarmi a posta mia, perché io son chiaro che alla lingua Fiorentina non vo' dire avanzino, ma non manchino, anzi piuttosto avanzino, che manchino, vocaboli.

V. Voi non avete udito nulla; questi che io ho raccontati, s'appartengono solamente, e si riferiscono all'atto del favellare, eccetto però che quelli che o in conseguenza, o per inavvertenza mi son venuti alla bocca; e sono ancora, si può dire, all'A; pensa quel che voi diresti, chi vi raccontasse gli altri dell'altre materie, che sono infiniti, e se sapeste quanti se ne sono perduti.

C. Come perduti?

V. Perduti sì; non sapete voi che i vocaboli delle lingue vanno, e vengono, come l'altre cose tutte quante?

C. Dite voi cotesto per immaginazione, o pure lo sapete del chiaro?

V. Lo so di chiaro, e di certo, perché oltra quelli che si truovano ne' libri antichi, i quali oggi o non s'intendono, o non sono in uso, Ser Brunetto Latini, maestro di Dante, lasciò scritta un'operetta in terza rima, la quale egli intitolò Pataffio, divisa in dieci capitoli, che comincia: Squasimo Deo introcque, e a fusone, Ne hai, ne hai, pilorci con mattana, Al can la tigna, egli è mazzamarrone; nella quale sono le migliaja de' vocaboli, motti, proverbj, e riboboli, che a quel tempo usavano in Firenze, e oggi de' cento non se ne intende pur uno.

C. Oh gran danno, oh che peccato! ma se egli (come fate ora voi) dichiarati gli avesse, non sarebbe avvenuto questo. Ma lasciando le doglianze vane da parte, posciaché io credeva che voi foste al ronne, non che alla zeta, e voi dite che non sete appena all'a, seguitate il restante, se vi piace.

V. Mettere su uno, o, metterlo al punto, il che si dice ancora metterlo al curro, è instigare alcuno, e stimularlo a dovere dire, o fare alcuna ingiuria, o villania, dicendogli il modo come e' possa, e debba o farla, o dirla; il che si chiama generalmente, commetter male tra l'uno uomo, e l'altro, o parenti, o amici che siano, il qual vizio, degno piuttosto di castigo che di biasimo, sprimevano i Latini con voce sola, la quale era committere; e, come si dice, mettere ingrazia alcuno, cioè fargli acquistare la benevolenza, e il favore d'alcun gran maestro, con lodarlo, e dirne bene: così si dice, metter in disgrazia, e, far cadere di collo alcuno, mediante il biasimarlo, e dirne male; onde d'un commettimale, il quale sotto spezie d'amicizia vada ora riferendo a questi, e ora a quelli, si dice, egli è un teco meco.

C. A questo modo non hanno i Toscani verbo proprio che significhi con una voce sola quello, che i Latori dicevano committere?

V. Lo possono avere, ma io non me ne ricordo, anzi l'hanno, e me ne avete fatto ricordare ora voi, ed è, scommettere, perché Dante disse: A quei che scommettendo acquistan carco. Tor su, o tirar su alcuno, il che si dice ancora levare a cavallo, è dire cose ridicole, e impossibili, e volere dargliele a credere per trarne piacere, e talvolta utile; come fecero Bruno, e Buffalmacco a maestro Simone da Vallecchio, che stava nella via del Cocomero, e più volte al povero Calandrino, onde nacque, che quando alcuno dubita, che chicchessia non voglia giostrarlo, e fargli credere una cosa per un'altra, dice: tu mi vuoi far Calandrino, e talvolta il Grasso legnajuolo, al quale fu fatto credere, che egli non era lui, mia diventato un altro. Tirar di pratica si dice di coloro, i quali ancoraché non sappiano una qualche cosa, ne favellano non dimeno così risolutamente, come se ne fossino maestri, o l'avessero fatta co' piedi, e demandati di qualche altra, rispondono, senza punto pensarvi, o sì, o no, come vien lor bene, peggio di coloro, i quali se venisse lor fatto d'apporsi, o di dare in covelle, tirano in arcata colla lingua. Quando alcuno aveva in animo, e poco meno che aperte le labbra per dover dire alcuna cosa, e un altro la dice prima di lui, cotale atto si chiama furar le mosse, o veramente rompere l'uovo in bocca, cioè torre di bocca, il che i Latini dicevano antevertere, e alcuni usano, non tu m'hai, furato le mosse, e tu me l'hai tolto di bocca, ma tu me l'hai vinta del tratto, e alcuni, tu m'hai rotto la parola in bocca, e alcuni tagliata, il che pare piuttosto convenire a coloro, che mozzano altrui; e interrompono il favellare. Annestare in sul secco, o dire di secco in secco, si dice d'uno il quale, mancandogli materia, entra in ragionamenti diversi da' primi, e fuori di proposito, come dire: quante ore sono? Che si fa in villa? Che si dice del Re di Francia? Verrà quest'anno l'armata del Turco? e altre così fatte novelle. Tirare gli orecchi a uno significa riprenderlo, o ammonirlo, cavato da' Latini, che dicevano vellere aurem: dicesi ancora riscaldare gli orecchi: dicesi ancora zufolare, o soffiare negli orecchi ad uno, cioè parlargli di segreto, e quasi imbecherarlo. Mettere troppa mazza, si dice d'uno il quale in favellando entri troppo addentro, e dica cose, che non ne vendano gli speziali, e insomma che dispiacciano, onde corra rischio di doverne essere o ripreso, o gastigato: dicesi ancora mettere troppa carne a fuoco. Spacciare pel generale, si dice di coloro che demandati, o richiesti d'una qualche cosa, rispondono finalmente senza troppo volersi ristrignere, e venire, come si dice, a' ferri. Quando uno si sta ne'suoi panni, senza dar noja a persona, e un altro comincia per qualche cagione a morderlo, e offenderlo di parole, se colui è uomo da non si lasciare malmenare, e bistrattare, ma per rendergli, come si dice, i coltellini, s'usa dire: egli stuzzica il formicajo, le pecchie, o sì veramente, il vespaio, che i Latini dicevano irritare crabrones. Dicesi ancora: egli desta, o sveglia il can che dorme; e' va cercando maria per Ravenna; egli ha dato in un ventuno, ovvero nel bargello, e talvolta egli invita una mula Spagnuola a i calci, e più propriamente, e' gratta il corpo alla cicala. Sfidare è il contrario d'affidare, e significa due cose; prima quello, che i Latini dicevano desperare salutem, con due parole, onde d'uno infermo, il quale, come dice il volgo, sia via là, via là, o a'confitemini, o al pollo pesto, o all'olio santo, o abbia male, che 'l prete ne goda, s'usa dire: i medici l'hanno sfidato; e poi quello, che io non so come l Latini se 'l dicessero, se non indicere bellum, onde trasse il Bembo: Quella che guerra a' miei pensieri indice. cioè sfidare a battaglia, e come si dice ancora dagli Italiani, ingaggiar battaglia, o ingaggiarsi, o darsi il guanto della battaglia. Rincorare, che Dante disse incorare, e gli antichi dicevano incoraggiare, è fare, o dare animo, cioè inanimare, o inanimire uno, che sia sbigottito, quasi rendendoli il cuore; dicesi ancora: io mi rinquoro, cioè i 'l ripiglio cuore, e animo di far la tal cosa, o la tale.
C. Non si potrebbono queste cose, che voi avete detto, e dite, ridurre con qualche regola sotto alcun capo, affinché non fossero il pesce pastinaca, e più agevolmente si potessero così mandare, come ritenere nella memoria?
V. Io credo di sì, da chi non avesse altra faccenda, e volesse pigliare questa briga non so se disutile, ma certo non necessaria.

C. Vogliam noi provare un poco, benché io credo, che noi ce ne siamo avveduti tardi?

V. Proviamo (che egli è meglio ravvedersi qualche volta, che non mai, e ancora non è tanto tardi, quanto voi per avventura vi fate a credere) se alcuno sapesse, e potesse raccontare di questa materia quello che sapere, e raccontare se ne può.
C. Che? Cominciereste dall'a, b, c, e seguitereste per l'ordine dell'alfabeto?

V. Piuttosto piglierei alcuni verbi generali, e sotto quelli, come i soldati sotto le loro squadre, ovvero bandiere, gli riducerei, e ragunerei.
C. Deh provatevi un poco, se Dio vi conceda tutto quello, che desiderate.

V. Chi potrebbe, non che io, che vi sono tanto obbligato, negarvi cosa nessuna? Pigliamo, esempigrazia, il verbo Fare, e diciamo, senza raccontare alcuno di quelli che fino a quì detti si sono, in questa maniera. Far parole è quello che i Latini dicevano, facere verba, cioè favellare. Far le parole, che si dice ancora con verbo Latino concionare, onde concione, è favellare distesamente sopra alcuna materia, come si fa nelle compagnie, e massimamente di notte, il che si chiama propriamente fare un sermone; e nelle nozze quando si va a impalmare una fauciulla, e darle l'anello, che i notai fanno le parole. Far le belle parole a uno, è dirgli alla spianacciata, e a lettere di scatola, ovvero di speziali, come tu l'intendi, e aprirgli senza andirivieni, o giri di parole, l'animo tuo di quello, che tu vuoi fare, o non fare, o che egli faccia, o non faccia. Fare le paroline, è dar soje, e caccabaldole o per ingannare, o per entrare in grazia di chicchessia: dicesi eziandio fare le parolozze. Fare una predica, ovvero uno sciloma, o ciloma ad alcuno, è parlargli lungamente o per avvertirlo d'alcuno errore, o persuaderlo a dover dire, o non dire, fare, o non fare alcuna cosa. Far motto, è tolto da' Provenzali, che dicono far buon motti, cioè dire belle cose, e scrivere leggiadramente, ma a noi questo nome motto significa tutto quello che i Latini comprendono sotto questi due nomi, joci, e dicterii, e i Greci sotto questi altri due, scommati, e apotegmati. Fare, o, toccare un motto d'alcuna cosa, è favellarne brevemente, e talvolta fare menzione. Far motto ad alcuno significa o andare a casa sua a trovarlo per dimandargli se vuole nulla, o riscontrandolo per la via salutarlo, o dirgli alcuna cosa succintamente. Fare un mottozzo significa fare una ribaldera, cioè festoccia, e allegrezza di parole. Non far motto significa il contrario, e talora si piglia per tacere, e non rispondere, onde il Petrarca: Talor risponde, e talor non fa motto. A motto a motto dicevano gli antichi, cioè, a parola a parola, o di parola in parola; e fare, senza altro, significa alcuna volta dire, come Dante: Che l'anima col corpo morta fanno. Far le none, non può dichiararsi se non con più parole, come per cagion d'esempio: se alcuno dubitando, che chicchessia nol voglia richiedere in prestanza del suo cavallo, il quale egli prestare non gli vorrebbe, cominciasse, prevenendolo, a dolersi con esso lui, che il suo cavallo fosse sferrato, o pigliasse l'erba, o avesse male a un pié, e colui rispondesse, non accade, che tu mi faccia o suoni questa nona. Far uscire uno, è ancorach'ei s'avesse presupposto di non favellare, frugarlo, e punzecchiarlo tanto colle parole, e dargli tanto di quà, e di là, che egli favelli, o che egli parli alcuna cosa. Fare una bravata, o tagliata, o uno spaventacchio, o un sopravvento, non è altro, che minacciare, e bravare; il che si dice ancora, squartare, e fare una squartata. Far le forche, è sapere una cosa, e negare, o infingersi di saperla, o biasimare uno per maggiormente lodarlo, il che ti dice ancora far le lustre, e talvolta le marie. Far peduccio, significa ajutare uno colle parole, dicendo il medesimo che ha detto egli, o faccendo buone, e fortificando le sue ragioni, acciocché egli consegua l'intento suo. Fare un cantar di cieco, è fare una tantaferata, o cruscata, o cinforniata, o fagiolata, e insomma una filastroccola lunga lunga, senza sugo, o sapore alcuno. Fare il caso, o alcuna cosa leggiere, è dire meno di quello, che ella è; come fanno molte volte i medici, per non isbigottire li ammalati. Farsi dare la parola da uno, è farsi dare la commessione di poter dire, o fare alcuna cosa, o sicurare alcuno che venga sotto le tue parole, cioè senza tema di dovere essere offeso. Quando si toglie su uno, e fassegli o dire, o fare alcuna cosa che non vogliano fare gli altri, si dice: farlo il messere, il corrivo, il cordovano, da ribuoi, e generalmente, il goffo, e fra Fazio; e tali si chiamano corribi, e cordovani, e spesso, pippioni, o cuccioli. Fare orecchi di mercante, significa lasciar dire uno, e far le viste di non intendere. Far capitale delle parole d'alcuno, è credergli ciò che promette, e avere animo ne' suoi bisogni di servirsene. Quando si mostra di voler dare qualche cosa a qualcuno, e fargli qualche rilevato benefizio, e poi non se gli fa, si dice avergli fatta la cilecca, la quale si chiama ancora natta, e talvolta, vescica, o giarda. Fare fascio d'ogni erba, tratto da quelli che segano i prati, o fanno l'erba per le bestie, si dice di coloro i quali non avendo elezione, o scelta di parole nel parlare, o nello scrivere, badano a porsu, e attendono a impiastrar carte; e di questi, perché tutte le maniere di tutti i parlari attagliano loro, si suol dire che fanno come la piena, la quale si caccia innanzi ogni cosa, senza discrezione, o distinzione alcuna. Far delle sue parole fango, è venir meno delle sue parole, e non attenere le sue promesse. Fare il diavolo, e peggio, è quando altri avendo fatto capo grosso, cioè adiratosi, e sdegnatosi con alcuno, non vuole pace, né tregua, e cerca o di scaricar sé, o di caricare il compagno con tutte le maniere, che egli sa, e può; e molte volte si dice per beffare alcuno, mostrando di non temerne. Fare lima lima a uno, è un modo d'uccellare in questa maniera: chi vuole dileggiare uno, fregando l'indice della mano destra in sull'indice, della sinistra verso il viso di colui, gli dice lima lima, aggiugnendovi talvolta, mocceca, o, moccicone, o altra parola simile, come baggea, tempione, tempie grasse, tempie sucide, benché la plebe dice sudice. Fare le scalee di Santo Ambrogio, significa dir mal d'uno in questo modo, e per questa cagione: ragunavansi, non sono mille anni passati, la sera di state per pigliare il fresco una compagnia di giovani, non a' marmi in su le scalee di Santa Maria del Fiore, ma in su quelle di Santo Ambrogio, non lungi dalla porta alla Croce, e quivi passando il tempo, e il caldo, facevano lor cicalecci, ma quando alcuno di loro si partiva, cominciavano a leggere in sul suo libro, e rinvenire se mai avea detto, o fatto cosa alcuna biasimevole, e che non ne vendesse ogni bottega, e insomma a fare una ricerca sopra la sua vita; onde ciascuno, perché non avessono a caratarlo, voleva esser l'ultimo a partirsi: e di quì nacque che quando uno si parte da qualche compagnia, e non vorrebbe restar loro in bocca, e fra' denti, usa dire: non fate le scalee di Santo Ambrogio. Far tener l'olio a uno, o farlo filare, o stare al filatojo, significa per bella paura farlo star cheto: dicesi alcuna volta fare stare a stecchetto; benché questo significa piuttosto fare stare a segno, e quello che i Latini dicevano cogere in ordinem.

C. Non avete voi altri verbi, che questi da usare, quando volete che uno stia cheto?

V. Abbiamne, ma io vi raccontava solamente quelli, che vanno sotto la lettera f, e che io penso che vi siano manco noti; perché noi abbiamo tacere, come i Latini, e ancor diciamo, non far parole, e non far motto, non alitare, e non fiatare, non aprir la bocca, chiudila, sta zitto, il quale zitto, credo che sia tolto da' Latini, i quali quando volevano che alcuno stesse cheto, usavano profferire verso quel tale queste due consonanti st, quasi, come diciamo noi zitto. E quello, che i Latini volevano significare, quando sopraggiugneva uno del quale si parlava non bene, onde veniva a interrompere il loro ragionamento, e fargli chetare, cioè lupus est in fabula, si dice dal volgo più brevemente, zoccoli; e non volendo, a maggior cautela, per non esser sentiti, favellare, facciamo come fece Dante nel veutesimoquinto canto del Purgatorio, quando, di sé medesimo parlando, disse: Mi posi il dito su dal mento al naso. O come disse nel ventesimoprimo canto del Purgatorio: Volse Vergilio a me queste parole Con viso che tacendo dicea: taci. Solemo ancora, quando volemo essere intesi con cenni senza parlare, chiudere un occhio, il che si chiama far d'occhio, ovvero, fare l'occhiolino, che i Latini dicevano nictare, cioè accennare cogli occhi, il che leggiadramente diciamo ancora noi con una voce sola, usandosi ancora oggi frequentemente il verbo ammiccare in quella stessa significazione che l'usò Dante, quando disse nel ventesimoprimo canto del Purgatorio: Io pur sorrisi, come l'uom ch'ammicca. Non già che abbiamo da potere sprimere con una noce sola quello che i Latini dicevano connivere, cioè fare le viste, o infingersi di non vedere, e proverbialmente far la gatta di Masino. Queste cose vi siano per un poco d'esempio. Pigliamo ora il verbo dare, il quale è generale anch'egli. Dicesi dunque: Dar parole, cioè trattenere, e non venire a' fatti, cavato da' Latini, che dicevano dare verba, e lo pigliavano per ingannere: dicesi ancora dar paroline, o buone parole, come fanno coloro, che si chiamano rosajoni da damasco, onde nacque quel proverbio plebeo: dà buone parole, e friggi. Dare una voce, significa chiamare: Dar mala voce, biasimare: Dare in sulla voce, sgridare uno, acciocché egli taccia: Avere alcuno mala voce, è quello, che i Latini dicevano male audit, cioè essere in cattiva concetto, e predicamento. Dar pasto, è il medesimo, che dar panzane, e paroline, per trattenere chicchessia. Dar cartacce, metafora presa da' giucatori, è passarsi leggiermente d'alcuna cosa, e non rispondere a chi ti domanda, o rispondere meno che non si conviene a chi t'ha o punto, o dimandato d'alcuna cosa; il che si dice ancor dar passata, o dare una stagnata, e talvolta, lasciare andare due pani per coppia, o dodeci danari al soldo; come fanno coloro che con vogliono ripescare tutte le secchie, che caggiono ne' pozzi. Dar le carte alla scoperta, significa dire il suo parere, e quanto gli occorre liberamente senza aver rispetto, o riguardo ad alcuno, ancoraché fosse alla presenza. Dare una sbrigliata, ovvero sbrigliatura, è dare alcuna buona riprensione ad alcuno per raffrenarlo, il che si dice ancora fare un rovescio, e cantar a uno la zolfa, o il vespro, o il mattutino, o risciacquargli il bucato, o dargli un gratacapo. Dare in brocco, cioè nel segno, ovvero berzaglio ragionando, è apporsi, e trovare le congenture, o toccare il tasto, o pigliare il nerbo della cosa. Dar di becco in ogni cosa, è voler fare il saccente, e il satrapo, e ragionando d'ogni cosa, farne il Quintiliano, o l'Aristarco. Dar del buono per la pace, è favellare umilmente, e dir cose, mediante le quali si possa comprendere che alcuno cali, e voglia venire agli accordi; quasi come usano i fanciulli quando scherzando, fanno la via dell'Agnolo, cioè danno un poco di campo, acciò si possa scampare. Dare in quel d'alcuno, ovvero dove gli duole, significa quello che Dante disse: Sì mi dié dimandando per la cruna Del mio desio, e

C. cioè dimandare appunto di quelle cose, o mettere materia in campo, che egli desiderava, e aveva caro di sapere, onde s'usa dire: costì mi cadde l'ago. Dar bere una cosa ad alcuno, è fargliele credere; onde si dice bersela, e, il tale se l'ha beuta, o fatto le viste di bersela. Dare il suo maggiore, tolto dal giuoco de' germini, ovvero de' tarocchi, nel quale sono i trionfi segnati col numero, è dire quanto alcuno poteva, e sapeva dire il più, in favore, o disfavore di chicchessia; e perché le trombe sono il maggiore de' trionfi del passo, dar le trombe, vuol dire fare l'ultimo sforzo. Dare il vino, è quello stesso che subornare, ovvero imbecherare, il che si dice ancora imbiancare. Dar seccaggine, significa infastidire, o torre il capo altrui col gracchiare, il che i Latini significano col verbo obtundere: dicesi ancora, tu mi infracidi; tu m'hai fracido, benché gli idioti dicono fradicio; tu m'hai secco; tu m'hai stracco; tu m'hai tolto gli orecchi, e in altri modi, de quali ora non mi sovviene. Dare una borniola, è dire il contrario di quello che è, e si dice propriamente d'uno il quale, avendo i giucatori rimessa in lui, e fattolo giudice d'alcuna lor differenza, dà il torto a chi ha la ragione, o la ragione a chi ha il torto; come quando nel giuoco della palla alcuno dice, quello esser fallo, o rimando, il quale non è. Dar fuoco alla bombarda, è cominciare a dir male d'uno, o scrivere contra di lui, il che si dice cavar fuora il limbello. Dar nel fango, come nella mota, è favellare senza distinzione, e senza riguardo, così degli uomini grandi, come de' piccioli. Dar le mosse a' tremoti, si dice di coloro senza la parola, e ordine de' quali non si comincia a metter mano, non che spedire cosa alcuna; il che si dice ancora, dar l'orma a' topi, ed esser colui che debbe dar fuoco alla girandola. Dar che dire alla brigata, è fare, o dire cosa, mediante la quale la gente abbia occasione di favellare sinistramente; che i Latini dicevano dare sermonem: e talvolta, far bella la piazza, che i medesimi Latini dicevano designare. Dare il gambone a chicchessia, è quando egli dice, o vuol fare una cosa, non solamente acconsentire, ma lodarlo, e insomma mantenerlo in sull'oppenione, e prosopopea sua, e dargli animo a seguitare. Dare una bastonata a uno, è dire mal di lui sconciamente, e tanto più se vi s'aggiugne, da ciechi. Dare favellando nelle scartate, è dire quelle cose che si erano dette prima, e che ognuno si sapeva. Dare a traverso, significa dire tutto il contrario di quello, che dice un altro, e mostrare sempre d'aver per male, e per falso tutto quello, che egli dice. Dare in sul viso, quando favella, e massimamente se egli uccella a civetta, cioè si va colle parole procacciando ch'altri debba ripigliarlo, è dir di lui senza rispetto il peggio che l'uomo sa, e può, e toccarlo bene nel vivo, quasi facendogli un frego. Dare appicco, è favellare di maniera ad alcuno, che egli possa appiccarsi, cioè pigliare speranza di dover conseguire quello che chiede; onde di quelli che hanno poca, o nessuna speranza, si dice: e' si appiccherebbono alla canna, ovvero alle funi del cielo, come chi affoga, s'attaccherebbe a' rasoj. Dar nel buono, significa due cose: la prima, entrare in ragionamenti utili, o proporre materie onorevoli: la seconda, in dicendo l'oppenione sua d'alcuna cosa allegarne ragioni almeno probabili, e che possano reggere, se non più, a quindici soldi per lira, al martello, e in somma dir cose che battano, se non nel vero, almeno nel verisimile. Dar la lunga, è mandar la bisogna d'oggi in dimane, o, come si dice, a cresima, senza spedirlo. Dare, o, vender bossoletti, tratto (penso) da' ciurmadori, è vendere vesciche per palle grosse, o dar buone parole, e cattivi fatti; la qual cosa, come dice il proverbio, inganna non meno i savj, che i matti. Dare una battisoffiola, o, cusoffiola ad alcuno, è dirgli cosa, o vera, o falsa, mediante la quale egli entri in sospetto, o in timone d'alcuno danno, o vergogna, e per non istare con quel cocomero in corpo, sia costretto a chiarirsi. Darla a mosca cieca, da un gioco che fanno i fanciulli, nel quale si turano gli occhi con una benda legata al capo e dire senza considerazione, o almeno rispetto veruno di persona tutto quello che alcuno vuol dire, e zara a chi tocca. Dar giù, ovvero, del ceffo in terra, è quello proprio che i Latini dicevano oppetere, cioè cadere col viso innanzi, e daredella bocca in terra, e lo pigliavano per morire: nondimeno in Firenze si dice non solo de' mercatanti quando hanno tratto ambassi in fondo, cioè quando sono falliti, e di quelli cittadini, o gentiluomini i quali, come si dice in Vinegia, sono scaduti, cioè hanno perduto il credito nell'universale, ma ancora di quelli spositori i quali interpretando alcun luogo d'alcuno autore, non s'appongono, ma fanno, come si dice, un marrone, o pigliano un ciporro; ovvero, un granchio, e talvolta, per iperbola, una balena. Dare il pepe, ovvero le spezie, è un modo per uccellare, o sbeffare alcuno, e si faceva, quando io era giovanetto, per tutto Firenze da' fattori in questo modo: chi voleva uccellare alcuno, se gli arrecava di dietro, affinché egli, che badava a' casi suoi, nol vedesse, e accozzati insieme tutti e cinque i polpastrelli, cioè le sommità delle dita, (il che si chiama Fiorentinamente far pepe, onde nacque il proverbio, tu non faresti pepe di Luglio) faceva della mano come un becco di grù, ovvero di cicogna, poi gli dimenava il gomito con quel becco sopra 'l capo, come fanno coloro che col bossolo mettono o del pepe, o delle spezie in sulle vivande; la qual maniera di schernire altrui avevano ancora i Latini, come si vede in Persio, quando disse. O Jane, a tergo quem nulla ciconia pinxit. Usavasi ancora in quel tempo un'altra guisa d'uccellare ancora peggiore di questa, e più plebea, la quale si chiamava, far ti ti, in questo modo: colui che voleva schernire, anzi offendere gravissimamente alcuno, pronosticandogli in cotale atto, che dovesse essere impiccato, si metteva la mano quasi chiusa, in un pugno alla bocca, e per essa a guisa di tromba diceva forte, talché oguno poteva udire, due volte, ti; tratto da una usanza la quale oggi è dismessa, perché si soleva, quando una giustizia era condotta in cima delle forche per doversi giustiziare, in quella che il manigoldo stava per dargli la pinta, sonare una tromba, cioè farla squittire due volte, l'una dopo l'altra, un suono somigliante a questa voce, ti ti. Pigliamo ora il verbo stare, e diciamo che Stare a bocca aperta, significa quello che Virgilio spresse nel primo verso del secondo libro dell'Eneida: Conticuere omnes, intentique ora tenebant. e poco di sotto favellando di Didone: . . . . . . Pendetque iterum narrantis ab ore. Stare a bocca chiusa, si dichiara da se medesimo. Stare sopra sé, ovvero, sopra di sé, è un modo di dubitare, e di non voler rispondere senza considerazione, la qual cosa i Latini, e spezialmente i Giureconsulti, a cui più toccava, che agli altri, dicevano haeligrere, e talvolta col suo frequentativo, haeligsitare. Stare in sul grande, in sul grave, in sul severo, in sull'onorevole, in sulla riputazione, e finalmente in sul mille, significano quasi una cosa medesima, cioè così col parlare, come coll'andare tenere una certa gravità conveniente al grado, e forse maggiore; il che si chiama in Firenze, e massimamente de' giovani, far l'omaccione, e talvolta fare il grande: e di questi tali si suol dire ora, ch'ei gonfiano, e ora, ch'egli sputano tondo, i quali quando s'ingerivano nelle faccende, ed erano favoriti dello stato, i quali si chiamavano Repubbliconilarghi in cintura, si dicevano, toccare il polso al lione, ovvero marzocco; e quando presentati, o senza presenti si spogliavano in farsettino per favorire, e ajutar alcuno, come dice la plebe, a brache calate, si chiamavano, vendere i merli di Firenze, e quando si valevano dello stato oltra l'ordinario, o vincevano alcuna provvisione straordinaria, si diceva, e' la fanno frullare; e quando non riusciva loro alcuna impresa nella quale si fossero impacciati, e messivi coll'arco dell'ossa, si diceva tra 'l popolo, e' la fanno bollire e mal cuocere. Stare in sulle sue, è guardare che alcuno, quando ti favella, o tu a lui, non ti possa appuntare, e parlare, e rispondere in guisa che egli non abbia onde appiccarti ferro addosso, e pigliarti (come si dice) a mazzacchera, o giugnerti alla schiaccia. Usasi ancora nella medesima significazione, stare all'erta, e, stare in sul tirato, e non si lascia intendere. Stare coll'arco teso, si dice, d'uno, il quale tenga gli orecchi, e la mente intenti a uno che favelli per corlo, e potergli apporre qualche cosa, o riprovargli alcuna bugia, non gli levando gli occhi da dosso per farlo imbiancare, o imbianchire, o rimanere bianco, il che oggi si dice, con un palmo di naso. Star sodo alla macchia, ovvero al macchione, è non uscire per bussare ch'uom faccia, cioè lasciare dire uno quanto vuole, il qual cerchi cavarti alcun segreto di bocca, e non gli rispondere, o rispondergli di maniera che non sortisca il disiderio suo, egli venga fallito il pensiero, onde conosca di gettar via le parole, e il tempo, onde si levi da banco, ovvero da tappeto, senza dar più noja, o ricadia, e torre, o spezzare il cervello a sé, e ad altri; e questi tali che stanno sodi al macchione, si chiamano ora formiche di sorbo, e quando, cornacchie da campanile. Dicesi ancora quasi in un medesimo significato, stare in sul noce, il che è proprio di coloro che temendo di non esser presi per debito, o per altra paura, stanno a Bellosguardo, e non ardiscono spassegiare l'ammatonato, cioè capitare in piazza, che i Latiui dicevano abstinere publico; e di coloro che hanno cattiva lingua, e dicon male volentieri, si dice: egli hanno mangiato noci, benché il volgo dica, noce; e, mangiar le noci col mallo, si dice di quelli che dicono male, e cozzano con coloro i quali fnno dir male meglio d'essi, dimanieraché non ne stanno in capitale, anzi ne scapitano, e perdono in digrosso, e questi tali maldicenti si chiamano a Firenze male lingue, linguacce, lingue fracide, e lingue serpentine, e, lingue tabane, con meno infame vocabolo, sboccati, linguacciuti, mordaci, latini di bocca, e aver la lingua lunga, o, appuntata, o, velenosa. Quando alcuno dimandato d'alcuna cosa, non risponde a proposito, si suol dire Albanese messere, o io sto co' frati, o tagliaronsi di Maggio, o veramente Amore ha nome l'oste. Quando alcuno ci dimanda alcuna cosa, la quale non ci piace di fare, lo mandiamo alle birbe, o, all'isola pe' cavretti. Quando alcuno per iscusarsi, o gittare la polvere negli occhi altrui, che i Latini dicevano tenebras offundere, dice d'aver detto, o fatto, o di voler fare, o dire al cuna cosa per alcuna cagione, e ha l'animo diverso dalle parole, s'usa, per mostrarli che altri conosce il tratto, e che la ragia è scornata, dirgli: più su sta mona Luna, da un giuoco che i fanciulli, e le fanciulle facevano già in Firenze; e se ha detto, o fatto quella tal cosa, gli rispondiamo, tu me l'hai chiantata, o, calata, o appiccata, o fregata. Potrebbesi ancora pigliare il verbo proprio, e dire non mica tutte le metafore, perché sono infinite, ma parte; perché favellare colle mani, significando dare, è cosa da bravi, onde si chiamano maneschi: Favellere colla bocca piccina, è favellare cautamente, e con rispetto, e andare, come si dice, co' calzari del piombo: Favellare senza barbazzale; il che i Greci dicevano, con maggior traslazione, senza briglia, è dire tutto quello che più ti piace, o torna bene, senza alcun risguardo, e, come dice il volgo, alla sbarcata: Favellare senza animosità, è dire il parer suo senza passione: Favellare in aria, senza fondamento: Favellare in sul saldo, o di sodo, consideratamente, e da senno, e, come dicevano i Latini, extra jocum, cioè fuor di baja: Favellare in sul quamquam, gravemente, e con eloquenza: Favellare all'orecchie, di segreto: Favellare per cerbottana, per interposta, e segreta persona: Favellare per lettera, che gli idioti, o chi vuole uccellare, dicono per lettiera, è favellare in grammatica, o, come dicono i medesimi, in gramuffa; e si dice Favellare Fiorentino, in Fiorentino, alla Fiorentina, e Fiorentinamente, e così nella lingua, nel linguaggio, nell'idioma, nella favella, o nella parlatura, o nel volgare Fiorentino, o di Firenze, o di Fiorenza: Favellare come gli spiritati, è favellare per bocca d'altri: Favellare come i pappagalli, non intendere quello che altri favella: Favellare come Papa scimio, dire ogni cosa a rovescio; cioè il sì nò, e 'l nò sì: Favellare rotto, cincischiato, onde si dice ancora cincischiare, e addentellato, il che è proprio degli innamorati, o di coloro che temono; è quello che Vergilio nel quarto libro dell'Eneida favellando di Didone disse: Incipit efferi, mediaque in voce resistit. Favellare a caso, o a casaccio, o a fata, o al bacchio, o a vanvera, o a gangheri, o alla burchia, o finalmente alla carlona, e talvolta favellare naturalmente è dirla come ella viene, e non pensare a quello, che si favella, e (come si dice) soffiare, e favellare: Favellare a spizzico, a spilluzzico, a spicchio, e a miccino, è dir poco, e adagio, per non dir poco, e male; come si dice del pecorino Dicomano. Di quelli che favellano, o piuttosto cicalano assai, si dice: egli hanno la lingua in balìa; la lingua non muore, o non si rappallozzola loro in bocca, o e' non ne saranno rimandati per mutoli: come di quelli che stanno musorni: egli hanno lasciato la lingua a casa, o al beccajo; e' guardano il morto; o egli hanno fatto come i colombi del Rimbussato, cioè perduto 'l volo. D'uno che favella, favella, e favellando, favellando con lunghi circuiti di parole aggira sé, e altrui, senza venire a capo di conclusione nessuna, si dice: e' mena 'l can per l'aja: e talvolta, e' dondola la mattea; e' non sa tutta la storia intera, perché non gli fu insegnato la fine; e a questi cotali si suol dire: egli è bene spedirla, finirla, liverarla, venirne a capo, toccare una parola della fine; e, volendo che si chetino, far punto, far pausa, soprassedere, indugiare, serbare il resto a un'altra volta, non dire ogni cosa a un tratto, serbare che dire. D'uno il quale ha cominciato a favellare alla distesa, o recitare un'orazione, e poi temendo, o non si ricordando, si ferma, si dice: egli ha preso vento, e talvolta, egli è arrenato. Chi favella gravemente: pesa le parole: chi non favella, o poco, le parole pesano a lui: chi favella di quelle cose delle quali è interdetto il favellare, mette la bocca, o la lingua dove non debbe: chi favella più di quello che veramente è, e aggiugne qualcosa del suo, si chiama mettere di bocca: coloro che favellano a quelli, i quali non gl'intendono, o s'infingono di non intendergli, si dicono, predicare a' porri: quelli i quali, quando alcuno favella loro, non hanno l'animo quivi, e pensano a ogni altra cosa che a quella che dice colui, si chiamano porre, ovvero piantare una vigna: di quelli che si beccano il cervello, sperando vanamente che una qualche cosa debba loro riuscire, e ne vanno cicalando quì, e quà, si dice che fanno come 'l cavallo del Ciolle, il quale si pasceva di ragionamenti; come le starne di monte Morello di rugiada. Chi in favellando ha fatto qualche scappuccio, e gli è uscito alcuna cosa di bocca, della quale vien ripreso, suole a colui che lo riprende, rispondere: Chi favella erra; egli erra il prete all'altare; e' cade un cavallo, che ha quattro gambe: chi favella sine fine dicentes, e dice più cose che non sono i beati Pauli, è in uso di dire e' vincerebbe il palio di Santo Ermo, il quale si dava a chi più cicalava; e di simili gracchioni si dice ancora: e' terrebbe l'invito del diciotto, o, egli seccherebbe una pescaja, o e' ne torrebbe la volta alle cicale, o e' ne rimetterebbe chi trovò il cicalare: chi nel favellare dice o per ira, o per altro, quello che il suo avversario, aspettando il porco alla quercia, gli voleva far dire, si chiama, infilzarsi da sé a sé: quando le cose delle quali si favella, non ci compiacciono, o sono pericolose, s'usa dire, perché si muti ragionamento, ragioniam d'Orlando, o parliamo di Fiesole, o favelliamo de' moscioni, o come dicono i volgari che disse Santo Agostino a' ranocchi, non tuffemus in acqua turba. Portare a cavallo si dicono coloro, i quali essendo in cammino, fanno con alcuno piacevole ragionamento, che' il viaggio non rincresca; ma bisogna avvertire che il cavallo di questi tali non sia di quella razza che trottino, e come quello che racconta il Boccaccio, perciocché allora è molto meglio andare a pié, come fece prudentemente Madonna Oretta, moglie di messer Geri Spina. Anco i Latini dicevano in questa sentenza: Comes facundus in itinere pro vehiculo est. Sogliono alcuni, quando favellano, usare a ogni pié sospinto, come oggi s'usa: sapete; in effetto; ovvero, in conclusione: altri dicono: che è, che non è, o l'andò, e la stette, altri, dalla, che le desti, o cesti, e canestri; altri scappati la mano; e alcuni scasimodeo; e chi ancora chiacchi bichiacchi; onde d'un ceriuolo, o chiappolino, il quale non sappia quello che si peschi, né quante dita s'abbia nelle mani, e vuol pure dimenarsi anch'egli per parer vivo, o guizzare per non rimanere in secco, andando a favellare ora a questo letterato, o mercante, e quando a quell'altro si dice: egli è un chicchi bichicchi, e non sa quanti piedi s'entrano in uno stivale. Questi tali foramelli, e tignosuzzi, che vogliono contrapporsi a ognuno, si chiamano ser saccenti, ser sacciuti, ser contraponi, ser vinciguerra, ser tuttesalle, dottori sottili, nuovi Salamoni, Aristarchi, o Quintiliani salvatichi; e perché molte volte si danno de' pensieri del Rosso, si chiamano ancora accattabrighe, beccalite, e pizzica quistioni. Attuare, quando è della prima congiugazione, non viene da apri tuto, né signifca assicurare, come hanno scritto alcuni, ma è proprissimo, e bellissimo verbo, il cui significato non può sprimersi con un verbo solo, perché è quello che i Latini dicono or sedare, or comprimere, or retundere, e talvolta extinguere; e usollo il Bocaccio (sebben mi ricordo) non solo nella novella d'Alibech due volte, ma ancora nell'ottavo della Teseide, dicendo: Onde attutata s'era veramente La polvere, e il fumo, ec. e Dante, la cui proprietà è meravigliosa, disse nel 26 del Purgatorio: Ma poiché furon di stupore scarche, Lo qual negli alti cor tosto s'attuta. Ma attutire della quarta congiugazione significa fare star cheto contra sua voglia uno, che favelli, o colle minacce, o colle busse. Quando due favellano insieme, e uno di loro o per non avere bene inteso, o per essersi dimenticato alcuna cosa, dice: riditela un'altra volta; quell'altro suol rispondere: noi non siam più di Maggio.
C. Deh fermate uu poco, se vi piace, il corso delle vostre parole, e ditemi perché cotesto detto più si dice del mese di Maggio, che degli altri; se già questa materia non v'è, come mi par di conoscere, venuta a fastidio.
V. La lingua va dove 'l dente duole; ma che debbo io rispondere alla vostra dimanda, se non quello che dicono i Volgari medesimi? cioè, perché di Maggio ragghiano gli asini. Ma come voi avete detto, io vorrei oggimai uscire di questo gineprajo, che dubito di non essere entrato nel pecoreccio, e venire a cose di più sugo, e di maggiore nerbo, e sostanza, che questue fanfaluche non sono.
C. Se voi ragionate per compiacere a me, come voi dite, o come io credo, non vi dia noja, perché coteste sono appunto quelle fanfaluche che io disidero di sapere, perciocché queste cose, le quali in sui libri scritte non si ritrovano, non saperrei io per me donde poterlemi cavare.

V. Non d'altronde, se non da coloro, i quali l'hanno in uso nel lor parlare, quasi di natura.

C. E chi son costoro?

V. Il senato, e 'l Popolo Fiorentino.

C. Dunque in Firenze oggi s'intendono le cose, che voi avete dette? V E si favellano, che è più là, non dico da' fattori de' barbieri, e de' calzolaj, ma da ciabattini, e da' ferravecchi, che non pensaste ch'io me le fossi succiate dalle dita, o le vi volessi vendere per qualche grande, e nascoso tesoro; e non è sì tristo artigiano dentro a quelle mura, che voi vedete (e il medesimo dico de' foresi, e de' contadini) il quale non sappia di questi motti, e riboboli per lo senno a mente le centinaja, e ogni giorno, anzi a ciascuna ora, e bene spesso, non accorgendosene, non ne dica qualch'uno. Più vi dirò, che se la mia fante ci udisse ora ragionare, non istate punto in dubbio, che ella maravigliandosi tra sé, e faccendo le stimite, non dicesse: Guarda cose che quel Cristiano del mio padrone insegna a quell'uomo, che ne son pieni i pozzi neri, e le sanno infino a' pesciolini excl sicuramente (direbbe ella) egli debbe avere poca faccenda, forseché non vi si ficca drento, e per avventura non bestemmierebbe. Sapete dunque, se volete, donde possiate impararle.
C. E disselo a Margutte, e non a sordo; ma seguiate voi, se più avete che dire.
V. Questa materia è così larga, e abbraccia tante le cose, che chi volesse contarle tutte, arebbe più faccenda che non è in un sacco rotto, e gli converrebbe non fare altro tutta una settimana intera intera; perché ella fa, come si dice dell'Idra; o per dirlo a nostro modo, come le ciriege; che si tirano dietro l'una l'altra; pure io, lasciando indietro infinite cose, m'ingegnerò d'abbreviarla, per venire, quando che sia, alla fine. Dico dunque che, dire farfalloni, serpelloni, e strafalcioni, si dice di coloro che lanciano; raccontando bugie, e falsità manifeste; de' quali si dice ancora: e' dicono cose che non le direbbe una bocca di forno; e talvolta mentre favellano, per mostrare di non le passare loro, si dice: ammannaò, o affastella, che io lego, o suona, che io ballo. Non fo menzione de' passerotti, perché la piacevolezza; e la moltitudine loro ricercherebbe un libro appartato, il che già fu fatto da me in Venezia, e poi da me, e da Messer Carlo Strozzi arso in Ferrara. Quando alcuno, per procedere mescolatamente, e alla rinfusa, ha recitato alcuna orazione la quale sia stata, come il pesce pastinaca, cioè senza capo, e senza coda, come questo ragionamento nostro, e in somma non sia soddisfatta a nessuno, s'usa dire a coloro che ne dimandano: ella è stata una pappolata, o pippionata, o porrata, o pastocchia, ovvero pastocchiata, o cruscata, o favata, o chiacchierata, o fagiolata, o intemerata; e talvolta una bajaccia, ovvero bajata, una trescata, una taccolata, o tantaferata, una filastrocca, ovvero filastroccola, e chi dice zanzaverata, o cinforniata. Quando i maestri voglion significare che i fanciulli non se le sono sapute, e non ne hanno detto straccio, usano queste voci: boccata, boccicata, boccicone, cica, calia, gamba, tecca, punto, tritolo, briciolo, capello, pelo, scomuzzolo, e più anticamente, e con maggior leggiadria fiore, cioè punto, come fece Dante, quando disse: Mentreché la speranza ha fior del verde. che così si debbe leggere, e non come si truova in tutti i libri stampati: è fuor del verde; e, per lo contrario, quando se le sono sapute: egli l'ha in sulle punte delle dita; e non ha errato parola; e in altri modi tali: Dire il pan pane, e dirla fuor fuora è dire la cosa, come ella sta, o almeno come altri pensa che ella stia, liberamente, e chiamare la gatta gatta, e non mucia. Dire a uno il padre del porro, e cantargli il vespro, o il mattutino degli Ermini, significa riprenderlo, e accusarlo alla libera, e protestargli quello, che avvenire gli debba, non si mutando. Erano gli Ermini un convento di Frati, secondoché mi soleva raccontare mia madre, i quali stavano già in Firenze, e perché cantavano i divini ufizj nella loro lingua, quando alcuna cosa non s intendeva, s'usava dire: ella è la zolfa dagli Ermini. Dire a lettere di scatola, o di speziale, è dire la bisogna chiaramente, e di maniera che ognuno senza troppa speculazione intendere la possa. Dire le sue ragioni a' birri, si dice di coloro che si voglion giustificare con quelli a chi non tocca, e che non possono ajutargli, tratto da coloro che, quando ne vanno presi, dicono a quelli che ne gli portano a guisa di ceri, che è loro fatto torto. D'uno che attende, e mantiene le promessioni sue, si dice: egli è uomo della sua parola; e quando fa il contrario: egli non si paga d'un vero. Di coloro che favellano in punta di forchetta, cioè troppo squisitamente, e affettatamente, e (come si dice oggi) per quinci, e quindi, si dice: andare su per le cime degli alberi; simile a quello, cercare de' fichi in vetta. A coloro, che troppo si millantano, e dicono di voler fare, o dire cose di fuoco, s'usa, rompendo loro la parola in bocca, dire non isbraciate. D'uno, il quale non s' intenda, o non voglia impacciarsi d'alcuna faccenda, intervenendovi solo per bel parere, e per un verbigrazia, rimettendosene agli altri, si dice: il tale se ne sta a detto. A uno, che racconti alcuna cosa, e colui a chi egli la racconta, vuol mostrare in un bel modo di non la credere, suol dire, san chi l'ode; alle quali parole debbono seguitare queste, pazzo chi 'l crede. D'uno, che dica del male assai, si dice: il suo aceto è di vin dolce, o egli ha una lingua che taglia, e fora: e per lo contrario d'uno, che non sappia fare una torta parola, né dir pur zuppa, non che far villania ad alcuno, o stare in su i convenevoli, e fare invenie, si dice: egli è meglio che il pane, e talvolta, che il Giovacca. D'uno, che sia maledico, e lavori altrui di straforo, commettendo male occultamente, si dice: egli è una mala bietta, o una cattiva lima sorda. D'uno che sia in voce del popolo, e del quale ognuno ardisca dire quello che vuole, e ancora fargli delle bischenche, e de' soprusi, si dice: egli è il Saracino di piazza, ovvero cimiere a ogni elmetto. Considerate ora un poco voi, qual differenza sia dallo scrivere al favellare, o dallo scrivere daddovero a quello da motteggio. Messer Francesco Petrarca disse questo concetto in quel verso: Amor m'ha posto, come segno a strale. e messer Piero Bembo: Io per me nacqui un segno Ad ogni stral delle sventure umane. Quando alcun uomo iroso, e col quale non si possa scherzare, è venuto per la bizzarria sua nel contendere con chicchessia in tanta collera, e smania, che girandogli la coccola non sa, o non può più parlare, e nientedimeno vuol sopraffare l'avversario, e mostrare che non lo stimi, egli, serrate ambo le pugna, è messo il braccio sinistro in sulla snodatura del destro, alza il gomito verso il cielo, e gli fa un manichetto; o veramente posto il dito grosso tra l'indice, e quello del mezzo, chiusi, e ristretti insieme quegli altri, e disteso il braccio verso colui, gli fa (come dicono le donne) una castagna, aggiugnendo spesse volte: To', castrami questa, il quale atto forse con minore onestà, ma certo con maggiore proprietà chiamò Dante, quando disse: Alla fin delle sue parole il ladro Le mani alzò con amendue le fiche. la qual cosa, secondo alcuni, volevano significare i Latini, quando dicevano medium unguem ostendere; e talvolta, medium digitum: il che pare, che dimostri quello essere stato atto diverso. I Latini a chi diceva loro alcuna cosa della quale volessino mostrare che non tenevano conto nessuno, dicevano: haud manum vorterim; e noi nel medesimo modo: io non ne volgerei la mano sozzopra. Diciamo ancora, quando ci vogliamo mostrare non curanti di chicchessia: io non ne farei un tombolo in sull'erba; e quando vogliamo mostrare la vilipensione maggiore, diciamo con parole antiche: io non ne darei un paracucchino, o veramente bazzago, o con moderne, una stringa, un lupino, un lendine, un moco, un pistacchio, un bagattino, una frulla, un baghero, o un ghiabaldano, de' quali se ne davano trentasei per un pelo d'asino. Quando alcuno entra d'un ragionamento in un altro, come mi pare che abbiamo fatto noi, si dice: tu salti di palo in frasca, o veramente, darno in Bacchillone. Quando alcuno dice alcuna cosa, la quale non si creda essere di sua testa, ma che gli sia stata imburchiata, sogliono dire: questa non è erba di tuo orto. Quando alcuno o non intende, o non vuole intendere alcuna ragione, che detta gli sia, suole dire: ella non mi va; non m'entra; non mi calza; non mi cape; non mi quadra; e altre parole così fatte. Quando alcuno o privatamente, o in pubblico confessa esser falso quello ch'egli prima per vero affermato avea, si chiama ridirsi, o disdirsi. Essere in detta, significa essere in grazia, e favore, essere in disdetto, in disgrazia, e disfavore. Quando uno cerca pure di volerci persuadere quello, che non volemo credere, per levarloci dinanzi, e torci quella seccaggine dagli orecchi, usiamo dire: tu vuoi la baja, o la berta, o la ninna, o la chiacchiera, o la giacchera, o la giostra, o il giambo, o il dondolo de' fatti mieiò, o tu uccelli; tu hai buon tempo; ringrazia Dio, se tu sei sano; anche il Duca murava; e molti altri modi somiglianti. Quando una dice cose non verisimili, se gli risponde, elle sono parole da donne o da sera, cioè da veglia; o veramente, elle son favole, e novelle. Quando uno dice sue novelle per far credere alcuna cosa, se gli risponde, elle son parole; le parole non empiono il corpo; dove bisognano i fatti, le parole non bastano; tu hai buon dire tu; saresti buono a predicare a' porri; e in altre guise cotali. A uno che si sia incapato una qualche cosa, e quanto più si cerca di sgannarlo, tanto più v'ingrossa su, e risponde di voler fare, e dire, s'usa, egli è entrato nel gigante. Chi ha detto, o fatta alcuna cosa in quel modo appunto, che noi disideravamo, si chiama aver dipinto, o fattala a pennello. D'uno, che fa i castellucci in aria, egli si becca il cervello, o si dà monte Morello nel capo. D'uno, che colle parole, o co' fatti si sia fatto scorgere, si dice, egli ha chiarito il popolo; e Morgante disse a Margutte: Tu m'hai chiarito, anzi vituperato. D'uno che dà buone parole, e frigge, si dice, egli ha 'l mele in bocca, e 'l rasòjo a cintola, o come dicevano i Latini, le lagrime del coccodrillo, e noi diciamo, la favola del tordo, che disse, Bisogna guardare alle mani, e non agli occhi. Conciare alcuno pel dì delle feste, ovvero come egli ha a stare, significa nuocergli col dirne male; ma conciare uno semplicemente, significa, o con preghiere, o con danari condurlo a fare tutto quello che altri vuole: e coloro, che conoscono gli umori dove peccano gli uomini, e gli sanno in modo secondare, che ne traggono quello, che vogliono, si dicono: trovare la stiva, e sono tenuti valenti. Andarsene preso alle grida, significa credere quello che t'è detto, e senza considerare più oltra, dire, o non dire, fare, o non fare alcuna cosa bene, o male che ella si sia. Dir buon giuoco, è chiamarsi vinto; è proprio de' fanciulli, quando, faccendo alle pugna, rimangano perdenti; il verbo generale è rendersi, e arrendersi; che i Latini dicevano dare herbam, e dare manus. Dire il paternostro della bertuccia, non è mica dire quello di San Giuliano, ma bestemmiare, e maledire, come pare, che facciano cotali animali, quando acciappinano per paura, o per istizza dimenano tosto tosto le labbra. Pigliare la parola dal tale, che gli antichi dicevano, accattare, è farsi dare la parola di quello, che fare si debba. Andare sopra la parola d'alcuno, è stare sotto la fede sua di non dovere essere offeso. Quando alcuno vuole, che tutto quello che egli ha detto, vada innanzi senza levarne uno jota, o un minimo che, si dice, e' vuole che la sua sia parola di Re. Cavarsi la maschera è non volere essere più ippocrito, o simulatore, ma sbizzarrirsi con uno senza far più i fraccurradi. Coloro, che quando i fanciulli corrono, danno loro le mosse, dicono, trana; onde chi vuol beffare alcuno, gli grida dietro, tran trana, tratto dal suono delle trombe; o miao miao, dalle gatte. Quando alcuno non dice tutto quello, che egli vorrebbe, o doverrebbe dire, si dice: egli tiene in collo; e se è adirato: egli ha cuccuma in corpo, cioè stizza; onde si dice d'uno che ha preso il broncio: ella gli è montata. Quando alcuno dice una cosa la quale sia falsa, ma egli la creda vera, si chiama, dire le buie, che i Latini dicevano dicere mendacia; ma se la crede falsa, come ella è, si chiama con verbo latino, mentire, o dire menzogna; la qual parola è Provenzale, onde menzogniere, cioè bugiardo. Il verbo, che usò Dante quando disse, io non ti bugio, è ancora in bocca d'alcuni, i quali dicono, io non ti buso, cioè dico bugie; è vero, che dir bugie, e mentire si pigliano l'un per l'altro. Quando alcuno, e massimamente fuori dell'usanza sua, ha detto in riprendendo chicchessia, o dolendosene più del dovere, si chiama essere uscito del manico. Zufolare dietro a uno, è dire con sommessa voce: quelli è il tale, quelli è colui, che fece, o che disse; e a colui si dicono zufolare gli orecchi, come dicevano i Latini personare aures. Quando alcuno vuol significare a chi dice male di lui, che ne lo farà rimanere, minaccia di dovergli turare, o riturare la bocca, o la strozza, ovvero inzeppargliele, cioè con uno struffo, ovvero struffolo di stoppa, o d'altro, empiergliela, e suggellare. Quando uno conforta un altro a dover fare alcuna cosa che egli fare non vorrebbe, e allega sue ragioni, delle quali colui non è capace, suole spesso avere per risposta: tu ci metti parole tu; a nessuno confortatore non dolse mai testa; e se egli seguita di strignerlo, e serrarlo fra l'uscio, e 'l muro, colui soggiugne: parole brugnina. A uno, che per trastullare un altro, e aggirarlo colle parole, lo manda ora a casa questo, e ora a casa quell'altro per trattenerlo, si dice: abburattare, e mandar da Erode a Pilato. Far tenore, o falso bordone a uno, che cicali, è tenergli il fermo non solo nel prestargli gli orecchi a vettura in ascoltarlo, ma anch'egli di cicalare la sua parte. A chi aveva cominciato alcun ragionamento, poi entrato in un altro, non si ricordava più di tornare a bomba, e fornire il primo, pagava già (secondoché testimonia il Burchiello) un grosso, il qual grosso non valeva per avventura in quel tempo più, che quei cinque soldi, che si pagano oggi, i quali io non intendo a patto nessuno di voler pagare; però tornando alla prima materia nostra, proponetemi tutte quelle dubitazioni, che voi dicevate di volermi proporre, che io a tutte risponderò liberamente tutto quello, che saperrò.

C. Io per non perdere questa occasione d'oggi, che Dio sa quando n'arò mai più un'altra, e valermi di cotesta vostra buona volontà il più che posso, vorrei dimandarvi di molte cose intorno a questa vostra lingua, le quali dimande, per procedere con qualche ordine, chiamerò quesiti; ma prima mi par necessario, non che ragionevole, che io debba sapere qual sia il suo propio, vero, legittimo, e diritto nome, conciossiaché alcuni la chiamano Volgare, o Vulgare, alcuni Fiorentina, alcuni Toscana, alcuni Italiana, ovvero Italica, e alcuni ancora Cortegiana, per tacere di quelli, che l'appellano la lingua del sì.

V. Cotesto dubbio è stato oggimai disputato tante volte, e da tanti, e ultimamente da Messer Claudio Tolomei, uomo di bellissimo ingegno, e di grandissimo discorso, così lungamente, che molti per avventura giudicheranno non solo di poco giudizio, ma di molta presunzione chiunqhe vorrà mettere bocca in questa materia, non che me, che sono chi io sono; e però vi conforterei a entrare in qualche altro ragionamento, che a voi fosse di maggiore utilità, e a me di manco pregiudizio.

C. Io direi che voi non foste uomo della parola vostra, se non voleste attendermi quello, che di già promesso m'avete; e di vero io non credeva che egli valesse né a disdirsi, né a ridirsi, e cotesto che voi allegate per mostrarlo soverchio, è appunto quello che lo fa necessario, e spezialmente a me, perché non conchiudendo tutti una cosa medesima, anzi ciascuno diversamente all'altro, io resto in maggior dubbio, e confusione, che prima, né so discernere da me medesimo a qual parte mi debba, e a qual sentenza piuttosto appigliare per creder bene, e saperne la verità.
V. Dunque credete voi, che io debba esser quelli, che voglia por mano a così fatta impresa, con animo, o speranza di dover terminare cotal quistione, e arrecar fine a sì lunga lite? Troppo errate, se ciò credete, e male mostrereste di conoscere generalmente la natura degli uomini, e particolarmente la mia. Laonde son bene contento, ancoraché conosca in che pelago entri, e con qual legno, e quanto poveramente guernito, di volere, checché seguire me ne debba, o possa, dire, non per altra maggior cagione, che per soddisfare a voi, e a coloro che tanto instantemente ricercato men' hanno, in favore della verità tutta l'oppenione mia sincerissimamente.

C. Cotesto mi basta, anzi è appunto quello che io andava caendo.

V. Se questo vi basta, noi saremo d'accordo, ma io voglio che noi riserbiamo questo Quesito al da sezzo; e in questo mentre, da Cortegiana in fuori, chiamatela come meglio vi torna, che non potete gran fatto errare di soverchio, come per avventura vi pensate, e a me non dispiace, come fa a molti, che ella si chiami Volgare, posciaché così la nominarono gli antichi, e i nomi debbono servire alle cose, e non le cose a i nomi.

C. Perché volete voi serbare questo quesito all'ultimo? Forse per fuggire il più che potete di venire al cimento, e al paragone? Che ben conosco che voi traete alla staffa, e ci andate di male gambe, e non altramente, che le serpi all'incanto.

V. Anzi piuttosto, perché la cagione che questo dubbio da tanti, che infin quì disputato n'hanno, risoluto non si sia, mi pare proceduta più che da altro, perché eglino non si son fatti da' primi principj, come bisognava, diffinendo primieramente che cosa fosse lingua, e poi dichiarando a che si conoscono le lingue, e come dividere si debbiano; perciocché Aristotile afferma, niuna cosa potersi sapere, se prima i primi principj, i primi elementi, e le prime cagioni di lei non si sanno.

C. Ditemi dunque, per lo primo quesito, che cosa Lingua sia.

Che cosa sia lingua
Quesito primo

V.
*********************************************************************************

Lingua, ovvero Linguaggio, non è altro

che un favellare d'uno, o più popoli, il quale,

o i quali usano, nello sprìmere i loro concetti, i

medesimi vocaboli nelle medesime significazioni, e

co' medesimi accidenti.

*************************************************************************

C. Perché dite voi d'un popolo?

V.

Perché, se parecchi amici, o una compagnia, quantunche grande, ordinassero un modo di favellare tra loro, il quale non fosse inteso, né usato, se non da sé medesimi, questo non si chiamerebbe lingua, ma gergo, o in alcuno altro modo, come le cifere non sono propriamente scritture, ma scritture in cifera.

C.

Perché dite di più popoli?

V.

Perché egli è possibile, che più popoli usino una medesima lingua, se non naturalmente, almeno per accidente, come avvenne già della Latina, e oggi avviene della Schiavona, e di molte altre.

C.

Perché v'aggiugnete voi nello sprimere i concetti loro?

V.

Per ricordarvi, che il fine del favellare è sprimere i suoi concetti mediante le parole.

C.

Perché dite voi i medesimi vocaboli, senza eccezione alcuna, e non quasi, o comunemente i medesimi vocaboli?

Se un Fiorentino, verbigrazia, usasse nel suo favellare una, o due, o ancora più parole, le quali non fossino Fiorentine, ma straniere, resterebbe per questo ch'egli non favellasse in Fiorentino?

V.

Resterebbe, e non resterebbe.

Resterebbe, perché in quella una, o due, o più parole, le quali non fossono Fiorentine, egli sarebbe barbaro, e barbaramente, non Fiorentinamente favellerebbe.

Non resterebbe, perché in tutte l'altre parole, da quelle in fuori, sarebbe Fiorentino, e Fiorentinamente favellerebbe.

C.

Dunque un povero forestiero il quale con lungo studio, e fatica avesse apparato la lingua Fiorentina, o quale si voglia altra, se poi nel favellare gli venisse uscita di bocca una parola sola, la quale Fiorentina non fosse, egli sarebbe barbaro, e non favellerebbe Fiorentinamente?

V.

Sarebbe senza dubbio in quella parola sola, ma non per questo si direbbe che egli in tutto il restante Fiorentinamente non favellasse.

E Cicerone medesimo, che fu non eloquente, ma l'eloquenza stessa, se avesse usato una parola sola, la quale Latina stata non fosse, sarebbe stato barbaro in quella lingua, infinattantoché quella cotal parola non fosse stata ricevuta dall'uso, o altra cagione non l'avesse fatta tollerabile, e bene spesso laudabile.

C.
*************************************
Se il fine del favellare è manifestare
i suoi concetti, io crederrei che dovesse
bastare a chi favella essere inteso, e
a chi ascolta, intendere,
senza andarla tanto sottilizzando.
**************************************

V.

Quanto al fine del favellare non ha dubbio, che basta l'intendere, e l'essere inteso, ma non basta già quanto al favellare correttamente, e leggiadramente in una lingua, che è quello che ora si cerca, per non dir nulla, che quella, o quelle parole potrebbono esser tali, che voi non l'intendereste, come se fossero Turche, o d'altra lingua non conosciuta da voi, onde così il parlare, come l'ascoltare, verrebbero a essere indarno.

C.

Io non intendeva di coteste, ma di quelle parole che si favellano comunemente per l'Italia, e sono intese ordinariamente da ognuno, e nondimeno chi l'usa, è ripreso, o biasimato da i professori della lingua, i quali dicono, che elle non sono Toscane, o Fiorentine.

V.

Quando, come, dove, perché, e da chi si possano, o si debbano usare, non solamente quelle parole, che s'intendono, ma eziandio quelle le quali non s'intendono, si farà manifesto nel luogo suo, perché voglio, che procediamo, per non ci confondere, distintamente, e con ordine.

Bastivi per ora sapere, che coloro in tutte le lingue meritano maggior lode, i quali più agevolmente si fanno intendere.

C.

Io non disidero altro, se non che si proceda (come solete dir voi) metodicamente, cioè con modo, e con ragione, ovvero con ordine, e regola, e

però

***************************************
tornando alla diffinizione della lingua,
****************************************

perché vi poneste voi quelle parole, nelle medesime significazioni?

V.

Perché molti sono quei vocaboli, i quali significano in una lingua una cosa, e in un'altra un'altra tutta da quella diversa.

Intantoché io per me non credo, che si ritruovi voce nessuna in verun luogo, la quale in alcuna lingua non significhi qualche cosa.

C.

Che vogliono importare quelle parole, e co' medesimi accidenti? e quali sono questi accidenti?

V.

Molte cose si disiderano così ne' nomi, come ne' verbi, e nell'altre parti dell'orazione, ovvero del favellare, le quali

da' gramatici

si chiamano

*****************

Accidenti,

****************

come sono ne i nomi le

declinazioni, e i

generi, e ne' verbi le

congiugazioni, e le

persone, e in amenduni i

numeri, e altre così fatte cose.

C.

In coteste parole, e in altre così fatte cose, comprendetevi voi gli accenti?

V.

Comprendo, sebbene gli accenti non sono propriamente passioni de' nomi, o de' verbi, ma di ciascuna sillaba indifferentemente.

C.

Io intendo per accenti non tanto il tuono delle voci, il quale ora l'alza, e ora l'abbassa, secondo che è o acuto, o grave, ma ancora il tuono, cioè il modo, e la voce colla quale si profferiscono, e brevemente la pronunzia stessa.

La quale vorrei sapere se si dee considerare nelle lingue per mostrarle o simili, o diverse l'una dall'altra.

V.

La pronunzia è di tanto momento nella differenza delle lingue, che Teofrasto, il quale (come ne dimostra il suo nome) favellava divinamente nella lingua Attica, fu conosciuto da una donnicciuola che vendeva l'insalata in Atene, per non Ateniese, la quale, dimandata da lui del pregio di non so che cosa, gli rispose.

Forestiero, io non posso darla per manco.

E ardirei di dire, che non pure tutte le città hanno diversa pronunzia l'una dall'altra, ma ancora tutte le castella, anzi chi volesse sottilmente considerare, come tutti gli uomini hanno nello scrivere differente mano l'uno dall'altro, così hanno ancora differente pronunzia nel favellare.

Onde non so come si possa salvare il Trissino, quando dice nel principio della sua Epistola a Papa Clemente.

Considerando io la pronunzia Italiana.

Favellando non altramente, che se tutta Italia dall'un capo all'altro avesse una pronunzia medesima, o se le lettere che egli voleva aggiugnerle, fossero insieme coll'altre state bastanti a sprimere, e mostrare

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la diversità delle pronunzie delle lingue
d'Italia,
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cosa non solo impossibile, ma ridicola, come se (lasciamo stare la Cicilia) ma Genova non fosse in Italia, la cui pronunzia è tanto da tutte l'altre diversa, che ella scrivere, e dimostrare con lettere non si può.

Né perciò vorrei che voi credeste, che tutte le diversità delle pronunzie dimostrassero necessariamente, e arguissono

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diversità di lingua,
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ma quelle sole che sono tanto varie da alcuna altra, che ciascuno che l'ode, conosce manifestamente la diversità.

Delle quali cose certe, e stabili regole dare non si possono, ma bisogna lasciarle in gran parte alla discrezione de' giudiziosi, nella quale elle consistono per lo più.

C.

A me non sovviene che dimandarvi più oltra in questa diffinizione, laonde passeremo al secondo quesito.
A che si conoscano le lingue
Quesito secondo

V.
***********************************
Le lingue si conoscono da due cose,
dal favellarle, e
dall'intenderle.
**********************************

C.

Dichiaratevi alquanto meglio.

V.

Delle lingue

a) alcune sono, le quali noi intendiamo, e favelliamo.

b) Alcune, per lo contrario, le quali noi né favelliamo, né intendiamo.

c) E alcune, le quali noi intendiamo bene, se non tutte, la maggior parte, ma non già le favelliamo.

d) Perché trovare una lingua la quale noi favelliamo, e non intendiamo, non si può.

C.

Tutto mi piace, ma voi non fate menzione de' caratteri, cioè delle lettere, ovvero figure, chiamate da alcuni note, colle quali lingue si scrivono?

Non sono anco queste lettere necessarie, e fanno differenza tra una lingua, e un'altra?

V.

Messer no.

C.

Come, Messer no?

Se una lingua si scrive con diversi caratteri da quelli d'un'altra lingua, non è ella differente da quella?

V.

Signor no.

C.

Se voi non dite altro che, Messer no, e, Signor no, io mi rimarrò nella mia credenza di prima.

V.

*********************************************
Lo scrivere non è della sostanza delle lingue,
ma cosa accidentale,
**********************************************

perché la propria, e vera natura delle lingue è, che si favellino, e non che si scrivano, e qualunche lingua si favellasse, ancoraché non si scrivesse, sarebbe lingua a ogni modo, e, se fosse altramente, lingue inarticolate non sarebbono lingue, come elle sono.

Lo scrivere fu trovato non dalla natura, ma dall'arte, non per necessità, ma per comodità, conciossiacosaché favellare non si può, se non a coloro, che sono presenti, e nel tempo presente solamente, dove lo scrivere si distende e a' lontani, e nel tempo avvenire, e anco a un sordo si può utilmente scrivere, ma non già favellare, dico de' sordi non da natura, ma per accidente.

E se le lettere fossero necessarie, la diffinizione della lingua approvata di sopra da voi, sarebbe manchevole, e imperfetta, e conseguentemente non buona, e ne seguirebbe, che così lo scrivere fosse naturale all'uomo, come è il parlare.

La qual cosa è falsissima.

C.

Il Castelvetro dice pure nella divisione, che egli fa delle lingue, che le maniere di lingua straniera sono due, una naturale, e l'altra artifiziale, e che la naturale è di due maniere, una delle quali ha i corpi insieme, e gli accidenti de' vocaboli della favella propria, e usitata d'un popolo differente da quei della nostra, ma l'altra ha gli accidenti soli.

E poco di sotto dichiarando sé medesimo, intende per corpi le vocali, e le consonanti.

Ma di che ridete voi?

Forse perché questa divisione è di sua testa?

V.

Cotesto mi darebbe poca noja, anzi maggiormente ne 'l loderei, né io mi vergognerò di confessarvi l'ignoranza mia.

Sappiate, ch'io con tutte quelle sue dichiarazioni durai delle fatiche a poterla intendere, e anco non son ben chiaro, se io l'intendo, anzi son chiarissimo di non intenderla, perché le cose false non sono, e le cose che non sono, non si possono intendere.

C.

Perché?

V.

Perché quello, che è nulla, non è niente, e quello, che è niente non potendo produrre immagine alcuna di sé, non può capirsi.

C.

Dunque voi tenete quella divisione falsa?

V.

Non meno che confusa, e sofistica, e fatta solo (intendete sempre con quella protestazione che io vi feci di sopra) per aggirare il cervello altrui, e massimamente a coloro, i quali non sanno più là, come per avventura sono io, e per potere schifare le ragioni, e l'autorità allegategli incontra da Messer Annibale.

Perché, oltra l'altre cose fuori d'ogni ragione, e verità che al suo luogo si mostrerranno, egli vuole che la maggior differenza che possa essere tra una lingua, e un'altra, sia quella de' corpi, cioè delle lettere, come se le lettere, cioè gli alfabeti, fossero della natura, e sostanza delle lingue; la qual cosa è tanto lontana dal vero, quanto quelle che ne sono lontanissime: e sappiate che io ho molte volte dubitato che la risposta fatta da lui contra l'Apologia del Caro, non sia fatta da burla, e per vedere quello che gli uomini ne dicevano; e se io non dico da vero, pensate voi di me quello che io penso di lui.

Ditemi (vi prego), se un Fiorentino, o di qualunche altra nazione si vestisse da Turco, o alla Franzese, sarebbe egli per questo o Franzese, o Turco?

C.

No, ma si rimarrebbe Fiorentino.

V.

Così una lingua scritta con quali caratteri, o alfabeti si voglia, si rimane nella sua natura propria.

E chi non sa, che come ciascuna lingua si può scrivere ordinariamente con tutti gli alfabeti di tutte le lingue, così con uno alfabeto solo di qualsivoglia lingua si possono scrivere tutte l'altre?

Ho detto ordinariamente, perché non tutte le lingue hanno tutti i suoni.

Chiamo suoni quelli, che i Latini chiamavano propriamente elementi, perché come la lingua latina oltra alcuni altri, non aveva questi suoni, ovvero elementi, che avemo noi

gua
gue
gui
guo
guu,

così la Greca, oltra alcuni altri, mancava di questi,

qua
que
qui
quo
quu;

onde erano costretti, volendogli sprimere, o servirsi delle lettere dell'altrui lingue, o volendogli pure scrivere con quelle della loro, ridurgli, il meglio che potevano, e adattargli i Latini alla Latina, e i Greci alla Greca, e naturale pronunzia loro.

C.

Non si conoscono ancora le lingue agli accenti, cioè al suono della voce, e al modo del profferirle?

V.

Io vi dissi pur testé, allegandovi l'esempio di Teofrasto, che le pronunzie mostrano la differenza, che è tra coloro, che favellano naturalmente le lor lingue natie, e coloro, che favellano l'altrui accidentalmente; ma per questo non è, che una medesima lingua eziandio da coloro che vi sono nati dentro, non si possa diversamente profferire; come avverrebbe a chi fosse stato lungo tempo dalla sua patria lontano, delle quali cose (come vi dissi) non si posson dar regole stabili, e ferme.

C.

Passiamo dunque al terzo quesito.

Divisione, e dichiarazione delle lingue
Quesito terzo

V.

Delle lingue alcune sono nate in quel luogo proprio, nel quale elle si favellano e queste chiameremo originali.

E alcune non vi sono nate, ma vi sono state portate d'altronde.

E queste chiameremo non originali.

Delle lingue alcune si possono scrivere.

E queste chiameremo articolate.

E alcune non si possono scrivere.

E queste chiameremo non articolate.

******************************
Delle lingue alcune sono vive,
e alcune sono non vive.
********************************

Le lingue non vive sono di
due maniere,
l'una delle quali chiameremo

MORTE AFFATTO,

e l'altra

mezze vive.

Delle lingue alcune sono nobili, e alcune sono non nobili.

Delle lingue alcune sono natie, e queste chiameremo proprie, o nostrali.

E alcune sono non natie, e queste chiameremo aliene, e forestiere.

Le lingue forestiere sono di due ragioni.

La prima chiameremo altre, e la seconda diverse.

Le lingue altre si dividono in due spezie; la prima delle quali chiameremo semplicemente altre, e la seconda

non semplicemente altre.

Le lingue diverse si dividono medesimamente in due spezie; la prima chiameremo diverse eguali, e la seconda

diverse diseguali.

C.

Io vorrei lodare questa vostra divisine, ma non la intendendo a mio modo, non posso a mio modo lodarla: però arei caro, me lo dichiaraste, come avete fatto la diffinizione, e più, se più potete.

V.

Quelle lingue, le quali hanno avuto il Principio, e origine loro in alcuna città, o regione, di maniera che non vi sia memoria né quando, né come, né donde, né da chi vi siano state portate, si chiamano originali di quella città, o di quella regione, come dicono della

lingua greca, e molti ancora della Latina: quelle poi, le quali si favellano in alcun luogo, dove elle non abbiano avuto l'origine, e principio loro, ma si sappia che vi siano state portate d'altronde, si chiamano non originali, come fu non solo alla Toscana, e a tutta Italia, dal

Lazio

in fuori, ma ancora alle Spagne, e alla Francia la Lingua Latina, mentreche non solo i Toscani, e gl'Italiani, ma i Franzesi ancora, e gli Spaguoli favellavano nelle loro provincie Latinamente. Lingue articolate si chiamano tutte quelle, che scrivere si possono, le quali sono infinite: inarticolate quelle, le quali scrivere non si possono, come ne sono molte tra le nazioni barbare, e alcune tra quelle, che barbare non sono, come quella, che usano nella Francia i Brettoni Brettonanti, chiamati così, perché non hanno mai preso la lingua Franzese, come gli altri Brettoni, ma si sono mantenuti la loro antica, la quale si portarono in Brettagna, chiamata poi Inghilterra, donde furono cacciati coll'arme; e come nell'Italia la pura Genovese. Lingue vive si chiamano tutte quelle, le quali da uno, o più popoli naturalmente si favellano, come la Turca, la Schiavona, l'Inghilese, la Fiamminga, la Francesca, la Spagnuola, l'Italiana, e altre innumerabili. Lingue non vive si chiamano quelle, le quali più da popolo nessuno naturalmente non si favellano; e queste sono di due guise, perciocché alcune non solo non si favellano più in alcun luogo naturalmente, ma né ancora accidentalmente, non si potendo elleno imparare, perché o non si trovano scritture in esse, non essendo di loro altro rimaso che la memoria; o se pure se ne truova alcune, non s'intendono, come è avvenuto nella lingua Toscana antica, chiamata Etrusca, la quale fu già tanto celebre; e queste chiameremo, come nel vero sono, morte affatto. Alcune altre, sebbene non si favellano naturalmente da alcun popolo in luogo nessuno, si possono nondimeno imparare o da' maestri, o da' libri, e poi favellarle, o scriverle, come sono la Greca, e la Latina, e ancora la Provenzale; e queste così fatte chiameremo mezze vive, perché dove quelle prime sono morte e nella voce, e nelle scritture, non si favellando più, e non s'intendendo, queste seconde sono morte nella vo- ce solamente, perché se non si favellano, s'intendono da chi apparare le vuole. Lingue nobili si chiamano quelle, le quali non pure hanno scrittori o di prosa, o di versi, o piuttosto dell'una, e degli altri, ma tali scrittori, che andando per le mani, e per le bocche degli nomini, le rendono illustri, e chiare, come fra le antiche furono la Greca, e la Latina, e fra le moderne massimamente l'Italiana. Non nobili si chiamano quelle le quali o non hanno scrittori di sorte nessuna, o se pure n'hanno, non gli hanno tali, che le facciano famose, e conte, e sieno non solo letti, e lodati, ma ammirati, e imitati. Lingue natie, le quali chiamiamo proprie, e nostrali, sono quelle le quali naturalmente si favellano, cioè s'imparano senza porvi altro studio, e quasi non se ne accorgendo, nel sentire favellare le balie, le madri, i padri, e l'altre genti della contrada, e quelle insomma, le quali si suol dire, che si succiano col latte, e s'apprendono nella culla. Le lingue non natie, le quali noi chiamiamo aliene, ovvero forestiere, sono quelle le quali non si favellano naturalmente, ma s'apprendono con tempo, e fatica, o da chi le insegna, o da chi le favella, o da' libri; e queste sono di due guise, perciocché alcune sono altre, e alcune sono diverse. Lingue altre si chiamano tutte quelle, le quali noi non solo non favelliamo naturalmente, ma né ancora l'intendiamo, quando le sentiamo favellare; e tali sono a noi la Turca, l'Inghilese, la Tedesca, e altre infinite, e queste sono di due ragioni, perciocché alcune si chiamano semplicemente altre, e alcune, non semplicemente altre: le semplicemente altre sono tutte quelle, le quali non solamente non sono né favellate da noi, né intese, quando altri le favella, ma né ancora hanno che fare cosa del mondo colle nostre natie, come, oltra le pur testé raccontate, l'Egizia, l'Indiana, l'Arabica, e altre senza novero: non semplicemente altre si chiamano quelle le quali, sebbene noi non le favelliamo, né intendiamo naturalmente, hanno però grande autorità, e maggioranza sopra le nostre natie, perché se non hanno dato loro l'essere, sono state buone cagioni che elle siano; e tale è la Greca verso la Latina, e la Latina verso la Toscana, conciossiacosaché come la Latina si può dire d'essere discesa dalla Greca, essendosi arricchita di molte parole, e di molti ornamenti di lei, così, anzi molto più, la Toscana dalla Latina, benché la Toscana, quasi di due madri figliuola, è molto obbligata ancora alla Provenzale: e perché la lingua Franzese moderna, come ancora la Spagnuola, sono, nel medesimo modo che la Toscana, dalla Latina derivate, si potrebbono, nonostanteché siano semplicemente altre, anzi si doverebbono, per questa cagione chiamare sorelle, se non di padre, almeno di madre, cioè uterine. Lingue diverse finalmente si chiamano quelle le quali, sebbene naturalmente non le favelliamo, nondimeno, quando altri le favella, sono per lo più intese da noi: e queste anch'esse sono di due sorti, perché alcune sono diverse eguali, e alcune diverse diseguali: diverse eguali si chiamano quelle, le quali, sebbene non si favellano, s'intendono però per lo più naturalmente da noi, e oltra questo sono della medesima, o quasi medesima nobiltà, cioè hanno scrittori famosi, e di pari, o quasi pari grido, e degnità, come erano già quelle quattro nella Grecia tanto nominate, e tanto celebrate lingue, Attica, Dorica, Eolica, e Gionica: le diverse diseguali sono quelle lingue, le quali avvengadioché non si favellino naturalmente da noi, s'intendono però per la maggior parte, ma non hanno già né la medesima, né la quasi medesima nobiltà, o per non avere scrittori, o per non gli aver tali che possano loro dare fama, e riputazione, quali sono

la lingua bergamasca

la lingua bresciana

la lingua vicentina

la lingua padovana,

la lingua viniziana,

e brevemente, quasi tutte l'altre lingue Italiche, verso

la lingua fiorentina.

Ora ripigliando da capo tutta questa divisione, e faccendone, perché meglio la comprendiate, e più agevolmente la ritenghiate nella memoria, quasi un albero, diremo.

Che le lingue sono: o originali, o non originali; articolate, o non articolate; vive, o non vive: e le non vive sono o morte affatto, o mezze vive; nobili, o non nobili; natie, ovvero proprie, e nostrali; non natie, ovvero aliene, e forestiere; se forestiere, o altre, o diverse; se altre, o semplicemente altre, o non semplicemente altre; se diverse, o diverse eguali, o diverse diseguali.

C.

Che direste voi, che egli mediante questa divisione mi par d'avere in non so che modo molte conosciuto delle sofisterie, e fallacie del Castelvetro? Ma io non la vi voglio lodare, se voi prima alcuni dubbj non mi sciogliete.

V.

Voi me l'avete lodata purtroppo, e se volete, che io da quì innanzi vi risponda, dimandatemi liberamente di tutto quello, che vi occorre, senza entrare in altre novelle. Ma quali sono questi vostri dubbj?

C. ll primo è, perché voi nel fare cotale divisione non avete detto: Delle lingue
alcune sono barbare, e alcune no.

V.

Questo nome "barbaro" è voce equivoca, cioè significa più cose, perciocché, quando si riferisce all'animo, un uomo barbaro vuol dire un uomo crudele, un uomo bestiale, e di costumi efferati.

Quando si riferisce alla diversità, o lontananza delle regioni, barbaro si chiama chiunche non è del tuo paese, ed è quasi quel medesimo che strano, o straniero.

Ma quando si referisce al favellare, che fu il suo primo, e proprio significato, barbaro si dice di tutti coloro, i quali non favellano in alcuna delle lingue nobili, o se pure favellano in alcuna d'esse, non favellano correttamente, non osservando le regole, e gli ammaestramenti de' grammatici.

E dovete sapere, che i Greci stimavano tanto sè, e la favella loro, che tutte l'altre nazioni, e tutte l'altre lingue chiamavano

"barbare".

Ma poiché i Romani ebbero non solamente superato la Grecia coll'armi; ma quasi pareggiatola colle lettere, tutti coloro si chiamavano barbari i quali o in Greco, o in Latino non favellavano, o favellando commettevano dintorno alle parole semplici, e da sé sole considerate, alcuno errore; onde oggi per le medesime ragioni parrebbe che si dovesse dire, che tutti coloro, i quali non favellano o Grecamente, o Latinamente, o Toscanamente, favellassono barbaramente, e per conseguente, che tutte l'altre lingue, fuori queste tre, fossero barbare; il che io non ho voluto fare, perché la lingua Ebrea mai per mio giudizio tenuta barbara non sarà, né la Franzese, parlando massimamente della Parigina, né Spagnuola, parlando della Castigliana, né anco (per quanto sento dire) la Tedesca, e molte altre; e io nella mia divisione comprendo le lingue barbare sotto quelle che sono non articolate, o non nobili.

C.

Piacemi. Il secondo dubbio è, che voi mettendo in dozzina la lingua Viniziana con molte altre che sottoposte le sono, la chiamate verso la Fiorentina diversa diseguale, e pure il Bembo, il quale voi lodate tanto, e che ha tanti ornamenti alla lingua vostra arrecato, fu gentiluomo Viniziano.

V.

Se Bembo, del quale io non dissi mai tanto che molto non mi paresse dir meno di quello, che la bontà, e dottrina sua meritarono, fu da Vinegia, egli non iscrisse mica Vinizianamente, ma in Fiorentino, come testimonia egli stesso tante volte; e sebbene Messere Sperone Speroni è da Padova, e Messer Bernardo Tasso, da Bergamo, e il Trissino fu da Vicenza, non per questo i componimenti loro sono o Padovani, o Bergamaschi, o Vicentini, ma Toscani, se non volete che io dica Fiorentini; e tanti Signori Napoletani, e gentiluomini Bresciani, e tanti spiriti pellegrini.di diversi luoghi, i quali hanno scritto, e scrivono volgarmente, non hanno scritto, né scrivono in altra lingua che nella Fiorentina, o volete che io dica, nella Toscana.

C. Castiglione, che fu quel grand'uomo, che voi sapete, così nelle lettere, come nell'armi, dice pure nel suo Cortegiano, che non si vuole obbligare a scriver Toscanamente, ma Lombardo.

V. Vada per quelli, che scrivono Lombardo volendo scrivere Toscanamente, perché, se io v'ho a dire il vero, egli disse quello che egli non volea fare, o almeno che egli non fece, perché chi vuole scrivere Lombardo, non iscrive a quel modo. A me pare, che egli mettesse ogni diligenza, ponesse ogni studio, e usasse ogni industria di scrivere il suo Cortegiano, opera veramente ingegnosa, e degna di viver sempre, più Toscanamente che egli poteva, e sapeva, da alcune poche cose in fuori; non mi par già che il suo stile sia a gran pezza tanto Fiorentino, né da dovere essere tanto imitato, quanto scrivono alcuni.

C.

Or che direte voi di Messer Girolamo, o come si chiama, e vuole essere chiamato egli, Jeronimo Muzio, il cui scrivere, secondoché ho più volte a voi medesimo sentito dire, è molto puro, e Fiorentino? E pure dice egli stesso che la lingua volgare, nella quale egli scrive, come è, così si dee chiamare Italiana, non Toscana, o Fiorentina.

V.

Voi mi volete mettere alle mani, e in disgrazia di tutti gli amici miei, anzi farmi malvolere a tutto il mondo. Il Muzio la intende così per le ragioni, che egli allega, e io l'intendo in un altro modo per le ragioni che io dirò nel suo luogo.

C.

Il terzo dubbio è questo.

Voi diceste che quasi tutte le lingue d'Italia sono verso la Fiorentina diverse diseguali.

Ora io vorrei sapere perché voi diceste quasi tutte, e non tutte assolutamente.

***********************************************

Ce n'è forse qualcuna che non sia tale?

V. Eccene.

C. Quale?

V.

La Nizzarda, la quale non è diversa diseguale dalla Fiorentina, ma semplicemente altra.

C.

Perché?

V.

Perché quei da Nizza favellano con una lor lingua particolare, la quale, come dice il Muzio, non è né Italiana, né Francesca, né Provenzale.

C.

****************************************
****************************************

Mi pare molto strano che una lingua si
favelli naturalmente da un popolo
d'una città d'Italia, e non
sia Italiana.

*********************************** genial!
***********************************

V.

Questo è non solamente molto strano, ma del tutto impossibile, non si sappiendo la lingua de' Nizzardi favellare in alcun luogo, né avere avuto l'origine sua altrove che quivi.

Ma egli debbe voler dire che ella non è, come l'altre d'Italia, le quali, se non si favellano dagli altri Italiani, pure s'intendono, se non del tutto, almeno nella maggior parte.

C.

Come si può chiamare la lingua Volgare Italiana, ed essere una lingua, se nella medesima Italia si truovano delle lingue, le quali non si possono scrivere, e per conseguenza sono barbare, e di quelle, che non solo non si favellano dagli altri popoli d'Italia, ma ancora non s'intendono, e per conseguenza sono semplicemente altre?

Questo è quasi come dire, secondo il poco giudizio mio, come chi dicesse un uomo esser uomo, e non essere uomo, cioè razionale, e non razionale, ovvero aver la ragione, e mancar del discorso.

V.

Voi cominciate a entrare per la via, ma di tutto si favellerà al luogo suo.

C.

Al nome di Dio sia.

Il quarto, e ultimo dubbio è questo.

Voi tra le lingue moderne lodate più di ciascuna altra l'Italiana mettendola innanzi a tutte, e Messer Lodovico Castelvetro scrive nella sua divisione delle lingue queste parole stesse.

La lingua Spagnuola, e Francesca sono pari d'autorità all'Italiana.

E ne soggiugne la ragione seguitando così: avendo esse i suoi scrittori famosi non meno che s'abbia la Italiana i suoi.

V.

Ecco l'altra da farmi tenere un presso che io non dissi, e odiare eternalmente infino dagli Oltramontani; ma poiché io sono entrato in danza, bisogna (come dice il proverbio) che io balli. Io non so, se Messer Lodovico cercò con sì poche parole di guadagnarsi, e farsi amiche due provincie così grandi, e così onorate, o se pure egli crede quello, che dice, come (per pigliare ogni cosa nella parte migliore) voglio credere che egli creda, amando io meglio d'esser tenuto troppo credulo, che troppo schizzinoso; so bene che io infino a tanto che egli non nomina quali sieno quegli scrittori o Franceschi, o Spagnuoli, i quali possano stare a petto, e andare a paragone di Dante, del Boccaccio, del Petrarca, e di tanti altri Italiani, non gliele crederrò.

C.

E manco io, perché non credo che si truovi scrittore niuno né Spagnuolo, né Franzese, il quale sia tanto letto, e nominato nell'Italia, per tacere degli altri luoghi, quanto è Dante, il Boccaccio, e 'l Petrarca, o volete nelle Spagne, o volete nella Francia.

V.

Il più bello, e più lodato scrittore che abbia la lingua Castigliana, che dell'altre non si tiene conto, è in versi Giovanni di Mena, perché non favello de' moderni, e in prosa quegli, che intitolò il suo libro: Amadis di Gaula, il quale è stato da Messer Bernardo Tasso in ottava rima tradotto, e in breve, secondoché mi scrisse egli medesimo, si potrà vedere stampato; e in amendue questi Autori gli Spagnuoli, i quali hanno lettere, e giudizio (che io per me non intendo tanto oltra né della lingua Spagnuola, né della Franzesa, che io possa giudicarne), notano, e riprendono molte cose così d'intorno alla intelligenza, e maestria dell'arte, come alla purità, e leggiadria delle parole, delle quali io ve ne potrei raccontare non poche, ma egli non mi giova né difendere alcuno, o mostrarlo grande coll'offendere, e diminuire gli altri, né perdere il tempo intorno a quelle cose, le quali tengo che sieno, e sieno tenute da i più, o da' migliori manifeste per se medesime.

C.

Dalle cose dettesi possono, oltra l'altre, cavare (se io non m'inganno) tre conclusioni.

La prima, che delle lingue vive, o volgari, cioè, che si favellano naturalmente da alcun popolo, l'Italiana, o piuttosto la Fiorentina, avanza, e trapassa tutte l'altre.

V.

Non pure si può dire, ma si dee, e anco aggiugnervi di lunga pezza.

C.

Guardate, che l'affezione non vi faccia mettere troppa mazza, perché quelli, che Fiorentini non sono, non direbbono per avventura così.

V.

Eglino il doverrebbono dire, anzi lo direbbero, se volessono dire il vero, anzi l'hanno detto.

Udite, per vostra fe, quello che preponendola alla sua natia Viniziana ne scrisse il Bembo.

Sicuramente dir si può, Messer Ercole, la Fiorentina lingua essere non solamente della mia, che senza contesa la si mette innanzi, ma ancora di tutte l'altre volgari che a nostro conoscimento pervengono, di gran luna primiera.

C.

Bella, e piena loda è questa, Messer Benedetto, del parlare Fiorentino, e come io stimo, ancora vera, poich'ella da istrano, e giudizioso uomo gli viene data.

La seconda conclusione è, che tutti coloro, i quali vogliono comporre lodevolmente, e acquistarsi fama, e grido nella lingua volgare, deono, di qualunque patria si siano, ancoraché Italiani, o Toscani, scrivere Fiorentinamente.

V.

E questo ancora testimonia il Bembo, dicendo in confermazione della sopraddetta sentenza.

Il che si può vedere ancora per questo, che con solamente i Viniziani componitori di rime colla Fiorentina lingua scrivono, se letti vogliono essere dalle genti, ma tutti gli altri Italiani ancora.

C.

Io per me non so come si potesse dirlo più specificatamente. La terza, e ultima conclusione, che segue dalla seconda, è che tutti gli altri parlari d'Italia, qualunque sieno, sono verso il Fiorentino forestieri.

V.

E anco questo conferma il medesimo Bembo nel medesimo luogo, cioè non lungi alla fine del primo libro delle sue Prose, con queste parole.

Perché voi vi potete tener contento, Giuliano, al quale ha fatto il Cielo natio e proprio quel parlare, che gli altri Italiani uomini seguono, ed è loro strano.

C.

E' mi piace che voi non la corriate, poiché i forestieri stessi confessano liberamente tutto quello, anzi molto più che voi non ne dite; cosa che io non avrei creduta, e certo se i Fiorentini avessono, e grossissimamente, salariato il Bembo, già non arebbe egli in favore della vostra lingua né più, né più chiaramente dire potuto.

V. La verità presso i giudiziosi uomini, e che non sieno dal fumo accecati delle passioni, produce di questi effetti.

C. Se io onorava prima il Bembo, ora l'adoro, ma passiamo a un altro quesito, che in questo non ho più da dubitare.

Se le lingue fanno gli scrittori, O gli scrittori le lingue

Quesito quarto

V. Io vi dissi, poco fa, che le lingue, come lingue non hanno bisogno di chi le scriva, perché tutte le cose si debbono considerare, e giudicare dal fine.

************************************************

Il fine di chi favella è aprir l'animo suo a colui che l'ascolta,
e questo non ha bisogno né dall'una parte, né dall'altra,
di scrittura, la quale è artifiziale, e
fu trovata per le cagioni,
che io allora vi raccontai, non altramente che furono trovate le vestimenta all'uomo, perché l'uomo come uomo non ha bisogno di vestirsi, ma il fa o per utilità, o per ornamento.

Onde non le lingue semplicemente, ma le lingue nobili hanno bisogno di scrittori.

C.

Io intendeva bene di coteste.

V.

Bisognava dirlo, affineché l'intendessi anch'io. Le lingue nobili non è dubbio, che hanno, non mica l'essere, ma l'essere nobili, o altramente che chiamare le vi vogliate, dagli scrittori, perché tanto è più chiara, e più famosa una lingua, quanto ella ha più chiari, e più famosi scrittori; e così gli scrittori sono quelli, che fanno non le lingue semplicemente, ma le lingue nobili. Ma dall'altro lato considerando, che se una lingua non fosse tale, che gli scrittori si potessono servire, e onorare di lei, eglino, se non fossero stolti, non vi scriverebbono dentro, si può dire in un certo modo che le Lingue facciano gli scrittori; certo è, che gli scrittori non possono essere senza le lingue, dove le lingue possono essere senza gli scrittori, ma non già nobili.

C.

Il Bembo, pare a me che dica altramente. Considerate, vi prego, queste, che sono sue parole formali: Perciocché non si può dire che sia veramente Lingua alcuna favella, che non ha scrittore. Già non si disse, alcuna delle cinque Greche lingue essere lingue per altro, se non perché si trovavano in quella maniera di lingue molti scrittori: Né la Latina lingua chiamiamo noi lingua solo che per cagion di Plauto, di Terenzio, di Virgilio, di Varrone, di Cicerone, e degli altri che scrivendo hanno fatto che ella è lingua, come si vede.

V.

Cotesta sentenza assolutamente non è vera; perciocché una favella la quale non abbia scrittori, si può, anzi si dee, solo che sia in uso, chiamar lingua, ma non già lingua nobile, e perciò è da credere che egli v'aggiugnesse quella particella veramente, chiamando veramente lingua quella, che noi chiamiamo lingua nobile, il che pare, che dimostri ancora la materia, della quale ragiona; conciossiacosaché volendo riprovare la falsa, e ridicola oppenione del Calmeta, il quale preponeva la lingua Cortigiana a tutte l'altre lingue, dice che ella non solamente non ha qualità da preporsi ad alcuna, ma che non sa, se dire si può che ella sia veramente lingua, allegando questa ragione, perché ella non ha scrittori. E chi non sa, che la favella Biscaina, o altre più strane, se più strane trovare se ne possono, sebbene non sono nobili, anzi inarticolate, e barbarissime, si chiamano nondimeno lingue?

E a provare che la lingua Cortigiana non è lingua,

**************************************************
basta dire che ella non è, e mai non fu naturalmente
favellata da niuno popolo.
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C.

Così pare a me, ma chi ha maggiore obbligo l'uno all'altro, lo scrittore alla lingua, o la lingua allo scrittore?

V.

A chi è più tenuta una statua, allo scultore che la fece, o al marmo del quale fu fatta?

C.

Io v'ho inteso; ma quali tenete voi degli scrittori che arrechino maggior nobiltà alle lingue, quelli di verso, o quelli di prosa?

V.

Quelli di verso.

C.

Per qual cagione?

V.

Perché, oltreché furon prima i Poeti, che gli Oratori, il modo di scrivere in versi è il più bello, il più artifizioso, e il più dilettevole di tutti gli altri.

C.

Perché?
V.

Lungo sarebbe, e fuori della materia nostra, entrare ora in questo ragionamento, e dichiararvi cotal cagione; bastavi sapere che tutti gli altri scrittori si maneggiano intorno a una maniera, e parte sola dell'eloquenza, dove i Poeti, come n'afferma Aristotile, si maneggiano semplicemente d'intorno a tutte; e anco vi doverreste ricordare, che i Poeti sono non solamente da Aristotile, ma eziandio da Platone, che gli cacciò della sua Repubblica, per le cagioni dette da noi nelle Lezioni nostre della Poetica, chiamati Divini, e la poesia cosa Divina. Né crediate che fosse trovato a caso, o per nonnulla, che solo i Poeti delle frondi dell'alloro, o del mirto, o dell'edera, e nessuno degli altri scrittori, coronare si dovessero.

C.

E' si truovano pur molti che gli biasimano, e scherniscono.

V.

E' si truovano ancora molti che bestemmiano, e dicono male de' Santi: non v'ho io detto che tutte le cose hanno ad avere il loro rovescio? Se gli uomini che sono veramente uomini, gli lodano tanto, e gli hanno in così grande venerazione, i contrarj debbono ben fare il contrario.

Ma il nostro proponimento non è né di lodare la Poesia, la quale non ha bisogno dell'altrui lode, né di difendere i Poeti, i quali ciò non curano; però proponetemi nuovo quesito.

Quando, dove, come, da chi, e perché ebbe origine la lingua volgare
Quesito quinto

V.

A volere che voi bene, e agevolmente tutti i capi di questa vostra dimanda insiememente intendere possiate, è necessario, che io mi faccia da lontano, e vi racconti alcune cose, le quali vi parranno per avventura o soverchie, o fuori di proposito, ma elleno alla fine non saranno né l'uno, né l'altro. Dico dunque, che dall'edificazione della città di Roma, la quale fu, secondoché per gli scrittori de' tempi si può agevolmente conoscere, l'anno della creazione del mondo tremila dugentonove, e innanziché CRISTO Salvator nostro nascesse, settecento cinquantadue, infino a questo presente tempo, che corre l'anno mille cinquecento sessanta, sono passati anni duemila trecento undici, in questo modo: sotto i sette Re dugento quarantaquattro: sotto i Consoli infino al primo Consolato di Giulio Cesare anni quattrocentosessantaquattro; dal quale Giulio Cesare cominciò, fornita quella de' Greci, la Monarchia de' Romani l'anno del mondo tremila novecentoquattordici. Da Giulio Cesare al nascimento di CRISTO anni quarantasei. Dal nascimento di CRISTO, donde s'incominciano gli anni della nostra Salute, a Filippo Imperadore trentesimo, il quale fu il primo che prese il battesimo, anni dugento quarantasei. Da Filippo a Costantino, il quale nell'anno trecento trentaquattro, lasciata Roma, andò ad abitare a Bizanzio, e dal suo nome la chiamò Costantinopoli, anni ottantaotto. Da questo Costantino ebbe principio l'Imperio Orientale, e poco meno che fine l'Occidentale, cioè quello di Roma. Da Costantino a Carlo Magno anni quattrocento sessantasette, dal quale Carlo Magno ricominciò, e risurse l'Imperio Occidentale, il quale era stato scherno, e preda de' Gotti, e d'altre nazioni barbare, e si trasferì ne' Franzesi l'anno ottocento uno. Da Carlo Magno infino a Carlo per soprannome Grosso anni settantasette. Da questo Carlo Grosso, che fu figliuolo di Lodovico Re de' Germani, cominciò l'Imperio ne' Tedeschi, dove è durato meglio di secento ottanta anni, e ancora dura. Dico oltra ciò che chi volesse considerare la vita, cioè la durazione della lingua Romana, ovvero Latina, secondo le quattro età dell'uomo, puerizia, adolescenza, virilità, e vecchiezza, potrebbe dire, la sua puerizia, ovvero fanciullezza essere stata da che ella nacque infino a Livio Andronico, il quale fu il primo scrittore, che ella avesse, che furono dall'edificazione di Roma anni cinquecento quattordici, nel qual tempo fu possibile, che si trovassero alcuni uomini, se non eloquenti, dotti; ma perché di loro non si trovarono scritture, se non pochissime, e di nessuno momento, il poterono gli antichi piuttosto credere, che affermare. Vedete quanto penò la lingua Latina innanzi non dico che ella fosse nobile, ma avesse scrittori, e pure fu, e si chiamava Lingua. Da Livio Andronico infino a' tempi che nacque, per mostrare quanti la lingua Latina avesse e frutti, e fiori, Marco Tullio Cicerone, che non arrivarono a cento quindici anni, fu l'adolescenza, ovvero gioventudine sua, nella quale ebbe molti scrittori, ma duri, e rozzi, e che più dovevano alla natura, che all'arte, come furono Catone, ed Ennio, i quali però si andavano digrossando, e ripulendo di mano in mano, e quanto più s'accostarono a quella veramente felicissima età, tanto furono migliori, come si può ancora oggi vedere in Plauto, le Commedie del quale, fuori solamente alcune parole e modi di favellare che erano nella bocca degli uomini di quella età, sono latinissime, e tanto proprie, che le Muse, se fosse stato loro necessario, o venuto a uopo il favellare, arebbono Plautinamente (come dicevano gli antichi) favellato. E per certo poche sono in Terenzio quelle parole, o maniere leggiadre di favellare, le quali in Plauto non si ritrovino. Puossi ancora vedere in Tito Lucrezio Caro, non meno puro, e pulito, che dotto, e grave Poeta. E nel secolo che Cicerone visse, s'innalzò tanto mercè della fertilità di quell'ingegno divino l'eloquenza Romana, che per poco, se non vinse, come alcuni credono, pareggiò la facondia Greca, e per certo quello senza dubbio nessuno fu il secolo delle lettere, e degli uomini letterati, essendo la lingua Latina, come nella sua maturità, al colmo di quella finezza, e candidezza pervenuta che si possa, se non desiderare, certo sperare maggiore; come si può ancora vedere ne' Commentarj di Cajo Cesare, e in quelle poche Storie che di Crispo Salustio rimase ci sono, per tacere di Catullo, di Tibullo, e di tanti altri infino al tempo di Vergilio, il quale uno combattè con Teocrito, superò Esiodo, e giostrò di pari con Omero. Morto indegnamente insieme colla libertà della Repubblica Romana Cicerone, cominciò la lingua Latina, o per essere già vecchia, o piuttosto per la proscrizione, e morte di tanti nobilissimi cittadini, a mutarsi, non a poco a poco cadendo, come avea ella fatto nel salire, ma quasi precipitando a un tratto, perché in minore spazio, che non sono centocinquanta anni si cangiò tanto da se medesima, che ella né pareva, né era più quella dessa: il che come conobbero, così testificarono prima Seneca, maestro di Nerone, e poi Cornelio Tacito, con alcuni altri, i quali nondimeno, qualunche cagione a ciò fare gli movesse, vollero scrivere piuttosto nella corrotta lingua del secolo loro, che ingegnarsi d'imitare, e ritornare alla sua degnità primiera l'incorrotta del secolo di Cicerone, e così andarono gli scrittori sempre di male in peggio, infinoché i diluvj delle nazioni oltramontane vennero a inondare l'Italia, e spegnere insieme coll'uso della lingua la potenza dell'Imperio di Roma. E qui bisogna sapere, che il primo de' Barbari, che passasse in Italia dopo la declinazione dell'lmperio, fu Radagasso Re de' Gepidi, il quale condusse con esso seco dugentomila Gotti, dico Gotti, perché cosi si chiamano comunemente, ancoraché fussino di diverse nazioni, e i Gotti medesimi divisi in tre parti, in Ostrogoti, in Visigoti, e in Ippogoti, cioè Gotti Orientali, Occidentali, e vagabondi. Costui dopo l'aver fatto molti danni, fu da Stillicone Vandalo Capitano d'Onorio, con tutta quella gente, sconfitto, preso, e morto ne' monti di Fiesole, che voi vedete colà, l'anno della Salute Cristiana quattrocento otto. Il secondo fu Alarico Re de' Visigoti, il quale aveva fedelmente servito l'Imperadore; ma tradito da Stillicone il giorno della Pasqua, lo ruppe il dì seguente, e andatosene per lo sdegno di cotale tradimento a Roma, la prese, e saccheggiò nell'anno quattrocento tredici, che fu appunto il millesimo centesimo sessagesimo quinto della sua edificazione. Il terzo fu Attila Re degli Unni, il quale ucciso Bleba, o Bleda, suo fratello occupò solo il Regno. Costui, al quale erano sottoposti il Re de' Gepidi, e il Re degli Ostrogoti, fatta una innumerabile, e poderosissíma oste, s'affrontò nella Francia ne' campi chiamati Catelauni coll'esercito Romano, al quale erano confederati, e congiunti i Gotti, e altri popoli di diverse nazioni, e fu rotto con tanta occisione, che alcuni scrivono che in quel conflitto furono tagliati a pezzi cento ottantamila corpi, e alcuni dugento sessantamila; certo è, che non fu mai più orribile, e più sanguinosa giornata da grandissimo tempo innanzi. Perché tornatosene in Ungheria, e fatto un nuovo esercito calò in Italia l'anno quattrocento cinquanta, e prese dopo tre anni Aquilegia. Prese, e disfece ancora Vicenza, Verona, Milano, Pavia, e molte altre città, e il medesimo arebbe fatto di Roma, se non che persuaso dalle preghiere di Papa Leone, se ne tornò in Ungheria: donde volendo ritornare in Italia, si morì una notte senza esser veduto, affogato dal sangue che in abbondantissima copia gli usciva del naso. Il quarto fu Genserico Re de' Vandali, il quale chiamato da Eudosia, moglie già di Valentiniano Imperadore, si partì dell'Affrica, e venne in Italia, dove presa, e saccheggiata Roma si ritornò vittorioso, e carico di preda tra' Mori. Il quinto fu Odoacre Re de' Turcilingi, e degli Eruli, il quale l'anno quattrocento settanta uno si fece Re d'Italia, e la signoreggiò quattordici anni. Il sesto fu Teodorico Re degli Ostrogoti, il quale, mandato in Italia da Zenone Imperadore, perché dal Re Odoacre la liberasse, rotto prima valorosamente presso ad Aquilegia, e poi ucciso fraudolentemente Odoacre, che l'aveva ricevuto per compagno del Regno in Ravenna, se ne fece signore l'anno quattrocento ottantacinque. Il settimo fu Totila, il quale creato da' Gotti, che erano sparsi per l'Italia, loro Re contra Belisario capitano di Giustiniano Imperadore l'anno cinquecento quarantatre assediò l'anno cinquecento quarantaquattro la città di Firenze, la quale soccorsa dalle genti Imperiali, che si trovavano in Ravenna, fu liberata. Totila l'anno cinquecento quarantacinque prese Napoli, e l'anno cinquecento quarantaotto Roma, la quale egli non solamente saccheggiò, ma disfece in gran parte, dimanieraché rimase disabitata; e il medesimo fece di molte altre città, tralle quali (secondo Giovanni Villani, benché molti credono altramente) fu la città di Firenze, poi Arezzo, Perugia, Pisa, Lucca, Volterra, Luni, Pontriemoli, Parma, Reggio, Bologna, Imola, Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, e molte altre, onde egli fu, e volle esser chiamato Totila Flagello di Dio, benché Giovan Villani, e alcuni altri attribuiscono queste rovine ad Attila, ma le storie dimostrano chiaramente, ciò non potere essere stato vero, se non di Totila, il quale, avendo Belisario uomo d'incredibile valore, prudenza, e bontà racquistato Roma, e fortificatola con incredibile diligenza l'anno 549. tostoché egli fu partito d'Italia, v'andò a campo, e l'ebbe l'anno 552. e contra quello che aveva fatto prima, s'ingegnò di rassettarla, e di farla abitare. Ma Narsete Eunuco uomo di gran valore mandato da Giustiniano in luogo di Belisario lo sconfisse, e uccise, e dopo lui vinse Teia suo successore, nel quale fornì il Regno degli Ostrogoti in Italia l'anno 555, la quale eglino avevano posseduta 70 . anni alla fila. L'ottavo fu Alboino Re de' Longobardi, il quale avendo vinto i Gepidi fu invitato, e sollecitato al dover venire in Italia da Narsete, dove si condusse con grandissimo numero di Longobardi, e ventimila Sassoni, e altri popoli, insieme colle mogli, e figliuoli loro, l'anno 572. e questi la possederono successivamente, se non tutta, la maggior parte sotto diversi Re, e trenta Duchi 204 . anni, cioè infino al 776 . quando dopo Pipino suo padre venne in Italia, alle preghiere di Papa Adriano, Carlo Magno, il quale gli sconfisse, e ne menò Desiderio, loro ultimo Re insieme colla moglie, e co' figliuoli prigione in Francia. Né voglio, che voi crediate che in quelli 368 . anni, che corsero dal 408 . che fu morto Radagasso, al 776 . che fu preso, e menato in Francia Desiderio, scendessero nell'Italia, e la corressero solamente quei tanti, e sì diversi popoli, ch'io ho come principali raccontato, perché vi discesero ancora i Franchi, i quali furono quelli, che diedero il nome alla Francia, e altre barbare nazioni; come si può vedere da chi vuole, nel libro de' tempi, che lasciò scritto Matteo Palmieri, il quale m'è paruto di dover seguitare. Fra tante miserie, e calamità, quante dalle cose dette potete immaginare voi piuttosto, che raccontare io, di tanti mali, danni, e sterminj, quanti sofferse sì lungamente in quelli infelicissimi tempi la povera Italia, ne nacquero due beni, la lingua Volgare, e la città di Vinegia, Repubblica veramente di perpetua vita, e d'eterne lodi degnissima.

C.

Cari mi sono stati senza fallo nessuno, e giocondi molto cotesti tre discorsi vostri: ma voi non mi avete dichiarato, né quando, né come particolarmente, cioè in che tempo, e in qual modo appunto, spenta, o corrotta la lingua Latina, si generasse, e nascesse la Volgare.

V.

Io il vi dichiarerò ora, e se potessi in tutte l'altre vostre dimande così bene soddisfarvi, come io posso in questa, a me per certo si scemerebbe, anzi leverebbe del tutto una gran fatica, e un gran pericolo, che mi soprastanno, e voi vi potreste chiamare compiutamente pago, e contento. Udite dunque quello, che risponde a cotesta stessa dimanda nel primo libro delle sue Prose il Bembo medesimo: Il quando (rispose Messer Federigo) sapere appunto, che io mi creda, non si può, se non si dice, che ella cominciamento pigliasse infino da quel tempo, nel quale cominciarono i Barbari ad entrare nell'Italia, e ad occuparla, e secondoché essi vi dimorarono, e tenner pié, così ella crescesse, e venisse in istato. Del come, non si può errare a dire, che essendo la Romana lingua, e quella de' Barbari tra se lontanissime, essi a poco a poco or une, or l'altre voci, e queste troncamente, e imperfettamente pigliando, e noi apprendendo similmente delle loro, se ne formasse in processo di tempo, e nascesse una nuova, la quale alcuno odore e dell'una, e dell'altra ritenesse, che questa Volgare è che ora usiamo, la quale se più somiglianza ha colla Romana, che colle Barbare avere non si vede, è perciocché la forza del natìo cielo sempre e molta, e in ogni terra meglio mettono le piante, che naturalmente vi nascono, che quelle, che vi sono di lontan paese portate. Senzaché i Barbari, che a noi passati sono, non sono stati sempre di nazione quelli medesimi, anzi diversi, e ora questi Barbari la lor lingua ci hanno recata, ora quegli altri, in maniera che ad alcuna delle loro grandemente rassomigliarsi la nuova nata lingua non ha potuto. Conciossiaché e Francesi, e Borgognoni, e Tedeschi, e Vandali, e Alani, e Ungheri, e Mori, e Turchi, e altri popoli venuti vi sono, e molti di questi più volte, e Goti altresì, i quali una volta trall'altre 70 . anni continui vi dimorarono. Successero a' Goti i Longobardi, e questi primieramente da Narsete sollecitati, siccome potete nell'istorie aver letto ciascuno di voi, e fatta una grande, e maravigliosa oste, colle mogli, e co' fgliuoli, e colle loro più care cose vi passarono, e occuparonla, e furonne per più di dugento anni posseditori. Presi adunque e costumi, e leggi quando da questi Barbari, e quando da quegli altri, e più da quelle nazioni che posseduta l'hanno più lungamente, la nostra bella, e misera Italia cangiò insieme colla reale maestà dell'aspetto eziandio la gravità delle parole, e a favellare cominciò con servile voce, la quale di stagione in istagione a' nipoti di que' primi passando, ancor dura, tanto più vaga, e gentile ora, che nel primiero incominciamento suo non fu, quanto ella di servaggio liberandosi ha potuto intendere a ragionare donnescamente.

C.

Del quando, e del come, poiché di loro maggiore contezza avere non si può, resto io, come debbo, alle parole d'un sì grande uomo soddisfattissimo. Ma ditemi, vi prego, più particolarmente alcuna cosa del dove, cioè in qual parte appunto, spenta, o corrotta la Latina, nascesse la Volgare lingua.

V.

Dovunque pervennero, e allagarono cotali innondazioni; perciocché non solamente in tutta l'Italia, ma eziandio in tutta la Francia, chiamata prima Gallia, e poco meno che in tutte le Spagne si mutarono per lo discorrimento di tanti Barbari lingue, e costumi.

C.

Così credeva ancora io; ma per lasciare dall'uno de' lati così le Spagne, come la Francia, se la lingua la quale era prima Latina, diventò Volgare in tutte, e in ciascuna delle parti d'Italia, perché volete voi che ella pigliando il nome piuttosto da Firenze, che forse in quel tempo non era, che da qual s'è l'una dell'altre città d'Italia, si chiami Fiorentina piuttosto, che Toscana, o Italiana?

V.

O io non ho saputo dire, o voi
non m'avete inteso.

********************************

Tutte le lingue, le quali naturalmente si
favellano, in qualunche luogo si favellino,
sono Volgari, e la Greca, e la Latina
altresì, mentreché si favellarono,
furono Volgari.
**********************************


Ma come sono diversi i vulgi che favellano, così sono diverse le lingue che sono favellate, perciocché altro è il volgare Fiorentino, altro il Lucchese, altro il Pisano, altro il Sanese, altro l'Aretino, e altro quello di Perugia.

C.

Dunque quanti saranno i volgari, tante saranno le lingue?

V.

Già ve l'ho io detto.

C.

Dunque quante città sono in Italia, tante sono le lingue?

V. Cotesto no.

C.

Per qual cagione?

V.

Perché anco molte castella hanno i volgari diversi, e per conseguenza le lingue.

C.

Io credo che voi vorrete dire a mano a mano, che il parlare di Montevarchi, o di San Giovanni, o di Figghine, o forse ancora quello di Prato, il quale è più vicino a Firenze, sieno diversi dal Fiorentino, perché di quello dell'Ancisa, onde discese il Petrarca, non mi pare che si possa, o si debba dubitare.

V.

Mettetevi pure anche cotesto, perché tutti quanti in alcune cose sono diversi dal Fiorentino, avendo o varie pronunzie, o varie parole, o varj modi di favellare, che siccome sono loro proprie, così sono diverse da quelle de' Fiorentini, i quali sebbene l'intendono, non però le favellano, e conseguentemente cotali parole, o pronunzie sono diverse dalle loro.

Ben'è vero, che la diversità e la differenza non è né tanta, né tale che non si possano, chi sottilissimamente guardare non la vuole, sotto la lingua Fiorentina comprendere, perché altramente bisognerebbe non dividere le lingue, ma minuzzarle, non farne parti, ma pezzi, e brevemente non distinguerle, ma stritolarle, e farne minuzzoli.

C.

L'oppenione di Messer Jeronimo Muzio è in questa parte del dove molto dalla vostra diversa.

V.

Me ne sa male, ma qual'è la sua oppenione?

C.

Che il nascimento della lingua Volgare, la qual'egli vuole a tutti i patti, che si chiami Italiana, non fosse in Toscana, ma in Lombardia, nella quale i Longobardi tennero principalmente lo scettro più di 200 . anni; e quindi di luogo in luogo stendendosi s'ampliasse per tutta l'Italia, e che la Toscana fosse degli ultimi paesi, dove questa lingua penetrasse.

Nella quale Toscana, ritrovandosi ella fra i Romani, che più del Latino ritennero che gli altri uomini Italiani, e i Lombardi, che più del Barbaro participarono, venne fatto fra questi due estremi una mescolanza più che altrove bella, e leggiadra.

Confessa bene che la Toscana le ha dato alcun'ornamento, e forse molti, ma non già tutti, ma che questo non basta a doverla far chiamare altramente che Italiana; anzi si maraviglia de' Toscani, e pare che gli riprenda, i quali non contenti che ella degni d'essere loro cittadina, vogliono senza ragione involarla a coloro di chi ella è propria, e usurparlasi per naturale. E perché non paja ch'io trovi, e canti, le sue parole proprie nella Lettera al Signor Rinato Trivulzio favellando de' Toscani sono queste: Ma siccome fra loro si può dire, che ella ha avuto l'ornamento, così ardisco io d'affermare che ella fra loro non ebbe il nascimento: di che non so con qual ragione vogliano involarla a coloro tra' quali ell'è nata, e da' quali ella è a loro passata: e può ben loro bastare assai, che ella degni d'essere loro cittadina, senza volerlasi usurpare ancor per naturale.

V.

Queste sono parole molto grandi, e da niuno altro dette, delle quali nondimeno può ciascuno credere quello, che più gli pare.

C.

Voi che ne credete? E che vi pare che credere se ne debbia?

V.

Dove sono le storie di mezzo, non occorre disputare, e più di sotto nel luogo suo si confuteranno assai, per quanto stimo, agevolmente tutte le ragioni da lui in quella lettera allegate.

C.

Confutate intanto questa, e ribattetela, la quale è dirittamente contraria all'oppenione vostra; che se egli disse così de' Toscani, pensate quello arebbe detto, o sia per dire, de' Fiorentini.

V.

Io ho il Muzio per uomo non solamente dotto, ed eloquente, ma leale, che appresso me molto maggiormente importa, e credo che egli dicesse tutto quello che egli credeva sinceramente, ancoraché quando stette una volta trall'altre in Firenze, dove io con mio gran piacere conversai molto seco in casa la Signora Tullia Aragona, furono da certi dette cose di lui d'intorno a' suoi componimenti per lo non potere egli per l'essere forestiero scrivere bene, e lodatamente nell'idioma Fiorentino, le quali non senza cagione, e ragione lo mossero a sdegno, onde egli contra quei tali, parendogli che fossero, come per avventura erano, mossi da invidia, compose, e mandò alla Signora Tullia, donna di grandissimo spirito, e bellissimo giudizio, questo Sonetto che voi udirete: Donna, l'onor de' cui bei raggi ardenti M'infiamma 'l core, ed a parlar m'invita, Perché mia penna altrui sia malgradita, L'alto vostro sperar non si sgomenti. Rabbiosa invidia i velenosi denti Adopra in noi mentre il mortale è in vita: Ma sentirem sanarsi ogni ferita, Come diam luogo alle future genti. Vedransi allor questi intelletti loschi In tenebre sepolti, e 'l nostro onore Vivrà chiaro, ed eterno in ogni parte: E si vedrà che non i fiumi Toschi, Ma 'l ciel, l'arte, lo studio, e 'l santo Amore Dan spirito, e vita a i nomi, ed alle carte. La sentenza di questo Sonetto pare a me che sia verissima.

C. E a me; ma e' mi pare ancora che voi fuggiate la tela.

V. A voi sta bene cotesta traslazione: a me, che non son giostrante, bastava dire, il ranno caldo.

C.

Attendete pure a menare il can per l'aja.

Ma se non dite altro, io per me crederò che

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la lingua materna, o paterna de' Fiorentini

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sia loro non originale, come credete voi, ma venuta loro di Lombardia, come pruova il Muzio.

V.

Cotesto non voglio io, che voi facciate, se prima non udite e le sue ragioni, e le mie, le quali affineché meglio intendere possiate, e più veramente giudicarle, riducendole in alcuna forma di sillogismo, dirò così: Le lingue si debbono chiamare dal nome di quei paesi, ovvero luoghi, dove elle nascono; la lingua Volgare non nacque in Toscana, ma vi fu portata di Lombardia, dunque la lingua volgare non si debbe chiamare Toscana, ma Italiana. Primieramente la conclusione di questo sillogismo è diversa dalle premesse, e conseguentemente non buona, perché la conchiusione doveva essere solamente: Dunque la lingua Volgare non si debbe chiamare Toscana, ma Lombarda.

C.

È vero; ma che rispondereste voi a cotesta conseguenza?

V.

Lo lascerò giudicare a voi.

C.

E a chi dicesse:

La lingua Volgare non nacque in Toscana.

Poi conchiudesse.

Dunque la lingua Volgare non si debbe chiamare Toscana.

Che risponderete voi?

V.

Che so io.

Prima gli dimanderei donde ella venne, e rispondesse quello che egli volesse, perché tutti confessano, la lingua Toscana essere la più bella, e più leggiadra di tutte l'altre, si verrebbe al medesimo impossibile, o inconveniente.

C.

È vero, ma chi dicesse: Ella nacque in Lombardia, dunque è Lombarda, e volesse stare in su questa perfidia, che ella fosse Lombarda, dove ella nacque, che fareste voi.

V.

Come quei da Prato, quando piove.

C.

Che fanno quei da Prato, quando piove? E che volete voi dire?

V.
Vo' dire, che ve lo lascerei stare, se dicesse ciò come voi dite, non per intendere, ma per contendere.

C.

E a chi dicesse ciò non per contendere, ma per intendere.

V.

Negherei la minore, cioè la lingua Toscana non essere originale alla Toscana.

C.

E come lo provereste?

V.

Il provare toccherebbe a lui, che chi afferma, non chi niega, debbe provare.

C.

Ponghiam caso che toccasse a voi, che direste?

V.

Direi, lei esser falsa.

C.

Perché?

V.

Per due cagioni, la prima delle quali è, che egli non si ricerca necessariamente a volere che un popolo muti la sua lingua, che coloro i quali sono cagione di fargliele mutare, dimorino tra loro più di 200 . anni, né altro tempo diterminato, ma bastare che vi stieno tanto, che si muti, la qual cosa per diverse cagioni può e più tardi, e più per tempo avvenire; la seconda ragione è, che io direi non esser vero semplicemente quello che semplicemente afferma il Muzio, e ciò è, ch'i Barbari stessino poco tempo in Toscana, o vi facessino poco danno, o non vi si approssimassino, e lo proverei mediante le storie.

C.

Perché dite voi semplicemente?

V.

Perché se in Toscana non dimorò lungo tempo una nazione sola, come i Longobardi in Lombardia, ve ne dimorò nondimeno successivamente ora una, e quando un'altra, o i capi, e rettori, e anco perché, essendo i barbari o in tutta, o nella maggior parte padroni d'Italia, bisognava, che ciascun popolo per poter conversare, e fare le bisogne sue, s'ingegnasse, anzi si sforzasse, di favellare per essere intesi nella lingua di coloro, da cui bisognava, che intesi fossero.

C.

Questo non ha dubbio; ma se Firenze in quei tempi era stata disfatta da Totila, come di sopra voi accennaste, e testimonia Giovan Villani, come potette ella corrompere, e mutare la sua lingua?

V.

L'oppenione di molti è, che Firenze mai disfatta non fosse; e, se pure fu disfatta, non fu disfatta in guisaché ella non s'abitasse: poi quando bene fosse stata distrutta in guisaché abitata non si fosse, i cittadini di lei abitavano sparsamente per le ville d'intorno, e nelle terre vicine, e bisognando loro procacciarsi il vitto, o altre cose necessarie, erano costretti andare ora in questa città, ed ora in quella eziandio fuori di Toscana, e civanzarsi il meglio che potevano, ricorrendo, e servendo a coloro che n'erano padroni, e signori. E chi sa che al tempo di Totila, il quale dicono, senza provarlo, che ne fu il distruttore, Firenze non avesse già, se non in tutto, in parte mutato la lingua? Perché, seguitando il ragionamento, che voi m'interrompeste, dico, che sebbene Radagasso non si fermò in Toscana, come afferma il Muzio, egli vi si fermarono le sue genti, perché la moltitudine de' prigioni fu in sì gran numero, che si vendevano a branchi, come le pecore, per vilissimo prezzo, onde ciascuno che volle, che molti dovettero volere, potette comperarne; e così se ne riempie, per non dir l'Italia, tutta Toscana: oltra ciò ancoraché i Longobardi facessero la loro residenza in Pavia, eglino però crearono trenta Duchi, e di quì cominciò il nome di Duchi, i quali governavano le terre a loro sottoposte: e Desiderio quando fu fatto Re de' Longobardi, era Duca di Toscana; e, se vorrete leggere le storie de' Gotti, troverrete essere verissimo tutto quello, che io v'ho narrato, e molto più, sì di tutta Toscana, e sì particolarmente di Firenze.

C.

Io non dubito di cotesto, ma vorrei sapere, perché la mescolanza, che si fece in Firenze di queste lingue, fosse (come afferma il Muzio) più bella, e più leggiadra, che altrove.

V.

Oh voi dimandate delle gran cose, ma io vi risponderò come vi si viene; per la medesima, che le mescolanze dell'altre città furono men belle, e men leggiadre di quella di Firenze.

C.

Non guardate a quello si viene a me, ma a quello, che s'aspetta a voi, e ditemi quello, che voi volete dire. V. Vo' dire, che queste cose non si possono né sapere a punto, né dire affermatamente. Forse fu quella che racconta nella sua lettera il Muzio; e forse perché i Fiorentini, come sottili, e ingegnosi uomini che sono, e furo no sempre, seppero meglio, e più tosto ripulirla, che gli altri popoli; e forse correva allora sopra Firenze una costellazione così fatta, perché dal cielo, e non d'altronde, ci vengono tutti i beni.

C.

Mi basta, mi basta.

Passiamo più oltra.

Se la lingua volgare è una nuova lingua da se, o pure l'antica latina guasta, e corrotta

Quesito sesto

V.

Coloro che vogliono biasimare questa lingua, moderna, e avvilirla, i quali per l'addietro sono stati molti, e oggi non sono pochi e tra questi alcuni di grande, e famoso nome nelle lettere Greche, e nelle Latine, dicono, tale essere la lingua Volgare, per rispetto alla Latina, quale la feccia al vino, perché la Volgare non è altro che la Latina guasta, e corrotta oggimai dalla lunghezza del tempo, o dalla forza de' Barbari, o dalla nostra viltà. Queste sono le loro parole formali, dalle quali può ciascuno conoscere chiaramente, loro oppenione essere che la lingua Latina antica, e la Volgare moderna non sieno, né sieno state due lingue, ma una sola, cioè l'antica guasta, e corrotta.

C. E voi che dite?

V.

Che elle sono due, cioè, che la Latina antica fu, e la Volgare moderna è una lingua da sé.

C.

E come risponderete alle loro ragioni?

V.

Io non veggo, che alleghino ragione nessuna, anzi, se io intendo bene le loro parole, e' mi pare che implichino contradizione.

C.

Che significa implicare contradizione?

V.

Dire cose non solamente tra se contrarie, ma eziandio contradittorie.

Dir cose che non possano stare insieme, anzi tolgano, ed uccidano l'una l'altra.

E brevemente, dir "sì", e "no", "no", e "sì", d'una cosa stessa in un tempo medesimo, come fanno coloro che giuocano il giuoco delle gherminelle, ovvero, che l'è dentro, e che l'è fuori.

C.

Mostratemi in che modo contradicano a sé stessi.

V.

E' dicono, che la lingua nuova Volgare è l'antica Latina, ma guasta, e corrotta.

Ora voi avete a sapere che la corruzione d'una cosa è (come ne insegna Aristotile) la generazione d'un'altra, e come la generazione non è altro, che un trapassamento dal non essere all'essere, così la corruzione, come suo contrario, altro non è che uno trapasso, ovvero passaggio dall'essere al non essere.

Dunque se la lingua latina si corroppe, ella venne a mancare d'essere, e perché nessuna corruzione può trovarsi senza generazione, benché Scoto pare che senta altramente, la lingua italiana volgare venne ad acquistare l'essere, di che segue che la lingua italiana volgare, la quale è VIVA, non sia una medesima colla Latina, la qual'è spenta, ma una da sé.

C.

Così pare anco a me; ma io vorrei che voi procedeste più grossamente, e alquanto meno da filosofo, affineché non paresse che voi, che fate professione di volere esser lontano da tutti i sofismi, e da ogni maniera di gavillazione, voleste stare in sul puntiglio delle parole, e andar sottilizzando le cose, come fanno i sofisti.

V.

Voglia Dio ch'io non sia pure troppo grosso, e troppo grossamente proceda.

Ditemi quello, che voi volete inferire, e io, se saprò, vi risponderò, che non cerco, né voglio altro, che la mera, pretta, e pura verità.

C.

Io penso, che quando e' dicono guasta, e corrotta, che non vogliano intendere della corruzione propriamente, come avete fatto voi, ma vogliano significare per quella parola corrotta, non corrotta, ma mutata; e l'esempio addotto da loro della feccia del vino pare, che lo dimostri.

V.

Voi procedete discretamente, e piacemi fuor di modo la lealtà vostra; ma secondo me ne risulterà il medesimo, o somigliantissimo inconveniente, perché una cosa può mutarsi, ed essere differente da un'altra cosa, o da sé medesima, in due modi principalmente, o secondo le sostanze, o secondo gli accidenti.

Le mutazioni, e differenze sostanziali fanno le cose non diverse, o alterate, ma altre, perché mutano la spezie, onde si chiamano differenze specifiche; e di quì nacque il verbo specificare, e le cose che sono differenti tra loro di differenza specifica, si chiamano essere differenti proprissimamente da' filosofi; onde l'uomo per lo essere egli razionale, cioè avere il discorso, e la ragione, la quale è la sua propria, e vera differenza, cioè la specifica, è diverso di spezie da tutti quanti gli altri animali, i quali, perché mancano della ragione, e del discorso, si chiamano irrazionali. Le mutazioni, e differenze accidentali fanno le cose non altre, ma alterate, cioè non diverse nella sostanza, e per conseguente di spezie, ma mutate, e variate solamente negli accidenti; e queste sono di due maniere, perché degli accidenti alcuni sono separabili dal loro subbietto, cioè si possono levare, e tor via, e alcuni all'opposto sono inseparabili, cioè non si possono torre, e levar via dal loro subbietto. Gli accidenti inseparabili sono, come verbigrazia l'essere camuso, cioè avere il naso piatto, e schiacciato, essere monco, o menno, essere cieco da natività, o zoppo di natura; e le cose, che sono differenti tra sé, mediante cotali accidenti inseparabili, si dicono essere differenti propriamente; onde chi è di naso aquilino, chi ha le mani, o il membro naturale, chi vede lume, chi cammina dirittamente, è ben differente da quei di sopra che mancano di queste cose, non già proprissimamente, e di spezie, perché tutti sono uomini, ma propriamente, cioè negli accidenti, come chi ha un frego, o alcuna margine che levare non si possa, è differente in questo accidente da tutti gli altri, che non l'hanno. Gli accidenti separabili, sono come esser ritto, o stare a sedere, favellare, o tacere, perché uno che cammina, è differente da uno che stia fermo, o ancora da sé medesimo; così uno quando cavalca, è differente da sé medesimo, o da un altro, quando va a pié, ma perché chi sta cheto, può favellare, e chi favella, star cheto, si chiamano cotali accidenti separabili, e le cose che tra se sono per tali accidenti diverse, e differenti, si chiamano differenti, e diverse comunemente.

C. Datemene di grazia un poco d'esempio.

V.

Il vino (per istare in sull'esempio posto da loro) quando piglia la punta, o diventa quello che i Latini chiamavano "vappa", o "lora", e noi diremmo "cercone", si muta, ed è differente da se stesso, quando era buono, ma non già secondo la sostanza.

Perché non solo gli rimane la sostanza del vino, ma ancora il nome, chiamandosi "vino forte", o "vin cattivo", o altramente; e sebbene mutasse il nome, basteria che gli rimanesse la sostanza; ma quando diventa "aceto", si muta, ed è differente da se medesimo secondo la sostanza, perché avendo mutato spezie, non è, e non si chiama più "vino".

Onde non può, mediante alcuno medicamento, ritornare mai più all'esser primiero, per quella cagione medesima che i morti non possono risuscitare; dove quegli altri vini potrebbono mediante alcuna concia ritornare per avventura buoni, come gli uomini infermi possono ritornar sani.

Stando queste cose così, io vorrei che voi, o eglino, mi diceste di qual mutazione intendono, quando, dicono, la lingua italiana nostra essere la medesima lingua latina antica, ma guasta, e corrotta, cioè mutata in questa popolare.

Perché non potendo essi intendere di mutazione, e differenza sostanziale, che fa le cose altre, e non alterate, o diverse, perché contradirebbero a loro stessi, è necessario, che intendano di differenza, e mutazione accidentale, la quale fa le cose diverse, o alterate, e non altre, non mutando la spezie, o sia separabile cotale accidente, o sia inseparabile.

Del ché segue che eglino sieno nel medesimo errore, che prima.

C.

E perché?

V.

Perché vogliono, che una cosa sia uomo, e non sia razionale.

C.

In che modo?

V.

Voi l'avreste a conoscere da voi medesimo, mediante la diffinizione, e divisione delle lingue.

Ditemi, la lingua Latina intendesi ella da noi, e si favella naturalmente.

O pure bisogna impararla?

C.

Impararla, e con una gran fatica, pare a me, e mettervi dentro di molto tempo, e studio, e a pena che egli riesca.

V.

Dunque la lingua Latina è altra, non diversa, o alterata.

C.

Messer sì.

V.

Dunque non è la medesima.

C.

Messer no.

V.

Dunque la lingua Latina antica non è la Volgare guasta, e corrotta, cioè mutata.

C.

No.

V.

**********************************************
Dunque la lingua Latina, e la lingua italiana volgare
non sono una, ma DUE LINGUE, una mezza viva, perché si scrive,
e non si favella, e l'altra viva affatto, perché si scrive, e
si favella naturalmente.
***********************************************

C.

Così sta, né può, per quanto intendo io, stare altramente.

Ma veggiamo un poco.

E' danno un altro esempio, dicendo che la lingua italiana volgare è la medesima che la lingua antica latina, ma essere avvenuto alla lingua Latina, come avverrebbe a un fiume bello, e chiaro nel quale si facesse sboccare uno stagno pieno di fango, o un pantano di acqua marcia, e puzzolente, il quale intorbidandolo, tutto lo guastasse, e corrompesse.

V.

Degli esempli se ne potrebbero arrecare pur assai, ma come la più debole pruova, e il più frivolo argomento che si possa fare, è l'esemplo, così il confutare gli esempli, e il riprovargli è molto agevolissimo; e Messer Lodovico Boccadiferro, vostro cittadino, e mio precettore, che fu eccellentissimo filosofo, usava dire che tutti gli argomenti del sicut, ovvero del come, zoppicavano, perché in tutti si truova alcuna diversità.

Ma torniamo al caso nostro.

Se l'acqua di quel fiume, nel quale si fosse sgorgato un pantano, o uno stagno, si fosse mutata tanto, e in modo corrotta, che avesse variato la sostanza, ella, e conseguentemente quel fiume, sarebbe altra, e non alterata, o diversa, essendosi mutata sostanzialmente.

Ma se si fosse mutata accidentalmente, ella, e 'l fiume sarebbero alterati, e non altri, e per conseguenza i medesimi, sebbene in quello, o per quello accidente sarebbono da quello, che erano prima diversi.

Come, per non partire dall'esemplo di sopra, se noi versassimo sopra un boccale di vino un fiasco, o due d'acqua, quel vino infino che rimanesse vino, sarebbe alterato, e non altro, ma chi ve ne mettesse sopra un barile, il vino sarebbe altro, e non alterato, benché altro comprenda alterato, perché non sarebbe più vino, ma acqua.

C.

Io vorrei così sapere, perché cotestoro, essendo tanto letterati, ed eloquenti nella lingua Greca, e Latina, quanto voi dite, allegano ragioni, e adducono argomenti, ed esempli, che con tanta agevolezza si possono, e così chiaramente ribattere, e confutare.

V.

A loro non dee parere, e forse non è, come a voi.

C.

E a voi non pare così?

V.

Pare.

Perché, se non mi paresse, non lo direi, ma e' mi pare anco che più non solo verisimile, ma eziandio più ragionevole sia che egli erri un solo, ancoraché non del tutto per avventura ignorante, che tanti, e tanto dotti.

Però bastivi avere l'oppenione mia, e tenetela per oppenione, e non per verità, infinattantoché troviate alcuno il quale sappia, possa, e voglia darvela meglio, che io non fo, e con più efficaci, e vere ragioni ad intendere.

C.

Così farò; ma ditemi intanto l'oppenione vostra perché voi credete che eglino alleghino cotali ragioni, argomenti, ed esempli.

V.

Ista quidem, vis est; forse perché non hanno delle migliori: forse non dicono come l'intendono; forse l'intendono male; e poiché voi potete, e volete sforzarmi, a me pare che molti, e forse la maggior parte degli odierni scrittori, vadano dietro non agli insegnamenti de' filosofi, che cercano solamente la verità, ma agli ammaestramenti de' retori, a cui basta, anzi è proprio, il verisimile. Ma lasciamo che ognuno scriva a suo senno, e diciamo essere possibile che come una sorte di retori antichi si vantavano del fare a lor posta, mediante la loro eloquenza, del torto ragione; e della ragione torto, così volessono far costoro, o almeno per mostrare l'ingegno, e la facondia loro, pigliassino a biasimare quello che, se non merita, pare a molti che meriti d'essere lodato.

C.

E come si può lodare una cosa che meriti biasimo, o biasimare una che meriti loda?

V.

Non dite come si può? Perché egli si può, e s'usa pur troppo: ma che egli non si doverrebbe.

C.

Intendo, che ciò si faccia con qualche garbo, e in guisa che ognuno non conosca manifestamente l'errore, e lo 'nganno.

V.

Io intendo anch'io così, perché dovete sapere non esser cosa nessuna in luogo veruno, da Dio ottimo, e grandissimo in fuori, la quale non abbia alcuna imperfezione; ma lasciamo stare le cose del Cielo. Come tutte le cose sotto la Luna, qualunche, e dovunche siano, hanno in se alcuna parte di bene, e di buono, e ciò viene loro dalla forma; così tutte hanno ancora alcuna parte di male, e di cattivo, e ciò viene loro dalla materia; e quinci è, che sopra ciascuna cosa si può disputare pro, e contra, e conseguentemente lodarla, e biasimarla, e chi fa meglio questo, colui è tenuto più eloquente, e più valente degli altri.

C.

La verità non è però se non una.

V.

No, ma io v'ho detto che i retori non pure non considerano, ma non hanno a considerare la verità, ma il verisimile.

E chi ricercasse da' retori la verità, farebbe il medesimo errore che chi si contentasse della probabilità ne' filosofi.

C.

Non potrebbe un retore, trattando qualche materia, dire la verità, e dirla ornatamente?

V.

Potrebbe, ma dove dicesse la verità, sarebbe filosofo, e non retore, e dove favellasse ornatamente, sarebbe retore, e non filosofo.

C.

Non potrebbe un filosofo dir la verità, e dirla ornatamente?

V.

Potrebbe, ma quando parlasse ornatamente, sarebbe retore, e non filosofo, e quando dicesse la verità, sarebbe filosofo, e non retore.

C.

Io non posso né vincerla con esso voi, né pattarla, pure egli mi pareva ricordare che lo esemplo forse de' poeti, e non degli oratori, de' quali è l'entimema, e che a' dialettici fosse proposto, non a' retorici, il probabile.

V.

E' vero, favellando propriamente, ma non pertanto possono i retori, e tutti, gli altri scrittori servirsi, e sovente si servono degli esempli; e la rettorica (dice Aristotile) è un pollone, ovvero rampollo della dialettica, nonostanteché altrove la chiami parte; ma ora non è il tempo di squisitamente favellare, e dichiarare queste cose per l'appunto.

C.

Seguitate dunque il ragionamento principale.

V.

Io mi sono sdimenticato a qual parte io era.

C.

La lingua italiana volgare essere una lingua da sé, e non la Latina antica, guasta, e corrotta.

V.

Ah ah sì.

Volete voi vedere, e conoscere quale è la lingua Latina antica corrotta, e guasta?

Leggete Bartolo.

C.

Cotesto non farò io, che voglio piuttosto credervi.

V.

E considerate il suo favellare, ovvero scrivere, e il medesimo dico di quello di molti altri dottori così di leggi, come di filosofia: guardate tutti i contratti de' notai.

C.

E anco cotesto, s'io non impazzo, non farò.

V.

Ponete mente a certi viandanti Oltramontani o paltonieri, o nobili che sieno, quando chieggono da mangiare agli osti, o dimandano della strada di Roma.

C.

Di cotesti ho io uditi, e conosco che dite il vero.

V.

Dovete ancora sapere che, sebbene la lingua Latina per tante discorrimenti de' Barbari si spense quanto al favellare, non perciò mancò mai che da qualcuno non si scrivesse.

Ora se ella insino al tempo di Cornelio Tacito, scrittore di storie diligentissimo, e verace molto, e di Seneca, grandissimo Filosofo nella setta degli Stoici, era mutata tanto da sé medesima, quanto scrivono, pensate quello che ella era poi ne' tempi de' Gotti, e de' Longobardi, e quali devevano essere le scritture di coloro che scrissero Latinamente infino a Dante, e al Petrarca, i quali, e massimamente il Petrarca, si può dire che non solo la rivocassino da MORTE, alla quale fu molte volte vicina, ma la ripulissero, e ringentilissero ancora.

E tuttavia se Dante avesse seguitato di scrivere il suo Poema, come egli lo cominciò, Latinamente.

Infera Regna canam, mediumque, imumq. tribunal, infelice lui, e povera la lingua nostra, che non voglio usare parola più grave, e nondimeno la colpa sarebbe più de' tempi stata, che sua, perché la lingua Latina era, come s'è detto, in quella stagione

POCO MENO CHE MORTA AFFATTO.

E se eglino risuscitare la potettero, o almeno fare che

ella non morisse, non poterono, perché ella le sue vergogne non mostrasse, coprirla abbastanza, non che ornatamente vestirla.

E così andò, se non ignuda, stracciata, e rattoppata, mantenendosi nondimeno, anzi crescendo, e avanzandosi infino all'età sopra la nostra, o piuttosto sopra la mia, essendo voi ancora giovane, anzi garzone, e molto più al principio della vita vostra vicino, che io lontano dal fine della mia, e tra gli altri, a cui ella molto debbe, fu principalmente Messer Giovanni Pontano da Spelle, benché, per lo essere egli stato gran tempo ai servigj dei Re d'Aragona, sia creduto Napoletano.

Questi molto l'accrebbe nel suo tempo, e le diede fama, e riputazione, tantoché finalmente dopo, o insieme coll'Accademia prima di Cosimo, e poi di Lorenzo de' Medici, a cui non pure le lettere così Greche, come Latine, ma eziandio tutte l'arti, e discipline liberali infinitamente debbono, nacquero il Bembo, e il Sadoletto, e alcuni altri.

I quali nella mia età e co' versi, e colle prose a quella altezza la condussero che poco le mancava a pervenire al suo colmo, e, come ella avea quelle degli altri trapassato, così alla perfezione del secolo di Marco Tullio arrivare.

Né mancano oggi di coloro, i quali con molta lode sua, e non picciola utilità nostra, brigano, e s'affaticano di condurlavi.

C.

Tutto mi piace.

Ma se la lingua italiana volgare, come voi mostrato avete, è una lingua da se non solo alterata, ma altra dalla lingua antica latina, egli è forza che voi concediate che ella (come essi dicono) sia una corruzione, e un pesceduovo fatto di mille albumi, essendo nata dalla mescolanza, e confusione di tante lingue, e tanto barbare.

V.

Andiamo adagio, perché in questo pesceduovo di tanti albumi furono ancora di molte tuorla.

Io non niego, che ella sia.

Dico bene, che ella non si dee chiamare corruzione.

C.

Dunque volete voi che quello che è, non sia.

V.

Anzi non voglio che quello che non è, sia.

C.

Io non v'intendo.

V.

Io mi dichiarerò; ma non dite poi, che io vada sottilizzando, e stiracchiando le cose, e brevemente fatemi ogn'altra cosa, che Sofista, perché io ho più in odio questo nome, che il male del capo; voi volete sapere l'oppenioni mie, e io le vi voglio dire, ma non posso, né debbo dirlevi, se non quali io l'ho, non volendo ingannarvi, come io non voglio, e in quella maniera che io giudico migliore.

Sappiate dunque che il medesimo Aristotile, il quale dice, che mai cosa alcuna non si corrompe, che non ne nasca un'altra, dice ancora che cotale atto non si dee chiamare corruzione, ma generazione, perciocché, oltraché i nomi si hanno a trarre dalle cose più perfette, e non dalle più imperfette, la natura non intende, e non vuole mai corruzione alcuna per sé, ma solamente per accidente, volendo ella solamente, e intendendo per se le generazioni.

****************************************
Dunque la mutazione della lingua Latina
nella Volgare non
si dee chiamar corruzione, ma
generazione.
******************************* excellent!

C.

Voi m'avete liberato, e sviluppato da un grande intrigo, conciossiacosaché io non sapeva come rispondere a coloro, i quali, seguitando l'oppenione comune chiamano la lingua che oggi si favella, non solamente corruzione, ma laidissima, e dannosissima corruzione, essendo ella nata di tante, e tanto barbare, e orribili favelle, e inoltre testimoniando le miserie nostre, e la servitù d'Italia.

E di più affermavano che d'un mescuglio, anzi piuttosto guazzabuglio di tante strane lingue era impossibile, che una ornata, o composta se ne fosse, la quale o bella, o buona chiamare si potesse.

V.

Il medesimo della Latina dire si potrebbe, perciocché ancora essa fu quasi una medesima corruzione, anzi generazione, dalla Greca, e da altre lingue.

C.

Quando vi si concedesse cotesto, si potrebbe rispondere, che la lingua Greca, e l'altre non erano barbare, come quella de' Goti, e de' Longobardi, oltraché i Greci non vinsero, e spogliarono i Romani dell'Imperio, ma furon vinti, e spogliati da loro; onde Roma non ne perdé la maggioranza, come al tempo di questa nuova lingua, anzi l'acquistò.

V.

Per rispondervi capopié, gran danno veramente fu per l'Italia, che il Dominio, e l'Imperlo de' Romani si perdesse; ma avendo egli avuto qualche volta principio, doveva ancora avere necessariamente fine, quando che fosse.

Il fine che li poteva venire in altri tempi, e modi, piacque a' cieli che venisse allora, e in quello; e anco, se volemo considerare le cagioni propinque, sene furono cagione essi medesimi coll'ambizione, e discordia loro.

E se la lingua Greca non è barbara, che dell'altre non voglio affermare, come una cosa buona non produce sempre cose buone, così non sempre le triste, cose triste producono; e chi non sa, che si trovano molte cose, le quali sole, e da sé sono cattivissime, e mescolate con altre divengono non buone, ma ottime? La teriaca, che noi chiamiamo utriaca, la quale è sì presente, e potente antidoto, non è ella composta di serpi, e altre cose velenosissime? E anche la lingua de' Goti, onde si cominciò a corrompere la Latina, e generarsi la nostra, non fu tanto barbara, quanto per avventura credono alcuni, posciaché Ovidio, il quale fu confinato, e morì tra' Geti, che poi furono chiamati Goti, o Gotti, vi compose dentro (come testimonia egli medesimo) quattro libri delle lodi d'Augusto; e molti di quei Re Goti, e Longobardi furono uomini non solo nell'arme, che di questo non ha dubbio nessuno, ma ancora ne' governi politici, eccellentissimi, come Teodorico. Ma, se io v'ho a dire il vero, queste non sono cose essenziali, e chiunche si crede provare con argomenti estrinseci la verità delle cose, è in quel medesimo errore che i Gentili, i quali volendo provare (secondoché racconta Aristotile) che i loro Dii erano, argomentavano così: I mortali edificano tempj, e fanno sacrifizio agli Iddii; dunque gl'Iddii sono. Sappiate, Messer Cesare mio, che chi volesse stare in su queste beccatelle, e andar dietro a tutto quello che dire si potrebbe, non finirebbe mai, e saria peggio che quella canzone dell'uccellino; perché si potrebbono addurre infinite ragioni le quali, se non fossino, parrebbono a proposito, e se non avessero l'essenza, arebbono almeno l'apparenza della verità.

C.

Dunque a chi volesse sofisticare, non mancherebbe mai né che proporre, né che rispondere?

V.

Non mai in eterno; e non crediate che sia nuova questa maladizione, perché è antichissima. Considerate in quanti luoghi, e con quali parole gli beffano tante volte, e riprendono così Platone, come Aristotile, mostrando evidentemente non solo di quanta vergogna siano alle lettere, ma eziandio di quanto danno al mondo; e con tutto ciò sempre sene trovarono.

C.

Io aggiugnerò questa volta da me, secondo l'usanza vostra, e sempre sene troveranno, posciaché nell'Universo debbono sempre, e necessariamente tutte le cose trovarsi.

V.

Tutte quelle, delle quali egli è capevole, e che conferiscono, cioè giovano, o al mantenimento, o alla perfezione sua. Ma conchiudendo oggimai diciamo, la lingua nostra Volgare essere lingua nuova da se, e non la Latina antica guasta, e corrotta, e doversi chiamare non corruzione, ma (come s'è dimostrato) generazione.

Di quanti linguaggi, e di quali sia composta la lingua volgare Quesito settimo

V.

Io so, e se io nol so, io penso di saperlo, qual cagione v'abbia mosso a dovermi fare questa dimanda; alla quale non mi pare di potervi rispondere, se io prima alcune cose non vi dichiaro. Dovete dunque sapere che ogni parlare consiste, come testimonia Quintiliano, in quattro cose, in ragione, in vetustà, ovvero antichità, in autorità, e in consuetudine, ovvero uso; ma al presente non accade che io se non della prima di queste quattro favelli, cioè della ragione. E perché la ragione delle lingue vien loro massimamente dall'analogia, e talvolta dall'etimologia, bisogna che io che cosa è propriamente etimologia, e che analogia vi dichiari: e questo non mi par di poter fare né convenevolmente, né a bastanza, se io non piglio un principio universale, e dico: Che tutte le cose che sono sotto il Cielo, o naturali, o artifiziali che elle sieno, sono composte di tutte e quattro queste cagioni; materiale, formale, efficiente, e finale, perché l'esemplare, e l'instrumentale, le quali poneva Platone, si comprendono sotto l'efficiente. La cagione materiale d'alcuna cosa è quella materia, della quale ella si fa, come il marmo, o il bronzo a una statua; la formale è quella che le dà la forma, cioè la fa essere quello che ella è, perché altramente non sarebbe più mortale, che divina, né più Giove, o Mercurio, che Pallade, o Giunone; l'efficiente è colui che la fa, cioè lo scultore; la finale è quello che muove l'efficiente a farla, o onore, o guadagno, o altro che ella sia; e questa è nobilissima di tutte l'altre. E le cose le quali non sono veramente composte di materia, e di forma, si dicono esser composte di cose proporzionali, e equivalenti alla forma, che è la principale, e alla materia, la quale è la men degna: anzi è tanto nobile la forma, che il tutto, che è composto della forma, e della materia, è men degno, che la forma sola. Stando queste cose così, dico che tutte le dizioni, ovvero parole di tutte le lingue sono composte ancora esse, e si possono considerare in elle queste quattro cagioni; la materiale sono le note, come dicono alcuni, cioè le lettere colle quali sono scritte, e notate; la formale è il significato loro; l'efficiente è colui che le trovò, o formò primieramente; ma perché le più volte gl'inventori, o formatori delle parole sono incerti, non sappiendo chi fosse il primo a trovarle, o formarle, si piglia in luogo dell'efficiente l'origine loro, cioè da che cosa, o per qual cagione fosseno così chiamate o da qual lingua si pigliassero; la finale è, come s'è tante volte detto, sprimere, e mandar fuor i concetti dell'intelletto.

C. Deh datemene un esempio.

V. Chi considerasse in alcun nome, verbigrazia, in questa voce pianeta le lettere colle quali ella è scritta, considererebbe la cagione materiale, cioè la sua materia; chi, quello che ella significa, la sua forma; chi, l'origine sua, cioè da cui fosse trovata, o perché così chiamata, o da qual lingua fosse stata presa, considererebbe l'efficiente; chi, a che fine fu trovata, la finale. Ora quando si considera la cagione materiale, cioè perché si dica più il pianeta in genere masculino, che la pianeta in femminino, come dissero alcuni antichi, e si va agguagliandola, e comparandola, mediante alcuna similitudine, o proporzione, dicendo, esempigrazia perché si dice ancora nel medesimo modo il poeta, il profeta, e altri così fatti nomi, questo è chiamato da' Latini con nome Greco Analogia, cioè proporzione: come chi dimandasse, perché si dice amare della prima congiugazione, e non amere della seconda, o d'altre congiugazioni, e se gli rispondesse, perché cotale verbo va, e si declina, come cantare saltare, notare, e altri di questa maniera, che sono della prima congiugazione, o veramente, perché questo verbo viene dal Latino, e i Latini faccendolo della prima congiugazione, dicevano così, cioè amare, e non amere. Ma chi considerasse la forma, cioè la significazione, e dimandasse, perché pianeta significa ciascuna di quelle sette stelle che così sono chiamate, segli rispondesse da un Toscano, perché questo vocabolo si tolse da' Latini, i quali l'avevano preso da un nome Greco che significa errore, ovvero da un verbo che significa errare, cioè andare vagabondo, onde pianeta non vuol dire altro che erratico, cioè vagabondo; questo si chiama da' Latini pur con nome Greco Etimologia, la qual parola tradusse, Cicerone, stando in sulla forza, e proprietà delle parole, non so quanto veramente, ora veriloquio, e talvolta notazione, e alcuni, originazione cioè ragione, e origine del nome; ma io, affinché meglio m'intendiate l'userò, come si fa ortografia, cioè retta scrittura, e altre voci Greche, nella sua forma primiera, senza mutargli nome. Queste due cagioni analogia, ed etimologia, delle quali la prima è, come s'è veduto, venendo ella dalla materia, accidentale, e la seconda, venendo ella dalla forma, essenziale, furono anticamente da molti con molte ragioni approvate. Marco Terenzio Varrone, il quale fu tenuto il più dotto uomo de' Romani ed eziandio il più eloquente, da Cicerone in fuora, ne scrisse diffusamente a Marco Tullio, come si può ancora vedere: ma io non intendo in questo luogo né d'approvarle, né di riprovarle; solo vi dirò che Platone perché teneva che i nomi fossero naturali, cioè imposti per certa legge, e forza di natura, secondo le nature, e qualità loro, ne fece gran caso, e spezialmente dell'etimologia, come si può vedere nel Cratilo; il che potette per avventura cavare dagli Ebrei, i quali tanto conto tennero della scienza de' nomi, che stimarono più questa sola, che tutte l'altre scienze insieme anziché la propria Legge scritta, dicendo, lei essere stata data da Dio a Moisè, non perché egli la scrivesse, come la Legge, ma perché si rivelasse a bocca di mano in mano a' più santi, e a' più vecchi, onde la chiamarono Cabala, mediante la quale, per forza della virtù de' nomi, e massimamente divini, si dice che operarono cose stupende, e infiniti miracoli. Ma Aristotile, il quale diceva che i nomi non erano dalla natura, ma a placito, cioè dall'arbitrio degli uomini, e che non voleva che i nomi, né altra cosa alcuna, eccetto le qualità, potessero produrre veruna operazione, se ne rideva.
C. Quale avete voi per migliore, e per più vera oppenione?
V. Domin, che voi crediate che io voglia entrare tra Platone, e Aristotile! Sappiate, che dove sì gran discepolo discorda da sì gran maestro, bisogna altro che parole a concordargli, o a trovarne la verità.
C. Io ho pure inteso dire più volte, e da uomini di profonda dottrina, che le discordie loro non consistono nelle sentenze, intendendo amenduni una cosa medesima, ma nelle parole, favellandole in diversi modi; e che il Pico scrisse, o aveva in animo di volere scrivere un'opera, e concordargli insieme, come si dice che fece già Boezio.

V. Io son d'oppenione, che in alcune cose si potrebbono talvolta concordare, ma in alcune altre non mai; benché questa non è materia nostra, però è bene trapassarla.

C. Io ricorrerò a quello che voi negare non mi potete, cioè qual sia l'oppenione vostra intorno all'etimologia.

V. Delle nostre: io credo che, se le lingue s'avessero a far di nuovo, e non nascessero piuttosto a caso, che altramente, che Platone avrebbe ragione, perché colui che ponesse i nomi alle cose, il quale ufizio è del Dialettico, doverrebbe porgli secondo le nature, e qualità loro quanto potesse il più, come è verisimile, non che ragionevole, che ne siano stati posti molti; ma perché la bisogna non va sempre così, io credo che Aristotile per la maggior parte dica vero; e se non vogliamo ingannare noi medesimi, l'etimologie sono spesse volte piuttosto ridicole che vere; onde Quintiliano, uomo di squisito giudizio, e di rara letteratura, si ride trall'altre di questa: Coeliglebs si chiama appresso i Latini uno il qual vive senza volere pigliar moglie, e l'etimologia di questo nome si dicea da un certo Grammatico essere, perché Coeliglebes voleva dire quasi Coeliglites, cioè che coloro i quali vivono senza moglie, vivono tranquilla, e beata vita, come gli Dii.

C. Io non credo che l'etimologia di cotesto nome dispiacesse oggi tanto a qualcuno, e gli paresse così falsa, quanto ella fece nel suo tempo a Quintiliano.

V. Voi sete troppo malizioso, e non ripigliate le cose a buon senso; basta, che delle etimologie antiche, o volete Greche, o volete Latine, ne sono molte forse meno vere, e più degne di riso, che le moderne Toscane di maestro Antonio Carafulla, il quale mai non fu dimandato di nessuna, che egli, così pazzo come era tenuto, non rispondesse incontanente.

C. Io ho sentito ricordarlo più volte, non vi paja fatica raccontarmene una, o due.

V. Dimandato il Carafulla, perché così si chiamasse la Girandola, rispose subitamente, perché ella gira, e arde, e dandola; e dimandato un'altra volta, onde avesse avuto il nome la Bombarda, rispose senza punto pensarvi sopra, perché ella rimbomba, e arde, e dà; voglio inferire che sopra l'etimologia non si può per lo più fare fondamento, se non debole, e arenoso da' Gramatici, non altramenteché i Dialettici, quando traggono gli argomenti dall'etimologia, sono bene probabili, ma non però pruovano cosa nessuna.

C. Come può stare che una cosa sia probabile, e non provi?

V. Ogni volta che Aristotile dice, la tal ragione esser probabile, o verisimile, o Dialettica, o Logica, vuol significare che ella non è buona, né vera ragione, perché non prova necessariamente, come debbono fare le buone, e vere ragioni; e insomma non sono da filosofi, sebbene anco i filosofi, e Aristotile medesimo argomenta talvolta dall'etimologia, della quale mirabilmente si servono gli oratori, e più ancora i poeti; onde il Bembo, che negli Asolani indusse Gismondo a rispondere a Perottino, il quale argomentando dalla ragione della voce, cioè dalla interpretazione del nome, e brevemente dall'etimologia del vocabolo, avea detto che amore essere senza amaro non poteva, alludendo, cioè avendo accennato (secondoché alcuni dicono) a quei versi del Petrarca: Questi è colui che 'l Mondo chiama Amore, Amaro, come vedi, e vedrai meglio Quando fia tuo, come nostro signore; usa nondimeno cotale argomento ne' Sonetti, come quando disse: Signor, che per giovar sei Giove detto. E Dante, nella cui opera si ritrovano tutte le cose, disse favellando di San Domenico nel dodicesimo canto del Paradiso: E perché fosse, quale era, in costrutto, Quinci si mosse spirito a nomarlo Del possessivo, di cui era tutto. E poco di sotto favellando del padre, e della madre di lui, e alludendo all'etimologia de' nomi soggiunse: O Padre suo veramente Felice O Madre sua veramente Giovanna Se 'nterpetrata val come si dice. E come poteva egli più chiaramente mostrare, l'argomento dell'etimologia potersi usare, ma non esser necessario, che quando disse: Savia non fui, avvengaché Sapia Fussi nomata, ec.? Lasciando dunque a' giureconsulti il disputare più a lungo della forza di questo argomento, conchiudiamo, che l'etimologie, sebbene servono molte volte, e arrecano grande ornamento così agli oratori, come a' poeti, non perciò provano di necessità, e meno l'analogie, sebbene, secondo loro, non solo si possono, ma si debbono formare alcune volte le voci nuove; e vi basti per ora di sapere ch'in tutte l'altre cose dee sempre prevalere, e vincere la ragione, eccettoché nelle lingue, nelle quali, quando l'uso è contrario alla ragione, o la ragione all'uso, non la ragione, ma l'uso è quello che precedere, e attendere si dee; onde Orazio non meno dottamente, che veramente, disse nella sua Poetica: Multa renascentur quae jam cecidere, cadentque Quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, Quem penes arbitrium est, et vis, et norma loquendi.

C.

Io mi ricordo d'aver letto uno Jacopo Silvio, e un Carlo Bovillo, i quali trattando Latinamente della lingua Franzese fanno alcune tavole, nelle quali secondo l'ordine dell'abbicci pongono molti vocaboli, i quali, per quanto dicono, essi sono dirivati parte dalla lingua Greca, parte dall'Ebraica, parte dalla Tedesca, e parte da altri linguaggi; avetegli voi veduti? E che giudicate? Che si debba loro prestare fede, o no?

V.

Io gli ho veduti, e letti, e oltra cotesti due, si vede medesimamente stampato un Guglielmo Postello, che fa il medesimo in un trattato, nel quale egli pone gli alfabeti di dodici lingue diverse; ma io, come confesso, che in tutte le lingue, e più nella nostra che in nessuna dell'altre, si trovano vocaboli di diversi idiomi, così niego che si debba dar piena fede a cotali autori.

C. Per qual cagione?

V. Prima perché per una etimologia la quale sia certa, e vera, se ne ritruovano molte incerte, e false: poi, perché coloro i quali fanno professione di trovare a ciascun nome la sua etimologia, sono bene spesso non pure agli altri etimologici, ma ancora a se stessi contrarj; oltraché egli non si ritruova voce nessuna in veruna lingua, la quale o aggiugnendovi, o levandone, o mutandovi, o trasponendovi lettere, come fanno, non possa didursi, e dirivarsi da una qualche voce d'alcuna lingua; senza che, egli non si può veramente affermare che un vocabolo, tuttoché sia d'origine Greca, e s'usi in Toscana, sia stato preso da' Greci. Verbigrazia, questa parola orgoglio è posta tra quelle degli autori che avete nominati, le duali dirivano dal Greco, e nondimeno i Toscani (per quanto giudicare si può) non da' Greci la presero, ma da' Provenzali: similmente parlare, e bravare, che io dissi di sopra esser venuti di Provenza, hanno secondo cotesti medesimi autori, l'origine Greca, e contuttociò i Toscani non dalla Greca lingua, ma dalla Provenzale è verisimile, che gli pigliassero. Né voglio che vi facciate a credere che una lingua, sebbene ha molti, non che alcuni, vocaboli d'una, o di diverse lingue, si debba chiamare di quella sola, o di tutte composta; perciocché sono tanto pochi che non fanno numero, o sono già di maniera dimesticati quei vocaboli, che sono fatti proprj di quella lingua; per non dir nulla che i cieli, e la natura hanno in tutte le cose tanta forza, che infondono, e introducono le medesime virtù in diversi luoghi, e massimamente nelle lingue, le quali hanno tutte un medesimo fine, e tutte hanno a sprimere tutte le cose, le quali sono molto più che i vocaboli non sono; dunque la lingua Fiorentina, sebbene ha vocaboli, e modi di favellare di diverse lingue non perciò si dee chiamare composta di tutte quelle delle quali ella ha parole, e modi di dire; anzi avete a sapere che se una lingua avesse la maggior parte de' suoi vocaboli tutti d'un'altra lingua, e gli avesse manifestamente tolti da lei, non per questo seguirebbe che ella non fosse, e non si dovesse chiamare una lingua propria, e da sé, soloché ella da alcun popolo naturalmente si favellasse; e se ciò che io dico, vero non fosse, la lingua Latina, non Latina, ma Greca sarebbe, e Greca, non Latina, chiamare si doverebbe.

C. Deh ditemi per cortesia alcuni di quei nomi, i quali voi credete, che in verità abbiano l'origine Greca.

V. Per tacere quelli della Religione, che sono molti, come

"Chiesa",
"Parrocchia",
"Cherico",
"Prete",
"Canonico",
"Monaco",
"Vescovo tomba",
"cimitero", battezzare, e altri assai, egli non è dubbio che di Greca origine sono bosco, basto, canestro, cofano, letargo, matto, e forse gufo, per la leggerezza sua, non essendo altro che voce, e penne, e così spada, stradiotto, schifare, svenirsi, arrabattarsi, in un attimo, e molti altri, de' quali ora non mi sovviene.
C. Malinconia, Filosofia, Astrologia, Geomanzia, Genealogia, Geografia, Etica, Politica, Fisico, Metafisica, e infiniti altri non sono Greci?

V. Sono.

Ma, come i Latini gli tolsero dai Greci, così i Toscani gli presero dai Latini; onde, quanto alla lingua nostra, si può dire che siano piuttosto d'origine Latina, che di Greca.

C.

Questo nome, Oca, detto dai Latini, Anser, non è ella voce Greca colla compagnia dell'articolo _´__, come dice il Castelvetro a carte 37, intendendo sempre da quì innanzi della prima stampa?

V.

Il Silvio trall'altre mette ancora cotesta in due luoghi, e forse in tre, ma io ne dubito.

C. Perché?

V. Perché l'articolo Greco masculino, che noi diciamo il, si scrive da' Greci con "o" piccino a lor modo, e a nostro con "o" chiuso, e noi pronunziamo oca con o grande a lor modo, e a nostro con o aperto; oltraché la lettera _, cioè eta, sebbene si pronunzia oggi per i, si debbe senza alcun dubbio pronunziare per e aperto; onde s'avrebbe a proferire non oca per a, ma oche per e; per non dir nulla, che così fatte etimologie non mi hanno ordinariamente a dare molto.

C.

Lasciamole dunque stare, e venendo al primo intendimento nostro, ditemi di quante, e quali lingue voi pensate che sia principalmente composta la Volgare.

V.

Di due; della Latina, e della Provenzale.

C.

Io non istarò a dimandarvi in che modo della Latina? Perciocché, oltraché le parole del Bembo lo mi dichiararono, a me pare che parole da noi si favellino le quali dal Latino discese siano, come cielo, terra, dì, notte, vita, morte, arte, natura, arme, libri, corpo, mani, piedi, ornare, portare, edificare, e altri infiniti così nomi, come verbi; ma bene vi dimanderò in che modo della Provenzale?

V.

Il medesimo Bembo nel medesimo libro vi può ancora in cotesto larghissimamente, e con verità satisfare, ogni volta che di leggerlo vi piacerà, e vi doverrà piacere quanto prima potrete, se vi diletta, come mostrate, di sapere in quante, e quali cose i primi Rimatori Toscani si valessero de' Trovatori Provenzali; che Trovatori si chiamavano Provenzalmente, anziché quella lingua si spegnesse, i Poeti come trovare, poetare: ancoraché alcuni della somiglianza del suono ingannati, non Trovatori, ma Trombadori scrivono; e non solo i Rimatori, ma i Prosatori ancora di Toscana si servivano delle voci, e de' modi del favellare Provenzale, come si può vedere sì negli altri, e sì massimamente nel Boccaccio, il quale molti usa di quei vocaboli che racconta il Bembo.

C. Io vorrei così sapere quali e quanti sono quei nomi che il Bembo racconta per Provenzali.

V.

Mano a dirvegli:

Obliare,
poggiare,
rimembrare,
assembrare,
badare,
donneare,
riparare, o
piuttosto,
ripararsi,
gioire,
calere,
guiderdone,
arnese,
soggiorno,
orgoglio, arringo, guisa, uopo, chere, cherere, cherire, caendo, quadrello, onta, prode, talento, tenzona, gaio, snello, guari, sovente, altresì, cioè medesimamente, dottare, cioè temere, dottanza, e dotta, cioè paura, a randa, cioè appena, bozzo, cioè bastardo, gaggio, landa, ammiraglio, smagare, drudo, marca, vengiare, per vendicare, giuggiare, per giudicare, apprecciare, inveggiare, per invidiare, scoscendere, cioè rompere, bieco, croio, forsennato, tracotanza, oltracotanza, trascotato, cioè trascurato, lassato, scevrare, cioè sceverare, gramare, oprire, cioè aprire, ligio, tanto, o quanto, cioè pure un poco, alma, cioè anima, fora, cioè sarebbe, ancidere per uccidere, augello per uccello, primiero, cioè primo, conquiso, cioè conquistato, avia, solia, e credia, e così di tutti gli altri in luogo d'avea, solea, e credea, ha, cioè sono, avea, era, o erano, ebbe, fu, o furono, io amo meglio, cioè io voglio piuttosto.

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Dice ancora che i fini de' nomi amati
dalla Provenza terminano in

"-anza", come

speranza
pietanza,
pesanza
beninanza
malenanza
allegranza
dilettanza,

ovvero in enza, come

piacenza
valenza,
fallenza.

C.

Voi m'avete toccato l'ugola; deh se ne sapete più; raccontatemene degli altri.

V.

Affanno, e affannare, angoscia, e angoscioso, avvenente, altrettale, voce usata dal Boccaccio nella Teseide più volte, e da altri antichi autori, che vale della medesima qualità, come altrettanto, della medesima quantità; benché oggi si possa dire che ella sia piuttosto perduta, che smarrita; assiso, assai, almeno, anzi, appresso, cioè dopo, allontanarsi, abbandonare, abbracciare, assicurare, balia, per podestà, battaglia, per conflitto, ovvero giornata; che oggi si dice fatto d'arme; bisogna nome, e bisognare verbo, brama, e bramare, biasimo, e biasimare, battere, bastare, banco, bianco, brullo, e bastone, onde bastonare: cammino, cioè viaggio, coraggio per cuore, cortese, e cortesia, benché Dante dica nel Convivio, ciò esser venuto dalle corti, e cortesia, non significare altro che uso di corte, onde nacque il verbo corteggiare, per seguitare le corti, e corteseggiare, per usar cortesia. E similmente sono nomi, e verbi Provenzali cavaliere, cavalcare, combattere, cominciare, e cangiare, destriero, dannaggio, diporto, dirittura, cioè giustizia, drappi, danza, e danzare, desire, e desirare, che si dice ancora disio, e disiare, dimandare, fianchi, per quello che i Latini dicevano latera, feudo, folle, follia, onde folleggiare, franco, e francamente, fino, e fine, usato da quella lingua spessissime volte, come fine amore: forza, e forzare, forte, cioè assai, come disse il Petrarca: Io amai sempre, e amo forte ancora. E così finalmente guercio per quello che da' Latini era chiamato strabo: gagliardo, e gagliardia, inverno, incenso per quello che i Latini dicevano thus; legnaggio in luo- go di prosapia, lealtà, o leanza, e leale, lasso, e lassare, lontano, lagnare, e lusingare, maniera, montagna, mogliere, mancia, mattino, menzogna, e menzognere, martire, malvagio, membranza, e membrare, megliorare, mescolare, meraviglia, e meravigliare, scritto per e, e non per a; ma, cioè sed; mai, cioè unquam; mentre cioè donec; paura, paruenza, perdono, paraggio, pregione, e pregioniero, scritti colla lettera e, e non colla i; piacente, piagnere, parere, però, cioè ideo, o qua propter; roba, e rubare, ricco, ricchezza, o riccore, rossignuololo, che altramente si dice lusignuolo; senno, soccorso, strano, sguardo, e sguardare, schermire, saper grado, scampare, tomba, testa, torto, cioè ingiustizia, trovare, toccare, tenzonare, travaglio, e travagliare, trastornare, ovvero, frastornare, trapassare, tosto, e tantosto, e molti altri, che mi sono fuggiti della memoria. I modi del favellare cavati da' Poeti Provenzali sono non pochi, come dare la preposione in a' gerundj che forniscono nella sillaba do, onde il Petrarca disse: In aspettando un giorno. E quello che i Latini dicono: parum abfuit, quin moreretur; dicono i Toscani Provenzalmente: per poco non morì; come si vede spesse volte nel Boccaccio, ma ora non mi sovvengono, né è il tempo di raccontargli tutti.

C. Molto m'avete soddisfatto; ma egli in raccontando voi queste voci, mi sono nati più dubbj.

V. Quale è il primo?

C. Molte delle voci, che voi avete per Provenzali raccontate, sono poste dagli altri qual per Greca, qual per Latina, qual per Ebrea, o per di qualche altra lingua.
V. Già vi dissi di sopra, che questi etimologici bene spesso non si riscontrano l'uno coll'altro. Pantufola, per quella sorta di pianelle che oggi alquanto più alte dell'altre si chiamano mule, diriva, secondo cotestoro, dal Greco; ma altri d'altronde le derivano, come il Ca- rafulla da pié in tu fola; e anco può essere che, avendo le cose in se diverse proprietà, questi ne consideri una, e da quella la dirivi, e quelli un'altra, e da quella voglia che detta sia; onde non è maraviglia che alcun nome in alcuna lingua abbia l'articolo del genere del maschio, e in un'altra quello della femmina, o all'opposto.

C. Il mio secondo dubbio è, perché voi fate che i Toscani abbiano pigliate coteste voci da' Provenzali, e non i Provenzali da i Toscani; non sarebbe egli possibile che i Toscani avessero alcuna di coteste stesse voci non da' Provenzali preso, ma da quelle medesime lingue dalle quali le pigliarono i Provenzali?

V. Sarebbe, e anco che la Provenza n'avesse prese alcune dalla Toscana; ma perché i Rimatori Provenzali furono prima de' Toscani, perciò si pensa che essi abbiano dato, e non ricevuto, cotali voci. Ecco Dante nostro favellando di Guido Guinizelli, vostro Bolognese disse: Quand'io udii nomar se stesso il padre Mio, e degli altri miei miglior, che mai Rime d'amore usar dolci, e leggiadre. Dove chiamandolo Padre, cioè maestro, e precettore suo, e degli altri suoi migliori, viene a confessare ingenuamente che egli, e eglino da lui imparato aveano.

C. Dunque sarà pur vero, che la mia lingua tenga il principato tra tutte l'altre d'Italia.

V. Guido sebbene fu da Bologna, scrisse nondimeno Provenzalmente, e anco, se fu, non rimase il primo, conciossiacosaché Guido Cavalcanti gli entrò innanzi: non vi ricorda che il medesimo Dante disse: Così ha tolto l'uno all'altro Guido La gloria della lingua, e tale è nato Che l'uno, e l'altro caccerà del nido?
C. Ora, che voi me l'avete rammentato, me ne ricordo. Ma in cotesto luogo profetizza Dante del Petrarca, come vogliono alcuni, che di già avea diciassette anni, o pure intende di sé medesimo, come penso io?
V. Come pensate voi, perché sebbene Dante era astrologo, egli non sapeva perciò indovinare. Ma, tornando a Guido nostro, egli stesso confessa che Arnaldo Daniello Provenzale fu miglior fabbro del parlar materno, dicendo di lui: Versi d'amore, e prose di romanzi Soverchiò tutti, e lascia dir gli stolti, Che quel di Lemosì credon ch'avanzi.
C. Chi fu quello di Lemosì, se voi il sapete?
V. Io ho in un libro Provenzalmente scritto molte Vite di Poeti Provenzali, e la prima è quella di Giraldo chiamato di Bornello, che è quegli di cui favella Dante in questo luogo, e di chi intese il Petrarca, quando nella rassegna che egli fa de' Poeti Provenzali nel quarto capitolo d'Amore, scrisse: E 'l vecchio Pier d'Alvernia con Giraldo. La qual vita io tradussi già in volgare Fiorentino, avendo animo di seguitare di tradurre tutte l'altre; il che poi non mi venne fatto, ancoraché sieno molto brevi, e l'ho in questo scannello che voi quì vedete.
C. Poiché elle sono sì corte, e che l'avete tanto a mano, non vi parrà fatica di recitarlami.

V. Noi uscimo troppo, e troppe volte del ragionamento nostro, pure a me non importa.

C. Egli importa bene a me, che così vengo ad imparare più, e diverse cose, però cavatela fuora, e leggetela, che siate benedetto.

V. Giraldo di Bornello fu di Lemosì, della contrada, e paese di Caposduello, d'un ricco castello del Conte di Lemosì, e fu uomo di basso affare, ma letterato, e di gran senno naturale, e fu il miglior poeta che nessuno altro di quelli che erano stati innanzi a lui, e che venissero dipoi; onde fu chiamato il Maestro de' Trovatori, cioè de' Poeti, e così è ancora oggi tenuto da tutti quelli che intendono bene, e sottilmente le cose, e i componimenti d'Amore. Fu forte onorato dagli uomini grandi, e valenti, e dalle gentildonne che intendevano gli ammaestramenti delle sue canzoni. La guisa, e maniera sua di vivere era così fatta: egli stava tutto il verno per le scuole, e attendeva ad apparare lettere; e la state poi sen'andava per le Corti de' gran maestri, e menava con seco duoi cantori, i quali cantavano le canzoni che egli aveva composte. Non volle pigliar mogliera mai, e tutto quel che guadagnava, dava a' suoi parenti poveri, e alla chiesa di quella villa ov'egli era nato, la qual villa, e chiesa si chiamava, e ancora si chiama, San Gervagio.
C. Ora intendo io assai meglio la cagione la quale mosse Dante a scrivere quelle parole: . . . . . e lascia dir gli stolti, Che quel di Lemosì credon ch' avanzi. E perché il Petrarca, il quale, secondoché voi dite, si servì anch'egli de' Poeti Provenzali in molte cose, non solo scrisse ne' Trionfi: Fra tutti il primo Arnaldo Daniello Gran maestro d'amor, ch'alla sua Terra Fa ancora onor con dir pulito, e bello; ma ancora nella canzone che comincia: Lasso me, ch'io non so 'n qual parte pieghi; l'ultimo verso di ciascuna stanza della quale è il primo verso d'alcuna canzone di poeta nobile, elesse fra tut- ti gli altri il principio d'una di quelle d'Arnaldo, il quale non recito, perciocché, oltraché non intendo la lingua Provenzale, credo che cotali parole, come diceste voi poco fa, sieno scorrettamente scritte. Ma tornando a' miei dubbj, il terzo è, perché voi non avete fatta menzione alcuna della lingua Toscana antica chiamata Etrusca, né d'alcuna delle voci Aramee; e pure so che sapete che alcuni de' vostri affermano indubitatamente che l'antica scrittura Etrusca fu la medesima che l'Aramea, e che la lingua Fiorentina che si parla oggi, è composta d'Etrusco antico, di Greco, di Latino, di Tedesco, di Franzese, e di qualcuna altra simile a queste, ma che il nerbo è l'Arameo in tutto, e per tutto; e mediante queste cose pruovano certissimamente, secondoché essi affermano, la città di Firenze, e la favella Fiorentina essere stata molte, e molte centinaja d'anni innanzi a Roma, e alla lingua Latina.
V. Questo è il passo dove voi, secondo me, volevate capitare; ma non vi verrà fatto, se io non m'inganno, quello che per avventura pensavate. Dico dunque, rispondendo al vostro dubbio, che io non feci menzione della lingua Etrusca, perché io tengo per fermo che ella insieme coll'imperio d'Etruria fusse spenta da' Romani, o almeno molto innanzi che Firenze s'edificasse; né perciò niego che alcuna delle sue voci non potesse esser rimasa in qualche luogo, a qualche terra, o monte, o fiume, ma non tante, che possano far numero non che essere il nerbo dilla lingua Fiorentina.

C.

E alla parte dove affermano, la lingua di Firenze essere prima stata della Romana, che rispondete?

V.

Avendovi io detto di sopra l'oppenione mia sopra ciò, non ho che rispondervi altro.
C. Le voci che essi per Aramee, o per Ebraiche adducono, credetele voi tali?
V. Già v'ho detto che d'alcune si può, e d'alcune si debbe credere di sì, perché Alleluja che significa lodato Dio, Osanna, che vuol dire, salva ti priego, e Sabaoth, cioè esercito, tutte e tre usate da Dante, e così Ammenne, e alcune altre sono Ebraiche, non rimase nella nostra lingua dagli Aramei, ma venutevi, mediante la religione della Scrittura Sacra; e come di questo non ho dubbio, così mi pare esser certo che, mezzo, nodo, annodo, assillo, carbone, finestra, cateratte, caverne, garrire per isgridare, e alcune altre che pongono per Ebree, ovvero Aramee, siano manifestamente Latine.

C. E alle ragioni allegate da loro che rispondete?

V. Voi vorreste cavarmi di bocca qual cosa, ma egli non vi riuscirà; dico che non mi pajono buone.

C. State fermo: Messer Annibale nella prima Stanza del suo Comento sopra la sua Canzone dice queste proprie parole: Ed oltre di questo, come a cosa segnata del tuo sacro nome: alludendo all'Etimologia Ebrea di questo vocabolo Farnese, nella qual lingua dicono che significa Giglio. Ecco che, per l'autorità del vostro Caro, l'etimologie vagliono, e le parole Toscane discendono dall'Ebree.
V. Prima che io vi risponda, dovete sapere che Messer Lodovico a carte 76, riprende il Caro, dicendo che Pharnes, che così lo scrive esso, non è vocabolo Ebreo, né significa in lingua alcuna Giglio, ma che in lingua Assiriana, o Caldaica significa Pastore.
C. Io sapeva benissimo che il Castelvetro lo riprendea, ma non so già come lo potrete difender voi.
V. Non v'ho io detto tante volte che l'intendimento mio è difendere il Caro nelle cose sue proprie, cioè nella Canzone, non nel Comento, il quale non è suo?
C. Che ne sapete voi? Egli è pure stampato sotto 'l suo nome.
V. Io lo so da Messere Annibale proprio, il quale non ho per uomo che dicesse di non aver fatto quello che egli fatto avesse; e chi lo stampò sotto il suo nome, chiunche si fosse, fece errore, e meriteria piuttosto gastigo, che biasimo. Dico ancora, quando bene quel Comento fosse stato mille volte d'Annibale, posciaché egli nella sua Apologia dice così chiaramente che egli non è suo, che doveva bastar al Castelvetro, perché quel Comento è o suo, o no; se non è suo (come io credo), non doveva il Castelvetro volergliele attribuire a ogni modo contra la verità, e la voglia sua: se è suo (il che non credo), qual maggior vittoria poteva avere il Castelvetro, che sentire l'avversario suo ridirsi, e mentre sé medesimo?
C. Sì, se gli altri l'avessero saputo.

V. La verità ha tanta forza, che a lungo andare non può celarsi; poi a Messer Lodovico doveva bastare di saperlo egli; che a cor gentile, e generoso basta ben tanto, non sapete voi che se un soldato dice a un altro: Tu hai detto che io son traditore; e colui nieghi d'averlo detto, che sopra tal querela, o detto, o non detto che l'abbia, non può combattersi? Oltraché a me pare che chi n'avesse voglia, e non avesse altra faccenda, potrebbe così agevolmente quel Comento difendere, come la Canzone.

C. Così ho sentito dire da altri; ma difendetelo un poco voi da quelle due cose nelle quali lo riprende il Castelvetro, cioè che Pharnes non sia Ebreo, e con significhi Giglio.
V. Io ho detto chi n'avesse voglia, e non avesse altro che fare; io per me non ne ho voglia, e ho dell'altre occupazioni. Ma non vedete voi medesimo da voi stesso, che il comentatore di quella canzone non afferma nessuna di quelle due cose, ma dice, dicono, e chi dice, dicono, non vuole che si creda a se, ma si rimette alla verità, e a coloro che sanno, o possono sapere, mediante la cognizione di cotale lingua, se quello che egli dice, è vero, o no?
C. Io conosco che voi dite bene, ma perché il Castelvetro dice che ancora nella canzone s'accenna cotale etimologia, credete voi in verità, che Pharnes significhi Giglio in alcuna lingua?
V. Io non vo' dire quello che io non so, avendo di sopra detto di credere che tutte le parole in alcuna lingua possano significare alcuna cosa; credo bene clic Pharnes, significhi Pastore, per l'autorità addotta dal Castelvetro del Maestro Giacob; non credo già che voi crediate che Messer Annibale creda che la nobilissima Casa de' Farnesi venisse di Giudea; ma i poeti si servono d'ogni cosa, e dovunche possono, vanno scherzando, e tirando acqua al lor mulino; ma considerate un poco, che leggiere cose sono queste, e se vi pare che meritino d'esser tanto, e così sottilmente considerate, quasiché portino il pregio: io son certo che Messer Annibale senza farne parola confesserebbe, anzi ha di già confessato, che non intende la lingua né Assiriana, né Caldaica, e perciò di questo non solo non vorrebbe contendere col Castelvetro, ma gli cederebbe, quanto dicesse.
C. Dunque Messere Annibale in questo si chiamerebbe vinto dal Castelvetro?
V. Chiamerebbesi, perché no? e anche per avventura gli direbbe, come dicono i fanciulli in Firenze: Abbimi un calcio. Ma entriamo a ragionare di cose, che se non altro sopportino almeno la spesa.
C. Qual tenete voi che sia il verbo principale, cioè la basa, e il fondamento della lingua Fiorentina?

V. La lingua Fiorentina o per essere ella stata l'ultima, cioè dopo l'Ebrea, la Greca, e la Latina, o per grazia, e favore de' cieli, non solo ha parole (come s'è detto), ma alcuni modi, e maniere di favellare le quali si convengono, e si confanno colle maniere, e modi di favellare di tutte e tre le lingue sopraddette; ma ancora una certa peculiare, o speziale, o particolare proprietà, come hanno tutte l'altre lingue, la quale è quella che io dico non potersi imparare, se non da coloro che son nati, e allevati da piccioli in Firenze; e vi dirò più oltre che questa proprietà natìa è tale che non solo ogni città, ogni castello, ogni borgo; il qual borgo è parola de' Tedeschi; e ogni villa l'ha diversa l'una dall'altra, ma ancora ogni contrada, anzi ogni casa, e mi fareste dire, ciascuno uomo; sicché quando io ho detto, o dirò, che la lingua Fiorentina è propriamente quella che si favella dentro le mura di Firenze, non vi mettendo, non che altro, i sobborghi, non vi paja che io la ristringa troppo.
C. A me pare infin da ora, stando le cose come voi dite, che piuttosto l'allarghiate; che ben so che in Bologna, mia carissima, e onoratissima patria, si favellava di due linguaggi, per tacere dell'altre nelle quali si favellava di più di tre.

V. Ben dite; ma dovete ancora sapere che nessuna arte, e nessuna scienza considera i particolari, perciocché essendo infiniti, non si possono sapere; e certe minuzie parte non possiamo, e parte non dobbiamo curare; e anche il proverbio dice, che chi tutto vuole nulla ha; bastavi che quella proprietà naturale di coloro che nascono in Firenze, o ne' suoi contorni, ha forza maravigliosa, e si potrebbe chiamare la basa propria, e il fondamento particolare della lingua di Firenze, intendendo della lingua semplice, cioè di, quella che si favella, o favellava naturalmente; perché la lingua nobile di Firenze, cioè quella che si scriveva, o si scrive, aveva, ed ha, per basa, e fondamento, oltre la proprietà detta, molte parole, e modi di favellare non pur Latini, ma Provenzali, e ancora d'altre lingue, ma in ispezialità della Greca, e dell'Ebraica.
C. Raccontatemene, vi prego, qualcuna.
V. La lingua Volgare ha gli articoli, i quali non ha la Latina, ma sibbene la Greca, i quali articoli sono di grandissima importanza, e apparare non si possono, se non nelle culle, o da coloro che nelle zane, cioè nelle cune, apparati gli hanno, perché in molte cose sono diversi dagli articoli Greci così prepositivi, come suppositivi; e in alcuni luoghi, senzaché ragione nessuna assegnare se ne possa, se non l'uso del parlare, non solo si possono, ma si debbono porre: e in alcuni altri, per lo contrario, non so- lo non si debbono, ma non si possono, usare; perché dove i Greci gli mettono innanzi a tutti i nomi proprj, o masculini, o femminini che siano, i Toscani se non a' femminini non gli mettono, perché dicono bene la Ginevra, e la Maria, ma non già il Cesare, o il Benedetto: e chi dicesse io miro Arno, o Mugnone, senza articolo, direbbe bene, ma non così chi dicesse io miro Tevero, o Aniene, cioè Teberone, le quali differenze non conoscono tutte l'orecchie.

C. Le mie sono di quelle; però arei caro mi dichiaraste questa singolare proprietà, e il modo di conoscere gli articoli, e le altre cose necessarie a bene intendere la vostra lingua.

V. Troppo lunga sarebbe, e fuora del proposito nostro cotale materia, la quale è propria del grammatico; e sebbene mi ricordo averne già trattato lungamente nell'Accademia degli Infiammati di Padova, sono nondimeno tanti anni, che io non me ne ricordo più.
C. Seguitate dunque quelle proprietà, le quali avevate incominciato.
V. Così i Greci, come i Latini declinano i nomi, o sostantivi, o agghiettivi che siano, cioè gli torcono, e variano di caso in caso, altramente profferendoli nel genitivo, e altramente nel dativo, e negli altri casi, perché il nominativo non è caso, e però tanto i Latini, quanto i Greci lo chiamavano retto, dove gli Italiani non gli diclinano, ma gli mutano solamente in quel modo che fanno gli Ebrei, dal singulare, chiamato il numero del meno, al plurale, chiamato il numero del più, mediante gli articoli; perché (come sapete) dicono nel numero del meno il Monte, e in quello del più i Monti; e così di tutti gli altri.
C. E' par pure che mutino ancora gli articoli così nel numero singolare, come nel plurale; conciossiacosaché nel genitivo, chiamato il caso patrio, ovvero paterno, perché significa ordinariamente possessione, si dice di, o del, e nel dativo a, o al, e così degli altri.
V. Cotesti non sono articoli, ma si chiamano segni de i casi.
C. Questa vostra lingua ha più regole, più segreti, e più ripostigli, che io non arei mai pensato; ma tirate dietro al ragionamento vostro.
V. Noi non avemo comparativi, eccettoché quattro Latini, migliore, peggiore, ovvero piggiore, maggiore, e minore, ma in vece de' comparativi usiamo i nomi positivi, ponendo loro dinanzi l'avverbio più, come, più dotto, più prudente, e più savio; il che fanno ancora gli Ebrei, e mettiamo loro dopo non il caso allativo, come facevano i Latini, ma il genitivo, a guisa de' Greci, dicendo: I Romani furono non solamente più forti, ma eziandio più gravi di tutte l'altre nazioni.
C. Cotesto mi pare piuttosto superlativo, che comparativo.
V. È vero, ma non già a rovescio: I Fiorentini sono più eloquenti, che i Bergamaschi, è comparazione, ma non può esser superlazione: ma, i Fiorentini sono più eloquenti di tutti i Lombardi, è superlazione, ma può essere ancora comparazione: e quel modo di favellare, che noi usiamo tutto il dì: Dio vi conceda quel bene che voi disiderate maggiore, o il maggiore, è, se non cavato da' Greci, usato da loro; e quell'altro che noi diciamo: questa cosa è più manifesta che mestier faccia che se ne disputi; o come disse il Boccaccio: Perciocché egli è più giovane che per le leggi non è conceduto, è così de' Greci, come de' Latini: è ben proprio de' Volgari il dire alcuna volta più migliore, o via peggiore; e così il dire: io farei per te troppo maggiore cosa che questo non è, modo usato dal Boccaccio infinite volte, ancoraché i Latini usassero, molto migliore, e molto peggiore.
C. La lingua Volgare ha ella superlativi?
V. Hagli; e gli usa variamente in quel modo che facevano così i Greci, come i Latini, perciocché alcuna volta si pone il superlativo senza nessuno caso dopo sé, come il tale è dottissimo, alcuna volta colla proposizione tra; come tra, ovvero fra tutte le donne la tale è bellissima, e alcuna con, oltra, come il Boccaccio: Fiorenza oltra ogni città bellissima, e talvolta, senza modo, o fuori di misura, come si truova spesse volte nel Boccaccio, il quale disse ancora: E per virtù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo. E come Cicerone mostrò che il comparativo posto dopo il superlativo era di maggior forza, dicendo: Scito, te mihi esse carissimum, sed multo fore cariorem, così disse il Boccaccio a quel ragguaglio: Pietro lietissimo, e l'Agnolella più. È ben proprio de' Toscani porre dopo il superlativo un positivo, come usa assaissime volte il Boccaccio, dicendo: bellissima, e vaga, santissima, e buona, e altri tali senza novero: e quello che i Latini non dicono, o radissime volte, disse il Boccaccio: E oltra ciò sii ottimo parlatore. E tuttoché ora non mi sovvengano esempi d'autori approvati, nondimeno s'usa oggi di dire alla guisa de' Greci, e de' Latini: Il tale è dottissimo di tutti gli eloquenti, e eloquentissimo di tutti i dotti.
C. Voi usaste di sopra il superlativo, ponendogli innanzi l'avverbio molto, e io intesi ieri già ch'avendo voi scritto: Al molto Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signor Duca, ne fuste ripreso, e molti si fecero beffe de' fatti vostri; fu egli vero?
V. Verissimo.
C. Avevano ragione, o torto?
V. Questo è un dimandar l'oste se egli ha buon vino. Volete voi che io faccia come i giudici di Padova, i quali per parer savj davano contra se stessi?
C. Egli ve ne fu ancora uno il quale, udite ambe le parti separatamente, e parendogli che ciascuna di loro avesse ragione, tenendosi beffato da loro, diceva sgridandogli: "Levatemivi dinanzi, perché avete ragione tutti e due, e volete le beffe di me"; sicché dichiaratevi.
V. Quella locuzione non solamente è assai buona, ma eziandio molto ottima, cioè ottimissima, come si dice alcuna volta, perché non solamente i Greci, e i Latini spessissime volte l'usavano, per l'esempio de' quali non sarebbe disdetto l'usarla a noi, ma Giovanni Villani, e tutti gli altri Toscani antichi ne sono pieni, come vi posso mostrare in una lettera scritta in quei tempi da me a questo effetto, e però di questo non dirò altro. Dirò bene che i Toscani, in vece del superlativo, si servono molte volte a guisa degli Ebrei, i quali mancano de' superlativi, come fanno ancora i Franzesi, del positivo raddoppiato, dicendo: il tale è dotto dotto, cioè dottissimo, va tosto tosto, o pian piano, cioè tostissimo, o pianissimamente; benché i Franzesi, come alcuna volta i Greci, come si vede nel soprannome Trimegisto, triplicano, cioè pongono, l'avverbio tre volte, dicendo in vece di dire, al grandissimo, al tre volte grande. Si scontrano ancora i Toscani cogli Ebrei in questo, che non hanno seguendo la natura, più che due generi, cioè quello del maschio, e quello della femmina, dove così i Greci, come i Latini hanno ancora il neutro, cioè un genere il quale non è né maschio, né femmina.
C. Come, non avete voi 'l neutro? Non dite voi, che è quello, cioè che cosa è quella; e tieni a mente quello che io ti dico, cioè questa cosa, e altri somiglianti?
V. Abbiamogli; ma basta, che gli articoli nostri non sono se non masculini, e femminini, dove i Greci hanno ancora il neutro; e i Latini, perché mancano d'articolo, si servono in quella vece del pronome dimostrativo hoc, diverso da hic masculino, e da haec femminino, come _& Greco da , e da _. Manca ancora la lingua nostra de' supini, come fanno i Greci, e gli Ebrei, ma si serve in quello scambio, come essi fanno, degl'infiniti, perché dove i Latini dicono eo emptum, i Toscani dicono, come i Greci, e gli Ebrei, io vo a comperare; e così di tutti gli altri.
C. Cotesti sono i supini in um, che significano azione; ma che dite voi di quelli che finiscono in u, i quali significano passione?
V. Il medesimo; perché quello che i Latini dicono, mirabile visu, o difficile dictu, i Toscani dicono maraviglioso a vedere, o malagevole a dirsi, o come disse il Boccaccio, gravi a comportare.
C. Dove, o perché, avete voi lasciato i gerundj?
V. I Greci, e gli Ebrei non hanno gerundj, e i Toscani n'hanno solamente uno, cioè quello che finisce nella sillaba do, del quale si servono molto più, e più leggiadramente, che non fanno i Latini del loro, perché non solo l'usano in voce attiva, e passiva, e colla preposizione in, e senza, come i Latini, ma ancora in questa guisa: egli mi mandò dicendo, colui lo mandò pregando, ovvero minacciando, e in altri cotali leggiadrissimi modi: e di più se ne servono in luogo del participio attivo, o neutro del tempo presente, o preterito imperfetto, come: egli lo trovò dormendo, cioè mentre che dormiva: io mi feci male ruzzando, cioè mentre scherzava, e altri infiniti.
C. E del gerundio in dum come fanno?
V. Servonsi in quello scambio del verbo, perché dove i Latini, e i Greci ancora, ma avverbialmente, dicono legendum est, o eundum est, i Volgari dicono: s'ha a leggere, o andare, e quello che i Latini dicono, eo ad cælignandum, i Toscani dicono, come i Greci, io vo a cenare. Usa ancora la lingua Italiana concordare il numero singulare col numero plurale, come fanno gli Ebrei, e i Greci ancora, e massimamente gli Ateniesi, all'idioma de' quali è simigliante la lingua nostra, come la Latina all'Eolica.
C. Gli Ateniesi, per quanto mi par ricordare, fanno ciò solamente ne' nomi neutri, e voi non avendo nomi neutri, non so come possiate far questo a imitazione degli Ateniesi.
V. Quello che voi dite, è vero negli oratori, ma i poeti l'usano ancora ne' nomi che neutri non sono. In qualunche modo, a noi non dà noja, perché il Boccaccio disse: Già è molti anni (forse seguendo Dante) in luogo di sono; e parmi mille anni, e le parve mille anni; e il Petrarca disse: Per bene star si scende molte miglia. E in Firenze si dice a ogn'ora: e' non è ancora venti ore, in luogo di sono.
C. Io aveva sentito biasimare cotesti luoghi, come scorretti, o barbari, perché non s'usavano nella lingua Latina; come quell'altro che voi usate più che sovente, dimandando ad alcuno: volete voi nulla? Perché proferendogli niente, pare che lo beffiate; onde nacque il Sonetto di Messer Niccolò Franco, che comincia: Tu mi dimandi sempre s'io vo' nulla, Come desideroso di dar nulla. Sia per sempre risposto: Io non vo' nulla; Che non mi manca, grazia di Dio, nulla. e tutto quello che segue.
V. Sappiate, che nulla nel volgar Fiorentino vuol dire alcuna volta qual cosa, perché due negazioni appresso noi non affermano, come appresso i Latini, ma niegano, come appresso i Greci, e gli Ebraici; e tanto è a dire in Fiorentino: e' non v'è nessuno, quanto: e' non v'è alcuno, ovvero persona.
C. Io per me non direi mai a uno datemi nulla, quando volessi da lui qualche cosa.
V. Né io; perché non istarebbe bene.
C. Se nulla significa qual cosa, come voi dite, perché non istà bene?
V. Io non dico che nulla voglia significare semplicemente qual cosa, ma alcuna volta; come chi dimanda, hai tu nulla? o evvi nulla? vuol dire, hai tu, o evvi qual cosa? E in tal caso il dimandato può rispondere, non avendo, o non vi essendo niente, nulla, o nonnulla, come più gli pare. E quando il Petrarca disse: Che ben può nulla, chi non può morire; poteva dire può nonnulla, o non può nulla; e quando disse: Nulla è al mondo, in ch'uom saggio si fide; poteva dire nulla non è al mondo: e sappiate, che Fiorentinamente non si direbbe con una negativa sola: io ne farò nulla, ma con due: io non ne farò nulla: e io non ho a far nulla, cioè cosa del mondo, con esso teco. E se alcuno volendo significare d'essere scioperato, dicesse: io ho che far nulla, in luogo di dire: io non ho che far nulla, o veramente, covelle, sarebbe in Firenze o non inteso, o uccellato.
C. E da chi s'hanno a imparare cosi minute, e sottili differenze, e nondimeno necessarie?
V. Da' legnajuoli, se non volete da' setajuoli, o lanajuoli di Firenze; e vi sono di quelle che niuno può insegnarle, se non un lungo uso, e una continua pratica, perché o non vi sono regole, o non vi si sono trovate ancora.
C. Ditene uno esempio.
V. Perché si scrive il numero plurale di questo nome, cieco, aspirato, cioè colla lettera h, e il plurale di questo nome Greco, si scrive tenue, cioè senza aspirazione?
C. Io per me non so, se si debba profferire Greci senza aspirazione, o veramente Grechi con ella.
V. Greci senza essa.
C. Per qual ragione?
V. Perché in Firenze è una via, la quale si chiama da tutti il Borgo de' Greci senza h, non de' Greci coll'h.
C. E non avete alcuna ragione migliore di cotesta?
V. Nessuna altra, non che migliore, ma sappiate che niuna può essere migliore di questa.
C. O perché?
V. Perché le lingue consistono (come s'è detto) nell'uso di chi le favella.
C. O se in Firenze si cominciasse a dire il contrario, non Greci, ma Grechi, come anderebbe la bisogna?
V. Arebbesi a dir Grechi, e non Greci, e massimamente nel favellare, che nello scrivere sarebbe per avventura un'altra faccenda, e spezialmente se ne' libri antichi si trovasse cotal nome scritto senza la lettera h, onde si potesse manifestamente conoscere il favellare di quei tempi averlo pronunziato senza aspirazione.
C. E se i Lucchesi, e i Pisani, e alcune altre città pronunziassero Grechi, e non Greci, a chi sarebbe a credere, o a' Fiorentini soli, o a tante altre città così di Toscana, come fuori?
V. A' Fiorentini; presupposto esser vero quello che niuno niega, cioè, la lingua Fiorentina esser più bella di tutte l'altre Italiane.
C. E perché questo?
V. Perché in ogni genere debbe essere, secondoché ne insegna Aristotile, una cosa prima, e più degna, la quale sia la misura, e 'l paragone di tutte le cose che sono sotto quel genere: ora, se tutti s'accordano che il volgar Fiorentino sia più degno, e più regolato di tutti gli altri, certa cosa, che a lui si debbe ricorrere. E come si potrebbe, o donde aver mai, oltra infinite altre cose, se egli si debbe profferire, e per conseguenza scrivere, Monaci, o Monachi, Cherici, o Cherichi, Canonici, o Canonichi, e altri mille, se non si ricorresse alla pronunzia Fiorentina? Ognuno pronunzia nel numero del meno: io odo, tu odi, e in quello del più, noi udimo, ovvero, udiamo, voi udite; ma ognuno non sa perché l'o si muti in u; similmente, ciascuno pronunzia nel singulare: io esco, tu esci, e nel plurale, noi uscimo, ovvero, usciamo, voi uscite, ma non ciascuno sa la cagione perché ciò si faccia, e perché nella terza non si dice: udono, ma odono, e non uscono, ma escono. Buono, quando è positivo, si scrive per u liquida innanzi l'o; ma quando è superlativo, non si può, e non si dee né profferire, né scrivere buonissimo, come fanno molti forestieri, ma bisogna per forza scrivere, e pronunziare bonissimo senza la u liquida. Restanci solamente gli affissi, i quali non ha né la lingua Greca, né la Latina, ma sì l'Ebraica, ma (per quanto posso giudicare io) non sì compiutamente, né tanto leggiadramente, come noi. Ma perché la materia degli affissi, quanto è bella, e necessaria a sapersi, tanto è lunga, e malagevole a insegnarsi, fia bene lasciarla andare; e tanto più, che ella a chi insegna le lingue, e non a chi tratta delle lingue, s'appartiene; onde conchiudendo dico che la lingua Volgare sebbene ha di molti vocaboli, e di molte locuzioni d'altri idiomi, è però composta principalmente della lingua Latina, e secondariamente della Provenzale.
C. Voi m'avete innamorato (come si dice), e poi vene volete andare; io non l'intendo così.
V. A voi sta il proporre; dimandate di quello che più vi aggrada, e io vi risponderò.
C. Che cosa sono affissi?
V. Affissi si chiamano certe particelle, le quali s'affigono, cioè si congiungono nel fine delle dizioni in guisa che della dizione, e di loro si fa una parola sola sotto uno accento medesimo, come dammi, cioè dà a me, dillomi, o dilmi, cioè dillo a me, darotelo, o darolloti, o darolti per sincopa, cioè te lo darò, o lo ti darò, e più volgarmente, lo darò a te; e altri di cotale maniera.
C. Quanti sono questi affissi, ovvero quelle particelle che si chiamano, o che producono gli affissi?
V. Diciotto appunto.
C. Quali sono?
V. Mo, ma; to, ta; so, sa; la, le; li, lo; il, le, mi, ti, si, vi, ci, ne.
C. Come si dividono queste diciotto particelle, che noi chiameremo per più brevità, e agevolezza affissi?
V. In due parti principalmente, perché alcune d'esse s'affigono solamente a' nomi, e alcune solamente a' verbi.
C. Quante, e quali sono quelle che s'affigono solamente a' nomi?
V. Le prime sei, le quali si possono chiamare pronomi possessivi, cioè mo, ma; to, ta; so, sa; che in somma non voglion dire altro che mio, mia; tuo, tua; suo, sua.
C. In che modo s'affigono elleno?
V. Dicesi, Fratelmo, in vece di dire fratel mio: Sirocchiama, o Mogliema, in luogo di sirocchia mia, o moglie mia: Fratelto, e Figliuolto, in iscambio di fratel tuo, e figliuolo tuo: Sirocchiata, per sirocchia tua, Signorto, signor tuo, e Signorso, che disse Dante, cioè signor suo: Ziesa, che vale sua zia.
C. Direbbesi, a questo ragguaglio, sorellama, o sorellata?
V. Se la proporzione valesse, sì; ma io v'ho detto di sopra che l'analogia vale quanto ella può, e non più, e brevemente è nata dall'uso, e l'uso è il padre e il maestro, e il padrone delle lingue; e perché in Firenze non si dice nel favellare, e gli Scrittori non hanno detto, che sappia io, né sorellama, né sorellata, l'analogia non ha tanta forza, che ella possa senza l'uso introdurre simili vocaboli.
C. Truovansene più di cotesti otto?
V. A mala pena si truovano questi, perché l'ultimo non è di città, ma di contado; è ben vero che in alcuni luoghi d'Italia si dice matrema, e forse patremo, e altri così fatti, i quali non essendo Fiorentini, e per lo più parlare di volgo, non vi conforterei a usargli.
C. Quanti, e quali sono quelli che s'affigono solamente a' verbi?
V. Tutti gli altri dodici, i quali divideremo in due parti, ne' primi sei, cioè la, le, li, lo, il, le un'altra volta, i quali chiameremo pronomi relativi; e ne' secondi sei, cioè mi, ti, si, ci, vi, ne, i quali chiameremo pronomi primitivi.
C. I primi sei pajono piuttosto articoli, che pronomi.
V. È vero, e così sono chiamati da alcuni, perché anco appresso i Greci gli articoli prepositivi si pongono per li pospositivi; ma questo non importa; basta che noi c'intendiamo.
C. Dichiaratemi i primi sei o pronomi, o articoli, o prepositivi, o pospositivi che chiamare si debbiano a uno a uno.
V. La prima cosa, voi dovete sapere che questa particella la si trova, come tutte l'altre undici, posta in due modi, o innanzi al verbo, come io la vidi, o dopo il verbo, come vidila, cioè vidi lei. Nel primo modo non si possono chiamare veramente affissi, come quelli del secondo, ma impropriamente; ora io vi dirò che questo affisso la, o articolo, o pronome che lo vogliate chiamare, o innanzi, o dopo il verbo che egli sia, mai non si truova se non nel genere femminino significante o lei, o quella, secondo la cosa che egli referisce, e nel numero singulare, e nell'accusativo, come la vidi, o vidila, cioè vidi lei, o quella cosa che va innanzi, ed è riferita da lui; onde il Petrarca, parlando di Madonna Laura, disse: Poi la rividi in altro abito sola, Tal ch'io non la conobbi, ec. E il medesimo Petrarca nella medesima Canzone grande: E se quì la memoria non m'aita, Come suol fare, scusinla i martiri. E altrove: Della tua mente amor, che prima aprilla. La seconda particella le, è anch'ella sempre di genere femminile, ma si truova così nel numero del più, come in quello del meno; in quello del meno non si truova in altro caso che nel dativo, o innanzi al verbo, o dopo il verbo, che ella si trovi; come io le diedi, ovvero, diedile; cioè diedi a lei, o veramente a quella cosa che è ita innanzi. Il Petrarca: Anzi le dissi' l ver pien di paura. Il medesimo: E un pensier che solo angoscia dalle. Dove 'l primo le significa a lei, ed è preposto al verbo, e riferisce Madonna Laura; e il secondo, posposto al verbo, significa dà a lei, e referisce la mente del Petrarca. Ma nel numero del più non si truova se non nell'accusativo, o innanzi, o dopo il verbo, che ella sia; come io le vidi, o veramente, vidile, intendendo di donne, o d'altre cose che precedono; onde il Boccaccio: Pirro, ec. cominciò a gittar giù delle pere, e mentre le gittava. E il Petrarca: Alle lagrime triste allargai 'l freno, E lasciale cader come a lor parve. E Dante nel dodicesimo dell'Inferno: Laonde morte prima dipartille, cioè dipartì quelle. La terra particella li, o piuttosto gli, non si truova se non nel genere del maschio, così nel numero picciolo, come nel grande; nel numero picciolo non si trova se non nel dativo, o innanzi il verbo, o dopo, come gli diede, o diedegli, cioè diede a lui. Petrarca: Però al mio parer non gli fu onore. E altrove: Cotanto l'esser vinto gli dispiacque. Nel numero grande non si truova se non nell'accusativo, come gli vidi, o vidigli. Petrarca: Poi ch'io gli vidi in prima.
C. E' mi par pur ricordare d'aver letto, non che sentito favellare, un modo così fatto: io gli mostrai, o mostragli, in vece di mostrai loro.
V. Cotesto è fuori della lingua; e quando Dante disse: E mentre che di là per me si stette, Io gli sovvenni, ec. Quello gli, che significa i Cristiani, è accusativo, sebben pare che sia dativo, e ancora, quanto alla grammatica, potrebbe essere. La quarta particella lo è sempre di genere maschile, e non si truova nel numero maggiore, ma sempre nel minore, e quasi sempre nell'accusativo; come: io lo vidi, o vidilo, cioè vidi lui, o quello. Petrarca: Pigro da se, ma 'l gran piacer lo sprona. E altrove: Sasselo Amor, con cui spesso ne parlo. E Dante: E dolcemente sì, che parli, accolo, cioè accogli lui, come bene fu dichiarato dal Reverendissimo Bembo, e prima da Benvenuto da Imola sopra Dante, in quello stesso luogo. Ho detto, quasi sempre, perché si ritruova alcuna volta ancora nel dativo, come quando il Boccaccio disse: D'ogni quantità che il Saladino il richiese, lo servì, e il Saladino poi interamente lo soddisfece. Nonostanteché alcuni vogliano che ancora in questo luogo lo sia non dativo, ma quarto caso. La quinta particella il non si truova se non nel genere del maschio, nel numero del meno, e nell'accusativo: e quasi sempre preposta al verbo. Il Petrarca: Cieco non già, ma faretrato il veggo. E altrove: Amor per sua natura il fa restio. E quando la lettera, la quale precede il, è vocale, in tal caso si leva la vocale i, e vi si pone in quella vece l'apostrofo di sopra. Petrarca: S'io 'l dissi mai, ec. Ho detto preposta al verbo quasi sempre, e non assolutamente, perché alcuni vogliono che si possa ancora posporre, come: dissil? cioè dissilo io; ma in cotale esempio si può dire che vi sia piuttosto la particella lo priva della sua vocale, che la il, levata la i. Della sesta, e ultima particela de' sei articoli, ovvero pronomi relativi, la quale è posta anco nel secondo luogo, favelleremo, parlato che arò delle sei particelle ultime, cioè mi, ti, si, vi, ci, ne, le quali sono, siccome i pronomi, donde elle dirivano, d'amendue i generi, cioè del maschio, e della femmina, secondo la persona che favella, o preposte, o posposte che siano al verbo. Dico pertanto che la mi non si truova se non nel numero singulare, come anco la ti, sua compagna; e solamente in due casi nel dativo, e nell'accusativo; nel dativo significa a me, come mi diede, o diedemi. Il Petrarca: Né mi vale spronarlo, o dargli volta. E altrove: Piovommi amare lagrime dal viso. in luogo di piovonomi, cioè piovono a me; onde alcuni lo scrivono colla lettera n, e alcuni con due m, come ancora sommi accorto, cioè mi sono accorto, nel singulare, e: Sommi i begli occhi vostri Euterpe, e Clio, nel plurale, cioè, sono a me; il che si scrive medesimamente da alcuni per n, e da alcuni per due m. Ove è da notare, che il mi in sommi accorto, sebben'è affisso, cioè congiunto col verbo, non perciò è né dativo, né accusativo, né altro caso, onde non significa né a me, né me, ma è posto dopo il verbo quello che ordinariamente si suol porre dinanzi, perché tanto è a dire sommi accorto, quanto io mi sono accorto, tempo preterito perfetto del verbo io m'accorgo: la qual cosa non si può bene intendere da chi non sa che i verbi nella lingua Italiana si diclinano semplicemente, cioè senza avere alcuna particella dinanzi a loro, come io leggo, io scrivo, e alcuni hanno necessariamente innanzi a se nella prima persona del singulare mi, nella seconda ti, e nella terza si; come io mi dolgo, tu ti duoli, colui si duole; e questi hanno necessariamente nel plurale nella prima persona ci, nella seconda vi, e nella terza si; come noi ci lagnamo, voi vi lagnate, e coloro si lagnano; e ciascuna di queste come si pongono ordinariamente innanzi a' verbi, così, quando ad altri piace, si possono porre dopo, come dolgomi, duolti, per sincopa da duoliti, e duolsi, lagnamoci, lagnatevi, lagnansi; le quali cinque particelle colla ne della quale si favellerà poco appresso, poste in cotali modi, sebbene sono affisse a' verbi, e vanno sotto un medesimo accento, non sono però d'alcun caso, né significano persona nessuna, onde non si possono chiamare veramente affissi. Alcuni altri verbi sono in quel mezzo, cioè possono avere, e non avere la particella mi, secondoché a colui che favella, o che scrive, torna meglio; perciocché tanto viene a dire io vivo, quanto io mi vivo, o veramente vivomi, sebbene questo ultimo ha una certa maggiore non so se forza, o vaghezza; onde Petrarca disse: Vorremi a miglior tempo essere accorto, poteva anco dire, quanto al modo del favellare, ma non già quanto alla leggiadria: Vorrei a miglior tempo essermi accorto. E così quando disse: Vivrommi un tempo omai, che al viver mio, poteva dire vivrò, o mi vivrò; e quando il Bembo scrisse: Morrommi, e tu dirai, mia fine udita, scrivendo a Messer Bernardo Capello, poteva dire, quanto alla grammatica, mi morrò, o io morrò, ma non già quanto alla grazia. Voglio inferire che cotali particelle in cotali modi poste non sono veramente affissi, e se pur sono non sono casi, né significano persone, onde non mai, o radissime volte, si pone loro dinanzi il pronome significante la persona che favella; perché si dice: Stavami un giorno solo alla finestra, e non io stavami, come si dice io stava, e io mi stava; come il Petrarca: Io mi vivea di mia sorte contento: e quando pure porre vi si dovesse, piuttosto si direbbe stavami io, che io stavami; onde il Petrarca: Qual mi feci io, quando primier m'accorsi, e non qual fecimi io. Ma per tornare donde partii, mi significa alcuna volta me, nel quarto caso, come mi tenne, o tennemi. Dante: Fecemi la divina potestate, cioè fece me; e il Petrarca: . . . . . Fecemi, oimè lasso, D'uom, quasi vivo, sbigottito sasso. E il medesimo: Gittàmi stanco sopra l'erba un giorno: cioè gittai me, benché in questo luogo sarà per avventura migliore sposizione mi gittai; perché nel significato, nel quale lo piglia quì il Petrarca, non si dice io getto, ma io mi getto, e così non sarebbe affisso, e se pur fosse, sarebbe di quelli senza caso, o persona; ma questo poco importa. Quello che voi avete a notare è, che ogni volta che il mi è veramente affisso, cioè congiunto dietro al verbo, e va sotto un medesimo accento con esso lui, i poeti mutano, quando bene loro torna, la vocale i in e, e dicono non parmi, ma parme; non valmi, ma valme, e così degli altri, come si può vedere in quel sonetto: L'aura serena che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto viemme, Fammi risovvenir quando, Amor diemme ec. E altrove: Che scrivendo d'altrui, di me non calme, cioè non mi cale, o non cale a me. Avete ancora da notare, che come n'avvertisce il Reverendissimo Bembo, egli non si può alcuna volta usare gli affissi, ancoraché altri volesse, ma è necessario che si pongano i pronomi interi, e co' loro accenti proprj; e ciò avviene ogni volta che egli si debbe rispondere segnatamente ad alcuno pronome o precedente, o sussequente, come quando il Petrarca disse: Ferir me di saetta in quello stato, E a voi armata non mostrar pur l'arco; dove non poteva dire ferirmi affissamente, e con uno accento solo, per cagione di quel pronome a voi, a cui rispondere si doveva; similmente quando disse: Gli occhi, e la fronte, con sembiante umano Baciolle sì, che rallegrò ciascuna, Me empié d'invidia l'atto dolce, e strano, non poteva dire coll'affisso mi empié, o empiemmi, come manifestamente si conosce. La particella ti non è differente in cosa nessuna dalla mi, perché così si dice ti die, o diedeti, come ti fece, o feceti, cioè diede a te, o fece te, salvo che la ti da' poeti antichi non si trova mutata in te, come la mi in me, perché non si dice consolarte, e confortarte, come consolarme, e confortarme; ho detto negli antichi, perché ne' moderni si truova altramente; e il Bembo stesso, che dà questa regola, e si maravi- glia che concedendosi il dire onorarme, non si conceda per l'analogia dire onorarte, nonostante che l'affermi per buona, usò nondimeno il contrario; quando nel Madrigale che comincia: Che ti val saettarmi, s'io già fore, disse: Amor ferendo in guisa a parte a parte, Che loco a nuova piaga non può darte: e nel vero darte, dirte, farte, e gli altri tali hanno un non so che, se non più leggiadro, meno volgare; e usando cotale locuzione il Bembo, che fu sì mondo, e schifo poeta, non so chi debba o peritarsi, o sdegnarsi d'usarla. La particella si, oltra l'altre molte, e diverse significazioni sue, si piglia nel proponimento nostro, cioè quando è congiunta a' verbi, in quattro modi: perché alcuna volta non opera cosa nessuna, ed è non altramenteché se ella non vi fosse, come chi dimandasse alcuno: che fa il tale? e colui gli rispondesse, vivesi; che tanto è, quanto vive, perché il verbo vivo è uno di quelli, il quale può mancare della particella mi, dicendosi nel medesimo significato appunto, io vivo, e io mi vivo; alcuna volta dimostra, quel verbo esser tale che non può stare senza essa, come: che fa il tale? Stassi, cioè si sta; che in questo caso non basterebbe dire sta semplicemente; alcuna volta dà a divedere, il verbo essere passivo, e ciò tanto nel numero del meno, quanto in quello del più, come: il cielo si muove, ovvero muovesi: e le virtù si lodano, ovvero lodansi; è ben vero che nel numero singulare la si diventa talvolta appresso i Poeti se, ma non già nel plurale. Il Petrarca: De qua' duo' tal romor nel mondo fasse: in vece di fassi. Alcuna volta significa il verbo essere impersonale, come a chi dimandasse, che si fa? si rispondesse, godesi, cantasi, e altri tali; gli esempj sono tanto spessi, così appo i prosatori, come i rimatori, che non occorre allegarne; oltraché la si in nessuno di questi quattro modi è veramente affisso, perché non riferisce né casi, né persone; ma quando questa si riferisce il pronome se, il quale pronome non ha nominativo, allora è veramente affisso, come chi dicesse: se il tale si dà, o dassi a credere d'essere amato; cioè dà a credere a se; o veramente: il tale si loda, o lodasi, cioè loda se; e nel numero del più: coloro s'attribuiscono, o attribuisconsi più del dovere, cioè attribuiscono a se medesimi; il che si dice ancora a loro stessi. Noterete ancora che i poeti ogni volta che torni bene alla rima, mutano la si in se, e dicono in luogo di celebrarsi, celebrarse. Il Petrarca: E per farne vendetta, o per celarse. Il medesimo: Che nostra vista in lui non può fermarse. E questo si dee intendere sempre nel numero del meno, e non mai in quello del più, il quale finisce sempre (come s'è detto) in i. Il Petrarca ne' Trionfi: Non con altro romor di petto dansi Duo' leon feri, o due folgori ardenti, Ch'a cielo, e terra, e mar dar luogo farsi. cioè si fanno, o fanno a se, o a loro; né vi maravigliate che io vada così minutamente, e particolarmente distendendomi, perché la materia degli affissi (come vi dissi nel principio) è non meno utile, che difficile. E, per tacere degli altri minori, Messer Jacopo Sanazzaro, uomo di tanto ingegno, dottrina, e giudizio, si lasciò alcuna vol- ta o sforzato dalle rime sdrucciole, le quali nel vero sono malagevolissime, o per altra cagione, trasportare troppo nella sua Arcadia, e quando trall'altre disse una volta: Due tortorelle vidi il nido farnosi, non so vedere in che modo egli cotale affisso si componesse; e più per discrezione intendo quello che significar voglia, che per regola. Ma tornando al ragionar nostro, restanti queste due particelle ci, e vi, le quali sono del numero del più, e si pongono così per lo dativo, come per l'accusativo, e non hanno tra loro altra differenza, se non che ci, più de' prosatori, che de' poeti, è prima persona, e significa o a noi nel terzo caso, o noi nel quarto; e vi è seconda, e significa o a voi, o voi. Il Petrarca: Con lei fuss'io da che si parte il Sole, E non ci vedesse altri che le stelle. E il Boccaccio disse: Egli non sarà alcuno che veggendoci, non ci faccia luogo, e lascici andare. Nelle quali parole il primo, e l'ultimo ci significano noi, e il ci del mezzo a noi; e bisogna che voi guardiate a non iscambiare, come hanno fatto molti, perché ci significa alcuna volta quì, come là: Quì dove mezzo son, Sennuccio mio, Così ci fussi io intero, e voi contento. E alcuna volta dimostra, il verbo a cui ella è posta innanzi, essere di quelli che si diclinano con la mi innanzi, come quando il Boccaccio disse: Noi ci siamo avveduti ch'ella ogni dì tiene la cotale maniera; perché non si dice mai, io avveggo senza mi, ma sempre io m'avveggo, con essa. Vi, quando è terzo caso, e' significa a voi. Dante: E io vi giuro, se di sopra vada. Quando è quarto, e' significa voi. Il medesimo: Tra color non vogliate ch'io vi guidi; E il Petrarca: Certo, se vi rimembra di Narcisso. Il medesimo: Nel bel viso di quella che v'ha morti. Ma bisogna che avvertiate, perciocché alcuna volta vi è avverbio, e significa quivi. Petrarca: Nessun vi riconobbi, ec. E alcuna volta a luogo. Il medesimo: Ch'io v'aggiugneva col pensiero a pena. Ne' quai luoghi vi non è propriamente affisso, non significando né casi, né persone; onde sebbene si dice starvi, e andarvi, cioè in quello, e a quel luogo, non però si direbbe starve, o andarve, se non molto licenziosamente, come si potrebbe dire, se fossero veri affissi, per quello esempio del Petrarca: Donne mie, lungo fora a raccontarve. Né vi prenda maraviglia, se troverete qualche volta alcuna di queste monosillabe (per così chiamarle), la quale vi paja stare oziosamente, e di soverchio, perciocché la proprietà del parlare Fiorentino porta così; e se elleno, quanto al sentimento appartiene, non operano alcuna cosa, operano nondimeno quanto alla vaghezza, e alla leggiadria. Restaci la particella ne, la quale molte, e mol- to diverse cose significa, e di cui, chi bene servire, e valere se ne sa, può grandemente arricchirne, e illustrarne i componimenti suoi così di verso, come di prosa; onde a me non parrà fatica l'aprirvela, e quasi snocciolarlavi più brevemente che saperrò; e tanto più che il Castelvetro, per lo non intendere, secondoché io stimo, la proprietà di lei, la quale egli chiama vicenome disaccentato, né so io perché, conciossiaché niuna sillaba, non che dizione, possa trovarsi, né profferirsi senza accento, sebbene non tuttavia le si segna di sopra, non solo riprende il Caro due volte a carte 46. e 47. di quello in che egli merita loda, non riprensione, ma ancora se ne fa beffe, dicendo che per guardare, e riguardare fissamente ch'uomo faccia, non troverrà mai altra gravidezza di sentimento nella particella ne, che quello che ha dato egli: e lo vuole di più mostrare fagnone, soggiugnendo: Quantunque il Caro faccia vista di credere altramente; le quali cose quanto siano false da quelle che io dirò, potrete chiaramente comprendere. Avete dunque a sapere che questa particella, o monosillaba ne, si pronunzia, e si scrive alcuna volta coll'e aperto, e dicesi né, e alcuna volta coll'e chiuso, e dicesi ne; quando ella si scrive, e pronunzia coll'e aperto, ella è avverbio di negazione, e significa propriamente quello che i Latini dicevano nec, ovvero neque, donde si vede che ella è cavata, cioè non, o veramente e non. Il Petrarca: Né mi vale spronarlo, o dargli volta. E alcuna volta si raddoppia né più né meno, come facevano i Latini la nec, o la neque, e ciò così ne' nomi; Petrarca: Non ebbe tanto né vigor, né spazio. e altrove: Né per volger di ciel, né di pianeta. come ne' verbi; il medesimo: Né sa star sol, né gire ov'altri il chiama. E altrove: Lagrima ancor non mi bagnava il petto, Né rompea 'l sonno ec. E talvolta pur coll'esempio de' Latini si replica più fiate, come si può vedere nel Sonetto: Orso, e' non furon mai fiumi, né stagni. E ha questa particella né sì gran forza di negare, che posta in una medesima clausula, quelle parole che per se medesime affermerebbero, niegano per vigore di lei, come quando il Boccaccio disse: Nel quale mai né amore, né pietà poterono entrare. Dove mai, che per se stesso ordinariamente afferma, per vigore della particella né niega: come ancora in quell'altro luogo, favellando della dolcezza, e amorevolezza di voi altri Signori Bolognesi: Mai di lagrime, né di sospiri fosti vaga. E più chiaramente quando disse: E comandolle che più parole, né romor facesse. E ancora: Acciocché egli senza erede, né essi senza Signor rimanessero. E quando la parola che seguita, comincia da lettera vocale, le si aggiugne dopo la consonante d, secondo l'uso della nostra lingua, per ischifare il cattivo suono. Il Petrarca: Ned ella a me per tutto 'l suo disdegno. Alcuna volta né non è avverbio che nieghi, ma una di quelle congiunzioni che i Latini chiamavano disgiuntive, o piuttosto sottodisgiuntive, come aut, vel, e sive, cioè o, ovvero, o veramente. Il Petrarca: Primach'io truovi in ciò pace, né tregua. E altrove: Se gli occhi suoi ti fur dolci, né cari. E altrove: Onde quanto di lei parlai, né scrissi. Significa eziandio posta dinanzi alla congiunzione ancora quello che i Latini dicevano ne quidem, come: io non ti crederei mai, né ancora se tu giurassi: numquam tibi crederem, ne si jurares quidem. Usasi spesso nel parlare cotidiano posta avanti alla parola vero per avverbio che dimandi, in cotal guisa: Dante è un grave, e dotto Poeta, ne' vero? cioè, non è egli vero tutto quello che io dico di Dante? E in niuna queste maniere la particella né non è, e non si può chiamare affisso; ma quando ella si scrive, o pronunzia coll'e chiuso, allora si può considerare in due modi, perciocché o si pone in luogo della preposizione in, o serve a' verbi. Quando si pone in luogo della preposizione in, la quale si serve così al quarto caso, come al sesto, bisogna sapere che ciò si fa perché dopo la in non può ordinariamente seguitare articolo nessuno; laonde sempreché non seguiti articolo, si dice in, e non altramente, come: in cielo, in terra, in mare, io spero in Dio, tu sei in città, colui si sta in villa e altri infiniti; ma quando seguita l'articolo, allora in vece della in si pone una di queste voci, nello, nel, o negli, ne i, o ne' nella, o nelle. Nello si scrive da alcuni per due l, e con uno accento solo, come se fosse una parola, e da alcuni con uno solamente, come se fossero due parole: particella ne, e lo articolo lo; e l'una, e l'altra scrittura credo si possa di- fendere, ma la prima, come più agevole, e più conforme alla pronunzia Fiorentina, mi piace più. Nello dunque, favellando nel numero singulare, si pone ogni volta che la voce la quale seguita, comincia o da alcuna delle lettere vocali, o dalla consonante s che abbia dopo se una, o più consonanti. Gli esempj vi sieno: nell'ordine, nello specchio, nello straordinario, e così, nello andare, nello stare, nello strascinare; ma quando la parola comincia da una delle consonanti, o pure da due di quelle, le quali non hanno innanzi la s, e mediante la r si liquefanno, come tra, e fra, allora non si dice nello intero, ma nel per abbreviamento, come: nel cielo, nel mare, nel trattato, e così, nel fare, nel framettersi ec. Ma nel numero del più, se la parola che seguita, comincia o da una vocale, o dalla s con una, o più consonanti (come s'è detto) allora non si dice nel, ma nelli con due l, o piuttosto negli colla g, che si scrivono, e pronunziano da alcuni come due parole, e da alcuni, come una; del che non mi par da far caso; come, negli antri, negli spazj, negli affari, negli stravolgimenti ec. Ma se la voce che seguita, comincia da una consonante sola, o anco da due, soloché siano di quelle che si liquefanno, allora si dice non nelli, o negli, ma o nei, chi con una voce, e chi con due, o ne' senza la i, la quale alcuni segnano di sopra coll'apostrofo, e alcuni no; ma perché necessariamente intendere vi si dee, a me par meglio di segnarla, come, ne i campi, o ne' campi, ne i ragionari, o ne' ragionari; e s'alcuna volta si truova come in Dante, negli passi, e altri così fatti, è ciò avvenuto, perché gli antichi ponevano alcuna volta lo articolo lo, non solamente quando seguitava alcuna vocale, o due consonanti, come lo amore, e lo spirito, ma eziandio semplicemente in luogo dell'il, nelle parole ancora di più d'una sillaba, come lo passo, onde conseguentemente dicevano nel plurale gli passi, come negli spiriti, e non ne' spiriti. Le quali cose sebbene da molti ancora di coloro che fanno professione della lingua, osservate non sono, non è che osservare non si debbiano da chi vuole correttamente, e regolatamente scrivere. Quando i nomi sono di genere femminino, allora nel singulare si dice in qualunche lettera cominci la dizione che seguita, nella, e nel plurale, nelle, le quali medesimamente si scrivono da alcuni, come una parola sola, con due l, e da alcuni come due, con una sola, siccome nelle città, ne le città, e così di tutti gli altri. Né d'intorno a questo mi resta altro che dirvi, se non che la ne si pone alcuna volta in vece della preposizione contra, come quando il Boccaccio disse: Avendo alcuno odio ne' Fiorentini; come si fa ancora la in, così in buona parte, cioè verso. Il Petrarca: In me movendo de' begli occhi i rai, come in rea, cioè contra. Il medesimo: Ajace in molti, e poi in se stesso forte.
C. Prima che procediate più oltre, non vi gravi dichiararmi alcuni dubbj; il primo de' quali è questo: voi avete detto che alcuni scrivono nello con due l, come se fosse una voce sola, e alcuni con una, come se fossero due voci; e che il primo, come più agevole, e più conforme alla pronunzia Fiorentina, vi piace più. Ora egli mi pare d'aver letto il contrario, cioè, che sia meglio scriverlo, come due dizioni, con una l sola; e alcuni vogliono, e danno ciò per regola, che nelle prose si debbia scrivere nello, come una dizione sola, e nelle rime ne lo, come due; come ancora dello, e de lo, allo, e a lo, e gli altri; e che queste particelle nel, e del si debbiano scrivere coll'apostrofo, cioè ne 'l, e de 'l, e così degli altri.
V. Il patto posto tra noi è ch'io vi dica liberamente l'oppenione mia, e di poi lasci giudicare, e risolvere a voi. Non voglio già mancare di dirvi quel proverbio parermi verissimo: Chi troppo s'assottiglia, si scavezza. E che ben facevano per mio giudizio i Pretori Romani, i quali delle cose menomissime non rendevano ragione. E in somma io per me vorrei, come disse dottamente, e giudiziosamente Messer Annibale, la briglia, non le pastoie, il digiuno, non la fame, l'osservanza, non la superstizione; il che io vi dico non tanto per rispondervi a quello di che dimandato m'avete, quanto per non vi rispondere a molte cose delle quali mi potreste per avventura dimandare, come è quella che pure colle parole di Messer Annibale m'è uscita di bocca, se si debbe scrivere non le pastoie, colla lettera n, o nolle pastoie, con due l; e così di tutte l'altre somiglianti, le quali o non caggiono sotto regola, o non vi sono ancora state fatte cadere; e anco sapete che tutte le regole patiscono eccezione. Ecco io v'ho detto che quando la parola che seguita, comincia da vocale, egli non si dice in, nel numero del meno, ma nello: se la voce è masculina, e nella, se femminina; e pure il Petrarca disse: Pommi'n Cielo, od in Terra, od in Abisso. In tutte le cose vale più che altro il giudizio, e la discrezione: io spero in Dio, sta benissimo: io spero in Dio del Cielo, no.
C. Avvertite che io intendo che il Castelvetro non vuole che si dica benissimo.
V. Diciamo dunque ben bene, o ottimamente, per non far quistione di sì piccola cosa.
C. Ditemi da vero, se benissimo è ben detto.
V. Non solamente bene, ma benissimo.
C. Perché?
V. Perché così si favella in Firenze, e perché così usano oggi tutti quelli che Fiorentinamente scrivono; sebbene il Boccaccio noll'usò egli. Ma, tornando al caso nostro, non è questa buona, e vera regola data dal Bembo, che a tutte le dizioni le quali cominciano dalla consonante s che abbia dopo sè alcuna, o più altre consonanti, si debbia porre dinanzi la vocale i ogni volta che la dizione precedente termina in consonante; com'il maggior Poeta: Non isperate mai veder lo cielo. e il più leggiadro: Per iscolpirlo immaginando in parte. E similmente ne i nomi non si dice in scrittura, che troppo sarebbe aspro cotal suono, ma in iscrittura; e nondimeno, non che gli altri, il Petrarca stesso usò molte volte altramente, come là: E se di lui forse altra donna spera, Vive in speranza debile e fallace. E quante volte disse non spero, in luogo di non ispero? Io v'ho detto ancora che quando seguita l'articolo, non si può dire in, ma è necessario dire nello, nella, e pur disse il Petrarca: Ma ben ti prego che 'n la terza spera Guitton saluti, Messer Cino, e Dante, Franceschin nostro, e tutta quella schiera. e altrove: Il dì sesto d'Aprile in l'ora prima.
C. Egli non vi debbe ricordare che il Bembo vostro la seconda volta che fece ristampare le sue Prose, che fu nel 1538 v'aggiunse cotesti due versi, e disse che eglino correttamente scritti non erano, perché il primo doveva dire: Ma ben ti prego nella terza spera. e il secondo: Il dì sesto d'Aprile all'ora prima.
V. Io me ne ricordo d'avanzo, e vi dico, che ne favellai col Bembo stesso, e gli allegai, oltra molti luoghi di Dante, infiniti esempj di tutti gli autori moderni non solamente Italiani, e Toscani, ma eziandio Fiorentini, come fra gli altri il Signor Luigi Alamanni, e Messer Lodovico Martelli. Al che egli con quella incomparabile sua benignità mi rispose che tutto sapeva, ma che aveva dato la regola generale vera, e buona, e lasciato l'eccezioni a discrezione de' leggitori, ancoraché cotale locuzione per patto nessuno non gli piacesse; del che fu certissimo argomento che egli, il quale nelle sue rime alcuna volta usata l'aveva, la levò; il che fu cagione che io, il quale posta l'aveva una fiata nelle mie, la rimossi, e rimutai. Né perciò voglio che crediate che io, quando bene mi tornasse, non l'usassi, dico quando ancora non si ritrovasse in Dante, o negli antichi scrittori tante volte, quanto ella vi si ritrova; perché, come io v'ho detto, e dirò più volte, l'uso è quello che tutto può, e tutto vale nelle lingue. E io non credo aver letto alcun rimatore moderno di qualunque nazione, il quale più volte cotal locuzione usato non abbia. Ma quali sono gli altri dubbi vostri?
C. Seguitate pur il ragionamento incominciato, che i miei dubbj per le cose che detto avete, parte sono sciolti, e parte non sono più dubbj, detto che voi m'arete due cose. La prima, se come negli antichi, e ne' moderni scrittori si truova in la dinanzi a' nomi, così si truova eziandio in lo davanti a' verbi, come in lo stare, in lo andare, in vece di nello stare, e di nello andare. La seconda, perché, se nella si dee scrivere (secondoché voi dite) con due l, come una dizione sola, Dante disse sì in altri luoghi, e sì nel ventesimo settimo canto del Purgatorio: Questo è diviso spirito che ne la Via d'andar su ne drizza senza prego.
V. Quanto alla prima delle vostre dimande, io non mi ricordo d'aver mai letto in approvato Autore in lo dinanzi al verbo, e però, sebbene l'analogia pare che lo conceda, io, infinoché alcuno di qualche fama in lo scrivere suo non l'usasse, non ardirei di porlo nelle mie scritture. Quanto alla seconda, o io v'ho detto, o io almeno ho voluto dirvi, che queste, come alcune altre minutezze, non essendo diterminate, sono indifferenti, cioè si possono nell'una guisa, e nell'altra, secondo che meglio torna, usare da chi scrive, e massimamente nelle rime, per cagione delle quali mutò Dante molte volte gli accenti, talché dove era prima l'acuto, si scriveva, e profferiva il grave, e quello ch'era prima grave, rimaneva acuto: Percoteansi insieme, e poscia pur lì. E altrove: Mossimi, e 'l Duca mio si mosse per lì. E più chiaramente nel XXX. canto del Paradiso: La cieca cupidigia, che v'ammàlia, cioè ammalìa, che i Latini dicevano fascinare; sebbene fascinare è proprio quello che noi diciamo far mal d'occhio. Ma queste nel vero si possono piuttosto chiamare licen- zie, che modi ordinarj di favellare, de' quali noi parliamo al presente.
C. Quello che diceva, o voleva dire io, mi pare che più consista nel levare una consonante, che in trasportare l'accento.
V. I poeti Toscani, e massimamente Dante, seguitando le figure così de' Greci, come de' Latini, levano talvolta non solo una sillaba delle dizioni, ma una consonante sola, come quando Dante disse: E venne serva la città di Baco, in vece di Bacco, e talvolta l'aggiugnevano. Il medesimo Dante: Ebber la fama, che volentier mirro, in vece di miro.
C. Il Vellutello spone in cotesto luogo mirrare dalla mirra, quasi volesse dire, imbalsimare, e conservare: e alcuni non solo approvano così ridicola interpretazione, ma si fanno beffe di Dante.
V. Lasciate fare, e dire a ognuno quello che vuole, e guardatevi voi di non creder loro.
C. Così farà, per quanto basteranno le mie forze; ma ripigliate il ragionamento vostro.
V. Quando la particella ne serve a i verbi, ella si pone alcuna volta davanti, e alcuna di dietro ad essi. Quando ella si pone davanti, ciò avviene in due modi, perché alcuna volta ella non significa, e non riferisce né persone, né casi; e alcuna volta riferisce, e significa così l'uno, come gli altri. Quando ella non riferisce né persone, né casi, ella si pone molte volte più per dar grazia, e ornamento alle scritture, e per un cotal modo di parlare, che per bisogno che elle n'abbiano, come quando il Petrarca disse: . . . . . . .Però n'andai Secur senza sospetto, onde i miei guai ec. E il Boccaccio parlando di Ser Ciappelletto, poiché fu morto, disse: Quello a guisa d'un corpo santo nella Chiesa maggiore ne portarono. E la cagione è, perché egli non si dice solamente io vo, tu vai, ma ancora, io ne vo, tu ne vai, e di più io me ne vo, tu te ne vai, onde poteva ancor dire, secondoché si legge in alcuni testi, m'andai, in vece di men'andai; e così si dice io vengo, io ne vengo, io me ne vengo, nel medesimo significato; onde nasce che quello che i Latini non posson dire nel modo imperativo, cioè nella maniera che comanda, se non con una parola, cioè veni, i Toscani possono dirlo con otto.
C. Questa mi pare una grande abbondanza, ma quali sono eglino?
V. Vieni, o vien, vieniti, o vienti, vienine, o vienne, vienitene, o vientene, e forse sene troverrebbero due altre, chi sottilmente andarla ricercando volesse; ma, ripigliando dove lasciai, quando il Boccaccio disse: Ma tra tanti che nella mia Corte n'usano. E tra' quali ne fu uno. E né più, né meno ne farà: la particella ne, quanto al sentimento, non v'ha che fare cosa del mondo; come ancora là: Il quale senza arrestarsi sene venne a casa. Similmente in queste parole: A volerne dire quello che io ne sento, bastava dire: a voler dire quello che io ne sento, o a volerne dire quello che sento, o a voler dirne quello che sento; ma l'uso porta molte volte, che ella si raddoppi, come, a voler dirne quello che io ne sento. Quando ella poi riferisce persone, e casi, o cose che le vadano innanzi, ella si truova, parlando del numero singulare, in due casi solamente, nel genitivo, e nell'allativo; se nel genitivo, significa o di lui masculino, o di lei femminino, o di quello neutro, cioè di quella cosa; come chi, favellando o d'uno uomo, o d'una donna, o d'una qualche cosa, dicesse: io ne sono informato, o io ne resto soddisfatto. Se nell'allativo, significa o da lui, o da quella cosa, come chi intendendo o da uomo, o da donna, o da alcuna altra cosa di genere neutro, dicesse: egli ne seguirono infiniti beni. Alcuna volta l'antecedente, cioè quello che va innanzi, e che si debbe riferire dalla ne, è singulare, e ciò non ostante che la ne, come se plurale fosse, lo riferisce, come si può vedere in queste parole del Boccaccio: Con lo aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne potevano. E quello che è più da notare, è, che l'antecedente è alcuna volta tutta una parte, o una sentenza intera, come quando il Boccaccio disse, pur di ser Ciappelletto favellando: E, se egli si pur si confessa, i peccati suoi son tanti ec., che il simigliante ne avverrà; dove ne significa, e referisce, di quel suo confessarsi ne avverrà il somigliante, cioè sarà gittato a' cani, e il Petrarca in questo medesimo modo disse leggiadramente: Quando io fui preso, e non mene guardai. E il medesimo in un altro luogo più chiaramente, ma non già con minore leggiadria: Onde nel petto al nuovo Carlo spira La vendetta, ch'a noi tardata nuoce, Sicché molti anni Europa ne sospira. Dove la ne non riferisce né Carlo, né spira, e vendetta particolarmente; ma significa che l'Europa per l'indugio di cotal vendetta ha sospirato molt'anni, e ancora sospira, il che voglio che da voi si tenga a mente, perciocché avendo il Caro nella sua Canzone usato la particella ne in questa medesima significazione, fu a gran torto non solo ripreso, e biasimato, ma deriso, e uccellato dal Castelvetro. La ne nel numero maggiore riferisce indifferentemente tutti li obliqui, e alcuna volta il retto, cioè il nominativo, e significa maschio, femmina, e neutro. Nel nominativo disse il Boccaccio: Quinci levatici alquanto n'andrem sollazzando; ma più certamente quando disse: Noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto più tosto abbandonate. Il qual modo tuttavia è tanto rado, quanto spessi gli altri. Nel genitivo disse il medesimo, favellando Bruno, e di Calandrino: E da parte di lei negli faceva, cioè dell'ambasciate da parte della Niccolosa. Nel dativo: Perciocché il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo. Nell'accusativo, ovvero quarto caso: Sole in tanta afflizione n'hanno lasciate. Nell'allativo, ovvero sesto caso: Di quello alcuni rami colti ne le fece una ghirlanda.
C. Voi non date esempj se non di prosa; sarebbe mai che non a' poeti, ma solo agli oratori fossero cotesti modi di favellare conceduti?
V. Niente, anzi voglio che sappiate che poche sono quelle cose, anzi pochissime, le quali siano concedute agli oratori, e non a' poeti, dove a' poeti ne sono molte, anzi moltissime concedute, le quali si niegano agli oratori.
C. E perché hanno gli oratori ad aver questo disavvantaggio?
V. Perché, come vi dissi di sopra, i poeti, intendendo di quelli da dovero, sono altro che baje; e quantunque abbiano il campo largo, e spazioso, a volere che senza intoppo, e felicemente correre lo possano, fa loro mestiere di molte cose, e non mica picciole, né tali, che sene possa trovare a ogni uscio. Se volete degli esempi de' poeti, aprite, e leggete o Dante, o 'l Petrarca, i quali ne sono pieni; e a me pare molte volte di gettare via il tempo in allegargli, sì perché son chiari da per se, e sì perché ora non è il proponimento nostro insegnare la gramatica, la quale, quanto è necessaria, tanto è fastidiosa; onde passando alla ne, quando si pone dietro a' verbi, vi dico, ciò in due modi potere, e solere avvenire, perciocché alcuna volta non riferisce né persone, né casi; e alcuna volta riferisce, questi, e quelle; quando non riferisce né persone, né casi, si pone piuttosto per ripieno, che per altro, come fece Dante quando disse: Ch'a farsi quello per le vene vane. cioè va, o ne va, e ancora più chiaramente in quel terzetto: Che non era la calle onde saline Lo Duca mio, e io appresso soli, Come da noi la schiera si partine.
C. In cotesti luoghi a me pare che la ne stia molto oziosamente, e non operi cosa nessuna, e insomma non serva ad altro che a far la rima.
V. Egli non vi par male; voglio nondimeno che sappiate che in quei tempi si favellava così, anzi si diceva ancora mene, tene, per me, e te, sine per sì affermativa, tene per te, o togli, e molti altri così fatti, purché la sillaba, dietro alla quale s'aggiugneva cotal particella, avesse l'accento acuto sopra se, come fene in luogo di fee, o di fece, perdene, in vece di perdé, o perdette, come si può vedere nell'antiche scritture, e nelle moderne lingue, perché ancora oggi sono in Firenze nelle bocche de' fanciulli, e di cotali grossolani che fanciullescamente favellano, queste, e altre somiglianti parole; ma perché elle già furono dal Petrarca, e oggi sono rifiutate dall'uso de' migliori, non è dubbio che si debbono fuggire non solo nello scrivere, ma ancora nel favellare, quando nuovo uso nolle introducesse. Ma quando la ne posta dietro a' verbi riferisce le persone, e i casi, e per conseguenza è veramente affisso, ella riferisce alcuna volta il numero del meno, e alcuna volta quello del più, e in amendue riferisce tutti i generi, e tutte le persone, ma nel singulare riferisce solamente il genitivo, e l'allativo, e nel plurale tutti e quattro gli obliqui, come chi parlando o d'un maschio, o d'una femmina, o d'una cosa neutra, dicesse abbine, o abbiatene discrezione, ovvero compassione, cioè di lui, o di lei, o di quella tal cosa in genere neutro; e il Petrarca disse: Qual colpo è da sprezzare, e qual d'averne Fede, ch'al destinato segno tocchi. Nel sesto caso pur del numero minore, come chi dicesse: né da uomo, né da donna, né da cosa mortale bisogna sperare veri beni, ma pigliarne quello, che altri può. Nel genitivo plurale: questi sono vostri figliuoli, o figliuole, o altra cosa neutra, abbiatene cura da voi. Nel dativo: danne, o dinne. Nell'accusativo: empine, o ingombrane dell'amor tuo. Nell'allativo: dalle cose divine non dee l'uomo rivolgere gli occhi, o discostarsene; i quali esempj sono frequentissimi, e più apparenti non solo appo i prosatori, ma eziandio appresso i rimatori. Il Petrarca: Ricorditi che fece il peccar nostro Prender Dio, per scamparne, Umana carne. E altrove: Po ben puoi tu portartene la scorza. E in un altro luogo: E portarsene seco ec. E Dante: Per recarne salute a quella fede; dove pare che ne significhi di quivi, o di là, o come formò egli stesso, linci, cioè di quel luogo; come anco il Petrarca disse: Potea innanzi a lei andarne ec. cioè di quì; e in altri modi somiglianti.
C. Alla buona, che Messer Annibale seppe che dirsi, quando a carte 110 della sua Apologia avvertì il Castelvetro che dovesse mirar bene alla pregnezza di quella particella ne, mostrandogli che queste sono gioje, non quelle che egli vanamente, e senza alcun frutto, anzi bene spesso con non piccol danno considera. Ma voi, per quanto mi par di vedere, l'avete fatta sgravidare, e spregnare.
V. Figliare dovevate dire, o piuttosto partorire, quanto alla lingua, ma quanto alla verità non abortare, o disperdersi, come dite voi altri, ma sconciare; imperocché fino a quì avete veduto solamente gli affissi scempj, e non i doppj, i quali come sono più leggiadri, così sono ancora più faticosi, e in essi ha la particella ne la sua parte. Della quale non vi voglio dire altro, se non che ella di sua natura è tanto schifa, e ha così in odio la vocale i, che mai non la vuole, né la pate avanti di se, anzi sempre la muta, e rivolge nell'e chiusa in tutte queste particelle dette di sopra, mi, ti, si, ci, vi, le quali postele dinanzi divengono necessariamente me, te, se, ce, ve; e il medesimo dico delle particelle la, le, li, lo, gli, tanto nel maggior numero, quanto nel minore.
C. Voi mi fate maravigliare; ma, per dirne il vero, io non intendo ancora questi affissi, né gli scempj, né i doppj, e vi scongiuro che vi piaccia dichiararmegli minutamente, come solete fare quando volete.
V. Già la maraviglia da altro non procede, che dal non intendere, conciossiaché chi sa le cagioni delle cose, non ne prende maraviglia; ma, per dirvelo alla Greca, noi facciamo troppi parerghi, cioè usciamo troppo spesso di proposito.
C. A me giova più di queste digressioni, che d'altro.
V. Tal sia di voi. Io per me mi consolo che non doverrà esser minor fastidio a voi l'ascoltare, che a me tedio, non vo' dir fatica, il raccontare cose le quali, avvengadioché sieno utilissime, anzi necessarissime a sapersi non hanno però in se né diletto mentre s'apparano, né leggiadria quando s'insegnano. Porgetemi dunque l'orecchie, e state attento, che sentirete una ricchezza di lingua maravigliosa, ricordandovi prima che io chiamo affissi proprj ogni volta che le particelle che gli fanno, sono dopo il verbo; e improprj quelli i quali hanno le particelle da cui sono fatti, dinanzi. Affissi doppj sono quelli dove intervengono le particelle che sono o pronomi, o relativi; gli scempj quelli, ne' quali elle non intervengono, come più chiaramente vi mostrerranno gli esempj. Cominciando dunque dagli scempj parte proprj, e parte improprj, dirò così: Io dono me a te, Io mi ti dono, Io mi dono a te, Donomi a te, Io ti dono me, Donomiti. Di questi sei modi di favellare, il primo è ordinario, e non vi sono affissi, e chi dicesse io a te dono me, o a te me dono, o dono a te me, non farebbe affissi. I tre seguenti sono affissi improprj, il quinto è affisso proprio; il sesto e ultimo, proprissimo.
C. Piacemi; ma perché lasciate voi l'affisso improprio: Io ti mi dono, e il proprissimo donotomi?
V. Perché l'uso, dal quale dipende ogni cosa, non gli ha accettati. Io dono me a colui, Io me gli dono, Io mi dono a colui, Io gli mi dono, Donomegli, Donoglimi, Donomigli non s'usa, e meno io me dono, se non se forse in contado. Io dono me a voi, Io mi dono a voi, Io vi dono me, Donomi a voi, Donomivi, Donovimi, e io vi mi dono non par che s'usino. Io dono me a coloro, o a loro, o loro, o ad essi, o a quelli, o a quegli, Donomi a coloro.
C. Questo modo è molto povero, rispetto agli altri; ma perché non si dice egli con affisso improprio, io me gli dono, o gli mi dono, o con proprio, donoglimi?
V. Perché cotesti sono del numero del meno, dove io gli vi raccontai. Ma fornito il pronome della prima persona, passeremo a quello della seconda. Tu doni te a me, Tu mi ti doni, Tu ti doni a me, Doniti a me, Tu mi doni te, Donimiti, Tu ti mi doni, o Donimiti, non sono in uso. Tu doni te a colui, Tu doni te a noi, Tu ti doni a colui, Tu ti doni a noi, Tu gli doni te, Tu ti ci doni, Tu te gli doni, Doniti a noi, Tu gli ti doni, Donitici, Doniti a colui, Donigliti, Donitegli, Donitigli non si dice. Tu ci ti doni, e Doniciti, non s'usano: come non s'usano ancora, Tu ne ti doni, donitene, doneniti, e se altri tali si possono formare; perché non basta l'analogia senza l'uso. Tu doni te a coloro, Tu ti doni a coloro, Doniti a coloro, Tu te gli doni, o donitegli, o gli ti doni, sono del singulare, come s'è veduto; onde finita la prima, e seconda persona del singulare, passeremo alla terza. Colui dona se a me, Donasi a me, Colui si dona a me, Donamisi. Colui mi si dona, Si mi dona, me si dona, e donasimi, ordinariamente non si dicono. Colui dona se a te, Colui ti si dona, Colui si dona a te, Donasi a te, Colui ti dona se, Donatisi, Si ti dona, e donasiti, non s'usano. Colui, o egli, dona se a colui, Egli si dona a colui, Donasegli, Egli gli si dona, Donaglisi. Donaglisi, non par che si dica.
C. Perché non dite voi ancora colui dona se a se?
V. Cotesta reciprocazione si può fare quanto all'immaginazione, ma quanto al vero, e all'uso del parlare, non pare che possa accadere, e perciò non l'ho posta; che similmente poteva io dire: io dono me a me, e altri cotali. Colui dona se a noi, Donasi a noi, Colui si dona a noi, Donacisi, Colui ci dona se, Donasici, Colui ci si dona, Se ne dona, ne si dona, se ne dona, donasene, in questo sentimento non si truovano usate, che sappia io. Colui dona se a voi, Colui vi si dona, Colui si dona a voi, donasi a voi, Colui vi dona se, Donavisi. Si vi dona, e donavisi, non si truovano. Colui, o egli dona se a coloro, Colui si dona a coloro, Donasi a coloro. Ora finito il numero minore, passeremo al maggiore. Noi doniamo, o doniam noi a te, Noi ci doniamo a te, Noi ti doniamo, o doniam noi, Non ti ci doniamo, o doniam, Doniamoci, o doniamoci a te, Doniamotici, o doniamtici, Doniamone a te, Ne ti doniamo, Noi ne doniamo a te, Noi ne ti doniamo, Doniamociti, e se altri tali formare se ne possono, non sono in uso, al quale è forza ubbidire. Noi doniamo, o doniam noi a colui, Noi ci doniamo a colui, Noi cegli doniamo, o doniam, Doniamoci, o doniamci a colui, Doniamocegli, o doniamcegli, Doniamoglici, o doniamglici. Noi ne doniamo, Doniamone in questo significato non s'usano. Noi doniamo, o doniam noi a voi, Noi ci doniamo a voi, Noi vi doniamo, o doniam noi, Noi vi ci doniamo, o doniam, Doniamoci a voi, Doniamovici, o doniamvici. Noi ne doniamo a voi, Noi ci vi doniamo, Doniamone a voi, Doniamo, o doniamcivi, non par che siano in uso. Noi doniamo, o doniam noi a coloro, Noi ci doniamo a coloro, Doniamoci, o doniamci a coloro. Noi ne doniamo, o doniamone a coloro, in questa cotale significazione non si favella, e meno si scrive. Voi donate voi a me, Voi vi donate a me, Voi mi vi donate, Donatevi a me, Donatemivi. Donatevimi, o voi vi mi donate, non s'usano. Voi donate voi a colui, Voi vi donate a colui, Voi vegli donate, Voi gli vi donate, Donatevegli. Donateglivi, non si dice. Voi donate voi a noi, Voi vi donate a noi, Voi vi ci donate, Donatevici. Donatecivi, e ci vi donate, non si dice, né vi donate a noi, in questo significato. Voi donate voi a coloro, Voi vi donate a coloro,Donatevi a coloro. A questo esimo, come dicevano gli antichi cioè a questo ragguaglio, e con questa proporzione potrete formare tutti gli affissi scempj proprj, e improprj in tutti gli altri modi, persone, e tempi di tutti gli altri verbi; e perciò trapasseremo a doppj così proprj, come improprj nel medesimo verbo per maggiore agevolezza vostra. Io lo dono a te, Io il ti dono, Io te lo dono, o tel dono, Donolo a te, Io lo ti dono, Donotelo, Io il dono a te, Donoloti, o donolti. Io lo dono a lui, o a colui, Io il dono a lui, Io lo gli dono, Io gliele dono, o gliel dono, Donogliele, o donogliel. Donologli, o donolgli, s'usano di rado, e piuttosto non mai.
C. Perché dite voi nel terzo modo, io gliele dono, che par di genere femminino, non masculino, o neutro, e non, io glielo dono, e nel quinto piuttosto donogliele, che donaglielo?
V. Per una proprietà così fatta della nostra lingua, alla quale vi bisogna por mente, perché molti c'errano. Dovete dunque sapere che gliele com'è doppia, così rappresenta due casi, o innanzi, o dopo il verbo, che si ponga; prima il dativo, ma singulare solamente, sia di che genere si vuole, poi l'accusativo così singulare come plurale, sia medesimamente di qual genere si vuole; onde non si può dire, chi vuole correttamente favellare: piglia, verbigrazia, questo fiorino, il quale è d'Alessandro, o dell'Alessandra, e rendiglielo, perché bisogna dire rendigliele, né favellerebbe regolatamente chi dicesse: queste cose sono d'Alessandro, e dell'Alessandra, toi rendigliele, perché si dee dire rendile loro, intendendo di tutti e due: similmente chi dicesse: togli que' danari, che sono d'Alessandro, o dell'Alessandra, e rendiglieli, fallerebbe, perché è necessario dire rendigliele. Gli esempj del Boccaccio allegati da Monsignor Bembo nelle sue Prose dimostrano ciò chiaramente, e sono questi tre: Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che se io n'avessi alcuno alle mani, che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi. E altrove: Paganino da Monaco ruba la moglie di M. Ricciardo di Chinzica, il quale sappiendo dove ella è, va, e divenuto amico di Paganino, raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele concede. E altrove: Avvenne ivi a non gran tempo, che questo Catalano con un suo carico navicò in Alessandria, e portò certi falconi pellegrini al Soldano, e presentogliele. Dicesi ancora per accorciamento gliel. Il Boccaccio: Trattosi un anello di borsa, da parte della sua donna gliel donò. E così gliel graffiò, gliel disse, e altri; ma io essendomi sdebitato di quanto vi promisi di sopra in quanto a questa particella gliele, seguiterò gli altri affissi, che il medesimo dice il Bembo della particella ne, come gnene, però non ne faremo più lungo sermone: Io lo dono a voi, Io il dono a voi, Io il vi dono, Io velo dono, o vel dono, Donovelo, Io lo vi dono, Donolovi, o . Io lo dono a coloro, Io il dono a coloro, Donolo a coloro. Io glielo, o glieli dono, non si dice per le ragioni suddette. Tu lo doni a me, Tu il doni a me, Donilo a me, Tu melo doni, Donimelo, Tu lo mi doni, Donilomi, o donilmi. Tu lo doni a colui, Tu il doni a colui, Donilo a colui, Tu gliele doni, Donigliele, Tu lo gli doni, Donilogli, Tu lo doni a noi, Tu il doni a noi, Tu ce lo doni, Donilo a noi, Tu lo ci doni, Donicelo, Tu ne lo doni, Doniloci. Donilne, e altri tali non sono in uso. Tu lo doni a coloro, Tu il doni a coloro, Donilo a coloro, Colui lo dona a me, Colui il dona a me, Donalo a me, Colui il mi dona, Donamelo Colui me lo dona, Donalomi, o donalmi. Colui lo dona a te, Colui il dona a te, Colui il ti dona, Colui telo dona, o tel dona, Colui lo ti dona, Donatelo, Donalo a te, Donoloti, o donalti. Colui, o egli, lo dona a colui, Egli il dona a colui, Donalo a colui, Colui lo dona a noi, Colui il dona a noi, Colui ne lo dona, Colui il ci dona, Donalo a noi, Colui celo dona, Donacelo, Colui lo ci dona, Donaloci, o donalci. Donalone, e altri così fatti non si dicono. Colui lo dona a voi, Colui il dona a voi, Colui lo vi dona, Colui il vi dona, Donalo a voi, Colui ve lo dona, Donalovi, o donalvi. Colui lo dona a coloro, Colui il dona a coloro, Donalo a coloro, Noi lo doniamo a te, Noi il doniamo a te, Noi il ti doniamo, o doniam, Noi telo, o tel doniamo, o doniam, Doniamolo a te, Doniamotelo, o doniamtelo, Doniamoloti, o doniamolti. Noi lo doniamo a colui, Noi il doniamo a colui, Noi gliele doniamo, o doniam, Noi lo gli doniamo, o doniam, Doniamolo a colui, Doniamologli, Doniamogliele, o gliele doniamo. Noi lo doniamo a voi, Noi il doniamo a voi, Noi velo doniamo, o doniam, Noi lo vi doniamo, o doniam, Doniamolo a voi, Doniamovelo, o doniamvelo, Doniamolovi, o doniamolvi, Noi lo doniamo a coloro, Noi il doniamo a coloro, Doniamolo, o doniamolo a coloro. Voi lo donaste a me, Voi lo mi donate, Voi il donate a me, Donatelo a me, Voi melo, o mel donate, Donatemelo, Donatelomi, o donatelmi. Voi lo donate a colui, Voi il donate a colui, Donatelo a colui, Voi gliele donate, Donategliele, Voi lo donate a noi, Voi lo ci donate, Voi il donate a noi, Voi nelo donate, Voi celo, o cel donate, Donatelo a noi, Voi lo gli donate, Donatecelo, o donatenelo. Donateloci, o donatelci, Lo ne donate, e altri così fatti molti non si truovauo. Voi lo donate a voi (per dirvi anco uno esempio di questa reciprocazione). Voi il donate a voi, Voi lo vi donate, Voi il vi donate, Donatelo a voi, Voi velo donate, Donatevelo, Donatelovi, o donatelvi. Voi lo donate a coloro, Voi il donate a coloro, Donatelo a coloro, Coloro lo donano a me, Coloro il donano a me, Coloro melo donano, Coloro il mi donano, Coloro lo mi donano, Donanomelo, o donanmelo, Donanolomi, o donanolmi. Coloro lo donano a te, Coloro il donano a te, Coloro telo, o tel donano, Coloro il ti donano, Coloro lo ti donano, Donanolo, o donanlo, o donallo a te, Donanolti, e simili sono troppo duri a pronunziare. Coloro lo donano a colui, Coloro il donano a colui, Coloro gliele donano, Donanlo a colui, Donanogliele, o donangliele, Lo gli donano, e altri son fuori uso. Coloro lo donano a noi, Coloro il donano a noi, Coloro il ci donano, Coloro celo, o cel donano, Coloro lo ci donano, Coloro nelo donano, Donanolo, o donanlo a noi, Donancelo, Donanoloci, o donanolci. Coloro lo donano a voi, Coloro il donano a voi, Coloro velo donano, Coloro il vi donano, Coloro lo vi donano, Donanolo, o donanlo a voi, Donanovelo, o donanvelo, Donanolovi, o donanlovi. Coloro lo donano a coloro, o a quegli, Coloro il donano a quegli, Coloro donanolo, o donarlo a quegli. Voi mediante questi esempj potrete formare tutti gli altri da voi, i quali sono infiniti, e anco ritrovare, se io per la fretta, o per lo fastidio n'avessi o lasciati, o traposti: né crediate che tutti quelli che si possono formare, si possano anco usare, perché bisogna l'uso, e 'l giudizio dell'orecchio, e vi gioverebbe più un poco di pratica, che quante regole vi potessi dare; che a chi è versato ne' buoni autori, gli vengono detti, e scritti che egli non sene accorge. E il Sanazzaro, trattone alcuni, i quali sono poco regolati, o troppo licenziosi, per la gran difficoltà (come dissi di sopra) delle rime sdrucciole, n'usa nelle sue Canzoni dell'Arcadia molti, e molto belli.
C. Io ho tante cose che domandarvi, che non so io stesso da quale mi debbia incominciare prima, e ho una gran paura di non isdimenticarlemi. Ditemi innanzi tratto, perché negli affissi proprj o scempj, o doppj si raddoppia alcuna volta la loro lettera, e alcuna volta no; conciossiacosaché voi pronunziavate poco fa ora diedemi con uno m solo, e ora dièmmi, o donómmi con due; e così dicevate talvolta donòlo, e talvolta donòllo, e molti altri somiglianti. Donde viene questa differenza, e a che ho io a conoscere quando debbo profferire, o scrivere in un modo, e quando nell'altro? Datemene alcuna regola, mediante la quale io possa, conoscendo cotale diversità, camminare sicuramente senza smarrirmi.
V. Ogni volta che il verbo, a cui gli affissi congiugnere si debbono, fornisce in lettera vocale, e ha l'accento acuto sopra l'ultima sillaba, la prima lettera dell'affisso si dee in cotal caso necessariamente raddoppiare, altramente si rimane semplice; e quinci è, che nel tempo presente si pronunzia, e si scrive vivomi con una m, e non vivommi con due, cioè io mi vivo, e nel futuro, ovvero avvenire, vivrommi con due, e non vivromi con uno, cioè mi viverò, così moromi, e morrommi, così dimmi, e dammi nel singolare, ditemi, e datemi nel plurale. Somigliantemente dallomi, e dillomi nel numero del meno, e datelomi, e ditelomi, o datelmi, e ditelmi nel numero del più, in luogo di datemelo, e ditemelo. E nel medesimo modo di tutti gli altri affissi, come staviti in camera, e statti da te: colui già davasi, e ora dassi un bel tempo; in vece di si dà, o dà a se. Facci buon viso, come già facevici: èvvi a noja, come già eravi, lo star solo? Dinne, se mai dicestine il vero; e altri infiniti.
C. Onde cavò il Bembo questa regola?
V. Dalle scritture Fiorentine, penso io.
C. E le scritture Fiorentine donde la cavarono?
V. Da coloro che Fiorentinamente favellavano; e anco l'arte, e l'ingegno di chi scrive in cotali locuzioni giova non poco. E, per rispondervi innanzi che mi domandiate, vi dico, che quando Dante scrisse nel XI
V. canto del Paradiso: Nel fare a te quel che tu far non vuomi, all'affisso non vuomi, è levata una sillaba del mezzo, per quella figura che i Latini chiamano Grecamente sincopa, cioè incisione, ovvero tagliamento, e questa è la vocale i, perché la parola intera si dee scrivere vuoimi, o voglimi, onde l'accento (come bene n'avvertisce il Bembo) è bene in sull'ultima sillaba, ma egli vi è non propriamente, ma come in sulla penultima, dovendosi pronunziare vuoimi; e così quando il medesimo fece dire a Stazio: E per paura chiuso Cristian fumi, fumi è posto in luogo di fuimi, cioè mi fui.
C. Egli disse pure nel XIII. del Paradiso, favellando di San Francesco: Ruppe il silenzio ne' concordi numi Poscia la luce, in che mirabil vista Del poverel di Dio narrata fumi; dove non pare che vaglia cotesta ragione che voi avete detta.
V. Anzi potrebbe valere, perché i nostri antichi dicevano fue, come si vede tante volte non solo in Dante medesimo, ma eziandio nel Petrarca: ma quando ciò non fosse, non importerebbe molto, conciossiacosaché Dante usi alcune volte di non raddoppiarla, perché avendo detto in un luogo regolatamente: Volseci in su colui che sì parlonne, disse in un altro fuor di regola: Perché lo spinto che di pria parlómi, in luogo di parlommi; se già alcuno non volesse dire anche quì che gli antichi dicevano parlóe, trovóe, andóe, e così di tutti gli altri; e altrove: Finche 'l tremar cessa, ed ei compiési, in vece di compiéssi, cioè si compié; e anco quì si potrebbe dire, che gli antichi nostri dicevano compiéo, come fèo, rompèo, e tanti altri; e altrove: E tal candor di quà giammai non fuci, in luogo di fucci, cioè fue quì, ovvero ci fue; e altrove: Virgilio, a cui per mia salute diemi, cioè mi diè, o diemi, in luogo di diemmi; e altrove: Dio lo si sa qual poi mia vita fusi, cioè si fu, o fuesi, in luogo di fussi.
C. Perché avete voi detto nel dar la regola, quando il verbo fornisce in vocale? E quali sono quei verbi, che in vocale non finiscono?
V. Non solo tutti i verbi, ma tutte le persone di tutti i verbi forniscono ordinariamente nella lingua Toscana in alcuna delle vocali, quando si pronunziano intere, ma l'uso gli profferisce molte volte mozzi, o tagliati, come cantiam, e non cantiamo, aman, e non amano, e allora non vale la regola, perciocché non si raddoppia la consonante, dicendosi cantiamlo con una l solo, che più stare non vene possono: similemente amanlo, sanlo, sanvi, e altri assai.
C. Non si potrebbe egli dire, che coteste voci, oltraché la pronunzia non soffera che la consonante si raddoppj, sono poste in luogo delle loro intere? Come amiamolo, amanolo, sannolo, sonovi?
V. Non solo si potrebbe, ma si doverrebbe; e per questa cagione, cioè perché rappresentassero più manifestamente i loro interi, scriverei io piuttosto sanlo con nl, che sallo con due l; il che è chiaramente singulare; e fanlo piuttosto che fallo, come usano di scrivere alcuni; e danmi in luogo di dannomi, e non dammi con due m.
C. Dunque voi scrivereste piuttosto sonmi quando significa sonomi, che sommi, come fanno quasi tutti?
V. Sì io, quando gli altri ci s'accordassero; che da me solo non oserei cosa nessuna.
C. Non sapete che la lettera n non si può trovare dinanzi alla m, ma è necessario che si converta in essa, e così dinanzi alla lettera l è forza, che si converta in l, e così di tutte l'altre somiglianti?
V. Sollo nella lingua Latina, ma nella Toscana non veggo questa necessità, e massimamente ne' casi posti di sopra, e dovunche si fuggisse l'anfibologia, cioè l'oscuro, e dubbio parlare; perché molti si potrebbon fare a credere, veggendo scritto non fanlo, ma, fallo, che fosse nome, e non verbo insieme coll'affisso.
C. La sentenza il potrebbe, e doverebbe mostrar loro.
V. Cotesto sarebbe proprio mettere il carro innanzi a' buoi, perché non a sentenza le parole, ma le parole hanno a mostrare la sentenza. E che quello che io dico, sia vera nella lingua nostra, vedete che Dante lasciò scritto: Facciangli onore, ed esser può lor caro. in luogo, di faccianogli, dove lasciò la lettera n senza convertirla in g, o in l.
C. Tenete voi che Dante, e gli altri antichi scrivessero correttamente, e secondo le regole dell'ortografia?
V. Cotesta è un'altra faccenda; io per me credo di no; ma questo per ora non fa caso; basta che Dante in un altro luogo scrisse: Dichiareranlti ancor le cose vere, in luogo di dichiarerannoloti, cioè te lo, o lo ti dichiareranno, e insomma il, o lo dichiareranno a te, che tutti questi significano una cosa medesima, come poco fa vi diceva.
C. Io so cotesto; ma io vorrei sapere se tra loro è differenza, e se v'è, (come par ragionevole) con qual regola, o legge si può conoscere.
V. Differenza v'è senza alcun dubbio, e talvolta molta, non già quanto al sentimento, ma quanto alla vaghezza, e leggiadria del parlare; ma io altra legge, o regola recare non vi saprei, se non quella stessa che disse il Bembo.
C. E quale fu cotesta?
V. Il giudizio degli orecchi, e a coloro massimamente, i quali sotto il cielo di Firenze nati, o allevati non sono; perché a' Fiorentini la natura stessa, e la proprietà del parlare insegnano agevolmente molte cose che gli altri con difficultà capiscono; e perciò disse il Bembo che questo modo di parlare: Tal la mi truovo al petto, è propriamente uso di Firenze, laddove, tal me la trovo al petto, Italiano sarebbe piuttosto, che Toscano, essendo men vago; similmente: Io le mi strinsi a' piedi pur del Petrarca, è più gentilmente detto, che non è, Io me le strinsi a' piedi: E facciamisi udir pur come suole, ha più grazia, che se avesse detto: e mi si faccia udir; e parimente: Se non tal ne s'offerse, che disse Dante, è più grazioso, che se avesse detto, tal se n'offerse; le quali sottilità conosce, e giudica più l'orecchro, che altre cosa. Perciocché qual ragione si può rendere perché Dante dicesse nel X
V. del Purgatorio: Non ti fia grave, ma fieti diletto, facendo nel primo l'affisso improprio, e nel secondo il proprio, e massimamente potendo senza fatica nessuna fargli amendue proprj, dicendo: Non fieti grave, ma fieti diletto, o fare il primo proprio, e l'altro improprio col dire: Non fieti grave, ma ti fia diletto; cose che tutte stanno nell'arbitrio, e nel giudizio del componente, onde il Sanazzaro disse in un luogo: A quella cruda, che m'incende, e struggemi. e in un altro: E con un salto poi t'apprendi, e sbalzati; ponendo nel primo luogo l'affisso improprio, e il proprio nel secondo; e altrove disse: Vedi il Monton di Frisso, e segna, e notalo; dove al primo verbo segna non pose l'affisso, parendogli che bastasse, come nel vero fa, porlo al secondo, ovvero all'ultimo, cioè al verbo nota. Piacquegli ancora nella fine di quelle rime che egli nell'ultimo luogo della sua Arcadia divinamente tradusse dal Meliseo del Pontano, dire in persona di lui: I tuoi capelli, o Filli, in una cistula Serbati tengo, e spesso, quando io volgoli Il cor mi passa una pungente aristula, ponendo il pronome io dinanzi all'affisso proprio volgoli, il che come di sopra vi notai, si suole usare di rado.
C. Io aveva sentito, come di sopra vi dissi, biasimare sconciamente l'Arcadia, e perciò non mi curava di leggerla; ora avendolami voi cotanto lodata, la voglio vedere a ogni modo; ma affineché io non m'ingannassi, piacciavi farmi avvertito, quali sono quelli affissi che in ella diceste essere poco regolati, e parte troppo licenziosi.
V. Chi biasima sconciamente le rime a sdrucciolo del Sanazzaro, debbe acconciamente lodare quelle del Serafino. Io per me non le leggo mai senza somma maraviglia, e dilettazione.
C. Io ho pure inteso che elle non piacevano al Bembo vostro.
V. Al Bembo mio Signore non dispiacevano quelle del Sanazzaro, ma non gli piacevano le rime sdrucciole, o (come dice egli alcuna volta) sdrucciolose.
C. Sapetene voi la cagione?
V. No certo; ma io credo che lo movesse più d'altro il non essere state usate dal Petrarca, lo quale pareva che egli intedesse di volere imitare in tutto, e per tutto.
C. Il Petrarca non fece però Stanze; e il Bembo nondimeno compose quelle che voi, e gli altri lodate tanto.
V. Non so dirvi altro, se non che, quanto a me, io ho un grande obbligo al Sanazzaro, e il medesimo giudico che debba fare la nostra lingua, la quale, mercè di lui, ha una sorte di poema, il quale non hanno né i Greci, né i Latini, né forse alcuno idioma che sia.
C. Che dite? Non hanno i Greci Teocrito, e i Latini Vergilio?
V. Hannogli, ma non con versi a sdrucciolo, i quali portano conesso seco tanta malagevolezza, che al Sanazzaro si può agevolmente perdonare se egli, costretto dalla rima, formò contra le regole starnosi, e fermarnosi, quando dovea dire starsi, e fermarsi; e licenziosamente disse offendami in luogo d'offendemi, e vuolno fuor di rima, in vece di vogliono, e incitassimi per inciterebbemi, e alcuni altri, come: Cantando al mio sepolcro allor direteme: Per troppo amare altrui sei ombra, e polvere, E forse alcuna volta mostrerreteme; e altrove: Ma chi verrà che de' tuoi danni accertice?
C. Leggieri biasimi mi pajono cotesti a petto alle gravi lode, che voi gli date. Ma ditemi, gli affissi congiungonsi mai con altre parti, che co' verbi, e con quegli otto verbi che raccontaste?
V. Congiungonsi co' gerundj. Petrarca: Faccendomi d'uom vivo un lauro verde E altrove: Standomi un giorno solo alla finestra. E il Boccaccio: Portandosenela il lupo. E alcuna volta cogli avverbi; che, sebben mi ricordo, il Boccaccio disse dintornomi.
C. Ricorderebbevi egli d'alcuno affisso usato da' poeti con alcuno vago, e più riposto sentimento?
V. Bisognerebbe pensarci; se già non voleste intendere come felse, in luogo di se lo fece, cioè lo fece a se; e felce in iscambio di lo ci fece, o il fece a noi; o dielce in vece di dielloci, o diello, o o diede a noi; e Dante disse dicerolti per dicerolloti, cioè lo ti dirò, o il ti dirò, o dirollo a te, ovvero dirolloti, e più volgarmente dicerollo, o lo dirò a te, e insomma te lo dirò; disse ancora Dante: uscicci mai alcuno, cioè uscì mai alcuno di qui, e altrove: Trasseci l'ombra del primo parente, cioè trasse di qui; e avvertite di non ingannarvi, come molti fanno, i quali pigliano per affissi quelli che affissi non sono, come quando Dante disse: Vassi in San Leo ec. dove vassi, non è affisso, ma impersonale in quel modo che Vergilio disse: Itur in antiquam sylvam. cioè si va, onde il medesimo Dante altrove: E dimanda se quinci si va suso. È ancora impersonale, e non affisso tutto quel verso: Più v'è da bene amare, e più vi s'ama. Similmente quando disse: E dentro della lor fiamma si geme L'agguato del caval ec. si geme non è affisso, né ancora se dicesse gemesi, perché la si in questo luogo non fa altro che dimostrare il verbo essere passivo, come ancora là: Che la parola appena s'intendea. E qualche volta non opera la si cosa nessuna. Dante: Ch'ei si mi fecer della loro schiera. E quando disse: Dove per lui perduto a morir gissi, gissi non è affisso, ma significa si gì, come là: Ed ei sen gì, come venne, veloce; cioè sen gio. Le quali cose sebbene sono notissime per se stesse, tuttavia egli non si potrebbe credere, quanto alcuni (dico ancora di coloro che fanno regole, e' vocabolisti) s'ingannino in esse.
C. I prosatori non hanno anch'essi alcuni affissi o strani, o segnalati?
V. Io lessi già in uno antico libro de' Frati Godenti della vostra terra scritto l'anno 1327. e postillato tutto di mano propria del Reverendissimo Bembo, il quale mi prestò per sua cortesia Messer Carlo Gualteruzzi da Fano, uomo delle cose Toscane assai intendente, mettilevi, cioè mettivele, lascialivi, tranele fuori, etto', cioè e toi, traline, lane trai, gli vi si rasciughi entro, soffiagliene, solesselo, cioè lo solesse, doglionti, lo ne guaristi, vuolela per la vuole, berela per berla, e molti altri così fatti; ma, se mi volete bene, usciamo oggimai di questi affissi, che mi pare anzi che no, che noi ci siamo confitti dentro, e credo vi sieno già buona pezza venuti a noja così bene, come a me.

C. Oh state cheto, anzi m'hanno raddoppiato la voglia di sapere così feconda lingua, però dichiaratemi.
Da chi si debbano imparare a favellare le lingue, o dal volgo, a da' maestri, o dagli scrittori
Quesito ottavo

V. Le parole di questa dimanda dimostrano apertamente che voi intendete delle lingue, parte vive, cioè che si favellino naturalmente, e parte nobili, cioè che abbiano scrittori famosi. Per dichiarazione della quale vi dirò pri mieramente, come tutte le lingue vive, e nobili consistono (come ne mostra Quintiliano) in quattro cose; nella ragione, nella vetustà, ovvero antichità, nell'autorità, e nella consuetudine, ovvero nell'uso. L'uso, per farci dalla principale, e più importante, ultimo in numero, ma primo in valore, è di due maniere; o del parlare, o dello scrivere. L'uso del parlare d'alcuna lingua, ponghiamo per più chiarezza della Fiorentina, è anch'egli di due maniere, universale, e particolare. L'uso universale sono tutte le parole, e tutti i modi di favellare che s'usano da tutti coloro, i quali un muro, e una fossa serra, cioè che furono nati, e allevati dentro la città di Firenze, e se non vi nacquero, vi furono portati infanti (per mettere in consuetudine, o piuttosto ritornare in uso, questo vocabolo), cioè da piccolini, e anziché favellare sapessero. L'uso particolare si divide in tre parti; perciocché, lasciando stare l'infima plebe, e la feccia del popolazzo, della quale non intendiamo di ragionare, il parlare di coloro, i quali hanno dato opera alla cognizione delle lettere, aggiugnendo alla loro natìa o la lingua Latina, o la Greca, o amendue, è alquanto diverso da quello di coloro, i quali non pure non hanno apparato lingua nessuna forestiera, ma non sanno ancora favellare correttamente la natìa; onde, come quel primo sarà chiamato da noi l'uso de' letterati, così questo secondo, l'uso, o piuttosto il misuso, degli idioti, che misurare dicevano gli antichi nostri quello che i Latini abuti, cioè malamente, e in cattiva parte usare. Tra l'uso de' letterati, e il misuso degli idioti è un terzo uso, e questo è quello di coloro, i quali, sebbene non hanno apparato nessuna lingua straniera, favellano nondimeno la natìa correttamente, il che è loro avvenuto o da tutte, o da due, o da ciascheduna di queste tre dose, natura, fortuna, industria. Da natura, quando sono nati in quelle case, o vicinanze, dove le balie, le madri, e i padri, e i vicini favellavano correttamente. Da fortuna, quando, per esser nati o nobili, o ricchi, hanno avuto a maneggiare o pubblicamente, o privatamente faccende orrevoli, e conversare con uomini degni, e di grande affare. Dalla industria, quando senza lo studio delle lettere Greche, o Latine si sotto dati alla cognizione delle Toscane, o per praticare co' letterati, o con leggere gli scrittori, o coll'esercitarsi nel comporre, o con tutte e tre queste cose insieme. E perché questi tali non si possono veramente, né si debbono chiamare idioti, né anco veramente letterati, nel significato che pigliamo letterati in questo luogo, gli chiameremo non idioti, e l'uso loro sarà quello de' non idioti.
C. Piacemi questa divisione; ma se i non idioti favellano correttamente la lor lingua natìa, che s'ha egli a cercare altro? E in qual cosa sono eglino differenti da' letterati? I quali già non faranno altro in questo caso, che favellare correttamente ancora essi.
V. Voi dubitate ragionevolmente; ma se non vi fosse altra differenza, si v'è egli questa, la quale non è mica piccola, che i letterati sanno per qual cagione dicono piuttosto così, che così, o almeno quali, o perché queste sono proprie locuzioni, e quelle improprie, e traslate, e infinite, altre cose; dove i non idioti, non sanno talvolta perché, o in che modo si debbano congiugnere insieme il verbo, e il nome; e insomma questi procedono colla pratica sola, e quelli ancora colla teorica; senzaché, sebbene ho detto che gli uni, e gli altri correttamente favellano, non perciò si dee intendere che i letterati per la maggior parte non favellino più correttamente, che gli non idioti non fanno, come gli non idioti più correttamente, che gli idioti.
C. Non si truovano di quelli, i quali sono dottissimi o in Greco, o in Latino, o in amendue questi linguaggi, e contuttociò sono forestieri, e favellano barbaramente nelle lor lingue proprie?
V. Così non sene trovassero; e il Bembo agguaglia la follia di costoro a quella di coloro, i quali bellissime, e ornatissime case murano ne' paesi altrui, e nella patria loro propria abitano male, e disagiosamente.
C. Senza dubbio cotestoro lasciano (come si dice) il proprio per l'appellativo; ma come si debbono chiamare in questa vostra divisione?
V. Come più vi piace; le parole di sopra mostrano che, quanto alla presente materia s'appartiene, si debbano chiamare idioti.
C. Io credeva che idiota volesse oggi significare volgarmente un uomo senza lettere.
V. Già non lo piglio io in altra significazione, nonostanteché appresso i Greci, onde fu preso, significhi privato.
C. E' mi pare un passerotto, o (come diceste voi dinanzi) che implichi contraddizione, che uno che sia letterato, non abbia lettere.
V. Se egli hanno lettere, e' non hanno di quelle lettere, delle quali noi favelliamo. Anco molti preti, e notaj hanno lettere, e nientedimeno nella lingua propria sono barbari, e conseguentemente idioti. Bisogna bene che voi avvertiate che nonostanteché io abbia chiamato questo uso diviso in tre, uso particolare, egli non è che non si possa, anzi si debba, chiamare uso comune, perché egli comprende in effetto tutta la città; conciossiacosaché gl'idioti sanno tutto quello che la plebe; i non idioti, tutto quello che la plebe, e gli idioti; i letterati, tutto quello che la plebe, gli idioti, e i non idioti insieme, fuori solamente alcuni vocaboli d'alcune arti, o mestieri, i quali non importano né alla sostanza, né alla somma del tutto; onde perché gli abusi, o piuttosto misusi, non sono usi semplicemente, ma usi cattivi, lasceremo da parte (seguitando l'autorità di Quintiliano) l'uso degli idioti, e diremo che il vero, e buono uso sia, principalmente quello de' letterati, e secondariamente quello de' non idioti, avvisandovi che nel favellare non si dee por mente ad ogni cosellina, anzi, come n'ammaestra Cicerone, accomodarsi in favellando all'uso del popolo, e riserbare per se la scienza; perciocché, oltraché il fare altramente, pare un volere essere da più degli altri, si fugge eziandio l'affettazione, della quale niuna cosa è più odiosa, e da doversi maggiormente schifare. Ora, per rispondere alla dimanda vostra, dico che le lingue s'hanno a imparare a favellare dal volgo, cioè dall'uso di coloro che le parlano.
C. Dunque un forestiere non potrà mai favellar bene Fiorentinamente, se egli non viene a Firenze?
V. Non mai; anzi non basta il venire a Firenze, che bisogna ancora starvi, e di più conversare, e badarvi: e molte volte anco non riesce, perché Messer Lodovico Domenichi è stato in Firenze quindici anni continui, e con tutte le cose sopraddette non ha ancora apparato a parlare Fiorentinamente.
C. Egli sa pure Fiorentinamente scrivere.
V. Noi ragioniamo del parlare, e non dello scrivere.
C. Deh, poiché noi siamo qui, ditemi qualcosa ancora dell'uso dello scrivere.
V. Deh no, che io ho riserbato questa parte nella mia mente a un altro luogo, e tempo.
C. Deh sì, ditemene alcuna cosa.
V. Che vorreste voi sapere? Poiché io non vi posso negare cosa nessuna.
C. Se una lingua si può bene, e lodevolmente scrivere da uno, il quale da coloro che naturalmente la favellano, appresa non l'abbia.
V. Voi non sentiste mai favellare naturalmente la lingua Latina, e pure di molte volte Latinamente scritto m'avete.
C. Io non dissi Latinamente, ma bene Latinamente; poi io intendeva delle lingue vive affatto, e insomma della Fiorentina, non delle mezze vive; che ben so, per tacere di coloro che ancora vivono, che oltra il Bembo, il Sadoletto, il Longolio, il Polo, e alcuni altri, Messer Romulo Amaseo, e Messer Lazzaro da Basciano, e alcuni altri scrivevano bene, anzi ottimamente la lingua Latina.
V. Non sapete voi che, per tacere del Bembo, il quale stette più anni in Firenze da bambino col padre, che v'era ambasciatore, e poi vi fu più volte da se, che molti hanno scritto, e scrivono fiorentinamente i quali non videro mai Firenze? E tra questi fu per avventura uno, Messer Francesco Petrarca. Ma lasciamo lui, che nacque di madre, e di padre Fiorentini, e da loro è verisimile che apparasse la lingua; Messer Jacopo Sanazzaro, quando compose la sua Arcadia, non era, ch'io sappia, stato in Firenze mai.
C. Voi vedete bene che (come dicono alcuni) vi sono delle parole non Fiorentine, e delle locuzioni contra le regole, perché egli, oltra l'aver detto: Anzi gliel vinsi, e lui nol volea cedere. ponendo lui, che è sempre obliquo, in vece d'egli, ovvero ei, che sempre è retto, egli non intese la forza, e la proprietà di questo avverbio, affatto, quando disse: Vuoi cantar meco? Ora incomincia affatto.
V. È vero, ma volete voi che sì poche cose, e tanto piccioli errori, e massimamente in un'opera così grande, così nuova, e così bella facciano che ella si debbia non dico biasimare, come fanno molti, ma non sommamente lodate, anzi ammirare? Non vi ricorda di quello che disse Orazio nella sua Poetica? Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis Offendar maculis quas aut incuria fudit, Aut humana parum cavit natura ec. Non disse egli ancora nella medesima Poetica, che, non che altri, Omero alcuna volta sonniferava? benché quel luogo sia da alcuni diversamente inteso, e dichiarato. Non devemo noi più maravigliarci, e maggiormente commendarlo, che egli, essendo forestiero, scrivesse nell'altrui lingua e in verso, e in prosa così bene, e leggiadramente, che prendere maraviglia, e biasimarlo, che egli in alcune poche cose, e non di molto momento, fallasse? E poiché sono sdrucciolato tanto oltra per compiacervi, sappiate che io tengo impossibile che uno, il quale non sia nato in una lingua, o da coloro che nati vi sono, apparata non l'abbia, o viva affatto, o mezza viva che ella sia, possa da tutte le parti scrivervi dentro perfettamente, se già in alcuna lingua lauti scrittori non si trovassero che nulla parte di lei fosse rimasa indietro, la qual cosa è piuttosto impossibile, che malagevole.
C. Dunque, per lasciare dall'una delle parti Virgilio, e gli altri che potettero imparare la lingua Latina o in Roma, o da' Romani uomini, tutti coloro che hanno scritto Latinamente dopoché la lingua Latina si perdé, hanno scritto imperfettamente?
V. Io per me credo di sì; e mi pare esser certo che se Cicerone, o Salustio risuscitassero, e sentissero alcuno di noi, quantunque dotto, ed eloquente, leggere le loro Opere medesime, che eglino a gran pena le riconoscerebbero per sue; e chi leggesse loro eziandio l'Opere Latine del Bembo, non che quelle del Pio, non creda io che fossero da loro altramente intese, che sono da noi il Petrarca, o il Boccaccio, quando da un Franzese, o da un Tedesco mezzanamente attalianato si leggono.
C. Con quali ragioni, o autorità potreste voi provare che così fosse come voi dite?
V. Con nessuna, perché delle cose delle quali non si può far pruova, né venire al cimento, bisogna molte volte, per difetto di ragioni, e mancamento d'autorità, starsene alle conghietture.
C. E quali sono queste conghietture che voi avete?
V. Io so molto io, voi mi serrate troppo; la prima cosa noi non conosciamo la quantità delle sillabe, cioè se elle sono brevi, o lunghe naturalmente, come facevano i Latini. Noi pronunziamo l'aspirazioni, perché nel medesimo modo né più, né meno profferimo noi Latinamente habeo, quando è scritto coll'h, e significa io ho, che abeo senza aspirazione, quando significa io mi parto, e pure in quel tempo, e in quella lingua si pronunziavano diversamente, come dimostra quel nobilissimo epigramma di Catullo: Chommoda dicebat, si quando Commoda vellet Dicere, et Hinsidias Arrius Insidias etc. Noi avemo perduto l'accento circunflesso, il quale in un medesimo tempo prima innalzava, e poi abbassava la voce. Noi Latinamente pronunziando non facciamo distinzione, né differenza dell'e, ed o chiuso coll'e, ed o aperto, e nondimeno v'è grandissima. Noi non potemo sapere se i Latini pronunziavano Florenzia per z, come facciamo noi, o Florendia, come dicono che facevano i Greci, o Florentia per t, come profferimo noi il nome della mercatantia. Chi può affermatamente dire con verità che noi in favellando, o scrivendo Latinamente, non diciamo molte cose in quel modo quasi che gli schiavi, o le schiave Italianamente favellano? Perché si pronunzia in Latino questo nome Francesco nel nominativo non altramente che se fosse aspirato, e nel genitivo senza aspirazione? Perché è differente il verbo peccare nel presente dello indicativo dal futuro dell'ottativo, ovvero dal presente del soggiuntivo? Il nominativo singulare di questo nome vitio si scrive nel medesimo modo, e colle medesime lettere appunto, che il genitivo plurale di questo nome vite, e non è dubbio che la pronunzia era diversa, e differente. Il nome species non dispiaceva a Cicerone nel numero del meno, ma in quello del più sì, perché l'orecchie sue non potevano patire il suono di specierum e speciebus, ma voleva in quello scambio che si dicesse formarum, et formis; la differenza del qual suono, se non fosse stata avvertita da lui, nessuno oggi, che io creda, conoscerebbe. Dice Quintiliano, che distingueva coll'orecchio, quando un verso esametro forniva in ispondeo, cioè aveva nella fine amendue le sillabe lunghe, e quando, in trocheo, cioè la prima lunga, e l'altra breve; il che oggi non fa, che io sappia, nessuno. Il medesimo afferma che conosceva la differenza tra 'l _ Greco che i Latini scrivevano per ph, e lo f Latino, il che a questi tempi non si conosce. Io ho letto con gran piacere le giocondissime lettere che tu m'hai mandato. Quas ad me jucundissimas literas dedisti, legi summa voluptate, diranno alcuni, e alcuni altri: literas quas ad me dedisti jucundissimas, summa legi voluptate, e altri altramente; tantoché e possibile che nel volere variare le clausule, e tramutare le parole per cagione del numero, si scrivono oggi cose in quel tempo ridicole; come chi scrivesse nella lingua nostra: Le giocondissime che tu lettere m'hai mandato con sommo io ho letto piacere; e in altri modi simili, e forse più stravaganti; e tanto più, che l'orazione Latina più assai, che la volgare non è, circondotta essere si vede, cioè atta a potersi circondare, e menare in lungo, mutandola in varie guise, e diverse faccie dandole, per farla, o mediante il numero, più sonora, o mediante la giacitura più riguardevole.
C. Quando io tutte coteste cose che voi piuttosto accennato avete che dichiarato, v'ammettessi, e facessi buone, le quali molti per avventura vi negherebbono, elle procedono tutte solamente, quanto alla lingua Latina, la quale è mezza morta; ma come proverreste voi nelle lingue vive, che coloro i quali non vi sono nati dentro, o nolle hanno apparate da chi le favella, non potessero, cavandole dagli autori, scriverle perfettamente?
V. Io v'ho detto che voglio ragionare oggi del favellare, e non dello scrivere; nel quale scrivere sono altrettanti dubbj, e forse più, che nel favellare.
C. Ditemi questo solo, e non più.
V. E' bisogna distinguere, perché altra cosa è il prosare, e altra il poetare; e poetare si può Fiorentinamente almeno in sette maniere tutte diverse.
C. Che mi dite voi?
V. Quello che è, e non punto più, anzi qual cosa meno. La prima, e principale è quella di Dante, e del Petrarca: La seconda quella di Luigi, e di Luca Pulci. La terza, come scrisse il Burchiello, che fu Poeta anch'egli. La quarta, i Capitoli del Bernia. La quinta, i Sonetti d'Antonio Alamanni. Oltra questi cinque modi, cene sono due da cantar cose pastorali, uno in burla, come la Nencia di Lorenzo de' Medici, e la Beca di Luigi Pulci; e l'altro da vero: e questo si divide in due, perché alcuni scrivono l'Egloghe in versi sciolti, come sono quelle di Messer Luigi Alamanni, e di Messer Jeronimo Muzio, e di molti altri; e alcuni, in versi rimati: e questo si fa medesimamente in due modi, o con rime ordinarie, o con rime sdrucciole, come si vede nel Sanazzaro.
C. Perché diceste voi, anzi qual cosa meno?
V. Perché, oltraché questi stili si mescolano l'uno coll'altro, talvolta da chi vuole, e talvolta da chi non sene accorge, e per tacere delle Feste, Farse, e Rappresentazioni, e molte altre guise di poemi, come le Selve, e le Satire, egli si scrive ancora da alcuni in bisticci.
C. Che cosa è scrivere in bisticci?
V. Leggete questa Stanza che è nel Morgante la quale comincia: La casa cosa parea bretta, e brutta, o tutta quella pistola di Luca Pulci che scrive Circe a Ulisse: Ulisse o lasso, o dolce amore, io moro, e saperretelo; la qual cosa fa oggi Raffaello Franceschi meglio, e più ingegnosamente, o almeno ridevolmente, di loro. Ora voi avete a sapere che nelle marniere nobili, cioè nella prima, e nell'ultima delle sette, possono i forestieri così bene scrivere, e meglio, come i Fiorentini, secondo la dottrina, e l'esercitazione di ciascuno; perché alcuno quanto arà migliore ingegno, maggiore dottrina, e sarà più esercitato, tanto farà o Fiorentino, o straniero che egli sia, i suoi componimenti migliori; ma nell'altre cinque maniere non già. E che ciò sia vero, ponete mente, che differenza sia da' Capitoli fatti da' Fiorentini, massimamente dal Bernia, che ne fu trovatore, e da Messer Giovanni della Casa, a quelli composti dagli altri di diverse nazioni, che veramente potrete dire, quelli essere stati fatti, e questi composti.
C. I Capitoli del Mauro, e quelli d'alcuni altri sono pure tenuti molto dotti, e molto belli.
V. Già non si biasimano per altro, se non perché sono troppo dotti, e troppo belli, e insomma non anno quella naturalità, e Fiorentinità (per dir così) la quale a quella sorta di componimenti si richiede, Messer Mattio Franzesi mio amicissimo avanzò tanto il Molza nello scrivere in burla, quanto il Molza, che fu non meno dotto, e giudizioso, che amorevole, e cortese, avanzò lui nel comporre da buon senno.
C. Io vi dirò il vero, quando io potessi scrivere nelle maniere nobili, io non credo che io mi curassi troppo dell'altre.
V. Cene sono degli altri; voglio bene che sappiate che anco nelle maniere nobili così di prose, come di versi occorrono molte volte alcune cose che hanno bisogno della naturalità Fiorentina; ma perché queste cose appartengono allo scrivere, e non al favellare, vogliomi riserbare a dichiararle un'altra volta.
C. Or non fuste voi indovino; poiché volete fuggire appunto in quel tempo, e a quel luogo nel quale è il pericolo, e dove bisogna star fermo.
V. Che cosa sarà questa?
C. Io ho penato un pezzo per condurvi a questo passo, sicché ora non pensate uscirmi delle crani, e scappare sì agevolmente. Udite quello che dice il Bembo nel primo libro delle sue Prose.
V. Che cosa?
C. Tutto il contrario di quello che dite, e accennate di voler dir voi.
V. Che?
C. Che gli vien talora in oppenione di credere che l'essere a questi tempi nato Fiorentino, a ben volere Fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio; talché, secondo queste parole del Bembo vostro, la vostra Fiorentinità sta piuttosto per nuocere che per giovare.
V. Avvertite, ch'egli dice, a questi tempi, cioè (per farla grassa, e più a vostro vantaggio che si può) quando il Magnifico Giuliano fratello di Papa Leone era vivo, che sono più di quaranta anni passati; nel qual tempo la lingua Fiorentina, comeché altrove non si stimasse molto, era in Firenze per la maggior parte in dispregio; e mi ricordo io, quando era giovanetto, che il primo, e più severo comandamento che facevano generalmente i padri a' figliuoli, e i maestri a' discepoli era che eglino né per bene, né per male, non leggesseno cose volgare (per dirlo barbaramente, come loro); e maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella gramatica mio precettore, uomo di duri, e rozzi, ma di santissimi, e buoni costumi, avendo una volta inteso in non so che modo che Schiatta di Bernardo Bagnesi, ed io leggevamo il Petrarca di nascoso, ce ne diede una buona grida, e poco mancò che non ci cacciasse di scuola.
C. Dunque a Firenze in vece di maestri che insegnassero la lingua Fiorentina, come anticamente si faceva in Roma della Romana, erano di quelli i quali confortavano, anzi sforzavano, a non impararla anzi piuttosto a sdimenticarla?
V. Voi avete udito, e ancora oggi non vene mancano, e credete a me che non bisognava né minor bontà, né minor giudizio di quello dell'Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signor Duca mio padrone. Avvertite ancora che il Bembo dice: Non sia di molto vantaggio; le quali parole dimostrano che pure vene sia alcuno.
C. Io comincerò a credere che voi o siate, o vogliate diventare sofista.
V. Oimè no; ogni altra cosa da questa in fuori.
C. Poiché quello che il Bembo disse per modestia, è da voi interpetrato come se fosse stato detto per sentenza. Non mostrano le parole che egli usa di sotto, e le ragioni ch'egli allega, l'oppenione sua essere che un Fiorentino abbia nello scrivere Fiorentinamente disavvantaggio da un forestiere? ma quando bene nol dicesse, fate conto che lo dica, o che il dica io, e rispondetemi.
V. Un Fiorentino, data la parità dell'altre cose, cioè posto che sia d'eguale ingegno da natura, d'eguale dottrina per istudio, e d'eguale esercitazione, mediante l'industria, non arà disavvantaggio nessuno, ma bene alcun vantaggio da uno che Fiorentino non sia, nel Fiorentinamente comporre; e questa è cosa tanto conta, e manifesta per se, che io non so come da alcuno sene possa, o debba dubitare.
C. Che risponderete voi alle ragioni che egli allega?
V. Che dice il vero che i Fiorentini, avendo la lor lingua da natura, non la stimavano, e che parendola loro sapere, nolla studiavano, e che attenendosi all'uso popolaresco, non iscrivevano così propriamente, ne così riguardevolmente come il Bembo, e degli altri.
C. Voi non m'avete inteso bene. Io vo' dire che quando i Fiorentini pigliano la penna in mano, per occulta forza della lunga usanza, che hanno fatto nel parlare del popolo, molte di quelle voci, e molte di quelle maniere di dire che si parano mal grado loro dinanzi, che offendono, e quasi macchiano le scritture, non possono tutte fuggire, e schifare il più delle volte.
V. Io voglio tralasciare qui l'oppenione di coloro i quali tengono che così si debba scrivere appunto, come si favella; il che è manifestamente falsissimo; ma vi dirò solo che il parlare Fiorentino non fu mai tanto impuro, e scorretto, che egli non fosse più schietto, e più regolato di qualsivoglia altro d'Italia, come testimonia il Bemho stesso; perché dunque quella occulta forza dell'uso del favellare popolesco non dee così tirare i Lombardi, e i Viniziani o nel favellare, o nello scrivere come i Toscani, e i Fiorentini? e tirandogli, gli tirerà a men corretto, e più impuro volgare.
C. Io non saprei che rispondermivi, se già non dicessi che la differenza la quale è dal parlare de' forestieri allo scrivere Fiorentinamente, è tanto grande, che agevolmente conoscere la possono, e per conseguenza guardarsene, il che non potete far voi per la molta vicinanza che è del parlar vostro allo scrivere.
V. Piacemi che voi andiate cercando di salvare la capra, e i cavoli, come si dice, benché io non so, se eglino volessono essere per cotal modo salvati; ma ricordatevi della parità dell'ingegno, dottrina, e esercitazione.
C. Quanto al giudizio, può un forestiere così bene giudicare i componimenti Toscani, come un Fiorentino?
V. Io v'ho detto di sopra che tanto si giudica bene una cosa, quanto ella s'intende.
C. Io ven'ho dimandato perché Quintiliano, il quale fu secondoché scrivono alcuni, Spagnuolo, diede buon giudizio di tutti i poeti non solo Latini, ma Greci; che ne dite voi?
V. Che volete voi che io ne dica, se non bene? Se il giudizio suo fu buono, come in verità mi pare, è segno certissimo, che egli l'intendeva bene.
C. Vo' dire che egli non era però Romano, e anco non so ch'egli fosse stato in Grecia.
V. Ondunque si fosse, egli nacque, fu allevato, e tenne scuola pubblica molti anni in Roma, e se non andò in Grecia, oltraché i Greci andavano a Roma, molto meglio arebbe fatto ad andarvi, in quanto al potere meglio intendere la lingua Greca, e più perfettamente giudicare gli scrittori d'essa.
C. Dunque è possibile che alcuno giudichi bene d'una lingua nella quale egli non sia nato, né l'abbia apparata da coloro che naturalmente la favellano?
V. Io lo vi replicherò un'altra volta. Quanto è possibile che egli l'intenda, tanto è possibile che egli la giudichi; onde se non può intenderla perfettamente, non può anco perfettamente giudicarla da se; dico, da se, perché potrebbe riferire il giudizio d'altri: ma io voglio avvertirvi d'uno errore di grandissima importanza, e oggi comune a molti, il quale è, che ogni volta che hanno conchiuso esser possibile che alcuno possa fare alcuna cosa, subito credono, e vogliono, che altri creda ch'egli la faccia; e non si ricordano che il proverbio dice che dal detto al fatto è un gran tratto.
C. Datemene uno esempio.
V. Alcuno vi dirà che il tale, o il quale compone un'opera la quale pareggierà di leggiadrìa, e di numero, verbigrazia, gli Asolani del Bembo, e conoscendo alla cera che io non lo credo, mi dimanderà, se ciò è possibile; e perché io non posso negargli, ciò esser possibile, vorrà che io creda che quello che è possibile ad essere, sia, o debba essere a ogni modo.
C. Cotesta è una vaga, e pulita loica.
V. Per mia fe sì.
C. Ma torniamo al caso nostro. Il Castelvetro nella sua risposta a carte 94 di quella in quarto foglio che si stampò prima, e 148 di quella in ottavo che si stampò ultimamente, confessa di non aver beuto quel latte della madre, o della balia, né appreso dal padre, o dal volgo in Firenze la lingua vulgare, ma essersi sforzato d'impararla, da' nobili scrittori; e coll'autorità, e parole stesse del Bembo par, che voglia mostrare che in impararla non si richiegga di necessità il nascimento, e l'allevamento in Firenze, né il rimescolamento, per usar le sue proprie parole, colla feccia del popolazzo; che ne dite voi?
V. Così lo potessi io scusare negli altri luoghi, come io posso in cotesto nel quale egli procede, e favella modestamente.
C. In che modo lo difenderete voi?
V. Primieramente quello che egli dice, si può intendere dello scrivere, e non del favellare, e quando bene s'intendesse del favellare, a ogni modo direbbe vero; perciocché l'essere egli nato, e allevato a Modona, non gli toglie che non possa sapere (come dice egli) alcuna cosa, non pur d'altro, della lingua volgare ancora. Poscia egli allega l'oppenione del Bembo, scrivendo le parole di lui medesimo, senza interporvi il giudizio suo; perché viene a riferirsi, e appoggiarsi all'autorità del Bembo, onde il Bembo viene ad aver fallato, e non il Castelvetro (se fallo è cotale oppenione, come io credo).
C. Che direte dunque di Messere Annibale?
V. Che dove Messer Lodovico si può scusare, il Caro si dee lodare.
C. Quale è la cagione?
V. Perché l'oppenione sua è la migliore, come s'è conchiuso di sopra; poi Messer Annibale non riprende il Castelvetro semplicemente, ma come colui che voglia fare della lingua Fiorentina, e dell'altre il Gonfaloniere, il Satrapo, il Macrobio, l'Aristarco, e gli altri tanti nomi che si truovano sparsamente nella sua Apologia: le quali cose niega il Caro, e con verità che si possano fare da uno il quale o non sia nato, o non abbia praticato in Firenze: e quando mille volte fare si potessero, ne seguirebbe bene che il Castelvetro fare le potesse, ma non già che le facesse. Leggete quello che dice di questo fatto Messer Annibale a faccie 151 e molto più chiaramente a faccie 167 le cui parole sono queste, nelle quali sono ristrette in somma, e racchiuse in sostanza tutte le cose che infin quì di questa materia dette si sono; però consideratele bene: Vedete, Gramatico, e favellator Toscano che voi sete! E forse che non presumete di farne il maestro, e d'allegarne anco l'uso, come se vi foste nato, o nodrito dentro, e che l'usanza, e 'l modo tutto con che sene dee ragionare, e scrivere, fosse compitamente nelle sole osservanze che voi solo n'avete fatte, non v'accorgendo che per fare una profession tale, non basta che voi ne sappiate le voci solamente, né la proprietà di ciascuna di esse, che bisogna sapere anco in che guisa s'accozzano insieme, e certi altri minuzzoli, come questi che si son detti, i quali non si trovano nel vostro Zibaldone, né anco in su i buoni libri talvolta. L'osservazion degli autori è necessaria, ma non ogni cosa v'è dentro; e oltra quello che si truova scritto da loro, è di più momento, e di più vantaggio che non pensate, l'avere avuto mona Sandra per balia, maestro Pippo per pedante, la Loggia per iscuola, Fiesole per villa, aver girato più volte il coro di Santa Riparata, seduto molte sere sotto 'l tetto de' Pisani, praticato molto tempo per Dio, fino in Gualfonda, per sapere la natura d'essa.
C. Queste mi paiono molto efficaci, e molto vere parole; ma se Messere Annibale è da Civitanuova, o (secondoché vuole il Castelvetro) da San Maringallo, terre amendue nella Marca d'Ancona, come scrive egli così puro, e così Fiorentinamente, come si vede che fa? E onde ha imparato tanti motti, tanti proverbj, e tanti riboboli Fiorentini, quanti egli usa per tutte le sue composizioni?
V. A Messer Annibale, se egli non ebbe né mona Sandra per balia, né maestro Pippo per pedante, non mancò niuna dell'altre condizioni che egli medesimo dice es- ser necessarie a chi vuol ben favellare, o leggiadramente scrivere nella lingua Fiorentina.
C. Riconoscesi in lui, o ne' suoi scritti quel non so che di forestiero, come negli altri che Fiorentini non sono, la qual cosa il Castelvetro, imitando Pollione, chiamerebbe peravventura Sanmaringallità?
V. Voi volete la baja, e io non voglio rispondervi altro, se non che egli è di maggiore importanza che voi forse non credete, avere usato, e praticato in Firenze: e se il Castelvetro si fosse talvolta rimescolato colla feccia del popolazzo Fiorentino, egli non arebbe prima detto, e poi voluto mantenere, che panno tessuto a vergato fosse ben detto; né che consolare, né consolazione in quel sentimento che egli lo piglia, si potessero comportare, non che si dovessero lodare; e arebbe sentito infino a' fanciugli che non sono ancora iti all'abbaco, né sanno schisare, dire sempre cinque ottavi, e non mai le cinque parti dell'ottavo, come usa egli più volte. A quanti ha mosso riso, e a quanti compassione, quando egli a carte 95 tentando di difendersi da Annibale, il quale a facce 151 dice, che una volta, che il Castelvetro fu a Firenze egli v'imparò piuttosto di fare a' sassi, e d'armeggiare, che di scrivere, risponde, volendolo riprovar falso, che non solamente non imparò d'armeggiare quella volta che egli fu in Firenze, ma che non fu mai in Firenze in età da imparar d'armeggiare, e da travagliare la persona in esercizj giovenili, come aveva fatto prima in altre terre; e non si avvede, come arebbe fatto, se si fosse rimescolato colla feccia del popolazzo di Firenze, che egli, mentreché vuole scusarsi dell'armeggiare, armeggia tuttavia; perché (come si dichiarò di sopra) quando si vuol dire in Firenze a uno: Tu non dai in nulla, tu t'avvolpacchi, e insomma tu sei fuor de' gangheri, segli dice per una così fatta metafora: tu armeggi.
C. Certo che io non avea avvertito cotesto, e per la mia parte, di simil cose lo scuserei, perché cotali parole non si truovano ordinariamente scritte ne' libri, e massimamente degli autori nobili.
V. Il medesimo farei ancora io, solo che non volesse stare in sulla perfidia, e mantenere d'aver ben detto, anzi confessare che se il rimescolarsi col popolazzo non è necessario allo scrivere, è almeno utile al favellare, e per non istare ora fuor di proposito a raccontarle a una a una, sappiate, che di tutte le prime dieci opposizioni che egli fece contra la Canzone di Messere Annibale, egli, se fosse stato pratico in Firenze, non n'arebbe fatta nessuna, perché tutte quelle parole che egli riprende, non solo si favellano, ma si scrivono ancora da tutti coloro i quali o scrivono, o favellano Fiorentinamente, crome al suo luogo si mostrerà, e tanto chiaro, che niuno non potrà, secondoché io stimo, non maravigliarsi di chi arà creduto altramente.
C. Se io potessi aspettare a cotesto tempo, io non v'arei dato oggi questa briga; ma egli d'intorno a questa materia dell'imparar le lingue non mi resta se non un dubbio solo, però dichiaratemi anche questo.
V. Ditelomi.
C. Il Caro a fac. 31. narra come Alcibiade dice appresso Platone d'avere imparato dal volgo di ben parlare Grecamente; e che Socrate approva il volgo per buon maestro, e per laudabile ancora in questa dottrina, e che per voler far dotto uno in quanto al parlare, bisogna mandarlo al popolo. Ora io vi dimando non se queste cose son vere, perché essendo dì Platone, le credo verissime, oltraché di sopra sono state dichiarate da voi; ma dimandovi se Platone le dice.
V. Dicele tutte a capello, perché?
C. Perché le parole usate dal Castelvetro a car. 6. nella prima impressione, e a 10. nella seconda mene facevano dubitare, dicendo egli così: Posto che fosse vero che queste cose si dicessero tutte appo Platone; perché messe, egli in dubbio le cose chiare?
V. Io non vi saprei dire altro, se non che, come dissi ancora di sopra, il Castelvetro, si va ajutaudo colle mani, e co' pié, e come quegli che affogano, s'appiccherebbono (come si dice) alle funi del cielo, usa tutte quelle arti che sa, e può, non solo per iscolpar se, ma per incolpare Annibale; oltraché il modo dello scrivere sofistico è così fatto.
C. Non pensava egli, che almeno gli uomini dotti, de' quali si dee tener maggior conto ben per l'un cento, che degli altri, avessono, leggendo Platone, a conoscere l'arte, e l'astuzia usata da lui?
V. Io non so tante cose; voi volete pure che io indovini; la quale arte io non seppi mai, né so fare al presente.
C. Io non voglio che voi indoviniate, ma solo che mi diciate l'oppenione vostra.
V. Eccoci all'oppenipne mia. La mia oppenione è che ognuno dica e faccia, faccia e dica tutto quello che meglio gli torna, e che tutto il mondo sia colà, per non dire che il precetto de' retori è che chi ha 'l torto in alcuna causa, vada aggirando se, e altrui, e per non venirne al punto mai, favelli d'ogn'altra cosa, e metta innanzi materia assai per isvagare i giudici, e occupargli in diverse considerazioni. Tutti i dotti non sono atti ad andare a leggere Platone, e intanto gli altri stanno sospesi, e i volgari se la beono. Non dice egli ancora che quando tutte quelle cose fossino vere, non può comprendere quello che Annibale si voglia conchiudere? Come quasi non fosse manifestissimo e per la materia, della qunale si ragiona, e per le parole così di sopra, come di sotto, che Messer Annibale vuole non solamente conchiudere, ma conchiude efficacemente, che le parole usate da lui nella sua Canzone, e riprese dal Castelvetro nelle sue opposizioni, sono in bocca del volgo, ed essendo in bocca del volgo, sono intese, ed essendo intese, non sono quali dice il Castelvetro, e per conseguente non meritano riprensione, del che viene che ingiustamente sieno state riprese, e biasimate dal Castelvetro.
V. Io non dubitava in coteste cose, ma il fatto non istà costì; il punto è questo. Messere Annibale afferma, che Alcibiade dice d'avere imparato dal popolo di ben parlare, e Messer Lodovico lo niega, dicendo che egli non dice di ben parlare, ma di parlare solamente, volendo inferire che dal popolo si può bene imparare a favellare, ma non già a favellar bene: e per provar questo suo detto allega che Platone usò il verbo _____´_____, il quale usò ancora Tucidide nel medesimo significato, cioè per favellar Greco semplicemente, non per favellar bene, e correttamente Greco.
C. In questo sta la differenza loro; a questo bisogna che rispondiate per Messere Annibale.
V. Il verbo _____´_____ non significa appresso Platone favellare semplicemente, come afferma il Castelvetro, ma bene, e correttamente favellare, come dice il Caro.
C. In che modo lo provate?
V. Quello che non è dubbio, non ha bisogno d'esser provato; l'uso stesso del favellare lo prova sufficientemente. Chi dice: il tale insegna cantare, o sonare; o sì veramente: Io ho imparato a leggere, o scrivere; vuol significare, e significa, che colui insegna bene, e che egli ha bene imparato; perché chi fa male una cosa, o non bene, non si chiama saperla fare, conciossiaché ognuno sappia giucare, e perdere. E se chi favella, o scrive semplicemente, non si dovesse intendere così, non bisognerebbe che noi avessimo altro mai né in bocca, né nella penna che questo avverbio bene.
C. Cotesta ragione mi par qualcosa, ma ella non m'empie affatto; perché si dice pure: la gramatica è un'arte di ben parlare, e di correttamente scrivere.
V. È vero che egli si dice da coloro, che non sanno più là; ma egli non si doverrebbe dire, perché nelle buone, e vere diffinizioni non entra ordinariamente bene, per la ragion detta.
C. E' si dice pure: la retorica è un'arte la quale insegna favellar bene.
V. Voi siete nella fallacia dell'equivoco, cioè v'ingannate per la diversa significazione de' vocaboli. Bene non si piglia in cotesto luogo, come lo pigliamo ora noi, ma vuol dire pulitamente, e con ornamento; e poi se Platone non avesse inteso del ben favellare, non arebbe soggiunto, come egli fece, che gli uomini volgari in questa dottrina son buoni maestri, e rendutone la ragione, dicendo, perché hanno quello che deono avere i buoni maestri.
C. Voi diceste, non è molto, che non la ragione si debbe attendere principalmente nelle lingue, ma l'uso; onde pare che tutta questa disputa si debba ridurre all'uso. Come hanno usato gli Scrittori Greci questo verbo?
V. Tutti coloro i quali hanno cognizione della lingua Greca, sanno che _____´_____ s'interpetra per bene, e correttamente favellare.
C. A questo modo il Castelvetro non arebbe cognizione della lingua Greca, e pure nella sua risposta allega tane volte tante parole Greche, e par che voglia ridersi di Messere Annibale, e riprenderlo come colui a chi non piacciano le parole Greche.
V. Io non so se il Castelvetro intende, o non intende, la lingua Greca; so bene che in questo luogo, e in alcuni altri che sono nel suo libro, egli o nolla intese, o non volle intenderla.
C. Qual credete voi piuttosto di queste due cose?
V. In verità che io credo, in questo luogo, che egli non volesse intenderla.
C. Che vi muove a così credere?
V. Che 'l Budeo stesso ne' suoi Commentarj della Lingua Greca in quel luogo dove egli dichiara il verbo _____´_____, lo mostra, allegando il medesimo esemplo che allega il Castelvetro di Tucidide.
C. Gran cosa è questa!
V. E' vi parrà maggiore quest'altra.
C. Quale?
V. Aristotile nel terzo libro della Retorica, trattando della locuzione oratoria, usa questo medesimo verbo, dicendo (poiché 'l Castelvetro vuole che s'alleghino le parole Greche) _&´_ _'___´_ _ ´_& _´___!& _& _____´_____.
C. Io per me arò più caro che mi diciate volgarmente il sentimento.
V. Il sentimento è nella nostra lingua, che il principio, ovvero capo, e fondamento della locuzione, o volete del parlare, è il bene, e correttamente favellare.
C. Donde cavate voi quel bene, e correttamente?
V. Dalla natura delle cose, dalla forza del verbo, e dall'usanza del favellare. Che vorrebbe significare, e che gentil modo di dire sarebbe: Il principio, o il capo, o il fondamento della locuzione è il favellare?
C. Queste sono cose tanto chiare, che io comincio a credere, come voi, che la risposta fosse fatta da beffe, e che il Castelvetro intendesse questo luogo così agevole, ma non lo volesse intendere. Coloro che tradussero la Retorica in Latino, confrontansi eglino con esso voi.
V. Messer no; ma io con esso loro. Udite come lo 'nterpetró, già sono tanti anni, Messer Ermolao Barbaro, uomo per la cognizione delle lingue, e per la dottrina sua, di tutte le lodi dignissimo: Caput vero, atque initium elocutionis est emendate luqui. Vedete voi che egli non dice semplicemente parlare, come afferma il Castelvetro, ma emendatamente, cioè correttamente favellare, come lo prese il Caro?
C. Io vi dico che voi mi fate maravigliare.
V. E io vi dico che voi sareste buono per la festa de' Magi. Un altro, credo Tedesco, che ha ultimamente tradotto, e comentato la Retorica, del cui nome non mi ricordo, dice queste parole: Supra indicatum est, quatuor partibus elocutionem constare, quarum initium, ac caput est in quavis lingua purè, emendatèque loqui. A costui non parve tanto sporre il verbo Greco correttamente favellare, ma v'aggiunse ancora puramente, e non solo nella Greca, ma in qualsivoglia altra lingua. Messere Antonio Majoragio, uomo d'incredibile dottrina, e incomparabile eloquenza, nella sua leggiadrissima traduzione della sua Retorica, dice così: Initium autem, et fundamentum elocutionis est emendate loqui. Avete voi veduto che tutti gli interpetri spongono il verbo _____´_____, non semplicemente favellare, ma correttamente favellare?
C. Io vi dico di nuovo, che voi mi fate maravigliare.
V. E io di nuovo vi dico che voi sareste buono per la festa de' Magi. Conoscete voi Messer Piero Vettori?
C. Come, s'io lo conosco? Non sapete voi che quando io fui quì l'altra volta con fratelmo, noi andammo in Firenze a posta solamente per vederlo, e parlargli? E chi non conosce Messer Piero Vettori? Il quale mediante l'opere che si leggono tante, e sì belle di lui, è celebrato in tutto 'l mondo non solo per uomo dottissimo, ma eziandio eloquentissimo, oltra la nobiltà, la bontà, l'umanità, e tante altre lodevolissime parti sue.
V. Cotesto stesso, cioè Messer Piero Vettori medesimo, il quale non è ancora tanto celebrato, quanto egli sarà, e quanto meritano le singularissime virtù sue, ne' Commentarj che egli fece sopra i tre libri della Retorica d'Aristotile, traducendo, e interpetrando il luogo Greco allegato di sopra, dice queste proprie parole: Initium, id est solum, ac fundamentum elocutionis, et quod magnam in primis vim ad eam commendandam habet, est Graeco sermone rette uti, ac pure, emendateque loqui; id enim significat _____´_____. Considerate, che a sì grande uomo non parve abbastanza l'aver tradotto il verbo _____´_____, usar bene il sermon Greco, che soggiunse, e favellare puramente, e correttamente, e per maggiore espressione, affinché nessuno potesse dubitarne v'aggiunse, perché così significo il verbo _____´_____ , cioè rettamente, puramente, e correttamente favellare. Che dite voi ora?
C. Dico che non mi maraviglio più; e dubito che molti non abbiano a dubitare che voi siate d'accordo col Castelvetro, il quale a sommo studio abbia detto cose tanto manifestamente false, affinché voi aveste che rispondergli senza fatica nessuna. Egli nonmi par già che voi gli rendiate il cambio, perciocché se voi difenderete tutte le altre cose come voi avete fatto questa, io non so vedere quello che egli s'abbia a poter rispondere, onde sarà costretto o confessare la verità, o tacere.
V. Voi dite in un certo modo il vero, e in un altro ne siete più lontano che 'l Gennajo dalle more. Se 'l Castelvetro fosse di quella ragione che vo' dire io, e che forse volete intender voi, prima egli non arebbe fatte quelle opposizioni così deboli, così sofistiche, così false, né tanto dispettosamente; poi, perché ogn'uomo erra qualche volta, non doveva tanto, né per tante vie, instigare Messere Annibale a rispondergli; e alla fine quando vide le risposte, che nel vero sono lealissime, e contengono in sostanza quasi tutte le risposte che alle risposte sue dare si possono, egli doveva acquietarsi, e cedere alla verità. E se pur voleva o vendicarsi delle ingiurie dettegli, o mostrare che non era quale lo dipigneva il Caro, poteva con bella occasione comporre un'opera, nella quale arebbe potuto fare l'una cosa, e l'altra. Né dico questo per insegnare a lui, ma per avvertir voi; e anco, se gli pareva di poter difendere alcuna delle sue opposizioni, poteva farlo, pigliando quella, o quelle tali, e lasciare star l'altre, dove, avendo egli voluto mostrare che tutte le cose dette da lui erano state ben dette, e ognuna di quelle di Messere Annibale male, ha fatto (se io non m'inganno affatto) poco meno che tutto il contrario, perché come io ho difesa questa, così spero in Dio che difenderò quasi tutte l'altre, e per cotal modo, cioè così chiaramente, che ognuno che vorrà, potrà conoscere quanto egli fosse leggiermente, e ingiustamente ripreso. Né per tutto ciò crediate voi che o egli non abbia a rispondere, o molti non debbiano credergli; perché troppo sarebbe felice il mondo, se la maggior parte degli uomini volessero o conoscere il migliore, o non appigliarsi al piggiore. Né crediate anco che io non conosca che il Caro potrà, e forse doverrà, se non male, almeno poco tenersi di me soddisfatto; e nel vero, se io avessi preso a difendere lui, io non solamente poteva, ma doveva, secondo l'uso moderno, più gagliardamente difenderlo. Non dico, quanto al confutare le ragioni del Castelvetro, perché in questo per tutto quel poco che si distenderanno il sapere, e poter mio, m'ingenerò con ogni sforzo di non mancare né di studio, né di diligenza; ma quanto al modo del procedere, nel quale arebbono voluto molti che io, senza cercar mai di scusare, o difendere, o lodare il Castelvetro, avessi, come fece Messere Annibale contra lui, ed egli contra Messere Annibale, atteso sempre ad accusarlo, ad offenderlo, e a biasimarlo, lasciando indietro tutte queste cose, che per la parte di Messere Annibale non facessero. Ma oltraché la natura m'invita, e l'usanza mi tira a fare altramente, io (come scrissi da principio a Messere Annibale) ho preso a difender non lui, ma le sue ragioni, cioè la verità, dalla quale, per quanto potrò conoscere, non intendo mai di partirmi. Confesso, quando a questo cimento, e paragone venire si dovesse, d'essere molto più, anzi senza comparazione, affezionato al Caro, che al Castelvetro. E contuttociò voglio che questa mia buona volontà serva, come io sono certissimo che egli si contenta, non a nuocere ad altri, ma solamente a giovare a lui, dovunche possa giustamente. Ma conchiudiamo oggimai, che le lingue si debbono imparare a favellare da coloro che naturalmente le favellano, e da' Maestri ancora, quando se ne potessero avere in quel modo, e per quelle ragioni che si sono dichiarate di sopra, leggendo ancora di quegli scritto- ri di mano in mano, i quali sono riputati migliori. E non aspettate ch'io vi faccia più di queste dicerie, ch'io veggo che il tempo ne mancherebbe.
C. Dichiaratemi dunque. A che si possa conoscere, e debbasi giudicare una lingua essere migliore, cioè più ricca, o più bella, o più dolce d'un'altra; e quale sia più di queste tre cose, o la greca, o la latina, o la volgare
Quesito nono
V. Come a' poeti è conceduto, anzi richiesto, invocare le Muse non solamente ne' principj delle loro opere, ma dovunque in alcuna difficultà si ritruovano, la quale senza l'ajuto degli Dii risolvere o non si debbia, o non si possa, così penso io non essere disdetto, anzi convenirsi, a me rinovare in questo luogo la protestazione fatta di sopra più volte; e ciò non tanto per tema d'essere tenuto poco intendente, e giudizioso, quanto per disiderio di non essere giudicato troppo presuntuoso, e arrogante, e (quello che peggio sarebbe) o maligno, o senza il sentimento comune. Dico dunque; tutto quello che io vi dirò, non dovere essere altro che semplici oppenioni mie, se già non le voleste chiamare capricci, o ghiribizzi, più nel creder mio, ch'in alcuna ragione, o autorità fondate; laonde quanto più strane, e stravaganti vi parranno, e più dalla dottrina o de' passati, o de' presenti lontane, tanto potrete, anzi doverrete, crederle meno, riservandovi alla coloro sentenza, i quali così della Toscana, come della Greca, e della Latina lingua meglio s'intendono, e più sono sperti che non fo, e non sono io. Bisogna dunque vedere innanzi tratto, in che consista la bontà, la bellezza, e la dolcezza delle lingue; onde cominciando dalla prima, dico che tutte le cose quanto hanno più nobili, e più degni i loro fini, tanto sono più degne, e più nobili ancora esse, e che quanto ciascuna cosa più conseguisce agevolmente il suo fine, cioè ha di meno, e di minori ajuti bisogno, i quali sieno fuori di lei, tanto anch'essa è migliore, e più nobile. Il fine di ciascuna lingua è palesare i concetti dell'animo; dunque quella lingua sarà migliore, la quale più agevolmente i concetti dell'animo paleserà; e quella più agevolmente potrà ciò fare, la quale arà maggiore abbondanza di parole, e di maniere di favellare, intendendo per parole, non solamente i nomi, e i verbi, ma tutte l'altre parti dell'orazione. Dunque la bontà d'una lingua consiste nell'abbondanza delle parole, e de' modi del favellare, cioè dell'orazioni.
C. Dunque quella lingua fia migliore, la quale sarà più ricca, e quanto più ricca sarà, tanto fia ancora migliore.
V. Appunto l'avete detto. Quanto alla seconda cosa, tutte le lingue sono composte d'orazioni, e tutte l'orazioni di parole; dunque quella lingua, la quale arà più belle parole, e più belle orazioni, sarà anco più bella; dunque la bellezza delle lingue consiste nella bellezza delle parole, e delle orazioni. Ma qui è necessario avvertire due cose, la prima delle quali è, che nelle parole semplici, e singulari, cioè considerate sole, e di per se, le quali i loici chiamano incomplesse e noi le potremmo per avventura chiamare spicciolate, o scompagnate, non si truova propriamente né numero, né armonia, dalle quali due cose nasce principalmente la bellezza, di cui ora si ragiona. La seconda è, che non si potendo trovare né numero, né armonia dove non si truovi movimento, noi intendiamo non delle parole spicciolate, e scompagnate, ma delle congiunte, ovvero composte, che i loici chiamano complesse, e noi per avventura le potremmo chiamare accompagnate, e brevemente dell'orazioni, non come orazioni semplicemente, ma come quelle che profferite, e pronunziate generano, e producono di necessità, mediante la brevità, e la lunghezza delle sillabe, numero, e mediante l'abbassamento, e l'innalzamento degli accenti, armonia in quel modo, e per quelle cagioni che poco appresso dichiareremo.
C. Io voleva appunto dire che non intendeva né questo numero, né questa armonia.
V. Bastivi per ora intendere che la bellezza delle lingue consiste principalmente nella bellezza dell'orazioni, non come orazioni, perché così non hanno né numero, né armonia, se non in potenza, ma come orazioni, le quali quando si pronunziano, e profferiscono, hanno il numero, e l'armonia in atto. Quanto alla terza, e ultima cosa, tutte le lingue sono (come s'è detto pur testé) composte d'orazioni, e l'orazioni di parole, e le parole di sillabe, e le sillabe di lettere, e ciascuna lettera ha un suo proprio, e particolare suono diverso da quello di ciascuna altra, i quali suoni sono ora dolci, ora aspri, or duri, ora snelli, e spediti, ora impediti, e tardi, e ora d'altre qualità quando più, e quando meno; e il medesimo, anzi più, si dee intendere delle sillabe, che di cotali lettere si compongono, essendone alcune di puro suono, alcune di più puro, e alcune di purissimo, e molto più delle parole, che di sì fatte sillabe si generano, e vie più poi dell'orazioni, le quali delle sopraddette parole si producono; onde quella lingua sarà più dolce, la quale arà più dolci parole, e più soavi orazioni; dunque la dolcezza delle lingue nella dolcezza consiste dell'orazioni. E affineché meglio possiate comprendere quelle cose che a dire s'hanno, sappiate, che essendo la voce ripercuotimento d'aria, o non si faccendo senza che l'aria, la quale è corpo, si ripercuota, e s'attenui, ovvero s'assottigli, in ciascuna sillaba si truovano necessariamente, come in tutti gli altri corpi, tutte e tre le dimensioni, ovvero misure, cioè lunghezza, e altezza ovvero profondità, e larghezza. La lunghezza fanno gli spazj, ovvero i tempi delle sillabe, chiamati da alcuno grammatico intervalli; perché ogni sillaba è per sua natura o breve, o lunga, nonostante che possa essere e più breve, e più lunga, e brevissima, e lunghissima secondo il tempo che si pone in pronunziarla, rispetto così al numero, come alla qualità delle consonanti, di cui sarà composta; l'altezza, ovvero profondità fanno gli accenti, perché qualunche sillaba ha il suo accento, il quale, se l'innalza, si chiama acuto, se l'abbassa, grave, e se l'innalza e abbassa, circunflesso; il quale circunflesso nella lingua Greca, e nella Latina si può dire piuttosto perduto, che smarrito, e nella Toscana non fu, che sappia io, mai.
C. Io ho pur letto un libro di Neri d'Ortolata da Firenze, che egli si truova, e che a lui pareva di sentirlo.
V. Al nome di Dio sia. Neri d'Ortolata da Firenze doveva avere migliori orecchie, che non ho io, che sono disceso da Montevarchi. La larghezza cagionano gli spiriti, cioè il fiato, perché ciascuna sillaba si profferisce o aspirata, cioè con maggior fiato, la qual cosa gli antichi segnavano nello scrivere con questa nota h, o con minore, il che i Latini non notavano con segno nessuno, e i Greci con una mezza h.
C. A questo modo tutte le parole Toscane saranno strette; perché sebbene molte si scrivono colla lettera, o piuttosto segno h, tutte nondimeno si pronunziano come se ella non vi fosse; e anco nella Latina mi pare che cotale pronunzia sia perduta, e nella Greca s'osservi poco.
V. È il vero; ma sappiate che tralle bellezze della lingua Toscana questa non è l'ultima, che nessuna delle sue parole ha larghezza, e conseguentemente non s'aspira, cioè si profferisce tenuemente.
C. In che consiste questa bellezza?
V. Consiste in questo, che il pronunziare le parole aspirate è, sebbene il facevano i Greci, e i Latini, proprietà di lingua barbara, e usanza molto schifa, e da fuggirsi.
C. Perché così?
V. Perché a volere raccorre, e mandar fuora di molto fiato, è necessario aprire molto bene, anzi spalancare la bocca, quasi come quando si sbaviglia, e se non isputare, almeno alitare altrui nel viso; e il fiato altrui, quando bene sapesse di musco, o di zibetto, non suole a molti troppo piacere; e se non altro, il pronunziare aspirato intruona gli orecchi, come si vede nell'epigramma di Catullo allegato di sopra.
C. Perché scrivono dunque i Toscani havere, habitare, honore, honesto, e tante altre parole coll'h?
V. Credono alcuni che ciò si faccia per dimostrare in cotal guisa, l'origine loro esser Latina: ma io riputandola soverchia, direi piuttosto quei versi del Bembo: Siccome nuoce al gregge semplicetto La scorta sua, quando ella esce di strada, Che tutta errando poi convien che vada. Ma, tornando alla materia nostra, la lingua Greca comparata, e agguagliata colla Latina è migliore, cioè più ricca, e più abbondante di lei.
C. Per qual cagione?
V. Avendovi io detto innanzi, che queste sono semplici oppenioni mie, non occorre che voi mi dimandiate delle cagioni, né ch'io altro vi risponda, se non che così mi pare; perché sebbene in questa vi potrei addurre alcune, se non ragioni, autorità, tuttavia in molte altre non mi verrebbe per avventura fatto il potere ciò fare.
C. Io arò caro che, quando lo potrete fare, il facciate, e che per questo non mi sia tolta né l'autorità di potervi dimandare, né la licenza di contrappormivi, quando voglia mene verrà. Ma quali sono quelle autorità che voi dicevate?
V. Lucrezio, il quale volendosi scusare, nel principio del suo primo libro dice: Nec me animi fallit Grajorum obscura reperta Difficile illustrare Latinis versibus esse Propter egestatem linguae, et rerum novitatem.
C. Lucrezio fu innanzi a Cicerone, il quale fu quegli che arricchì la lingua Latina, e le diede tanti ornamenti, quanti voi diceste di sopra, il qual Lucrezio, se fosse vivuto dopo Cicerone, non arebbe per avventura detto così.
V. Quintiliano, che nacque tanto dopo Cicerone, e fu uomo dottissimo, giudiziosissimo, ed eloquente molto, lasciò scritto queste parole: Iniqui judices adversus nos sumus, ideoque sermonis paupertate laboramus. E in altri luoghi quando accenna, e quando dice apertamente il medesimo.
C. Chi pensate voi che potesse giudicare meglio, e terminare più veramente questa lite, Quintiliano, o Cicerone?
V. Io so appunto dove voi volete riuscire, e questa tralle altre fu una delle cagioni perché io rinovai di sopra la protestazione, e nondimeno vi risponderò liberamente, dicendo, Cicerone senza dubbio nessuno.
C. Ascoltate dunque queste che sono sue parole nel principio del libro de' Fini de' beni, e de' mali: Sed ita sentio, et saepe disserui, Latinam linguam non modo non inopem, ut vulgo putarent, sed locupletiorem etiam esse, quam Graecam. Udite voi quello che Cicerone dice, la lingua Latina non solamente non essere povera, come volgarmente pensavano, o arebbono pensare potuto, ma più ricca ancora che la Greca?
V. Odolo.
C. Udite anco questo altro luogo nel principio del terzo libro della medesima opera: Etsi, quod saepe diximus, et quidem cum aliqua querela non Graecorum modo, sed etiam eorum qui se Graecos magis, quam nostros haberi volunt, nos non modo non vinci a Graecis verborum copia, sed esse in ea etiam superiores. Voi udite bene che egli, cioè il medesimo Cicerone, diceva spesso, e disputava ancora che in ciò non solo i Greci si dolessero di lui, ma eziandio i Romani che tenevano la parte de' Greci, diceva (dico) e disputava spesse volte che i Latini non solo non erano vinti da' Greci di copia di parole, ma eziandio stavano loro di sopra.
V. Io l'odo pur troppo; ma non credo che gli dicesse da vero.
C. Era Cicerone uomo da burlare?
V. Era; anzi non fu mai uomo che burlasse né più di lui, né meglio; non penso già che dicesse questo per burla.
C. O perché dunque, se ciò non era vero, disse egli che vero fosse?
V. Perché, se nol sapeste, la lingua Latina ebbe quasi le medesime controversie colla Greca che ha avuto, e ha ancora la Toscana colla Latina; e se non fosse stato Cicerone, non so come si fosse ita la bisogna, perché i Romani tenevano ordinariamente poco conto delle scritture Latine, e molto delle Greche; ma Cicerone, come si vede apertamente sì altrove, e sì in cotesti due proemj che voi allegati avete, ora confortando i Romani uomini a dovere Romanamente scrivere, e ora riprendendogli, e mostrando loro il loro errore (non altramente quasi che il Bembo a' tempi nostri), le diede credito, e riputazione, e la condusse finalmente colle sue divine scritture tanto in su, quanto ella o poteva, o doveva andare; e per questa cagione, cioè per esortargli, e inanimirgli allo scrivere Latinamente, credo che egli quelle parole dicesse: e se pure le disse perché così gli paresse, io non posso, ancoraché volessi, indurmi a crederlo; vedete parole che m'escono di bocca, e se io aveva bisogno di nuova protestazione; benché men'usciranno delle maggiori.
C. Non dice egli ancora nel principio del primo libro delle Quistioni Tusculane? Sed meum semper judicium fuit, omnia nostros aut invenisse per se sapientius, quam Graecos, aut accepta ab illis fecisse meliora, quælig quidem dibma statuisset, in quibus elaborarent.
V. Se egli intendeva di se stesso, come con molti altri tengo ancora io, se gli può credere ogni cosa, perciocché alla divinità di quello ingegno non era nulla né nascoso, né faticoso; ma, se generalmente, non so che mi dire.
C. Credete voi che favellasse da buon senno, quando disse, che chi razzolasse tutta la Grecia, e rovgliasse tutti i loro libri, mai nessuna voce non troverebbe che quello sprimesse che i Latini chiamavano inetto?
V. Credolo, e credo che dicesse il vero.
C. Voi non dovete aver letto il Budeo, o non vene ricordate, il quale ne' suoi Comentarj sta dalla parte de' Greci, e dà contra Cicerone, mostrando che eglino, come fece ancora il Marullo in un suo leggiadrissimo epigramma, hanno non una, ma molte parole che significano inetto.
V. Io l'ho letto, e me ne ricordo, ma ognuno può credere quello che più gli piace in queste cose, dove non ne va pena nessuna.
C. Dunque vi par poca pena l'esser tenuto ignorante?
V. L'essere ignorante, a chi può fare altro, e non l'essere tenuto, mi pare grandissima, e vergognosissima pena; e contuttociò amo meglio d'esser tenuto ignorante, che bugiardo, e voglio piuttosto che si creda che io non intenda alcuna cosa, che dirla altramente di quello che io l'intendo.
C. Poiché voi non credete che i Greci abbiano parola nessuna, non che tante, la quale significhi propriamente inetto, credete voi ancora che la cagione di questo sia quella che dice Cicerone in un altro luogo?
V. Quale?
C. Che quella eruditissima nazione de' Greci era tanto inetta, che non conosceva il vizio della inettitudine, e non lo conoscendo, non gli avea potuto por nome.
V. Voi mi serrate troppo tra l'uscio, e 'l muro; che posso sapere io, e che accade a voi dimandare di cotesto? Io per me credo di no, né credo che Cicerone il dicesse egli; perché cotali cose più che per altro si dicono dagli ingegni grandi, ed elevati o per giuoco, o per galanteria.
C. E del nome Convivio, il quale noi chiamiamo convito, che dite? Non vi pare egli, come a Cicerone, che fosse meglio posto, e più segnalatamente da' Latini, che da' Greci Simposio?
V. Parmi; quanto è cosa più civile, e più degna il vivere insieme, che il bere, e lo sbevazzare di compagnia; e il medesimo dico del nome della divinazione, e della innocenza; e chi starà in dubbio che i Latini non abbiano molte cose o trovate da se, o cavate da' Greci, migliori delle loro, come n'hanno i Volgari, migliori di quelle, non solo de' Latini, ma de' Greci ancora?
C. Avete voi veduto certi epigrammi Latini che fece Messer Giovanni Lascari contra Cicerone in difesa de' Greci?
V. Maisì ch'io gli ho veduti; così veduti non gli avessi io!
C. Perché?
V. Perché non mi pajono né quanto alla sentenza, né quanto alla locuzione degni a gran pezza del grido di sì grande uomo, e se egli non avesse scritto meglio Grecamente che in Latino, il che non so, non so quello che mene dicessi, perché lo giudicherei piuttosto un plebejo versificatore, che un nobile poeta; e a ogni modo i Greci, o volete gli antichi, o volete i moderni, non ebber mai troppo a grado la lingua Latina, né mai la lodarono, se non freddamente, e cotale alla trista, e il medesimo dico degli uomini.
C. E' par non solo verisimile, ma ragionevole, poiché tolsero loro l'imperio.
V. Così avessero tolto loro ancora le scienze, acciocché come erano più gravi, e più severi, così fossero stati eziandio più dotti, e più scienziati di loro.
C. Deh ditemi qualcosa ancora della nobiltà, cioè qual lingua ha più scrittori, e più famosi, la Greca, o la Latina.
V. Di questo mi rimetto al giudizio di Quintiliano, il quale gli censurò tutti. A me pare che, se non nella quantità, almeno nella qualità, che è quello in che consiste il tutto, la Latina non perda dalla Greca, intendendo sempre non quanto alle scienze, ma quanto all'eloquenza; perché nelle scienze v'è quella differenza che è tralla cupola di Santa Maria del Fiore a quella non dico dì San Giovanni, o di San Lorenzo, ma di Santa Maria delle Grazie sul ponte Rubaconte.
C. Sebbene io veggo di quì la cupola, non so però quale si sia quella di Santa Maria delle Grazie; laonde se non volete esser ripreso, come fu Dante della pina di San Piero a Roma, date comparazioni che ognuno lo possa intendere.
V. Quanto è da una cosa grande grande a una piccina piccina.
C. Intendete voi così de' poeti, come degli oratori, sotto i quali comprendo ancora gli storici, e brevemente tutti coloro che scrivono in prosa?
V. Intendo, eccettoché della tragedia, e della commedia.
C. O che tragedie hanno i Latini, se non quelle di Seneca, le quali io ho sentito piuttosto biasimare che lodare?
V. Le tragedie di Seneca sono dagli uomini di giudizio tenute bellissime: e Messer Giovambatista Cintio Ferrarese dice ne' suoi dottissimi discorsi che i cori di Seneca soli sono molto più degni di loda che quelli di tutti i Greci; nel qual giudizio come s'accordò egli con quello d'Erasmo, così m'accordo io col suo: e come testimonia il medesimo nel medesimo luogo, se la Medea d'Ovvidio, tanto da Quintiliano lodata, e celebrata, fosse in pié, arebbe per avventura la lingua Latina da non cedere anco nelle tragedie alla Greca, e noi donde cavare la perfetta forma di cotal poema.
C. Quanto alle commedie, io non pensava che si potessero trovare né le più piacevoli di quelle di Plauto, né le più artifiziose di quelle di Terenzio.
V. Voi eravate ingannato; prima i Latini non hanno la commedia antica, ma ponghiamo in quel luogo la satira, della quale mancano i Greci; poi, sebbene Menandro a' dì nostri non si truova, la comune oppenione è che egli avanzasse di gran lunga e Plauto, e Terenzio, e tutti gli altri comici insieme.
C. Quanto a' poeti, e' mi pare che Cicerone medesimo, grandissimo fautore, e difenditore delle cose Latine, confessi che i Romani sieno inferiori.
V. Egli non l'arebbe mica confessato se fosse tanto vivuto, che avesse (per lasciare gli altri) letto l'opere di Vergilio, il quale solo, se non vinse, pareggiò tre de' maggiori, e migliori poeti che avesse la Grecia.
C. Sì, ma voi non dite che i Latini così poeti, come oratori, cavarono, si può dire, ogni cosa da' Greci.
V. Io non lo dico, perché penso che voi lo sappiate, e anco mi pareva averlo detto, quando dissi che la lingua Latina dipendeva dalla Greca, come la Toscana dalla Latina.
C. Io vo' dire che egli è un bel che, essere stati i primi, e che i Romani ebbero un gran vantaggio.
V. È verissimo; pure anco i Greci bisognò che cavassero di qualche luogo, e da qualche altra lingua; e nondimeno grande obbligo dee avere la lingua Latina alla Greca, e i Romani uomini a' Greci; il che nel vero fecero sempre, lodandola, e innalzandola fino alle stelle. Considerate quante volte, e con quanta loda, e venerazione ne favellano Quintiliano, e tanti altri scrittori, così di prosa, come di versi, non dice Orazio tra gli altri: Vos exemplaria Græca Nocturna versate manu, versate diurna? e nella medesima Poetica: Graiis ingenium, Graiis dedit ore rotundo Musa loqui, præter laudem nullius avaris. Potremo dunque conchiudere che la lingua Latina è inferiore alla Greca di bontà, ovvero di ricchezza; superiore di gravità; e di nobiltà poco meno che pari.
C. Questa conchiusione non mi dispiace; ma tralla Greca, e la Toscana come la saldate voi quanto a ricchezza?
V. La Greca semplicemente è più ricca.
C. Che vuol dire semplicemente? Forse, che semplice sarebbe, e per avventura scempio, chiunche altramente credesse?
V. Scherzate pure a vostro modo, e motteggiate quanto volete, che egli non v'è a un bel bisogno quella differenza che voi vi date ad intendere. Semplicemente vuol dire, considerando l'una, e l'altra assolutamente, e senza alcun rispetto; ma se si considerassino rispettivamente, cioè come quella è mezza morta, e questa viva affatto, la Toscana, non che a lungo, a corto andare potrebbe non solo agguagliare, ma avanzare la Greca. E a ogni modo male si può fare comparazione tra una cosa che è morta e una che vive; perciocché sono equivoche, non altramente che un uomo di carne, e d'ossa, e uno di stoppa, e di cenci, quali sono le befane. E se la lingua volgare seguita d'andarsi avanzando, come ella ha fatto già sono molti anni, cioè da che 'l Bembo nacque, voi mi saperrete dire, a che termine ella potrebbe arrivare, e quanto poggiare in alto; dove la Greca, e la Latina hanno ogni speranza perduto di poter crescere, e farsi maggiori.
C. Io credo che elle non faranno poco a mantenersi. Ma raccontatemi alcuna di quelle cose che abbia la lingua Greca, e non le abbia la Latina.
V. Lasciamo stare le tante maniere delle declinazioni de' nomi così semplici, come contratti, e delle congiugazioni de' verbi o baritoni, o circunflessi, o in mi, e che così ne' numeri, come ne' verbi ha il numero duale, del quale mancano tutte l'altre lingue; benché non si può dire veramente che ne manchino, non ne avendo bisogno; ed essendo cotal numero stato trovato dagli Ateniesi più a pompa della loro, che per necessità d'alcuna altra lingua; ella è felicissima nelle figure, cioè nel comporre le preposizioni, o volete co' nomi tanto sostantivi, quanto agghiettivi, o volete co' verbi; nella qual cosa, la quale è di non picciolo momento, i Greci avanzano tanto i Latini, quanto i Latini i Toscani. Ha i verbi non solamente attivi, e passivi, ma ancora medii, ovvero mezzi, cioè, ch'in una stessa voce significano azione, e passione, ovvero agere, e patire, cioè fare, e esser fatto.
C. Cotesta mi pare piuttosto una confusione, e uno intricamento, che altro.
V. Ella pare così a molti; ma ella non è. E abbondantissima di participj, dove la Latina n'ha anzi carestia che no, e la Volgare ne manca poco meno che del tutto. Ha, oltra la lingua comune, quattro dialetti, cioè quattro idiomi, ovvero linguaggi, proprj, diversi l'uno dall'altro, la qual cosa non si potrebbe dire, quanto e giovamento, e ornamento n'apporti, e massimamente a' poeti, che favellano quasi d'una altra lingua che gli oratori. Ha, che ella ebbe più giudizio nel formar parole nuove, che non ebbero i Latini, i quali, secondoché afferma Quintiliano, fecero in questo caso, come i giudici da Padova, mostrandosi troppo schifi o in formare le parole nuove, o in ricevere le formate da' Greci, onde nacque la povertà della lor lingua; nella qual cosa i Toscani hanno più la larghezza degli avoli, che la strettezza de' padri loro, seguitato; onde mancano di quel biasimo che Quintiliano diede a' Latini.
C. E' par pure che molti, e tra questi il Castelvetro, non vogliano che si possano formare parole nuove, se non con certe condizioni, e limitazioni loro, anziché non si possano usare altre voci che quelle proprie che si truovano o nel Petrarca, o nel Boccaccio.
V. Quanto cotestoro s'ingannino, e come si possano scusare per lo essere forestieri, si dirà nel suo luogo. Ha finalmente la lingua Greca e quanto alle parole, e quanto alle sentenze, se non infiniti, innumerabili modi di favellare figurato; e insomma ha tutte quelle cose che da tutte le parti a ricca, e copiosa lingua si richieggono.
C. Quanto alla gravità, che ne dite voi?
V. La lingua Greca è tenuta leggiera da molti, e atta più alle cose piacevoli, e burlesche, che alle gravi, e severe, e da molti tutto l'opposito. Io credo che ella sia idonea all'une cose, e all'altre; ma sia pure o piacevole, o grave quanto ella sa, che la Fiorentina non le cede, anzi l'avanza e nella piacevolezza, e nella gravità.
C. Quanto alla nobiltà?
V. Perdiamo noi d'assai.
C. Nella prosa, o nel verso?
V. Nell'una, e nell'altro, fuori solamente che nel lirico, e nell'eroico.
C. Intendete voi di quantità, o di qualità?
V. D'amendune.
C. Qui bisogna andare adagio, e fermarsi sopra ciascuna di queste parole per ponderarle, ed esaminarle tritamente tutte; e prima quanto alla prosa, non avete voi Messer Giovanni Boccaccio, il quale io ho sentito preporre molte volte e a Cicerone, e a Demostene?
V. Cotestoro se non volevano ingannare altri, erano ingannati essi o dall'affezione, o dal giudizio. Fra Cicerone, e Demostene si può ben fare comparazione, come fece giudiziosamente Quintiliano, così quanto alla gravità, 285 e spessezza delle sentenze, come quanto alla pulitezza, e leggiadria delle parole; ma tra 'l Boccaccio, e Cicerone, o Demostene no.
C. Per qual cagione?
V. Se non per altro, perché le comparazioni si debbon fare nel genere univoco, e il Boccaccio scrisse Novelle, e non Orazioni; e in questo non dubiterei d'agguagliarlo, e forse preporlo a Luciano, e a qualunque altro scrittore o Greco, o Latino; ma che egli tuoni, baleni, e fulmini, egli è tanto discosto dal farlo, quanto dal doverlo fare, scrivendo nel genere che egli scrisse le sue opere più perfette.
C. Voi sete per avventura dell'oppenione di coloro i quali tengono che collo stile del Boccaccio non si possono scrivere materie gravi, ma solamente Novelle.
V. Dio mene guardi.
C. Guardivi da maggior caso che questo non è; conciossiacosaché Monsignore Messer Gabriello Cesano, e Messer Bartolommeo Cavalcanti, l'uno Toscano essendo da Pisa, e l'altro Fiorentino, ambi di chiarissimo nome, sono di cotal parere, secondoché scrive il Muzio in una sua lettera a lor medesimi indiritta; se già non voleste piuttosto l'oppenione del Muzio solo, che d'ambidue loro, seguitare.
V. Voglio in questo, quando ben fossero ancora ambi quattro, che sarebbono la metà più.
C. E in quello che affermano tutti e due i medesimi, e Monsignore Paolo Giovio per terzo lo conferma, cioè che lo stile di Niccolò Machiavelli sia più leggiadro di quello del Boccaccio, quale oppenione portate? Non volete voi piuttosto seguitare tre che un solo?
V. Naffe, messer no. Anzi duro fatica a credere che il Cesano, e il Cavalcanti, se pure il dicono, lo credano; che il Giovio, intento solamente alla lingua Latina, disprezzò sempre, e non curò di saper la Toscana; il che ottimamente gli venne fatto; anzi si rideva, e gl'incresceva del Bembo, come a molti altri.
C. E il Bembo che diceva?
V. Che si rideva, e gl'incresceva altrettanto di lui, e di loro; e così venivano a restare patti, e pagati.
C. Cotesto non credo, ma che il Bembo rimanesse creditore indigrosso. Ma perché aggiugnete voi quelle parole fuori solamente nel lirico, e nell'eroico? Non hanno i Greci nove Lirici, e ciascuno d'essi bello, e meraviglioso? e Pindaro, il quale è il capo di tutti, bellissimo, e maravigliosissimo, e tale, che per giudizio d'Orazio medesimo egli è inimitabile?
V. Ebbergli già, se non gli hanno oggi, ma noi avemmo, e avemo il Petrarca.
C. Domin, che voi vogliate che il Petrarca solo vi vaglia per tutti e nove.
V. Voglio, in quanto alla qualità.
C. Guardate a non essere tolto su; che io non credo mai che i dotti, e giudiziosi uomini siano non dico per farvi buono, ma per comportarvi questo.
V. Tal paura avessi io degli altri; e poi non v'ho io detto che questi sono citrì, e griccioli miei, de' quali non s'ha a tener conto?
C. E nell'eroico avete voi nessuno non dico che vinca, ma che pareggi Omero?
V. Uno, il quale non dico il pareggia, ma lo vince.
C. E chi?
V. Dante.
C. Dante? Oh io n'ho sentito dire tanto male, e alcuni non l'accettano ne' loro scritti per poeta, non che per buono poeta; qui è forza, secondo me, che voi andiate sotto.
V. Basta non affogare, e anco, se io non sono da me il miglior notatore del mondo, ho nondimeno tai due sugheri sopra le spalle, o volete dire gonfiotti, che non debbo temere di dovere andare a fondo; ma che vi muove così a dubitare del fatto mio?
C. Primieramente voi ne volete più che la parte, perciocché a Dante stesso bastò essere il sesto fra cotanto senno, e voi lo fate il primo, e lo ponete innanzi a tutti. Poscia avete contra voi il Bembo, e ultimamente Monsignor della Casa, che pur fu Fiorentino, nel suo dottissimo, e leggiadrissimo Galateo, il quale ho tanto sentito celebrare a voi medesimo.
V. Dante usò quella modestia la quale deono usare i prudenti uomini quando favellano, o scrivono di se stessi; e anco pare che in un certo modo si volesse correggere, quando in un altro luogo scrisse: O tu che vai, non per esser più tardo, Ma forse reverente a gli altri, dopo. Ma lasciamo star questo; io sono obbligato a dirvi non l'altrui oppenioni, ma le mie. Il Bembo non so che faccia questa comparazione, so bene che poche volte biasimò Dante, che egli ancora nel medesimo tempo non lo lodasse; la qual cosa non fece Monsignor della Casa, il quale, tuttoché fosse Fiorentino, non pare che nelle sue scritture stimasse, o amasse troppo Firenze.
C. Il Bembo non teneva egli che il Petrarca fosse maggior poeta, e migliore che Dante?
V. Teneva; e Monsignor della Casa altresì, e poco meno che tutti coloro i quali sono stati, se non più dotti, più leggiadri nello scrivere: ancoraché non siano mancati di quelli che hanno agguagliato Dante all'oro, e il Petrarca all'orpello, e chiamato questo Maggio, e quello Settembre.
C. E voi da chi tenete?
V. Io non tengo da quel di nessuno, che voglio esser libero di me stesso, e credere non quello che persuadono l'autorità, ma quello che dimostrano le ragioni.
C. Io vo' dire, chi voi tenete che fosse maggiore, o Dante, o il Petrarca?
V. Per quanto si può giudicare da' loro ritratti, e anco da quelli che scrivono la Vita loro, Dante era minore.
C. Io non intendo maggiore semplicemente, cioè di persona, come lo pigliate voi, ma maggiore poeta, e voi sapete pure che Aristotile insegna che questa conseguenza non vale: tu sei poeta, e sei maggior di me, dunque tu sei maggior poeta me.
V. A volere risolvere questa dubitazione bisogna distinguere, perché questo agguagliamento è in genere, se non equivoco del tutto, almeno analogo, e io v'ho detto che le comparazioni si debbon fare nel genere univoco. Il Petrarca, per risolvervi in poche parole, come lirico, più perfetto che Dante, come eroico; perciocché nel Petrarca non si può per avventura disiderare cosa nessuna da niuno, e in Dante qualcuna da ciascuno, e spezialmente d'intorno alle parole. Ma la grandezza, e magnificenza dell'eroico è tanto più maravigliosa, e giovevole della purità, e leggiadria del lirico, che io per me torrei d'essere anzi buono eroico, che ottimo lirico. E chi non eleggerebbe di toccare piuttosto mezzanamente un violone, che perfettamente scarabillare un ribechino? Non disse il Petrarca medesimo: Virgilio vidi, e parmi intorno avesse Compagni d'alto ingegno, e da trastullo ec. intendendo de' poeti elegiaci, e lirici?
C. Voi non fate menzione alcuna delle tragedie, il quale, secondo che mostra Aristotile contra Platone, è il più nobile poema che sia?
V. Io non ne fo menzione, perché, a dirvi il vero, ancoraché le mandassi a chiedere a lui, non potei avere, e conseguentemente leggere, quelle del Ciraldo, il quale ha grido d'essere ottimo tragico. So bene che quando la sua Orbecche fu recitata in Ferrara, ella piacque maravigliosamente, secondoché da due Cardinali, Salviati, e Ravenna, che a tale rappresentazione si ritrovarono; raccontato mi fu; e la Sofonisba del Trissino, e la Rosmunda di Messer Giovanni Rucellai, le quali sono lodatissime, mi piacciono sì, ma non già quanto a molti altri. La Canace dell'eccellentissimo Messer Sperone è stata giudicata da altri ingegni, e giudizj che il mio non è. La Tullia di Messer Lodovico Martelli se avesse buona l'anima, come ha bello il corpo, mi parrebbe più che maravigliosa, e da potere stare a petto alle Greche. Di quelle d'Alessandro de' Pazzi, uomo nobile, e di molte lettere così Greche, come Latine, voglio lasciare giudicare ad altri, non mi piacendo né quella maniera di versi, né quel modo di scrivere senza regola, e osservazione alcuna; e tanto più che Messer Piero Angelio da Barga, il quale legge Umanità a Pisa, uomo d'ottime lettere Greche, e Latine, e di raro giudizio, me ne mostrò una da lui tradotta, la quale superava tanto quella di Messer Alessandro, che a gran pena si conosceva che elle fusseno le medesime. L'Antigone di Messer Luigi Alamanni, e le due di Messer Lodovico Dolce sono tradotte dal Greco; il perché non occorre favellarne.
C. Per qual cagione? voi sete forse di quelli che non approvano il tradurre d'una lingua in un'altra?
V. Anzi l'approvo, e il lodo, quando si traducono quegli autori che si possono tradurre in quel modo che si debbono, ma dico che la gloria prima è de' componitori, non de' traduttori; onde Sofocle, e Euripide s'hanno principalmente a lodare poi, l'Alamanni, e il Dolce, al qual Dolce, non meno che all'Alamanni la Fiorentina, dee non poco la lingua Toscana.
C. Forse, perché egli vuole che ella si chiami Toscana, e non Italica, come quasi tutti gli altri forestieri?
V. Non tanto per cotesto, quanto per la traduzione che egli fece delle Trasformazioni d'Ovvidio.
C. Che mi dite voi? Io comincino piuttosto a credere, che a dubitare, che voi non vogliate dire tutto quanto oggi paradossi, per non dire passerotti, e che non abbiate tolto a impugnare tutte le buone, e vere oppenioni, e tutte le ree, e false difendere. Voi non dovete aver veduto quello che scrisse contra cotesto libro Messer Girolamo Ruscelli.
V. Anzi l'ho veduto, e letto diligentemente.
C. Be, che ne dite?
V. Dico che se Messer Lodovico Castelvetro avesse così scritto contra Messere Annibale Caro, e ripresolo con tanta ragione, io per me non arei né saputo, né potuto, né voluto difenderlo; ma per questo non resta che quella non sia una bellissima, e utilissima opera, e degna di molta lode nel modo che ella si truova oggi.
C. Io penso quello che voi direste, se aveste veduto alcune Stanze del clarissimo Messer Domenico Veniero pur traduzione del principio di cotesta opera medesima, ma elle non vi debbono essere capitate alle mani.
V. Anzi sì, e mi parvero tanto belle, e leggiadre, che appena mi si può lasciar credere che alcuno (e sia chi si voglia), né egli medesimo ancora, possa infino al mezzo, non che insino al fine, così fattamente seguitarle, e alloraché io il vedessi, lo crederrei; prima no.
C. Sapete voi che Messer Giovannandrea dell'Anguillara seguita l'incominciata sua traduzione di cotesto libro?
V. Sì so, anzi so più oltre, che egli n'è a buon termine, e finita che l'arà, dice di voler venire qui a starsi un mese con esso meco, e senza che mi dimandiate d'altro, vi dico che alcune Stanze che io n'ho vedute, sono tali che mi fanno credere che i Toscani abbiano ad avere Ovvidio più bello che i Latini. Questo so io bene di certo che quelle mi dilettavano più che i versi Latini non facevano. Ma di grazia usciamo di questa materia, sì perché il giudicare di queste cose vuole agio, e bujo, e non si può fare (come si dice) a occhi, e croci, e si perché io non vorrei che noi mescolassimo, come abbiamo cominciato, il favellare collo scrivere; del quale ragionerò poi, e tanto mi distenderò, quanto voi vorrete, assegnandovi il come, e il perché, che ora si lasciano indietro per la maggior parte.
C. Passate dunque a raccontarmi qual lingua è più copiosa di parole, e di favellari, la Latina, o la Volgare.
V. Ella è tara bara.
C. Che vuol dir tara bara? E che domin di vocaboli usate voi? Quasi parlaste, non vo' dire, colla madre d'Evandro, ma con chi trovò la lingua vostra.
V. Vuol dire che ella è ne fa, ne fa, o volete, come dice il Pataffio, ne hai, ne hai, o come si parla volgarmente, la ronfa del Vallera.
C. Se voi non favellate altramente, io il vi terrò segreto, ancoraché non mi ponghiate credenza, perché non intendo cosa che vi diciate.
V. Fate vostro conto che ella sia tra Bajante e Ferrante, o come disse il cane che bee l'acqua, tal'è qual'è.
C. Voi volete scherzare, e motteggiare ancor voi, e mi fate il dovere, ma intanto il tempo sene va.
V. Io per me non ci so conoscere troppo vantaggio, perciocché come in alcune cose siamo vincenti, così in alcune altre semo perdenti; conciossiacosaché se noi abbiamo gli articoli, e gli affissi de' quali mancano i Latini: essi hanno i verbi passivi, e deponenti, de' quali manchiamo noi.
C. Io sono amato, tu sei letto, colui è udito, non sono passivi?
V. Sono, ma non sono in una voce sola, come: ego amor, tra legeris, vel legere, ille auditur; la qual cosa è di tanta importanza, che appena il credereste. Manchiamo ancora del tempo preterito perfetto in tutti i verbi, ma ci serviamo in vece di lui del lor participio col verbo avere ordinariamente negli attivi, e col verbo essere negli altri, come: io ho amato, io sono tornato. Bene è vero che noi avemo in quello scambio, come i Greci, non solo il primo aoristo, cioè il tempo passato indeterminato, come: io amai, tu leggesti, colui udì, o udío, che gli antichi dicevano udíe, ma eziandio il secondo, come: io ebbi amato, tu avesti letto, quegli ebbe udito: o io mi fui rallegrato, tu ti fusti riscaldato, colui si fu risoluto; de' quali ci serviamo felicissimamente: per che oltra l'altre commodità, dove i Latini nella terza persona del numero del più nel tempo preterito perfetto non hanno se non due voci, amaverunt, vel amavere, il quale amavere non è, come credono alcuni, il numero duale; noi n'avemo cinque, quattro ordinarj amarono, amaron, amaro, ed amar, e uno estraordinario de' poeti amarno, usato da Dante, quando favellando della reedificazione di Firenze, disse: Quei Cittadin che poi la rifondarno, in luogo di rifondarono, o rifondaron, o rifondaro, o rifondar.
C. Non avete voi ancora amormo più usitato di tutte?
V. Amorno, sonorno, cantorno, e tutte l'altre cotali, sebbene s'usano in Firenze, sono barbarismi, e conseguentemente non bene usate; e ciascuno che ama di favellare, o di scrivere correttamente, e senza biasimo, sene debbe guardare. Manchiamo ancora, come io dissi di sopra, di comparativi; di superlativi siamo poverissimi; de' supini non n'abbiamo nessuno, de' participj pochi, e quegli per la maggior parte sono divenuti nomi; perché in questa orazione: I buoni cittadini sono amanti la patria loro; amanti, perché ha il caso del suo verbo è participio, ma in quest'altra: I buoni cittadini sono amanti della patria loro; amanti, perché non ha il caso del suo verbo, ma il genitivo, non è propriamente participio, ma participio passato in forza, e natura di nome, e questo secondo modo, è più frequente nella lingua nostra, e in maggiore uso che'l primo, così nello scrivere, come nel favellare. Ma, dall'altro lato, noi abbondiamo de' verbali, come: fattore, ovvero facitore; difensore, o piuttosto, difenditore; compositore, o più Toscanamente, componitore; amatore, ovvero amadore, e altri tali quasi infiniti, come, amore, colore, creditore, e il più bello di tutti, valore; e il medesimo dico de' femminini, amatrice, facitrice, producitrice e
C. Né voglio lasciare di dire che i Provenzali davano l'articolo femminino a tutti quei verbali cui noi diamo il masculino, come si vede chiaramente ne' lor libri, e in quei versi di Dante che seguitano a quegli allegati di sopra da noi, dove si legge: las passata follor, per a che la valor, de ma dolor, come se follore, dolore, e valore fossero femminini, in luogo di follia, doglienza, e valenza. I diminutivi ci avanzano, conciossiacosaché noi diminuimo in più modi, non pure i nomi, ma i diminutivi medesimi, così ne' propri, come negli appellativi.
C. Io mi ricordo che io vidi già un Sonetto fatto a Roma nella solennità di Pasquino contra Messer Tommaso da Prato, quando era Datario, il quale cominciava Maso, Masuccio, Maserel, Masino, Vescovel, Datariuzzo di Clemente. Ma datemene voi un esempio negli appellativi.
V. Da casa, si forma, ovvero si diminuisce non pure casetta, casina, casuccia, caserella, casellina, e casipola, ma casettina, casinina, casuccina, e caserellina, e alcuna volta si dice non solo casa picciola, come si truova non una volta sola nel Boccaccio, e negli altri scrittori Toscani. E quello che è più, avemo alcuni diminutivi i quali significano grandezza, se già non gli volemo chiamare piuttosto, dirivativi, o altramente, come, casone da casa, e cassone da cassa; basta, che quando ad alcuna parola s'aggiugne nella fine questa desinenza, ovvero finimento one, egli le reca ordinariamente grandezza, ma le più volte in mala parte, il che nasce, più che da altro, perché le parole a cui s'aggiugne, significano per se medesime male, e ree cose, come ladrone, ghiottone, ribaldone, ignorantone, furfantone, manigoldone ec. Similmente quando alle parole di genere masculino s'aggiugne otto, ovvero occio, e a quelle di femminino otta, ovvero occia, si cresce il lor significato, come casotto, casotta, e casoccia; grassotto, e grassoccio, grassotta, e grassoccia; fratotto, e fratoccio; puledrotto, e puledroccio ec. E alcuni finiscono in ottolo, se pianerottolo, e bamberottolo, e alcuni altri sono diminutivi. Accio, ed accia aggiunti nella fine, significano cattività, come: frataccio, bestiaccia, tristaccio, tristaccia. Iccio, e iccia significano anzi cattivo, che no, come: bigiccio, amariccio, cioè, che tiene di bigio, e d'amaro; il che si dice ancora bigerognolo, e amarognolo, come verderognolo; e della medesima natura pare che sia etto, e etta, come: amaretto, e amaretta, e altri cotali. Ozzo, ed ozza accrescono, come: mottozzo, e parolozza, ec. Ello, ed ella diminuiscono, come: ghiotterello, tristerella, cattivello, e cativella ec. Uzzo, ed uzza anco essi diminuiscono, come: tisicuzzo, tignosuzza; e così uccio, ed uccia, come: tettuccio, e casucccia. Il medesimo fanno uolo, e uola, tristanzuolo, e tristanzuola. Ino, ed ina scemano ancor essi, come: casino, e casina, panierino, cioè paniere picciolo, e panierina, cioè una paniera picciola, che si chiama paneruzzola; ma spesse fiate, e massimamente quando s'aggiungono, a' nomi proprj, significano una certa benevolenza, e amorevolezza, che a' fanciulli piccioli si porta, come: Lorenzino, Giovannino, Jacopino, Antonino, benché questo è anco nome proprio, onde si dice Tonino, Giorgino, Pierino, e Pierina. Dicesi ancora per vezzi, ghiotterello, e ghiotterellino, tristerello, e tristerellina, ladrino, e ladrina. Essa significa qualche volta bene, come: fattoressa, padronessa, e dottoressa, e qualche volta male, come: liressa, e liutessa, cioè una lira cattiva, e un liuto non buono; e ancoressa significherebbe un'ancora vecchia, e cattiva. Eca significa sempre male, come dottoreca. Sordastro, e filosofastro sono cattivi. Vincastro non è diminutivo. Anitroccolo, cioè un'anitra picciola, e somiglianti pajono fuor di regola.
C. Non avete voi un'altra sorte di diminutivi, quando per abbreviare i nomi proprj, solete tagliargli, o levarne, o mutarne, alcuna parte?
V. Anzi pochi sono oggi a Firenze coloro che si chiamino per lo proprio nome loro, perché o s'appellano per alcuno soprannome, o per quei nomi mozzi che voi chiamate diminutivi, come: Bartolomeo, Baccio, benché Baccio è ancora nome proprio; e però la plebe dice, e i cittadini, Meo; e per diminuzione Meuccio, e Meino. Francesco, Cecco, Ceccone, e Ceccotto, e per diminuzione Franceschino, e Cecchino. Jacopo, oltra Jacopino, che è diminutivo, Ciapo, e per un altro diminuimento Ciapetto, dal quale si formano ancora Jacopone, Jacopetto, e Jacopaccio. Giovanni oltra Giovannino, o Giannino, Gianni, e Nanni. Niccolò, Coccheri, che Co, è de' Sanesi. Lorenzo, Cencio, il quale significa ancora Vincenzio. Girolamo, Giomo, e Momo. Bernardo, Bernardino, e Bernardetto. Lodovico, Vico. Lionardo, Nardo, onde Nardino in luogo di Lionardino. Alessandro, Sandro, e Sandrino, e (per non fare come Messer Pazzino de' Pazzi) Benedetto, Betto, e Bettuccio; che Bettino è nome proprio. Ma trattare queste cose minutamente, e ordinatamente s'appartiene a' gramatici; però conchiudiamo omai che la lingua Volgare, computatis omnibus, come si dice, cioè, considerato, e messo in conto ogni cosa, va di pari quanto a bontà e ricchezza colla Latina.
C. Io dubito questa volta che voi non facciate anche voi come i Giudici da Padova.
V. Può essere, ma io non lo fo già per parer savio; ma come così?
C. Perché il Bembo afferma nelle sue Prose che la vostra è alle volte più abbondevole della Romana lingua, perché chi rivolgesse ogni cosa, non troverebbe, con qual voce i Latini diceano quello che da' Toscani valore è detto.
V. Il Bembo andò imitando in cotesto luogo Cicerone, e io, come non niego che i Toscani abbiano molti vocaboli che i Latini non aveano, così confesso essi averne avuti, e averne molti, i quali non avemo noi; ma la ricchezza delle lingue non si dee considerare principalmente da simili particolari. Quello che importa è che la lingua Fiorentina è non solamente viva, ma nella sua prima giovinezza, e forse non ha messo ancora i lattajuoli, onde può ogni dì crescere, e acquistare, facendosi tuttavia più ricca, e più bella; dove la Greca, e la Latina sono non solamente vecchie, ma spente nella loro parte migliore, e più importante. E poi io intendo o solo, o principalmente nella maniera dello scrivere nobile; che nell'altre la Latina, e forse la Greca, non sarebbe atta a portarle i libri dietro, né ad esser sua fattorina.
C. Io credo che i Greci, e i Romani non avessono mai pelo che pensasse a' generi di scrivere bassi, e burleschi, e che arebbono dato per meno d'un ghiabaldano tutte così fatte comparazioni.
V. E si vede pur che nell'Elegia della Noce, e in quella della Pulce, e in certi altri componimenti v'è un non so che di capitoli: e quelli che presero a lodare la febbre quartana, e altri cotali soggetti, mi pare che volessero Bernieggiare; e la Tragedia di Luciano delle gotte lo dimostra apertamente.
C. Io son contento; ma non credete voi che così i Greci, come i Latini avessero di molti nomi, e verbi, e modi di favellare o plebej, o patrizj, i quali o non passarono nelle scritture, o si sono insieme cogli autori loro spenti, e perduti?
V. Ben sapete che io lo credo, anzi lo giurerei, e ne metterei le mani nel fuoco; né io vi potrei dire quanto danno abbiano alla lingua Fiorentina recato prima quella piena d'Arno così grande, e poi molto più l'ignoranza viemaggiore di coloro i quali non conoscendo le scritture vietate, da quelle che vietate non erano, l'ardevano tutte, né vo' pensare quanto dolore ne sentissi; ma queste sono doglienze inutili, e ogni cosa venendo dal dissopra, si può pensare, anzi si dee, che sia ben fatta, e a qualche buon fine, ancoraché non conosciuto da noi.
C. Sì certamente. Ma ditemi, se voi credete che i Fiorentini nella gravità del parlare, e scrivere loro adeguino Romanos rerum dominos, gentemque togatam.
V. Credolo risolutamente, e che gli avanzino ancora, ma questo non si può risolutamente affermare, per lo essersi perduta, com'io vi diceva, la purità, e la schiettezza della pronunzia.
C. Mi basta questo; ma quanto alla nobiltà?
V. Per ancora stiamo sotto noi, e cediamo a' Latini, ma non quanto a' Greci.
C. Inquanto al numero, o inquanto alla qualità?
V. Piuttosto inquanto al numero che alla qualità, e molto più nelle prose che ne' versi; perché lasciando stare i tragici, ne' quali se non siamo al disopra, non istiamo di sotto; quanto a' lirici, se Pindaro vince Orazio, e il Petrarca vince Pindaro, fate questa conseguenza da voi. Similmente se Omero è o superiore, o almeno pari a Vergilio, e Dante è pari, o superiore a Omero, vedete quello che ne viene.
C. Voi dite pur da dovero che Dante vantaggi, e soverchi Omero?
V. Da doverissimo.
C. Io inquanto a me vi crederò ogni cosa, ma non credo già che gli altri, e in, ispezie i letterati, lo vi siano per credere, e voglia Dio che non si facciano beffe de' fatti vostri, tenendovi per uno squasimodeo.
V. Non v'ho io detto tante volte che né voi, né altri mi crediate nulla più di quello che vi paja vero, o vi torni bene?
C. Varchi, questo è un gran fondo, e ci bisognerà altro che protezioni, credete a me.
V. Grandissimo, e io lo conosco, e vi credo, e contuttociò sperarei in Dio di doverne (bisognandomi farne la prova) uscire, se non a nuoto da me, coll'ajuto di due sugheri, o gonfiotti che io ho.
C. Quali sono questi due sugheri, o gonfiotti, ne' quali in così grande, e manifesto pericolo confidate tanto?
V. Due de' maggiori letterati de' tempi nostri, quali il dicono, e l'affermano, e vene faranno, se volete, un contratto, se non vi basta quarantigiato, in forma Cameræ, e forse ne potreste vedere testimonianza ne' loro dottissimi componimenti che essi a' posteri lasceranno. E di più mi pare ricordarmi che Messere Sperone, quando io era in Padova, fosse nella medesima sentenza. Vedete se anco questa sarebbe una zucca da cavarmi d'ogni fondo: questo so io di certo che egli non si poteva saziare di celebrarlo, e d'ammirarlo.
C. Io credo alle semplici parole vostre, e quanto a' gonfiotti, e la zucca che dite, essendo tali, ognuno potrebbe arrischiarsi con elli sicuramente in ogni gran pelago; e se Messer Sperone non potea rifinare né di celebrare, né d'ammirare il poema di Dante, faceva in ciò ritratto di quello che egli è. Ma che dite voi delle Commedie?
V. Io ho gusto in questa parte corrotto affatto, conciossiacosaché poche mene piacciono, da quelle di Messer Lodovico Ariosto in fuora, e quelle mi piacevano più già in prosa, che poi in versi.
C. La commedia, essendo poema, pare che ricerchi il verso necessariamente: ma voi forse vorreste piuttosto il verso sciolto d'undici sillabe, che lo sdrucciolo, o di quella ragione per avventura co' quali tessé Messer Luigi Alamanni la sua Flora.
V. A me non pare che la lingua Volgare abbia sorte nessuna di versi i quali corrispondano agli ottonarj, a' trimetri, a' senarj, e a molte altre maniere di versi che avevano i Greci, e i Latini; laonde, se le commedie non si possono, o non si debbono comporre se non in versi, il che io nella nostra lingua non credo ancoraché abbia contra l'autorità d'uomini grandi, la lingua Toscana al mio parere è in questo poema inferiore non solo alla Greca; del che non si può dubitare, se agli scrittori credere si dee; ma ancora alla Latina. Ma se alle conghietture si può prestar fede, e anche parte alla sperienza, credo che i nostri zanni facciano più ridere, che i loro mimi non facevano, e che le Commedie del Ruzzante da Padova, così contadine, avanzino quelle che dalla città d'Atella si chiamavano Atellane. E io lessi già un mimo di Messer Giovambatista Giraldi, il quale mostrava, la nostra lingua ancora di quella sorte di componimenti essere capevole.
C. Dovendosi fare la commedia, in versi, quale eleggereste voi?
V. Stuzzicatemi pure. Io v'ho detto che nessuno mi pare atto a ciò: pure l'endecasillabo sciolto, perché è più simile a' versi jambici, e perché nel favellare cotidiano ce ne escono molte volte di bocca, sarebbe, se non più a proposito, meno sconvenevole. Ma di questo mi rimetterei volentieri al giudizio del Signor Ercole Bentivoglio, il quale in questo genere eccellentissimo, è pari all'Ariosto reputato da chi poteva ciò fare, cioè da Messer Giovambatista Pigna, giovane d'età, ma vecchissimo di sapere, e di giudizio.
C. Delle Satire dell'Ariosto?
V. Mi pajono, bellissime, e come vogliono essere le satire.
C. E quelle del Signor Luigi Alamanni?
V. Troppo belle.
C. Voi non avete detto né del Furioso, né del Girone, né di tanti altri poemi Toscani moderni cosa nessuna?
V. E' bisognerebbe che io fussi la vaccuccia, a dire, e far tante cose in un giorno. Io non ho anche detto nulla a questo proposito né della Cristeide del Sanazzaro, né del Sifilo del Fracastoro, né di tanti altri poemi Latini moderni, i quali parte pareggiano, e parte avanzano gli antichi, da quelli del buon secolo in fuori; tra' quali sei libri della Caccia in verso eroico di Messer Piero Angelio Bargeo doverranno avere tosto onoratissimo luogo. E, se io ho da dirvi il vero, i poemi Latini moderni sono più, e forse migliori de' poemi moderni Toscani; onde non istaremo in capitale; perché nel Curzio del Sadoletto, e nella Verona del Bembo non so io quel che si possa desiderare in questi tempi.
C. E di Messer Marcantonio Flamminio, e di Fra Basilio Zanzo, che dite?
V. Quello che del Vida, e di molti altri che io per brevità non racconto, i quali non si possano lodare tanto che non meritino più.
C. Quanto all'Elegie?
V. Siamo al disotto così a' Latini, come a' Greci; perché non avemo in istampa se non quelle di Luigi Alamanni, le quali sebbene pareggiano, e forse avanzano quelle d'Ovvidio, non però aggiungono né a Tibullo, né a Properzio; perché quelle che sotto il nome di Gallo si stamparono, sono tenute indegne di lui, che fu tanto celebrato da Vergilio: benché io mi ricordo averne vedute alcune di Messer Bernardo Capello, gentiluomo Viniziano, e di Messer Luigi Tansillo, e d'alcuni altri molto belle.
C. Delle Selve che dite?
V. Che quelle di Poliziano mi piacciono quanto quelle di Stazio.
C. Io ragiono delle Volgari, non dalle Latine.
V. Delle Volgari non ho mai veduto, se non quelle dell'Alamanni, le quali sono in versi sciolti, e i versi sciolti ne' poemi eroici non mi piacciono, salvo che nelle tragedie; per altro le lodo, mostrando la natura di quel buono, e dotto, e cortese gentiluomo.
C. Il Trissino scrisse pure la sua Italia Liberata in versi sciolti, la quale intendo che fu da voi nelle Lezioni vostre della Poetica tanto lodata.
V. Io non la lodai se non quanto alla disposizione, nella quale mi pare che egli avanzi, siccome quelli che andò imitano Omero, tutti gli eroici Toscani, eccettuato Dante, e rispetto all'altre sue cose, le quali tutte, se non se forse la tragedia, cedevano a quella.
C. Quanto agli Epigrammi?
V. I Greci furono in questa sorte di poesia felicissimi: i Latini antichi, da quelli di Catullo, della Priapea, e pochi altri in fuora, si può dire che ne mancassero; ma i moderni hanno in questa parte larghissimamente sopperito. Per la qual cosa, se il sonetto corrisponde all'epigramma, noi vinciamo di grandissima lunga: se il madriale, o mandriale; non perdiamo: benché io lessi già un libretto di Messer Luigi Alamanni tutto pieno di Epigrammi Toscani in una sua foggia assai gentile, e contuttociò porto oppenione, che come le lingue sono diverse tra loro, così le maniere de' componimenti non essere le medesime. Ecco, per lasciare stare molte maniere di componimenti plebei, come son feste, rappresentazioni, frottole, disperati, rispetti, o barzellette, e altri cotali, a qual sorte di componimenti si possono agguagliare le ballate, e massimamente le vestite. Ma ciascuna di queste cose vorrebbe una dichiarazione propria, e da per se, e ricercherebbe agio, e bujo, e voi le mi fate mescolare, e quasi accatastare tutte insieme senza darmi tempo nessuno. E anco, per dirvi il vero, avendo io disputato di tutte queste cose, e di molte altre pertinenti alla poesia lungamente nelle mie Lezioni poetiche, allegando tutte quelle ragioni, e autorità che allora mi parvero migliori, e più gagliarde, non mi giova ora di replicarle, anzi mi giova di non le replicare.
C. Passate dunque, se vi pare, alla dichiarazione della seconda cosa principale, cioè della bellezza; perché io terrò da qui innanzi che la lingua Volgare sia ricca, e grave, e quasi nobile quanto la Latina, ma tanto bella non credo, e non crederò così agevolmente.
V. Voi mi fate ridere, e rimembrare d'un certo Signor Licenziato, il quale venne già, o fu fatto venire a Firenze, la cui persona, per chi voleva comporre dialogi, valeva un mondo, anzi non si poteva pagare, perché, comeché, egli si mostrasse da prima molto scredente, e uomo da non volerne stare a detto, anzi vederla fil filo, era poi più dolce che la sapa, e non solo credeva, ma approvava alle due parole tutto quello che gli era detto, e d'ogni picciola cosa facea meraviglie grandissime.
C. Voi ne sete cagion voi molto bene, perché io vi credo troppo, e voi mi fate dire sì e no, e no e sì, secondo che vi torna a proposito. Ma ditemi, che noi non ce lo sdimenticassimo, quale è più bella lingua la Greca, o la Latina, o la Volgare?
V. La Greca.
C. Credolo.
V. No, io vo dire che la Greca, e la Latina, ma voi m'interrompeste, sono belle a' un modo di quella bellezza di cui ora si ragiona; ma la Volgare (io non so se gli è bene innanzi che io il dica, fare una nuova protestazìone, pure il dirò) la Volgare è più bella della Greca e della Latina.
C. Della Greca lingua, e della Latina è più bella la Volgare?
V. Più bella.
C. Egli era bene che voi la faceste, che questa è una delle più nuove cose, e delle più strane, e delle più enormi che io abbia sentito dir mai alla vita mia, e tale che io dubito, anzi son certo, che le protestazioni non v'abbiano a giovare, e comincio a credere che voi le facciate, più che per altro, per tema di non inimicarvi il Castelvetro, affinché egli, o altri per lui non vi risponda, e vi faccia parere un'oca.
V. Quando io le facessi per cotesto, non penso che voi, o altri mene voleste, o poteste riprendere; e vi ricordo che egli non è così barbuto, né forbito uomo, che un nemico non gli sia troppo; ma se io il facessi per cagione tutta contraria da quella che voi pensate; cioè perché egli o altri mi rispondesse, che direste voi?
C. Io mi motteggiava; che ben so che voi non avete paura.
V. E che paura si può, o debbe avere in un combattimento nel quale chi vince, ne acquista onore, e gloria, e chi perde, dottrina, e sapere?
C. Io ho pure inteso che molti dicono che se fussono stati voi, non arebbono pigliato cotale impresa.
V. Cotestoro pare a me che dicano il contrario di quello che dire vorrebbono, percioché se fossero me, farebbono come fo io, ma se io fossi loro, farei come dicono essi.
C. Non mi potreste voi raccontare alcuna delle cagioni che vi muovono ad aver una oppenione la quale credo che sia diversa, anzi contraria, da tutte quelle di tutti gli altri tanto dotti, quanto indotti, così antichi, come moderni, e di Dante stesso, e del Petrarca medesimo?
V. Potrei, ma saria cosa lunga, perché mi sarebbe necessario dichiararvi, altramente che io non avea pensato di voler fare, che cosa è numero, e in che differente dall'armonia, materia nel vero non meno gioconda che necessaria, ma difficile, e intricata molto.
C. Lascisi ogn'altra cosa prima che questa la quale è gran tempo che io desidero di sapere, e mi si fa tardi che voi la dichiariate; perché io lessi già un ragionamento d'uno de' vostri, nel quale si tratta de' numeri, e de' piedi Toscani, né mai, per tempo, e diligenza che io vi mettessi, potei, non che cavarne costrutto, raccapezzarne cosa alcuna; tanto che io non gli ho obbligo nessuno.
V. Anzi negli dovete avere duoi.
C. Quali, e perché ragione?
V. L'uno, perché egli faticò per insegnarvi, l'altro, perché egli non v'insegnò; e io anche debbo restargli in alcuna obbligazione, a cui converrebbe ora durare fatica doppia; ma voi intenderete un giorno, e forse innanzi che siano mille anni, ogni cosa più chiaramente. Porgete ora l'animo non meno che l'orecchie a quello che io vi dirò. Questa parola numero è appo i Latini voce equivoca, perciocché ella significa così il numero proprio, il quale i Greci chiamano aritmo, e noi novero, come il metaforico, ovvero traslato, il quale da' medesimi è chiamato ritmo, benché coll'accento acuto in sull'ultima, e da noi numero. Il numero proprio, cioè il novero, è (come ne insegna il Filosofo nel quarto della Fisica) di due ragioni, numero numerante, o piuttosto novero annoverante, il quale sta nell'anima razionale, ed è quello col quale noi annoveriamo, perché i bruti non lo conoscono, come uno, due, tre, e l'altre aggregazioni di più unità, perché l'uno non è proprio numero, ma principio di tutti i numeri, come il punto non è quantità, né lo istante tempo. Numero numerato, o piuttosto novero annoverato, non è esso novero che annovera, come il primo, ma esse cose annoverate, come esempli grazia: dieci cani, venti cavalli, cento fiorini, mille uomini ec. Del novero annoverante, e annoverato, e brevemente dell'aritmo, ch'è il novero proprio, non occorre che noi favelliamo in questa materia, ma solamente del numero metaforico, cioè del ritmo. Dunque ritmo, ovvero numero, non è altro generalmente preso che l'ordine de' tempi, o volete de' moti locali, che i filosofi chiamano lazioni, e noi movimenti.
C. Che intendete voi per tempi in questa diffinizione?
V. La minore, e più breve parte di quello spazio, ovvero indugio, e badamento che interviene in alcun movimento, in alcun suono, e in alcuna voce, come meglio intenderete di qui a un poco.
C. Secondo questa diffinizione pare a me che il tempo e il movimento vengano a essere una cosa medesima.
V. Voi avete meglio inteso che io non pensava, perché tempo, e movimento sono una cosa stessa realmente, e in effetto, ma differenti di ragione, come dicono i filosofi, cioè d'abitudine, e di rispetto, e insomma di considerazione, come il convesso, e il concavo, o l'erta, o la china, perché il tempo non è altro che o il movimento del primo mobile, o il novero annoverato, cioè la misura del movimento del primo mobile, perché il tempo è generato dall'anima nostra.
C. Egli mi pare ancora che da questa diffinizione seguiti che dovunque si trova movimento, quivi ancora si truovi di necessità ritmo, ovvero numero.
V. Egli vi par bene, perché come dove non e movimento, non può esser numero in alcun modo, così ogni numero ricerca di necessità alcun movimento onde egli nasca, perché nel movimento consiste, ed è fondato ogni numero; ma voi areste detto meglio movimenti nel plurale, perché il numero non può trovarsi in un movimento solo propriamente, ma solo impropriamente, ovvero in potenza; la qual cosa affinché meglio comprendiate, daremo un'altra diffinizione, se non più chiara, meno oscura. Il ritmo, ovvero numero, è la proporzione del tempo d'un movimento al tempo d'un altro movimento, cioè di quella mora, o spazio, o indugio, o bada che interviene tra un movimento, e l'altro; perché non si potendo fare alcun movimento in instante, seguita che ciascuno movimento abbia il suo tempo. Il tempo d'un movimento al tempo d'un altro movimento ha necessariamente alcuna proporzione, o doppia, o sesquialtera, o sesquiterza, ec. Perché quando una cosa o più si muove non egualmente, ma più veloce, e più tarda, egli è necessario che tra quella tardanza, e quella velocità caggia alcuna proporzione; quella proporzione è, e si chiama ritmo, ovvero numero, la quale non è altro che la misura almeno di due movi- menti agguagliati l'uno all'altro, secondo la considerazione de' loro tempi. E come il numero non può trovarsi in meno di due movimenti, così può procedere in infinito, cioè trovarsi in più movimenti, come si vede chiaramente infino quando altri suona il tamburino colle dita.
C. Bene sta; ma se tutti i movimenti son numeri, o generano numero, onde nasce che certi producono buon numero, il quale ci piace, e diletta, e certi altri lo producono cattivo, il quale ci spiace, e annoja?
V. Dalla propria natura loro, cioè secondoché la proporzione dell'un tempo all'altro è o buona, o cattiva, come accade nelle consonanze della musica, quando concordano, e discordano; perché essendo ciascuno movimento necessariamente o veloce, o tardo, perché queste sono le sue differenze, non dal veloce, o dal tardo semplicemente, ma dal mescolamento dell'uno coll'altro nasce il numero: il quale mescolamento, se è ben temperato, e unito, piace, e diletta; se male, dispiace, e annoja, non altramente che nella musica le consonanze che accordano, e le dissonanze che discordano.
C. Chi giudica questo temperamento, se è bene, o male unito?
V. L'occhio, e l'orecchio, o piuttosto l'anima nostra, mediante gli occhi, e gli orecchi; perché noi, come avemo da natura l'amare, e seguitare le cose che ne dilettano, e l'odiare, e fuggire quelle che n'apportano noja, così abbiamo ancora da natura il conoscere, se non perfettamente, tanto che basti a questi due effetti.
C. Io guardo che essendo i movimenti naturali, ancora i numeri che consistono, e sono fondati in essi, saranno naturali.
V. I numeri semplicemente sono naturali, ma i numeri buoni più dall'arte procedono che dalla natura. Considerate, quanto sia grande la differenza da uno che balli, o suoni, o canti di pratica, come gli insegna la natura, da uno che balli, o suoni, o canti di ragione, come faceva il Prete di Varlungo quando era in chiesa la Belcolore.
C. Voi non mi negherete già che ognuno che va, e ognuno che favella, non vada, e non favelli numerosamente.
V. Con numero volete dir voi; che numerosamente si dicono andare, e favellare solamente coloro i quali favellano, o vanno con buono, e temperato, e conseguentemente ordinato, e piacevole numero; il che può venire alcuna volta dalla natura, ma per lo più, anzi quasi sempre, procede dall'arte, perché la natura dà ordinariamente potere, e l'arte il sapere. Il medesimo fiato, e la medesima forza ricerca il sonare un corno, che il sonare una cornetta, ma non già la medesima industria, e maestria; e tanto mena le braccia colui che suona il dolcemele, o il dabbudà, quanto colui che suona gli organi; e insomma l'arte è quella che dà la perfezione delle cose. Non vedete, e non sentite voi, quanta noja, e fastidio n'apportino coloro agli occhi, e agli orecchi, i quali o non ballano a tempo, o non cantano a battuta, o non suonano a misura?
C. Ben sapete che io lo veggo, e che io lo sento, e conosco ora, perché Virgilio disse nel Sileno: Tum vero in numerum Faunosq; ferasq; videres Ludere; tum rigidas motare cacumina quercus; non volendo in numerum significare altro che a tempo, a battuta, e a misura; non so già quello volle significare quando disse: Numeros memini, si verba tenerem.
V. A volere che voi intendiate bene cotesto luogo, e tutta questa materia, e conosciate quando quello che giudica i ritmi, è o l'occhio, o l'orecchio, o alcun altro delle cinque sentimenta, bisogna dividere, e distinguere i numeri. Sappiate dunque che i numeri, ovvero ritmi, si dividono principalmente in due maniere; perciocché alcuni si truovano ne' muovimenti soli disgiunti, e scompaginati dall'armonia, e alcuni ne' movimenti congiunti, e accompagnati coll'armonia. I numeri che si truovano ne' movimenti soli senza l'armonia, sono quelli che nascono da' movimenti ne' quali non intervenga né suono, né voce, come nel ballare, nel far la moresca, nel rappresentare le forze d'Ercole, e in altri cotali: e questa sorte di numero si conosce, e comprende solamente col sentimento del vedere; come quella de' medici, quando cercano il polso agli infermi, si comprende, e conosce solamente col toccare. I numeri che si truovano ne' muovimenti insieme coll'armonia, si truovano o in suoni, o in voci. Quelli che si ritruovano ne' suoni, cioè, che si possono udire, ma non intendere, hanno bisogno o di fiato, o di corde. Quelli che hanno bisogno di fiato, hanno bisogno, o di fiato naturale, come le trombe, i flauti, i pifferi, le storte, e altri tali, o di fiato artifiziale, come gli organi. Quelli che hanno bisogno di corde, si servono o di minugia, come i liuti, e viole, e violoni, o di fili d'ottone, e d'altri metalli, come i monocordi.
C. In questa così minuta divisione non si comprendono i tamburi, i quali si sentono più discosto, e fanno maggior romore che nessuno degli altri.
V. È vero, ma né i cemboli ancora, i quali hanno i sonagli, e si va con essi in colombaja, né le cemmanelle, che si picchiano l'una coll'altra, né la staffetta, la quale vogliono alcuni che fosse il crotalo antico, né colui che scontorcendosi, e facendo tanti giuochi, suona la cassetta, e si chiama Arrigobello. Ma lasciatemi seguitare, perché quando s'è insin qui trattato del numero, fa poco, o niente al proponimento nostro, essendo proprio de' sonatori, come farà quello che si tratterà da qui innanzi, e perciò state attento. I numeri che si ritruovano nelle voci, cioè che si possono non solamente udire, ma ancora intendere, perché da alcuno sentimento, e concetto della mente procedono, e in somma sono significativi d'alcuna cosa, nascono anch'eglino dal veloce, e dal tardo. Ma quello che negli altri movimenti si chiama veloce, nelle voci si chiama breve, e quello che tardo, lungo; laonde dalla brevità, e dalla lunghezza delle sillabe, mediante le quali si profferiscono le parole, nascono principalmente questi numeri, e come quelli non si posson generare se non di due movimenti almeno, così questi ì generare propriamente non si possono se non almeno di due piedi, e per conseguenza di quattro sillabe, le quali sono ora brevi, il che corrisponde al veloce; e ora lunghe, il che corrisponde al tardo; e ora mescolatamente, cioè brevi, e lunghe, o lunghe, e brevi, il che risponde al veloce, e al tardo, o al tardo, e al veloce. Ho detto principalmente, perché il numero il quale nelle voci consiste, si genera ancora da altre cagioni, che dalla quantità delle sillabe, come si dirà. Truovasi questo numero di cui ragioniamo, o ne' versi, o nelle prose, o ne' versi, e nelle prose parimente. Il numero che si truova ne' versi, come è di quattro maniere, così s'appartiene a quattro artefici, e a tutti in diverso modo; al poeta, al versificatore, al metrico, e al ritmico; che altri nomi per ora migliori, e più chiari di questi non mi sovvengono. Il ritmico, per cominciare dal men degno, è quegli il quale compone i suoi ritmi senza aver risguardo nessuno né alla quantità delle sillabe, né al novero, ed ordine de' piedi, né alle cesure, ma attende solamente al novero delle sillabe, cioè fare che tante sillabe siano nel primo verso, quante nel secondo, e in tutti gli altri, le quali comunemente sono o sei, o otto; talvolta senza la rima, come per cagione d'esempio, quell'Inno, o altramente che chiamare si debbia, che comincia: Ave maris stella, Dei mater alma; e talvolta colla rima, come: Recordare, JESU pie, Quod sum causa tuæ viæ. Il metrico è colui il quale fa i suoi metri, cioè le sue misure, che altro non significa metro che misura, senza avere altro riguardo che al novero, e all'ordine de' piedi, non si curando delle cesure; perché se egli compone il metro, verbigrazia jambico, o trocaico, o dattilico, gli basta porre tanti piedi, e con quello ordine che ricercano cotali metri, senza badare alle cesure, che sono quei tagliamenti che ne' versi Latini necessariamente si ricercano, acciocché lo spirito di chi gli pronunzia abbia dove fermarsi alquanto, e dove potersi riposare, le quali sono in ciascun verso ora una, e ora due, e ora più, secondoché al componitore d'esso pare che migliormente torni. Il versificatore ha risguardo a tutte quelle cose che si debbono risguardare ne' versi, perché oltra la quantità delle sillabe, e il novero, e l'ordine, e la varietà de' piedi, dà mente ancora alle cesure. E con tutte queste cose versificatore è nome vile, e di dispregio, rispetto al poeta; perché sebbene ogni poeta è necessariamente versificatore, non perciò si converte, e rivolge, che ogni versificatore sia poeta; potendosi fare de' versi che stiano bene, e siano belli, come versi, ma o senza sentimento, o con sentimenti bassi, e plebei; e per questa cagione penso io che il Castelvetro a carte 100 chiamasse Annibale versificatore, la qual cosa con quanta ragione facesse, lascerò giudicare agli altri. Il poeta, oltra il verso ben composto, e sentenzioso, ha una grandezza, e maestà piuttosto divina, che umana; e non solo insegna, diletta, e muove, ma ingenera ammirazione, e stupore negli animi o generosi, o gentili, e in tutti coloro che sono naturalmente disposti, perché l'imitare, e conseguentemente il poetare, è (come ne mostra Aristotile nella Poetica) naturalissimo all'uomo. Il numero il quale si ritrova nelle prose, chiamato oratorio, siccome quello poetico, si genera anch'egli dalla quantità delle sillabe, dal novero, dalla varietà, ovvero qualità, e dall'ordine de' piedi, e nondimeno non è nessuno de i quattro sopraddetti, anzi tanto diverso, che il tramettere numeri poetici, cioè 1 versi, ne' numeri oratorj, cioè nelle prose, è riputato vizioso, e biasimevole molto, le quali voci deono bene essere numerose, ma non già numeri, perché dove il verso, chiamato da' nostri poeti Latinamente carme dal cantare, ha tanti piedi, e tali terminatamente, e con tale ordine posti, la prosa, come più libera, e meno legata, onde si chiama orazione sciolta, non è soggetta diterminatamente né alla quantità, né all'ordine de' piedi, più che si paja al componitore d'essa, mediante il giudizio dell'orecchio, e le regole dell'arte, perché diverse materie, e diverse maniere di scrivere ricercano diversi numeri, verbigrazia non pare l'orazioni hanno diversi numeri dalla storia, ma nell'orazioni medesime, se sono in genere giudiziale, debbono avere maggiori numeri che se fossero nel dimostrativo, o nel deliberativo; e le giudiziali medesime in diverse lor parti debbono avere diversi numeri; né si truova alcun numero così bello, e leggiadro, che usato frequentemente non infastidisca, e generi sazietà. Il numero che si ritrova ne' versi, e nelle prose parimente, è quello de' musici, ovvero cantori, i quali non tengono conto né di quantità di sillabe, né di novero, o qualità, o ordine di piedi, e meno di cesure; ma ora abbreviando le sillabe lunghe, e ora allungando le brevi, secondo le leggi, e l'artifizio della scienza loro, compon- 1 "Lo Speroni cadde frequentemente in ciò". gono, e cantano con incredibile diletto di se stessi, e degli ascoltanti che non abbiano gli occhi a rimpedulare, le messe, i mottetti, le canzoni, i madriali, e l'altre composizioni loro. E questo è quanto mi soccorre dirvi del numero così in genere, come in ispezie; il perché passerò all'armonia, della quale mediante le cose dette, non bisognerà che io tenga lungo sermone.
C. Deh innanzi che voi venghiate a cotesto, ascoltate un poco, se io ho ben compreso, e ritenuto almeno la sostanza di quanto del numero infino qui detto avete, riducendolo a modo d'albero.
V. Di grazia.
C. Il ritmo, ovvero numero, è di due maniere, senza armonia, e con armonia. Il numero senza armonia si truova in tutti i movimenti ne' quali non sia né suono, né voce, come ne' polsi, ne' gesti, ne' balli, nelle moresche, nella rappresentazione delle forze d'Ercole, e in altri così fatti movimenti. Il numero con armonia si ritrova o ne' suoni, o nelle voci; se ne' suoni, o in quelli che si servono del fiato, o in quelli che si servono di corde; se di fiato, o naturale, o artifizioso; se di corde, o di minugia, o di filo; se nelle voci, o ne' versi, o nelle prose, o ne' versi, o nelle prose parimente; se ne' versi, o ne' ritmici, o ne' metrici, o ne' versificatori, o ne' poeti; se nelle prose, in tutti gli altri scrittori, fuori solamente questi quattro; se ne' versi, e nelle prose parimente, ne' musici, ovvero cantori.
V. Galantemente, e bene; ma udite il restante.
C. Dite pure.
V. Come il numero poetico, e oratorio nasce dal temperamento del veloce, e del tardo, mediante la brevità, e lunghezza delle sillabe, così l'armonia nasce dal temperamento dell'acuto, e del grave, mediante l'alzamento, e l'abbassamento degli accenti, perché l'acuto corrisponde al veloce, il qual veloce nelle sillabe si chiama breve, e il grave corrisponde al tardo, che nelle sillabe si chiama lungo (come s'è detto), onde chiunche pronunzia o versi, o prosa, genera necessariamente amendue queste cose, numero, e armonia; numero mediante la brevità, e lunghezza delle sillabe; armonia mediante l'alzamento, e abbassamento degli accenti (non vi curate, né vi paja soverchio che io replichi più volte le medesime cose, perché qui sta il punto, qui giace nocco, qui consiste tutta la difficultà).
C. Anzi non potete farmi cosa più grata, che replicare: e se io ho bene le parole vostre inteso, egli è necessità che dovunque è armonia, sia ancora numero, perché l'armonia non può essere senza movimento, né il movimento senza numero, ma non già all'opposto, perché, come dicevate pure ora, molti numeri si trovano senza armonia.
V. Voi dite bene, perché uno che balla senza altro, produce solamente numero senza armonia, e uno che balla, e suona in un medesimo tempo, produce numero, e armonia insieme.
C. E uno che ballasse, sonasse, e cantasse a un tratto?
V. Producerebbe numero, armonia, e dizione, ovvero sermone insiememente, nelle quali tre cose consiste tutta l'imitazione (si può dire), e per conseguenza la poesia; perché potemo imitare, e contraffare i costumi, gli affetti, ovvero passioni, e l'azioni degli uomini, o col numero solo, come ballando; o col numero, e coll'armonia, come ballando, e sonando; o col numero, e coll'armonia, e col sermone, cioè colle parole, come ballando, sonando, e cantando.
C. Non si può egli imitare col sermone solo?
V. Più e meglio che con tutte l'altre cose insieme: anzi questo è il vero, e il proprio imitare de' poeti; e coloro che imitando col numero solo, o col numero, e coll'armonia parimente non hanno altro intento, né altro cercano che imitare il sermone, perché il sermone solo è articolato, cioè può sprimere, e significare, anzi sprime, e significa, i concetti umani; ma, come avete veduto di sopra, nel sermone sono sempre di necessità così il numero, come l'armonia; onde non si, può né immaginare ancora cosa alcuna da intelletto nessuno né più bella, né più gioconda, né più utile che il favellare umano, e massimamente nella rappresentazione d'alcuno perfetto poema convenevolmente da persone pratiche, e intendenti recitato, e io per me non udii mai cosa (il quale son pur vecchio, e n'ho udito qualcuna) la quale più mi si facesse sentire addentro, e più mi paresse maravigliosa che il cantare in sulla lira all'improvviso di Messer Silvio Antoniano, quando venne a Firenze coll'Illustrissimo, ed Eccellentissimo Principe di Ferrara Don Alfonso da Este, genero del nostro Duca, dal quale fu non solo benignamente conosciuto, ma larghissimamente riconosciuto.
C. Io n'ho sentito dire, di grandissime cose.
V. Credetele; ché quello in quella età sì giovanissima è un mostro, e un miracolo di natura, e si par bene ch'e' sia stato allievo di Messere Annibale Caro, e sotto la sua disciplina creato; ed io per me, se udito non l'avessi, mai non arei creduto che si fossono improvvisamente, potuti fare così leggiadri, e così sentenziosi versi.
C. Il tutto sta, se sono pensati innanzi, come molti dicono.
V. Lasciategli pure dire; che egli non canta mai che non voglia che gli sia dato il tema da altri, e io gliele diedi due volte, e amendue, una in terza rima, e l'altra in ottava, disse tutto quello che in sulla materia postagli parve a me che dire non solo si dovesse, ma si potesse, con graziosissima maniera, e modestissima grazia.
C. Dio gli conceda lunga, e felicissima vita; ma ditemi quello che volle significare Vergilio, quando disse nella Boccolica: . . . numeros memini si verba tenerem.
V. Che non si ricordava delle proprie parole di quei versi, ma avea nel capo il suono d'essi, cioè l'aria, e quello che noi diciamo l'andare.
C. Voi non avete fatto menzione fra tanti stormenti che avete raccontato, delle fistule, e pure intendo che voi dichiaraste già in Padova la Siringa di Teocrito.
V. Io la dichiarai in quanto alle parole; ma quanto alla vera, e propria natura d'essa, io non ho mai inteso bene, né intendo ancora qual fosse, né come si stesse: so bene che ella era a guisa d'uno organetto, avendo detto Vergilio: Est mihi disparibus septem compacta cicutis Fistula, Damoetas dono mihi quam dedit olim. e quell'altro: Fistula, cui semper decrescit arundinis ordo: e che si sonava fregandosi alle labbra, onde Vergilio: Nec te poeniteat calamo trivisse labellum. Ma, per non andare tanto lontano dalla strada maestra, e venire qualche volta al punto per cui tutte queste cose dichiarate si sono, vi rimetto a quello che ne disse dottissimamente l'eccellentissimo Messer Vincenzio Maggio da Brescia, mio onoratissimo precettore, sopra la quarta particella della Poetica d'Aristotile interpetrata da lui, e da Messer Bartolommeo Lombardo Veronese, uomo di buona dottrina, e giudizio, con bellissimo ordine, e facilità. E dico, che la bellezza della lingua così Greca, come Latina, consiste primieramente nel numero, e secondariamente nell'armonia; perché tanto i Latini, quanto i Greci nel comporre i loro versi, e le loro prose avevano risguardo primieramente alla brevità, e alla lunghezza delle sillabe, onde nasce il numero; e poi secondariamente, e quasi per accidente, all'acutezza, e gravezza degli accenti, onde nasce l'armonia, perciocché, pure che il verso avesse i debiti piedi, e i piedi le debite sillabe, e le sillabe la debita misura, non badavano agli accenti, se non se in conseguenza; dove la bellezza della lingua Volgare consiste primieramente nell'armonia, e secondariamente nel numero, perché i Volgari nel comporre i loro versi, e le lor prose hanno risguardo primieramente all'acutezza, e alla gravezza degli accenti, onde nasce l'armonia, e poi secondariamente, e quasi per accidente, alla brevità, e lunghezza delle sillabe, onde nasce il numero; perciocché, pure che il verso abbia le dovute sillabe, e gli accenti sieno posti ne' luoghi loro, non badano né alla brevità, né alla lunghezza delle sillabe, se non se in conseguenza; onde come mutandosi nel Greco, e nel Latino i piedi, si mutano, e guastano ancora i versi, e così dico delle prose, eziandio che gli accenti fussono quei medesimi, così mutandosi nel Volgare gli accenti, si mutano, e guastano ancora i versi, nonostanteché le sillabe siano quelle medesime; come chi per atto d'esempio pronunziasse questo verso: Guastan del mondo la più bella parte così: Guastan la più bella parte del mondo. E di qui nasce che sebbene tutti i nostri principali, e maggiori versi deono aver undici sillabe, eccettuato quelli i quali avendo l'accento acuto in sulla decima n'hanno solamente dieci, e quelli i quali essendo sdruccioli n'hanno dodici non però ogni verso che ha undici sillabe, è necessariamente, buono, e misurato, perché chi pronunziasse quel verso: Ch'a' bei princípii volentier contrasta, Ch'a' bei príncipi volentier contrasta, l'arebbe guasto coll'avergli mutato solamente uno accento, e quinci nasce ancora che si ritruovano alcuni versi i quali, se si pronunziassero come giaceno, non sarebbono versi, perciocché hanno bisogno d'essere ajutati colla pronunzia, cioè esser profferiti coll'accento acuto in quei luoghi dove fa mestiero che egli sia, ancoraché ordinariamente non vi fosse, come è questo verso di Dante: Che la mia Comedia cantar non cura. E quest'altro: Flegiàs, Flegiàs tu gridi a voto. E quello del Reverendissimo Bembo: O Ercolè, che travagliando vai Per lo nostro riposo, ec. E per la medesima cagione bisogna alcuna volta dividergli, e quasi spezzare le parole in pronunziando per rispondere cogli accenti alle cesure de' Latini, e fare che dove non pajono, sieno versi misurati, quale tra gli altri è quello del Petrarca Fiorentino: Come chi smisuratamente vuole. E in quello del Petrarca Viniziano: E grido, o disavventuroso amante, E chi non vede che questa parola sola misericordiosissimamente, è bene undici sillabe, ma non già verso buono, e misurato, solo per cagione degli accenti? Ma ora non è tempo d'insegnare le leggi né del numero poetico, del quale, oltra il Bembo nelle prose, tratta ancora l'eccellente filosofo Messer Bernardino Tomitano ne' suoi ragionamenti della lingua Toscana, né meno dell'oratorio, del quale ha composto Latinamente cinque libri Messere Jovita Rapicio da Brescia con dottrina, ed eloquenza singolare. E però, venendo finalmente al principale intendimento, dico, che se l'armonia è, come io non credo che alcuno possa negare che ella sia, più bella cosa, e più piacevole, e più grata agli orecchi che il numero, la lingua Volgare, la quale si serve principalmente in tutti i componimenti suoi dell'armonia, è più bella che la Greca, e che la Latina non sono, le quali si servono principalmente del numero. E, perché meglio intendiate, voi sapete che in un flauto sono de' buchi che sono più larghi, e di quelli che sono più stretti; medesimamente di quelli che sono più vicini, e di quelli che sono più lontani alla bocca d'esso flauto. Quei buchi che sono o più stretti, o più vicini alla bocca, mandano fuori il suono più veloce, e conseguentemente più acuto. Quelli che sono o più larghi, o più lontani dalla bocca, mandano fuora il suono più tardo, e conseguentemente più grave; e da questo acuto, e da questo grave mescolati debitamente insieme nasce l'armonia. Ma perché dove è armonia, quivi è ancora di necessità numero, il numero nasce dal tenere quei buchi turati colle dita o più breve, o più lungo spazio, alzandole per isturargli, e abbassandole per turargli, come, e quando richieggono le leggi, e gli ammaestramenti della musica de' sonatori. Similmente nel sonare il liuto la mano sinistra, che si adopera in sul manico, in toccando i tasti cagiona il numero, e la destra, che s'adopera intorno alla rosa, in toccando le corde, cagiona l'armonia. Considerate ora voi, quale vi pare che sia più degna, e più bella cosa o il numero, il quale è principalmente de' Greci, e de' Latini, o l'armonia, la quale è principalmente de' Volgari. E credo, se vor- rete ben considerare, e senza passione, che quella oppenione la quale vi pareva dianzi tanto non solamente nuova, ma strana, e stravagante, vi parrà ora d'un'altra fatta, e di diversa maniera.
C. Io non mi curerò che voi mi tenghiate il Signor Licenziato, perché chi niega la sperienza, niega il senso, e chi niega il senso nelle cose particolari, ha bisogno del medico. A me pare che sebbene ne' suoni, e nelle voci non si può trovare né l'armonia senza il numero, né il numero senza l'armonia, che l'armonia sia la principale, e la maggior cagione del concento, e per conseguenza della dilettazione, e così della bellezza, della quale si ragiona al presente.
V. Tanto pare anco a me; pure, perché io non m'intendo né del cantare, né del sonare, come, e quanto bisognerebbe, mene rimetterei volentieri o a Messer Francesco Corteccia, o a Messer Piero suo nipote, musici esercitatissimi, o a Messer Bartolommeo Trombone, e a Messer Lorenzo da Lucca sonatori eccellentissimi.
C. Io intendo che coll'Illustrissimo Signor Paulogiordano Orsini, genero del Duca vostro, è uno che non solamente suona, e canta divinamente, ma intende ancora, e compone, il quale si chiama Messere Scipione della Palla.
V. Voi dite il vero; e perché egli m'ha detto che vuole venire quassù a starsi un giorno con esso meco, io vi prometto che gliene parlerò, e vi saperrò poi ragguagliare.
C. Voi mi farete cosa gratissima; e tanto più, che il Maggio, pare che dica che nel verso le prime parti sieno del numero.
V. Egli non ha dubbio che il numero è prima nel verso, che l'armonia; ma egli è prima di tempo, onde non segue che egli sia prima di degnità, e più nobile di lei.
C. Perché io ho gran voglia di possedere questa materia del numero, non v'incresca che io vi dimandi d'alcuni dubbj. Voi diceste di sopra che il numero oratorio nasceva ancora da altre cose che dalla brevità, e lunghezza delle sillabe: quali sono queste cose?
V. Cicerone le chiama concinnità, la quale non è altro che un componimento, e quasi intrecciamento di parole, e in somma una orazione la quale fornisca atta e sonoramente, e per conseguenza abbia numero; il qual numero nondimeno non sia cagionato in lei dalla quantità delle sillabe, ma da una, o più di quelle quattro figure, ovvero esornazioni, e colori retorici, che i Latini imitando i Greci chiamavano così: Similmente cadenti: similmente finienti: corrispondenza di membri pari: e corrispondenza di contrarj; i quali contrari sono di quattro ragioni; ma queste cose non si debbono dichiarare ora; però vi rimetto al libro che scrisse Latinamente della scelta delle parole Messere Jacopo Strebeo con somma dottrina, e diligenza; e vi dico solo che questo numero della concinnità è diverso, anzi altro, da tutti gli altri; e sebbene par naturale nelle scritture, si fa nondimeno le più volte dall'arte.
C. Quando, dove, da chi, e perché furono trovati i numeri?
V. I numeri semplicemente furono trovati ab initio, et ante secula dalla natura stessa, e si ritruovano in tutti i parlari di tutte le lingue; perché il parlare cade sotto il predicamento della quantità, e la quantità è di due ragioni, discreta, la quale si chiama moltitudine, o volete novero, e sotto questa si ripone il parlare; e continova, la quale si chiama magnitudine, ovvero grandezza, e sotto questa si ripone il numero; onde in ciascuno parlare si ritruova necessariamente, quando si profferisce così la quantità discreta, come la continova, e per conseguente i numeri; ma i numeri buoni, e misurati nascono dall'arte, della quale i primi inventori, secondoché afferma Cicerone, furono Trasimaco Calcidonio, e Gorgia Leontino, che vengono ad essere circa due mila anni; ma perché costoro erano tropo affettati dintorno al numero, e troppo scriveano poeticamente, Isocrate, che fu nell'Asia discepolo di Gorgia già vecchio, andò allargando quella strettezza; e sbrigandosi da quella troppa servitù, e osservanza, scrisse in guisa che le sue prose, benché sieno lontane dal verso, o dalla piacevolezza che del numero del verso si trae, non sen'allontanò molto; dimanieraché come non si sciolse in tutto dalle leggi de' numeri, così non rimase legato affatto. Il fine fu per dilettare gli ascoltatori, e tor via colla varietà, e soavità de' numeri il tedio, e il fastidio della sazievolezza; non essendo più schifa cosa, né più superba che il giudizio dell'orecchie. Il primo de' Latini che scrisse numerosamente fu Cornelio Celso, al quale di tempo in tempo succeddettero alcuni altri, infinoché Cicerone condusse tutti i numeri oratorj a tutta quella perfezione della quale era capevole la lingua Latina.
C. E de' Toscani chi fu il primo che scrivesse con numero?
V. Il Boccaccio, degli antichi.
C. Dante, e 'l Petrarca?
V. Del Petrarca non si trova cosa dalla quale ciò conoscere si possa; onde si può ben pensare che per l'ingegno, e giudizio suo scrivesse ancora in prosa volgare numerosamente, ma non già affermare. Dante si servì piuttosto nel suo Convito, e nella Vita Nuova dell'orecchio, che dell'arte.
C. E de' moderni?
V. I primi, e principali furono il Bembo in tutte le sue opere, e il Sanazzaro nell'Arcadia.
C. L'Orazione di Monsignor Claudio Tolomei della Pace?
V. Fu molto bella, e numerosissima; così fosse stata quella che egli fece al Re Cristianissimo.
C. E quella di Monsignor Messer Giovanni della Casa all'Imperadore?
V. Bellissima, e numerosa molto.
C. Questo numero artifiziale ricercasi egli in tutte le scritture?
V. Non v'ho io detto di sì? ma in qual più, e in qual meno, secondo le materie, e le maniere de' componimenti.
C. Quale è la più bassa maniera di scrivere? credete voi che sia le lettere?
V. No, ma i dialogi; perché lo scrivere non è parlare semplicemente, ma un parlare pensato, dove i dialogi hanno a essere propriamente come si favella, e sprimere i costumi di coloro che in essi a favellare s'introducono: e nondimeno quelli di Platone sono altissimi; forse rispetto all'altezza delle materie; e non intendete, come si favella dal volgo, ma dagli uomini intendenti, ed eloquenti, benché alcune cose si possono, anzi si deono, cavare ancora dal volgo. Cicerone fu divino ne' suoi dialogi, come nell'altre cose. Ma se i dialogi di Lione Ebreo, dove si ragiona d'Amore, fossero vestiti come meriterebbero, noi non aremmo da invidiare né i Latini, né i Greci.
C. Il Tomitano quanto a' numeri?
V. Si può lodare.
C. E Messer Sperone?
V. Si dee celebrare; e il medesimo intendo del Cintio, e del Pigna.
C. Messer Lodovico Castelvetro?
V. Io non so che egli abbia fatto dialogi, de' quali ora si favella, ma il suo stile è piuttosto puro, e servante la Toscanità, cioè le regole della lingua, che numeroso, e piacevole, anzi mi pare per lo più tanto stretto, scuro, e fisicoso, quanto quello di Messere Annibale largo, chiaro, fiorito, e liberale.
C. Io ho pure inteso che messer Giovambatista Busini, il quale voi m'avete dipinto più volte per uomo non solo di lettere, e di giudizio, ma che dica quello che egli intende liberamente, senza rispetto veruno, loda, e ammira lo stile del Castelvetro.
V. Non equidem invideo, miror magis; se già non lo facesse, perché pochi scrivono oggi i quali osservino le regole come egli fa; e in questo, se non lo ammirassi, il loderei anch'io, anzi il lodo, ma viepiù il loderei, se non fosse (come dice Messere Annibale) tanto sofistico, e superstizioso, e la guardasse troppo in certe minuzie, e sottogliezze le quali non montano una frulla; e mi par quasi che intervenga a lui nello scrivere come avvenne a Teofrasto nel favellare; senzaché voi dovete sapere che come anticamente la Latinità, così oggi la Toscanità schifa anzi biasimo, che consegua lode (come testimonia Cicerone medesimo), cioè che chi scrive correttamente, in qualunche lingua egli scriva, merita piuttosto di non dovere esser biasimato, che di dovere esser lodato.
C. Di Messer Giulio Cammillo?
V. Mene rimetto a quello che scrive, e testimonia di lui il suo amicissimo Messere Jeronimo Muzio in una lettera al Marchese del Guasto.
C. E Messere Alessandro Piccolomini?
V. Ha dato maggiore opera alle scienze, che all'eloquenza; ma io non sono atto, né voglio, come se fossi Aristarco, o Quintiliano, a cui si conveniva giudicare, quanto a me si disdice, censorare gli stili di coloro che hanno scritto, quali sono tanti, e tanto diversi, e alcuni che sono nella dottrina, e nell'eloquenza, e nel giudizio come Michelagnolo nella pittura, nella scultura, e nell'architettura, cioè fuora d'ogni rischio, e pericolo, avendo vinto l'invidia; oltreché da un pezzo in quà io non ho molto letto, non che considerato, altri autori che storici, per soddisfare almeno colla diligenza all'onoratissimo carico postomi sopra le spalle già sono tanti anni dal mio Signore, e padrone; perciò arei caro che voi mutaste proposito.
C. Io era appunto nella mia beva, e voi volete cavarmene; ditemi almeno, se vi pare che Messer Trifone Gabriele meriti tante lode, quante gli sono date in tante cose, e da tanti.
V. Tutte tutte, e qualcuna più; e si può veramente dire che all'età, e lingua nostra non sia mancato Socrate; ma io vi ripriego di nuovo che voi mutiate ragionamento.
C. Quale stimate voi più malagevole, cioè più difficile a farsi, il numero poetico, o l'oratorio?
V. Ambodue sono difficilissimi, e vogliono di molto tempo, e fatica; ma Quintiliano coll'autorità di Marco Tullio dice l'oratorio; ma io per me credo che egli intendesse piuttosto del numero de' versificatori, che de' poeti, cioè che considerasse il numero solo, e non l'altre parti che nel verso si ricercano de' poeti perfetti, come era egli perfetto oratore.
C. Che vi muove a credere così? forse altramente gli oratori sarebbono da più, o da quanto i poeti?
V. E' non seguita che alcuna cosa quanto è più malagevole e faticosa, tanto sia ancora o più bella, o più degna. Poi il verso non è quello che faccia principalmente il poeta, e il Boccaccio è talvolta più poeta in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide. Io per me porto oppenione che lo scrivere in versi sia il più bello, e il più artifizioso, e il più dilettevole che possa trovarsi.
C. Se il ritmo, ovvero numero, ha bisogno almeno di due piedi, perché chiamano alcuni, e tra questi Aristotile, e Dionisio Alicarnaseo, i ritmi piedi?
V. Forse perché il numero si compone, e nasce da' piedi; e forse perché ciascuno pié ha necessariamente quelle due cose che i Greci chiamano arsi, e tesi, cioè elevazione, la quale è quando s'alza colla voce la sillaba, e posizione, la quale è quando la sillaba s'abbassa; onde in un pié si trova ancora in un certo modo, se non propriamente, almeno impropriamente, e certo in potenza, il numero, come chi dicesse Latinamente fecit, o diximus. E se queste ragioni non vi soddisfano, leggete quello che ne dice il Maggio nel luogo poco fa allegato da noi.
C. Il ritmo Greco, e Latino è egli quel medesimo che la rima volgare, come pare che credano molti?
V. No, che creda io, e se pure i nomi sono i medesimi, le nature, cioè le significazioni, sono diverse; anzi la rima non è della sostanza del verso, cioè non fa il verso, ma fa il verso rimato solamente, cioè aggiugne al verso la rima, la quale è quella figura, e ornamento che i Greci chiamano con una parola sola, ma composta Omiotelefto, la quale traducendo i Latini con due la nominano, come dissi di sopra, similmente finienti. È ben vero che nella rima si può considerare ancora il numero, e l'armonia, perché essendo voce, non può essere, quando si profferisce, né senza l'uno, né senza l'altra; ma delle rime ci sarebbe che dire assai; e io vedrò di ritrovare un trattatello che io ne feci già a petizione del mio carissimo, e virtuosissimo amico Messer Batista Alamanni, oggi Vescovo di Macone, e sì lo vi darò. Per ora non voglio dirvi altro, se non che la dolcezza che porge la rima agli orecchj ben purgati, è tale, che i versi sciolti allato a' rimati, sebben sono, non pajono, versi; e se i Greci, e i Latini l'aborrivano ne' versi loro, era per quella medesima ragione che noi aborriamo i piedi ne' versi nostri, nonostanteché Messer Claudio Tolomei tanto gli lodasse, cioè perché noi seguitiamo non i piedi, che fanno il numero, ma gli accenti, che fanno l'armonia, e il fare i versi alla Latina nella lingua Volgare, di chiunche fosse trovato, è come voler fare che i piedi suonino, e le mani ballino, come mostrammo lungamente nelle Lezioni poetiche.
C. Qual credete voi che sia più laboriosa, e più maestrevole opera, il far versi Greci, o Latini, o Toscani?
V. I Latini avevano meno comodità, e minori licenze, che i Greci, onde Marziale disse: Nobis non licet esse tam disertis, Qui Musas colimus severiores. e per conseguente duravano maggior fatica. I Toscani (se voi intendete de' versi sciolti) hanno quasi le medesime difficultà che i Latini, ma se intendete (come penso) de' rimati, io non fo punto di dubbio che i Toscani ricerchino più maggior tempo, e più maggior maestria.
C. Che differenza fate voi da verso a metro?
V. Io la vi dissi di sopra: il metro non considera le cesure; e il verso le considera: ma perché intendiate meglio il ritmo, quando nasce dalle voci articolate, non è altro che un legittimo intrecciamento di piedi, il quale non ha fine alcuno determinato. Il metro è un ritmo, il quale ha il numero de' suoi piedi determinato. Il verso è un metro, il quale ha le cesure. Quinci apparisce che ogni metro è ritmo, ma non già per lo contrario; onde il metro agguagliato al ritmo è spezie, ma agguagliato al verso è genere. Il metro non ricerca cesure, il verso non dee stare senza esse. Il metro, ed il verso hanno ad avere il novero de' lor piedi determinato. Il ritmo non è sottoposto a questa legge, perché può avere quanti piedi piace al componitore; e perciò disse Aristotile nella Poetica che i metri erano padri del ritmo; il qual ritmo è (come s'è veduto) nel predicamento della quantità, dove il metro è piuttosto, e così l'armonia, della qualità; onde i Greci, e i Latini considerano ne' loro componimenti principalmente la quantità, e i Toscani la qualità.
C. Se il traporre i versi interi nelle prose è cosa molto laidissima, come testimonia Quintiliano, perché l'usò il Boccaccio così spesso? Era già l'Oriente tutto bianco, comincia il principio della quinta giornata; e altrove: Lasciato stare il dir de' paternostri. E altrove: Ma non potendo trarne altra risposta. E altrove: Quasi di se per maraviglia uscito. E altrove: Se tu ardentemente ami Sofronia. E in altri luoghi non pochi.
V. Forse perché i nostri endecasillabi sono somiglianti a' Jambi Latini, e ci vengono detti, come a loro, che noi non cene accorgiamo; e anco per avventura nella lingua Toscana non si disconvengono, quanto nella Latina; onde il Boccaccio medesimo ne pose alcuna volta due l'uno dietro l'altro, come quando disse: La donna udendo questo di colui, Cui ella più che altra cosa amava. E chi sottilmente ricercasse, troverebbe per avventura nelle prose nostre quello che nelle Greche avveniva, e nelle Latine, cioè che niuna parte in esse si troverebbe, la quale ad una qualche sorte, e maniera di versi accomodare non si potesse. Ma tempo è di passare omai alla terza, e ultima cosa, cioè alla dolcezza, della quale mi pare di potermi spedire, e mi spedirò brevissimamente, dicendo che quanto la lingua Greca era più dolce della Latina, tanto la Volgare è più dolce della Greca. Che la Greca fosse più dolce della Latina, non si tenzona; e Quintiliano nel decimo libro n'assegna le ragioni, affermando ciò procedere da tre cose, dalle lettere, dagli accenti, e dalla copia delle parole, onde conchiude così: Quare qui a Latinis exigit illam gratiam sermonis Attici, det mihi in loquendo eamdem jocundiditatem, et parem copiam. Che la Volgare sia più dolce che la Greca, la quale era dolcissima, si pruova così: La dolcezza, della quale si ragiona, nasce primieramente dalle lettere, le lettere vocali sono assai più dolci delle consonanti, le parole Toscane forniscono tutte, eccetto per, in, del, e alcune altre pochissime monosillabe, in alcuna delle lettere vocali, dunque la lingua Volare è più dolce della Greca, la quale ha infinite parole che finiscono in consonanti; onde Quintiliano volendo provare la lingua Greca soprastare alla Latina di dolcezza disse trall'altre ragioni: Nessuna parola Greca fornisce nella lettera m, la quale pare che mugli, e delle Latine molte.
C. Avvertite che tante vocali, e quella dolcezza che da lor nasce, non generino, come voi dicevate dianzi de' numeri, ancoraché bellissimi, fastidio.
V. Avvertite ancora voi che i volgari quando vogliono, o mette lor conto, possono infinite volte levare le vocali delle fini delle parole, e farle terminare in consonanti; onde si torrà via il fastidio, del quale dubitate; perché ne' nomi in luogo d'onore, d'amore, di favore, d'umore ec. diranno amor, onor, favor, umor ec. E ne' verbi in vece d'amare, vedere, leggere, e udire, diranno amar, veder, legger, udir ec. e così in infinite altre voci.
C. Ma quanto agli accenti?
V. Io v'ho già mostrato, quanto in questa parte noi andiamo loro innanzi.
C. Avete voi parola alcuna che fornisca coll'accento acuto altro che questo avverbio Spagnuolo altresì?
V. Altresì è Provenzale, non Ispagnuolo, e gli antichi nostri scrivevano altresie, e non altresì, come quie, costie, tue, e non qui, e costì, tu, non altramente che cantoe, e non cantò; udie, o udio, e non udì; ameroe, faroe, e non amerò, farò; e così di tutti gli altri futuri dell'indicativo, ovvero dimostrativo della prima maniera de' verbi. Similmente fue, e die, i quali usò ancora il Petrarca, non fu, e dì.
C. A questo modo voi non avete parola nessuna che fornisca coll'accento acuto, se non per levamento della ultima vocale.
V. Maisí.
C. Quali?
V. Lasciamo stare testé, che gli antichi dicevano testeso, non abbiamo noi, se non altro, il Re Artù?
C. Una rondine non fa primavera, dice Aristotile.
V. Sappiate che niuna parola né in Greco, né in Latino, né in nessuna altra lingua si può profferire senza l'accento acuto, onde nasce che almeno tutte le monosillabe in tutte le lingue hanno l'accento acuto, perché nel circonflesso, nel quale forniscono molte parole fuori della lingua Toscana, v'è compreso l'acuto: oltraché noi pronunziamo chermisì, tafettà, scangé, tambascià, citrì, frin frì, frin frò, tutte coll'accento acuto, e così molte altre.
C. Che sapete voi che altresì sia Provenzale, e che egli si profferisca Toscanamente coll'accento acuto in sull'ultima?
V. Io vene potrei allegare molti luoghi di poeti Provenzali; ma bastivi questo d'Arnaldo Daniello, che comincia così una sua canzone: Illi com cel qa le lepre cazada or pois [la perd, Autre la reten, tot autresi es avengud [a me. E Dante disse nella sua contra gli erranti: Ma ciò io non consento, Né eglino altresì, se son Cristiani.
C. Or ditemi, il fornire le parole coll'accento acuto non è proprietà di lingua barbara, come scrivono alcuni moderni?
V. No, santo Dio! Che la lingua Greca non era barbara, e molte delle sue parole fornivano coll'accento acuto.
C. In cotesta parte non poteva ella tener del barbaro?
V. Non credo io. Egli è vero che noi non potemo in queste cose procedere dimostrativamente, né colla sperienza, che vince tutte le dimostrazioni, ma bisogna, poiché le pronunzie sono o spente del tutto, o mutate in grandissima parte, o che ci serviamo delle congetture, o che cene stiamo a detta degli scrittori antichi. Il perché volere affermare oggi, o mantenere alcune di così fatte cose per certe, sarebbe anzi perfidia, e ostinazione, che dottrina, e giudizio. L'accento acuto nel fine (se si dee credere a Quintiliano, al quale io per me credo) non solo non è proprietà di lingua barbara, ma genera dolcezza. Udite le sue parole, quando vuol provare la lingua Latina esser men dolce della Greca: Sed accentus quoque cum rigore quodam, tum similitudine ipsa minus suaves habemus, quia ultima syllaba nec acuta unquam exitatur, nec flexa circunducitur, sed in gravem, vel duas graves cadit semper. Itaque tanto est sermo Graecus Latino jocundior, ut nostri poetae, quoties dulce carmen esse voluerunt, illorum id nominibus exornent. Vedete voi che, secondo Quintiliano, tralle dolcezze della lingua è una l'avere l'accento, in sull'ultima? Il che non hanno mai i Latini, se non in sulle dizioni monosillabe, come testifica il medesimo Quintiliano nel primo libro; e però i poeti Latini quando volevano fare dolci i lor versi, usavano le parole Greche. E chi non conosce che Zefiro, pronunziato come si debbe, è più dolce che Favonio? E noi abbiamo non solamente Zefiro Greco, Favonio Latino, ma ancora Ponente Italiano.
C. Io voleva appunto dimandarvi della terza cosa, che genera la dolcezza, cioè della copia delle parole.
V. La copia delle parole genera dolcezza per accidente, cioè fa che noi non siamo forzati a usare traslazio- ni, o giri di parole, e che se una parola ci pare o dura, o aspra, la possiamo scambiare, e pigliarne una, la quale sia o molle, o dolce; della qual cosa non manca la lingua Toscana, perché essendo l'ultima di tempo delle tre lingue più belle, ha, come pur testé vi diceva di Zefiro, i nomi Greci, e Latini, e Toscani. E oltraciò tutti quelli di tutte le cose che si son trovate dopo la lingua Greca, e la Latina; oltraché delle cose che sono per accidente, non si considera né arte, né scienza nessuna, perciocché non si possono sapere, conciossiaché il sapere sia conoscere le cose mediante le loro cagioni, e le cose per accidente non hanno cagioni alcune determinate. Laonde potemo conchiudere che la lingua Fiorentina sia più dolce non solamente della Romana, ma eziandio dell'Ateniese.
C. Io per me lo credo, anzi quando leggo il Petrarca, ma molto più quando il sento leggere a un Fiorentino, mene pare esser certo; ma vorrei ben sapere perché Messer Sperone nel dialogo delle lingue, nel quale non ho mai potuto intender bene, se l'intendimento suo è lodare, o biasimare la lingua Toscana, agguaglia la numerosità dell'orazione, e del verso della lingua Volgare al suono de' tamburi, e delle campane, anzi al romore degli archibusi, e de' falconetti?
V. Messer Sperone pare a me che volesse lodare la lingua Toscana, ma mi pare anco che servasse più il decoro, o volete la convenevolezza nella persona di Messer Lazzero quando la biasima, e offende, che non fa nella persona del Bembo, e d'altri, quando la loda, e difende. Ma comunque si sia, egli vi son dentro di belle cose, e di bonissime oppenioni, e io confesso d'essergli non poco obbligato, perché quando era scolare in Padova, e cominciai a tradurre la Loica, e la Filosofia d'Aristotile nella lingua volgare, dove quasi tutti gli altri mene sconfortavano egli, e il Signor Diego di Mendozza, il quale era in quel tempo ambasciatore per la Cesarea Maestà a Venezia, non solo mene confortarono più volte, ma mene commendarono ancora.
C. Io mi ricordo che 'l Vellutello nel XXI
V. canto del Purgatorio, quando egli spone questo avverbio Lombardo issa, cioè testé, il quale testé gli pare piggiore, e più goffo che issa, dice che gli darebbe il cuore di provare colla favella medesima della città di Firenze, l'idioma Fiorentino in se esser pessimo di tutti gli altri Toscani, e il Lucchese insieme col Pisano essere più gastigato, e terso di tutti gli altri.
V. Che ragion n'allega egli che il Lucchese, e il Pisano siano i più belli di tutti gli altri?
C. Per avere le sue città molto contigue, e vicine.
V. Come contigue? Questa mi pare la ragion di colui che diceva d'aver nome Bartolomeo, perché egli era nato la vigilia di Santa Lucia. Non arebbe detto così Monsignor Messer Giovanni Guidiccioni, che fu quell'uomo e di dottrina, e di bontà, che sa il mondo, e che fu tanto amico, e affezionato di Messer Annibal Caro che gli indirizzò i suoi gravissimi, e dotti Sonetti. Né anco Messer Bernardino Daniello, che fu l'anima di Messer Trifone Gabriello, come era Messer Trifone Bencio nipote di ser Cecco, senza 'l quale non poteva stare la corte di quel gaglioffaccio del Molza.
C. Come gaglioffaccio?
V. Gaglioffaccio nell'idioma del Molza significava uomo buono, e da bene. Il qual Molza quando voleva lodare alcuno in superlativo grado, lo chiamava non Grifone, come il Cardinale di Ravenna, ma bestiale, cioè divino.
C. Chiamava egli così Messer Piero Aretino? O gliele scrivea nelle soprascritte delle lettere?
V. Non so; credo bene che né il Jona, né molti altri nobili, e letterati giovani Lucchesi che io ho conosciuti, e conosco, né il Menocchio affermerebbono quello che afferma il Vellutello, al quale però debbono avere obbligo i Lucchesi della buona volontà sua, e i Fiorentini, e gli altri della diligenza usata, e della fatica durata da lui in comentare il Petrarca, e Dante.
C. Io mi ricordo aver sentito dire più volte dal Conte Domenico mio zio, d'onorata, e felice memoria, che Messer Romulo Amaseo, il quale era, come sapete, uomo dottissimo, ed eloquentissimo, quando Carlo V. e Clemente VII. s'abboccarono la prima volta in Bologna, che fu nel XXIX. orò pubblicamente due giorni alla fila acerbissimamente contra la lingua Volgare; ma non ho ora a mente, se non due delle sue conclusioni.
V. Quale è la prima?
C. La prima è che egli voleva che la lingua Volgare, quanto al parlare, s'usasse nelle ville, su pe' mercati co' contadini, e nelle città co' bottegaj, e in somma colla plebe solamente; e la Latina co' gentiluomini. E, quanto allo scrivere, che le cose basse, e vili si scrivessero in Volgare, e l'alte, e gravi Latinamente; e molto si compiaceva, e si pagoneggiava in questa sua oppenione, che ne dite voi?
V. Io ho letto, e considerato coteste due scuole, che così si chiamano Latinamente; e nel vero quanto all'eloquenza, e all'arte elle sono bellissime, e degne d'ogni loda, ancoraché gli fosse risposto; e perché egli era uomo di gran giudizio, non credo che egli credesse quello che mostrava di credere, ma fece, e disse tutto quello che ricerca l'arte oratoria che fare, o dire si debbia; e parlandone io, quando fui in Bologna con Messer Pompilio, degnissimo figliuolo di cotal padre, mostrava che l'intendesse anch'egli così. E in vero se in una città medesima s'avesse a favellare con due lingue, una nobile, e l'altra plebea, perché non usare la nobile il dì delle feste, e la plebea quelli del lavorare? Se non che ne bisognerebbe una terza in quel mezzo per i giorni delle mezze feste, quando si sta a sportello, che i Latini seguendo i Greci chiamavano intercisi. E poi, per tacere molti altri inconvenienti, quando i gentiluomini sapessero la lingua Latina tutti quanti, la qual cosa oggi non è in uso, come arebbe egli scritto, e parlato alle gentildonne, le quali non sono meno degli uomini? Considerate voi, quanto le cose dette rettoricamente, quando s'esaminano secondo la verità, riescono le più volte o impossibili, o false, o ridicole? Se egli avesse fatto quella orazione in Volgare, non istate in dubbio che, dove intendo che ella fu grandissimamente lodata, ella grandissimamente stata biasimata sarebbe; perché ognuno arebbe conosciuto la falsità dell'inganno che dal liscio ricoperto delle parole si nascondea, e io vi dichiarerò un'altra volta, perché un medesimo predicatore, predicando le medesime cose colla medesima dottrina, ed eloquenza a' medesimi uomini intendenti non meno la lingua Latina che la Toscana, moverà assai più predicando in Volgare che Latinamente, la quale è la medesima, perché noi non ci vergognamo, né divenimo rossi ancora innanzi a donne castissime, favellare cose disoneste con vocaboli Latini, soloché non siano tanto somiglianti a' Volgari che si possano ancora da coloro intendere, i quali mai studiato non hanno. Ma quale è la seconda conclusione dell'Amaseo?
C. Che, come coloro i quali, secondoché era proverbio de' Greci, non potevano diventare Citaredi, si facevano Auledi, e come disse Messer Lazzero di Messer Sperone, che chi non poteva sonare il liuto, e' violoni, sonasse il tamburo, e le campane; così tutti quelli, a cui non bastava l'animo divenire eccellenti nella lingua Latina, si davano alla Volgare.
V. Questa è molto peggio, e assai più falsa che quella delle due lingue, perciocché.....
C. Non seguitate più opra, conciossiaché io ho in animo di proporvi un quesito, dove sarà necessario che mostriate quello che conosco che voi volete mostrare al presente.
V. Come più vi piace; io vi dirò in quello scambio come Messer Piero da Barga, mio amicissimo, aringò anch'egli pubblicamente nello Studio di Pisa contra la lingua Volgare asprissimamente, e con molta eloquenza; e trall'altre cose, favellando del Bembo onoratissimamente, disse, se essere talvolta d'oppenione che egli avesse confortato gli altri a volgarmente scrivere, affineché abbandonate da loro le Greche lettere, e le Latine per dar opera alle Volgari, egli solo divenisse, o rimanesse eccellente nelle Latine, e nelle Greche; la qual cosa, che in vero sarebbe stata più che io non potrei dire, nefaria, e biasimevole, sappiendo quanto fosse lontana dagl'interi, e casti, e santi costumi di tanto, e tale uomo; mostra di non credere anch'egli; e pure, seguitando gli ammaestramenti retorici, lo disse, che ognuno udì. Dirovvi Messer Celio Calcagnino Ferrarese, uomo il quale, secondoché si vede, vide a' suoi dì, e scrisse assaissime cose in un trattato che egli fece, e indirizzò a Messer Giovambatista Cintio della imitazione, biasima la lingua Volgare, quanto può il più, e quanto sa il meglio, affermando che ella si doverebbe con tutti gli argani, e ordegni del mondo sprofondare; la qual cosa se dagli effetti, e dagli avvenimenti si dee giudicare, non gli fu dal Cintio stesso, a cui egli la indirizzò, creduta né anco da Messer Litio Gregorio Cintio, il quale non avea né veduto, né scritto manco di lui; poiché tra gli altri fece un libro de' poeti Volgari, nel quale tra' poeti, e non tra' versificatori racconta, e celebra Messere Annibale Caro. Ancora vi dirò che Messer Francesco Florido, uomo dotto, ma che avea, come hanno talvolta gli uomini dotti, di strane fantasie, in una Apologia che egli fece contra i calunniatori della lingua Latina, si spogliò in farsetto per dirne male, e biasimando tutti gli altri scrittori Toscani, lodò solamente un poco il Petrarca, non per altro, se non perché ebbe tanto giudizio, che non iscrisse se non amori, e bagattelle, e così un poco il Furioso dell'Ariosto, perché fu dotto in Latino, ma che le Commedie che egli compose, non hanno di commedia altro che il nome.
C. Io pagherei buona cosa a sapere quello che cotestoro veggono di biasimar la lingua volgare, e perseguitarla con tanto odio.
V. E' si dee credere che lo facciano per amore, e non per odio, e se non credessono di far bene, siate certo che non lo farebbono; senzaché par loro per avventura cosa strana, e non comportevole, l'avere a favellare, se non con quelle medesime parole, almeno con quella stessa lingua, colla quale favellano i trecconi, e i pizzicagnoli.
C. I trecconi, e i pizzicagnoli in Grecia non favellavano Grecamente?
V. Favellavano, e le trecche ancora, poiché una rivendugliola alla pronunzia sola conobbe Teofrasto non essere Ateniese, il quale Atticissimamente favellava.
C. E in Lazio come favellavano così vili artefici?
V. Latinamente.
C. Di che si dolgono dunque? Io ho paura che non facciano come un nostro, a cui non vo' dar nome, il quale si rammaricava, né poteva sopportare d'avere (con riverenza vostra) il sedere di due pezzi, perché così l'aveano i fornai.
V. Io vene voglio raccontare una non men bella, o non men brutta di cotesta. Messer Agostino da Sessa essendo una mattina, quando leggeva filosofia in Pisa, uscito della Sapienza, spiovuto che fu una grossa acqua, non andò molti passi, che e' ne venne un'altra scossa delle buone, dalla quale sentendosi egli immollare, cominciò fortemente tutto alterato a scorrubbiarsi e bestemmiare, e dimandato dagli scolari che gli erano d'intorno, che cosa egli avesse, rispose con mal viso: come, che ho? Dove avete voi gli occhi? Non vedete voi che questa acqua non altramente bagna me, che ella farebbe un facchino?
C. Non è maraviglia, poiché egli uscito della Sapienza.
V. Bene avete detto; ma egli devea burlarsi, sebbene ne fece, e disse alcune altre in quello Studio non dissomiglianti a cotesta. Ma, per ritornare al segno, Messer Bartolommeo Riccio quasi nel principio del secondo dei tre dottissimi libri che egli con molta eleganza, e purità scrisse Latinamente dell'Imitazione, si duole a cielo che nelle città d'Italia si ragunino pubblicamente Accademie, e che d'ogni sorte uomini si ritruovino molti, i quali non cessino di tradurre le cose Latine nella lor lingua, e già essere venuta la cosa a tale, che molti volumi di Cicerone sieno stati volgarizzati; la qual cosa egli chiama grande, e nefaria sceleratezza.
C. I Latini non traducevano dal Greco?
V. Traducevano.
C. E Cicerone stesso non tradusse l'Orazioni di Demostene, e d'Eschine?
V. Tradusse; così volesse Dio che elle non fossero ite male; ma del tradurre favelleremo nello scrivere. Udite ora degli altri, i quali dannano, e detestano a più potere la lingua Italiana.
C. Io arei più caro che voi mi raccontaste di quei che la lodano, perché di quegli che la biasimano ne sono pieni i forni. Ma voi, il quale eravate de' maggioringhi dell'Accademia Infiammata di Padova, come soffriste Che Messer Giovambatista Goineo in quel suo paradosso Latino la conciasse sì male? E dicesse che ella non era lingua, se non da certi cortigianuzzi effemminati, e tutti cascanti di vezzi?
V. Appena era io de' minoringhi; poi cotesto non fu a mio tempo; oltraché quel paradosso fu composto da lui in villa, per ischifare, come dic'egli medesimo, il caldo; non recitato nell'Accademia: e anco non si debbe vietare a nessuno, né impedirlo che egli non componga o per esercitarsi, o per pubblicare il parer suo; è ben vero che coloro, i quali compongono, più che per altro, per fuggir mattana, in vece d'onore, e loda, ne riportano le più volte dalle più genti vergogna, e biasimo. E il torre a lodare, o biasimare alcuna cosa non è mica una buccia di porro, né impresa (come disse Dante) da pigliare a gabbo; ma egli non le fece quel male né che voi credete, né che egli arebbe potuto farle, volendo scrivere oratoriamente. Ma molto più largo campo arebbe avuto egli, e arà sempre, e molto più commendabile chiunche torrà a lodarla, per le cose infino a qui dette, e sì perché ella d'onestà, la quale è forse la maggiore, e certo la miglior parte che possa avere una lingua, si lascia dietro molto spazio non meno la Greca che la Latina. Considerate quello che fa Omero non dico dire, ma fare a Giove, Padre, e Re di tutti i loro Dii, con Giunone per impazienza di libidine.
C. Plutarco, Porfirio, e alcuni altri non pure lo scusano, ma il lodano ancora eziandio in coteste stesse sporcizie, dicendo che elle sono favole, sotto i velamenti delle quali con maraviglioso ingegno trovati si ricuoprono di grandissimi, e bellissimi, e utilissimi misterj.
V. Tutto credo; ma con tutto questo credere non mi può entrar nell'animo, non che capire nella mente, ciò essere ben fatto, e che meglio non fosse stato ritrovare con più degne favole meno disonesti velamenti. Pure dica ognuno, e creda quello che egli vuole, perché forse quei tempi, quella religione, e quelle usanze lo comportavano; il che i tempi nostri, la religion nostra, e le nostre usanze non fanno. Dante favellando dell'Italia disse una volta: Non donna di provincie, ma bordello. Della quale parola fu da molti, ed è ancora oggi, molto agramente biasimato, e severamente ripreso. Considerate ancora quante porcherie, e sporcherie dice Aristofane nelle sue commedie.
C. Quelle d'Aristofane sono commedie antiche, nelle quali dicono che erano concedute le disonestà.
V. Dicano quello che vogliono, io non mi arrecherò mai a credere di buon cuore che le disonestà siano concedute in luogo nessuno, e massimamente dicendo il proverbio che l'onestà si conviene, e sta bene infino, per non dire il vocabolo proprio, in Baldracca.
C. Voi volete dire in Baldacco, non in Baldracca.
V. Io vo' dire in Baldracca, non in Baldacco.
C. Il Petrarca disse pure Baldacco, e non Baldracca.
V. Voi m'avete bello, e chiarito; il Petrarca intese di Babilonia, e io intendo d'un'osteria, o piuttosto taverna, anzi bettola di Firenze, dove stavano già delle femmine di mondo in quel modo, che al Frascato. Giudicate ora voi che differenza è da un picciolo, e disonesto alberghetto a Babilonia.
C. Maggiore che da Giugno al Gennajo; ma guardate a non v'ingannare, perché io mi ricordo d'aver letto in uno scrittore moderno, del quale si fa grande stima, che Baldacco era un luogo disonesto, e disonorevole in Firenze, del quale anco il Petrarca faceva menzione nel Sonetto: L'avara Babilonia ha colmo il sacco.
V. Credete quello che vi piace. Baldracca era, ed è un'osteria in Firenze vicina alla piazza del grano, ma starà ben poco a non esser più, perché l'Eccellenza del nostro Duca, essendo ella quasi dirimpetto al suo palazzo, la vuol fare spianare, e murare in tutti quei contorni, edifizj, e casamenti, dove si ragunino i Magistrati.
C. Va poi, e fidati tu. Io conosco di mano in mano meglio, e più certamente che chi vuole intendere, non che dichiarare la lingua Fiorentina, e spezialmente in cose cotali, bisogna che sia o nato, o stato in Firenze, altramente fa di grandi scappucci; perché quanto sarebbe non solamente folle, ma fello sentimento, se si facesse dire al Petrarca, che la fede, o la sede Cristiana s'avesse un giorno a ridurre tutta quanta in Baldracca!
V. Lasciamo Baldacco, e Baldracca, che il Burchiello chiama Baldacca, se intese però di questa, e venghiamo a' poeti Latini, non agli eroici, perché Vergilio fu tanto casto, e vergognoso ne' costumi da natura, e nelle sue opere per giudizio, che egli per tutto era chiamato con voce Greca, come noi diremmo la donzella, ma agli altri, e spezialmente a quegli che poetarono d'amore. Tibullo, e Properzio sono tanto lascivi, quanto leggiadri. Ovvidio fu lascivissimo, e più sarebbe stato Gallo, se quelle Elegie che sotto il suo nome vanno attorno, fossero sue; il che io non credo, essendo egli suto non solo lodato, ma amato da Vergilio. Marziale in molti luoghi sembra piuttosto giocolare che poeta; dove la lingua nostra è tutta onesta, tutta buona, e tutta santa.
C. Io dubito che l'affezione vi trasporti. Io ho veduto delle Commedie più sporche, e più disoneste che quelle d'Aristofane; ho veduto de' Sonetti disonestissimi, e sporchissimi; ho veduto delle Stanze che si posson chiamare la sporchezza, e disonestà medesima, e se non altro quelle che l'uomo si vergogna a nominare pure il titolo, e però diremo della Meretrice errante; e la Priapea dell'Arsiccio quae pars est?
V. Voi mescolate le lance colle mannaje. Nella Priapea, che così la voglio chiamare, e non col suo nome proprio, si conosce almeno arte, e ingegno, e similmente nelle Stanze, delle quali io credo che voi vogliate intendere; le Commedie non mi piacciono più per cotesta disonestà loro, e perché pare che non abbiano altro intento che far ridere in qualunque modo ciò si facciano, che per altro. Ma notate, che io non niego che nella lingua Volgare non si possa scrivere, e non si sia scritto disonestamente; che io negherei la verità; ma niego che ciò possa farsi, o almeno si sia fatto in componimenti nobili, e che vadano per le mani, e per le bocche degli uomini onorati: e quando pure si potessono fare, o si facessero, si leggerebbono solamente di nascoso, e alla sfuggiasca, e non solo non sarebbono lodati dagli ingegni pellegrini, né accettati, ma scacciati, e ripresi, né troverebbero gran fatto nessuno, che nelle sue opere o per pruova, o per testimonianza gli allegasse, né ricevesse; dove nella lingua Latina Catullo, il quale fu non meno disonesto, e sporco in molte cose, che dotto, e eloquente, fu lodato, allegato, e ricevuto al pari di Vergilio, e forse più. E chi diavolo potrebbe leggere, o sentir leggere senza stomaco, e indegnazione il principio di quel tanto puro, e tanto impuro epigramma? Paedicabo ego vos, et irrumabo, Aureli patice, et cinaede Furi.
C. Certo; ma e' pare che voi non vi ricordiate che egli medesimo altrove si scusa, dicendo: Nam castum esse decet pium poetam Ipsum, versiculos nihil necesse est. E quell'altro disse pure per iscusarsi: Lasciva est nobis pagina, vita proba est. E Adriano Imperadore nell'epitaffio che egli fece, e pose in sul sepolcro d'un suo amico chiamato Voconio, disse: Lascivus versu, mente pudicus eras.
V. Io mene ricordo; e so d'avanzo che ogni cosa si può scusare, o orpellare chi la vuole, e ha l'arte oratoria; ma io mi ricordo, e so anco che altra cosa è il dire, e altra cosa è l'essere; e durerò fatica a credere che uno che sia disonesto nel dire sia pudico nel fare, perché, come si dice volgarmente, la botte getta del vino che ella ha. Ma intendete sanamente, che io non biasimo chi favella d'amore, ma chi disonestamente ne favella; anzi quanto ciascuno ha maggiore intelletto, e più nobile animo, tanto meglio lo conosce, e più castamente ne favella, o scrive, e più spesso. Togliete, se non volete Platone, che pure è da volerlo, Salamone, del quale scrisse Dante, che scrisse ogni cosa: Entro v'è l'alta luce, u sì profondo Saver fu messo, che se 'l vero è vero, A veder tanto non surse il secondo. E io per me credo, e credo questa volta di poter senza fare protestazione, che in una canzone sola di Dante, o almeno nelle tre sorelle di Petrarca, sieno più concetti d'amore, e più begli, e più casti che in tutti i poeti o Greci, o Latini: sebben so che Platone in Greco, e Quinto Catullo in Latino fecero di bellissimi epigrammi. Qual si può trovare più dolce cosa in tutta la lingua Romana che quello endecasillabo di Catullo, il quale comincia: Acmen Septimius suos amores Tenens in gremio, ec. E nondimeno, se lo paragonate con un sonetto o di dante, o del Petrarca, o d'altro poeta Toscano nobile, che favelli d'amore, vi parrà che questi ami Diana, e quegli sia innamorato di Venere; l'uno all'altro che le bellezze del corpo furiosamente non cerchi, l'altro solo quelle dell'animo santissimamente desideri. Ditemi, per vostra fe, se un poeta Toscano, essendosene ita la donna sua a diportarsene in villa, dicesse in un sonetto, o in una elegia, o per entrarle in grazia, o per mostrarle il fervente amore che le porta, dicesse, dico, come fece Tibullo: O ego sum quum dominam aspicerem, [quam fortiter illic Versarem valido pingue bidente solum; cioè: Oh come rivolgerei io fortemente la grassa terra, e in somma zapperei con una gagliarda marra in mano, quando io mirassi la donna, e signora mia; che vene parrebbe? Non sarebbe ella stomacosa, e goffa? Non giudicherebbe ognuno che il Serafino non ci fosse per nulla? E so bene, e almeno credo, che cotali concetti, così fattamente vestiti, sieno in quello idioma, non dico comportevoli, ma lodevolissimi; il che dimostra la differenza che è da questa lingua a quella. Dove trovate voi negli altri linguaggi concetti d'amore così fatti, e così detti, come sono questi? Allora insieme in men d'un palmo appare Visibilmente, quanto in questa vita Arte, ingegno, natura, e 'l ciel può fare. Dove questi altri? Al tuo partir partì del mondo amore, E cortesia, e 'l Sol cadde dal cielo, E dolce incominciò farsi la morte. Ma egli bisognerebbe che io vi recitassi tutto il Petrarca, se volessi tutte le leggiadrie, e bellezze sue raccontervi; dal quale, tuttoché non ragioni mai d'altro che d'amore, può la più leggiadra, e la più casta donna che mai fosse, non solo leggerlo, ma apparare in leggendolo nuova castità, e nuova leggiadria. Di Dante non dico cosa nessuna, perché io ho per fermo che la grandezza sua non si possa, non che dire con parole, immaginare colla mente. E vi potrei allegare infiniti luoghi, non solamente nella commedia, la quale è un oceano di tutte le maraviglie, ma ancora nell'altre poesie sue, i quali lo rendono degnissimo di tutte le lodi, e di tutte le ammirazioni che a grandissimo, e perfetto poeta si convengono. Ma non voglio dirvi altro, se non che l'Inferno solo e da per se, è atto a fare chiunche lo legge, e intende, uomo buono, e virtuoso; pensate qual è, e quello che possa, o debba fare il Paradiso.
C. Non vi affaticate più, che io ne resto capacissimo. Disidero bene, per battere il ferro mentre che egli è caldo, che voi mi riduciate a brevità, e come in un sommario, tutta la principal sostanza delle cose dette da voi in questo quesito.
V. Io ho considerato nelle tre lingue, oltra le cose che voi mi proponeste, ricchezza, bellezza, e dolcezza, tre altre di più, delle quali mi domandaste incidentemente, e per un vie va; e ciò sono nobiltà, la quale consiste nella copia degli scrittori famosi, gravità, e onestà, e conchiuso che la lingua Volgare, paragonata alla Greca, e alla Latina, è più bella, più dolce, più grave, e più onesta di ciascuna di loro, ma che quanto alla ricchezza ella cede alla Greca, e contende colla Latina, e quanto alla nobiltà ella cede ad amendue, ma più alla Greca. Che ella sia più grave, e più onesta, io lo metto per fatto, né penso che alcuno o possa, o debba dubitarne, perché dove è l'onestà, rade volte è che non vi sia gravità. Che ella sia più bella, io lo provo, perché la Greca, e la Latina si servono principalmente del numero, e dell'armonia in conseguenza, dove la Volgare all'opposto si serve principalmente dell'armonia, e in conseguenza del numero. Che ella sia più dolce, nasce da tre cose, dalle lettere, dagli accenti, e ne' poeti dalla rima. Dalle lettere, perché, oltraché tutte le sue dizioni terminano in vocali, ella ha anco le consonanti più dolci, o in maniera le pone che elle rendono più dolce il suono, non accozzando mai due mute diverse. Considerate, quanto è più dolce il pronunziare pronto, che prompto, santo, che sancto, e infinite altre; e dall'altro lato raddoppia spessissime volte le consonanti, il che fuggiva la Latina; servesi della d, lettera dolcissima, in assai luoghi; mette poche volte la l in mezzo delle mute, e delle vocali, usa frequentemente la u, e la i liquide; cose che rendono tutte dolcezza; senzaché ella, come ha più elementi, così ha ancora più lettere da sprimergli, e conseguentemente più suoni, come appare nel s sibiloso, come in rosa fiore, e in Cosa nome proprio di femmina, il quale s, se pur non è, come io credo, ha grandissima somiglianza col _ Greco, come appare ancora nell'una delle nostre z chiamata dolce, come zanzara, cioè culex Latinamente, a differenza del z aspro, come zazzera, cioè coma, i quali due zeti hanno ancora gli Ebrei, e gli chiamano Zain, e Zari, l'alfabeto de' quali è veramente divino, e il nostro ha, se non parentela, grande amistà con ello, come in un trattato che io feci già delle lettere, e alfabeto Toscano potrete vedere. Né voglio lasciare di dire che come i Greci aveano l'omega, cioè l'o grande, o lungo, come in torre verbo, e l'omicron, cioè l'o picciolo, e breve, come in torre nome, e come aveano due e, l'una chiamata eta, la quale era lunga, e noi chiamiamo aperta, ovvero larga, come in mele liquore delle pecchie, e l'altra essilon, cioè tenue, ovvero breve, che noi chiamiamo e chiuso, ovvero stretto, così aveano ancora i Latini; ma perché essi non assegnarono loro proprie figure, e caratteri, come fecero i Greci, e gli Ebrei, si sono perduti, conciossiacosaché nessuna parola Latina si pronunzia oggi, se non per o aperto, ed e largo. Dagli accenti, perché infinite dizioni Toscane o intere, o raccorciate forniscono coll'accento acuto, la qual cosa non fanno mai le Latine, se non se nelle monosillabe; oltraché i Latini ponevano l'accento acuto, il quale è quello che solo si segna, o in sull'ultima sillaba, o in sulla penultima, o in sull'antepenultima, e non mai altrove; dove i Toscani, il che è cosa più naturale, lo pongono e in sulla quarta, e in sulla quinta, e in sulla sesta sillaba, come l'esempio del Boccaccio allegato dal Bembo, portandosenela il lupo, e talvolta in sulla settima, e ancora in sull'ottava, per l'esempio addotto da Messer Claudio, il quale io per me non comprendo, né 'l so direttamente profferire, favolanosicenegliene, nel quale, se si conta quella sillaba a cui egli è sopra, come s'è fatto infin qui, sarebbe l'accento in sulla nona. Dalle rime, perché, oltra il numero, e l'armonia de' versi, s'aggiugne il numero, e l'armonia delle rime, la qual dolcezza passa tutte l'altre dolcezze. Da ciascuna di queste cose, o da tutte insieme, nascono tutte le conclusioni che io ho fatte; onde si può agevolmente cavare che la lingua Fiorentina ha tutto quello che possono disiderare gli uomini, i quali altro disiderare non possono che o l'utile, o il piacere, o l'onesto. Il piacere le viene dalla numerosità, cioè dall'armonia, e dal numero, oltra la dolcezza delle parole, e delle rime. L'onesto, e l'utile le vengono da una cosa medesima, cioè dall'onestà, conciossiacosaché appresso i Mongoli, onesto, e utile si convertono, perciocché come niuna cosa è utile, la quale ancora onesta non sia, così nulla cosa è onesta la quale ancora non sia utile; e se nella nostra lingua si trasportassero le scienze, come si potrebbe, ella pareggiarebbe tutte l'altre, e forse avanzerebbe di nobiltà, sì perché le cose si vanno sempre raffinendo, come diceva Cicerone de' Romani, e sì perché alla filosofia Greca s'aggiugnerebbe quella degli Arabi, i quali furono dottissimi, e quella de' Latini moderni, i quali quanto sono barbari, e confusi nelle parole, tanto sono ingegnosi e sottili nelle cose, e nel medesimo tempo verrebbe a divenire ricchissima, e conseguentemente a superare ancora in questo la Greca.
C. Messer Claudio nel suo Cesano afferma che la lingua Toscana sia oggi non dico più ricca solamente, ma viepiù ricca della Greca, e della Latina; ascoltate le sue parole: Che più ne' tempi nostri, de' quali noi ora parliamo, e ne' quali si cerca se la Toscana lingua ha eccellenza alcuna, ne' tempi nostri, dico, viepiù ricca è di vocaboli questa, che o la Latina, o la Greca.
V. Messer Claudio, per quanto stimo, dovea mescolare la lingua nobile coll'ignobile, e intendere di tutti i vocaboli quali o s'usano, o si possono usare, in tutte le maniere di tutti i componimenti; nel qual caso io vi dissi di sopra che la Greca non sarebbe atta a scalzare la Volgare, ma molto meno la Latina.
C. Se io mi ricordo bene, voi non diceste scalzare, ma portarle dietro i libri, e esserle fattorina: le quali parole io intesi più per discrezione, come fo anco questa; e non vi potrei dire, quanto mi diletta d' intendere cotali metafore Fiorentine; ma arei caro le mi dichiaraste qualche volta, perché io n'ho passate più d'una a guazzo senza intenderle; se già non fate ciò studiosamente, e a bella posta; per non esser inteso da quei che non Fiorentini vi volessero riprendere.
V. Io lo fo bene in pruova, e a sommo studio, non già per sospezione che abbia di dover esser ripreso o da' Fiorentini, o da altri: che se ciò fosse, nol farei, potendo essere per avventura non meno in questa che in molte altre cose ripigliato; ma per compiacere a voi, e anco per mostrarvi che il rimescolarsi colla plebe di Firenze, se non è necessario, non è disutile a coloro che cercano o favellare, o intendere chi favella puramente Fiorentino: perché quanto allo scrivere ne parlerò nel luogo suo; onde se non avete in questa materia che dirmi altro; proponetemi un nuovo quesito.
C. Egli m'è rimaso un dubbio solo.
V. Mene pare andar bene; che volentieri arei fatto il patto a diece; ma quale è questo dubbio?
C. Voi non avete mai fatto parola nessuna della brevità, e io pur crederrei che quanto una lingua fosse più breve, tanto fosse ancora più commendabile.
V. Io non ne ho fatto menzione, perché non mi ricordo che Aristotile né nella Rettorica, né nella Poetica, dove egli dichiarò diligentissimamente le virtù del parlare, ne dicesse mai cosa nessuna; e Platone n'ammaestra che della lunghezza del dire nessun conto tenere si dee, ma solo delle cose che si dicono. E nel vero se le cose che si dicono, sono fruttuose, e profittevoli, ogni lunghezza dee parer breve, e se il contrario, ogni brevità dee essere riputata lunga.
C. Non è egli più breve una lingua che sprime i concetti con meno parole, che un'altra?
V. Senza dubbio; e Messer Claudio afferma che la Romana è più breve della Greca, e che la Greca, e la Toscana, quanto a lunghezza, e brevità, vanno a un giogo.
C. Qual cagione n'arreca egli?
V. Perché quelle particelle che alcuni chiamano puntelli, o sostegni, e altri ripieni, e noi chiameremo proprietà, e ornamenti di lingue, si ritrovano in minor numero nella Romana.
C. Di quali particelle, e ornamenti intendete voi?
V. Come. in Greco µ__, _, __, ec. in Latino nempe, quidem, etc. in Toscano egli, e nel vero, e altri cotali.
C. Siete voi d'accordo in questo con esso seco?
V. Io discordo mal volentieri da lui, perché nel vero egli fu uomo buono, e ingegnosissimo, e uno de' primi padri, e maestri principali della lingua.
C. Io intendo pure che nelle sue scritture, e spezialmente nelle Lettere, sono delle locuzioni barbare, e delle cose contra le regole.
V. È vero; ma crediate a me, il quale ne parlai più volte con esso lui, che alcune vene sono, non perché egli non le sapesse (e che non sapeva egli nella lingua Toscana?) ma perché credeva, o voleva credere, che così stessero, e dovessero stare, parte favoreggiando alla sua favella natía, e parte vezzeggiando la sua autorità, la quale era (e non senza ragione) grandissima, e alcune più per iscorrezione della stampa che per altro; e io per me credo quello che molti affermano, che il saper troppo d'alcuna cosa, cioè l'andarla più sottilizzando che non si conviene, si debba riputare le più volte vizio. Comunque si sia, io credo che la lingua Greca sia più breve della Latina, e la Latina men lunga della Toscana, perché quei ripieni, e ornamenti non sono quelli che facciano principalmente la brevità, o la lunghezza delle lingue, ma i nomi, e i verbi, quando son pieni, e quasi pregni di sentimenti. Sprimono i Greci molte volte con una parola sola quello che i Latini né con due, né con tre, e talvolta con quattro sprimere non possono, e il medesimo dico avvenire de i Latini verso i Toscani; non che i Toscani non abbiano anch'essi alcuni nomi, e verbi che i Latini, né forse i Greci potrebbono altramente sprimere che con più parole, ma le regole dagli universali, e non da' particolari, cavare si deono.
C. Non si vede egli che coloro i quali traducono versi o Greci, o Latini, crescono ordinariamente almeno il terzo, facendo d'ogni due versi tre?
V. Sì; ma qui si potrebbe rispondere che i nostri versi sono d'undici sillabe, o al più dodici, e i loro di diciassette, e talvolta diciotto; che è quasi proporzione tripla; ma sia come si vuole, che chi traduce così dal Greco, come dal Latino o prose, o versi, cresce o poco più, o poco meno che il terzo, il che dimostra la sperienza, la quale vince tutte l'altre pruove insieme.
C. Voi avete detto che Platone non si cura della lunghezza, dove le cose delle quali si ragioni, portino il pregio; e pur la brevità è lodata sì grandemente in Salustio.
V. Questa non è la brevità delle lingue, ma quella degli scrittori, la qual'è un'altra maniera, perciocché in una lingua stessa sono alcuni che scrivono brevissimamente, e alcuni con lunghezza.
C. Qual credete voi che sia migliore negli scrittori d'una medesima lingua, l'esser breve, o l'esser prolisso?
V. La brevità genera il più delle volte oscurezza, e la lunghezza fastidio; ma perché la prima, e principal virtù del parlare è la chiarezza, par che n'apporti men danno l'esser fastidioso che oscuro, e perciò disse Quintiliano che la brevità che in Salustio si loda, altrove sarebbe vizio, e Cicerone, che la brevità si può in alcuna parte lodare, ma non in tutto, e universalmente no. Ma vi conviene avvertire che altro è non dire le cose soverchie, e altro il tacere le necessarie. La buona, e vera brevità consiste non in dir meno, ma in non dir più di quello che bisogna, e a ogni modo è, se non maggior bene, minor male pendere in questo caso anzi nel troppo che nel poco, acciò avanzi piuttosto alcuna cosa, che ne manchi nessuna. Chi dice più di quello che bisogna, arreca per avventura fastidio ad altri; ma chi tace quello che tacere non dee, apporta danno a se stesso. E per conchiudere, come in tutte l'altre virtù, così in questa si dee eleggere il mezzo, cioè narrare tutto quello che è necessario, e quello il quale è soverchio, tacere; ma dovendosi peccare in una di queste due cose, è men dannoso peccare nella lunghezza; non intendendo però di quella Asiana, ovvero Asiatica fastidiosa, della quale fu ripreso Galeno; ma di quella di Cicerone, al quale non si poteva aggiugnere cosa nessuna, come a Demostene cosa nessuna levare si poteva. E brevemente, come i giganti non si possono chiamare troppo grandi, così i pigmei troppo piccioli appellare non si deono.

Se la lingua volgare, cioè; quella colla quale favellarono, e nella quale scrissero Dante, il Petrarca, e il Boccaccio, si debba chiamare Italiana, o Toscana, o Fiorentina
Quesito decimo, e ultimo
V. Di coloro che ho letti io i quali hanno disputato questa questione, alcuni tengono che ella si debba chiamare Fiorentina, e questi è Messer Pietro Bembo solo; alcuni, Toscana, e questi sono Messer Claudio Tolomei, e Messer Lodovico Dolce; alcuni, Italiana, e questi sono Messer Giovangiorgio Trissino, e Messere Jeronimo Muzio; perché il Conte Baldassare Castiglione sebben pare che la tenga Toscana, nondimeno non volendo alle regole di lei sottoporsi, confessa di non saperla, e di avere scritto nella sua lingua, cioè nella Lombarda, la qual cosa (come di sopra dissi) a me non par vera; non che io nieghi che nel suo Cortegiano non sieno molti vocaboli, e modi di dire Lombardi, ma per altro si conosce che egli lo scrisse quanto poteva, e sapeva Toscanamente. Lasciando dunque dall'una delle parti o come poco risoluto, o come troppo acuto, e guardingo il Conte, dico che il Trissino, e il Muzio sono oggi da moltissimi seguitati, il Tolomei, e il Dolce da molti, il Bembo da pochi, anzi da pochissimi; ciascuno de' quali allegano loro ragioni, e loro autorità, e tutti convengono comunemente che le lingue debbano pigliare i loro proprj, e diritti nomi da quei luoghi ne' quali elle si favellano naturalmente, e che gli scrittori primieri di qualunche lingua dall'uso di coloro che la favellavano, trassero le loro scritture. Convengono ancora che Dante, il Petrarca, e il Boccaccio siano, se non di tempo, almeno d'eccellenza i primi scrittori che nella lingua Volgare si ritruovino. Convengono eziandio che come la Toscana è la più bella di tutte l'altre lingue Italice, così la favella Fiorentina sia di tutte l'altre Toscane la più leggiadra. Convengono medesimamente che ella si possa nominare largamente lingua Volgare, o veramente la lingua del Sì, ma non già Cortegiana. Convengono di più che siccome l'Italia è una provincia la quale contiene sotto di se molte regioni, cioè, secondo i più, e migliori, quattordici, e ciascuna regione molte città, e castella, così la lingua Italiana sia un genere il quale comprenda sotto di se molte spezie, e ciascuna spezie molti individui. Al Trissino, tostoché uscì fuori la sua epistola delle lettere nuovamente aggiunte nella lingua Italiana, risposero due grandissimi ingegni, Messer Claudio Tolomei Sa nese contra l'aggiunta delle nuove lettere, e Messer Lodovico Martelli contra il nome della lingua, e amenduni leggiadramente, e secondo me con verità. Scrisse ancora contra le nuove lettere Messer Agnolo Firenzuola Fiorentino, uomo ingegnoso, e piacevole molto, ma piuttosto in burla, e per giuoco, che gravemente, e da dovero. Dalle quali cose nacque che Messer Giovangiorgio compose poi, e stampò sì alcuni dubbj grammaticali, co' quali s'ingegnò di rispondere al Pulito di Messer Claudio, e sì un dialogo intitolato il Castellano, nel quale risponde, ma per mio giudizio con poco fondamento, e debolissima ragione, alla risposta del Martello, perché si morì nel Regno, o piuttosto fu fatto morire, molto giovane, non fu a tempo a leggerlo, non che a rispondergli; come si dee credere che arebbe fatto, e conseguentemente tolto a me, il quale suo amicissimo fui, quella fatica la quale or prendere mi conviene. Ma perché questa disputa, la quale pare alla maggior parte malagevolissima, e dubbiosa molto, è da me giudicata piana, ed aperta, non mi parendo che nessuno né debba ragionevolmente, né possa dubitare, ch'ella Fiorentina non sia, e per conseguente Fiorentina chiamare si convenga, voglio che facciamo conto per un poco che niuno infino a qui disputato non n'abbia, acciocché dall'autorità ingannare non ci lasciamo, e cerchiamo solamente colle ragioni qual nome propriamente vero, e legittimo dare le si debbia, non perché a me manchino autorità così di antichi, come di moderni, che piuttosto men'avanzano, come vedrete, ma perché l'autorità, se non sono fondate in sulle ragioni, o nell'esperienza, assai più di tutte le ragioni migliore, possono bene ingenerare alcuna oppenione, ma fare scienza non già. Voglio ancora, non tanto per lo essere io del lungo favellare anzi stanco, che no, quanto perché così giudico più a proposito, mutare per breve spazio l'ordine, e come voi avete dimandato tanto me, così io dimandare un poco voi.
C. Come vi piace, e torna meglio.
V. Sapete voi che cosa genere sia?
C. Credo di sì: il genere è una nozione, cioè un concetto, ovvero predicabile, o volete universale, e insomma una voce la quale si predica, cioè si dice, di più cose, le quali cose sono differenti tra se di spezie, e si predica nel che, cioè essenzialmente, ovvero nella natura, e sostanza della cosa, come questo nome animale, il quale si dice sostanzialmente così degli uomini, come de' cani, e de' cavalli, e di tutte l'altre spezie degli animali, perché così è animale una formica, e una mosca, come un camello, o uno elefante?
V. Buono. E spezie che cosa è?
C. Una voce la quale si predica di più cose, le quali cose sono differenti tra loro non già di spezie, ma solamente di numero, come questo nome uomo, il quale significa Piero, e Giovanni, e Martino, e tutti gli altri uomini particolari, come Dante, il Petrarca, e il Boccaccio, perché tanto è uomo il Bratti ferravecchio, e lo Gnogni, quanto il Gran Turco, e 'l Prete Janni, o volete l'Arcifanfano di Baldacco, e il Semistante di Berlinzone; e questi particolari uomini si chiamano da i loici individui, ovvero singolari, perché non hanno sotto se cosa alcuna nella quale si possano dividere, come i generi nelle spezie, e le spezie negl'individui.
V. Che cosa sono questi individui?
C. Voi mi tentate; che so bene che voi sapete che gl'individui non si possono diffinire, non si potendo diffinire se non le spezie.
V. Anco il genere, e la spezie non si possono diffinire; discrivetemi dunque, o dichiaratemi questo, come avete fatto quegli.
C. Io non saprei altro che dirmi, se non che gl'individui sono quei particolari ne' quali si divide le spezie, come donna Berta, e ser Martino, e nel medesimo modo di tutti gli altri, i quali non sono differenti tra se né di genere, perché così è animale donna Berta, come ser Martino, né di spezie, perché così è uomo donna Berta, come ser Martino, ma solamente di numero, perché donna Berta è uno, e ser Martino un altro, che fanno due.
V. A che si conoscono gl'individui l'uno dall'altro?
C. Sempre trall'uno, e l'altro vi sono alcune differenze accidentali, perché se alcuno arà nome verbigrazia Cesare, come io, egli non sarà da Bologna, e se pure sarà da Bologna, non sarà degli Ercolani, e quando fusse degli Ercolani, non sarebbe figliuolo del Cavaliere mio padre.
V. E se il Cavaliere vostro padre avesse posto nome a tutti i suoi figliuoli Cesare?
C. Gli altri non arebbono tanto tempo, quanto io, il quale fui il primo a nascere, sarebbono diversi o di viso, o d'andare, o di favellare, e finalmente non sarebbono me, né io loro.
V. Quali sono più nobili o i generi, o le spezie, o gl'individui?
C. Gl'individui senza comparazione, se il Betti, e l'eccellentissimo Aldobrando, quando mi lessero la loica, non m'ingannarono; il che di tali uomini creder non si dee; anzi la spezie è più nobile del genere, perché ella s'avvicina più all'individuo; le spezie, e i generi sono seconde sostanze, non sono cose, ma concetti, e non si ritruovauo come tali nelle cose della natura, ma solo nell'intelletto umano, dal quale sono fatte, e formate: dove le prime sostanze, cioè gl'individui sono veramente cose, e tali cose che tutte l'altre o sono in loro, o si predicano di loro, ed esse non sono in nessuna, né di nessuna si predicano.
V. A questa foggia, chi levasse gl'individui del mondo, nell'universo non rimarrebbe cosa nessuna.
C. Nessuna, né l'universo medesimo; sebben pare che Aristotile in un luogo dica il contrario, cioè che, levati i generi, e le spezie, non rimarrebbero gl'individui, ma, levati gl'individui, rimarrebbono le spezie, e i generi, la qual cosa si debbe intendere non dell'esser vero, ma dello intenzionale, come sanno i loici.
V. E' si dice pure che degl'individui, per lo essere eglino sì infiniti, e sì corrottibili, non tratta né arte, né scienza veruna.
C. Egli è il vero: ma egli è anco il vero che tutte l'arti, e tutte le scienze furono trovate dagl'individui, e per gl'individui, soli, perché ciò che si fa, e ciò che si dice, si dice, e si fa dagl'individui, e per gl'individui solamente; conciossiacosaché (come n'insegua Aristotile) gli universali non infermano, e conseguentemente non si medicano, ma i particolari, cioè Socrate, e Callia sono quegli che infermano, e conseguentemente si medicano.
V. Se voi sapete cotesto, voi sapete anco che la lingua della quale ragioniamo, si dee chiamare Fiorentina, e non Toscana, o Italiana.
C. Se io il so, io non so di saperlo.
V. Facciamo a far buon giuochi, e non ingannarci da noi a noi. Se il genere si predica di più spezie, egli non può trovarsi che con lui non si trovino insiememente più spezie; e se la spezie si predica di più individui, ella, senzaché più individui si trovino, trovare non si può. Dunque se la lingua Italiana è genere, come ella è, e come tutti confessano, bisogna di necessità che abbia più spezie, e che ciascuna spezie abbia necessariamente più individui, e che ciascuno individuo abbia alcuna differenza, e proprietà, mediante la quale si distingua, e conosca da ciascuno altro. Oltraché se i generi, e le spezie sono universali, gli universali non sono altro che i particolari stessi, e i singolari medesimi, cioè gl'individui universalmente considerati. Onde è necessario che, trovandosi la lingua Italica come genere, e la Toscana come spezie, si trovino ancora i suoi individui; per non dire che, se ciò che si dice, e ciò che si fa, si fa, e si dice per gl'individui, agl'individui si dee por nome principalmente, e non alle spezie, e a' generi. Se voi mi dimandaste d'alcuna pianta, come ella si chiamasse, e io vi rispondessi albero, o frutto, questa si chiamerebbe cognizione generica, la quale è sempre incerta, e confusa; se vi rispondessi un pero, questa cognizione sarebbe specifica, la quale è anch'ella confusa, e incerta, ma non tanto, quanto la generica; se vi rispondessi un pero del signore, o bergamotto, o piuttosto il tal pero del tal padrone, nel tale orto, colle tali qualità che lo distinguessero da tutti gli altri individui della sua spezie spezialissima, questa si chiamerebbe particolare, cioè vera, e propria cognizione, e solo in questo caso non vi rimarrebbe più che dubitare, e conseguentemente che dimandare. Se un Principe mandasse chiedendo a chicchesia cento animali, e aggiugnesse ancora d'una spezie medesima, non saperrebbe colui, se non in genere, quello che mandare gli dovesse, cioè animali, ma non già se uomini, o cavalli, o pecore; ma se mandasse a chiedere cento uomini, già saperrebbe colui in ispezie che mandargli, ma non già perfettamente, come se dicesse: mandami i tali, e i tali; così né più, né meno a chi dicesse: Dante scrisse in lingua Italiana, s'arebbe a dimandare di qual regione d'Italia; e a chi dicesse: il Petrarca compose il suo Canzoniere in lingua Toscana, s'arebbe a dimandare di qual città di Toscana; ma se dicesse, in Fiorentina, sarebbe fornito il lavoro.
C. In quante regioni, o lingue, e in quali dividono tutta l'Italia?
V. In quattordici; nella Ciciliana, Pugliese, Romana, Spuletina, Toscana, Genovese, Sarda, Calavrese, Anconitana, Romagnuola, Lombarda, Viniziana, Furlana, e Istriana.
C. E ciascuna di coteste regioni non comprende diverse città, e castella?
V. Comprende.
C. E tutte hanno alcuna differenza tra loro nel parlare?
V. Tutte.
C. E di tutte si compone la lingua Italiana secondo loro?
V. Di tutte.
C. Seguitate di dimandar voi; che io per me son bello, e chiaro.
V. Se uno volendovi chiamare per alcun suo bisogno, dicesse, o animale, che direste voi?
C. Che fosse uno animale egli.
V. E se dicesse uomo?
C. Crederrei che non sapesse, o si fosse dimenticato il mio nome.
V. E se, Cesare?
C. Risponderei graziosamente, e bene.
V. Il somigliante accade nella nostra lingua materna; perché chi la chiama Fiorentina, la chiama Cesare, chi Toscana, uomo, chi Italiana, animale; il primo la considera come individuo, il secondo, come spezie, e il terzo, come genere; onde il primo solo la chiama particolarmente, e propriamente, e per lo suo vero, legittimo, e diritto nome. Né per questo niego che le cose, e in ispezialità le lingue, non si possano chiamare, e non si chiamino alcuna volta, dalla spezie, e alcuna ancora dal genere, ma dico, ciò farsi impropriamente, e che cotali cognizioni sono incerte, e confuse, e conseguentemente imperfette. Onde quei filosofi che tenevano che il primo Motore non conoscesse gl'individui, ma solamente le spezie, furono, e sono meritamente ripresi, perché tal confusione, essendo incerta, e confusa, mostrarrebbe in lui, il quale è non perfetto, ma la perfezione stessa, e la cagione di tutte le perfezioni, imperfezione.
C. A me pare che tutti cotesti vostri argomenti siano efficacissimi, ma non già che provino l'intendimento vostro principale.
V. Perché?
C. Perché pruovano bene che le lingue non si debbiano chiamare né dal genere, né dalla spezie principalmen- te, ma dagl'individui; onde io come confesserò che la lingua che si favella in Firenze, si debba chiamare Fiorentina, e non Toscana, o Italiana, così dirò anche che quella che si favella a Siena, o a Pisa, o a Perugia si debbiano chiamare Senese, Pisana, e Perugina, e così di tutte l'altre.
V. Voi direste bene; ma che volete voi per questo inferire?
C. Che se Dante, e gli altri non iscrissero in lingua né Italiana, né Toscana, non perciò seguita che scrivessero in Fiorentino, e non avendo scritto in Fioretitino, la lingua colla quale scrissero, non si potrà, né dovrà chiamare Fiorentina; il che è quello che voi intendevate da principio di voler provare.
V. Oh, ve dove ella l'aveva! se eglino scrissero in lingua o Italiana, o Toscana, o Fiorentina, e voi confessate che non iscrissero né in Toscana, né in Italiana, dunque seguita necessariamente che scrivessero nella Fiorentina.
C. Seguita, e non seguita; seguita a chi vuole andare per la ritta, e considerare solamente la verità: ma a chi vuole camminare per i tragetti, e gavillare, non seguita.
V. Perché?
C. Perché potrebbe dire, loro avere scritto, non vo' dire nella Norcina, né nella Bergamasca, ma nell'Aretina, o nella Sanese, o in alcuna dell'altre, se non d'Italia, di Toscana.
V. Egli si truova bene di coloro che dicono, la lingua Fiorentina essere più brutta dell'altre, come il Vellutello, o meno corretta, come il Muzio; ma niuno si truova che dica, Dante, il Petrarca, e 'l Boccaccio avere scritto in lingua Lucchese, o Pisana, o finalmente in altra lingua che o Volgare, o del Sì, o Cortegiana; delle quali favelleremo poi; o Fiorentina, o Toscana, o Italiana.
C. Se alcuno non l'ha detto, non è che nol potesse dire; e se 'l dicesse, che direste voi?
V. Direi che se il cielo rovinasse, si pigliarebbono di molti uccelli, ma perché egli non rovinerà, non si piglieranno. La ragione vuole che essendo stati tutti e tre Fiorentini, e non essendo Firenze inferiore a nessuna altra città d'Italia, essi scrivessero nella lingua loro bella, e buona, e non nell'altrui, che forse non son tali.
C. La ragione vuole molte volte molte cose, le quali non si fanno poi come vuol la ragione. Chi perseverasse di dire ostinatamente che a loro non parve bella, e buona la lingua Fiorentina, e che scrissero in quella d'Arezzo, o dell'Ancisa, o di Certaldo, e forse di Prato, o di Pistoja, o di San Miniato al Tedesco; che fareste voi?
V. Riderei; benché fossero più degni di compassione che di riso; e voi che fareste?
C. Quel medesimo: ma ditemi, vale questa conseguenza la quale io ho sentito fare a più d'uno? La lingua Fiorentina si favella in Firenze, Firenze è in Toscana, Toscana è in Italia, dunque la lingua Fiorentina è Toscana, e Italiana.
V. Perché non aggiugnere ancora: E l'Italia è in Europa, e l'Europa nel Mondo, dunque la lingua Fiorentina si può chiamare ancora Europea, e Mondana, come diceva Socrate di se stesso. Questa ragione mi par somigliante a quella di quell'uomo dabbene il quale avendo la più bella casa che fosse in via Maggio, diceva d'avere la più bella casa che fosse nel mondo, e lo provava così: Di tutte e tre le parti del mondo l'Europa è la più bella. Di tutte le provincie d'Europa l'Italia è la più bella. Dì tutte le regioni d'Italia la Toscana è la più bella. Di tutte le città di Toscana Firenze è la più bella. Di tutti e quattro i quartieri di Firenze Santo Spirito è il più bello. Di tutte le vie del quartiere di Santo Spirito via Maggio è la più bella. Di tutte le case di via Maggio la mia è la più bella. Dunque la mia è la più bella casa di tutto 'l mondo.
C. Potenza in terra! Questo è un bizzarro argomento; io non vorrei per buona cosa non averlo imparato; ma domin s'e' valesse, ora che s'è ritrovato il mondo nuovo, dove di ragione si debbono trovare di molte maremme? Ma, fuor di baja, perché non vale questa conseguenza: Firenze è in Toscana, e conseguentemente in Italia, dunque la lingua Fiorentina è Toscana, e conseguentemente Italiana?
V. Chi vi dice che ella non vaglia? Non v'ho io detto più volte che la lingua Fiorentina, come spezie è Toscana, e come genere Italiana, siccome voi sete uomo, e animale, e come voi sete anco corpo, e sostanza, così la lingua Fiorentina e ancora d'Europa, e del Mondo; perché tutti i generi superiori infino al generalissimo, il quale è sempre genere, e non mai spezie, si predicano di tutti i generi inferiori, e di tutte le spezie, e di tutti gl'individui.
C. Dunque come Platone si può chiamare e uomo, e animale, e corpo, e sostanza, ma non già all'opposto, così la lingua Fiorentina si potrà chiamare Toscana, e Italiana, e d'Europa, e Mondana.
V. Già ve l'ho conceduto.
C. Dunque dicono il vero coloro che affermano, la lingua Fiorentina essere e Toscana, e Italiana.
V. Il vero.
C. Perché dunque volete voi che ella si chiami Fiorentina?
V. Perché ella è; e l'inganno sta che le cose si debbono chiamare principalmente dagl'individui, e essi le chiamano dalle spezie, e da' generi, come chi chiamasse voi o uomo, o animale, e non Conte Cesare, come propriamente doverebbe.
C. Io sono capacissimo di quanto dite, e conosco che dite vero; ma per nettare tutti i segni, e non lasciare, non che dubbio, sospizione di dubbio, vi voglio di tutto quello che ho sentito addurre in contrario, e di che ho dubitato io, dimandare. Perché dunque, come si dice, comprendendo tutta la provincia, la lingua Franzese, e la lingua Spagnuola, e così dell'altre tali, non si può dire ancora la lingua Italiana?
V. Voi tornate sempre a quel medesimo: chiunque la chiama così, seguita un cotale uso di favellare, e la chiama impropriamente, cioè dal genere; perché voi avete a sapere che in tutta la Francia quanto ella è grande, non è castello alcuno, non che città, o villa a lor modo, nel quale non si favelli diversamente, ma coloro i quali scrivono in Franzese, che oggi non sono pochi, non solo uomini, ma donne ancora, scrivono nella Parigina, come nella più bella, e più regolata, e più atta a rendere onorati i suoi scrittori che alcun'altra. E nelle Spagne avviene il medesimo; anzi vi sono lingue tanto diverse, che non intendono l'una l'altra, e conseguentemente non sono diverse, ma altre, come è quella che da' Vandali, i quali, occuparono già la Spagna, si chiama ancora con vocabolo corrotto Andoluzza. E gran parte della lingua Spagnuola ritiene ancora oggi della lingua de' Mori, da' quali fu posseduta, e signoreggiata poco meno che tutta grandissimo tempo, cioè infinoché 'l Re Ferrando, e la Reina Isabella, di felicissima, e immortale memoria, ne li cacciarono; ma sola la Castigliana v'è in pregio, e in quella, come più leggiadra, e gentile, sono molti, e molto eccellenti scrittori.
C. Il Lazio era pure, ed è, una regione d'Italia, come la Toscana nel quale erano più città, e castella, delle quali, come fu poi del mondo, era capo Roma, e pur la lingua colla quale favellavano, e scrivevano, non si chiamava Romana, ma Latina.
V. Voi lo sapete male. Appresso gli scrittori antichi si truova così sermo Romanus, come sermo Latinus, e auctores Romani, come Latini, e forse più volte. E se nol volete credere a me, udite Quintiliano, il quale avendo fatto, e dato il giudizio degli Scrittori Greci, e volendo fare, e dare quello de' Latini, scrisse nel decimo libro quelle parole: Idem nobis per Romanos quoque auctores ordo ducendus est. E poco di sotto: Adeo ut ipse mihi sermo Romanus non recipere videatur, illam solam concessam Atticis Venerem. Udite il medesimo nell'ottavo: Ut oratio Romana plane videatur, non civitate donata. E Properzio, favellando dell'Eneida, mentre si fabbricava da Vergilio, scrisse: Cedite Romani scriptores, cedile Graii, Nescio quid majus nascitur Iliade. E Marziale, avendo posto tra' suoi un bellissimo, ma disonestissimo epigramma di Cesare Augusto, soggiunse di suo, ma non mica con quella purità, e candidezza di lingua: Absolvis lepidos nimirum, Auguste, libellos, Qui scis Romana simplicitate loqui. E non solamente la chiamavano dalla spezie Latina, ma dal genere Italiana.
C. Questo non sapeva io.
V. Imparatelo da Orazio, che disse nel primo libro de' sermoni nella settima satira: At Græcus postguam est Italo perfusus [aceto Persius exclamat, ec. Che vuole significare altro questa metafora, bagnato d'aceto Italiano, se non tocco, e morso dall'acutezza del parlare Italiano? Imparatelo ancora da Ovidio, il quale scrisse, nel quinto libro di quell'opera che egli intitolò de Tristibus, cioè delle cose meste, e maninconose: Ne tamen Ausonioe perdam commercia [linguæ, Et fiat patrio vox mea tuta sono, Ipse loquor mecum, ec. Chiamavasi ancora appresso i medesimi poeti Romulea da Romulo, come la Greca Cecropia da Cecrope Re degli Ateniesi, e Argolica dalla città d'Argo. Né voglio lasciare di dire che i Romani, servendosi nelle loro guerre de' Latini, gli chiamavano non sottoposti, ma compagni; laonde non fu gran fatto, che per mantenersegli amici accomunassero loro, come già fecero l'lmperio, il nome della lingua.
C. Io ho letto in non so chi de' vostri che i Romani in un certo modo sforzavano i loro sudditi, per ampliare la sua lingua, a favellare Latinamente.
V. Anzi niuna delle terre suddite poteva Latinamente favellare, a cui ciò per privilegio, e speziale grazia stato conceduto non fosse. Udite le parole di Tito Livio nel quarantesimo libro: Cumanis eo anno petentibus permissum ut publice Latine loquerentur, et præligconibus Latine vendendi jus esset. Cotesto che voi dite aver letto fu poi quando la lingua andava in declinazione; e al tempo degli Imperadori; e perché sappiate, tenevano gli antichi così Greci, come Latini, la cosa delle lingue in maggior pregio, e più conto ne facevano che oggi per avventura non si crederebbe. A Pindaro per lo avere egli in una sua canzone lodato incidentemente la città d'Atene fu dagli Ateniesi, oltra molti, e ricchissimi doni, diritto pubblicamente una statua, e avendo inteso che i Tebani suoi cittadini per lo sdegno, o piuttosto invidia presa di ciò, condennato l'aveano, gli mandarono incontanente il doppio più di quello che egli per conto di cotale condennagione era stato constretto a pagare; e io, se stesse a me, conforterei chi può ciò fare, che non solo a' Toscani concedesse, ma eziandio a tutti gl'Italiani il nome della lingua Fiorentina, soloché essi cotal benefizio da lui e dalla sua città di Firenze riconoscere volessero.
C. Cotesto sarebbe ragionevole. Ma ditemi, gl'Italiani non intendono tutti il parlare Fiorentino?
V. Diavol'è; perché volete voi che, se noi non intendiamo i Nizzardi, e alcuni altri popoli d'Italia, essi intendano noi? Udite quello che scrisse il Florido, mortalissimo nemico della lingua Volgare: Nec enim in tota Italia, si hac lingua utaris, intelligere. Quid enim si Apuliam, aut Calabriam concedas, et vernaculo hoc idiomate loquare? nælig omnes te Syrophoeligcenicern, aut Arabem arbitrentur. E poco di sotto soggiugne: Quid si in Siciliam, Corsicam, aut Sardiniam naviges? et vulgarem hanc linguam crepes? non magis mehercule sanus videberis, quam qui insanissimus. Ma ponghiamo che tutti gl'Italiani intendano il parlar Fiorentino, che ne seguirà per questo?
C. Che in tutta Italia sia una medesima lingua naturale.
V. Voi non vi ricordate bene della divisione delle lingue, che vi ricordereste che non basta intendere una lingua, né favellarla ancora, a volere che si possa chiamare lingua natìa; ma bisogna intenderla, e favellarla naturalmente, senza averla apparata da altri, che dalle balie nella culla.
C. Il Castelvetro, il Muzio, e tanti altri confessano, anzi si vantano, d'averla apparata non dalle balie, e dal volgo, ma solamente da' libri.
V. Tutti cotestoro vengono a confessare, o accorgendosene, o non sene accorgendo, che la lingua non è loro.
C. Io dubito che voi vorrete che essi si diano la sentenza contro da se medesimi.
V. Non ne dubitate più; che nelle cose chiare non hanno luogo i dubbj. Dice il Trissino stesso, nella sua Sofonisba avere imitato tanto il Toscano, quanto si pensava dal resto d'Italia potere essere facilmente inteso: dal che seguita, come bene gli mostrò il Martelli, la Toscana lingua essere tanto dall'altre Italiane dissimile, che non è per tutta Italia intesa.
C. Questo è un fortissimo argomento; che gli rispose il Trissino nel suo Castellano?
V. Ne verbum quidem; e che volevate voi ch'egli rispondesse? Ma notate queste parole nelle quali afferma per verissimo tutto quello che io ho detto: E più dirò che quando la lingua si nomina come genere, e a genere comparata, non si può dirittamente per altro che per il nome del genere nominare, come è la lingua Italiana, lingua Spagnuola, lingua Francese, e simili; e quando come specie, e a specie comparata si nomina, si dee per il nome della specie nominare, come è lingua Siciliana, lingua Toscana, lingua Castigliana, lingua Provenzale, e simili; ma quando poi come individuo, e a individuo comparata si nomina, per il nome dell'individuo si dice, come lingua Fiorentina, lingua Messinese, lingua Toletana, lingua Tolosana, e simili, e chi altramente fa, erra.
C. A me pare che egli dica il medesimo appunto che dite voi, o voi appunto il medesimo che dice egli: e dubiterei che non faceste come i ladri; se non negasse che gli antichi non iscrissono, e oggi non si scrive Fiorentinamente, né Toscanamente, ma solo in lingua Italiana, perché lo fece egli?
V. Andate a indovinarla voi; bisognerebbe che fosse vivo, e dimandarnelo; se già non s'ingannò, o volle ingannarsi, nelle cose, e per le ragioni che si diranno; ma considerate quanta forza abbia la verità. Messer Claudio mentreché si sforza di provarla Toscana, e non Fiorentina, la pruova, mediante le sue ragioni, Fiorentina, e non Toscana.
C. Queste mi pajono gran cose in tale, e tanto uomo, chente, e quale lo predicate voi; ma come si pruova che egli faccia il contrario di quello che egli intende di fare?
V. Non voglio che sia creduto a me, ma a Messer Jeronimo Muzio, il quale nella lettera al Signor Rinato Trivulzio dice queste parole: Né voglio lasciare di dire che se quelle città, per parlare piú che l'altre Fiorentinamente, meglio parlano, a me sembra ch'egli ispezialmente si potesse risolvere che ella lingua Fiorentina si dovesse nomi- nare. Che il Dolce ancora, trasportato dalla verità, mentre vuole, farla Toscana, la faccia Fiorentina, udite le parole del medesimo Muzio nella lettera a Messer Antonio Cheluzzi da Colle, dove favellando del Dolce, dice che per le ragioni che egli allega, ella piuttosto si dovrebbe chiamare Fiorentina, che Toscana.
C. Se voi seguitate di così fare, voi non ci metterete troppo di bocca, né di coscienza; ma io vorrei sapere se voi confessate che nella lingua Fiorentina sieno vocaboli, e modi di dire dell'altre città, e lingue di Toscana, e d'Italia; ma innanziché rispondiate, vi do tempo a considerare la risposta, perché questo è forse tutto il fondamento del Trissino, e di molti altri.
V. Non occorre che io la consideri, perché a cotesta parte vi risposi di sopra. quando vi dissi di quanti, e quali linguaggi ella era composta, e ora vi confesso di nuovo che ella ha vocaboli non solo di Toscana, o d'Italia, ma quasi di tutto il mondo.
C. Io mene ricordava, ma voleva vedere se il raffermavate senza la stanghetta; ma poiché raffermato l'avete, vi dico, per un argomento del Trissino, che questa lingua non può chiamarsi né Fiorentina, né Toscana, ma bisogna chiamarla per viva forza, e a marcio dispetto Italiana.
V. Chi ha la verità dal suo, non ha paura d'argomento nessuno; ma quale è questo argomento che voi fate sì gagliardo?
C. Uditelo da lui stesso colle parole sue medesime: Le spezie con altre spezie mescolate non si possono tutte insieme col nome d'alcuna spezie nominare, ma bisogna nominarle col nome del genere; verbigrazia, se cavalli, buoi, asini, pecore, e porci fosseno tutti in un prato, non si potrebbono insieme né per cavalli, né per buoi, né per nessuna dell'altre spezie nominare, ma bisogna per il genera nominargli, cioè animali, che altrimenti vero non si direbbe.
V. Quegli argomenti i quali si possono agevolmente, e senza fatica nessuna abbattere, e mandare per terra, non si deono chiamare né forti, né gagliardi. Io dimando voi, se quei cavalli, buoi, asini, pecore, e porci che fossono a pascere, o a scherzare in su quel prato, fossero di diverse persone, se si potrebbono chiamare d'un padron solo.
C. Rispondetevi da voi; che io non lo direi mai.
V. E se uno gli comperasse tutti, o gli fossero donati da' loro signori, potrebbonsi chiamare d'un solo?
C. E anche a cotesto lascerò rispondere a voi; ma dove volete voi riuscire? E che ha da fare questa dimanda coll'argomento delle pecore, e de' porci del Trissino?
V. Più che voi non credete; perché, come alcuno può far suo quello che è d'altri, così una lingua può, accettandogli, e usandogli, far suoi quei vocaboli che sono stranieri. Vedete errori che commettono otta per vicenda gli uomini grandi! E quanto prudente, e giudiziosamente n'ammaestrò, Aristotile, che da coloro i quali scrivono per mantenere, e difendere una loro oppenione, ci devemo guardare. La lingua Romana era composta non dico per la maggiore, ma per la sua grandissima parte, di vocaboli, e modi di dire Greci, e nientedimeno mai Greca non si chiamò, ma Romana sempre, perché a Roma, e non in Grecia, naturalmente si favellava; e se nol volete credere a me, ascoltate le parole di Quintiliano nel primo libro: Sed hæc divisio mea ad Græcum sermonam præligcipue pertinet, nam maxima ex parte Romanus inde conversus est.
C. Io non so, se io m'avessi creduto questo ad altri che all'autorità di sì grande, e giudizioso uomo, perché si suol dire che il tutto, o la maggior parte tira a se la minore; il che veggo non aver luogo nelle lingue; e ora considero che, se ciò fosse vero, così la Spagna, e la Francia, come Italia, non arebbono lingue proprie. Ma il Trissino usa un altro esempio in volendo mostrare che la lingua non si potrebbe chiamare Fiorentina, quando vi fossero entro non che tante, e tante, ma pur due parole sole forestiere; dicendo che se fra cento Fiorini d'oro fossero due grossi d'argento solamente, non si potrebbe dire con verità, tutti quelli essere fiorini.
V. Gli esempli non mancano mai, ma furono trovati per manifestare le cose, non per provarle, onde non servono a oscurare le chiare, ma chiarire le oscure. Ditemi voi, se quei due grossoni d'argento per forza d'archimia, o arte di maestro Muccio diventassero d'oro, non si potrebbono eglino chiamare poi tutti fiorini?
C. Sì; ma l'arte di maestro Muccio sono bagattelle, e fraccurradi, e l'archimia vera non si truova.
V. Le lingue n'hanno una, la quale è verissima, e senza congelare mercurio, o rinvergare la quinta essenza, riesce sempre; perciocché ogni volta che accettano, e mettono in uso qualsivoglia parola forestiera, la fanno divenire loro.
C. Non si può negare, ma elle non saranno mai così proprie, come le natie.
V. Basta, che elle saranno o come i figliuoli adottivi, che pure sono legittimi, e redano, o come quei forestieri che sono fatti o da' Principi, o dalle Republiche cittadini, i quali col tempo divengono bene spesso degli Anziani, e de' più utili, e più stimati della città. Non sapete voi che per una legge sola d'Antonino Pio tutti gli uomini ch'erano sotto l'Imperio Romano, furono fatti cittadini Romani?
C. Sì so; ma Antonino era Imperatore, e lo poteva fare; dove il Trissino negando ciò della lingua Toscana, non che della Fiorentina, dice queste parole: Dico prima, che io non so pensare per qual cagione la lingua Toscana debba avere questo speciale, ed amplo privilegio di prendere i vocaboli dell'altre lingue, e fargli suoi, e che l'altre lingue d'Italia poi non debbiano avere libertà di prendere i vocaboli d'essa, e fargli loro. Né so rinvenire per che causa le parole che ella piglia dall'altre lingue d'Italia, non debbia- no ritenere il nome della loro propria lingua, dalla quale sono tolte, ma debbiano perderlo, e chiamarsi Toscane. Né mi può ancora cadere nell'animo che i vocaboli che sono a tutte, le lingue comuni, come Dio, amore, cielo, terra, acqua, aere, fuoco, sole, luna, stelle, uomo, pesci, arbore, e altri quasi infiniti, debbiano piuttosto chiamarsi della lingua Toscana, che dell'altre che parimente gli hanno, i quali senza dubbio di niuna lingua d'Italia sono proprj, ma sono comuni di tutte, ec.
V. A tutte e tre coteste, non so con che nome chiamarmele, è agevolissimo il rispondere: perché, quanto alla prima, non è vero che solo alla Toscana, poiché Toscana la chiama, è conceduto questo amplo sì, ma non già speziale, privilegio ma a tutte quante l'altre lingue non pure d'Italia, ma fuori; e se i Vicentini per lor fortuna, o industria, (e così intendo di tutti gli altri popoli) avessono avuto la lor lingua così bella, e così regolata, o l'avessero così regolata, e così bella fatta mediante la dottrina, e l'eloquenza loro, e così nobile mediante i loro scrittori, come si vede essere la Fiorentina, chi può dubitare che ella nel medesimo pregio sarebbe, e il medesimo grido avrebbe che la Fiorentina? La quale se non d'altro, l'ha almeno tolto loro del tratto, o a vostro modo, della mano; e il proverbio nostro dice che Martino perdé la cappa per un punto solo. Quanto alla seconda, è medesimamente non vero che le parole tolte da qualsivoglia lingua, sebbene pigliano il nome di quella che le toglie, non ritengono ancora quello della lingua dalla quale sono tolte; perché Filosofia, Astrologia, Geometria, e tanti altri, sebbene sono fatti, e divenuti della lingua, non è che ella non li riconosca da' Latini, come i Latini gli riconoscevano da i Greci. E che vuol dire che tutto il dì si dice: questa è voce Greca, questo è nome Latino; questo vocabolo è Provenzale, questa dizione si tolse dalla lingua Ebrea, questo modo di dire si prese da' Franzesi, o venne di Spagna?
C. Queste sono cose tanto conte, e manifeste, ch'io non so immaginarmi, non che rinvenire, perché egli le dicesse.
V. E anco avete a sapere che le lingue, e la forza loro non istanno principalmente ne' vocaboli soli, che non significano, si può dir, nulla, non significando né vero, né falso; ma ne' vocaboli accompagnati, e in certe proprietà, e capestrerie (per dir così) delle quali è la Fiorentina lingua abbondantissima; e niuno il quale sia senza passione, negherà che, come la Latina è più conforme all'Eolica, che ad alcuna altra delle lingue Greche, così la Fiorentina è più conforme, e più somigliante all'Attica; e per vero dire, la città di Firenze e quanto alla sottigliezza dell'aria, e conseguentemente all'acume degl'ingegni, e quanto agli ordinamenti, e molte altre cose ha gran somiglianza, e sembiante stella colla città d'Atene. Quanto alla terza, e ultima cosa, cioè alla comunità de' vocaboli, egli è necessario che io per iscoprirvi questo o errore, o inganno, e farvi affatto capace di tutta la verità, mi distenda alquanto. Dovete adunque sapere che il Trissino volendo mostrare ch'egli si trovava una lingua comune a tutta Toscana, e un'altra comune a tutta Italia, e che questa ultima è quella nella quale scrissero Dante, e gli altri buoni Autori, dice, seguitando l'autorità di chiunche si fosse colui il quale compose il libro della Volgare Eloquenza Latinamente, benché egli afferma che fosse Dante, queste parole proprie: perciocché, siccome della lingua Fiorentina, della Pisana, della Sanese, e Lucchese, Aretina, e dell'altre, le quali sono tutte Toscane, ma differenti tra se, si forma una lingua che si chiama lingua Toscana, così di tutte le lingue Italiane si fa una lingua che si chiama lingua Italiana, e questa è quella in cui scrissero i buoni Autori, la quale tra gli altri cognomi si nomina lingua Illustre, e Cortegiana, perciocché, s'usa nelle corti d Italia, e con essa ragionano comunemente gli uomini illustri, e i buoni cortigiani. E in un altro luogo volendo provare il medesimo, allega le medesime parole di quello Autore, ma tradotte così: Questo Volgare adunque, che essere Illustre, Cardinale, Aulico, Cortigiano avemo dimostrato, dicemo esser quello che si chiama Volgare Italiano, perciocché, siccome si può trovare un volgare che è proprio di Cremona, così se ne può trovare uno che è proprio di Lombardia, e un altro che è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia; e siccome tutti questi si ponno trovare, così parimente si può trovare quello che è di tutta Italia; e siccome quello si chiama Cremonese, e quell'altro Lombardo, e quell'altro di mezza Italia, così questo che è di tutta Italia, si chiama Volgare Italiano, e questo veramente hanno usato gl'illustri dottori che in Italia hanno fatto poemi in lingua volgare, cioè i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i Romagnuoli, i Lombardi, e quelli della Marca d'Ancona, e della Marca Trivigiana.
C. Per la medesima ragione, e colla stessa proporzione credo io che egli arebbe potuto dire che si fosse potuto trovare una lingua comune a tutta Europa, e un'altra comune a tutto 'l mondo; ma che ne pare a voi?
V. A me pare che tutte le parole sopraddette siano vane, e finte, e in somma, come le chimere, alle quali in effetto non corrisponde cosa nessuna. Il Trissino medesimo vuole che non solo tutte le città di Toscana, e tutte le castella, e tutte le ville abbiano nel parlare alcuna differenza tra loro; il che è vero; ma eziandio ciascuna via, ciascuna casa, e ciascuno uomo: il che s'è vero, non è considerabile in una lingua, né si dee mettere in conto. Ora io vorrei sapere quando, dove, come, e da chi, e con quale autorità fu formata quella lingua che si chiama lingua Toscana, e così quando, dove, come, e da chi, e con quale autorità di quattordici regioni, ciascuna delle quali ha tante città, tante castella, tanti borghi, tante vie, tante case, e finalmente tanti uomini, tutte, e tutti diversamente parlanti, si formasse quella lingua che si chiama lingua Italiana.
C. E' mi pare di ricordarmi che egli risponda a cotesta obbiezione, faccendo dire a Messer Giovanni Rucellai, Castellano di Castel S. Agnolo, queste parole: Palla mio fratello ha qualche vocabolo, e modo di dire, e pronunzia differente dalla mia, per le quali le nostre lingue vengono ad essere diverse. Rimoviamo adunque quegli vocaboli, e modi di dire, e pronunzie diverse, e allora la sua lingua, e la mia saranno una medesima, e una sola. Così i Certaldesi hanno alcuni vocaboli, modi di dire, e pronunzie differenti da quelli di Prato, e quelli di Prato da quelli di San Miniato, e di Fiorenza, e così degli altri lochi Fiorentini; ma chi rimovesse a tutti le differenti pronunzie, modi di dire, e vocaboli che sono tra loro, non sarebbono allor tutte queste lingue una medesima lingua Fiorentina, e una sola? [FIL. Sì sarebbono. [CAST. A questo medesimo modo si ponno ancora rimuovere le differenti pronunzie, modi di dire, e vocaboli alle municipali lingue di Toscana, e farle una medesima, e una sola, che si chiami lingua Toscana; e parimente rimovendo le differenti pronunzie, modi di dire, e vocaboli che sono tralla lingua Siciliana, la Pugliese, la Romanesca, la Toscana, la Marchiana, la Romagnuola, e l'altre dell'altre regioni d'Italia, non diverrebbono allora tutte una istessa lingua Italiana? FIL. Sì diverrebbono, ec.
V. Questa è una lunga tiritera; e quando io concedessi che ciò fosse possibile a farsi, non perciò seguirebbe che egli fatto si fosse.
C. Basta che, se egli non s'è fatto, si potrebbe fare.
V. Forseché no.
C. Domin fallo, che voi vogliate negare, ciò essere possibile.
V. Non io non voglio negare che sia possibile.
C. Se è possibile, dunque si può fare.
V. Cotesta conseguenza non vale.
C. Come non vale? quale è la cagione?
V. La cagione è, che molte cose sono possibili a farsi, le quali fare non si possono.
C. Questa sarà bene una loica nuova, o una filosofia non mai più udita. Come è possibile che quello che è possibile a farsi, non si possa fare?
V. Ella non è così nuova, né tanto inaudita, quanto voi vi fate a credere, e bisognerebbe che io vi dichiarassi le possibilità, o potenze loice; ma io lo vi farò toccar con mano con uno esemplo chiarissimo per non mi discostare tanto, né tante volte dalla materia proposta. Ditemi, è egli possibile che due uomini, essendo in sulla cupola, o in qualunche altro luogo, e versando un sacco per uno pieno di dadi, è possibile (dico) che quelli d'un sacco caggendo in terra si rivolgessero in guisa, che tutti fossero assi, e quegli di quell'altro tutti sei?
C. È possibile, e niuno può negarlo; credo bene, anzi sono certissimo che non avverrebbe mai; così volete dir voi, potersi chiamare possibile, ma non essere, che di tutte le terre di Toscana, e di tutte quelle d'Italia si rimuovano tutte le pronunzie, tutti i vocaboli, e tutti i modi di dire; e in vero questa cosa si può più immaginare colla mente, o dire colle parole, che mettersi in opera co' fatti: benché quando ancora si potesse fare per l'avvenire, a voi basta che ella non sia stata fatta insin qui. Ma state a udire; egli per provare questo suo detto dice in un altro luogo queste stesse parole: Perciocché, siccome i Greci delle loro quattro lingue, cioè dell'Attica, della Ionica, della Dorica, e dell'Eolica, formano un'altra lingua che si dimanda lingua Comune, così ancora noi della lingua Toscana, della Romana, della Siciliana, della Viniziana, e dell'altre d'Italia ne formiamo una comune, la quale si dimanda Italiana. E della medesima sentenza pare che sia il Castiglione, scrivendo nel primo libro del suo Cortegiano queste parole: Né sarebbe questo cosa nuova, perché delle quattro lingue che avevano in consuetudine i scrittori Greci, eleggendo da ciascuna parole, modi, e figure, come ben lor veniva, ne facevano nascere un'altra che si diceva Comune, e tutte cinque poi sotto un sol nome chiamavano lingua Greca.
V. Quando le ragioni di sopra non militassero, le quali militano gagliardissimamente, a cotestoro risponde il Bembo nel primo libro delle sue Prose con queste parole poste nella bocca di Messer Trifone Gabriele: Che siccome i Greci quattro lingue hanno, alquanto tra se differenti, e separate, delle quali tutte una ne traggono, che niuna di queste è, ma bene ha in se molte parti, e molte qualità di ciascuna; così di quelle che in Roma per la varietà delle genti che, siccome fiumi al mare, vi corrono, e allaganvi d'ogni parte, sono senza fallo infinite, sene genera, ed escene questa che io dico, cioè la Cortigiana. E poco di sotto, volendo ribattere così frivolo argomento, fa che Messer Trifone risponda che oltraché le lingue della Grecia erano quattro, come dicea, e quelle di Roma tante, che non si numerarebbero di leggiere, delle quali tutte formare, e comporne una terminata, e regolata non si potea, come di quattro s'era potuto; le quattro Greche nella loro propria maniera s'erano conservate continovo, il che aveva fatto agevole agli uomini di quei tempi dare alla quinta certa qualità, e certa forma. Voi vedete le lingue Greche non erano se non quattro, e il Bembo a gran pena concede che di loro sene facesse una Comune, pensate come arebbe conceduto che di tutte le lingue Italiane, che sono tante che è un subbisso; poiché il Trissino vuole che ciascuno abbia la sua differenziata da quella di ciascuno altro; come arebbe conceduto, dico, che di tante centinaja di migliaja, e forse di milioni, sene fosse potuto fare una sola? Ma io, che non intendo frodarvi di cosa nessuna, voglio dirvi anco in questo liberamente l'oppenione mia. Io non credo che quello che dicono così grandi uomini, e tanto dotti ancora nelle lettere Greche, sia vero, sebbene hanno ancora dalla parte loro eziandio de' Greci medesimi. Io per me credo che la lingua Comune con solo non nascesse dal mescolamento delle quattro pro- prie, come dicono essi, e per conseguente fosse dopo, e come figliuola loro; ma che ella fosse la base, e il fondamento, e per conseguente prima, e come madre di tutte; e così pare non pur verisimile, ma necessario che sia; perché la Grecia ebbe da principio una favella sola, che si chiamava la lingua Greca, poi dividendosi in più parti, e principalmente in quattro, ciascuna delle quattro o aggiunse, o levò, o mutò alcuna cosa alla lingua comune, onde ne nacquero quelle quattro, le quali si chiamavano non lingue propriamente, ma dialetti, e ciascun dialetto era composto di due parti, cioè della lingua comune, e di quelle proprietà che esse aveano oltra la lingua comune, che si chiamavano propriamente idiomi: sebbene cotali vocaboli talvolta si scambiano, pigliandosi l'uno per l'altro, e l'altro per l'uno. Vedete oggimai voi per quanti versi, e con quante ragioni si mostri chiarissimamente, e quasi dimostri impossibile cosa essere, trovarsi una lingua, la quale sia propriamente o Toscana, o Italiana.
C. Tanto ne pare a me; ma ditemi ancora: un Fiorentino, il quale fosse stato a Lucca, e favellasse mezzo Fiorentino, e mezzo Lucchese, e un altro che fosse stato a Roma, e favellasse mezzo Fiorentino, e mezzo Bergamasco, volli dire Romanesco, in qual lingua direste voi che costoro favellassero?
V. O in nessuna, o in due, o in una sola imbastardita.
C. Il Trissino disse che il primo parlerebbe Toscano, e il secondo Italiano, e così vuol provare che si ritruovino la lingua Toscana, e l'Italiana.
V. Gentil pruova; io so bene che già in non so qual terra di Cicilia si favellava mescolatamente, e alla rinfusa Greco, e Latino, e oggi in Sardigna, o in Corsica, che si sia, da alcuni si favella volgarmente il meglio che possono, e da alcuni più addentro dell'Isola Latinamente il meglio che sanno. Ma le lingue mescolate, e bastarde, che non hanno parole, né favellari, proprj non sono lingue, e non sene dee far conto, né stima nessuna, e chi vi scrivesse dentro sarebbe uccellato, e deriso, se già nol facesse per uccellare egli, e deridere altri; come fece quel nuovo pesce che scrisse ingegnosissimamente in lingua Pedantesca, che non è né Greca, né Latina, né Italiana, la Glottocrisia contra Messer Fidenzo.
C. Quando io la lessi, fui per ismascellare delle risa. Ma Dante scrisse pure la canzone in lingua trina.
V. Alcuni dicono che ella non fu di Dante; ma fosse di chi si volesse, ella non è stata, e non sarà gran fatto imitata.
C. Avete voi esemplo nessuno alle mani, mediante il quale si dimostrasse così grossamente ancora agli uomini tondi, che Dante, e gli altri scrissero in lingua Fiorentina?
V. Piglinsi le loro opere, e leggansi alle persone idiote, e per tutti i contadi di Toscana, e di tutta Italia, e vedrassi manifestamente che elle saranno di gran lunga meglio intese in quegli di Toscana, e particolarmente in quello di Firenze, che in ciascuno degli altri; dico non quanto alla dottrina, ma quanto alle parole, e alle maniere del favellare.
C. Messer Lodovico Martelli usò cotesto argomento proprio contra il Trissino; ma egli nel Castellano lo niega, affermando che le donne di Lombardia intendeano meglio il Petrarca, che le Fiorentine; che rispondete voi?
V. Che egli scambiò i dadi; ma come colui che non devea essere troppo solenne barattiere, non lo fece di bello, ma sì alla scoperta, che ogni mezzano non dico mariuolo, o baro, ma giucatore l'arebbe conosciuta, e fattogli rimettere su i danari. Il Martello intende naturalmente e degl'idioti, e de' contadini, e il Trissino piglia le gentildonne, e quelle che l'aveano studiato; che bene gli arebbe, secondoché io penso, conceduto il Martello che più s'attendeva; e massimamente in quel tempo, alla lingua Fiorentina in Lombardia, e meglio s'intendea da alcuno particolare, che in Firenze comunemente. Ma facciasi una cosa, la quale potrà sgannargli tutti; piglinsi scritture o in prosa, o in, verso scritte naturalmente, e da persone idiote di tutta Italia, e veggasi poi, quali s'avvicinano più a quelle de' tre maggiori nostri, e migliori; o sì veramente coloro che dicono che la lingua è ltaliana, scrivano o in verso, o in prosa, ciascuno nella sua propria lingua natìa, e allora vedranno qual differenza sia dall'una all'altra, e da ciascuna di loro a quelle eziandio degl'idioti Fiorentini, ancora quando scrivono, o dicono all'improvviso. Io non voglio por qui gli esempli d'alcuni componimenti che io ho di diverse lingue Italiane, sì per non parere di voler contraffare in cosa non necessaria i Zanni, e sì perché io credo che ciascuno s'immagini, e vegga coll'animo quello che io non dicendo mostro per avventura meglio, che se io lo dicessi.
C. Ciascun bene non è egli tanto maggiore, quanto egli maggiormente si distende?
V. E'.
C. Non è più nobile il tutto, che una sua poca parte?
V. E'.
C. Non è maggior cosa, e più onorata esser Re di tutta Italia, che Signor di Toscana, e di Firenze?
V. E'.
C. Per tutte e tre queste ragioni vuole il Muzio che la lingua si debbia piuttosto chiamare Italiana, che Toscana, o Fiorentina.
V. Quanto alla prima vi rispondo che sarebbe bene che tutti gli uomini fossero buoni, e virtuosi, ma per questo non segue che siano; se fosse bene che la lingua Fiorentina si distendesse per tutta Italia, e a tutti fosse natìa, non voglio disputare ora; ma ella non è. Quanto alla seconda, egli è ben vero che Firenze è picciola parte di Toscana, e menomissima d'Italia, come d'un tutto, e conseguentemente meno nobile di loro: ma la lingua Fiorentina, la quale è accidente, non è parte della lingua Toscana, né dell'Italiana, come d'un tutto, ma come d'una spezie, e d'un genere; e voi sapete quanto gl'individui anco- ra degli accidenti, i quali se sono in alcuno subbietto, non si predicano di sulbbietto alcuno, sieno più nobili che le spezie, e i generi non sono, le quali, e i quali non si ritruovano altrove che negli animi nostri. Quanto alla terza, ed ultima, maggior cosa per me sarebbe, e più onorata che io fossi Conte, o qualche gran Barbassoro, ma se io non sono, non debbo volere chiamarmi, o essere chiamato per non mentire, e dar giuoco alla brigata, come farebbe se uno che fosse Re di Toscana sola, si chiamasse o volesse essere chiamato Re d'Italia.
C. Ma che rispondete voi a quello esemplo che egli allega nelle lettere a Messer Gabriello Cesano, e a Messer Bartolomeo Cavalcanti con queste parole? A me pare che nella Toscana sia avvenuto quello che suole avvenire in quei paesi dove nascono i vini più preziosi, e che i mercatanti forestieri i migliori comperando, quegli se ne portano, lasciando a' paesani i men buoni: così, dico, è a quella regione avvenuto, che gli studiosi della Toscana lingua dall'altre parti d'Italia ad apprender quella concorrono, in maniera che essi con tanta leggiadria la recano nelle loro scritture, che tosto tosto potremo dire che la feccia di questo buon vino alla Toscana sia rimasa.
V. Risponderei, se egli intende che in Firenze non si favelli meglio che in ciascuna di tutte l'altre città d'Italia, e di Toscana, ciò non esser vero; ma se egli intende che si trovino de' forestieri, i quali non solamente possano scrivere, ma scrivano meglio de' Fiorentini, cioè alcuno forestiero, d'alcuno Fiorentino, lo confesserò senza fune. Dico di Firenze, e non di Toscana, perché egli nella medesima lettera testimonia che tutto quello che egli dice di Toscana, dice ancora conseguentemente di Firenze, e a ogni modo quell'esemplo non mi piace, perché non mi pare né vero, né a proposito; e volentieri intenderei da lui, il quale io amo, ed onoro, e spenderei ancora qualcosa del mio, se quel tosto tosto s'è ancora adempiuto, e ve- rificato, e chi coloro sieno, i quali adempiuto, e verificato l'hanno.
C. Che vi pare della Lettera al Signor Rinato Trivulzio contra l'oppenione di Messer Claudio?
V. Che egli non la scrisse né con quel giudizio, né con quella sincerità che mi suol parere ch'egli scriva l'altre cose.
C. Per quali cagioni?
V. Non importando elle alla verità della nostra disputa, non accade che io le vi racconti, e tanto più che io intendo non di quelle che appartengono alla dottrina, nelle quali non approvo né l'una, né l'altra, ma al modo, e modestia dello scrivere.
C. Se io m'appongo di due, o di tre confesserete voi?
V. Perché no?
C. Io penso che non vi piacciano quelle parole. E già detto vi ho che egli è cosa stata scritta da un Toscano: né quell'altre poco di sotto: Vi dirò adunque con più parole quello che con un solo motto a me pareva d'avere a bastanza espresso; e manco quell'altre, giucando pure sopra il medesimo tratto: Or che vene pare infino a qui? Non mi sono io bene risoluto che un Toscano abbia scritto quel libretto?
V. Voi vi sete apposto; perché non so che conseguenza si sia: un Toscano ha scritto della lingua Toscana, e Italiana, e ha giudicato in favore della Toscana; dunque ha giudicato o male, o con passione. A questo ragguaglio né gli Ateniesi, né i Romani, né alcuno altro popolo arebbono potuto scrivere delle lingue loro in comparazione dell'altre, se non o male, o con passione. Che più? Il Muzio è Italiano, e ha scritto in favore della lingua Italiana contra la Toscana; dunque ha scritto male, o con passione.
C. Anco quello esemplo di Dio, che ne' cieli sparga le grazie all'Intelligenze, non crede che vi piaccia, né che vi paja troppo a proposito, e che vi stia anzi a pigione, che no.
V. Ben credete.
C. Né anco che egli dica che Pistoja non è stata compresa da Messer Claudio in Toscana, credo che vi soddisfaccia.
V. Non certo, conciossiacosaché Messer Claudio la comprende, se non nominatamente, almeno senza dubbio nessuno in quelle parole: E l'altre vicine; sicché l'autorità di Messer Cino non ha da dolersi. Ma entriamo in cose di maggiore utilità; che io riprendo mal volentieri i nimici, e le persone idiote, non che gli uomini dotti, e amicissimi miei.
C. Venghiamo dunque; ch'omai n'è ben tempo; alle autorità che allegano per la parte loro.
V. Quali sono?
C. Dante primieramente la chiama spesse fiate Italiana, o Italica, sì nel Convivio, e sì massimamente nel libro della Volgare Eloquenza.
V. Quanto al Convivio, Messer Lodovico Martelli risponde che egli così larghissimamente la nomina, quasi a dimostrare dove è il seggio d'essa, ovvero che egli s'immagina che dicendo l'Italica lingua, s'intenda quella lingua, la quale è Imperatrice di tutte l'Italiane favelle. Ma perché queste sono oppenioni solo da semplici congetture procedenti, io direi piuttosto che egli la chiamò così dal genere; il che esser vero, o almeno usarsi, dimostrammo di sopra; e massimamente che Dante stesso nel medesimo Convivio dice più volte d'avere scritto ora nella sua naturale, e ora nella sua propria, e ora nella sua prossimana, e più unita loquela; e si vede chiaro ch'egli intende, della Fiorentina, come mostrano Messer Lodovico, e Messer Claudio, ancoraché 'l Trissino lo nieghi. E chi vuole chiarirsi, e accertarsi di manieraché più non gli rimanga scrupolo nessuno, legga il nono, il decimo, l'undecimo, il dodicesimo, e tredicesimo capitolo del Convivio. E chi vuole credere piuttosto al Boccaccio, che a Dante proprio, legga il XV. libro delle Genealogie sue, dove egli dice, benché Latinamente, che Dante scrisse la sua Commedia in rime, e in idioma Fiorentino; e il medesimo Boccaccio nella Vita di Dante dice espressamente che egli cominciò la sua Commedia in idioma Fiorentino, e compose il suo Convivio in Fiorentin Volgare: e Dante stesso scrisse nel X. Canto dell'Inferno d'essere stato conosciuto da Farinata per Fiorentino solamente alla favella, dicendo: O Tosco, che per la città del foco Vivo ten vai così parlando onesto, Piacciati di restare in questo loco: La tua loquela ti fa manifesto Di quella nobil patria natìo Alla qual forse fui troppo molesto. Dove si conosce manifestamente ch'egli distingue la loquela Fiorentina da tutte l'altre; ed è da notare che egli disse prima Tosco per la spezie, poi discende all'individuo per le cagioni dette di sopra lungamente, e nel trentatreesimo fa dire al Conte Ugolino queste proprie parole: Io non so chi tu sie, né per che modo Venuto se' quaggiù, ma Fiorentino Mi sembri veramente, quand'i' t'odo. Non dice né Italiano, né Toscano, ma Fiorentino, e nel venzettesimo distinse il Lombardo dal Toscano: Udimmo dire: O tu, a cui io drizzo La voce, che parlavi mo Lombardo Dicendo: Isso ten va, più non t'aizzo. Quanto all'autorità del libro de Vulgari Eloquio, già s'è detto, quell'opera non essere di Dante, sì perché sareb- be molte volte contrario a se stesso, come s'è veduto, e sì perché tale opera è indegna di tanto uomo. E chi crederà che Dante chiamando i Toscani pazzi, insensati, ebbri, e furibondi, perché s'attribuiscono arrogantemente il titolo del Volgare illustre, voglia provare tante cose, e mostrare che niuna città di Toscana ha bel parlare con due parole sole, dicendo così: I Fiorentini parlano, e dicono: Manichiamo, introcque non facciamo altro; i Pisani: Bene andomio gli fanti di Fiorenza per Pisa; i Lucchesi: Fo voto a Dio, che ingassaria cielo comuno di Lucca; i Sanesi: Onche rinegato avessi io Siena; gli Aretini: Vuo tu venire ov'elle.
C. Oltraché io credo che queste parole siano scorrette, e mal tradotte, queste mi pajon cose che se pure fossero state scritte da lui, non sarebbono sue, come diceste voi.
V. Ditemi che egli stesso usa quelle medesime parole che egli biasima, e riprende ne' Fiorentini, dicendo in una canzone: . . . . . Ch'ogni senso Cogli denti d'Amor già si manduca. e nella Commedia: Noi parlavamo, e andavamo introcque.
C. Quanto al Petrarca, quando vogliono mostrare ch'egli stesso confessa d'avere scritto in lingua Italiana, allegano questi versi: Del vostro nome, se mie rime intese Fusser sì lunge, avrei pien Tile, e Battro, La Tana, il Nilo, Atlante, Olimpo, e Calpe. Poiché portar nol posso in tutte quattro Parti del mondo, udrallo il bel paese Ch'Appennin parte, e 'l mar circonda, e l'Alpe. Il bel paese partito dall'Appennino, e circondato dal mare, e dall'Alpe non è né Firenze, né Toscana, ma Italia; dunque la lingua, colla quale il Petrarca scrisse, non è né Fiorentina, né Toscana, ma Italiana.
V. Messer Agnolo Colozio, uomo di gran nome, quando insegnò, questo colpo al Trissino, non si devette ricordare, questo argomento non valere: questa lingua s'intende in Italia, dunque questa lingua è Italiana; perché la lingua Romana s'intendeva in Francia, e in Ispagna, e non era per questo né Spagnuola, né Franzese; e il meglio sarebbe stato che il Petrarca cercando d'acquistar grazia da Madonna Laura avesse detto: poiché io non posso portare il nome vostro in tutto 'l mondo, io farò sì, che egli sarà udito nel contado, e distretto dì Firenze, o nelle maremme di Pisa, e di Siena.
C. Ella, sarebbe stata delle sei; ma eglino allegano ancora quel verso de' Trionfi: Ed io al suon del ragionar Latino. sponendo Latino, cioè Volgare Italiano.
V. Il Dolce dice che il Petrarca intende in cotesto luogo l'antica lingua Latina, e non la moderna Volgare, della quale niuna cognizione Seleuco avere poteva, e quando avesse inteso della Volgare, l'arebbe nominata pel genere; il che si concede talvolta a' prosatori, non che a' poeti.
C. Che risponderebbono eglino a quel Sonetto del Petrarca? S'io fussi stato fermo alla spelunca Là dov'Apollo diventò profeta, Fiorenza avria forse oggi il suo poeta, Non pur Verona, Mantova, ed Arunca.
V. Risponderebbono, come fa il Muzio, che egli intende delle sue opere non Volgari, ma Latine, le quali egli stimava più, e chiamava quelle ciance.
C. Perché non dell'une, e dell'altre? Quasi Catullo, e gli altri nobili poeti non chiamino i lor componimenti per modestia, o per un cotale uso, ciance: e io per me, poiché egli scrisse ciò Volgarmente, e non Latinamente, credo che egli intendesse piuttosto delle Volgari, che delle Latine.
V. Ognuno può tirare queste cose dove egli vuole, e interpetrarle secondoché meglio gli torna.
C. Del Boccaccio non credo io che nessuno dubiti, dicendo egli da se nel proemio della quarta giornata chiarissimamente, che ha scritto le sue Novelle in Volgare Fiorentino.
V. Anzi sì; Messer Claudio disse così non perché egli non iscrivesse in lingua Toscana, ma perché le donne che egli introduceva a parlare; erano tutte Fiorentine.
C. Questo è un pazzo mondo.
V. Pazzo è chi gli crede; e il Trissino per abbattere questa autorità con un'altra del medesimo Boccaccio, quasi botta risposta, allega questi versi nel fine della Teseide: Ma tu, o libro primo, alto cantare Di Marte fai gli affanni sostenuti Nel volgar Lazio mai più non veduti; i quali ne' libri stampati si leggono così: Ma tu, mio libro primo, a lor cantare Di Marte fai gli affanni sostenuti Nel volgare, e Latin non più veduti. Del che par che seguiti che la lingua si possa chiamare ancora per lo nome d'Italia; il che non si niega, anzi è necessario così fare, quando si vuol nominare pel genere. Vedete ora se mi mancano, o m'avanzano autorità; e quando per autorità avesse a valere, io direi del Bembo, come Marco Tullio di Catone.
C. Io mi fo gran maraviglia che allegando il Bembo tante volte, e tanto indubitatamente, non solo che Dante, il Petrarca, il Boccaccio, e gli altri buoni, autori scrissero nella lingua Fiorentina anticamente, ma ancora che tutti coloro, i quali, oggi scrivono leggiadramente, scrivono in lingua Fiorentina, e che la Fiorentina a tutti gli altri Toscani, e italiani è straniera, coloro che tengono altramente, e vogliono sostenere la contraria parte, non facciano mai menzione alcuna di lui, come se non fosse stato al mondo, e non fosse stato il Bembo, cioè compito, e fornitissimo di tutte le virtù.
V. Così si vive oggidì: anzi Messer Claudio l'induce nel suo dialogo a tenere, e difendere che ella si debba chiamare Volgare; il che non so quanto sia lodevole, e tanto più essendoci di mezzo gli scritti suoi. Anche Messere Sperone pare che faccia che il Bembo la chiami Toscana; onde se il suo libro delle Prose non si trovasse, potrebbe credere ciascuno, ancora il Bembo essere stato nella comune erranza, e oppenione, non si trovando nessuno di quegli che ho letto io, il quale la chiami assolutamente, e risolutamente per lo suo proprio, vero, legittimo, e diritto nome, cioè Fiorentina, se non egli; della quale veramente verissima, e liberalissima testimonianza gli debbe avere non picciolo, e perpetuo obbligo il comune, e tutta la città di Firenze.
C. Ditemi ora perché a voi non dispiace che ella si chiami Volgare, come fa alla maggior parte degli altri.
V. Perché tutte le lingue che si favellano, sono Volgari; e la Greca, e la Latina, mentre si favellavano, erano Volgari; e il volgo, onde ell'è detta, nel fatto delle lingue non solo non si dee fuggire, ma seguitare, come coll'autorità di Platone vi mostrai poco fa. Oltracciò avete a sapere che Dante, e gli altri Antichi nostri la chiamarono Volga- re, avendo rispetto non al volgo, ma alla Latina, che essi chiamavano Grammaticale, onde tutte le lingue che non sono Latine, o Grammaticali, si chiamavano, e si chiamano Volgari; e vedete che oggi anco la Greca, perché non è più quale era, si chiama Volgare. Devete ancora sapere che quanti sono i volgi che parlano diversamente, tanti sono i Volgari; onde altro è il Volgare Fiorentino, e altro quello di Siena; benché essendo oggi Firenze, e Siena sotto un Prencipe medesimo, potrebbono questi due Volgari, con qualche spazio di tempo, divenire un solo. E perché anco la Franzese, e la Spagnuola, e tutte le altre che oggidì si favellano, sono Volgari, vogliono alcuni che quando si dice Volgare senza altra aggiunta, s'intenda per eccellenza del Fiorentino.
C. Cotesto non è fuor di ragione; ma chi la chiamasse la lingua del Sì?
V. Seguiterebbe una larghissima divisione che si fa delle lingue nominandole da quella particella, colla quale affermano, come è la lingua d'hoc, chiamata da' Volgari lingua d'oca, perciocché hoc in quella lingua tanto significa, quanto __´_ nella Greca, ed etiam, o ita nella Latina, e nella nostra sì: e perciò Dante disse: Oh Pisa vituperio delle genti Del bel paese là dove 'l Sì suona, ec.
C. Il Castelvetro, e molti altri che non sono Fiorentini, né Toscani, la chiamano spesse volte la lingua loro, dicendo nostra: giudicate voi che possano farlo?
V. Che legge, o qual bando è ito che lo vieti loro? E se nol potessono fare, come lo farebbono? E, per dirvi da dovero l'oppenione mia, tutti coloro che si sono affaticati in apprenderla, e l'usano, crederei io che potessero, se non così propriamente, in un certo modo chiamarla loro, e che i Fiorentini non solo non dovessero ciò recarsi a male, ma ne avessero loro obbligo, e negli ringraziassero, perché le fatiche, e opere loro non sono altro che trofei, e onori di Firenze, e nostri.
C. Perché non volete voi che ella si chiami Cortigiana?
V. Perché questa fu una oppenione del Calmeta, il quale era il Calmeta, e fu riprovata con efficacissime ragioni prima dal Bembo, e poi dal Martello, poi dal Muzio, e poi da Messer Claudio, e brevemente, da tutti coloro che fanno professione, e sono intendenti delle cose Toscane.
C. Resta per ultimo che mi diciate quale è stata la cagione che i Fiorentini, essendo veramente padroni, e giustamente signori di così pregiata, e onorata lingua, come voi, secondo quel poco che so, e posso giudicare io, avete non pure mostrato, ma, per quanto comporta la materia, dimostrato, l'abbiano quasi perduta, e i forestieri sene siano poco meno che insignoriti; perciocché in tutti gli scritti che vanno attorno così Latini, come Volgari, dovunque, e quantunque occorre di nominarla, si chiama spessissime volte Italiana, e spesse Toscana, ma Fiorentina radissime, e piuttosto non mai; è ciò proceduto dalla negligenza de' Fiorentini, o dalla diligenza de' forestieri? Chiamo forestieri così i Toscani, come gl'Italiani per distinguergli dai Fiorentini.
V. Dall'una cosa, e dall'altra; perciocché la sollecitudine de' forestieri per doversi acquistare così alto dono non è stata picciola, e la trascuraggine de' Fiorentini in lasciarlosi torre è stata grandissima.
C. Nasceva ciò dal non conoscerlo, o dal non pregiarlo?
V. Così da questo, come da quello; conciossiacosaché i letterati uomini ammirando, e magnificando le lettere Greche, e le Latine, onde potevano sperare di dover trarne e onori, e utili, dispregiavano co' fatti, e avvilivano le Volgari come disutili, e disonorate: e gl'idioti non le conoscendo; e veggendole dispregiare, e avvilire da coloro, i quali credevano che le conoscessero, non potevano né amarle, né stimarle; di manieraché tra per questo, e per le mutazioni, e rovine della città di Firenze, era la cosa ridotta a termine che, se per ordinamento de' cieli non veniva il Duca Cosimo, si spegnevano in Firenze insieme colle scienze non pur le lettere Greche, ma eziandio le Latine; e le Volgari non sarebbero risorte, e risuscitate come hanno fatto. Ma egli dietro il lodevolissimo, e lodatissimo esempio de' suoi onorabilissimi, e onoratissimi Maggiori in verdissima età canutamente procedendo, oltra l'avere in Firenze con ampissimi onori, e privilegj due Accademie, una pubblica, e l'altra privata, ordinato, riaperse dopo tanti anni lo Studio Pisano, nel quale i primi, e più famosi uomini d'Italia in tutte l'arti liberali con grossissimi salarj in brevissimo tempo condusse, affinché così i forestieri, come i Fiorentini che ciò fare volevano, potessero insieme con tutte le lingue tutte le scienze apprendere, e apparare. E di più perché molti acuti ingegni del suo nobilissimo, e fioritissimo Stato dalla povertà rintuzzati non fossono, anzi potessero anch'essi mediante l'industria, e lo studio loro a' più eccelsi gradi de' più sublimi onori innalzarsi, instituì a sue spese con ordini maravigliosi un solennissimo Collegio nella Sapienza stessa; le quali comodità, piuttosto sole che rare in questi tempi, e piuttosto divine che umane, sono state ad infiniti uomini, e sono ancora, e sempre saranno d'infiniti giovamenti cagione. Laonde io per me credo, anzi tengo per certissimo, che quanto durerà il mondo, tanto dureranno le lodi, e gli onori, e conseguentemente la vita del Duca Cosimo. E nel vero la somma prudenza, la singulare giustizia, e l'unica di lui....
C. Se voi sapete che in tutto è orbo chi non vede il Sole, non entrate ora in voler raccontarmi quelle cose, le quali sono per se più che chiarissime, e notissime a ciascheduno, non che a me, che l'ammiro, ed osservo quanto sapete voi medesimo; ma piuttosto, posciaché i Fiorentini sono con quella sicurtà che si corrono le berrette a' fanciulli zoppi, stati spogliati del nome della lor lingua, ditemi, se ciò è avvenuto loro o per forza, o di nascoso, o pur per preghiere.
V. In nessuno di cotesti tre modi propriamente.
C. Dunque non hanno che proporre interdetto nessuno, mediante il quale possano per la via della ragione ricuperarne la possessione, ed essere di tale, e tanto spoglio reintegrati.
V. Io non ho detto che siano stati assolutamente, ma quasi poco meno che spogliati; e voi pur sapete che le possessioni delle cose ancora coll'animo solo si ritengono.
C. Se dicessero che i Fiorentini non curando, anzi dispregiando la lor lingua, se ne fossero spodestati da se medesimi, e che le cose, le quali s'abbandonano, non sono più di coloro, i quali per qualunque cagione, per non più volerle, l'hanno per abbandonate, ma di chiunche le truova, e se le piglia, che rispondereste voi?
V. Che dicessero quasi il vero, e che a gran parte de' Fiorentini fosse bene investito; se non che la lingua è comune a tutti, cioè a ciascuno; e in Firenze sono stati d'ogni tempo alcuni, i quali l'hanno pregiata, e riconosciuta, e voluta per loro.
C. E se dicessero d'averla prescritta, o usucatta colla lunghezza del tempo, cioè fattola loro col possederla lungamente, che direste?
V. Che producessero testimonianze fedeli, e pruove autentiche maggiori d'ogni eccezione, prima, d'averla posseduta pacificamente senza essere stata interrotta la prescrizione, e in oltra, che mostrassino la buona fede, e con che titolo posseduta l'avessero; e all'ultimo bisogno, quando pure le cose pubbliche, e comuni prescrivere col tempo, o pigliare coll'uso si potessero, allegherei insieme con quella delle XII. Tavole la legge Attilia (per tacere quella di Lucio, e di Plauzio).
C. Voi non avete da dubitare che si venga a questo; e perciò, lasciato questa materia dall'una delle parti, disidero che mi narriate alcuna cosa dell'Accademia, nella quale intendo che furono sì gran tempo tante discordie, e così gravi contenzioni.
V. Questo non appartiene al ragionamento nostro; elle furono tali che colle parole di Vergilio, o piuttosto della Sibilla, vi dico, ne quaere doceri.
C. Ditemi almeno; il che al ragionamento nostro si conviene; se ella ha giovato, o nociuto alla lingua Fiorentina.
V. Come non si può negare che l'Accademia le abbia giovato molto, così si dee confessare da chi non vuole uccidere il vero, che alcuni dell'Accademia le abbiano nociuto non poco.
C. Chi sono cotesti Accademici?
V. Che avete voi a fare de' nomi? Non basta (come disse Calandrino) sapere la virtù? Costoro; il numero de' quali, se arrivava, non passava quello delle dita che ha nell'una delle mani ciascuno uomo; mentreché con buona volontà; che così voglio credere; ma non forse con pari giudizio, cercavano (siccome stimo io) d'acquistarle benevolenza, e riputazione, l'hanno fatta divenire e appresso i Fiorentini, e appresso i forestieri parte in odio, e parte in derisione.
C. In che modo, e per quali cagioni?
V. Ragioneremo di cotesto più per agio, e a miglior proposito. Bastivi di sapere per ora che dalle costoro scritture, nelle quali non era osservanza di regole, e pareva che il principale intendimento loro non fosse altro che biasimare il Bembo, chiamandolo ora invidioso, ora arrogante, ora prosuntuoso, e talvolta con altri nomi somiglianti, presero i forestieri argomento, e si fecero a credere che in Firenze non fosse né chi sapesse la lingua Fiorentina, né chi curasse di saperla; donde nacque...... Voleva il Varchi seguitare più oltra quando Don Silvano Razzi, già Messer Girolamo Razzi, Monaco degli Agnoli, tutto trafelato comparse quivi, e così trambasciato disse che il Reverendissimo Padre Don Antonio da Pisa Generale dell'Ordine di Camaldoli, e 'l Reverendo Don Bartolomeo da Bagnacavallo Priore del Munistero degli Agnoli erano addietro, che venivano per istarsi due giorni con Messer Benedetto. Il perché riserbando il favellare dello scrivere a un'altra volta, discendemmo subitamente tutti e tre per andare ad incontrare Sue Reverenze. E così ebbe fine innanzi al fine il Ragionamento delle Lingue.

DISCORSO OVVERO DIALOGO SOPRA IL NOME DELLA LINGUA VOLGARE
Discorso ovvero Dialogo In cui si esamina se la lingua in cui scrissero Dante, il Boccaccio, e il Petrarca, si debba chiamare italiana, toscana, o fiorentina.
SEMPRECHÉ io ho potuto onorare la patria mia, eziandio con mio carico e pericolo, l'ho fatto volentieri, perché l'uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l'essere, e dipoi tutto quello che di buono la fortuna, e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene ad essere maggiore in coloro che hanno sortito patria più nobile. E veramente colui il qual coll'animo, e coll'opera si fa nimico della sua patria, meritatamente si può chiamare parricida, ancoraché da quella fosse suto offeso. Perché se battere il padre, e la madre per qualunque cagione è cosa nefanda, di necessità ne segue, il lacerare la patria essere cosa nefandissima, perché da lei mai si patisce alcuna persecuzione per la quale possa meritare di essere da te ingiuriata, avendo a riconoscere da quella ogni tuo bene; talché se ella si priva di parte de' suoi cittadini, sei piuttosto obbligato ringraziarla di quelli ch'ella si lascia, che infamarla di quelli ch'ella si toglie. E quando questo sia vero, che è verissimo, io non dubito mai d'ingannarmi per difenderla, e venire contro a quelli che troppo presuntuosamente cercano di privarla dell'onor suo. La cagione perché io abbia mosso questo ragionamento, e la disputa nata più volte ne i passati giorni, se la lingua nella quale hanno scritto i nostri poeti, ed oratori Fiorentini, è Fiorentina, Toscana, o Italiana. Nella qual disputa ho considerato come alcuni meno inonesti vogliono ch'ella sia Toscana, alcuni altri inonestissimi la chiamano Italiana, ed alcuni tengono che ella si debba chiamare al tutto Fiorentina; e ciascuno di essi si è sforzato di difendere la parte sua in for ma, che restando la lite indecisa, mi è paruto in questo mio vendemmial ozio scrivervi largamente quello che io ne senta, per terminare la quistione, o per dare a ciascuno materia di maggior contesa. A volere vedere adunque con che lingua hanno scritto gli scrittori in questa moderna lingua celebrati, delli quali tengono senza discrepanza d'alcuno il primo luogo Dante, il Petrarca, ed il Boccaccio, è necessario mettergli da una parte, e dall'altra tutta Italia, alla qual provincia per amore (circa la lingua) di questi tre pare che qualunque altro luogo ceda, perché la Spagnuola, e la Franzese, e la Tedesca è meno in questo caso presontuosa, che la Lombarda. È necessario, fatto questo, considerare tutti li luoghi d'Italia, e vedere la differenza del parlar loro, ed a quelli dare più favore che a questi scrittori si confanno, e concedere loro più grado, e parte in quella lingua, e se voi volete, bene distinguere tutta Italia, e quante castella, non che città, sono in essa; però volendo fuggire questa confusione, divideremo quella solamente nelle sue provincie, come Lombardia, Romagna, Toscana, Terra di Roma, e Regno di Napoli. E veramente se ciascuna di dette parti saranno bene esaminate, si vedrà nel parlare di esse grandi differenze; ma a volere conoscere donde proceda questo, è prima necessario vedere qualche ragione di quelle che fanno che infra loro sia tanta similitudine, che questi che oggi scrivono, vogliono che quelli che hanno scritto per lo addietro, abbiano parlato in questa lingua comune Italiana, e quale ragione fa che in tanta diversità di lingua noi ci intendiamo. Vogliono alcuni che a ciascuna lingua dia termine la particula affermativa, la quale appresso alli Italiani, con questa dizione sì è significata, e che per tutta quella provincia si intenda il medesimo parlare dove con uno medesimo vocabolo parlando si afferma; ed allegano l'autorità di Dante, il quale volendo significare Italia, la nominò sotto questa particula sì, quando disse: Ahi Pisa vituperio delle genti Del bel paese là dove il sì suona. cioè d'Italia. Allegano ancora l'esempio di Francia, dove tutto il paese si chiama Francia, ed è detto ancora lingua d'huis, e d'och, che significano appresso di loro quel medesimo che appresso gl'Italiani sì. Adducono ancora in esemplo tutta la lingua Tedesca, che dice hyo, e tutta la Inghilterra, che dice eh; e forse da queste ragioni mossi vogliono molti di costoro che qualunque è in Italia che scriva, o parli, scriva, e parli in una lingua. Alcuni altri tengono che questa particula sì non sia quella che regoli la lingua, perché se la regolasse, e i Siciliani, e gli Spagnuoli sarebbero ancor essi, quanto al parlare, Italiani. E però è necessario che si regoli con altre ragioni; e dicono che chi considera bene le otto parti dell'orazione, nelle quali ogni parlar si divide, troverrà che quella che si chiama verbo, è la catena, ed il nervo della lingua, ed ogni volta che in questa parte non si varia, ancoraché nelle altre si variasse assai, conviene che le lingue abbiano una comune intelligenza, perché quelli nomi che ci sono incogniti, ce li fa intendere il verbo, il quale infra loro è collocato, e così per contrario dove li verbi sono differenti, ancoraché vi fosse similitudine ne' nomi, diventa quella lingua differente: e per esemplo si può dire la provincia d'Italia, la quale è in una minima parte differente nei verbi, ma nei nomi differentissima, perché ciascuno Italiano dice amare, stare, e leggere, ma ciascuno di loro non dice già deschetto, tavola, e guastada. Intra i pronomi quelli che importano più, sono variati, siccome è mi, in vece di io, e ti, per tu. Quello che fa ancora differenti le lingue, ma non tanto che elle non s'intendano, sono la pronunzia, e gli accenti. Li Toscani fermano tutte le loro parole in sulle vocali, ma li Lombardi, e li Romagnuoli quasi tutte le sospendono sulle consonanti, come Pane, Pan. Considerate adunque tutte queste, ed altre differenze che sono in questa lingua Italica, a voler vedere quale di queste tenga la penna in mano, ed in quale abbiano scritto gli scrittori antichi, è prima necessario vedere donde Dante, e gli primi scrittori furono; e se essi scrissono nella lingua patria, o se non vi scrissero; dipoi arrecarsi innanzi i loro scritti, ed appresso qualche scrittura mera Fiorentina, o Lombarda, o d'altra provincia d'Italia, dove non sia arte, ma tutta natura, e quella che fia più conforme alli scritti loro, quella si potrà chiamare, credo, quella lingua nella quale essi abbiano scritto. Donde quelli primi scrittori fossino, eccettoché un Bolognese, un Aretino, ed un Pistolese, i quali tutti non aggiunsono a dieci canzoni, è cosa notissima, come e' furono Fiorentini; intra li quali Dante, il Petrarca, ed il Boccaccio tengono il primo luogo, e tanto alto, che alcuno non ispera più aggiugnervi. Di questi il Boccaccio afferma nel Centonovelle di scrivere in Volgar Fiorentino, il Petrarca non so che ne parli cosa alcuna, Dante in un suo libro che ei fa de Vulgari Eloquio, dove egli danna tutta la lingua particular d'Italia, ed afferma, non avere scritto in Fiorentino, ma in una lingua Curiale, in modo che quando e' segli avesse a credere, mi cancellerebbe l'obbiezioni che di sopra si feciono, di volere intendere da loro donde avevano quella lingua imparata. Io non voglio, in quanto s'appartenga al Petrarca, ed al Boccaccio, replicare cosa alcuna, essendo l'uno in nostro favore, e l'altro stando neutrale: ma mi fermerò sopra di Dante, il quale in ogni parte mostrò d'essere per ingegno, per dottrina, e per giudizio uomo eccellente, eccettoché dove egli ebbe a ragionar della patria sua, la quale fuori d'ogni umanità, e filosofico instituto perseguitò con ogni spezie d'ingiuria, e non potendo altro fare che infamarla, accusò quella d'ogni vizio, dannò gli uomini, biasimò il sito, disse male de' costumi, e delle leggi di lei, e questo fece non solo in una parte della sua Cantica, ma in tutta, e diversamente, ed in diversi mo di; tanto l'offese l'ingiuria dell'esilio, tanta vendetta ne desiderava, e però ne fece tanta, quanta egli potè, e se per sorte de' mali ch'egli le predisse, le ne fosse accaduto alcuno, Firenze arebbe più da dolersi d'aver nutrito quell'uomo, che d'alcuna altra sua rovina. Ma la fortuna per farlo mendace, e per ricoprire colla gloria sua la calunnia falsa di quello, l'ha continuamente prosperata, e fatta celebre per tutte le provincie del mondo, e condotta al presente in tanta felicità, e sì tranquillo stato, che se Dante la vedesse, o egli accuserebbe se stesso, o ripercosso da' colpi di quella sua innata invidia, vorrebbe essendo risuscitato, di nuovo morire. Non è pertanto maraviglia, se costui che in ogni cosa accrebbe infamia alla sua patria, volle ancora nella lingua torle quella riputazione la quale pareva a lui d'averle data ne' suoi scritti, e per non l'onorare in alcun modo, compose quell'opera per mostrar, quella lingua nella quale egli aveva scritto, non esser Fiorentina; il che tanto segli debbe credere, quanto ch'ei trovasse Bruto in bocca di Lucifero maggiore, e cinque cittadini Fiorentini intra i ladroni, e quel suo Cacciaguida in Paradiso, e simili sue passioni, ed oppinioni, nelle quali fu tanto cieco che perse ogni sua gravità, dottrina, giudicio, e divenne al tutto un altro uomo; talmenteché s'egli avesse giudicato così ogni cosa, o egli sarebbe vivuto sempre a Firenze, o egli ne sarebbe stato cacciato per pazzo. Ma perché le cose che s'impugnano per parole generali, e per conjetture, possono essere facilmente riprese, io voglio a ragioni vive, e vere mostrare come il suo parlare è al tutto Fiorentino, e più assai che quello che il Boccaccio confessa per se stesso esser Fiorentino, ed in parte rispondere a quelli che tengono la medesima oppinione di Dante. Parlare comune d'Italia sarebbe quello dove fosse più del comune, che del proprio d'alcuna lingua, e similmente parlar proprio fia quello dove è più del proprio, che di alcuna altra lingua, perché non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per se senza avere accattato da altri, perché nel conversare gli uomini di varie provincie insieme prendono de' motti l'uno dell'altro. Aggiugnesi a questo, che qualunque volta viene o nuove dottrine in una città, o nuove arti, è necessario che vi vengano nuovi vocaboli, e nati in quella lingua donde quelle dottrine, o quelle arti sono venute; ma riducendosi nel parlare con i modi, con i casi, colle differenze, e con gli accenti, fanno una medesima consonanza con i vocaboli di quella lingua che trovano, e così diventano suoi; perché altrimenti le lingue parrebbono rappezzate, e non tornerebbono bene; e così i vocaboli forestieri si convertono in Fiorentini, non i Fiorentini in forestieri, né però diventa altro la nostra lingua che Fiorentina; e di qui dipende che le lingue da principio arricchiscono, e diventano più belle, essendo più copiose: ma è ben vero che col tempo per la moltitudine di questi nuovi vocaboli imbastardiscono, e diventano un'altra cosa; ma fanno questo in centinaja d'anni; di che altri non s'accorge, se non poiché è rovinato in una estrema barbarie. Fa ben più presto questa mutazione quando egli avvenne che una nuova popolazione venisse ad abitare in una provincia; in questo caso ella fa la sua mutazione in un corso d'un età d'un uomo. Ma in qualunque di questi duoi modi che la lingua si muti, è necessario che quella lingua perduta, volendola, sia riassunta per mezzo di buoni scrittori che in quella hanno scritto; come si è fatto, e fa della lingua Latina, e della Greca. Ma lasciando stare questa parte, come non necessaria, per non essere la nostra lingua ancora nella sua declinazione, e tornando donde io mi partii, dico che quella lingua si può chiamare comune in una provincia dove la maggior parte de' suoi vocaboli colle loro circostanze non si usino in alcuna lingua propria di quella provincia, e quella lingua si chiamerà propria dove la maggior parte de' suoi vocaboli non s'usino in altra lingua di quella provincia. Quando questo ch'io dico, sia vero, che è verissimo, io vorrei chiamar Dante, che mi mostrasse il suo Poema, ed avendo appresso alcuno scritto in lingua Fiorentina, lo domanderei qual cosa è quella che nel suo Poema non fosse scritta in Fiorentino: e perché e' risponderebbe, che molte, tratte di Lombardia, e trovate da se, o tratte dal Latino.... Ma perché io voglio parlare un poco con Dante, per fuggire egli disse, ed io risposi, metterò gl'interlocutori davanti.
N. Quali traesti tu di Lombardia?
D. Queste: In co del ponte presso a Benevento; e quest'altra: Con voi nasceva, e s'ascondeva vosco.
N. Quali traesti tu dai Latini?
D. Questi, e molti altri: Transumanar significar per verba.
N. Quali trovasti da te?
D. Questi: S'io m'intuassi, come tu t'immii; li quali vocaboli mescolati tutti con li Toscani fanno una terza lingua.
N. Sta bene; ma dimmi, in questa tua opera come vi sono di questi vocaboli o forestieri, o trovati da te, o Latini?
D. Nelle prime due Cantiche vene sono pochi, ma nell'ultima assai, massime dedotti da' Latini, perché le dottrine varie di che io ragiono, mi costringono a pigliare vocaboli atti a poterle esprimere, e non si potendo se non con termini Latini, io gli usava, ma gli deduceva in modo colle desinenze, ch'io gli faceva diventare simili alla lingua del resto dell'opera.
N. Che lingua è quella dell'opera?
D. Curiale.
N. Che vuol dire Curiale?
D. Vuol dire una lingua parlata dagli uomini di Corte del Papa, del Duca ec. i quali per essere uomini litterati parlano meglio che non si parla nelle terre particulari d'Italia.
N. Tu dirai le bugie. Dimmi un poco, che vuol dire in quella lingua Curiale morse?
D. Vuol dire morì.
N. In Fiorentino che vuol dire?
D. Vuol dire strignere uno con i denti.
N. Quando tu di' ne' tuoi versi: E quando il dente Longobardo morse; che vuol dire quel morse?
D. Punse, offese, ed assaltò, che è una translazione dedotta da quel mordere che dicono i Fiorentini.
N. Adunque parli tu in Fiorentino, e non in Cortigiano.
D. Egli è vero nella maggior parte; pure io mi riguardo di non usare certi vocaboli nostri proprj.
N. Come tene riguardi? quando tu di': Forte spingava con ambe le piote; questo spingare che vuol dire?
D. In Firenze s'usa dire quando una bestia trae de' calci: ella spicca una coppia di calci; e perché io volli mostrare come colui traeva de' calci, dissi spingava.
N. Dimmi; tu di' ancora volendo dire le gambe: Di quei che sì piangeva, con la zanca; perché lo di' tu?
D. Perché in Firenze si chiamano zanche quelle aste sopra le quali vanno gli spiritelli per San Giovanni, e perché allora e' l'usano per gambe, e io, volendo significare gambe, dissi zanche.
N. Per mia fe tu ti guardi assai bene dai vocaboli Fiorentini! Ma datemi: più là, quando tu di': Non prendono i mortali il voto a ciancia, perché di' tu ciancia, come i Fiorentini, e non zanza, come i Lombardi, avendo detto vosco, e in co del ponte?
D. Non dissi zanza per non usare un vocabolo barbaro come quello, ma dissi co, e vosco, sì perché non sono vocaboli sì barbari, sì perché in una opera grande è lecito usare qualche vocabolo esterno, come fe Vergilio, quando disse: Arma virum, tabulæque, et Troia gaza per undas.
N. Sta bene; ma fu egli per questo, che Virgilio non iscrivesse in Latino?
D. No.
N. E così tu ancora per aver detto co, e vosco non hai lasciata la tua lingua. Ma noi facciamo una disputa vana, perché nella tua opera tu medesimo in più luoghi confessi di parlare, Toscano, e Fiorentino. Non di' tu di uno che ti sentì parlare nell'Inferno: Ed un che intese la parola Tosca? e altrove in bocca di Farinata, parlando egli teco: La tua loquela ti fa manifesto Di quella dolce patria natìo Alla qual forse fui troppo molesto?
D. Egli è vero ch'io dico tutto cotesto.
N. Perché di' dunque di non parlar Fiorentino? Ma io ti voglio convincere con i libri in mano, e col riscontro, e però leggiamo in questa tua opera, ed il Morgante. Leggi, su.
D. Nel mezzo del cammin di nostra vita Mi ritrovai per una selva oscura, Che la diritta via era smarrita.
N. E' basta. Leggi un poco ora il Morgante.
D. Dove?
N. Dove tu vuoi. Leggi costì a caso.
D. Ecco: Non chi comincia ha meritato, è scritto Nel tuo santo Vangel, benigno Padre.
N. Or bene, che differenza è da quella tua lingua a questa?
D. Poca.
N. Non mi cene par veruna.
D. Qui è pur non so che.
N. Che cosa?
D. Quel Chi è troppo Fiorentino.
N. Tu farai a ridirti; o non di' tu: Io non so chi tu sie, né per qual modo Venuto se' quaggiù, ma Fiorentino Mi sembri, veramente, quand'io t'odo?
D. Egli è vero; io ho torto.
N. Dante mio, io voglio che tu t'emendi, e che tu consideri meglio il parlar Fiorentino, e la tua opera, e vedrai che se alcuno s'arà da vergognare, sarà piuttosto Firenze, che tu; perché se considererai bene a quello che tu hai detto, tu vedrai come ne' tuoi versi non hai fuggito il goffo, come è quello: Poi ci partimmo, e n'andavamo introque; non hai fuggito il porco, come quello: Che merda fa di quel che si trangugia; non hai fuggito l'osceno, come è: Le mani alzò con ambedue le fiche; e non avendo fuggito questo che disonora tutta l'opera tua, tu non puoi aver fuggito infiniti vocaboli patrii che non s'usano altrove, che in quella, perché l'arte non può mai in tutto repugnare alla natura. Oltre di questo io voglio che tu consideri come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste coll'altre lingue; ma quella lingua si chiama d'una patria, la quale converte i vocaboli ch'ella ha accattati da altri, nell'uso suo, ed è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro, perché quello ch'ella reca da altri, lo tira a se in modo, che par suo, e gli uomini che scrivono in quella lingua, come amorevoli di essa, debbono far quello ch'hai fatto tu, ma non dir quello ch'hai detto tu; perché se tu hai accattato da' Latini, e da' forestieri assai vocaboli, se tu n'hai fatti de' nuovi, hai fatto molto bene; ma tu hai ben fatto male a dire che per questo ella sia divenuta un'altra lingua. Dice Orazio: . . . . quod lingua Catonis, et Ennj Sermonem patrium ditaverit, et nova rerum Nomina protulerit; e lauda quelli, come li primi che cominciarono ad arricchire la lingua Latina. I Romani negli eserciti loro non avevano più che due legioni di Romani, quali erano circa dodici mila persone, e dipoi vi avevano venti mila dell'altre nazioni, nondimeno perché quelli erano con li loro capi il nervo dell'esercito, perché militavano tutti sotto l'ordine, e sotto la disciplina Romana, tenevano quelli eserciti il nome, l'autorità, e la dignità Romana; e tu che hai messo ne' tuoi scritti venti legioni di vocaboli Fiorentini, ed usi i casi, i tempi, e i modi, e le desinenze Fiorentine, vuoi che li vocaboli avventizj facciano mutar la lingua? E se tu la chiamassi comune d'Italia, o Cortigiana, perché in quella si usassino tutti li verbi ch'usano in Firenze, ti rispondo che, se si sono usati li medesimi verbi, non s'usano i medesimi termini, perché si variano tanto colla pronunzia, che diventano un' altra cosa, perché tu sai che i forestieri, o e' pervertono il c in z, come di sopra si disse di cianciare, e zanzare, o eglino aggiungono lettere, come vien qua, vegni za, o e' ne lievano, come poltrone, poltron. Talmenteché quelli vocaboli che sono simili a' nostri, gli storpiano in modo, che gli fanno diventare un'altra cosa; e se tu mi allegassi il parlar Curiale, ti rispondo, se tu parli delle Corti di Milano, o di Napoli, che tutte tengono del luogo della patria loro, e quelli hanno più di buono che più s'accostano al Toscano, e più l'imitano, e se tu vuoi ch'e' sia migliore l'imitatore che l'imitato, tu vuoi quello che il più delle volte non è; ma se tu parli della Corte di Roma, tu parli d'un luogo dove si parla di tanti modi, di quante nazioni vi sono, né segli può dare in modo alcuno regola. Ma quello che inganna molti circa i vocaboli comuni, è, che tu, e gli altri che hanno scritto, essendo stati celebrati, e letti in varj luoghi, molti vocaboli nostri sono stati imparati da molti forestieri, ed osservati da loro, talché di proprj nostri son diventati comuni. E se tu vuoi conoscer questo, arrecati innanzi un libro composto da quelli forestieri che hanno scritto dopo voi, e vedrai quanti vocaboli egli usano de' vostri, e come e' cercano di imitarvi: e per aver riprova di questo fa' lor leggere libri composti dagli uomini loro avantiché nasceste voi, e si vedrà che in quelli non fia né vocabolo, né termine; e così apparirà che la lingua in che essi oggi scrivono, è la vostra, e per conseguenza la vostra non è comune colla loro: la qual lingua ancoraché con mille sudori cerchino d'imitare, nondimeno, se leggerai i loro scritti, vedrai, in mille luoghi essere da loro male, e perversamente usata, perch'egli è impossibile che l'arte possa più che la natura. Considera ancora un'altra cosa, se tu vuoi vedere la dignità della tua lingua patria, che i forestieri che scrivono, se prendano alcuno soggetto nuovo, dove non abbiano esemplo di vocaboli imparati da voi, di necessità conviene che ricorrano in Toscana, ovvero se prendano vocaboli loro, gli spianino, ed allarghino all'uso Toscano; che altrimenti né essi, né altri gli approverebbono. E perché e' dicono che tutte le lingue patrie son brutte s'elle non hanno del misto, di modoché veruna sarebbe brutta, dico ancora che quella che ha di essere mista men bisogno, è più laudabile; e senza dubbio ne ha men bisogno la Fiorentina. Dico ancora, come si scrivono molte cose che senza scrivere i motti, ed i termini proprj patrii non sono belle; e di questa sorte sono le commedie, perché ancoraché il fine d'una commedia sia proporre uno specchio d'una vita privata, nondimeno il suo modo del farlo è con certa urbanità, e con termini che muovano riso, acciocché gli uomini correndo a quella dilettazione, gustino poi l'esemplo utile che vi è sotto; e perciò le persone comiche difficilmente possono essere persone gravi, perché non può essere gravità in un servo fraudolente, in un vecchio deriso, in un giovane impazzato d'amore, in una puttana lusinghiera, in un parasito goloso, ma ben risulta di questa composizione d'uomini effetti gravi, ed utili alla vita nostra. Ma perché le cose sono trattate ridicolamente, conviene usare termini, e motti che facciano questi effetti, i quali termini, se non sono proprj, e patrii, dove sieno soli, interi, e noti, non muovono, né possono muovere; donde nasce che uno che non sia Toscano, non farà mai questa parte bene, perché se vorrà dire i motti della patria sua, farà una veste rattoppata, facendo una composizione mezza Toscana, e mezza forestiera; e qui si conoscerebbe che lingua egli avesse imparata, s'ella fosse comune, o propria. Ma se non gli vorrà usare, non sappiendo quelli di Toscana, farà un cosa manca, e che non arà la perfezione sua; ed a provar questo io voglio che tu legga una commedia fatta da uno degli Ariosti di Ferrara, e vedrai una gentil composizione, e uno stile ornato, ed ordinato; vedrai un nodo bene accomodato, e meglio sciolto, ma la vedrai priva di quei sali che ricerca una commedia tale, non per altra cagione che per la detta, perché i motti Ferraresi non gli piacevano, ed i Fiorentini non sapeva, talmenteché gli lasciò stare. Usonne uno comune, e credo ancora fatto comune per via di Firenze, dicendo che un dottore della berretta lunga pagherebbe una sua dama di doppioni; usonne uno proprio, pel quale si vede quanto sta male mescolare il Ferrarese col Toscano, che dicendo una di non voler parlare dove fossero orecchie che l'udissono, le fa rispondere, che non parlasse dove i bigonzoni; ed un gusto purgato sa quanto nel leggere, e nell'udire dir bigonzoni è offeso: e vedesi facilmente ed in questo, ed in molti altri luoghi con quanta difficoltà egli mantiene il decoro di quella lingua ch'egli ha accattata. Pertanto io concludo che molte cose sono quelle che non si possono scriver bene senza intendere le cose proprie, e particolari di quella lingua che e più in prezzo, e volendogli proprj, conviene andare alla fonte donde quella lingua ha avuto origine, altrimenti si fa una composizione dove l'una parte non corrisponde all'altra. E che l'importanza di questa lingua nella quale e tu, Dante, scrivesti, e gli altri che vennono e prima, e poi di te, hanno scritto, sia derivata da Firenze, lo dimostra essere voi stati Fiorentini, e nati in una patria che parlava in modo, che si poteva meglio che alcuna altra, accomodare a scrivere in versi, ed in prosa; a che non si potevano accomodare gli altri parlari d'Italia; cominciarono ciascuno sa come i Provenzali cominciarono a scrivere in versi; di Provenza ne venne quest'uso in Sicilia, e di Sicilia in Italia, e intra le provincie d'Italia in Toscana, e di tutta Toscana in Firenze, non per altro che per essere la lingua più atta; perché non per comodità di sito, né per ingegno, né per alcuna altra particulare occasione meritò Firenze essere la prima, e procreare questi scrittori, se non per la lingua comoda a prendere simile disciplina; il che non era nell'altre città. E ch'e' sia vero, si vede in questi tempi assai Ferraresi, Napoletani, Vicentini, e Vineziani che scrivono bene, ed hanno ingegni attissimi allo scrivere: il che non potevano fare primaché tu, il Petrarca, ed il Boccaccio avesse scritto; perché a volere ch'e' venissono a questo grado di schifare gli errori della lingua patria, era necessario ch'e' fusse prima alcuno il quale collo esemplo suo insegnasse com'egli avessono a dimenticare quella loro naturale barbarie, nella quale la patria lingua si sommergeva. Concludesi pertanto che non è lingua che si possa chiamare o Comune d'Italia, o Curiale, perché tutte quelle che si potessero chiamare così, hanno il fondamento loro dagli scrittori Fiorentini, e dalla lingua Fiorentina, alla quale in ogni difetto, come a vero fonte, e fondamento loro, è necessario che ricorrano, e non volendo esser veri pertinaci, hanno a confessarla Fiorentina. Udito che Dante ebbe queste cose, le confessò vere, e si partì; e io mi restai tutto contento, parendomi d'averlo sgannato. Non so già s'io mi sgannerò coloro che sono sì poco conoscitori de' beneficj ch'egli hanno avuti dalla nostra patria, che e' vogliano accomunare conesso lei nella lingua Milano, Vinegia, Romagna, e tutte le bestemmie di Lombardia.

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