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Friday, July 8, 2011

Grisotto

Luigi Speranza

Grice ha dato un contributo innovativo allo studio del processo della conversazione, analizzandola nei termini della manifestazione d’intenzioni da parte del parlante e dell’ascrizione d’intenzioni al parlante da parte dell’ascoltatore.

L’ampio programma di Grice, come lui stesso afferma nella sesta lezione di "La logica e la conversazione", sorge da una distinzione che egli desidera fare in

"la significazione totale di un’osservazione" --
the total signification of a remark --

una distinzione tra ciò che il parlante ha «detto» [has said] (in un certo senso speciale, e forse anche un po’ artificiale, di «dire») e ciò che ha «implicato» [has implicated] (ossia fatto intendere, indicato, suggerito), tenendo in considerazione il fatto che ciò che ha implicato può essere implicato sia convenzionalmente (grazie al significato della frase o della parola che ha impiegato) sia non convenzionalmente (nel qual caso la specificazione dell’implicatura [implicature] esula dalla specificazione del significato convenzionale delle parole impiegate).
------ Grice 1968, 1993: 166)

--- "La Logica e la conversazione" è il titolo delle William James Lectures tenute da Grice all’Università di Harvard nella primavera del 1967 nelle quali presenta in modo unitario la sua filosofia del linguaggio.

Le lezioni circolano per anni in versione dattiloscritta, solo alcune parti appaiono in tempi diversi in riviste e volumi miscellanei con una nota dell’autore che ne annuncia la pubblicazione integrale da parte della Harvard University Press.

Soltanto nel 1988 Grice licenzia per la stampa una raccolta di scritti, intitolata
Studi nella via delle parole,
Studies in the way of words,
la prima parte della quale contiene una versione rivista di

"La Logica e la conversazione"

e la seconda parte vari saggi su problemi di semantica e metafisica scritti fra il 1946 e il 1988 e in parte già pubblicati.

La raccolta è pubblicata dalla Harvard University Press nel 1989, ad un anno dalla morte di Grice.

In quest’articolo nei riferimenti ai saggi di Grice, oltre l’anno di edizione del volume da cui è tratto il riferimento, è indicato anche l’anno della prima pubblicazione del saggio.

Lo sviluppo del programma porta Grice alla formulazione di un’articolata teoria del

"significare"/"significato"
(meaning),

in termini d’intenzioni del parlante, e di un’originale teoria della implicatura (implicature) che possono essere inferite dall’ascoltatore, due teorie che, come lui stesso dice, sono strettamente legate (vedi Grice 1989: V), tanto che la nozione di «implicatura» è comprensibile solo sullo sfondo della teoria del significato come intenzione.

Grice distingue tra

"significare"
in contesso naturale (significato-n)

e significato non naturale (significato-nn) de

segno:

Un segno significa di modo naturale

quando è un fatto che esso significhi

qualcosa.


Un segno, x, significa d'un modo non naturale

quando per mezzo di esso qualcuno significa qualcosa

(vedi Grice 1957, 1993: 219-221).

------------------ The distinction can be traced to the earliest Italian philosophical reflections in the vernacular. "Grisotto".

Centrale nell’analisi che Grice fa del

"significare" di modo "non naturale"

è la nozione di significato del parlante (speaker’s meaning).


Egli condivide l’assunto degli altri filosofi del linguaggio ordinario che si debbano prendere le mosse dall’analisi dei modi ordinari in cui i parlanti usano i segni nelle occasioni concrete di comunicazione.

Afferma che «il significato [meaning] (in generale) di un segno deve essere spiegato nei termini di ciò che con esso vuol dire [means] (o dovrebbe voler dire) chi lo usa in particolari occasioni» (Grice 1957, 1993: 223).

Tale prospettiva metodologica, tuttavia, porta Grice a sostenere posizioni differenti rispetto a quelle dei filosofi del linguaggio ordinario, lo porta a rifiutare l’identificazione – da essi fatta – del significato delle espressioni con il loro uso ed a sostenere, piuttosto, l’utilità filosofica della distinzione tra significato e uso (vedi Grice 1989, 1993: 34), ad indagare quale senso ordinariamente la gente attribuisce al verbo "significare" ("to mean") nelle espressioni

«x voleva dire-nn [meantnn]
qualcosa (in una data occasione)»

e

«A voleva dire-nn [meantnn] qualcosa
con x (in una data occasione)»

(Grice 1957, 1993: 223-224).

L’osservazione dei contesti ordinari nei quali gli esseri umani usano segni per comunicare è il punto di partenza di Grice, ma il suo obiettivo è l’individuazione di una definizione del senso ordinariamente attribuito al significare ("to mean-nn") in termini di condizioni necessarie e sufficienti.

La prima formulazione che egli dà è:

A significa qualcosa con x»

equivale (approssimativamente) ad

«A intende che l’enunciazione di
x producesse qualche effetto
su un uditorio attraverso il
riconoscimento di quella stessa
intenzione»;

e potremmo aggiungere che chiedere cosa volesse dire A equivale a chiedere di specificare l’

effetto inteso
intended effect

Grice 1957, 1993: 227-228) 84

Il significato dell’enunciazione di un parlante in un contesto particolare è, per Grice, approssimativamente equivalente a ciò che il parlante intende comunicare, vale a dire all’effetto inteso, all’effetto che egli intende sia prodotto dall’enunciazione sull’uditorio che riconosce l’intenzione di enunciazione.

Intenzione che è complessa, che non equivale semplicemente all’intender produrre un certo effetto o una certa risposta in un uditorio, ma anche all’intendere che l’uditorio riconosca l’intenzione che sta dietro l’enunciazione e all’intendere che il riconoscimento, da parte dell’uditorio, dell’intenzione di enunciazione svolga il proprio ruolo nell’indurre l’effetto o la risposta, che sarà una credenza nel caso degli enunciati informativi e l’intenzione di compiere un’azione nel caso degli enunciati imperativi.
Vedi Grice 1957, 1993: 227-229; 1968, 1993: 171-172; 1969, 1993: 152-153).

Nella quinta lezione di Logic and conversation, intitolata «Utterer’s meaning and intentions», Grice formula in modo più analitico la definizione di significato del parlante (o

"enunciatore")

indicandone le tre intenzioni a fondamento:

«L’enunciatore signfica qualcosa enunciando x»

è vero sse,

per un qualche uditorio A,

E ha enunciato x intendendo che:

1. A manifestasse una risponsa particolare r

2. A pensasse (riconoscesse) che E intende che (1)

3. A si conformasse a (1) sulla base del suo conformarsi a (2). (Grice 1969, 1993: 138)

Tuttavia, i controesempi presentati da diversi filosofi del linguaggio, volti a dimostrare che la definizione è troppo debole, troppo onnicomprensiva, includendo casi che il senso comune non identifica come significatonn, inducono Grice a riformularla più volte identificando ulteriori intenzioni di livello superiore come condizioni sufficienti per produrre significatonn.

Vedi Grice 1969, 1993: 139 e sgg.).

Nell’esempio presentato da Strawson, non vuol direnn alcunché l’enunciatore che predispone una prova che p in un luogo in cui il destinatario non può non vederla e predispone la prova sapendo che il destinatario lo osserva, ma sapendo anche che il destinatario non sa che l’enunciatore sa che il destinatario lo sta osservando. Pur potendo attribuire all’enunciatore le tre intenzioni indicate nella definizione originaria di significato del parlante, non gli si può attribuire l’intenzione che il destinatario riconosca l’intenzione dell’enunciatore di indurlo a riconoscere l’intenzione dell’enunciatore di indurlo a credere che p (vedi Strawson 1978: 88-90; Grice 1969, 1993: 141-142). La definizione di significato del parlante è integrata aggiungendo una quarta intenzione alle tre già indicate, ossia l’intenzione del parlante di far riconoscere all’uditorio l’intenzione (2) (vedi Grice 1969, 1993: 141-142).

L’enunciatore dell’esempio di Schiffer, che getta una banconota dalla finestra perché vuole sbarazzarsi della persona avida che si trova con lui nella stanza, non vuol direnn alcunché gettando la banconota dalla finestra. L’enunciatore ha un’intenzione ingannevole nei confronti del destinatario, giacché non intende che l’uomo avido riconosca che l’enunciatore intende che lui se ne vada sulla base del fatto che ha riconosciuto che l’enunciatore vuole che lui se ne vada, ma intende che l’avido se ne vada pensando che l’enunciatore intende farlo correre dietro alla banconota (vedi Grice 1969, 1993: 142-143). All’enunciatore si possono attribuire le quattro intenzioni della definizione modificata dopo l’obiezione di Strawson, ma non gli si può attribuire l’intenzione che il destinatario riconosca l’intenzione dell’enunciatore che il destinatario lasci la stanza basandosi sul fatto che il destinatario riconosce che l’enunciatore intende che il destinatario lasci la stanza (vedi Grice 1969, 1993: 142-143). La definizione di significato del parlante è integrata includendo l’intenzione del parlante che l’uditorio riconosca che il parlante abbia l’intenzione che l’uditorio fornisca la reazione r basandosi (almeno in parte) sul fatto che riconosce che il parlante intenda che l’uditorio fornisca la reazione r (vedi Grice 1969, 1993: 143).

Identificando ulteriori livelli d’intenzioni, la riformulazione della definizione del significato del parlante viene a presentare in più punti la caratteristica che il parlante debba avere l’ennesima sotto-intenzione che l’uditorio debba pensare che il parlante abbia la propria sotto-intenzione n-1 (vedi Grice 1969, 1993: 143). Grice osserva che la presenza di tale caratteristica conduce ad ipotizzare che l’analisi del significato lungo queste linee sia infinitamente o indefinitamente regressiva, poiché si possono sempre trovare ulteriori controesempi che obblighino ad introdurre nuove condizioni dello stesso tipo (vedi Grice 1969, 1993: 143). Egli stesso riconosce la difficoltà di ammettere una tale situazione dal punto di vista della comunicazione ordinaria, perché i calcoli (calculations) delle intenzioni che ad un certo punto il parlante potrebbe richiedere all’uditorio per produrre la risposta diventerebbero di difficoltà eccessiva, addirittura il parlante potrebbe non riuscire a trovare il modo di indicare all’uditorio la necessità di tali calcoli e il processo di comunicazione sarebbe compromesso (vedi Grice 1969, 1993: 144-146).

Come soluzione alternativa Grice propone una definizione di significato del parlante, nella quale, in aggiunta alle tre intenzioni della prima formulazione, introduce una clausola che impone che non ci debba essere alcun elemento inferenziale (inference-element) tale che il parlante intenda (1’) che l’uditorio si basi su tale elemento inferenziale nel realizzare l’effetto inteso e, nello stesso tempo, intenda (2’) che l’uditorio pensi che il parlante non intenda che l’uditorio si basi su quell’elemento inferenziale (vedi Grice 1969, 1993: 146). È una clausola che vieta al parlante d’avere intenzioni ingannevoli nei confronti dell’uditorio: era stata proprio la necessità di eliminare controesempi con tale tipo d’intenzioni che aveva comportato il regresso infinito e indefinito delle intenzioni nella definizione precedentemente formulata (vedi Grice 1969, 1993: 141-146).

Nel saggio «Meaning revisited» Grice ammette di nuovo il carattere regressivo delle intenzioni nella definizione del significato del parlante: quando un parlante P proferisce un enunciato ad un ascoltatore A volendo direnn qualcosa q «P vuole [wants] che A pensi “q perché P vuole che A pensi ‘q perché P vuole che …’”» e così via (vedi Grice 1982, 1993: 302). Tale regresso d’intenzioni costituisce una situazione che Grice definisce allo stesso tempo «logicamente impossibile ma desiderabile» (Grice 1982, 1993: 303).

Di fatto, l’analisi di Grice, pur essendo fondata sull’osservazione degli usi ordinari di parlare, ha l’obiettivo di delineare le condizioni ideali del processo di comunicazione, piuttosto che descrivere ciò che accade realmente nel «mondo sublunare» (Grice 1982, 1993: 303). Ma la delineazione delle condizioni ideali costituisce il criterio in relazione al quale valutare le situazioni concrete, quasi come le Idee platoniche erano i paradigmi delle cose sensibili. Grice afferma che «tutto ciò di cui abbiamo bisogno è, per così dire, un modo per misurare oggetti individuali esistenti rispetto alla qualità irrealizzabile degli oggetti individuali perfetti. Forse Platone aveva in mente proprio qualcosa del genere» (Grice 1982, 1993: 303-304).

Cosenza osserva che l’infinito numero d’intenzioni nella definizione di significato del parlante costituisce un limite teorico ideale concepito al solo scopo di enfatizzare una proprietà fondamentale che secondo Grice la comunicazione deve avere […]: la bontà e onestà delle intenzioni dell’emittente, cioè la totale chiarezza e trasparenza per il destinatario di tutti i livelli di queste intenzioni. (Cosenza 2002: 89)

È la trasparenza delle intenzioni del parlante che può permettere all’uditorio di riconoscerle, ed è il riconoscimento delle intenzioni da parte dell’uditorio che rende possibile la loro realizzazione (vedi Grice 1957, 1993: 226).

Ma l’utilizzazione di tale modello ideale della comunicazione, che esclude la presenza d’intenzioni ingannevoli, impedisce a Grice di rendere conto di quello che è un aspetto importante della comunicazione ordinaria, nella quale si nascondono deliberatamente determinate intenzioni per generare nel destinatario determinate credenze o indurlo ad agire in determinati modi.

Infine, per superare le ulteriori obiezioni sollevate da Searle (1973: 95-98), Grice integra la definizione di significato del parlante includendo la conoscenza, sia da parte del parlante sia da parte dell’uditorio, degli aspetti convenzionali del significato che legano il proferimento degli enunciati agli effetti che il parlante intende indurre nell’uditorio per mezzo di tale proferimento. Egli precisa di non aver mai voluto negare che «quando il veicolo del significato è un enunciato [sentence] (o il proferimento di un enunciato [utterance of a sentence]), le intenzioni del parlante devono essere riconosciute, di norma, in virtù della conoscenza dell’uso convenzionale dell’enunciato» (Grice 1969, 1989: 100-101, trad. mia). È perché il parlante sa che fra un certo enunciato x e un certo effetto r esiste una correlazione convenzionale e sa anche che l’uditorio può riconoscere questa correlazione che il parlante può intendere di provocare nell’uditorio l’effetto r e l’uditorio può riconoscere le intenzioni del parlante e realizzare l’effetto inteso.

La versione della definizione del significato del parlante cui Grice giunge nella quinta lezione di Logic and conversation contiene un insieme di condizioni specifiche per

«E significa qualcosa con x».

Dati i seguenti domini delle variabili:

E = enunciatore
A = uditorio
c = caratteristiche delle enunciazioni
r = reazioni
m = modo d’associazione (iconico, associativo, convenzionale).

La definizione è:

(∃A) (∃c) (∃r) (∃m).

E ha enunciato x intendendo:

1. Che A pensi che x possieda c

2. Che A pensi che E intenda (1)

3. Che A pensi che c sia correlata in maniera m al tipo cui appartiene r

4. Che A pensi che E intenda (3)

5. Che A pensi sulla base del proprio adeguamento [fulfillment] a (1) e (3)
che E intenda che A manifesti r

6. Che A, sulla base del proprio adeguamento a (5), manifesti r

7. Che A pensi che E intenda (6). (Grice 1969, 1993: 151)

La definizione è riformulata anche nella versione con la clausola negativa che vieta al parlante d’avere intenzioni ingannevoli:

(∃A) (∃c) (∃r) (∃m):

a) E ha enunciato x intendendo:

1. Che A pensi che x possieda c

2. Che A pensi che c sia correlata in maniera m al tipo cui appartiene r

3. Che A pensi sulla base del proprio adeguamento a (1) e (2) che E

intenda che A manifesti r

4. Che A, sulla base del proprio adeguamento a (3), manifesti r e

b) Che non vi sia nessun elemento inferenziale [inference-element] i tale che

E intenda

1’. Che la determinazione di r da parte di A si basi su i

2’. Che A debba pensare che E intenda che (1’) sia falso. (Grice 1969, 1993: 152)

Leonardi propone una soluzione "griceiana" dei controesempi esaminati da Grice che permette la formulazione di una definizione di significato del parlante nella quale è evitato il ricorso al regresso indefinito delle intenzioni o alla clausola che vieta l’esistenza di intenzioni ingannevoli.

Egli ritiene che i controesempi esaminati siano casi di significato naturale, allargando la nozione griciana di significaton sino ad includere anche forme che dipendono da regolarità psicologiche o sociologiche (vedi Leonardi 1992: 165; 2001: 38). La situazione presentata nel controesempio di Schiffer dell’uomo che getta la banconota dalla finestra perché vuole sbarazzarsi del suo ospite avido può ritenersi un caso di significato naturale, poiché è possibile dire che «Il fatto che quell’uomo getta la banconota dalla finestra significa che offende il suo ospite avido». L’enunciatore fa un’azione che ha determinate conseguenze (offendere l’ospite avido e indurlo ad andare via perché offeso), nel fare la quale le sue intenzioni, eccetto quella di fare l’azione, sono irrilevanti. La riformulazione della definizione di significato del parlante proposta da Leonardi è:
«The utterer means p by x» is true iff, for some audience, she uttered x intending her audience
(a) (1) to produce a particular response q;
(2) to fulfil (1) at least in part on the basis of the audience recognition of her intention (1),
and iff
(b) x doesn’t naturally mean p.
(Here p and q are no variables). (Leonardi 2001: 39)

È una formulazione griceiana del "significare" del parlante che dà le condizioni sufficienti per individuare il significato non naturale fondandosi sulla opposizione fra significato naturale e significato non naturale, ma nella quale va perduta l’espressione dell’esigenza fondamentale manifestata nelle formulazioni griciane, ossia la totale trasparenza per il destinatario dei livelli di intenzioni dell’enunciatore, che è il presupposto per il loro riconoscimento ai fini della realizzazione della comunicazione.

In genere, il programma di Grice di definire il significato del parlante in termini di intenzioni è stato interpretato in senso riduzionista dai filosofi analitici, ossia come un tentativo di ridurre il significato linguistico a concetti psicologici (vedi Lycan 2002: 125).

Ma lo stesso Grice ha respinto quest’interpretazione, affermando di non aver mai abbracciato il riduzionismo che comporta l’idea che i concetti semantici siano insoddisfacenti e inintelligibili se non sono interpretati nei termini di qualche insieme di concetti predeterminato, privilegiato e favorito (vedi Grice 1989: 351).

Come rileva Avramides, l’analisi di Grice del rapporto tra significato del parlante e intenzioni è da intendersi, piuttosto, come un’analisi reciproca, un’analisi che evidenzia le interdipendenze fra i concetti e, in tal modo, aiuta a chiarire la comprensione di alcuni attraverso altri che si trovano sullo stesso
livello teorico e non ad un livello più fondamentale (vedi Avramides 1989: 23-24).
Punti nodali della teoria di Grice sono: a) la nozione di «intenzione di significato» e b) il rapporto tra enunciatore e uditorio o destinatario.
a. Grice non specifica alcun senso tecnico del termine «intenzione di significato» (meaning-intention), afferma di non voler risolvere nessun problema filosofico circa l’intendere e che il suo uso della parola «intenzione» (intention) in relazione al significato non solleva nessuna difficoltà particolare (vedi Grice 1957, 1993: 229). Egli ritiene che le intenzioni linguistiche siano come le intenzioni non linguistiche, poiché i criteri per giudicare le intenzioni linguistiche sono simili ai criteri per giudicare le intenzioni non linguistiche (vedi Grice 1957, 1993: 231). Egli osserva:
vi saranno dei casi in cui un’enunciazione [utterance] è accompagnata o preceduta da un «piano» consapevole [conscious «plan»], dalla formulazione esplicita di un’intenzione (ad esempio, dichiaro il modo in cui sto per servirmi di x, o mi chiedo come possa «farmi capire»). La presenza di tale «piano» esplicito milita fortemente, è ovvio, a favore del fatto che l’intenzione (significato) del parlante sia altrettanto «pianificata», anche se non si tratta, a mio avviso, di una prova conclusiva […]. Le intenzioni linguistiche (o semi-linguistiche) formulate esplicitamente sono senza dubbio relativamente rare. In loro assenza sembriamo fare affidamento precisamente sugli stessi criteri cui ci affidiamo nel caso delle intenzioni non linguistiche per le quali esiste un uso generale [general usage]. (Grice 1957, 1993: 229-230)

Le intenzioni linguistiche possono essere considerate pianificazioni di azioni linguistiche come le intenzioni non linguistiche sono considerate pianificazioni di azioni non linguistiche, secondo la pratica generale prevalente (general usage).
La teoria griciana del significato come intenzione è parte di una teoria dell’essere razionale, dell’essere che agisce in modo intenzionale diretto a scopi ritenuti vantaggiosi sulla base di inferenze che fanno riferimento a credenze relative alla realtà (vedi Grice 1982, 1993: 284-286). La comunicazione è una forma di comportamento e, in quanto tale, ne condivide la caratteristica dell’intenzionalità, essa è volta a rispondere a bisogni pragmatici degli esseri, ad incrementare l’esperienza condivisa (shared experience) a fondamento dell’agire (vedi Grice 1982, 1993: 286-290).

b. Piuttosto articolato è il rapporto tra parlante e uditorio delineato nella teoria di Grice. Il significato del parlante appare definito in relazione al processo di ricezione dell’uditorio, quale è inteso dal parlante. Sono essenziali per il parlante sia l’intenzione di indurre una certa credenza nell’uditorio, sia l’intenzione che l’uditorio riconosca l’intenzione del parlante di indurre la credenza, sia l’intenzione che l’uditorio riconosca che il parlante intende fare
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riconoscere la sua intenzione di indurre la credenza, e così via. Grice sottolinea che il parlante deve intendere che il riconoscimento delle sue intenzioni da parte dell’uditorio svolga il proprio ruolo nell’indurre la credenza, e, se non lo fa, le sue intenzioni non saranno soddisfatte (vedi Grice 1957, 1993: 226). L’interesse fondamentale del parlante, secondo Grice, è per la realizzazione della comprensione delle sue intenzioni comunicative da parte dell’uditorio. Atteggiamento che è fondato sull’assunto che vi sia la possibilità che il riconoscimento delle sue intenzioni si verifichi (vedi Grice 1957, 1993: 226). Possibilità che, a sua volta, poggia sulle capacità dell’uditorio di «formulare certi pensieri e di trarre certe conclusioni» (Grice 1969, 1993: 145), vale a dire, sulla sua capacità di inferire le intenzioni del parlante.

Il processo di riconoscimento delle intenzioni di significato da parte del destinatario è considerato da Grice un processo di calcolo delle intenzioni, ma è un calcolo che non consiste in una semplice «decodifica» del significato del parlante, è piuttosto un calcolo che comporta la partecipazione del destinatario all’elaborazione del significato (vedi Grice 1969, 1993: 145).

Egli precisa che «l’effetto inteso [intended effect] deve essere qualcosa che l’uditorio possa in un certo senso controllare, o che in qualche senso di “ragione” il riconoscimento dell’intenzione che sta dietro a x sia per l’uditorio una ragione e non semplicemente una causa» (Grice 1957, 1993: 228). L’effetto che il parlante intende produrre sull’uditorio non è completamente sotto il controllo del parlante, ma è qualcosa che in un certo senso l’uditorio può controllare, ossia qualcosa che l’uditorio può ricostruire sulla base di ragioni che fanno riferimento all’esperienza condivisa (vedi Grice 1957, 1993: 228-229).

Secondo questa prospettiva, allora, l’attività di ricostruzione dell’intenzione comunicativa da parte dell’uditorio non può essere considerata un’attività di semplice riconoscimento d’intenzioni, ma deve essere considerata un’attività di attribuzione d’intenzioni di significato al parlante. Infatti, Grice considera casi nei quali sussistono dubbi circa quale di due o più cose un parlante intende comunicare. In tali casi, egli osserva, tendiamo a fare riferimento al contesto linguistico o extra-linguistico, chiedendoci quale alternativa risulterebbe pertinente o quale intenzione in una situazione data si accorderebbe meglio con lo scopo che il parlante sta perseguendo (vedi Grice 1957, 1993: 230).

Non è condivisibile, perciò, l’interpretazione di Cosenza la quale afferma che «Grice ha cercato sempre di spiegare il significato del parlante o dell’emittente, mai quello dell’ascoltatore o del destinatario» e che «l’unico ruolo che Grice abbia mai attribuito all’ascoltatore è il riconoscimento delle intenzioni del parlante» (Cosenza 2002: 279).
D’altra parte, se si tiene conto del contesto all’interno del quale Grice formula la definizione di significato del parlante, che è quello dell’uso ordinario che la gente fa dell’espressione to mean (vedi Grice 1957, 1993: 223), è evidente, come osserva Sbisà, che «what is primarily at stake is not the “real
story” of how meaningnn generates in an uttering subject, but the elucidation of what we mean, or perhaps of what we do, when we use the problematic word “to mean”» (Sbisà, 2001: 187). La definizione di significato del parlante è data da Grice dal punto di vista del destinatario, è ciò che il destinatario intende quando ritiene che un parlante intende direnn qualcosa. Alla luce di queste considerazioni, Sbisà propone di riformulare nel modo seguente la definizione generalmente accettata di significato del parlante:
Whenever an audience A takes an utterer U to meannn something by an utterance x:
(i) A should ascribe to U the intention to achieve effect E on A,
(ii) A should ascribe to U the intention to get A to recognize that U intends to achieve effect E on A,
(iii) A should ascribe to U the intention that effect E on A is to be achieved on the basis of A’s recognition of U’s intention to achieve effect E on A. (Sbisà 2001:189)
Ciò che emerge dalla prospettiva di Grice, che comporta sia la trasparenza delle intenzioni di significato del parlante, sia l’attribuzione di intenzioni al parlante da parte del destinatario, è la reciprocità intenzionale tra parlante e uditorio: il significato è il risultato dell’attività di entrambi i partecipanti al processo di comunicazione.

Grice ha messo in evidenza che un parlante comunica molto più di ciò che dice in modo esplicito, ossia genera delle «implicature» (implicatures). Un parlante che dice «Egli è un inglese; quindi è coraggioso» non dice, ma fa intendere che dal fatto che un particolare individuo è inglese segue che è anche coraggioso. Un cronista che riferisce

La signorina X ha emesso una serie di suoni strettamente corrispondente all’aria di "Oh mio babbino caro"", invece di dire semplicemente

«La signorina X ha cantato “Oh mio babbino caro”»

lascia intendere alcune notevoli differenze tra la prestazione della signorina X e quelle alle quali, di solito, è applicato il verbo «cantare».

La supposizione è che la prestazione della signorina X sia caratterizzata da difetti orripilanti (vedi Grice 1975, 2003: 227-228, 241).

La implicatura e convenzionale o conversazionale, a seconda che siano legate al significato convenzionale delle parole, come nel primo esempio, o siano connesse con certe caratteristiche generali del discorso che Grice ritiene definite da un principio generale denominato

«Principio di Cooperazione»

come nel secondo esempio.

I nostri scambi linguistici, secondo Grice, sono, almeno in un certo grado, «lavori in collaborazione», in cui ciascun partecipante vi riconosce uno scopo 92
comune o almeno un orientamento mutuamente accettato, poiché una successione di osservazioni prive di connessioni reciproche apparirebbe irrazionale. Ogni interlocutore è ritenuto fare riferimento a un Principio di Cooperazione per il quale dà alla conversazione un contributo «tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o orientamento accettato dello scambio linguistico» in cui è impegnato (vedi Grice 1975, 2003: 229). Il Principio di Cooperazione si declina in massime conversazionali, raggruppate nelle quattro

Categoria della Quantità
Categoria della Qualità
Categoria della Relazione
Categoria del Modo

-- le quali specificano la rete di aspettative reciproche, nello scambio di informazione, tra interlocutori che si suppongono razionali: dare un contributo tanto informativo quanto è richiesto, non dire ciò che si ritiene esser falso o per cui non si hanno prove adeguate, dire cose pertinenti ed esprimersi in forma chiara, non ambigua, concisa e ordinata (vedi Grice 1975, 2003: 229-230).

Grice osserva che le aspettative e le presunzioni connesse con il Principio di Cooperazione e con alcune massime hanno i loro corrispettivi in sfere di transazione diverse dallo scambio linguistico (vedi Grice 1975, 2003: 232). Lo scopo di Grice è di dimostrare che la base sulla quale si assumono il Principio di Cooperazione e le massime della conversazione non è empirica, ma razionale: essi sono riconducibili ai principi generali di razionalità propri di ogni forma d’agire degli esseri razionali, che è finalizzato perché è razionale. Il discorrere è un caso speciale di comportamento razionale (vedi Grice 1975, 2003: 231-233; 1989: 341).

Principio e massime non sono qualcosa che, di fatto, tutti seguono, ma qualcosa che è ragionevole che tutti seguano e da cui non dovrebbero deviare: essi hanno un valore normativo e non puramente descrittivo, sono indicazioni generali di comportamento che si dovrebbero seguire per promuovere «la razionalità conversazionale» (vedi Grice 1975, 2003: 232; 1989: 369-370).

Come la definizione di significato del parlante, il Principio di Cooperazione e le massime conversazionali delineano un quadro di comunicazione razionale ideale (cfr. Cosenza 2002: 182-183). Grice sostiene che essi sono stati formulati come se lo scopo di uno scambio linguistico fosse «uno scambio di informazioni quanto più possibile efficiente» (Grice 1975, 2003: 231). È ideale la comunicazione nella quale non solo il parlante rende trasparenti tutte le sue intenzioni di significato al destinatario, ma dà anche l’informazione richiesta, dice la verità, è pertinente ed è perspicuo.

L’idealità del Principio di Cooperazione e delle massime conversazionali rende conto dei casi reali di comunicazione nei quali i partecipanti possono mancare di soddisfare le massime in vari modi (vedi Grice 1975, 2003: 233-234). Quando una massima è violata apertamente, o non è chiaro se una massima è violata, e il parlante non dà l’impressione di voler uscire dalla situazione di comunicazione, l’ascoltatore cercherà di riconciliare il fatto che il parlante abbia detto quello che ha detto con la supposizione che egli si stia conformando al Principio di Cooperazione e riterrà che il parlante abbia voluto comunicare, oltre a ciò che le sue parole letteralmente significano, anche qualcos’altro, ossia che abbia dato luogo ad un’implicatura conversazionale (vedi Grice 1975, 2003: 234).
La nozione di «implicatura conversazionale» è caratterizzata da Grice nel modo seguente:

"Di un uomo il quale dicendo (o facendo mostra di dire)
che p abbia implicato che q, si può dire che ha
implicato conversazionalmente che q, nel caso in
cui

(1)

si abbia motivo di presumere che egli stia conformandosi alle massime conversazionali, o almeno al Principio di Cooperazione;

(2)

per rendere coerente con questa presunzione il fatto che egli dice o fa mostra di dire che p (o che fa l’una o l’altra cosa in quei termini) è richiesta la supposizione che egli si renda conto che, o pensi che, q; e

(3)

il parlante pensa (e si aspetta che l’ascoltatore pensi che lui pensa) che faccia parte della competenza dell’ascoltatore inferire, o afferrare intuitivamente, che è richiesta la supposizione indicata in (2).

-------------- Grice 1975, 2003: 234)


Grice precisa che la presenza di un’implicatura conversazionale deve poter essere elaborata (must be capable of being worked out), anche se, di fatto, può essere afferrata intuitivamente (vedi Grice 1975, 2003: 234-235): l’intuizione deve essere sostituibile da un ragionamento (argument), di cui offre il modello seguente:

1. il parlante ha detto che p,

2. non c’è motivo di credere che non si stia conformando alle massime, o per lo meno al Principio di Cooperazione,

3. non potrebbe farlo se non pensasse che q,

4. sa (e sa che io so che lui sa) che posso capire che è richiesta la supposizione che lui pensa che q,

5. non ha fatto niente per impedirmi di pensare che q,

6. intende farmi pensare, o almeno è disposto a lasciarmi pensare, che q,

7. Dunque:

ha implicato (has implicated) che q (vedi Grice 1975, 2003: 235).

È il ragionamento fatto dall’uditorio che, per realizzarlo, può contare sui seguenti dati:

1. il significato convenzionale delle parole usate, insieme con l’identità di ogni riferimento che possa entrare in gioco,

2. il Principio di Cooperazione e le sue massime,

3. il contesto, linguistico o extralinguistico, del proferimento,

4. altri elementi del bagaglio di conoscenze,

5. il fatto (o supposto tale) che tutti gli elementi pertinenti che rientrano nelle categorie elencate siano accessibili ad ambedue i partecipanti e che ambedue i partecipanti sappiano o assumano che sia così (vedi Grice 1975, 2003: 235).

A potrebbe ragionare in questo modo per inferire cosa B abbia inteso col dire che «C va proprio bene col suo lavoro in banca,

"si trova bene con i colleghi."

E

"Non è ancora finito in prigione".

(1) B, a quanto pare, ha violato la massima «Sii pertinente» e perciò si può ritenere che si sia fatto beffe di una delle massime in modo perspicuo.

Tuttavia non ho motivo di supporre che stia uscendo dal raggio d’azione del Principio di Cooperazione;

(2) date le circostanze, posso considerare come soltanto apparente la mancanza di pertinenza di quanto ha detto se, e soltanto se, suppongo che egli pensi che C è potenzialmente disonesto;

(3) B sa che io sono in grado di operare il passaggio (2).

Dunque:

B implica che C è potenzialmente disonesto.

Vedi Grice 1975, 2003: 234).

È oggetto di dibattito il modo in cui Grice intende il rapporto tra intenzioni di significato del parlante e implicature conversazionali. Neale considera fondamentale la condizione (3) nella ricostruzione degli stati mentali da attribuirsi al parlante per poter dire che ha prodotto un’implicatura: «il parlante pensa (e si aspetta che l’ascoltatore pensi che lui pensa) che faccia parte della competenza dell’ascoltatore inferire, o afferrare intuitivamente, che è richiesta la supposizione indicata in (2)» (Grice 1975, 2003: 234).

Perciò, egli ritiene che l’implicatura conversazionale sia intesa (intended) dal parlante, nel senso che ciò che il parlante implica è parte di ciò che il parlante significann e che ciò che il parlante significann è determinato dalle sue intenzioni comunicative (vedi Neale 1992: 528). La stessa posizione è sostenuta da Cosenza, la quale ritiene che il nesso tra intenzioni di significato e implicature conversazionali non sia stato colto da diversi studiosi di Grice perché è mancata loro una visione completa della filosofia del linguaggio griciana (vedi Cosenza 2002: 267-268, 317: nota 279).

Saul respinge l’interpretazione di Neale mettendo in evidenza che ci sono situazioni nelle quali i parlanti significanonn cose che non implicano e situazioni nelle quali l’implicatura calcolata non è un contenuto significatonn dal parlante (vedi Saul 2002: 229-230, 237-238). Ella ritiene che le caratterizzazioni fatte da Grice del significato del parlante e dell’implicatura conversazionale siano date in termini differenti, la prima completamente in termini di intenzioni del parlante e la seconda tenendo conto anche dell’uditorio (vedi Saul 2002: 229). L’inclusione di criteri orientati sull’uditorio è, secondo Saul, un’operazione fatta allo scopo di dare un qualche grado di intersoggettività alla nozione di implicatura conversazionale. Ella afferma:

A speaker’s intending to convey that p by saying that q is not enough for the speaker to implicate that p. The audience must also need to believe that the speaker believes that p in order to preserve the assumption of the speaker’s cooperativeness. […] Grice is careful not to hand too much control over to the audience, either. What matters is what the audience is required to believe, not what she does believe. (Saul 2002: 241)

La nozione di «implicatura conversazionale» è legata da Saul alla nozione di «informazione che il parlante rende accessibile (makes available) all’uditorio»: implicare conversazionalmente qualcosa non garantisce la comprensione dell’uditorio, ma significa che il parlante rispetta le sue responsabilità comunicative riguardo a ciò che vuole comunicare oltre ciò che dice, ossia che rende accessibile il suo messaggio all’uditorio, il quale può inferirlo o può non inferirlo (vedi Saul 2002: 245).
Un ruolo decisivo è riconosciuto all’uditorio da Sbisà, la quale sottolinea la razionalità del processo realizzato dall’uditorio nell’attribuire al parlante l’intenzione di comunicare qualcosa che corrisponde al contenuto dell’implicatura. Considerando il passo conclusivo del ragionamento dell’uditorio che ascrive al parlante l’intenzione a fargli pensare, o almeno la propensione a lasciargli pensare l’implicatura, ella afferma:
It would be superficial to conclude that an implicature is the intention or willingness of the speaker to let the audience think something. What the whole «general pattern for the working out of a conversational implicature» is up to, is to show that a conversational implicature is something such that is reasonable to ascribe to the speaker the intention to convey it. (Sbisà 2001: 196)
Che l’implicatura conversazionale non sia resa tale da un’intenzione del parlante, ma sia attribuita al parlante dall’uditorio, è evidente sia dalla ricostruzione del ragionamento di calcolo dell’implicatura sia dalla caratterizzazione dell’implicatura stessa fatta nella seconda lezione di Logic and conversation: l’uditorio argomenta che «il parlante non potrebbe aver detto p se non pensasse q», che «il parlante sa (e sa che lui sa che il parlante sa) che lui può capire che è richiesta la supposizione che il parlante pensa che q», che «il parlante intende fargli pensare, o almeno è disposto a lasciargli pensare, che q» e suppone che «il parlante si renda conto [is aware] che, o pensa che, q» (Grice 1975, 2003: 234-235). La condizione (3) nella caratterizzazione dell’implicatura conversazionale ha il suo corrispettivo nel passo n. 4 del ragionamento fatto dall’ascoltatore: è l’ascoltatore che pensa che il parlante pensi (e s’aspetta che l’ascoltatore pensi che lui pensa) che faccia parte della competenza dell’ascoltatore inferire, o afferrare intuitivamente, che è richiesta la supposizione indicata in (2) (vedi Grice 1975, 2003: 234-235). Importante è anche un passo della quinta lezione di Logic and conversation nella quale Grice afferma:
ciò che implicato è ciò che si deve ritenere un parlante pensi al fine di mantenere l’assunzione che egli sta osservando il Principio di Cooperazione (e forse anche qualche massima conversazionale), se non a livello di quanto viene detto, almeno a livello di quanto è implicato. (Grice 1969, 1993: 131) 96
C. Antonelli / Intenzioni ed inferenze nella teoria della comunicazione di Grice: un’interpretazione

Ciò che è implicato è ciò che la situazione comunicativa richiede che l’uditorio assuma come pensiero del parlante per preservare l’assunzione che il parlante stia rispettando il Principio di Cooperazione e le massime, almeno a livello di ciò che è implicato.

È proprio da una considerazione d’assieme della filosofia del linguaggio di Grice che non possono essere condivise le posizioni di Neale e Cosenza sul rapporto tra intenzioni del parlante e implicatura conversazionale: come il processo con cui l’uditorio riconosce le intenzioni di significato del parlante è da intendersi un processo di attribuzione al parlante delle intenzioni di significato, così il processo con cui l’uditorio calcola l’implicatura conversazionale è da intendersi un processo di attribuzione al parlante del contenuto dell’implicatura.
3.2. Diverse interpretazioni sono state date della struttura inferenziale del modello di elaborazione dell’implicatura conversazionale. Cosenza afferma che il processo di derivazione dell’implicatura conversazionale da parte dell’ascoltatore può «essere ricostruito […] nella forma di un vero e proprio argomento deduttivo, di cui il Principio di Cooperazione e le massime sono gli assiomi fondamentali» (Cosenza 2002: 186-187). Levinson, invece, ritiene che le implicature griciane sono «più simili alle inferenze induttive che a quelle deduttive» (Levinson 1993: 125-126). E Bianchi afferma che «le implicature griceane, più che inferenze logiche vere e proprie, possono essere viste come meccanismi di formazione e conferma di ipotesi» (Bianchi 2003: 102).
Se consideriamo sia il peso che Grice attribuisce alle supposizioni dell’ascoltatore nel processo di inferire l’implicatura conversazionale, sia la struttura dei diversi esempi di inferenza che presenta, è evidente che il calcolo dell’implicatura conversazionale esibisce la forma di un ragionamento ipotetico.
È possibile considerarlo un procedimento abduttivo come hanno proposto Hobbs e i suoi collaboratori (vedi Hobbs et al. 1993: 114)? L’abduzione è l’inferenza di una ragione da un fatto osservato e da un’ipotesi formulata, che procede «dal conseguente all’antecedente» secondo la forma «q, se p allora q, perciò p» (vedi Peirce 1980: § 5.276; 1984: §§ 2.621-2.623, 2.636). È uno schema elaborato da Peirce nel contesto di una concezione del segno come indizio di qualcosa per qualcuno con l’obiettivo di spiegare perché un enunciato può ritenersi vero, ma che non conduce ad individuare intenzioni di significato.
Se sembra sensato considerare l’implicatura conversazionale una ragione di un fatto osservato, cioè una ragione del proferimento di un enunciato, è problematico in che modo elaborare l’ipotesi dalla quale inferire l’implicatura conversazionale, che porti ad ascrivere un piano intenzionale al parlante (sul rapporto tra intenzioni, ragioni e azioni cfr. Anscombe 1957).
È evidente dalla ricostruzione del ragionamento fatta da Grice che l’ascoltatore, dopo aver afferrato immediatamente l’implicatura
conversazionale, in genere, non formula un’unica ipotesi ma una serie di ipotesi che portano a confermare l’intuizione iniziale. E in tale processo fa riferimento, spesso anche se non sempre, non solo al Principio di Cooperazione e alle massime conversazionali, ma anche al contesto linguistico ed extralinguistico del proferimento, al proprio bagaglio di conoscenze e alle assunzioni che ritiene condivise con l’interlocutore.

L’interpretazione proposta del programma griceiano del significare e della implicatura conversazionale, fondata sulla considerazione della metodologia griceiana di analisi degli usi ordinari delle espressioni linguistiche in occasioni particolari, ha messo in evidenza il ruolo fondamentale dell’uditorio nel processo di comunicazione.

Il significato degli enunciati e il contenuto delle implicature conversazionali non possono essere considerati equivalenti a manifestazioni di intenzioni da parte di un parlante, ma vanno considerati processi di attribuzione di intenzioni al parlante da parte dell’uditorio.

È necessario uno studio più approfondito di tali processi, volto ad individuarne la struttura inferenziale e i criteri di selezione delle premesse.

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