Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Tuesday, July 12, 2011

Il Galateo -- Grisotto

Luigi Speranza

Trattato di Messer Giovanni Della Casa, nel quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovinetto, si ragiona dei modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo overo de’ costumi"

CONTENTS

CAPITOLO 1.

"Ideale di vita: i buoni costumi sono utili alla società."

CAPITOLO 2.

"Le azioni si devono fare non a proprio arbitrio ma per il piacere di coloro coi quali si è in compagnia."

CAPITOLO 3.

"Cose laide da non fare o nominare"
4.Aneddoto di Messer Galateo e del Conte Ricciardo
5.A tavola: modi dei commensali e dei servitori
6.Comportamenti da tenere in compagnia degli altri
7.Bisogna adattarsi alle usanze degli altri nel modo di vestirsi, di tagliarsi i capelli e la barba
8.Non avere a tavola modi violenti o noiosi o sconci; aneddoto di Messer Bandinelli
9.Utilità della ritrosia ma senza eccessi
10.Non si devono usare modi vezzosi come quelli delle donne
11.Evitare argomenti che non interessano o temi sottili difficili da capire
12.Condanna dei bestemmiatori e di coloro che raccontano i propri sogni - il sogno di Messer Flaminio Tomarozzo
13.Contro i millantatori e i bugiardi o coloro che si vantano
14.Sul linguaggio da tenere durante la conversazione: chiarezza, onestà; evitare parole sconce o dal doppio senso o le cerimonie fatte per tornaconto o per adulazione
15.Conclusione contro le cerimonie, perché degli uomini malvagi e sleali
16.Sulle cerimonie per debito o per vanità - le cerimonie imposte dalla legge da usare tenendo conto del luogo e delle usanze - aneddoto di Edipo e Teseo
17.Non usar cerimonie fuor del convenevole per non essere vanitosi
18.Le persone schifano l'amicizia dei maldicenti - condanna dell'eccesso del dar consigli
19.Bando agli scherni e alle ingiurie - occorre saper fare bene le beffe
20.Sui motti di spirito
21.Il conversare disteso deve rappresentare le usanze, gli atti e i costumi
22.Sul linguaggio da tenere durante la conversazione: chiarezza, onestà; evitare parole sconce o dal doppio senso
23.Prima di parlare bisogna sapere cosa dire - il tono della voce - scelta delle parole dal miglior suono e dal miglior significato
24.Lasciare che anche gli altri parlino - non interrompere qualcuno quando parla - il soverchio dire reca fastidio, il soverchio tacere odio
25.Aneddoto del Maestro Chiarissimo - il costume e la ragione sono i maestri per porre freno alla natura - l'educazione deve essere impartita fin nella più tenera età
26.La bellezza femminile: convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e 'l tutto
27.La bellezza è armonia: anche il vestire deve essere armonico
28.Fuggire vizi come lussuria, avarizia, crudeltà - ogni azione (vestire, portamento, camminata, parlata, stare a tavola, ecc.) deve essere armonica
29.Norme generali di comportamento
30.Ancora norme di comportamento


-----

CAPITOLO I

[1]

Con ciò sia cosa che tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la maggior parte, sì come tu vedi, fornito, cioè questa vita mortale, amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo di venirti mostrando quando un luogo e quando altro, dove io, come colui che gli ho sperimentati, temo che tu, caminando per essa, possi agevolmente o cadere, o come che sia, errare: acciò che tu, ammaestrato da me, possi tenere la diritta via con la salute dell’anima tua e con laude et onore della tua orrevole e nobile famiglia.

[2]

E perciò che la tua tenera età non sarebbe sufficiente a ricevere più prencipali e più sottili ammaestramenti, riserbandogli a più convenevol tempo, io incomincerò da quello che per aventura potrebbe a molti parer frivolo.

Cioè quello che io stimo che si convenga di fare per potere, in comunicando et in usando con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera.

Il che non di meno è o virtù o cosa molto a virtù somigliante.

[3]

E come che l’esser liberale o constante o magnanimo sia per sé sanza alcun fallo più laudabil cosa e maggiore che non è l’essere avenente e costumato, non di meno forse che la dolcezza de’ costumi e la convenevolezza de’ modi e delle maniere e delle parole giovano non meno a’ possessori di esse che la grandezza dell’animo e la sicurezza altresì a’ loro possessori non fanno.

Perciò che queste si convengono essercitare ogni dì molte volte, essendo a ciascuno necessario di usare con gli altri uomini ogni dì et ogni dì favellare con esso loro.

Ma la giustitia, la fortezza e le altre virtù più nobili e maggiori si pongono in opera più di rado.

Né il largo et il magnanimo è astretto di operare a ogni ora magnificamente, anzi non è chi possa ciò fare in alcun modo molto spesso.

E gli animosi uomini e sicuri similmente rade volte sono constretti a dimostrare il valore e la virtù loro con opera.

[4]

Adunque, quanto quelle di grandezza e quasi di peso vincono queste, tanto queste in numero et in ispessezza avanzano quelle.

E potre’ ti, se egli stesse bene di farlo, nominare di molti, i quali, essendo per altro di poca stima, sono stati, e tuttavia sono, apprezzati assai per cagion della loro piacevole e graziosa maniera solamente.

Dalla quale aiutati e sollevati, sono pervenuti ad altissimi gradi, lasciandosi
lunghissimo spatio adietro coloro che erano dotati di quelle più nobili e più chiare virtù che io ho dette.

[5]

E come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di
coloro co’ quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi.

[6]

Per la qual cosa, quantunque niuna pena abbiano ordinata le leggi alla
spiacevolezza et alla rozzezza de’ costumi (sì come a quel peccato che loro è paruto leggieri, e certo egli non è grave), noi veggiamo non di meno che la natura istessa ce ne castiga con aspra disciplina, privandoci per questa cagione del consortio e della benivolenza degli uomini.

E certo, come i peccati gravi più nuocono, così questo leggieri più noia o noia
almeno più spesso.

E sì come gli uomini temono le fiere salvatiche e di alcuni piccioli animali,
come le zanzare sono e le mosche, niuno timore hanno, e non di meno, per la continua noia che eglino ricevono da loro, più spesso si ramaricano di questi che di quelli non fanno, così adiviene che il più delle persone odia altrettanto gli spiacevoli uomini et i rincrescevoli quanto i malvagi, o più.

[7]

Per la qual cosa niuno può dubitare che a chiunque si dispone di vivere non per le solitudini o ne’ romitorii, ma nelle città e tra gli uomini, non sia utilissima
cosa il sapere essere ne’ suoi costumi e nelle sue maniere gratioso e piacevole.

Sanza che le altre virtù hanno mestiero di più arredi, i quali mancando, esse nulla o poco adoperano.

Dove questa, sanza altro patrimonio, è ricca e possente, sì come quella che consiste in parole et in atti solamente.

CAPITOLO II

[8]

Il che acciò che tu più agevolmente apprenda di fare, dèi sapere che a te convien
temperare et ordinare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co’ quali tu usi, et a quello indirizzargli.

E ciò si vuol fare mezzanamente,

perciò che chi si diletta di troppo secondare il piacere altrui

nella conversazione

e nella usanza, pare più tosto buffone o giucolare, o per aventura lusinghiero, che costumato gentiluomo.

[9]

Sì come, per lo contrario, chi di piacere o di dispiacere altrui non si dà alcun pensiero è zotico e scostumato e disavenente.

[10]

Adunque, con ciò sia che le nostre maniere sieno allora dilettevoli, quando noi abbiamo risguardo all’altrui e non al nostro diletto, se noi investigheremo quali sono quelle cose che dilettano generalmente il più degli uomini, e quali
quelle che noiano, potremo agevolmente trovare quali modi siano da schifarsi nel vivere con esso loro e quali siano da eleggersi.

[11]

Diciamo adunque che ciascun atto che è di noia ad alcuno de’ sensi, e ciò che è contrario all’appetito, et oltre a ciò quello che rappresenta alla
imaginatione cose male da lei gradite, e similmente ciò che lo ’ntelletto have a schifo, spiace e non si dèe fare.

CAPITOLO III

[12]

Perciò che non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o
fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice.

E non pure il farle et il ricordarle dispiace, ma etiandio il ridurle nella imaginatione altrui con alcuno atto suol forte noiar le persone.

[13]

E perciò sconcio costume è quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia.

[14]

Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini.

Né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza.

Né pure, quindi tornando, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata, con ciò sia che la cagione per la quale egli se le lava rappresenti nella imagination di coloro alcuna bruttura.

[15]

E per la medesima cagione non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro.

[16]

E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instantia, pure accostandocela al naso e dicendo:

Deh, sentite di gratia come questo pute.

Anzi doverebbon dire:

Non lo fiutate, perciò che pute.

[17]

E come questi e simili modi noiano quei sensi a’ quali appartengono, così il dirugginare i denti, il sufolare, lo stridere e lo stropicciar pietre aspre et il fregar ferro spiace agli orecchi, e dèesene l’uomo astenere più che
può.

[18]

E non sol questo.

Ma dèesi l’uomo guardare di cantare, specialmente solo, se egli ha la voce discordata e difforme.

Dalla qual cosa pochi sono che si riguardino, anzi, pare che chi meno è a ciò atto naturalmente più spesso il faccia.

[19]

Sono ancora di quelli che, tossendo e starnutendo, fanno sì fatto lo strepito che assordano altrui.

E di quelli che, in simili atti, poco discretamente usandoli, spruzzano nel viso a’ circonstanti.

E truovasi anco tale che, sbadigliando, urla o ragghia come asino.

E tale con la bocca tuttavia aperta vuol pur dire e seguitare suo ragionamento e manda fuori quella voce (o più tosto quel romore) che fa il mutolo quando egli si sforza di favellare.

Le quali sconce maniere si voglion fuggire come noiose all’udire et al vedere.

[20]

Anzi dèe l’uomo costumato astenersi dal molto sbadigliare, oltra le predette cose, ancora perciò che pare che venga da un cotal rincrescimento e da tedio, e che colui che così spesso sbadiglia amerebbe di esser più tosto in altra parte che
quivi, e che la brigata, ove egli è, et i ragionamenti et i modi loro gli rincrescano.

[21]

E certo,
come che l’uomo sia il più del tempo acconcio a sbadigliare, non di meno, se egli è
soprapreso da alcun diletto o da alcun pensiero, egli non ha mente di farlo.

Ma, scioperato
essendo et accidioso, facilmente se ne ricorda.

E perciò, quando altri sbadiglia colà dove
siano persone ociose e sanza pensiero, tutti gli altri, come tu puoi aver veduto far molte
volte, risbadigliano incontinente, quasi colui abbia loro ridotto a memoria quello che eglino
arebbono prima fatto, se essi se ne fossino ricordati.

[22]

Ed io ho sentito molte volte dire a’savi litterati che tanto viene a dire in latino «sbadigliante» quanto ‘neghittoso’ e ‘trascurato’.

[23]

Vuolsi adunque fuggire questo costume, spiacevole – come io ho detto – agli occhi et
all’udire et allo appetito.

Perciò che, usandolo, non solo facciamo segno che la compagnia
con la qual dimoriamo ci sia poco a grado, ma diamo ancora alcun indicio cattivo di noi medesimi, cioè di avere addormentato animo e sonnacchioso.

La qual cosa ci rende poco
amabili a coloro co’ quali usiamo.

[24]

Non si vuole anco, soffiato che tu ti sarai il naso, aprire
il moccichino e guatarvi entro, come se perle o rubini ti dovessero esser discesi dal cielabro,
che sono stomachevoli modi et atti a fare, non che altri ci ami, ma che se alcuno ci amasse, si
disinnamori.

Sì come testimonia lo spirito del Labirinto (chi che egli si fosse), il quale, per
ispegnere l’amore onde Boccaccio ardea di quella sua male da lui
conosciuta donna, gli racconta come ella covava la cenere sedendosi in su le calcagna e
tossiva et isputava farfalloni.

[25]

Sconvenevol costume è anco, quando alcuno mette il naso in
sul bicchier del vino che altri ha a bere, o su la vivanda che altri dèe mangiare, per cagion di
fiutarla.

Anzi non vorre’ io che egli fiutasse pur quello che egli stesso dèe bersi o mangiarsi,
poscia che dal naso possono cader di quelle cose che l’uomo ave a schifo, etiandio che allora
non caggino.

[26]

Né per mio consiglio porgerai tu a bere altrui quel bicchier di vino al quale
tu arai posto bocca et assaggiatolo, salvo se egli non fosse teco più che domestico.

E molto meno si dèe porgere pera o altro frutto nel quale tu arai dato di morso.

[27]

E non guardare
perché le sopra dette cose ti paiano di picciolo momento, perciò che anco le leggieri
percosse, se elle sono molte, sogliono uccidere.

CAPITOLO IV

[28]

E sappi che in Verona ebbe già un Vescovo molto savio di scrittura e di senno
naturale, il cui nome fu Giovanni Matteo Giberti, il quale fra gli altri suoi laudevoli costumi si fu cortese e liberale assai a’ nobili gentiluomini che andavano e venivano a lui,
onorandogli in casa sua con magnificenza non soprabondante, ma mezzana, quale conviene
a cherico.

[29]

Avenne che, passando in quel tempo di là un nobile uomo, nomato Conte
Ricciardo, egli si dimorò più giorni col Vescovo e con la famiglia di lui, la quale era per lo più
di costumati uomini e scientiati.

[30]

E perciò che gentilissimo cavaliere parea loro e di
bellissime maniere, molto lo commendarono et apprezzarono.

Ee non che un picciolo difetto
avea ne’ suoi modi; del quale essendosi il Vescovo – che intendente signore era – avveduto ed avutone consiglio con alcuno de’ suoi più domestichi, proposero che fosse da farne
aveduto il Conte, come che temessero di fargliene noia.

[31]

Per la qual cosa, avendo già il
Conte preso commiato e dovendosi partir la matina vegnente, il Vescovo, chiamato un suo
discreto famigliare, gli impose che, montato a cavallo col Conte, per modo di
accompagnarlo, se ne andasse con esso lui alquanto di via; e, quando tempo gli paresse, per
dolce modo gli venisse dicendo quello che essi aveano proposto tra loro.

[32] Era il detto
famigliare uomo già pieno d’anni, molto scientiato et oltre ad ogni credenza piacevole e ben
parlante e di gratioso aspetto, e molto avea de’ suoi dì usato alle corti de’ gran signori.

Il
quale fu (e forse ancora è) chiamato m(esser) Galateo, a petition del quale e per suo consiglio
presi io da prima a dettar questo presente trattato.

[33]

Costui, cavalcando col Conte, lo ebbe
assai tosto messo in piacevoli ragionamenti.

E di uno in altro passando, quando tempo gli
parve di dover verso Verona tornarsi, pregandonelo il Conte et accommiatandolo, con lieto
viso gli venne dolcemente così dicendo.

Signor mio, il Vescovo mio signore rende a
Vostra Signoria infinite grazie dell’onore che egli ha da voi ricevuto.

Il quale degnato vi
siete di entrare e di soggiornar nella sua picciola casa.

[34]

Ed oltre a ciò, in riconoscimento di
tanta cortesia da voi usata verso di lui, mi ha imposto che io vi faccia un dono per sua parte,
e caramente vi manda pregando che vi piaccia di riceverlo con lieto animo.

Ed il dono è
questo.

[35]

Voi siete il più leggiadro et il più costumato gentiluomo che mai paresse al
Vescovo di vedere; per la qual cosa, avendo egli attentamente risguardato alle vostre maniere
et essaminatole partitamente, niuna ne ha tra loro trovata che non sia sommamente piacevole
e commendabile, fuori solamente un atto difforme che voi fate con le labra e con la bocca,
masticando alla mensa con un nuovo strepito molto spiacevole ad udire.

[36] Questo vi manda
significando il Vescovo e pregandovi che voi v’ingegniate del tutto di rimanervene e che voi
prendiate in luogo di caro dono la sua amorevole riprensione et avertimento; perciò che egli
si rende certo niuno altro al mondo essere che tale presente vi facesse.

[37] – Il Conte, che del
suo difetto non si era ancora mai aveduto, udendoselo rimproverare, arrossò così un poco,
ma, come valente uomo, assai tosto ripreso cuore, disse: – Direte al Vescovo che, se tali
fossero tutti i doni che gli uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più
ricchi sarebbono che essi non sono.

[38] E di tanta sua cortesia e liberalità verso di me
ringratiatelo sanza fine, assicurandolo che io del mio difetto sanza dubbio per innanzi bene e
diligentemente mi guarderò; et andatevi con Dio –.

CAPITOLO V

[39]

Ora, che crediamo noi che avesse il Vescovo e la sua nobile brigata detto a coloro che
noi veggiamo talora a guisa di porci col grifo nella broda tutti abbandonati non levar mai alto
il viso e mai non rimuover gli occhi, e molto meno le mani, dalle vivande? E con amendue le
gote gonfiate, come se essi sonassero la tromba o soffiassero nel fuoco, non mangiare, ma
trangugiare: [40] i quali, imbrattandosi le mani poco meno che fino al gomito, conciano in
guisa le tovagliuole che le pezze degli agiamenti sono più nette? Con le quai tovagliuole anco
molto spesso non si vergognano di rasciugare il sudore che, per lo affrettarsi e per lo
soverchio mangiare, gocciola e cade loro dalla fronte e dal viso e d’intorno al collo, et anco di
nettarsi con esse il naso, quando voglia loro ne viene?

[41] Veramente questi così fatti non
meritarebbono di essere ricevuti, non pure nella purissima casa di quel nobile Vescovo, ma
doverebbono essere scacciati per tutto là dove costumati uomeni fossero. Dèe adunque
l’uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata,
perciò che ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dèe mangiare, non
pare polito costume.

[42] I nobili servidori, i quali si essercitano nel servigio della tavola, non si
8
deono per alcuna conditione grattare il capo né altrove dinanzi al loro signore quando e’
mangia, né porsi le mani in alcuna di quelle parti del corpo che si cuoprono, né pure farne
sembiante, sì come alcuni trascurati famigliari fanno, tenendosele in seno, o di dirieto
nascoste sotto a’ panni; ma le deono tenere in palese e fuori d’ogni sospetto, et averle con
ogni diligenza lavate e nette, sanza avervi su pure un segnuzzo di bruttura in alcuna parte.

[43]

E quelli che arrecano i piattelli o porgono la coppa, diligentemente si astenghino in quell’ora
da sputare, da tossire e, più, da starnutire, perciò che in simili atti tanto vale, e così noia i
signori, la sospettione, quanto la certezza; e perciò procurino i famigliari di non dar cagione
a’ padroni di sospicare, perciò che quello che poteva adivenire così noia come se egli fosse
avenuto.

[44]

E se talora averai posto a scaldare pera d’intorno al focolare, o arrostito pane in
su la brage, tu non vi dèi soffiare entro (perché egli sia alquanto ceneroso), perciò che si dice
che mai vento non fu sanza acqua; anzi tu lo dèi leggiermente percuotere nel piattello o con
altro argomento scuoterne la cenere.

[45]

Non offerirai il tuo moccichino (come che egli sia di
bucato) a persona.

Perciò che quegli a cui tu lo proferi nol sa, e potrebbelsi avere a schifo.

[46]

Quando si favella con alcuno, non se gli dèe l’uomo avicinare sì che se gli aliti nel viso,
perciò che molti troverai che non amano di sentire il fiato altrui, quantunque cattivo odore
non ne venisse.

[47]

Questi modi et altri simili sono spiacevoli e vuolsi schifargli, perciò che
posson noiare alcuno de’ sentimenti di coloro co’ quali usiamo, come io dissi di sopra.

[48]

Facciamo ora mentione di quelli che, sanza noia d’alcuno sentimento, spiacciono allo
appetito delle più persone quando si fanno.

CAPITOLO VI

[49]

Tu dèi sapere che gli uomini naturalmente appetiscono più cose e varie, perciò che
alcuni vogliono sodisfare all’ira, alcuni alla gola, altri alla libidine et altri alla avaritia et altri ad
altri appetiti.

Ma, in comunicando solamente infra di loro, non pare che chiegghino, né
possano chiedere né appetire, alcuna delle sopradette cose, con ciò sia che elle non
consistano nelle maniere o ne’ modi e nel favellar delle persone, ma in altro.

[50]

Appetiscono
adunque quello che può concèder loro questo atto del comunicare insieme.

E ciò pare che sia


benivolenza,
onore e
sollazzo,

[indeed Grice speaks of 'benevolence' in his 1964 notes, "Logic and conversation")

o alcuna altra cosa a queste simigliante.

[51]

Per che non si dèe
dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar coloro co’
quali si dimora.

[52]

Laonde poco gentil costume pare che sia quello che molti sogliono usare,
cioè di volentieri dormirsi colà dove onesta brigata si segga e ragioni, perciò che, così
facendo, dimostrano che poco gli apprezzino e poco lor caglia di loro e de’ loro
ragionamenti, sanza che chi dorme, massimamente stando a disagio, come a coloro convien
fare, suole il più delle volte fare alcun atto spiacevole ad udire o a vedere.

E bene spesso
questi cotali si risentono sudati e bavosi.

[53]

E per questa cagione medesima il drizzarsi ove
gli altri seggano e favellino e passeggiar per la camera pare noiosa usanza.

[54]

Sono ancora di
quelli che così si dimenano e scontorconsi e prostendonsi e sbadigliano, rivolgendosi ora in
su l’un lato et ora in su l’altro, che pare che li pigli la febre in quell’ora.

Segno evidente che
quella brigata con cui sono rincresce loro.

[55]

Male fanno similmente coloro che ad ora ad
ora si traggono una lettera della scarsella e la leggono.

Peggio ancora fa chi, tratte fuori le
forbicine, si dà tutto a tagliarsi le unghie, quasi che egli abbia quella brigata per nulla e però si
procacci d’altro sollazzo per trapassare il tempo.

[56]

Non si deono anco tener quei modi che
alcuni usano.

Cioè cantarsi fra’ denti o sonare il tamburino con le dita o dimenar le gambe.

Perciò che questi così fatti modi mostrano che la persona sia non curante d’altrui.

[57]

Oltre a
ciò, non si vuol l’uom recare in guisa che egli mostri le spalle altrui, né tenere alto l’una
gamba sì che quelle parti che i vestimenti ricuoprono si possano vedere: perciò che cotali atti
non si soglion fare, se non tra quelle persone che l’uom non riverisce.

[58]

Vero è che se un
signor ciò facesse dinanzi ad alcuno de’ suoi famigliari, o ancora in presenza d’un amico di
minor conditione di lui, mostrerebbe non superbia, ma amore e dimestichezza.

[59]

Dèe
l’uomo recarsi sopra di sé e non appoggiarsi né aggravarsi addosso altrui.

E, quando favella,
non dèe punzecchiare altrui col gomito, come molti soglion fare ad ogni parola, dicendo: –

Non dissi io vero?

Eh, voi?

Eh, messer tale?

(e tuttavia vi frugano col gomito).

CAPITOLO VII

[60]

Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua età, perciò
che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente.

E perciò solevano i cittadini di Padova
prendersi ad onta quando alcun gentiluomo vinitiano andava per la loro città in saio, quasi gli
fosse aviso di essere in contado.

[61]

E non solamente vogliono i vestimenti essere di fini
panni, ma si dèe l’uomo sforzare di ritrarsi più che può al costume degli altri cittadini, e
lasciarsi volgere alle usanze.

Come che forse meno commode o meno leggiadre che le antiche
per aventura non erano, o non gli parevano a lui.

[62]

E se tutta la tua città averà tonduti i
capelli, non si vuol portar la zazzera, o, dove gli altri cittadini siano con la barba, tagliarlati tu.

Perciò che questo è un contradire agli altri, la qual cosa (cioè il contradire nel costumar con le
persone) non si dèe fare, se non in caso di necessità, come noi diremo poco appresso,
imperò che questo innanzi ad ogni altro cattivo vezzo ci rende odiosi al più delle persone.

[63]

Non è adunque da opporsi alle usanze comuni in questi cotali fatti, ma da secondarle
mezzanamente, acciò che tu solo non sii colui che nelle tue contrade abbia la guarnaccia
lunga fino in sul tallone, ove tutti gli altri la portino cortissima poco più giù che la cintura.

[64]

Perciò che, come aviene a chi ha il viso forte ricagnato, che altro non è a dire che averlo
contra l’usanza, secondo la quale la natura gli fa ne’ più, che tutta la gente si rivolge a guatar
pur lui.

Così interviene a coloro che vanno vestiti non secondo l’usanza de’ più, ma secondo
l’appetito loro, e con belle zazzere lunghe, o che la barba hanno raccorciata o rasa, o che
portano le cuffie o certi berrettoni grandi alla tedesca.

Ché ciascuno si volge a mirarli e fassi
loro cerchio, come a coloro i quali pare che abbiano preso a vincere la pugna incontro a tutta
la contrada ove essi vivono.

[65]

Vogliono essere ancora le veste assettate e che bene stiano
alla persona, perché coloro che hanno le robe ricche e nobili, ma in maniera sconcie che elle
non paiono fatte a lor dosso, fanno segno dell’una delle due cose.

O che eglino niuna
consideratione abbiano di dover piacere né dispiacere alle genti, o che non conoscano che si
sia né grazia né misura alcuna.

[66]

Costoro adunque co’ loro modi generano sospetto negli
animi delle persone con le quali usano che poca stima facciano di loro; e perciò sono mal
volentier ricevuti nel più delle brigate, e poco cari avutivi.

CAPITOLO VIII

[67]

Sono poi certi altri che più oltra procedono che la sospettione, anzi vengono a’ fatti
et alle opere sì che con esso loro non si può durare in guisa alcuna, perciò che eglino sempre
sono l’indugio, lo sconcio et il disagio di tutta la compagnia, i quali non sono mai presti, mai
sono in assetto né mai a lor senno adagiati.

[68]

Anzi, quando ciascuno è per ire a tavola e
sono preste le vivande e l’acqua data alle mani, essi chieggono che loro sia portato da
scrivere o da orinare o non hanno fatto essercitio, e dicono:

Egli è buon’ora.

Ben potete indugiare un poco sì.

Che fretta è questa stamane?

E tengono impacciata tutta la
brigata, sì come quelli che hanno risguardo solo a se stessi et all’agio loro, e d’altrui niuna
consideratione cade loro nell’animo.

[69]

Oltre a ciò, vogliono in ciascuna cosa essere
avantaggiati dagli altri, e coricarsi ne’ migliori letti e nelle più belle camere, e sedersi ne’ più
comodi e più orrevoli luoghi, e prima degli altri essere serviti et adagiati.

A’ quali niuna cosa piace già mai, se non quello che essi hanno divisato, a tutte l’altre torcono il grifo, e par loro
di dovere essere attesi a mangiare, a cavalcare, a giucare, a sollazzare.

[70]

Alcuni altri sono sì
bizzarri e ritrosi e strani, che niuna cosa a lor modo si può fare, e sempre rispondono con
mal viso, che che loro si dica, e mai non rifinano di garrire a’ fanti loro e di sgridargli, e
tengono in continua tribolatione tutta la brigata.

[71]

A bell’ora mi chiamasti stamane.

Guata qui, come tu nettasti ben questa scarpetta.

Ed anco

Non venisti meco alla chiesa;
bestia, io non so a che io mi tenga che io non ti rompa cotesto mostaccio.

Modi tutti
sconvenevoli e dispettosi, i quali si deono fuggire come la morte, perciò che, quantunque
l’uomo avesse l’animo pieno di umiltà, e tenesse questi modi non per malitia, ma per
trascuraggine e per cattivo uso, non di meno, perché egli si mostrerebbe superbo negli atti di
fuori, converrebbe ch’egli fosse odiato dalle persone, imperò che la superbia non è altro che
il non istimare altrui, e (come io dissi da principio) ciascuno appetisce di essere stimato,
ancora che egli no ’l vaglia.

[72] Egli fu, non ha gran tempo, in Roma un valoroso uomo e
dotato di acutissimo ingegno e di profonda scienza, il quale ebbe nome Ubaldino
Bandinelli.

[73] Costui solea dire che qualora egli andava o veniva da palagio, come che le vie
fossero sempre piene di nobili cortigiani e di prelati e di signori e parimente di poveri uomini
e di molta gente mezzana e minuta, non di meno a lui non parea d’incontrar mai persona che
da più fosse, né da meno, di lui: e sanza fallo pochi ne potea vedere che quello valessero che
egli valea, avendo risguardo alla virtù di lui, che fu grande fuor di misura; ma tuttavia gli
uomini non si deono misurare in questi affari con sì fatto braccio, e deonsi più tosto pesare
con la stadera del mugnaio che con la bilancia dell’orafo; et è convenevol cosa lo esser presto
di accettarli non per quello che essi veramente vagliono, ma, come si fa delle monete, per
quello che corrono.

[74] Niuna cosa è adunque da fare nel cospetto delle persone alle quali noi
desideriamo di piacere, che mostri più tosto signoria che compagnia, anzi vuole ciascun
nostro atto avere alcuna signification di riverenza e di rispetto verso la compagnia nella quale
siamo.

[75] Per la qual cosa, quello che fatto a convenevol tempo non è biasimevole, per
rispetto al luogo et alle persone è ripreso: come il dir villania a’ famigliari e lo sgridargli (della
qual cosa facemmo di sopra mentione) e molto più il battergli, con ciò sia cosa che ciò fare è
un imperiare et essercitare sua giurisdittione; la qual cosa niuno suol fare dinanzi a coloro
ch’egli riverisce, sanza che se ne scandaleza la brigata e guastasene la conversatione, e
maggiormente se altri ciò farà a tavola, che è luogo d’allegrezza e non di scandalo.

[76] Sì che
cortesemente fece Currado Gianfigliazzi di non moltiplicare in novelle con Chichibio per
non turbare i suoi forestieri, come che egli grave castigo avesse meritato, avendo più tosto
voluto dispiacere al suo signore che alla Brunetta; e se Currado avesse fatto ancora meno
schiamazzo che non fece, più sarebbe stato da commendare, ché già non conveniva chiamar
messer Domenedio che entrasse per lui mallevadore delle sue minaccie, sì come egli fece.

[77]
Ma, tornando alla nostra materia, dico che non istà bene che altri si adiri a tavola, che che si
avenga.

Ed adirandosi no ’l dèe mostrare, né del suo cruccio dèe fare alcun segno, per la
cagion detta dinanzi, e massimamente se tu arai forestieri a mangiar con esso teco, perciò che
tu gli hai chiamati a letitia, et ora gli attristi; con ciò sia che, come gli agrumi che altri mangia,
te veggente, allegano i denti anco a te, così il vedere che altri si cruccia turba noi.

CAPITOLO IX

[78]

Ritrosi sono coloro che vogliono ogni cosa al contrario degli altri, sì come il vocabolo
medesimo dimostra; ché tanto è a dire «a ritroso» quanto «a rovescio». Come sia adunque
utile la ritrosia a prender gli animi delle persone et a farsi ben volere, lo puoi giudicare tu
stesso agevolmente, poscia che ella consiste in opporsi al piacere altrui, il che suol fare l’uno
11
inimico all’altro, e non gli amici infra di loro.

[79] Per che, sforzinsi di schifar questo vitio
coloro che studiano di essere cari alle persone, perciò che egli genera non piacere né
benivolenza, ma odio e noia: anzi conviensi fare dell’altrui voglia suo piacere, dove non ne
segua danno o vergogna, et in ciò fare sempre e dire più tosto a senno d’altri che a suo.

[80]

Non si vuole essere né rustico né strano, ma piacevole e domestico, perciò che niuna
differenza sarebbe dalla mortine al pungitopo, se non fosse che l’una è domestica e l’altro
salvatico.

[81]

E sappi che colui è piacevole i cui modi sono tali nell’usanza comune, quali
costumano di tenere gli amici infra di loro, là dove chi è strano pare in ciascun luogo
«straniero», che tanto viene a dire come «forestiero»; sì come i domestici uomini, per lo
contrario, pare che siano ovunque vadano conoscenti et amici di ciascuno.

Per la qual cosa
conviene che altri si avezzi a salutare e favellare e rispondere per dolce modo e dimostrarsi
con ogniuno quasi terrazzano e conoscente.

[82]

Il che male sanno fare alcuni che a nessuno
mai fanno buon viso e volentieri ad ogni cosa dicon di no e non prendono in grado né onore
né carezza che loro si faccia, a guisa di gente, come detto è, straniera e barbara: non
sostengono di esser visitati et accompagnati e non si rallegrano de’ motti né delle
piacevolezze, e tutte le proferte rifiutano.

[83]

Messer tale m’impose dianzi che io vi salutassi
per sua parte – – Che ho io a fare de’ suoi saluti? – e – Messer cotale mi dimandò come voi
stavate – – Venga, e sì mi cerchi il polso! –: sono adunque costoro meritamente poco cari
alle persone.

[84] Non istà bene di essere maninconoso né astratto là dove tu dimori; e come
che forse ciò sia da comportare a coloro che per lungo spatio di tempo sono avezzi nelle
speculationi delle arti che si chiamano, secondo che io ho udito dire, liberali, agli altri sanza
alcun fallo non si dèe consentire: anzi, quelli stessi, qualora vogliono pensarsi, farebbono
gran senno a fuggirsi dalla gente.

CAPITOLO X

[85]

L’esser tenero e vezzoso anco si disdice assai, e massimamente agli uomini, perciò che
l’usare con sì fatta maniera di persone non pare compagnia, ma servitù.

E certo alcuni se ne
truovano che sono tanto teneri e fragili, che il vivere e dimorar con esso loro niuna altra cosa
è che impacciarsi fra tanti sottilissimi vetri.

Così temono essi ogni leggier percossa, e così
conviene trattargli e riguardargli.

[86]

I quali così si crucciano, se voi non foste così presto e
sollecito a salutargli, a visitargli, a riverirgli et a risponder loro, come un altro farebbe di una
ingiuria mortale.

E se voi non date loro così ogni titolo appunto, le querele asprissime e le
inimicitie mortali nascono di presente.

[87]

Voi mi diceste «messere» e non «signore».

E

Perché non mi dite voi «Vostra Signoria»?

Io chiamo pur voi il «signor tale», io!

Ed anco.

Non ebbi il mio luogo a tavola – et – Ieri non vi degnaste di venir per me a casa, come io
venni a trovar voi l’altr’ieri: questi non sono modi da tener con un mio pari –.

[88]

Costoro
veramente recano le persone a tale che non è chi gli possa patir di vedere, perciò che troppo
amano sé medesimi fuor di misura et, in ciò occupati, poco di spatio avanza loro di potere
amare altrui.

[89]

Sanza che, come io dissi da principio, gli uomini richieggono che nelle
maniere di coloro co’ quali usano sia quel piacere che può in cotale atto essere; ma il
dimorare con sì fatte persone fastidiose, l’amicitia delle quali sì leggiermente, a guisa d’un
sottilissimo velo, si squarcia, non è usare, ma servire, e perciò non solo non diletta, ma ella
spiace sommamente: questa tenerezza adunque e questi vezzosi modi si voglion lasciare alle
femine.

CAPITOLO XI

[90]

*************** CHOOSE THE RIGHT TOPIC **********************

Nel favellare si pecca in

molti e varii modi, e primieramente

nella materia che si

propone, la quale non vuole essere

frivola né vile, perciò che

gli uditori non vi badano e

perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i

ragionamenti et il ragionatore insieme.

[91]


Non si dèe anco pigliar tema molto sottile né troppo isquisito,

perciò che con fatica s’intende dai più.

Vuolsi diligentemente guardare di far la proposta tale che niuno della brigata ne
arrossisca o ne riceva onta.

Né di alcuna bruttura si dèe favellare, come che piacevole cosa
paresse ad udire, perciò che alle oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui, se non
nelle oneste cose.

[92]

Né contra Dio né contr’a’ Santi, né dadovero né motteggiando si dèe
mai dire alcuna cosa, quantunque per altro fosse leggiadra o piacevole.

Il qual peccato assai
sovente commise la nobile brigata del nostro messer Giovan Boccaccio ne’ suoi
ragionamenti, sì che ella merita bene di esserne agramente ripresa da ogni intendente
persona.

[93]

E nota che il parlar di Dio gabbando non solo è difetto di scelerato uomo et
empio, ma egli è ancora vitio di scostumata persona, et è cosa spiacevole ad udire: e molti
troverai che si fuggiranno di là dove si parli di Dio sconciamente.

[94]

E non solo di Dio si
convien parlare santamente, ma in ogni ragionamento dèe l’uomo schifare quanto può che le
parole non siano testimonio contra la vita e le opere sue, perciò che gli uomini odiano in
altrui etiandio i loro vitii medesimi.

[95]

Simigliantemente si disdice il favellare delle cose

molto contrarie al tempo et alle persone che stanno ad udire etiandio di quelle che, per sé et
a suo tempo dette, sarebbono e buone e sante.

[96]

Non si raccontino adunque le prediche di
frate Nastagio alle giovani donne, quando elle hanno voglia di scherzarsi, come quel buono
uomo che abitò non lungi da te, vicino a San Brancatio, faceva.

[97]

Né a festa né a tavola si
raccontino istorie maninconose, né di piaghe né di malatie né di morti o di pestilentie, né di
altra dolorosa materia si faccia mentione o ricordo.

Anzi, se altri in sì fatte rammemorationi
fosse caduto, si dèe per acconcio modo e dolce scambiargli quella materia e mettergli per le
mani più lieto e più convenevole soggetto.

[98]

Quantunque, secondo che io udii già dire ad
un valente uomo nostro vicino, gli uomini abbiano molte volte bisogno sì di lagrimare come
di ridere.

E per tal cagione egli affermava essere state da principio trovate le dolorose favole
che si chiamarono tragedie, acciò che, raccontate ne’ teatri (come in quel tempo si costumava
di fare), tirassero le lagrime agli occhi di coloro che avevano di ciò mestiere.

E così eglino,
piangendo, della loro infirmità guarissero.

[99]

Ma, come ciò sia, a noi non istà bene di
contristare gli animi delle persone con cui favelliamo, massimamente colà dove si dimori per
aver festa e sollazzo, e non per piagnere: ché, se pure alcuno è che infermi per vaghezza di
lagrimare, assai leggier cosa fia di medicarlo con la mostarda forte, o porlo in alcun luogo al
fumo.

[100]

Per la qual cosa in niuna maniera si può scusare il nostro Filostrato della proposta
che egli fece piena di doglia e di morte a compagnia di nessuna altra cosa vaga che di letitia:

Conviensi adunque fuggire di favellare di cose maninconose, e più tosto tacersi.

[101]

Errano
parimente coloro che altro non hanno in bocca già mai che i loro bambini e la donna e la
balia loro.

Il fanciullo mio mi fece ieri sera tanto ridere.

Udite.

Voi non vedeste mai il più dolce figliuolo di Momo mio.

La donna mia è cotale.

La Cecchina disse.

Certo voi no ’l credereste del cervello ch’ella ha.

Niuno è sì scioperato che possa né
rispondere né badare a sì fatte sciocchezze, e viensi a noia ad ogniuno.

CAPITOLO XII

[102]

Male fanno ancora quelli che tratto tratto si pongono a recitare i sogni loro con tanta
affettione e facendone sì gran maraviglia che è un isfinimento di cuore a sentirli.

Massimamente ché costoro sono per lo più tali che perduta opera sarebbe lo ascoltare
qualunque s’è la loro maggior prodezza, fatta etiandio quando vegghiarono.

[103]

Non si dèe
adunque noiare altri con sì vile materia come i sogni sono, spetialmente sciocchi, come l’uom
gli fa generalmente.

[104]

E come che io senta dire assai spesso che gli antichi savi lasciarono
ne’ loro libri più e più sogni scritti con alto intendimento e con molta vaghezza, non perciò si
conviene a noi idioti, né al comun popolo, di ciò fare ne’ suoi ragionamenti.

[105]

E certo di
quanti sogni io abbia mai sentito riferire (come che io a pochi soffera di dare orecchie),
niuno me ne parve mai d’udire che meritasse che per lui si rompesse silenzio, fuori solamente
uno che ne vide il buon messer Flaminio Tomarozzo, gentiluomo romano, e non mica idiota
né materiale, ma scientiato e di acuto ingegno.

[106]

Al quale, dormendo egli, pareva di sedersi
nella casa di un ricchissimo spetiale suo vicino, nella quale poco stante, qual che si fosse la
cagione, levatosi il popolo a romore, andava ogni cosa a ruba, e chi toglieva un lattovaro e
chi una confettione, e chi una cosa e chi altra, e mangiavalasi di presente; sì che in poco d’ora
né ampolla né pentola né bossolo né alberello vi rimanea che vòto non fosse e rasciutto.

[107]
Una guastadetta v’era assai picciola, e tutta piena di un chiarissimo liquore, il quale molti
fiutarono, ma assaggiare non fu chi ne volesse. [108] E non istette guari che egli vide venire un
uomo grande di statura, antico e con venerabile aspetto, il quale, riguardando le scatole et il
vasellamento dello spetial cattivello e trovando quale vòto e quale versato e la maggior parte
rotto, gli venne veduto la guastadetta che io dissi: per che, postalasi a bocca, tutto quel
liquore si ebbe tantosto bevuto, sì che gocciola non ve ne rimase; e dopo questo se ne uscì
quindi, come gli altri avean fatto: della qual cosa pareva a m(esser) Flaminio di maravigliarsi
grandemente.

[109] Per che, rivolto allo spetiale, gli addimandava: – Maestro, questi chi è? e
per qual cagione sì saporitamente l’acqua della guastadetta bevve egli tutta, la quale tutti gli
altri aveano rifiutata? – A cui parea che lo spetiale rispondesse: – Figliuolo, questi è messer
Domenedio; e l’acqua da lui solo bevuta, e da ciascun altro, come tu vedesti, schifata e
rifiutata, fu la Discretione, la quale, sì come tu puoi aver conosciuto, gli uomini non vogliono
assaggiare per cosa del mondo.

[110]

Questi così fatti sogni dico io bene potersi raccontare e
con molta dilettatione e frutto ascoltare, perciò che più si rassomigliano a pensiero di ben
desta che a visione di addormentata mente o virtù sensitiva che dir debbiamo; ma gli altri
sogni sanza forma e sanza sentimento, quali la maggior parte de’ nostri pari gli fanno (perciò
che i buoni e gli scientiati sono, etiandio quando dormono, migliori e più savi che i rei e che
gl’idioti) si deono dimenticare e da noi insieme col sonno licentiare.

CAPITOLO XIII

[111]

E quantunque niuna cosa paia che si possa trovare più vana de’ sogni, egli ce n’ha
pure una ancora più di loro leggiera, e ciò sono le bugie: però che di quello che l’uomo ha
veduto nel sogno pure è stato alcuna ombra e quasi un certo sentimento, ma della bugia né
ombra fu mai né imagine alcuna.

[112]

Per la qual cosa meno ancora si richiede tenere
impacciati gli orecchi e la mente di chi ci ascolta con le bugie che co’ sogni, come che queste
alcuna volta siano ricevute per verità; ma a lungo andare i bugiardi non solamente non sono
creduti, ma essi non sono ascoltati, sì come quelli le parole de’ quali niuna sustanza hanno di
sé, né più né meno come s’eglino non favellassino, ma soffiassino.

[113]

E sappi che che tu
troverai di molti che mentono, a niun cattivo fine tirando né di proprio loro utile, né di
danno o di vergogna altrui, ma perciò che la bugia per sé piace loro, come chi bee non per
sete, ma per gola del vino.

[114]

Alcuni altri dicono la bugia per vanagloria di se stessi,
milantandosi e dicendo di avere le maraviglie e di essere gran baccalari.

[115]

Puossi ancora
mentire tacendo, cioè con gli atti e con l’opere; come tu puoi vedere che alcuni fanno, che,
essendo essi di mezzana conditione o di vile, usano tanta solennità ne’ modi loro e così
vanno contegnosi e con sì fatta prorogativa parlano, anzi parlamentano, ponendosi a sedere
pro tribunali e pavoneggiandosi, che egli è una pena mortale pure a vedergli.

[116]

Et alcuni si
truovano, i quali (non essendo però di roba più agiati degli altri) hanno d’intorno al collo
tante collane d’oro e tante anella in dito e tanti fermagli in capo e su per li vestimenti
appiccati di qua e di là, che si disdirebbe al Sire di Castiglione: le maniere de’ quali sono piene
di scede e di vanagloria, la quale viene da superbia, procedente da vanità; sì che queste si
deono fuggire come spiacevoli e sconvenevoli cose. [117] E sappi che in molte città – e delle
migliori – non si permette per le leggi che il ricco possa gran fatto andare più splendidamente
vestito che il povero, perciò che a’ poveri pare di ricevere oltraggio quando altri, etiandio
pure nel sembiante, dimostra sopra di loro maggioranza; sì che diligentemente è da guardarsi
di non cadere in queste sciocchezze. [118] Né dèe l’uomo di sua nobiltà né di suoi onori né di
ricchezza e molto meno di senno vantarsi; né i suoi fatti o le prodezze sue o de’ suoi passati
molto magnificare, né ad ogni proposito annoverargli, come molti soglion fare: perciò che
pare che egli in ciò significhi di volere o contendere co’ circostanti, se eglino similmente
sono o presumono di essere gentili et agiati uomini e valorosi, o di soperchiarli, se eglino
sono di minor conditione, e quasi rimproverar loro la loro viltà e miseria: la qual cosa
dispiace indifferentemente a ciascuno. [119] Non dèe adunque l’uomo avilirsi, né fuori di
modo essaltarsi, ma più tosto è da sottrarre alcuna cosa de’ suoi meriti che punto arrogervi
con parole; perciò che ancora il bene, quando sia soverchio, spiace. [120] E sappi che coloro
che aviliscono se stessi con le parole fuori di misura e rifiutano gli onori che manifestamente
loro s’appartengono, mostrano in ciò maggiore superbia che coloro che queste cose, non ben
bene loro dovute, usurpano. [121] Per la qual cosa si potrebbe per aventura dire che Giotto
non meritasse quelle commendationi che alcun crede per aver egli rifiutato di essere
chiamato maestro, essendo egli non solo maestro, ma, sanza alcun dubbio, singular maestro,
secondo quei tempi. [122] Ora, che che egli biasimo o loda si meritasse, certa cosa è che chi
schifa quello che ciascun altro appetisce mostra che egli in ciò tutti gli altri o biasimi o
disprezzi; e lo sprezzar la gloria e l’onore, che cotanto è dagli altri stimato, è un gloriarsi et
onorarsi sopra tutti gli altri, con ciò sia che niuno di sano intelletto rifiuti le care cose, fuori
che coloro i quali delle più care di quelle stimano avere abondanza e dovitia. [123] Per la qual
cosa né vantare ci debbiamo de’ nostri beni, né farcene beffe, ché l’uno è rimproverare agli
altri i loro difetti, e l’altro schernire le loro virtù; ma dèe di sé ciascuno, quanto può, tacere, o,
se la oportunità ci sforza a pur dir di noi alcuna cosa, piacevol costume è di dirne il vero
rimessamente, come io ti dissi di sopra. [124] E perciò coloro che si dilettano di piacere alla
gente si deono astenere ad ogni poter loro da quello che molti hanno in costume di fare, i
quali sì timorosamente mostrano di dire le loro openioni sopra qual si sia proposta, che egli è
un morire a stento il sentirgli, massimamente se eglino sono per altro intendenti uomini e
savi. [125] – Signor, V(ostra) S(ignoria) mi perdoni se io no’l saprò così dire: io parlerò da
persona materiale come io sono e, secondo il mio poco sapere, grossamente, e son certo che
la S(ignoria) V(ostra) si farà beffe di me; ma pure, per ubidirla... –; e tanto penano e tanto
stentano che ogni sottilissima quistione si sarebbe diffinita con molto manco parole et in più
brieve tempo: perciò che mai non ne vengono a capo. [126] Tediosi medesimamente sono e
mentono con gli atti nella conversatione et usanza loro alcuni che si mostrano infimi e vili; et
essendo loro manifestamente dovuto il primo luogo et il più alto, tuttavia si pongono
nell’ultimo grado; et è una fatica incomparabile a sospingerli oltra, però che tratto tratto sono
rinculati a guisa di ronzino che aombri. [127] Perché con costoro cattivo partito ha la brigata
alle mani qualora si giugne ad alcun uscio, perciò che eglino per cosa del mondo non voglion
passare avanti, anzi sì attraversano e tornano indietro, e sì con le mani e con le braccia si
schermiscono e difendono che ogni terzo passo è necessario ingaggiar battaglia con esso loro
e turbarne ogni sollazzo e talora la bisogna che si tratta.
15
XIV [128] E perciò le cirimonie, le quali noi nominiamo, come tu odi, con vocabolo
forestiero, sì come quelli che il nostrale non abbiamo, però che i nostri antichi mostra che
non le conoscessero, sì che non poterono porre loro alcun nome; le cirimonie, dico, secondo
il mio giudicio, poco si scostano dalle bugie e da’ sogni, per la loro vanità, sì che bene le
possiamo accozzare insieme et accoppiare nel nostro trattato, poiché ci è nata occasione di
dirne alcuna cosa. [129] Secondo che un buon uomo mi ha più volte mostrato, quelle solennità
che i cherici usano d’intorno agli altari e negli ufficii divini e verso Dio e verso le cose sacre
si chiamano propriamente cirimonie: ma, poiché gli uomini cominciaron da principio a
riverire l’un l’altro con artificiosi modi, fuori del convenevole, et a chiamarsi «padroni» e
«signori» tra loro, inchinandosi e storcendosi e piegandosi in segno di riverenza, e
scoprendosi la testa e nominandosi con titoli isquisiti, e basciandosi le mani come se essi le
avessero, a guisa di sacerdoti, sacrate, fu alcuno che, non avendo questa nuova e stolta
usanza ancora nome, la chiamò «cirimonia», credo io per istratio, sì come il bere et il godere
si nominano per beffa «trionfare». [130] La quale usanza sanza alcun dubbio a noi non è
originale, ma forestiera e barbara, e da poco tempo in qua, onde che sia, trapassata in Italia:
la quale, misera, con le opere e con gli effetti abbassata et avilita, è cresciuta solamente et
onorata nelle parole vane e ne’ superflui titoli. [131] Sono adunque le cirimonie, se noi
vogliamo aver risguardo alla intention di coloro che le usano, una vana signification di onore
e di riverenza verso colui a cui essi le fanno, posta ne’ sembianti e nelle parole, d’intorno a’
titoli et alle proferte. [132] Dico vana, in quanto noi onoriamo in vista coloro i quali in niuna
riverenza abbiamo, e talvolta gli abbiamo in dispregio; e non di meno, per non iscostarci dal
costume degli altri, diciamo loro «lo Ill(ustrissi)mo signor tale» e «lo Ecc(ellentissi)mo signor
cotale», e similmente ci proferiamo alle volte a tale per deditissimi servidori, che noi
ameremmo di diservire più tosto che servire. [133] Sarebbono adunque le cierimonie non solo
bugie, sì come io dissi, ma etiandio sceleratezze e tradimenti; ma, perciò che queste
sopraddette parole e questi titoli hanno perduto il loro vigore, e guasta, come il ferro, la
tempera loro per lo continuo adoperarli che noi facciamo, non si dèe aver di loro quella
sottile consideratione che si ha delle altre parole, né con quel rigore intenderle. [134] E che ciò
sia vero lo dimostra manifestamente quello che tutto dì interviene a ciascuno, perciò che, se
noi riscontriamo alcuno mai più da noi non veduto, al quale per qualche accidente ci
convenga favellare, sanza altra consideratione aver de’ suoi meriti, il più delle volte, per non
dir poco, diciamo troppo, e chiamiamolo gentiluomo e signore a talora che egli sarà calzolaio
o barbieri, solo che egli sia alquanto in arnese. [135] E sì come anticamente si solevano avere i
titoli determinati e distinti per privilegio del Papa o dello ’mperadore (i quai titoli tacer non si
potevano sanza oltraggio et ingiuria del privilegiato, né per lo contrario attribuire sanza
scherno a chi non avea quel cotal privilegio), così oggidì si deono più liberalmente usare i
detti titoli e le altre significationi d’onore a titoli somiglianti, perciò che l’usanza, troppo
possente signore, ne ha largamente gli uomini del nostro tempo privilegiati. [136] Questa
usanza adunque, così di fuori bella et appariscente, è di dentro del tutto vana, e consiste in
sembianti sanza effetto et in parole sanza significato, ma non pertanto a noi non è lecito di
mutarla: anzi, siamo astretti, poiché ella non è peccato nostro, ma del secolo, di secondarla:
ma vuolsi ciò fare discretamente.
XV [137] Per la qual cosa è da aver consideratione che le cirimonie si fanno o per utile o per
vanità o per debito; et ogni bugia che si dice per utilità propria è fraude e peccato e disonesta
cosa, come che mai non si menta onestamente; e questo peccato commettono i lusinghieri, i
16
quali si contrafanno in forma d’amici, secondando le nostre voglie, quali che elle si siano,
non acciò che noi vogliamo, ma acciò che noi facciamo lor bene, e non per piacerci, ma per
ingannarci. [138] E quantunque sì fatto vitio sia per aventura piacevole nella usanza, non di
meno, perciò che verso di sé è abominevole e nocivo, non si conviene agli uomini costumati,
però che non è lecito porger diletto nocendo: e se le cirimonie sono, come noi dicemmo,
bugie e lusinghe false, quante volte le usiamo a fine di guadagno, tante volte adoperiamo
come disleali e malvagi uomini: sì che per sì fatta cagione niuna cirimonia si dèe usare.
XVI [139] Restami a dire di quelle che si fanno per debito e di quelle che si fanno per vanità. []
Le prime non istà bene in alcun modo lasciare che non si facciano, perciò che chi le lascia
non solo spiace, ma egli fa ingiuria; e molte volte è occorso che egli si è venuto a trar fuori le
spade solo per questo, che l’un cittadino non ha così onorato l’altro per via, come si doveva
onorare, perciò che le forze della usanza sono grandissime, come io dissi, e voglionsi avere
per legge in simili affari. [140] Per la qual cosa chi dice «voi» ad un solo, purché colui non sia
d’infima conditione, di niente gli è cortese del suo, anzi, se gli dicesse «tu», gli torrebbe di
quello di lui e farebbegli oltraggio et ingiuria, nominandolo con quella parola con la quale è
usanza di nominare i poltroni et i contadini. [141] E se bene altre nationi et altri secoli ebbero
in ciò altri costumi, noi abbiamo pur questi, e non ci ha luogo il disputare quale delle due
usanze sia migliore, ma convienci ubidire non alla buona, ma alla moderna usanza, sì come
noi siamo ubidienti alle leggi etiandio meno che buone per fino che il Comune o chi ha
podestà di farlo non le abbia mutate. [142] Laonde bisogna che noi raccogliamo
diligentemente gli atti e le parole con le quai l’uso et il costume moderno suole e ricevere e
salutare e nominare nella terra ove noi dimoriamo ciascuna maniera d’uomini, e quelle in
comunicando con le persone osserviamo. [143] E non ostante che l’Ammiraglio, sì come il
costume de’ suoi tempi per aventura portava, favellando col re Pietro d’Aragona gli dicesse
molte volte «tu», diremo pur noi a’ nostri re «Vostra Maestà» e «La Serenità V(ostra)», così a
bocca come per lettere: anzi, sì come egli servò l’uso del suo secolo, così debbiamo noi non
disubidire a quello del nostro. [144] E queste nomino io cirimonie debite, con ciò sia che elle
non procedono dal nostro volere né dal nostro arbitrio liberamente, ma ci sono imposte
dalla legge, cioè dall’usanza comune; e nelle cose che niuna sceleratezza hanno in sé, ma più
tosto alcuna apparenza di cortesia, si vuole, anzi si conviene ubidire a’ costumi comuni e non
disputare né piatire con esso loro. [145] E quantunque il basciare per segno di riverenza si
convenga dirittamente solo alle reliquie de’ santi corpi e delle altre cose sacre, non di meno,
se la tua contrada arà in uso di dire nelle dipartenze: – Signore, io vi bascio la mano – o – Io
son vostro servidore – o ancora: – Vostro schiavo in catena –, non dèi esser tu più schifo
degli altri, anzi, e partendo e scrivendo, dèi salutare et accommiatare non come la ragione,
ma come l’usanza vuole che tu facci; e non come si soleva o si doveva fare, ma come si fa.
[146] E non dire: – E di che è egli signore? – o – È costui forse divenuto mio parrocchiano,
che io li debba così basciar le mani? –; perciò che colui che è usato di sentirsi dire «signore»
dagli altri, e di dire egli similmente «signore» agli altri, intende che tu lo sprezzi e che tu gli
dica villania, quando tu il chiami per lo suo nome, o che tu gli di’ «messere» o gli dài del «voi»
per lo capo. [147] E queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti, come
io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe
nell’acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini, sì
che non si deono abominare, come alcuni rustici e zotichi fanno, i quali vorrebbon che altri
cominciasse le lettere che si scrivono agl’imperadori et ai re a questo modo, cioè: «Se tu e’
17
tuoi figliuoli siate sani, bene sta; anch’io son sano», affermando che cotale era il principio
delle lettere de’ latini uomini scriventi al Comune loro di Roma, alla ragion de’ quali chi
andasse drieto, si ricondurrebbe passo passo il secolo a vivere di ghiande. [148] Sono da
osservare etiandio in queste cirimonie debite alcuni ammaestramenti, acciò che altri non paia
né vano né superbo. [149] E prima si dèe aver risguardo al paese dove l’uom vive, perciò che
ogni usanza non è buona in ogni paese, e forse quello che s’usa per li Napoletani, la città de’
quali è abondevole di uomini di gran legnaggio e di baroni d’alto affare, non si confarebbe
per aventura né a’ Lucchesi né a’ Fiorentini, i quali per lo più sono mercatanti e semplici
gentiluomini, sanza aver fra loro né prencipi né marchesi né barone alcuno. [150] Sì che le
maniere di Napoli, signorili e pompose, trapportate a Firenze, come i panni del grande messi
indosso al picciolo sarebbono soprabondanti e superflui, né più né meno come i modi de’
Fiorentini alla nobiltà de’ Napoletani – e forse alla loro natura – sarebbono miseri e ristretti.
[151] Né perché i gentiluomini Vinitiani si lusinghino fuor di modo l’un l’altro per cagion de’
loro ufficii e de’ loro squittini, starebbe egli bene che i buoni uomini di Rovigo o i cittadini
d’Asolo tenessero quella medesima solennità in riverirsi insieme per nonnulla; come che tutta
quella contrada (s’io non m’inganno) sia alquanto trasandata in queste sì fatte ciancie, sì
come scioperata o forse avendole apprese da Vinegia, loro donna, imperò che ciascuno
volentieri sèguita i vestigii del suo signore, ancora sanza saper perché. [152] Oltre a ciò,
bisogna avere risguardo al tempo, all’età, alla conditione di colui con cui usiamo le cirimonie
et alla nostra, e con gli infaccendati mozzarle del tutto o almeno accorciarle più che l’uom
può, e più tosto accennarle che isprimerle (il che i cortigiani di Roma sanno ottimamente
fare), ma in alcuni altri luoghi le cirimonie sono di grande sconcio alle faccende e di molto
tedio. [153] – Copritevi – dice il giudice impacciato, al quale manca il tempo; e colui, fatte
prima alquante riverenze, con grande stropiccio di piedi, rispondendo adagio, dice: – Signor
mio, io sto ben così. – Ma pur dice il giudice: – Copritevi! – E quegli, torcendosi due o tre
volte per ciascun lato e piegandosi fino in terra con molta gravità, risponde: – Priego
V(ostra) S(ignoria) che mi lasci fare il debito mio... –, e dura questa battaglia tanto, e tanto
tempo si consuma, che ’l giudice in poco più arebbe potuto sbrigarsi di ogni sua faccenda
quella mattina. [154] Adunque, benché sia debito di ciascun minore onorare i giudici e l’altre
persone di qualche grado, non di meno, dove il tempo no’l sofferisce, divien noioso atto e
dèesi fuggire o modificare. [155] Né quelle medesime cirimonie si convengono a’ giovani,
secondo il loro essere, che agli attempati fra loro; né alla gente minuta e mezzana si confanno
quelle che i grandi usano l’un con l’altro. [156] Né gli uomini di grande virtù et eccellenza
soglion farne molte, né amare o ricercare che molte ne siano fatte loro, sì come quelli che
male possono impiegar in cose vane il pensiero. [157] Né gli artefici e le persone di bassa
conditione si deono curare di usar molto solenni cirimonie verso i grandi uomini e signori,
che le hanno da loro a schifo anzi che no, perciò che da loro pare che essi ricerchino et
aspettino più tosto ubidienza che onore. [158] E per questo erra il servidore che proferisce il
suo servigio al padrone, perciò che egli se lo reca ad onta e pargli che il servidore voglia
metter dubbio nella sua signoria, quasi a lui non istia l’imporre et il comandare. [159] Questa
maniera di cirimonie si vuole usare liberalmente, perciò che quello che altri fa per debito è
ricevuto per pagamento e poco grado se ne sente a colui che ’l fa; ma chi va alquanto più
oltra di quello che egli è tenuto pare che doni del suo et è amato e tenuto magnifico. [160] E
vammi per la memoria di avere udito dire che un solenne uomo greco, gran versificatore,
soleva dire che chi sa carezzar le persone con picciolo capitale fa grosso guadagno: tu farai
adunque delle cirimonie come il sarto fa de’ panni, che più tosto gli taglia vantaggiati che
18
scarsi, ma non però sì che, dovendo tagliare una calza, ne riesca un sacco né un mantello. [161]
E se tu userai in ciò un poco di convenevole larghezza verso coloro che sono da meno di te,
sarai chiamato cortese; e se tu farai il somigliante verso i maggiori, sarai detto costumato e
gentile; ma chi fosse in ciò soprabondante e scialacquatore, sarebbe biasimato, sì come vano
e leggiere, e forse peggio gli averrebbe ancora, ché egli sarebbe avuto per malvagio e per
lusinghiero e (come io sento dire a questi letterati) per adulatore: il qual vitio i nostri antichi
chiamarono, se io non erro, piaggiare, del qual peccato niuno è più abominevole né che
peggio stia ad un gentiluomo. [162] E questa è la terza maniera di cirimonie, la qual procede
pure dalla nostra volontà e non dalla usanza. Ricordiamoci adunque che le cirimonie, come
io dissi da principio, naturalmente non furono necessarie, anzi si poteva ottimamente fare
sanza esse, sì come la nostra natione, non ha però gran tempo, quasi del tutto faceva, ma le
altrui malatie hanno ammalato anco noi e di questa infermità e di molte altre. [163] Per la qual
cosa, ubidito che noi abbiamo all’usanza, tutto il rimanente in ciò è superfluità et una cotal
bugia lecita; anzi, pure da quello innanzi non lecita, ma vietata, e perciò spiacevole cosa e
tediosa agli animi nobili, che non si pascono di frasche e di apparenze. [164] E sappi che io,
non confidandomi della mia poca scienza, stendendo questo presente trattato, ho voluto il
parere di più valenti uomini scientiati; e truovo che un re il cui nome fu Edipo, essendo stato
cacciato di sua terra, andò già ad Atene al re Teseo, per campare la persona (ché era seguitato
da’ suoi nimici), e dinanzi a Teseo pervenuto, sentendo favellare una sua figliuola et alla voce
riconoscendola (perciò che cieco era), non badò a salutar Teseo, ma, come padre, si diede a
carezzare la fanciulla; e, ravedutosi poi, volle di ciò con Teseo scusarsi, pregandolo gli
perdonasse. [165] Il buono e savio re non lo lasciò dire, ma disse egli: – Confortati, Edipo,
perciò che io non onoro la vita mia con le parole d’altri, ma con le opere mie –: la qual
sentenza si dèe avere a mente; e come che molto piaccia agli uomini che altri gli onori, non
di meno, quando si accorgono di essere onorati artatamente, lo prendono a tedio, e più oltre
lo hanno anco a dispetto. [166] Perciò che le lusinghe (o adulationi che io debba dire) per
arrota alle altre loro cattività e magagne hanno questo difetto ancora: che i lusinghieri
mostrano aperto segno di stimare che colui cui essi carezzano sia vano et arrogante et, oltre a
ciò, tondo e di grossa pasta e semplice sì che agevole sia d’invescarlo e prenderlo. [167] E le
cirimonie vane et isquisite e soprabondanti sono adulationi poco nascose, anzi palesi e
conosciute da ciascuno, in modo tale che coloro che le fanno a fine di guadagno, oltra quello
che io dissi di sopra della loro malvagità, sono etiandio spiacevoli e noiosi.
XVII [168] Ma ci è un’altra maniera di cirimoniose persone, le quali di ciò fanno arte e
mercatantia, e tengonne libro e ragione: alla tal maniera di persone un ghigno, et alla cotale
un riso; et il più gentile sedrà in su la seggiola et il meno su la panchetta: le quai cirimonie
credo che siano state trapportate di Spagna in Italia, ma il nostro terreno le ha male ricevute
e poco ci sono allignate, con ciò sia che questa distintione di nobiltà così appunto a noi è
noiosa e perciò non si dèe alcuno far giudice a dicidere chi è più nobile o chi meno. [169] Né
vendere si deono le cirimonie e le carezze a guisa che le meretrici fanno, sì come io ho
veduto molti signori fare nelle corti loro, sforzandosi di consegnarle agli sventurati servidori
per salario. [170] E sicuramente coloro che si dilettano di usar cirimonie assai fuora del
convenevole, lo fanno per leggierezza e per vanità, come uomini di poco valore, e perciò che
queste ciance s’imparano di fare assai agevolmente, e pure hanno un poco di bella mostra,
essi le apprendono con grande studio; ma le cose gravi non possono imparare, come deboli a
tanto peso, e vorrebbono che la conversatione si spendesse tutta in ciò, sì come quelli che
19
non sanno più avanti e che sotto quel poco di polita buccia niuno sugo hanno et a toccarli
sono vizzi e mucidi, e perciò amerebbono che l’usar con le persone non procedesse più
adentro di quella prima vista: e di questi troverai tu grandissimo numero. [171] Alcuni altri
sono che soprabondano in parole et in atti cortesi per supplire al difetto della loro cattività e
della villana e ristretta natura loro, avisando, se eglino fossero sì scarsi e salvatichi con le
parole come sono con le opere, gli uomini non dovergli poter sofferire. [172] E nel vero così è,
che tu troverai che per l’una di queste due cagioni i più abondano di cirimonie superflue, e
non per altro: le quali generalmente noiano il più degli uomini, perciò che per loro
s’impedisce altrui il vivere a suo senno, cioè la libertà, la quale ciascuno appetisce innanzi ad
ogni altra cosa.
XVIII [173] D’altrui né delle altrui cose non si dèe dir male, tutto che paia che a ciò si prestino
in quel punto volentieri le orecchie, mediante la invidia che noi per lo più portiamo al bene
et all’onore l’un dell’altro; ma poi alla fine ogniuno fugge il bue che cozza, e le persone
schifano l’amicitia de’ maldicenti, facendo ragione che quello che essi dicono d’altri a noi,
quello dichino di noi ad altri. [174] Et alcuni, che si oppongono ad ogni parola e quistionano e
contrastano, mostrano che male conoscano la natura degli uomini, ché ciascuno ama la
vittoria, e lo esser vinto odia, non meno nel favellare che nello adoperare: sanza che il porsi
volentieri al contrario ad altri è opera di nimistà e non d’amicitia. [175] Per la qual cosa colui
che ama di essere amichevole e dolce nel conversare non dèe aver così presto il: – Non fu
così – e lo – Anzi sta come vi dico io –, né il metter sù de’ pegni, anzi si dèe sforzare di
essere arrendevole alle openioni degli altri d’intorno a quelle cose che poco rilevano. [176]
Perciò che la vittoria in sì fatti casi torna in danno, con ciò sia che vincendo la frivola
quistione si perde assai spesso il caro amico e diviensi tedioso alle persone, sì che non osano
di usare con esso noi, per non essere ognora con esso noi alla schermaglia; e chiamanci per
soprannome «M(esser) Vinciguerra», o «Ser Contraponi», o «Ser Tuttesalle», e talora «il
Dottor Sottile». [177] E se pure alcuna volta aviene che altri disputi invitato dalla compagnia, si
vuol fare per dolce modo e non si vuol essere sì ingordo della dolcezza del vincere che
l’uomo se la trangugi, ma conviene lasciarne a ciascuno la parte sua; e, torto o ragione che
l’uomo abbia, si dèe consentire al parere de’ più o de’ più importuni e loro lasciare il campo,
sì che altri e non tu sia quegli che si dibatta e che sudi e trafeli: [178] che sono sconci modi e
sconvenevoli ad uomini costumati, sì che se ne acquista odio e malavoglienza; et, oltre a ciò,
sono spiacevoli per la sconvenevolezza loro, la quale per se stessa è noiosa agli animi ben
composti, sì come noi faremo per aventura mentione poco appresso. [179] Ma il più della
gente invaghisce sì di se stessa, che ella mette in abbandono il piacere altrui: e, per mostrarsi
sottili et intendenti e savii, consigliano e riprendono e disputano et inritrosiscono a spada
tratta, et a niuna sentenza s’accordano, se none alla loro medesima. [180] Il proferire il tuo
consiglio non richiesto niuna altra cosa è che un dire di esser più savio di colui cui tu
consigli, anzi un rimproverargli il suo poco sapere e la sua ignoranza. [181] Per la qual cosa
non si dèe ciò fare con ogni conoscente, ma solo con gli amici più stretti e verso le persone il
governo e regimento delle quali a noi appartiene, o veramente quando gran pericolo
soprastesse ad alcuno, etiandio a noi straniero; ma nella comune usanza si dèe l’uomo
astenere di tanto dar consiglio e di tanto metter compenso alle bisogne altrui: nel quale
errore cadono molti, e più spesso i meno intendenti. [182] Perciò che agli uomini di grossa
pasta poche cose si volgon per la mente, sì che non penano guari a deliberarsi, come quelli
che pochi partiti da essaminare hanno alle mani; ma, come ciò sia, chi va proferendo e
20
seminando il suo consiglio mostra di portar openione che il senno a lui avanzi et ad altri
manchi. [183] E fermamente sono alcuni che così vagheggiano questa loro saviezza che il non
seguire i loro conforti non è altro che un volersi azzuffare con esso loro, e dicono: – Bene
sta; il consiglio de’ poveri non è accettato – et – Il tale vuol fare a suo senno – et – Il tale non
mi ascolta –; come se il richiedere che altri ubidisca il tuo consiglio non sia maggiore
arroganza che non è il voler pur seguire il suo proprio. [184] Simil peccato a questo
commettono coloro che imprendono a correggere i difetti degli uomini et a riprendergli; e
d’ogni cosa vogliono dar sentenza finale, e porre a ciascuno la legge in mano: – La tal cosa
non si vuol fare – e – Voi diceste la tal parola – e – Stoglietevi dal così fare e dal così dire –
– ’l vino che voi beete non vi è sano, anzi vuole esser vermiglio – e – Dovreste usare
del tal lattovaro e delle cotali pillole –; e mai non finano di riprendere, né di correggere. [185]
E lasciamo stare che a talora si affaticano a purgare l’altrui campo, che il loro medesimo è
tutto pieno di pruni e di ortica; ma egli è troppo gran seccaggine il sentirgli. [186] E sì come
pochi o niuno è cui soffera l’animo di fare la sua vita col medico o col confessore e molto
meno col giudice del maleficio, così non si truova chi si arrischi di avere la costoro
domestichezza, perciò che ciascuno ama la libertà, della quale essi ci privano, e parci esser col
maestro. [187] Per la qual cosa non è dilettevol costume lo essere così voglioso di correggere e
di ammaestrare altrui; e dèesi lasciare che ciò si faccia da’ maestri e da’ padri, da’ quali pure
perciò i figliuoli et i discepoli si scantonano tanto volentieri quanto tu sai che e’ fanno!
XIX [188] Schernire non si dèe mai persona, quantunque inimica, perché maggior segno di
dispregio pare che si faccia schernendo che ingiuriando, con ciò sia che le ingiurie si fanno o
per istizza o per alcuna cupidità, e niuno è che si adiri con cosa (o per cosa) che egli abbia
per niente, o che appetisca quello che egli sprezza del tutto: sì che dello ingiuriato si fa alcuna
stima e dello schernito niuna o picciolissima. [189] Et è lo scherno un prendere la vergogna
che noi facciamo altrui a diletto sanza pro alcuno di noi, per la qual cosa si vuole nella usanza
astenersi di schernire nessuno: in che male fanno quelli che rimproverano i difetti della
persona a coloro che gli hanno, o con parole, come fece messer Forese da Rabatta, delle
fattezze di maestro Giotto ridendosi, o con atti, come molti usano, contrafacendo gli
scilinguati o zoppi o qualche gobbo. [190] Similmente chi si ride d’alcuno sformato o malfatto
o sparuto o picciolo, o di sciocchezza che altri dica fa la festa e le risa grandi, e chi si diletta
di fare arrossire altrui: i quali dispettosi modi sono meritamente odiati. [191] Et a questi sono
assai somiglianti i beffardi, cioè coloro che si dilettano di far beffe e di uccellare ciascuno,
non per ischerno, né per disprezzo, ma per piacevolezza. [192] E sappi che niuna differenza è
da schernire a beffare, se non fosse il proponimento e la intentione che l’uno ha diversa
dall’altro, con ciò sia che le beffe si fanno per sollazzo e gli scherni per istratio, come che nel
comune favellare e nel dettare si prenda assai spesso l’un vocabolo per l’altro: ma chi
schernisce sente contento della vergogna altrui e chi beffa prende dello altrui errore non
contento, ma sollazzo, là dove della vergogna di colui medesimo, per aventura, prenderebbe
cruccio e dolore. [193] E come che io nella mia fanciullezza poco innanzi procedessi nella
grammatica, pur mi voglio ricordare che Mitione, il quale amava cotanto Eschine che egli
stesso avea di ciò maraviglia, non di meno prendea talora sollazzo di beffarlo, come quando
e’ disse seco stesso: – Io vo’ fare una beffa a costui –. [194] Sì che quella medesima cosa a
quella medesima persona fatta, secondo la intention di colui che la fa, potrà essere beffa e
scherno: e perciò che il nostro proponimento male può esser palese altrui, non è util cosa
nella usanza il fare arte così dubbiosa e sospettosa. [195] E più tosto si vuol fuggire che cercare
21
di esser tenuto beffardo, perché molte volte interviene in questo, come nel ruzzare o
scherzare, che l’uno batte per ciancia e l’altro riceve la battitura per villania, e di scherzo
fanno zuffa; così quegli che è beffato per sollazzo e per dimestichezza si reca talvolta ciò ad
onta et a disonore e prendene sdegno, sanza che la beffa è inganno, et a ciascuno
naturalmente duole di errare e di essere ingannato. [196] Sì che per più cagioni pare che chi
procaccia di esser ben voluto et avuto caro non debba troppo farsi maestro di beffe. [197]
Vera cosa è che noi non possiamo in alcun modo menare questa faticosa vita mortale del
tutto sanza sollazzo né sanza riposo: e perché le beffe ci sono cagione di festa e di riso e, per
conseguente, di ricreatione, amiamo coloro che sono piacevoli e beffardi e sollazzevoli. [198]
Per la qual cosa pare che sia da dire in contrario, cioè che pur si convenga nella usanza
beffare alle volte e similmente motteggiare. [199] E sanza fallo coloro che sanno beffare per
amichevol modo e dolce sono più amabili che coloro che no ’l sanno né possono fare; ma
egli è di mestiero avere risguardo in ciò a molte cose; e, con ciò sia che la intention del
beffatore è di prendere sollazzo dello errore di colui di cui egli fa alcuna stima, bisogna che
l’errore nel quale colui si fa cadere sia tale che niuna vergogna notabile né alcun grave danno
gliene segua: altrimenti mal si potrebbono conoscere le beffe dalle ingiurie. [200] E sono
ancora di quelle persone con le quali, per l’asprezza loro, in niuna guisa si dèe motteggiare, sì
come Biondello poté sapere da messer Filippo Argenti nella loggia de’ Caviccioli. [201]
Medesimamente non si dèe motteggiare nelle cose gravi, e meno nelle vituperose opere,
perciò che pare che l’uomo, secondo il proverbio del comun popolo, si rechi la cattività a
scherzo, come che a madonna Filippa da Prato molto giovassino le piacevoli risposte da lei
fatte intorno alla sua disonestà! [202] Per la qual cosa non credo io che Lupo degli Uberti
alleggerisse la sua vergogna, anzi la aggravò, scusandosi per motti della cattività e della viltà
da lui dimostrata, ché, potendosi tenere nel castello di Laterina, vedendosi steccare intorno e
chiudersi, incontinente il diede, dicendo che nullo Lupo era uso di star rinchiuso; perché,
dove non ha luogo il ridere, quivi si disdice il motteggiare et il cianciare.
XX [203] E dèi oltre a ciò sapere che alcuni motti sono che mordono et alcuni che non
mordono; de’ primi voglio che ti basti il savio ammaestramento che Lauretta ne diede, cioè
che i motti come la pecora morde deono così mordere l’uditore, e non come il cane: perciò
che, se come il cane mordesse, il motto non sarebbe motto ma villania; e le leggi quasi in
ciascuna città vogliono che quegli che dice altrui alcuna grave villania sia gravemente punito;
e forse che si conveniva ordinar similmente non leggieri disciplina a chi mordesse per via di
motti oltra il convenevole modo; ma gli uomini costumati deono far ragione che la legge che
dispone sopra le villanie si stenda etiandio a’ motti, e di rado e leggiermente pungere altrui.
[204] Et oltre a tutto questo, sì dèi tu sapere che il motto, come che morda o non morda, se
non è leggiadro e sottile gli uditori niuno diletto ne prendono, anzi ne sono tediati, o, se pur
ridono, si ridono non del motto, ma del motteggiatore. [205] E perciò che niuna altra cosa
sono i motti che inganni, e lo ingannare, sì come sottil cosa et artificiosa, non si può fare se
non per gli uomini di acuto e di pronto avedimento, e spetialmente improviso, perciò che
non convengono alle persone materiali e di grosso intelletto, né pure ancora a ciascuno il cui
ingegno sia abondevole e buono, sì come per aventura non convennero gran fatto a messer
Giovan Boccaccio; ma sono i motti spetiale prontezza e leggiadria e tostàno movimento
d’animo. [206] Per la qual cosa gli uomini discreti non guardano in ciò alla volontà, ma alla
disposition loro, e, provato che essi hanno una e due volte le forze del loro ingegno invano,
conoscendosi a ciò poco destri, lasciano stare di pur voler in sì fatto essercitio adoperarsi,
22
acciò che non avenga loro quello che avenne al cavaliero di madonna Orretta. [207] E se tu
porrai mente alle maniere di molti, tu conoscerai agevolmente ciò che io ti dico esser vero:
cioè che non istà bene il motteggiare a chiunque vuole, ma solamente a chi può. [208] E vedrai
tale avere ad ogni parola apparecchiato uno, anzi molti, di quei vocaboli che noi chiamiamo
bistìccichi, di niun sentimento; e tale scambiar le sillabe ne’ vocaboli per frivoli modi e
sciocchi; et altri dire o rispondere altrimenti che non si aspettava, sanza alcuna sottigliezza o
vaghezza: – Dove è il signore? – – Dove egli ha i piedi! – e – Gli fece ugner le mani con la
grascia di San Giovan Boccadoro – e – Dove mi manda egli? – – Ad Arno! –; – Io mi voglio
radere – – E’ sarebbe meglio rodere! –; – Va chiama il barbieri – – E perché non il barba ...
domani?! –: i quali, come tu puoi agevolmente conoscere, sono vili modi e plebei; cotali
furono, per lo più, le piacevolezze et i motti di Dioneo. [209] Ma della più bellezza de’ motti e
della meno non fia nostra cura di ragionare al presente, con ciò sia che altri trattati ce ne
abbia, distesi da troppo migliori dettatori e maestri che io non sono, et ancora perciò che i
motti hanno incontinente larga e certa testimonianza della loro bellezza e della loro
spiacevolezza, sì che poco potrai errare in ciò, solo che tu non sii soverchiamente abbagliato
di te stesso, perciò che dove è piacevol motto ivi è tantosto festa e riso et una cotale
maraviglia. [210] Laonde, se le tue piacevolezze non saranno approvate dalle risa de’
circonstanti, sì ti rimarrai tu di più motteggiare, perciò che il difetto fia pur tuo, e non di chi
t’ascolta, con ciò sia cosa che gli uditori, quasi solleticati dalle pronte o leggiadre o sottili
risposte o proposte, etiandio volendo, non possono tener le risa, ma ridono mal lor grado;
da’ quali, sì come da diritti e legitimi giudici, non si dèe l’uomo appellare a se medesimo, né
più riprovarsi. [211] Né per far ridere altrui si vuol dire parole né fare atti vili né sconvenevoli,
storcendo il viso e contrafacendosi, ché niuno dèe, per piacere altrui, avilire sé medesimo,
che è arte non di nobile uomo, ma di giocolare e di buffone. [212] Non sono adunque da
seguitare i volgari modi e plebei di Dioneo («madonna Aldruta, alzate la coda...»), né fingersi
matto, né dolce di sale, ma, a suo tempo, dire alcuna cosa bella e nuova e che non caggia così
nell’animo a ciascuno, chi può, e chi non può, tacersi: perciò che questi sono movimenti
dello ’ntelletto, i quali, se sono avvenenti e leggiadri, fanno segno e testimonianza della
destrezza dell’animo e de’ costumi di chi gli dice, la qual cosa piace sopra modo agli uomini e
rendeci loro cari et amabili, ma, se essi sono al contrario, fanno contrario effetto, perciò che
pare che l’asino scherzi, o che alcuno forte grasso e naticuto danzi o salti spogliato in
farsetto.
XXI [213] Un’altra maniera si truova di sollazzevoli modi pure posta nel favellare: cioè quando
la piacevolezza non consiste in motti, che per lo più sono brievi, ma nel favellar disteso e
continuato, il quale vuole essere ordinato e bene espresso e rappresentante i modi, le usanze,
gli atti et i costumi di coloro de’ quali si parla, sì che all’uditore sia aviso non di udir
raccontare, ma di veder con gli occhi fare quelle cose che tu narri: il che ottimamente
seppono fare gli uomini e le donne del Boccaccio, come che pure talvolta (se io non erro) si
contrafacessero più che a donna o a gentiluomo non si sarebbe convenuto, a guisa di coloro
che recitan le comedie. [214] Et a voler ciò fare, bisogna aver quello accidente, o novella o
istoria, che tu pigli a dire bene raccolta nella mente, e le parole pronte et apparecchiate, sì che
non ti convenga tratto tratto dire: – Quella cosa... – e – Quel cotale... – o – Quel... come si
chiama? – o – Quel lavorio – né – Aiutatemelo a dire – e – Ricordatemi come egli ha nome –
; perciò che questo è appunto il trotto del cavalier di madonna Orretta! E se tu reciterai un
avenimento nel quale intervenghino molti, non dèi dire: – Colui disse... – e – Colui rispose...
23
–, perciò che tutti siamo «colui», sì che chi ode facilmente erra: conviene adunque che chi
racconta ponga i nomi e poi non gli scambi. [215] Et oltre a ciò, si dèe l’uomo guardare di non
dir quelle cose, le quali taciute, la novella sarebbe non meno piacevole o per aventura ancora
più piacevole: – Il tale, che fu figliuol del tale, che stava a casa nella via del Cocomero... no ’l
conosceste voi? Che ebbe per moglie quella de’ Gianfigliazzi: una cotal magretta, che andava
alla messa in San Lorenzo... come, no? Anzi, non conosceste altri! – – Un bel vecchio diritto,
che portava la zazzera... non ve ne ricordate voi? –; perciò che, se fosse tutto uno che il caso
fosse avenuto ad un altro come a costui, tutta questa lunga quistione sarebbe stata di poco
frutto, anzi di molto tedio, a coloro che ascoltano e sono vogliosi e frettolosi di sentire
quello avenimento, e tu gli aresti fatto indugiare; sì come per aventura fece il nostro Dante:
E li parenti miei furon Lombardi
E Mantovan per patria ambidui;
perciò che niente rilevava se la madre di lui fosse stata da Gazuolo o anco da Cremona. [216]
Anzi, apparai io già da un gran retorico forestiero uno assai utile ammaestramento d’intorno
a questo, cioè che le novelle si deono comporre et ordinare prima co’ soprannomi e poi
raccontare co’ nomi; perciò che quelli sono posti secondo le qualità delle persone e questi
secondo l’appetito de’ padri o di coloro a chi tocca. [217] Per la qual cosa colui che, in
pensando, fu messer Avaritia, in proferendo sarà messer Erminio Grimaldi, se tale sarà la
generale openione che la tua contrada arà di lui, quale a Guglielmo Borsieri fu detto esser di
messer Erminio in Genova. [218] E se nella terra ove tu dimori non avesse persona molto
conosciuta che si confacesse al tuo bisogno, sì dèi tu figurare il caso in altro paese et il nome
imporre come più ti piace. [219] Vera cosa è che con maggior piacere si suole ascoltare e, più,
aver dinanzi agli occhi quello che si dice essere avenuto alle persone che noi conosciamo (se
l’avenimento è tale che si confaccia a’ loro costumi) che quello che è intervenuto agli strani e
non conosciuti da noi; e la ragione è questa: che, sapendo noi che quel tale suol far così,
crediamo che egli così abbia fatto, e riconosciamolo come presente, dove degli strani non
avien così.
XXII [220] Le parole, sì nel favellare disteso come negli altri ragionamenti, vogliono esser
chiare, sì che ciascuno della brigata le possa agevolmente intendere, et oltre a ciò belle in
quanto al suono et in quanto al significato, perciò che se tu arai da dire l’una di queste due,
dirai più tosto il ventre che l’epa, e, dove il tuo linguaggio lo sostenga, dirai più tosto la pancia
che il ventre o il corpo, perciò che così sarai inteso e non franteso, sì come noi Fiorentini
diciamo, e di niuna bruttura farai sovenire all’uditore. [221] La qual cosa volendo l’ottimo
poeta nostro schifare, sì come io credo, in questa parola stessa, procacciò di trovare altro
vocabolo, non guardando perché alquanto gli convenisse scostarsi per prenderlo di altro
luogo, e disse:
Ricorditi che fece il peccar nostro
Prender Dio, per scamparne,
Umana carne al tuo virginal chiostro!
E come che Dante, sommo poeta, altresì poco a così fatti ammaestramenti ponesse mente,
io non sento perciò che di lui si dica per questa cagione bene alcuno. [222] E certo io non ti
consiglierei che tu lo volessi fare tuo maestro in questa arte dello esser gratioso, con ciò sia
24
cosa che egli stesso non fu, anzi in alcuna Cronica trovo così scritto di lui: «Questo Dante per
suo sapere fu alquanto presuntuoso e schifo e sdegnoso e, quasi, a guisa di filosofo, mal
gratioso, non ben sapeva conversare co’ laici». [223] Ma, tornando alla nostra materia, dico che
le parole vogliono essere chiare; il che averrà, se tu saprai scegliere quelle che sono originali
di tua terra, che non siano perciò antiche tanto che elle siano divenute rance e viete, e, come
logori vestimenti, diposte o tralasciate, sì come spaldo et epa et uopo e sezzaio e primaio; et oltre
a ciò, se le parole che tu arai per le mani saranno non di doppio intendimento, ma semplici,
perciò che di quelle accozzate insieme si compone quel favellare che ha nome «enigma» et in
più chiaro volgare si chiama «gergo»:
Io vidi un che da sette passatoi
fu da un canto all’altro trapassato.
[224] Ancora vogliono esser le parole il più che si può appropriate a quello che altri vuol
dimostrare, e meno che si può comuni ad altre cose, perciò che così pare che le cose istesse
si rechino in mezzo e che elle si mostrino non con le parole, ma con esso il dito: e perciò più
acconciamente diremo «riconosciuto alle fattezze» che «alla figura» o «alla imagine»; e meglio
rappresentò Dante la cosa detta, quando e’ disse:
che li pesi
fan così cigolar le sue bilancie,
che se egli avesse detto o gridare o stridere o far romore. [225] E più singolare è il dire «il ribrezzo
della quartana» che se noi dicessimo «il freddo»; e «la carne soverchio grassa stucca» che se noi
dicessimo sazia; e «sciorinare i panni» e non ispandere; et i moncherini e non le braccia mozze; et
all’orlo dell’acqua d’un fosso
Stan li ranocchi pur col muso fuori
e non con la bocca: i quali tutti sono vocaboli di singolare significatione, e similmente «il vivagno
della tela» più tosto che l’estremità. [226] E so io bene che, se alcun forestiero per mia sciagura
s’abbattesse a questo trattato, egli si farebbe beffe di me e direbbe che io t’insegnassi di
favellare in gergo overo in cifera, con ciò sia che questi vocaboli siano per lo più così
nostrani che alcuna altra natione non gli usa, et usati da altri non gl’intende. [227] E chi è colui
che sappia ciò che Dante si volesse dire in quel verso:
Già veggia per mezzul perdere o lulla?
Certo io credo che nessun altro che noi Fiorentini; ma, non di meno, secondo che a me è
stato detto, se alcun fallo ha pure in quel testo Dante, egli non l’ha nelle parole, ma (se egli
errò) più tosto errò in ciò, che egli – sì come uomo alquanto ritroso – imprese a dire cosa
malagevole ad isprimere con parole e per aventura poco piacevole ad udire, che perché egli la
isprimesse male. [228] Niun puote, adunque, ben favellare con chi non intende il linguaggio nel
quale egli favella, né, perché il Tedesco non sappia latino, debbiam noi per questo guastar la
nostra loquela in favellando con esso lui, né contrafarci a guisa di mastro Brufaldo, sì come
soglion fare alcuni che per la loro sciocchezza si sforzano di favellar del linguaggio di colui
con cui favellano, quale egli si sia, e dicono ogni cosa a rovescio; e spesso aviene che lo
Spagniuolo parlerà italiano con lo Italiano, e lo Italiano favellerà per pompa e per leggiadria
25
con esso lui spagnuolo: e non di meno assai più agevol cosa è il conoscere che amendue
favellano forestiero che il tener le risa delle nuove sciocchezze che loro escono di bocca. [229]
Favelleremo adunque noi nell’altrui linguaggio qualora ci farà mestiero di essere intesi per
alcuna nostra necessità, ma nella comune usanza favelleremo pure nel nostro, etiandio men
buono, più tosto che nell’altrui migliore, perciò che più acconciamente favellerà un
Lombardo nella sua lingua, quale s’è la più difforme, che egli non parlerà toscano o d’altro
linguaggio, pure perciò che egli non arà mai per le mani, per molto che egli si affatichi, sì
bene i propri e particolari vocaboli come abbiamo noi Toscani. [230] E se pure alcuno vorrà
aver risguardo a coloro co’ quali favellerà e perciò astenersi da’ vocaboli singolari, de’ quali io
ti ragionava, et in luogo di quelli usare i generali e comuni, i costui ragionamenti saranno
perciò di molto minor piacevolezza. [231] Dèe oltre a ciò ciascun gentiluomo fuggir di dire le
parole meno che oneste: e la onestà de’ vocaboli consiste o nel suono e nella voce loro o nel
loro significato, con ciò sia cosa che alcuni nomi venghino a dire cosa onesta e non di meno
si sente risonare nella voce istessa alcuna disonestà, sì come rinculare (la qual parola, ciò non
ostante, si usa tuttodì da ciascuno); ma se alcuno, o uomo o femina, dicesse per simil modo
et a quel medesimo ragguaglio il farsi innanzi che si dice il farsi indrieto, allora apparirebbe la
disonestà di cotal parola, ma il nostro gusto per la usanza sente quasi il vino di questa voce e
non la muffa.
[232] Le mani alzò con amendue le fiche,
disse il nostro Dante, ma non ardiscono di così dire le nostre donne, anzi, per ischifare quella
parola sospetta, dicon più tosto le castagne, come che pure alcune, poco accorte, nominino
assai spesso disavedutamente quello che se altri nominasse loro in pruova elle
arrossirebbono, facendo mentione per via di bestemmia di quello onde elle sono femine. [233]
E perciò quelle che sono, o vogliono essere, ben costumate, procurino di guardarsi non solo
dalle disoneste cose, ma ancora dalle parole, e non tanto da quelle che sono, ma etiandio da
quelle che possono essere, o ancora parere, o disoneste o sconcie e lorde, come alcuni
affermano essere queste pur di Dante:
Se non ch’al viso e di sotto mi venta;
o pur quelle:
Però ne dite ond’è presso pertugio;
Et un di quelli spirti disse: Vieni
Dirieto a noi, ché troverai la buca.
[234] E dèi sapere che, come che due o più parole venghino talvolta a dire una medesima cosa,
non di meno l’una sarà più onesta e l’altra meno, sì come è a dire Con lui giacque e Della sua
persona gli sodisfece, perciò che questa sentenza, detta con altri vocaboli, sarebbe disonesta cosa
ad udire. [235] E più acconciamente dirai «il vago della luna» che tu non diresti il drudo, avegna
che amendue questi vocaboli importino «lo amante», e più convenevol parlare pare a dire la
fanciulla e l’amica che «la concubina di Titone»; e più dicevole è a donna, et anco ad uomo
costumato, nominare le meretrici femine di mondo (come la Belcolore disse, più nel favellare
vergognosa che nello adoperare) che a dire il comune lor nome: «Taide è la puttana», e come
il Boccaccio disse, «la potenza delle meretrici e de’ ragazzi»; ché, se così avesse nominato
26
dall’arte loro i maschi come nominò le femine, sarebbe stato sconcio e vergognoso il suo
favellare. [236] Anzi, non solo si dèe altri guardare dalle parole disoneste e dalle lorde, ma
etiandio dalle vili, e spetialmente colà dove di cose alte e nobili si favelli; e per questa cagione
forse meritò alcun biasimo la nostra Beatrice, quando disse:
L’alto fato di Dio sarebbe rotto
Se Lethé si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata sanza alcuno scotto
Di pentimento...,
ché, per aviso mio, non istette bene il basso vocabolo delle taverne in così nobile
ragionamento. [237] Né dèe dire alcuno «la lucerna del mondo» in luogo del sole, perciò che
cotal vocabolo rappresenta altrui il puzzo dell’olio e della cucina; né alcuno considerato
uomo direbbe che san Domenico fu «il drudo della teologia» e non racconterebbe che i Santi
gloriosi avessero dette così vili parole come è a dire:
E lascia pur grattar dove è la rogna,
che sono imbrattate della feccia del volgar popolo, sì come ciascuno può agevolmente
conoscere. [238] Adunque, ne’ distesi ragionamenti si vogliono avere le sopra dette
considerationi et alcune altre, le quali tu potrai più ad agio apprendere da’ tuoi maestri e da
quella arte che essi sogliono chiamare retorica. [239] E negli altri bisogna che tu ti avezzi ad
usare le parole gentili e modeste e dolci, sì che niuno amaro sapore abbiano; et innanzi dirai:
– Io non seppi dire – che – Voi non m’intendete – e – Pensiamo un poco se così è come noi
diciamo – più tosto che dire: – Voi errate! – o – E’ non è vero! – o – Voi non la sapete! –;
però che cortese et amabile usanza è lo scolpare altrui, etiandio in quello che tu intendi
d’incolparlo, anzi si dèe far comune l’error proprio dello amico, e prenderne prima una parte
per sé, e poi biasimarlo o riprenderlo: – Noi errammo la via – e – Noi non ci ricordammo
ieri di così fare –; come che lo smemorato sia pur colui solo e non tu. [240] E quello che
Restagnone disse a’ suoi compagni non istette bene «Voi, se le vostre parole non mentono»,
perché non si dèe recare in dubbio la fede altrui, anzi, se alcuno ti promise alcuna cosa e non
te la attenne, non istà bene che tu dichi: – Voi mi mancaste della vostra fede! –, salvo se tu
non fossi constretto da alcuna necessità, per salvezza del tuo onore, a così dire; ma, se egli ti
arà ingannato, dirai: – Voi non vi ricordaste di così fare –; e se egli non se ne ricordò, dirai
più tosto: – Voi non poteste – o – Non vi tornò a mente – che – Voi vi dimenticaste – o –
Voi non vi curaste di attenermi la promessa –, perciò che queste sì fatte parole hanno alcuna
puntura et alcun veneno di doglienza e di villania; sì che coloro che costumano di spesse
volte dire cotali motti sono riputati persone aspere e ruvide, e così è fuggito il loro consortio
come si fugge di rimescolarsi tra’ pruni e tra’ triboli.

CAPITOLO 23

XXIII

[241]

E perché io ho conosciute di quelle persone che hanno una cattiva usanza e
spiacevole, cioè che così sono vogliosi e golosi di dire che non prendono il sentimento, ma
lo trapassano e corrongli dinanzi a guisa di veltro che non assanni, per ciò non mi guarderò
io di dirti quello che potrebbe parer soverchio a ricordare, come cosa troppo manifesta: e
cioè che tu non dèi giammai favellare che non abbi prima formato nell’animo quello che tu
dèi dire, ché così saranno i tuoi ragionamenti parto e non isconciatura (ché bene mi
comporteranno i forestieri questa parola, se mai alcuno di loro si curerà di legger queste
27
ciancie). [242] E se tu non ti farai beffe del mio ammaestramento, non ti averrà mai di dire: –
Ben venga, messere Agostino – a tale che arà nome Agnolo o Bernardo; e non arai a dire –
Ricordatemi il nome vostro – e non ti arai a ridire, né a dire – Io non dissi bene – né –
Domin, ch’io lo dica! –; né a scilinguare o balbotire lungo spatio per rinvenire una parola: –
maestro Arrigo... No, maestro Arabico... O, ve’ che lo dissi: maestro Agabito! –: che sono a
chi t’ascolta tratti di corda. [243] La voce non vuole esser né roca né aspera, e non si dèe
stridere, né per riso o per altro accidente cigolare come le carrucole fanno, né, mentre che
l’uomo sbadiglia, pur favellare. [244] Ben sai che noi non ci possiamo fornire né di spedita
lingua né di buona voce a nostro senno; chi è o scilinguato o roco non voglia sempre essere
quegli che cinguetti, ma correggere il difetto della lingua col silentio e con le orecchie: et
anco si può con istudio scemare il vitio della natura. [245] Non istà bene alzar la voce a guisa
di banditore, né anco si dèe favellare sì piano che chi ascolta non oda; e se tu non sarai stato
udito la prima volta, non dèi dire la seconda ancora più piano, né anco dèi gridare, acciò che
tu non dimostri d’imbizzarrire perciò che ti sia convenuto replicare quello che tu avevi detto.
[246] Le parole vogliono essere ordinate secondo che richiede l’uso del favellar comune e non
aviluppate et intralciate in qua et in là, come molti hanno usanza di fare per leggiadria, il
favellar de’ quali si rassomiglia più a notaio che legga in volgare lo instrumento che egli dettò
latino che ad uom che ragioni in suo linguaggio; come è a dire:
Imagini di ben seguendo false
e:
Del fiorir queste inanzi tempo tempie;
i quali modi alle volte convengono a chi fa versi, ma a chi favella si disdicono sempre. [247] E
bisogna che l’uomo non solo si discosti in ragionando dal versificare, ma etiandio dalla
pompa dello arringare: altrimenti sarà spiacevole e tedioso ad udire, come che per aventura
maggior maestria dimostri il sermonare che il favellare; ma ciò si dèe riservare a suo luogo,
ché chi va per via non dèe ballare, ma caminare, con tutto che ogniuno non sappia danzare
et andar sappia ogniuno (ma conviensi alle nozze e non per le strade!). [248] Tu ti guarderai
adunque di favellar pomposo: «Credesi per molti filosofanti...», e tale è tutto il Filocolo e gli
altri trattati del nostro m(esser) Giovan Boccaccio, fuori che la maggior opera, et ancora più
di quella, forse, il Corbaccio. [249] Non voglio perciò che tu ti avezzi a favellare sì bassamente
come la feccia del popolo minuto e come la lavandaia e la trecca, ma come i gentiluomini; la
qual cosa come si possa fare ti ho in parte mostrato di sopra, cioè se tu non favellerai di
materia né vile, né frivola, né sozza, né abominevole. [250] E se tu saprai scegliere fra le parole
del tuo linguaggio le più pure e le più proprie e quelle che miglior suono e miglior
significatione aranno, sanza alcuna rammemoratione di cosa brutta, né laida, né bassa, e
quelle accozzare, non ammassandole a caso, né con troppo scoperto studio mettendole in
filza, et, oltre a ciò, se tu procaccerai di compartire discretamente le cose che tu a dire arai, e
guardera’ti di congiungere le cose difformi tra sé, come:
[251] Tullio e Lino e Seneca morale,
o pure:
L’uno era Padovano e l’altro laico,
28
e se tu non parlerai sì lento, come svogliato, né sì ingordamente, come affamato, ma come
temperato uomo dèe fare, e se tu proferirai le lettere e le sillabe con una convenevole
dolcezza, non a guisa di maestro che insegni leggere e compitare a’ fanciulli, né anco le
masticherai né inghiottiraile appiccate et impiastricciate insieme l’una con l’altra; se tu arai
dunque a memoria questi et altri sì fatti ammaestramenti, il tuo favellare sarà volentieri e con
piacere ascoltato dalle persone, e manterrai il grado e la degnità che si conviene a gentiluomo
bene allevato e costumato.
XXIV [252] Sono ancora molti che non sanno restar di dire, e, come nave spinta dalla prima
fuga per calar vela non s’arresta, così costoro trapportati da un certo impeto scorrono e,
mancata la materia del loro ragionamento, non finiscono per ciò, anzi, o ridicono le cose già
dette, o favellano a vòto. [253] Et alcuni altri tanta ingordigia hanno di favellare che non
lasciano dire altrui; e come noi veggiamo talvolta su per l’aie de’ contadini l’un pollo tòrre la
spica di becco all’altro, così cavano costoro i ragionamenti di bocca a colui che gli cominciò e
dicono essi; e sicuramente che eglino fanno venir voglia altrui di azzuffarsi con esso loro,
perciò che, se tu guardi bene, niuna cosa muove l’uomo più tosto ad ira, che quando
improviso gli è guasto la sua voglia et il suo piacere, etiandio minimo: sì come quando tu arai
aperto la bocca per isbadigliare et alcuno te la tura con mano, o quando tu hai alzato il
braccio per trarre la pietra et egli t’è subitamente tenuto da colui che t’è di dirieto. [254] Così
adunque come questi modi (e molti altri a questi somiglianti) che tendono ad impedir la
voglia e l’appetito altrui ancora per via di scherzo e per ciancia sono spiacevoli e debbonsi
fuggire, così nel favellare si dèe più tosto agevolare il desiderio altrui che impedirlo. [255] Per
la qual cosa, se alcuno sarà tutto in assetto di raccontare un fatto, non istà bene di
guastargliele, né di dire che tu lo sai, o, se egli anderà per entro la sua istoria spargendo
alcuna bugiuzza, non si vuole rimproverargliele né con le parole né con gli atti, crollando il
capo o torcendo gli occhi, sì come molti soglion fare, affermando sé non potere in modo
alcuno sostener l’amaritudine della bugia; ma egli non è questa la cagione di ciò, anzi è
l’agrume e lo aloe della loro rustica natura et aspera, che sì gli rende venenosi et amari nel
consortio degli uomini che ciascuno gli rifiuta. [256] Similmente il rompere altrui le parole in
bocca è noioso costume e spiace, non altrimenti che quando l’uomo è mosso a correre et
altri lo ritiene. Né quando altri favella si conviene di fare sì che egli sia lasciato et
abbandonato dagli uditori, mostrando loro alcuna novità e rivolgendo la loro attentione
altrove: ché non istà bene ad alcuno licenziar coloro che altri, e non egli, invitò. [257] E vuolsi
stare attento, quando l’uom favella, acciò che non ti convenga dire tratto tratto: – Eh? – o –
Come? –; il qual vezzo sogliono avere molti, e non è ciò minore sconcio a chi favella che lo
intoppare ne’ sassi a chi va. [258] Tutti questi modi e generalmente ciò che può ritenere e ciò
che si può attraversare al corso delle parole di colui che ragiona, si vuol fuggire. E se alcuno
sarà pigro nel favellare, non si vuole passargli inanzi né prestargli le parole, come che tu ne
abbi dovitia et egli difetto; ché molti lo hanno per male, e spetialmente quelli che si
persuadono di essere buoni parlatori, perciò che è loro aviso che tu non gli abbi per quello
che essi si tengono e che tu gli vogli sovenire nella loro arte medesima; come i mercatanti si
recano ad onta che altri proferisca loro denari, quasi eglino non ne abbiano e siano poveri e
bisognosi dell’altrui. [259] E sappi che a ciascuno pare di saper ben dire, come che alcuno per
modestia lo nieghi. E non so io indovinare donde ciò proceda, che chi meno sa più ragioni:
dalla qual cosa (cioè dal troppo favellare) conviene che gli uomini costumati si guardino, e
spetialmente poco sapendo, non solo perché egli è gran fatto che alcuno parli molto sanza
29
errar molto, ma perché ancora pare che colui che favella soprastia in un certo modo a coloro
che odono, come maestro a’ discepoli; e perciò non istà bene di appropriarsi maggior parte
di questa maggioranza, che non ci si conviene: et in tale peccato cadono non pure molti
uomini, ma molte nationi favellatrici e seccatrici sì, che guai a quella orecchia che elle
assannano. [260] Ma, come il soverchio dire reca fastidio, così reca il soverchio tacere odio,
perciò che il tacersi colà, dove gli altri parlano a vicenda, pare un non voler metter su la sua
parte dello scotto, e perché il favellare è uno aprir l’animo tuo a chi t’ode, il tacere per lo
contrario pare un volersi dimorare sconosciuto. [261] Per la qual cosa, come que’ popoli che
hanno usanza di molto bere alle loro feste e d’inebriarsi soglion cacciare via coloro che non
beono, così sono questi così fatti mutoli mal volentieri veduti nelle liete et amichevoli
brigate. Adunque piacevol costume è il favellare e lo star cheto ciascuno, quando la volta
viene a lui.
XXV [262] Secondo che racconta una molto antica cronica, egli fu già nelle parti della Morea
un buono uomo scultore, il quale per la sua chiara fama, sì come io credo, fu chiamato per
sopranome «maestro Chiarissimo»; costui, essendo già di anni pieno, distese certo suo
trattato et in quello raccolse tutti gli ammaestramenti dell’arte sua, sì come colui che
ottimamente gli sapea, dimostrando come misurar si dovessero le membra umane, sì
ciascuno da sé, sì l’uno per rispetto all’altro, acciò che convenevolmente fossero infra sé
rispondenti. [263] Il qual suo volume egli chiamò Il Regolo, volendo significare che secondo
quello si dovessero dirizzare e regolare le statue che per lo innanzi si farebbono per gli altri
maestri, come le travi e le pietre e le mura si misurano con esso il regolo. [264] Ma, con ciò sia
che il dire è molto più agevol cosa che il fare e l’operare; et, oltre a ciò, la maggior parte degli
uomini (massimamente di noi laici et idioti) abbia sempre i sentimenti più presti che lo
’ntelletto, e conseguentemente meglio apprendiamo le cose singolari e gli essempi che le
generali et i sillogismi (la qual parola dèe voler dire in più aperto volgare «le ragioni»), perciò,
avendo il sopra detto valent’uomo risguardo alla natura degli artefici, male atta agli
ammaestramenti generali, e per mostrare anco più chiaramente la sua eccellenza, provedutosi
di un fine marmo, con lunga fatica ne formò una statua così regolata in ogni suo membro et
in ciascuna sua parte come gli ammaestramenti del suo trattato divisavano: e, come il libro
avea nominato, così nominò la statua, pur «Regolo» chiamandola. [265] Ora fosse piacer di
Dio che a me venisse fatto almeno in parte l’una sola delle due cose che il sopra detto nobile
scultore e maestro seppe fare perfettamente, cioè di raccozzare in questo volume quasi le
debite misure dell’arte della quale io tratto! [266] Perciò che l’altra di fare il secondo Regolo, cioè
di tenere et osservare ne’ miei costumi le sopra dette misure, componendone quasi visibile
essempio e materiale statua, non posso io guari oggimai fare, con ciò sia che nelle cose
appartenenti alle maniere e costumi degli uomini non basti aver la scientia e la regola, ma
convenga oltre a ciò, per metterle ad effetto, aver etiandio l’uso, il quale non si può
acquistare in un momento né in breve spatio di tempo, ma conviensi fare in molti e molti
anni: et a me ne avanzano, come tu vedi, oggimai pochi. [267] Ma non per tanto non dèi tu
prestare meno di fede a questi ammaestramenti, ché bene può l’uomo insegnare ad altri
quella via per la quale caminando egli stesso errò, anzi, per aventura, coloro che si
smarrirono hanno meglio ritenuto nella memoria i fallaci sentieri e dubbiosi che chi si tenne
pure per la diritta. [268] E se nella mia fanciullezza, quando gli animi sono teneri et
arrendevoli, coloro a’ quali caleva di me avessero saputo piegare i miei costumi, forse
alquanto naturalmente duri e rozzi, et ammollirgli e polirgli, io sarei per aventura tale
30
divenuto quale io ora procuro di render te, il quale mi dèi essere non meno che figliuol caro.
[269] Ché, quantunque le forze della natura siano grandi, non di meno ella pure è assai spesso
vinta e corretta dall’usanza, ma vuolsi tosto incominciare a farsele incontro et a rintuzzarla
prima che ella prenda soverchio potere e baldanza; ma le più persone nol fanno, anzi, drieto
all’appetito sviate e sanza contrasto seguendolo dovunque esso le torca, credono di ubidire
alla natura, quasi la ragione non sia negli uomini natural cosa, anzi ha ella, sì come donna e
maestra, potere di mutar le corrotte usanze e di sovenire e di sollevare la natura, ove che ella
inchini o caggia alcuna volta. [270] Ma noi non la ascoltiamo per lo più, e così per lo più siamo
simili a coloro a chi Dio non la diede, cioè alle bestie, nelle quali, non di meno, adopera pure
alcuna cosa non la loro ragione (ché niuna ne hanno per se medesime), ma la nostra; come tu
puoi vedere che i cavalli fanno, che molte volte – anzi sempre – sarebbon per natura
salvatichi, et il loro maestro gli rende mansueti et oltre a ciò quasi dotti e costumati, perciò
che molti ne andrebbono con duro trotto, et egli insegna loro di andare con soave passo, e di
stare e di correre e di girare e di saltare insegna egli similmente a molti, et essi lo apprendono,
come tu sai che e’ fanno. [271] Ora, se il cavallo, il cane, gli uccelli e molti altri animali ancora
più fieri di questi si sottomettono alla altrui ragione et ubidisconla et imparano quello che la
loro natura non sapea, anzi ripugnava, e divengono quasi virtuosi e prudenti quanto la loro
conditione sostiene, non per natura, ma per costume, quanto si dèe credere che noi
diverremmo migliori per gli ammaestramenti della nostra ragione medesima, se noi le
dessimo orecchie? [272] Ma i sensi amano et appetiscono il diletto presente, quale egli si sia, e
la noia hanno in odio et indugianla, e perciò schifano anco la ragione e par loro amara, con
ciò sia che ella apparecchi loro innanzi non il piacere, molte volte nocivo, ma il bene, sempre
faticoso e di amaro sapore al gusto ancora corrotto; perciò che mentre noi viviamo secondo
il senso, sì siamo noi simili al poverello infermo, cui ogni cibo, quantunque dilicato e soave,
pare agro o salso, e duolsi della servente o del cuoco che niuna colpa hanno di ciò, imperò
che egli sente pure la sua propria amaritudine in che egli ha la lingua rinvolta, con la quale si
gusta, e non quella del cibo: così la ragione, che per sé è dolce, pare amara a noi per lo nostro
sapore, e non per quello di lei. [273] E perciò, sì come teneri e vezzosi, rifiutiamo di assaggiarla
e ricopriamo la nostra viltà col dire che la natura non ha sprone o freno che la possa né
spingere né ritenere: e certo, se i buoi o gli asini o forse i porci favellassero, io credo che non
potrebbon proferire gran fatto più sconcia, né più sconvenevole, sentenza di questa. [274] Noi
ci saremmo pur fanciulli e negli anni maturi e nella ultima vecchiezza, e così vaneggeremmo
canuti come noi facciamo bambini, se non fosse la ragione, che insieme con l’età cresce in
noi, e, cresciuta, ne rende quasi di bestie uomini, sì che ella ha pure sopra i sensi e sopra
l’appetito forza e potere, et è nostra cattività e non suo difetto, se noi trascendiamo nella vita
e ne’ costumi. [275] Non è adunque vero che incontro alla natura non abbia freno né maestro:
anzi ve ne ha due, ché l’uno è il costume e l’altro è la ragione, ma, come io ti ho detto poco
di sopra, ella non può di scostumato far costumato sanza l’usanza, la quale è quasi parto e
portato del tempo. [276] Per la qual cosa si vuole tosto incominciare ad ascoltarla, non
solamente perché così ha l’uomo più lungo spatio di avezzarsi ad essere quale ella insegna, et
a divenire suo domestico et ad esser de’ suoi, ma ancora però che la tenera età, sì come pura,
più agevolmente si tigne d’ogni colore, et anco perché quelle cose alle quali altri si avezza
prima sogliono sempre piacer più. [277] E per questa cagione si dice che Diodato, sommo
maestro di proferir le comedie, volle essere tuttavia il primo a proferire egli la sua, come che
degli altri che dovessero dire innanzi a lui non fosse da far molta stima; ma non volea che la
voce sua trovasse le orecchie altrui avezze ad altro suono, quantunque verso di sé peggior del
31
suo. [278] Poiché io non posso accordare l’opera con le parole, per quelle cagioni che io ti ho
dette, come il maestro Chiarissimo fece, il quale seppe così fare come insegnare, assai mi fia
l’aver detto in qualche parte quello che si dèe fare, poiché in nessuna parte non vaglio a farlo
io; ma, perciò che in vedendo il buio si conosce quale è la luce et in udendo il silentio sì si
impara che sia il suono, sì potrai tu, mirando le mie poco aggradevoli e quasi oscure maniere,
scorgere quale sia la luce de’ piacevoli e laudevoli costumi. [279] Al trattamento de’ quali, che
tosto oggimai arà suo fine, ritornando, diciamo che i modi piacevoli sono quelli che porgon
diletto, o almeno non recano noia ad alcuno de’ sentimenti, né all’appetito, né all’imagination
di coloro co’ quali noi usiamo: e di questi abbiamo noi favellato fin ad ora.
XXVI [280] Ma tu dèi oltre a ciò sapere che gli uomini sono molto vaghi della bellezza e della
misura e della convenevolezza, e, per lo contrario, delle sozze cose e contrafatte e difformi
sono schifi: e questo è spetial nostro privilegio, ché gli altri animali non sanno conoscere che
sia né bellezza né misura alcuna; e perciò, come cose non comuni con le bestie, ma proprie
nostre, debbiam noi apprezzarle per sé medesime et averle care assai, e coloro viepiù che
maggior sentimento hanno d’uomo, sì come quelli che più acconci sono a conoscerle. [281] E
come che malagevolmente isprimere appunto si possa che cosa bellezza sia, non di meno,
acciò che tu pure abbi qualche contrasegno dell’esser di lei, voglio che sappi che, dove ha
convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e ’l tutto, quivi è la bellezza: e quella
cosa veramente «bella» si può chiamare, in cui la detta misura si truova. [282] E per quello che
io altre volte ne intesi da un dotto e scientiato uomo, vuole essere la bellezza uno quanto si
può il più e la bruttezza per lo contrario è molti, sì come tu vedi che sono i visi delle belle e
delle leggiadre giovani, perciò che le fattezze di ciascuna di loro paion create pure per uno
stesso viso; il che nelle brutte non adiviene, perciò che, avendo elle gli occhi per aventura
molto grossi e rilevati, e ’l naso picciolo e le guance paffute, e la bocca piatta e ’l mento in
fuori, e la pelle bruna, pare che quel viso non sia di una sola donna, ma sia composto d’i visi
di molte e fatto di pezzi. [283] E trovasene di quelle, i membri delle quali sono bellissimi a
riguardare ciascuno per sé, ma tutti insieme sono spiacevoli e sozzi, non per altro, se non che
sono fattezze di più belle donne e non di questa una, sì che pare che ella le abbia prese in
prestanza da questa e da quell’altra: e per aventura che quel dipintore che ebbe ignude
dinanzi a sé le fanciulle calabresi, niuna altra cosa fece che riconoscere in molte i membri che
elle aveano quasi accattato chi uno e chi un altro da una sola; alla quale fatto restituire da
ciascuna il suo, lei si pose a ritrarre, imaginando che tale e così unita dovesse essere la
bellezza di Venere. [284] Né voglio io che tu ti pensi che ciò avenga de’ visi e delle membra o
de’ corpi solamente, anzi interviene e nel favellare e nell’operare né più né meno, ché, se tu
vedessi una nobile donna et ornata posta a lavar suoi stovigli nel rignagnolo della via publica,
come che per altro non ti calesse di lei, sì ti dispiacerebbe ella in ciò, che ella non si
mostrerebbe pure «una», ma «più», perciò che lo esser suo sarebbe di monda e di nobile
donna e l’operare sarebbe di vile e di lorda femina; né perciò ti verrebbe di lei né odore né
sapore aspero, né suono né colore alcuno spiacevole, né altramente farebbe noia al tuo
appetito, ma dispiacerebbeti per sé quello sconcio e sconvenevol modo e diviso atto.
XXVII [285] Convienti adunque guardare etiandio da queste disordinate e sconvenevoli
maniere con pari studio, anzi con maggiore che da quelle delle quali io t’ho fin qui detto,
perciò che egli è più malagevole a conoscer quando altri erra in queste che quando si erra in
quelle, con ciò sia che più agevole si veggia essere il sentire che lo ’ntendere. [286] Ma, non di
32
meno, può bene spesso avenire che quello che spiace a’ sensi spiaccia etiandio allo ’ntelletto,
ma non per la medesima cagione, come io ti dissi sopra, mostrandoti che l’uomo si dèe
vestire all’usanza che si vestono gli altri, acciò che non mostri di riprendergli e di correggerli;
la qual cosa è di noia allo appetito della più gente, che ama di esser lodata, ma ella dispiace
etiandio al giudicio degli uomini intendenti, perciò che i panni che sono d’un altro millesimo
non s’accordano con la persona che è pur di questo; e similmente sono spiacevoli coloro che
si vestono al rigattiere: ché mostra che il farsetto si voglia azzuffar co’ calzari, sì male gli
stanno i panni indosso. [287] Sì che molte di quelle cose che si sono dette di sopra, o per
aventura tutte, dirittamente si possono qui replicare, con ciò sia cosa che in quelle non si sia
questa misura servata, della quale noi al presente favelliamo, né recato in uno et accordato
insieme il tempo e ’l luogo e l’opera e la persona, come si convenia di fare, perciò che la
mente degli uomini lo aggradisce e prendene piacere e diletto: ma holle volute più tosto
accozzare e divisare sotto quella quasi insegna de’ sensi e dello appetito che assegnarle allo
’ntelletto, acciò che ciascuno le possa riconoscere più agevolmente, con ciò sia che il sentire
e l’appetire sia cosa agevole a fare a ciascuno, ma intendere non possa così generalmente
ogniuno, e maggiormente questo che noi chiamiamo bellezza e leggiadria o avenentezza.
XXVIII [288] Non si dèe adunque l’uomo contentare di fare le cose buone, ma dèe studiare di
farle anco leggiadre: e non è altro leggiadria che una cotale quasi luce che risplende dalla
convenevolezza delle cose che sono ben composte e ben divisate l’una con l’altra e tutte
insieme, sanza la qual misura etiandio il bene non è bello e la bellezza non è piacevole. [289] E
sì come le vivande, quantunque sane e salutifere, non piacerebbono agl’invitati se elle o niun
sapore avessero o lo avessero cattivo, così sono alcuna volta i costumi delle persone, come
che per se stessi in niuna cosa nocivi, non di meno sciocchi et amari, se altri non gli condisce
di una cotale dolcezza, la quale si chiama (sì come io credo) gratia e leggiadria. [290] Per la qual
cosa ciascun vitio per sé, sanza altra cagione, convien che dispiaccia altrui, con ciò sia che i
vitii siano cose sconcie e sconvenevoli sì, che gli animi temperati e composti sentono della
loro sconvenevolezza dispiacere e noia. [291] Per che innanzi ad ogni altra cosa conviene a chi
ama di esser piacevole in conversando con la gente il fuggire i vitii e più i più sozzi, come
lussuria, avaritia, crudeltà e gli altri, de’ quali alcuni sono vili (come lo essere goloso e lo
inebriarsi), alcuni laidi (come lo essere lussurioso), alcuni scelerati (come lo essere micidiale):
e similmente gli altri, ciascuno in se stesso e per la sua proprietà è schifato dalle persone, chi
più e chi meno, ma, tutti generalmente, sì come disordinate cose, rendono l’uomo nell’usar
con gli altri spiacevole, come io ti mostrai anco di sopra. [292] Ma perché io non presi a
mostrarti i peccati, ma gli errori, degli uomini, non dèe esser mia presente cura il trattar della
natura de’ vitii e delle virtù, ma solamente degli acconci e degli sconci modi che noi l’uno
con l’altro usiamo: uno de’ quali sconci modi fu quello del Conte Ricciardo (del quale io t’ho
di sopra narrato), che, come difforme e male accordato con gli altri costumi di lui belli e
misurati, quel valoroso Vescovo, come buono et ammaestrato cantore suole le false voci,
tantosto ebbe sentito. [293] Conviensi adunque alle costumate persone aver risguardo a questa
misura che io ti ho detto, nello andare, nello stare, nel sedere, negli atti, nel portamento e nel
vestire e nelle parole e nel silentio e nel posare e nell’operare. Per che non si dèe l’uomo
ornare a guisa di femina, acciò che l’ornamento non sia uno e la persona un altro, come io
veggo fare ad alcuni che hanno i capelli e la barba inanellata col ferro caldo, e ’l viso e la gola
e le mani cotanto strebbiate e cotanto stropicciate che si disdirebbe ad ogni feminetta, anzi
ad ogni meretrice, quale ha più fretta di spacciare la sua mercatantia e di venderla a prezzo.
33
[294] Non si vuole né putire né olire, acciò che il gentile non renda odore di poltroniero, né
del maschio venga odore di femina o di meretrice; né perciò stimo io che alla tua età si
disdichino alcuni odoruzzi semplici di acque stillate. I tuoi panni convien che siano secondo
il costume degli altri del tuo tempo o di tua conditione, per le cagioni che io ho dette di
sopra; ché noi non abbiamo potere di mutar le usanze a nostro senno, ma il tempo le crea, e
consumale altresì il tempo. [295] Puossi bene ciascuno appropriare l’usanza comune; ché se tu
arai per aventura le gambe molto lunghe e le robe si usino corte, potrai far la tua roba non
delle più, ma delle meno, corte, e se alcuno le avesse o troppo sottili o grosse fuor di modo,
o forse torte, non dèe farsi le calze di colori molto accesi, né molto vaghi, per non invitare
altrui a mirare il suo difetto. [296] Niuna tua vesta vuole essere molto molto leggiadra, né
molto molto fregiata, acciò che non si dica che tu porti le calze di Ganimede o che tu ti sii
messo il farsetto di Cupido, ma, quale ella si sia, vuole essere assettata alla persona e starti
bene, acciò che non paia che tu abbi indosso i panni d’un altro, e sopra tutto confarsi alla tua
conditione, acciò che il cherico non sia vestito da soldato e il soldato da giocolare. [297]
Essendo Castruccio in Roma con Lodovico il Bavero in molta gloria e trionfo, Duca di
Lucca e di Pistoia e Conte di Palazzo e Senator di Roma e Signore e Maestro della corte del
detto Bavero, per leggiadria e grandigia si fece una roba di sciamito cremesì, e dinanzi al
petto un motto a lettere d’oro: «EGLI È COME DIO VUOLE», e nelle spalle di drieto simili
lettere che diceano: «E’ SARÀ COME DIO VORRÀ»: questa roba credo io che tu stesso conoschi
che si sarebbe più confatta al trombetto di Castruccio che ella non si confece a lui. E
quantunque i re siano sciolti da ogni legge, non saprei io tuttavia lodare il re Manfredi in ciò,
che egli sempre si vestì di drappi verdi. [298] Debbiamo adunque procacciare che la vesta bene
stia non solo al dosso, ma ancora al grado, di chi la porta, et oltre a ciò, che ella si convenga
etiandio alla contrada ove noi dimoriamo, con ciò sia cosa che sì come in altri paesi sono
altre misure, e non di meno il vendere et il comperare et il mercatantare ha luogo in ciascuna
terra, così sono in diverse contrade diverse usanze, e pure in ogni paese può l’uomo usare e
ripararsi acconciamente. [299] Le penne che i Napoletani e gli Spagniuoli usano di portare in
capo e le pompe e i ricami male hanno luogo tra le robe degli uomini gravi e tra gli abiti
cittadini, e molto meno le armi e le maglie; sì che quello che in Verona per aventura
converrebbe, si disdirà in Vinegia, perciò che questi così fregiati e così impennati et armati
non istanno bene in quella veneranda città pacifica e moderata, anzi paiono quasi ortica o
lappole fra le erbe dolci e domestiche degli orti; e perciò sono poco ricevuti nelle nobili
brigate, sì come difformi da loro. [300] Non dèe l’uomo nobile correre per via, né troppo
affrettarsi, ché ciò conviene a palafreniere e non a gentiluomo, sanza che l’uomo s’affanna e
suda et ansa, le quali cose sono disdicevoli a così fatte persone. Né perciò si dèe andare sì
lento né sì contegnoso come femina o come sposa, et in caminando troppo dimenarsi
disconviene. Né le mani si vogliono tenere spenzolate, né scagliare le braccia, né gittarle, sì
che paia che l’uom semini le biade nel campo, né affissare gli occhi altrui nel viso, come se
egli vi avesse alcuna maraviglia. [301] Sono alcuni che in andando levano il piè tanto alto come
cavallo che abbia lo spavento, e pare che tirino le gambe fuori d’uno staio; altri percuote il
piede in terra sì forte che poco maggiore è il romore delle carra; tale gitta l’uno de’ piedi in
fuori, e tale brandisce la gamba; chi si china ad ogni passo a tirar su le calze, e chi scuote le
groppe e pavoneggiasi: le quai cose spiacciono non come molto, ma come poco avenenti.
[302] Ché, se il tuo palafreno porta per aventura la bocca aperta o mostra la lingua, come che
ciò alla bontà di lui non rilievi nulla, al prezzo si monterebbe assai e troverestine molto
meno, non perché egli fosse per ciò men forte, ma perché egli men leggiadro ne sarebbe. [303]
34
E se la leggiadria s’apprezza negli animali et anco nelle cose che anima non hanno né
sentimento, come noi veggiamo che due case ugualmente buone et agiate non hanno perciò
uguale prezzo se l’una averà convenevoli misure e l’altra le abbia sconvenevoli, quanto si dèe
ella maggiormente procacciare et apprezzar negli uomini?
XXIX [304] Non istà bene grattarsi sedendo a tavola, e vuolsi in quel tempo guardar l’uomo
più che e’ può di sputare e, se pure si fa, facciasi per acconcio modo. Io ho più volte udito
che si sono trovate delle nationi così sobrie che non isputavano già mai: ben possiamo noi
tenercene per brieve spatio! [305] Debbiamo etiandio guardarci di prendere il cibo sì
ingordamente che perciò si generi singhiozzo o altro spiacevole atto, come fa chi s’affretta sì,
che convenga che egli ansi e soffi con noia di tutta la brigata. [306] Non istà medesimamente
bene a fregarsi i denti con la tovagliuola e meno col dito, che sono atti difformi; né
risciacquarsi la bocca e sputare il vino sta bene in palese; né in levandosi da tavola portar lo
stecco in bocca a guisa d’uccello che faccia suo nido, o sopra l’orecchia come barbieri, è
gentil costume. [307] E chi porta legato al collo lo stuzzicadenti erra sanza fallo, ché, oltra che
quello è uno strano arnese a veder trar di seno ad un gentiluomo e ci fa sovenire di questi
cavadenti che noi veggiamo salir su per le panche, egli mostra anco che altri sia molto
apparecchiato e provveduto per li servigi della gola; e non so io ben dire perché questi cotali
non portino altresì il cucchiaio legato al collo! [308] Non si conviene anco lo abbandonarsi
sopra la mensa, né lo empiersi di vivanda amendue i lati della bocca sì che le guance ne
gonfino; e non si vuol fare atto alcuno per lo quale altri mostri che gli sia grandemente
piaciuta la vivanda o ’l vino, che sono costumi da tavernieri e da Cinciglioni. [309] Invitar
coloro che sono a tavola e dire: – Voi non mangiate stamane? – o – Voi non avete cosa che
vi piaccia? – o – Assaggiate di questo, o di quest’altro – non mi pare laudevol costume, tutto
che il più delle persone lo abbia per famigliare e per domestico, perché, quantunque ciò
facendo mostrino che loro caglia di colui cui essi invitano, sono etiandio molte volte cagione
che quegli desini con poca libertà, perciò che gli pare che gli sia posto mente e vergognasi.
[310] Il presentare alcuna cosa del piattello che si ha dinanzi non credo che stia bene, se non
fosse molto maggior di grado colui che presenta, sì che il presentato ne riceva onore, perciò
che tra gli uguali di conditione pare che colui che dona si faccia in un certo modo maggior
dell’altro e talora quello che altri dona non piace a colui a chi è donato, sanza che mostra che
il convito non sia abondevole d’intromessi o non sia ben divisato, quando all’uno avanza et
all’altro manca; e potrebbe il signor della casa prenderlosi ad onta; non di meno in ciò si dèe
fare come si fa e non come è bene di fare, e vuolsi più tosto errare con gli altri in questi sì
fatti costumi che far bene solo. Ma, che che in ciò si convenga, non dèi tu rifiutar quello che
ti è porto, ché pare che tu sprezzi e tu riprenda colui che ’l ti porge. [311] Lo invitare a bere (la
qual usanza, sì come non nostra, noi nominiamo con vocabolo forestiero, cioè «far brindisi»)
è verso di sé biasimevole e nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso, sì che egli non
si dèe fare; e, se altri invitarà te, potrai agevolmente non accettar lo ’nvito e dire che tu ti
arrendi per vinto, ringratiandolo, o pure assaggiando il vino per cortesia, sanza altramente
bere. [312] E quantunque questo «brindisi», secondo che io ho sentito affermare a più letterati
uomini, sia antica usanza stata nelle parti di Grecia, e come che essi lodino molto un buon
uomo di quel tempo che ebbe nome Socrate, per ciò che egli durò a bere tutta una notte
quanto la fu lunga a gara con un altro buono uomo che si faceva chiamare Aristofane, e la
mattina vegnente in su l’alba fece una sottil misura per geometria, che nulla errò, sì che ben
mostrava che ’l vino non gli avea fatto noia; [313] e tutto che affermino oltre a ciò che, così
35
come lo arrischiarsi spesse volte ne’ pericoli della morte fa l’uomo franco e sicuro, così lo
avezzarsi a’ pericoli della scostumatezza rende altrui temperato e costumato, e, perciò che il
bere del vino a quel modo, per gara, abondevolmente e soverchio è gran battaglia alle forze
del bevitore, vogliono che ciò si faccia per una cotal pruova della nostra fermezza e per
avezzarci a resistere alle forti tentationi e a vincerle: ciò non ostante a me pare il contrario et
istimo che le loro ragioni sieno assai frivole. [314] E troviamo che gli uomini letterati per
pompa di loro parlare fanno bene spesso che il torto vince e che la ragion perde, sì che non
diamo loro fede in questo: et anco potrebbe essere che eglino in ciò volessino scusare e
ricoprire il peccato della loro terra corrotta di questo vitio, con ciò sia che il riprenderla parea
forse pericoloso e temeano non per aventura avenisse loro quello che era avenuto al
medesimo Socrate per lo suo soverchio andare biasimando ciascuno. [315] Perciò che per
invidia gli furono apposti molti articoli di eresia et altri villani peccati, onde fu condannato
nella persona, come che falsamente, ché di vero fu buono e catolico secondo la loro falsa
idolatria; ma certo perché egli beesse cotanto vino quella notte nessuna lode meritò, perciò
che più ne arebbe bevuto o tenuto un tino! E se niuna noia non gli fece, ciò fu più tosto
virtù di robusto cielabro, che continenza di costumato uomo. [316] E che che si dichino le
antiche croniche sopra ciò, io ringratio Dio che, con molte altre pestilenze che ci sono
venute d’oltra monti, non è fino a qui pervenuta a noi questa pessima, di prender non
solamente in giuoco, ma etiandio in pregio lo inebriarsi. Né crederò io mai che la temperanza
si debba apprendere da sì fatto maestro quale è il vino e l’ebrezza. [317] Il siniscalco da sé non
dèe invitare i forestieri, né ritenergli a mangiar col suo signore, e niuno aveduto uomo sarà
che si ponga a tavola per suo invito: ma sono alle volte i famigliari sì prosontuosi che quello
che tocca al padrone vogliono fare pure essi. (Le quali cose sono dette da noi in questo luogo
più per incidenza che perché l’ordine che noi pigliammo da principio lo richiegga).
XXX [318] Non si dèe alcuno spogliare, e spetialmente scalzare, in publico, cioè là dove
onesta brigata sia, ché non si confà quello atto con quel luogo, e potrebbe anco avenire che
quelle parti del corpo che si ricuoprono si scoprissero con vergogna di lui e di chi le vedesse.
[319] Né pettinarsi né lavarsi le mani si vuole tra le persone, ché sono cose da fare nella
camera e non in palese, salvo (io dico del lavar le mani) quando si vuole ire a tavola, perciò
che allora si convien lavarsele in palese, quantunque tu niun bisogno ne avessi, affinché chi
intigne teco nel medesimo piattello il sappia certo. Non si vuol medesimamente comparir
con la cuffia della notte in capo, né allacciarsi anco le calze in presenza della gente. [320] Sono
alcuni che hanno per vezzo di torcer tratto tratto la bocca o gli occhi o di gonfiar le gote e di
soffiare o di fare col viso simili diversi atti sconci; costoro conviene del tutto che se ne
rimanghino, perciò che la dea Pallade –secondamente che già mi fu detto da certi letterati –
si dilettò un tempo di sonare la cornamusa, et era di ciò solenne maestra. [321] Avenne che,
sonando ella un giorno a suo diletto sopra una fonte, si specchiò nell’acqua e, avedutasi de’
nuovi atti che sonando le conveniva fare col viso, se ne vergognò e gittò via quella
cornamusa; e nel vero fece bene, perciò che non è stormento da femine, anzi disconviene
parimente a’ maschi, se non fossero cotali uomini di vile conditione che ’l fanno a prezzo e
per arte. [322] E quello che io dico degli sconci atti del viso, ha similmente luogo in tutte le
membra, ché non istà bene né mostrar la lingua, né troppo stuzzicarsi la barba, come molti
hanno per usanza di fare, né stropicciar le mani l’una con l’altra, né gittar sospiri e metter
guai, né tremare o riscuotersi (il che medesimamente sogliono fare alcuni), né prostendersi e
prostendendosi gridare per dolcezza: – Oimé, oimé! – come villano che si desti al pagliaio.
36
[323] E chi fa strepito con la bocca per segno di maraviglia e talora di disprezzo, si contrafà
cosa laida, sì come tu puoi vedere; e le cose contrafatte non sono troppo lungi dalle vere. [324]
Non si voglion fare cotali risa sciocche, né anco grasse o difformi, né rider per usanza e non
per bisogno, né de’ tuoi medesimi motti voglio che tu ti rida, che è un lodarti da te stesso:
egli tocca di ridere a chi ode e non a chi dice!. [325] Né voglio io che tu ti facci a credere che,
perciò che ciascuna di queste cose è un picciolo errore, tutte insieme siano un picciolo
errore, anzi se n’è fatto e composto di molti piccioli un grande, come io dissi da principio; e
quanto minori sono, tanto più è di mestiero che altri v’affisi l’occhio, perciò che essi non si
scorgono agevolmente, ma sottentrano nell’usanza che altri non se ne avede. E come le
spese minute per lo continuare occultamente consumano lo avere, così questi leggieri peccati
di nascosto guastano col numero e con la moltitudine loro la bella e buona creanza: per che
non è da farsene beffe. [326] Vuolsi anco por mente come l’uom muove il corpo,
massimamente in favellando, perciò che egli aviene assai spesso che altri è sì attento a quello
che egli ragiona che poco gli cale d’altro; e chi dimena il capo e chi straluna gli occhi e l’un
ciglio lieva a mezzo la fronte e l’altro china fino al mento, e tale torce la bocca, et alcuni altri
sputano addosso e nel viso a coloro co’ quali ragionano; trovansi anco di quelli che
muovono sì fattamente le mani come se essi ti volessero cacciar le mosche: che sono
difformi maniere e spiacevoli. [327] Et io udii già raccontare (ché molto ho usato con persone
scientiate, come tu sai) che un valente uomo, il quale fu nominato Pindaro, soleva dire che
tutto quello che ha in sé soave sapore et acconcio fu condito per mano della Leggiadria e
della Avenentezza. [328] Ora, che debbo io dire di quelli che escono dello scrittoio fra la gente
con la penna nell’orecchio? E di chi porta il fazzoletto in bocca? O di chi l’una delle gambe
mette in su la tavola? E di chi si sputa in su le dita? E di altre innumerabili sciocchezze? le
quali né si potrebbon tutte raccorre, né io intendo di mettermi alla pruova: anzi, saranno per
aventura molti che diranno queste medesime che io ho dette essere soverchie.

No comments:

Post a Comment