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Thursday, July 7, 2011

La questione della lingua

Luigi Speranza

Bembo: Petrarca e Boccaccio modelli di lingua volgare.

Nella forma dialogica delle "Prose della volgar lingua" Pietro Bembo dà voce alle diverse opinioni riguardo a quale forma debba considerarsi modello per la lingua letteraria italiana.

Nella prima parte del testo qui riportato (I, XIX) si replica alle obiezioni di chi – in questo caso Giuliano de’ Medici, uno degli “attori” fittizi del dialogo – giudica il modello linguistico e stilistico di Petrarca e Boccaccio come un esempio di lingua ormai passata e viva solo nella tradizione.

Carlo Bembo, nell’opera portavoce delle idee del fratello Pietro, ribadisce invece l’importanza paradigmatica dei grandi scrittori trecenteschi, assimilandola al valore letterario che svolsero autori come Virgilio e Cicerone nell’ambito delle lettere classiche.

Nella seconda parte (II, II) si legge invece il catalogo degli autori in volgare del Due e del Trecento, culminato, secondo l’opinione di Bembo, nell’opera di Petrarca e Boccaccio, esempi di purezza stilistica da imitare rispettivamente per la poesia e per la prosa.

Ora mi potreste dire: cotesto tuo scriver bene onde si ritra' egli, e da cui si cerca?

Hass'egli sempre ad imprendere dagli scrittori antichi e passati?

Non piaccia a Dio sempre, Giuliano, ma sí bene ogni volta che migliore e piú lodato è il parlare nelle scritture de' passati uomini, che quello che è o in bocca o nelle scritture de' vivi.

Non dovea Cicerone o Virgilio, lasciando il parlare della loro età, ragionare con quello d'Ennio o di quegli altri, che furono piú antichi ancora di lui, perciò che essi avrebbono oro purissimo, che delle preziose vene del loro fertile e fiorito secolo si traeva, col piombo della rozza età di coloro cangiato.

Sí come diceste che non doveano il Petrarca e il Boccaccio col parlare di Aligheri, e molto meno con quello di Guido Guinicelli e di Farinata e dei nati a quegli anni ragionare.

Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello del nostro tempo.

Perché molto meglio e piú lodevolmente avrebbono e prosato e verseggiato, e Seneca e Tranquillo e Lucano e Claudiano e tutti quegli scrittori, che dopo 'l secolo di Giulio Cesare e d'Augusto e dopo quella monda e felice età stati sono infino a noi, se essi nella guisa di que' loro antichi, di Virgilio dico e di Cicerone, scritto avessero, che non hanno fatto scrivendo nella loro.

E molto meglio faremo noi altresí, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi.

Né fie per questo che dire si possa, che noi ragioniamo e scriviamo a' morti piú che a' vivi.

A' morti scrivono coloro, le scritture de' quali non sono da persona lette giamai, o se pure alcuno le legge, sono que' tali uomini di volgo, che non hanno giudicio e cosí le malvagie cose leggono come le buone, perché essi morti si possono alle scritture dirittamente chiamare, e quelle scritture altresí, le quali in ogni modo muoiono con le prime carte.

La latina lingua, sí come si disse pur dianzi, era agli antichi natía, e in quel grado medesimo che è ora la volgare a noi, che cosí l'apprendevano essi tutti e cosí la usavano, come noi apprendiamo questa e usiamo, né piú né meno.

Non perciò ne viene, che quale ora latinamente scrive, a' morti si debba dire che egli scriva piú che a' vivi, perciò che gli uomini, de' quali ella era lingua, ora non vivono, anzi sono già molti secoli stati per lo adietro.

Ma io sono forse troppo ardito, Giuliano, che di queste cose con voi cosí affermatamente ragiono e quasi come legittimo giudice voglio speditamente darne sentenza. Egli si potrà poscia, quando a voi piacerà, altra volta meglio vedere, se quello che io dico è vero.

E messer Federigo alcuna cosa vi ci recherà ancora egli.

Io per me niuna cosa saprei recare sopra quelle che si son dette, – disse a questo messer Federigo – forse perciò che aggiugnere non si può sopra 'l vero.

Ma io m'aveggo che il dí è basso.

Se Giuliano piú oltra non fa pensiero di dire egli, sarà per aventura ben fatto che noi pensiamo di dipartirci. – Né io altresí voglio dire piú oltra, – rispose il Magnifico – poscia che, o la nuova fiorentina lingua o l'antica che si lodi maggiormente, l'onore in ogni modo ne va alla patria mia.

Il dipartire adunque, messer Federigo, sia quando a voi piace, se messer Ercole nondimeno s'è de' suoi dubbi risoluto a bastanza –.

[….] È ora, monsignor messer Giulio, e a questi ultimi secoli successa alla latina lingua la volgare; et è successa cosí felicemente, che già in essa, non pur molti, ma ancora eccellenti scrittori si leggono, e nel verso e nella prosa. Perciò che da quel secolo, che sopra Dante infino ad esso fu, cominciando, molti rimatori incontanente sursero, non solamente della vostra città e di tutta Toscana, ma eziandio altronde; sí come furono messer Piero dalle Vigne, Buonagiunta da Lucca, Guitton d'Arezzo, messer Rinaldo d'Acquino, Lapo Gianni, Francesco Ismera, Forese Donati, Gianni Alfani, Ser Brunetto, Notaio Jacomo da Lentino, Mazzeo e Guido Giudice messinesi, il re Enzo, lo 'mperador Federigo, messer Onesto e messer Semprebene da Bologna, messer Guido Guinicelli bolognese anch'egli, molto da Dante lodato, Lupo degli Uberti, che assai dolce dicitor fu per quella età senza fallo alcuno, Guido Orlandi, Guido Cavalcanti, de' quali tutti si leggono ora componimenti; e Guido Ghisilieri e Fabrizio bolognesi e Gallo pisano e Gotto mantovano, che ebbe Dante ascoltatore delle sue canzoni, e Nino sanese e degli altri, de' quali non cosí ora componimenti, che io sappia, si leggono.

Venne appresso a questi e in parte con questi, Dante, grande e magnifico poeta, il quale di grandissimo spazio tutti adietro gli si lasciò.

Vennero appresso a Aligheri, anzi pure con esso lui, ma allui sopravissero, messer Cino, vago e gentil poeta e sopra tutto amoroso e dolce, ma nel vero di molto minore spirito, e Dino Frescobaldi, poeta a quel tempo assai famoso ancora egli, e Iacopo Alaghieri, figliuol di Dante, molto, non solamente del padre, ma ancora di costui minore e men chiaro. Seguí a costoro il Petrarca, nel quale uno tutte le grazie della volgar poesia raccolte. Furono altresí molti prosatori tra quelli tempi, de' quali tutti Giovan Villani, che al tempo di Dante fu e la istoria fiorentina scrisse, non è da sprezzare; e molto meno Pietro Crescenzo bolognese, di costui piú antico, a nome del quale dodici libri delle bisogne del contado, in volgare fiorentino scritti, per mano si tengono. E alcuni di quelli ancora che in verso scrissero, medesimamente scrissero in prosa, sí come fu Guido Giudice di Messina, e Dante istesso e degli altri. Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi medesimo da sé stesso; con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciullezza di lui piú lontana. Il qual Boccaccio, come che in verso altresí molte cose componesse, nondimeno assai apertamente si conosce che egli solamente nacque alle prose. Sono dopo questi stati, nell'una facultà e nell'altra, molti scrittori. Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar piú oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s'è veduto. Il che senza dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà; nel quale, essendosi la latina lingua in tanto purgata dalla ruggine degl'indotti secoli per adietro stati, che ella oggimai l'antico suo splendore e vaghezza ha ripresa, non pare che ragionevolmente questa lingua, la quale a comperazione di quella di poco nata dire si può, cosí tosto si debba essere fermata, per non ir piú innanzi. Per la qual cosa io per me conforto i nostri uomini, che si diano allo scrivere volgarmente, poscia che ella nostra lingua è, sí come nelle raccontate cose, nel primo libro raccolte, si disse. Perciò che con quale lingua scrivere piú convenevolmente si può e piú agevolmente, che con quella con la quale ragioniamo?

Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, I, XIX e II, II.

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