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Thursday, July 7, 2011

La questione della lingua

Luigi Speranza

La questione della lingua nel Cinquecento è motivata anche dall'esigenza di dare norma e assetto stabile al volgare e dalla necessità di possedere strumenti di consultazione e di riferimento come lessici e grammatiche.

Chi soprattutto diede questo indirizzo alla questione della lingua fu Pietro Bembo.

"Le Prose della volgar lingua" sono decisive per la nostra storia culturale.

Solo Aligheri nel "De vulgari eloquentia" (1304) aveva saputo affrontare con la stessa profondità argomenti analoghi.

Tuttavia Bembo non cita mai l’opera dell’Alighieri, nonostante fosse stato tra i primi a conoscerla.

Al tempo della pubblicazione delle Prose il trattato di Aligheri non entrava ancora nel dibattito degli uomini di cultura.

La ricomparsa del libro si lega al nome di

Gian Giorgio Trissino

-- letterato vicentino coinvolto nella questione della lingua, che si servì dell’autorità di Dante a sostegno delle proprie tesi.

Le Prose del Bembo sono strutturate in forma di dialogo, ma l’ultimo libro si presenta come una grammatica in forma dialogata.

Il dialogo è ambientato a Venezia nel dicembre del 1502.

Vi prendono parte 4 personaggi:

i. Giuliano de’ Medici, terzo figlio di Lorenzo il Magnifico - rappresenta la continuità con l’umanesimo volgare della corte medicea.

ii. Federico Fregoso - espone le tesi storiche sul
volgare.

iii. Ercole Strozzi, umanista latino - espone le tesi avverse al volgare;

iv. Carlo Bembo, fratello di Pietro, portavoce delle idee dell’autore.


La terza parte avrebbe potuto sostenere il vanto di essere la prima grammatica a stampa dell’italiano, ma a causa del protrarsi della stesura dell’opera (che uscì solo nel 1525, anche se primo e secondo libro erano pronti nel 1512) finì per non essere novità assoluta.

Era stato preceduto, nel 1516, dalle

"Regole grammaticali della volgar lingua",

stampate ad Ancona dall’umanista friulano Gian Francesco Fortunio.

Fortunio, nato a Pordenone, vissuto a Venezia, mostra insofferenza verso l’attività filologica di Bembo.

Nella sua grammatica non risparmia critiche al testo delle famose edizioni aldine del 1501 e del 1502.

Nelle "Regole" del Fortunio vi è anche una diversa valutazione dell’opera di Dante.

Fortunio, al contrario di Bembo, non ha alcuna riserva sulla lingua della Commedia.

Bembo all'inizio dell'opera dice che il suo testo colma un vuoto nella cultura volgare, perché, benché questa cultura esista da 300 anni, «non si vede ancora chi delle leggi e regole dello scrivere abbia scritto bastevolmente».

La presa di distanza dalle Regole del Fortunio non doveva avere solo ragioni filologiche o di diversa valutazione degli auctores.

Probabilmente Bembo trovava inadeguata la disattenzione ai problemi teorici
Nelle linee generali le scelte di Fortunio grammatico non erano in contraddizione con le idee di Bembo.

Anche il modello di Fortunio era rappresentato dagli autori del Trecento fiorentino, ma di ciò non si dava alcuna giustificazione teorica.

Non c'era neppure una trattazione storica.

Fortunio si limitava a prendere partito contro la tesi del Bruni.

Fortunio non discuteva neppure le scelte alternative al modello adottato.

Presentava la propria opera quasi come il lavoro di un dilettante che aveva provato a ricavare dalle opere volgari di Dante, Petrarca e Boccaccio le «regole» della lingua italiana.

Era una giustificazione esile per l'operazione coraggiosa di dare alle stampe una grammatica del volgare.

La teoria di Bembo rivela uno spessore culturale pari a quello di Dante.

Aligheri esprime gli ideali del medioevo al momento della fioritura della letteratura volgare.

Bembo propone nelle Prose la più compiuta teorizzazione dell’ideale classicistico rinascimentale.

Nelle Prose la questione storico-linguistica è svolta in tutte le sue implicazioni.

A differenza di Fortunio considera più a fondo quali valutazioni negative si possono ricavare dalle tesi di Leonardo Bruni.

È Ercole Strozzi a sollevare questi argomenti e a svolgerli fino alle estreme conseguenze.

Se la lingua volgare era già esistita presso i latini ed era stata scacciata come vile dai loro scritti, perché i moderni avrebbero dovuto fare diversamente?

Per coerenza anche i classicisti moderni avrebbero dovuto rifiutare il volgare.

All’inizio del Cinquecento, con il crescente successo del volgare, la discussione di questa tesi aveva solo valore accademico.

La teoria di Bembo, tuttavia, non si accontentava di constatare, come Fortunio, solo il dato di fatto.

Il successo ormai garantito del volgare toscano non aveva, al contrario, alcun peso.

Il richiamo alla tesi bruniana, invece, era il punto di partenza per esporre la nuova teoria.

Il volgare non era antico come la lingua latina (al contrario di quanto diceva la tesi bruniana), ma ne era il figlio, come sosteneva la tesi del Biondo.

Il volgare era una lingua contaminata, nata dal trauma delle invasioni barbariche e, in particolare, dei Longobardi.

Il momento esatto della trasformazione dal latino all’italiano non si poteva definire con precisione, perché la serie delle invasioni forestiere era stata lunghissima, ma le cause della trasformazione non si legavano più, come per il Biondo, al maggiore o minore rispetto per la romanità da parte degli invasori, bensì alla durata del loro insediamento.

Rimane viva una “questione germanica” e si elabora il principio del “riscatto” dalla barbarie originaria, attraverso una lenta nobilitazione della lingua.

Come avevano già affermato l’Alberti, il Landino e l’Epistola aragonese attribuita a Poliziano, agli scrittori è riconosciuto il potere di nobilitare la lingua.

Solo il volgare fiorentino è in grado di vantare scrittori comparabili con la tradizione classica.

Bembo pone un’enfasi particolare nell'indicare l'unica lingua d'Italia, un'enfasi non diversa da quella con cui Dante, nel De vulgari eloquentia, condanna i signori d’Italia, indegni del confronto con Federico II e la sua corte.

Vi è nelle Prose una forte carica ideale, anche se l'idea di Italia del Bembo era soltanto astratta, letteraria, costruita sugli autori classici.

La questione della lingua era tuttavia un terreno dal quale si poteva facilmente transitare verso valori e ideali politici.

Ogni lingua, come si afferma nelle Prose, può nascere barbara, migliorare nel corso del tempo e in seguito decadere.

Così è accaduto al provenzale, la cui letteratura ha preceduto il fiorire del volgare italiano ed ha fornito ai poeti italiani un modello di riferimento.

Il provenzale ha iniziato la sua decadenza proprio mentre avanzava la lingua toscana.

La storia linguistica italiana si salda alla storia letteraria.

Anzi, per molti secoli, sarà proprio la ricostruzione della storia linguistica a suggerire l’impostazione da dare alla storia della letteratura.

Le pagine storico-linguistiche delle Prose precedono quelle in cui Bembo esamina le altre teorie capaci di concorrere con la sua nella definizione normativa del volgare.

La teoria cortigiana e la teoria del primato del fiorentino vivo.

Bembo sostiene che i fiorentini solo apparentemente sono depositari della lingua, in quanto nati nella stessa terra delle Tre Corone.

Essi rischiano però di scrivere male proprio a causa della lingua parlata quotidianamente, che nell'uso spontaneo è influenzata da caratteri popolari.

Anche la teoria del Bembo, come quella cortigiana, metteva in dubbio il primato linguistico dei toscani.

Pochi anni dopo, a queste prese di posizione, intese a ridimensionare il primato fiorentino, si sarebbe aggiunta la condanna del De vulgari eloquentia, appositamente riesumato dal Trissino.

Non si colgono il vero significato culturale delle Prose e la sua carica ideale se non si riconduce la condanna del fiorentino vivo e popolare alla sua matrice classicistica.

Bembo si accorse sicuramente che scegliere il modello delle Tre Corone significava andare indietro nel tempo, con un vertiginoso salto nel passato.

Fortunio aveva evitato di distinguere toscano antico e toscano moderno, ma Bembo non poteva eludere l'argomento.

Tra l'altro anche la teoria cortigiana sosteneva un ideale di lingua viva, di cui indicava i modelli nella conversazione delle corti.

La teoria di Bembo voleva congiungere la modernità della scelta del volgare con il distacco dall’attualità e dall’effimero, secondo un ideale rigorosamente classicistico.

Si trattava di proporre la lingua moderna al posto del latino, ribadendo al tempo stesso la positività del ritorno al passato.

Era il culmine del classicismo delle Prose.

Non si scrive per «piacere alle genti solamente che sono in vita», ma per i posteri.

Si chiarisce pienamente la natura letteraria della teoria di Bembo.

Si stabilizza una lingua per dialogare con i grandi trecentisti e per parlare agli uomini del futuro.

Requisito necessario per una lingua e una letteratura del genere era il rifiuto della popolarità.

A questo proposito, infatti, Bembo introduce il raffronto tra una serie triplice di coppie binarie.

Petrarca e Boccaccio, Virgilio e Cicerone, Omero e Demostene.

La coerenza binaria conduce al corrispettivo moderno costituito non più dalla triade Dante, Petrarca e Boccaccio, ma dagli ultimi due, il poeta e il prosatore.

Di Dante Bembo non accetta alcune scelte lessicali della Commedia.

Non ne apprezza le discese verso il basso, le contaminazioni realistiche e le asprezze verbali.

Petrarca era l’autore esemplare in assoluto.

Più spinoso era il caso del Boccaccio.

Bembo doveva giustificarne la presenza tra i modelli, soprattutto a causa di alcune novelle dove erano inseriti tratti di lingua popolare e di parlato.

Si preoccupò di precisare che il modello linguistico cui faceva riferimento non stava nel dialogato, presente occasionalmente nel Decamerone, ma nello stile rintracciabile nel «corpo delle composizioni sue».

Lì era il vero Boccaccio, caratterizzato dallo stile latineggiante.

Il dialogo invece andava considerato come qualche cosa di estraneo, di accidentale, una sorta di tributo pagato allo stile comico.

Il classicismo di Bembo ha una natura aristocratica.

La lingua dei morti è viva nella tradizione della cultura, è un ponte tra passato e futuro, mentre i veri morti sono coloro che coltivano le scritture per i vivi.

Ciò che è popolare è caduco e irrimediabilmente effimero.

La teoria non escludeva, però, che la lingua dei moderni potesse anche migliorare i meriti dell’antica.

È vero che il volgare antico è migliore del moderno e che dopo il Trecento la lingua volgare non ha più dato prove di crescita, ma è ancora così giovane rispetto al latino che non può essersi fermato.

Le stesse Prose avrebbero potuto aprire una nuova stagione.

La teoria linguistica si poneva al servizio dello sviluppo qualitativo della letteratura e se si pensa all’uso che fece della normativa delle Prose uno scrittore come Ariosto, correggendo il proprio poema, si deve concludere che le speranze di Bembo non erano infondate.

L'ideale linguistico cortigiano si collegava alle prove letterarie nella koinè usata presso le corti del Quattrocento e del primo Cinquecento.

La koinè era però un fatto empirico; la teoria seguì anziché precedere.

Anche per questo la teoria cortigiana è il documento di un fenomeno storico di grande importanza, l’avvicinamento a modelli toscani avvenuto in maniera quasi inconscia, nella convinzione di un possesso “comune” della lingua.

Roma tra Quattro e Cinquecento è una città cosmopolita e un ruolo di rilievo esercitano le corti dei papi fiorentini.

La teoria cortigiana, pur non escludendo affatto l’apprendimento della lingua dai modelli letterari (quegli stessi modelli su cui si era fermata la teoria di Bembo), evitava di separare in maniera netta la lingua scritta da quella della conversazione di livello alto.

I suoi esponenti non hanno lasciato trattazioni ampie e sistematiche.

Era difficile opporre al sistema di Bembo qualche cosa di ugualmente solido e coerente.

La teoria cortigiana non appariva compiuta, perché la miscela della lingua “commune” riusciva diversa a seconda dei casi e appariva come una sorta di fantasma.

Una posizione di rilievo nella questione della lingua fu occupata da Gian Giorgio Trissino (1478-1550), vicentino, che parlò di soluzione “italiana” appoggiandosi all’autorità del De Vulgari Eloquentia di Dante da lui pubblicato in traduzione italiana nel 1529.

Secondo la tradizione Trissino, attorno al 1514, avrebbe presentato a Firenze il DVE al gruppo di intellettuali che si riuniva negli Orti Oricellari (i giardini di palazzo Rucellai), frequentati fra l’altro da Machiavelli.

L’evento si lega ad una complessa questione, oggetto di dibattito tra gli studiosi di storia della lingua e di letteratura, relativa al breve dialogo di argomento linguistico attribuito al Machiavelli.

In questo dialogo egli mostra di conoscere le idee di Dante sul volgare illustre e le contesta (senza peraltro contestare l’autenticità del trattato dantesco).

Ne deriva che stabilire la data di divulgazione del DVE è decisivo anche per datare il Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua di Machiavelli.

Al momento dell’uscita delle Prose, Firenze, nel pieno della crisi politica, si era a tal punto chiusa in una cultura provinciale che per trovare repliche alla tesi del Bembo si dovrà aspettare la metà del secolo.

La più interessante reazione fiorentina al DVE, invece, è quella del Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua di Machiavelli, rimasto tuttavia inedito fino al 1730.

Nel testo, scritto in maniera vivace e brillante, viene introdotto, nel finale, Dante stesso, il quale dialoga con Machiavelli, facendo ammenda degli errori commessi scrivendo il DVE. Machiavelli del resto ebbe buon gioco nel dimostrare che la Commedia è scritta in fiorentino e non nella lingua “curiale”.

Machiavelli intendeva stabilire, una volte per tutte, il primato naturale dell’idioma di Firenze, anche al di là delle capacità degli scrittori di renderlo illustre: un primato del fiorentino come sostenuto da Landino nel Quattrocento.

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