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Thursday, July 7, 2011

La questione della lingua: Aligheri, ...

Luigi Speranza

Nel Cinquecento la produzione letteraria, pur continuando a presentare un carattere bilingue, mostra una prevalenza del volgare sul latino.

Accertata la validità letteraria del volgare, il dibattito teorico si sposta dunque verso l'individuazione del tipo di volgare adatto alla scrittura e alla comunicazione colta.

Tre sono le principali tesi discusse lungo l'intero secolo: la predominante tesi classicista, propugnata da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525).

La tesi "cortigiana',' promossa con alcune sfumature da diversi esponenti

Calmeta
Castiglione
Trissino

-- e quella cosiddetta del "fiorentino parlato" sostenuta principalmente da

Niccolò Machiavelli
Discorso intorno alla nostra lingua, 1524) e diffusa in ambito toscano.

Nelle "Prose", Bembo proponeva un canone letterario limitato a Petrarca per la poesia e a Boccaccio per la prosa.

Dalle opere dei due grandi autori trecenteschi Bembo enucleava dettagliati precetti linguistici, oltre che stilistici, modello assoluto e inderogabile per chi voleva produrre testi letterari.

Aligheri risultava escluso da questa operazione perché plurilinguismo e pluristilismo rendevano la sua opera un esempio irriducibile alle precise indicazioni prescrittive enunciate dal cardinale.

Bembo propone dunque un modello esclusivamente letterario, fortemente elitario e svincolato dalla realtà del parlato.

La contrapposizione tra uso comunicativo e uso letterario è infatti netta.

La «favella» (semplice strumento pratico di comunicazione) è distinta dalla «lingua», tratta dall'opera dei grandi autori tecenteschi e adatta a perpetuare la scrittura letteraria.

Se da una parte un canone cosí precisamente e indiscutibilmente delineato risulta astratto e rigido, dall'altra la proposta bembiana presenta caratteri di universalità che la rendono facilmente attuabile.

Propugnata da illustri sostenitori tra cui

Sperone Speroni (
"Dialogo della lingua" (1542) e

Ludovico Castelvetro
"Giunte alle Prose"
(1549)

risultò infatti la soluzione trionfante.

La maggior diffusione fu certo favorita anche dall'adozione nelle stamperie delle proposte normative bembiane.

Bembo stesso fu collaboratore del tipografo veneziano Aldo Manuzio.

La tesi "cortigiana" invece si ispirava al De vulgari eloquentia dantesco e proponeva un modello linguistico ibrido, costituito dalla mescidazione di diversi volgari italici parlati nel nobile ed elegante ambiente delle corti.

Pur aspirando a proporre un modello sovraregionale e cosmopolita che fosse adatto tanto all'espressione letteraria quanto alla vita di corte, tale proposta presentava però il limite di risultare eccessivamente astratta.

Ad ogni modo, tra i principali sostenitori di questa tesi vi fu

Vincenzo Colli detto il Calmeta (1460-1508),

il quale scrisse un trattato

"Della volgar poesia",

che andò perduto e di cui possediamo contraddittorie notizie da Bembo e Castelvetro.

Secondo quanto riferisce il Bembo, Calmeta proponeva di prendere a modello la corte pontificia, dove la lingua in uso nasceva dalla mescolanza dei diversi idiomi parlati dalle persone, provenienti da tutta la penisola, che vi dimoravano.

Secondo Castelvetro invece si sarebbe dovuto prendere a modello il fiorentino trecentesco, innovato in base all'uso della corte romana.

Altra figura rappresentativa della tesi eclettica fu

Baldassarre Castiglione che in

Il Cortigiano (1528)

proponeva un'idea di lingua libera da eccessivi condizionamenti letterari trecenteschi.

Tale idioma doveva essere stabilito dall'uso e temperato dal «bon giudicio» degli «uomini che hanno ingegno» in modo da essere adatto a soddisfare le esigenze comunicative del ceto aristocratico.

Piú un ideale, dunque, che un modello concreto.

Infine

Gian Giorgio Trissino,

volgarizzatore del

De Vulgari eloquentia, nel dialogo

II Castellano (1529)

propugnò l'idea di una «lingua italiana», frutto della mescolanza delle parti migliori dei diversi volgari contemperati dalla «pronunzia cortigiana».

Fautori di questa posizione

Pierio Valeriano
"Dialogo sopra le lingue volgari"
(1516)

e

Girolamo Muzio
"Battaglie per la difesa dell'italica lingua"
(1582).

Alla tesi cortigiana si oppose Bembo poiché riteneva tale modello né duraturo né universale e soprattutto lo considerava privo di una produzione letteraria in grado di ergersi a modello effettivamente perseguibile.

Una tesi ancora diversa fu quella del "fiorentin parlato' difesa da Niccolò Machiavelli.

Egli sostenne l'egemonia del fiorentino, dicendola fondata su una tradizione letteraria superiore a quella di ogni altro volgare.

«Non c'è lingua che si possa chiamare o comune d'Italia o curiale, perché tutte quelle che si potessino chiamare cosí, hanno il fondamento loro dagli scrittori fiorentini e dalla lingua fiorentina; alla quale in ogni difetto, come a vero fonte e fondamento loro, è necessario che ricorrino».

La lingua fiorentina è dunque l'unica in grado di conservare e proseguire, in qualità di erede naturale, la contesa tradizione trecentesca.

Ciò è dimostrato dagli esperimenti letterari quattrocenteschi prodotti nella Firenze medicea, da Bembo ritenuti viceversa espressione di involuzione e decadenza.

Contrapponendosi all'astrattezza della «lingua italiana» del Trissino, Machiavelli sostiene che il fiorentino ha dimostrato di essere l'unica lingua in grado di inglobare i forestierismi, dando origine ad una efficace mescidanza.

E a Bembo, che considera il fiorentino alla stregua di una lingua morta, Machiavelli oppone la vitalità dell'idioma, in grado di acquisire e rielaborare apporti dall'uso orale, anche popolare.

Nonostante i contorni fortemente municipali, la proposta di Machiavelli ebbe comunque diversi sostenitori in area toscana -- tra gli altri

Lodovico Martelli,
Claudio Tolomei,
Pier Francesco Giambullari,
Giovan Battista Gelli,
Carlo Lenzoni).

Bembo: Petrarca e Boccaccio modelli di lingua volgare

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