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Tuesday, July 12, 2011

L'arte della conversazione: Grice e Guazzo

Luigi Speranza

Non sembra più indispensabile introdurre giustificazioni teoriche all'inizio di uno studio su gioco e società.

Infatti si è acquisita l'idea che esistono convergenze molto strette tra i due ambiti. Lo studio del gioco non ha però, al contrario dello studio della società, generato una disciplina precisa e delimitata, anche se il concetto di gioco è stato utilizzato da diverse discipline.

Esistono comunque due studi generali di altissimo valore e di acuta intelligenza in cui gli aspetti essenziali del gioco sono stati introdotti e analizzati nei minimi particolari, tanto che sembra ormai impossibile formulare altre teorie o classificazioni. Mi riferisco agli studi di Huizinga e Caillois che faranno da sfondo alle seguenti riflessioni sulla funzione del gioco nella cultura rinascimentale italiana.

Dalle opere di questi due autori si ricava infatti il postulato che è assai proficuo studiare una civiltà sub specie ludi. Caillois era addirittura deciso a gettare le basi di una sociologia a partire dai giochi [p. 86], vale a dire a considerare i giochi come generatori di varianti sociologiche. Postulato centrale della teoria del Caillois era che una società si può differenziare da un'altra a seconda dei giochi che in essa predominano.

Si è sempre pensato che una civiltà si caratterizzi per i prodotti che da essa provengono. I prodotti manufatti - letteralmente fatti dalle mani anche se pensati da una mente progettuante - a funzione estetica, cioè la pittura, l'architettura, ecc., fino alle arti in cui le mani sono coinvolti di meno come la poesia, la musica, la danza ecc., sono stati sempre considerati documenti essenziali di una civiltà. Sempre più, comunque, la storiografia ha ampliato il dominio di ciò che definisce una civiltà: includendo ad esempio manufatti prodotti non come portatori di un valore estetico, ma per essere adoperati nella vita di tutti i giorni. Tuttavia una civiltà è fatta non solo di prodotti ma anche di azioni che costituiscono movimenti di progresso o di regressione, avanzamento o ripiegamento delle sue varie sfere: e di questo la storiografia si è occupata da sempre. Quindi possiamo dire che la storia di una civiltà si può per grandi linee definire come storia di ciò che essa ha prodotto: oggetti ed azioni.

In questa prospettiva storiografica si comprende allora come il gioco abbia avuto grosse difficoltà ad inserirsi. Poiché il gioco, come ha giustamente sottolineato Caillois, non produce nulla se non se stesso. Si può tentare di fare una storia dei giochi, ma con difficoltà perché spesso i giochi nascono all'interno della cultura popolare, viaggiano per imprevedibili canali, sono tramandati per via orale e blandamente codificati. Abbiamo delle ottime ricostruzioni storiche di vari giochi particolari o di famiglie di giochi. Tuttavia resta un terreno ancora poco esplorato, almeno per quanto riguarda le società occidentali, quello del valore e della funzione assegnati al gioco in un dato momento storico.(3) Risulta molto difficile infatti rispondere a domande come queste: in una data società quanto tempo veniva dedicato al gioco? Che giochi giocavano gli appartenenti alle classi superiori e quali quelli appartenenti alle classi inferiori? Che tipo di giochi predominano in una data epoca? Di fortuna, di competizione, ecc? Rispondere a queste ed altre domande è estremamente difficile e si potrebbe anche mettere in dubbio la necessità d'investigare in questa direzione. Il gioco non produce nulla e non lascia traccia di sé: nell'atto di fare si consuma interamente. Esso è l'epitome dello spreco. Come si può allora ricostruire ciò che si è perso per sempre? E che valore può avere studiare qualcosa che non ha lasciato segni? Tuttavia pur restando qualcosa dei giochi, l'insieme delle istruzioni e le descrizioni di come si svolge un gioco, l'evento stesso è irrimediabilmente perso. Solo nei casi in cui il gioco, in special modo nella sua variante agonistica, viene organizzato da istituzioni ne rimane qualche traccia, ad esempio il nome della persona vincente; ma anche in questo caso l'evento, soprattutto nell'epoca pre-massmediale, viene completamente perso.

Appare quindi complesso il compito di studiare una civiltà dal punto di vista dei giochi che venivano praticati in essa.

Il carattere aleatorio del gioco non permette di collocare lo stesso all'interno di nessuna storia. Non abbiamo inoltre documenti che ci permettano di verificare la fortuna del gioco in una data società o la pratica di certi giochi invece di altri. Questo è dovuto al fatto che il gioco rappresenta un'attività improduttiva e quindi non memorabile. Ma la storiografia contemporanea, che sempre più allarga i confini su cui poggia il suo sguardo, ha la possibilità e anche gli strumenti per puntare i suoi riflettori sulla funzione e sul valore del gioco nelle società del passato. Sia Huizinga che Caillois hanno sottolineato con vigore la necessità di considerare seriamente il gioco come fattore di cultura e come documento di civiltà. Lo studioso francese ammette che

non è affatto assurdo tentare la diagnosi di una civiltà partendo dai giochi che segnatamente vi fioriscono. Se i giochi, infatti, sono fattori e immagini di cultura, ne consegue che, in certa misura, una civiltà, e all'interno di una civiltà un'epoca, può essere caratterizzata dai suoi giochi. Essi ne rivelano necessariamente la fisionomia generale e apportano indicazioni preziose sulle preferenze, le debolezze e le virtù di una data società in un determinato momento della sua evoluzione. [p. 99-100]

Una storia della cultura sub specie ludi è ancora tutta da fare, anche se esistono già nelle opere di questi due autori i presupposti teorici.

L'epoca in cui, nel mondo occidentale, appare pervasiva la presenza del gioco è sicuramente quell'epoca che chiama, in francese, il "rinascimento" italiano.

In essa molti aspetti della vita socializzata sono organizzati in forme simili a quelle del gioco, presentano delle regole strette ed hanno come fine il diletto. Si sono adoperati per descrivere la vita del rinascimento italiano alcune metafore, come ad esempio vita teatralizzata o vita come opera d'arte, che potrebbero tradursi in vita in forma di gioco.

Segnali che evidenziano l'interesse degli uomini di quest'epoca verso le attività ludiche possono essere i diversi trattati sui giochi, sia quelli da tavolo come ad esempio gli scacchi e le carte, sia i giochi sportivi.

Questi trattati rappresentano una vasta letteratura che è stata studiata dagli appassionati di giochi.

Nello studio di questi trattati restiamo comunque nell'ambito delle regole, cioè all'interno della struttura del gioco giocabil, mentre c'interessa maggiormente studiare il gioco giocato. Ci sono state tramandate in questo senso diverse testimonianze soprattutto per quanto riguarda le classi dominanti. Ricca è infatti la documentazione che abbiamo sulla vita sociale soprattutto di queste classi, vita sociale che appare strutturata attorno alla pratica di diversi giochi che appartengono alla categoria che possiamo per ora definire giochi di societ.

Se consideriamo il Rinascimento come l'apice della civiltà occidentale bisogna concludere che un massimo di civiltà significa un massimo di presenza del gioco in essa. Dove si pratica maggiormente il gioco lì si ritrova allo stesso tempo il massimo di civiltà. Se inoltre accettiamo il fatto che artisti, scienziati, inventori sono gli adulti cui è socialmente permesso di continuare a giocare, come ha affermato Valerio Valeri [p. 820], possiamo arguire che nella civiltà rinascimentale, civiltà affollata di artisti scienziati ed inventori, lo spazio assegnato al gioco era molto ampio. Si può essere quindi d'accordo con l'affermazione dello Huizinga per cui tutto l'atteggiamento spirituale del Rinascimento è gioco [p. 212].

Delle caratteristiche che presenta in generale il gioco, per la prima volta puntualizzate dallo Huizinga, cerchiamo di vederne alcune che possono essere utili per lo studio dell'epoca rinascimentale. Lo spazio del gioco è uno spazio che si oppone alla prestazione del lavoro. La società che dedica tanto tempo al gioco ha trovato il modo di liberarsi totalmente o parzialmente dal dovere della produzione di beni. Inoltre essa considera il lavoro come disvalore o come valore di secondaria importanza. Il gioco infatti è legato alla nozione di riposo e di ozio contro il tempo dell'occupazione e del lavoro. Questo è un contrasto netto presente nella società occidentale e a seconda delle epoche e delle ideologie ha trovato soluzioni diverse. Si può infatti passare da una totale sopravvalutazione del tempo del gioco e svalutazione di quello del lavoro, o all'opposto demonizzazione del divertimento a favore di una società dedita interamente alle attività lavorative. Le soluzioni intermedie sono tante e vanno da quella cristiana del settimo giorno dedicato al riposo a quella delle società contemporanee in cui si lavora per procurarsi il divertimento, che ha un suo prezzo.

Un altro aspetto del gioco, meno percepibile ma di importanza cardinale per un approccio sociologico, è che una società che mostra tanta attenzione al gioco è una società in cui spesso si presentano acuti conflitti sociali. Il gioco può costituire uno spazio in cui è permesso scaricare i conflitti sociali, ma anche quelli psicologici, non risolvibili all'interno della realtà sociale: si veda ad esempio la funzione del carnevale, così come l'ha descritta Bachtin. Inoltre il gioco rappresenta un mondo altro, spesso in contrasto con il mondo reale, il quale viene semplificato o esorcizzato, all'interno del gioco stesso. Nel momento in cui i partecipanti delimitano lo spazio fisico in cui praticheranno il gioco, delimitano anche una realtà a se stante. Essi non solo pongono delle regole a se stessi e stabiliscono quali giochi permettere in questo spazio, ma inoltre escludono o includono soggetti sociali accettabili o meno: un meccanismo tanto simile a quello della formazione e delle funzioni della società. Definire esattamente lo spazio del gioco significa allora definire lo spazio dove è possibile lo scontro e la competizione, e definire anche il conflitto di classi e strati sociali nei termini dell'inclusione o dell'esclusione di essi nello spazio del gioco. Quindi una civiltà che si presenta come civiltà altamente ludica è allo stesso tempo una società altamente conflittuale, che vuole risolvere le contraddizioni interne col gioco, ed una società che ritaglia uno spazio dove sublimare i conflitti e manipolare, con il meccanismo dell'esclusione, i suoi soggetti.

La società rinascimentale appare ormai allo sguardo dello studioso come una società piena di conflitti sia nella sfera della vita quotidiana sia nella sfera degli eventi macro-storici. Bastano qui poche riflessioni sparse. La trasformazione, al livello dell'immaginario letterario, della guerra nei duelli giocosi del poema epico-cavalleresco testimonia della pervasività del conflitto, e del gusto del conflitto, nella società rinascimentale. La guerra duellata, con tutte le sue cerimonie e regole, è una forma di gioco molto raffinato in cui la vittoria è costituita dal mantenimento dell'onore.(5) La società rinascimentale è basata anche sull'esclusione del mondo del contado dal mondo della corte. Nella sfera del gioco la società di corte manifesterà il suo potere di escludere e selezionare i giochi giocati e permessi al suo interno. D'altra parte la società del contado conobbe anche in questo periodo un'enorme creatività ed espansione delle attività ludiche, come testimoniano il famoso quadro sui giochi dei bambini di Bruegel e la lista dei giochi popolari che si trova in Rabelais. In realtà la vita nelle società pre-industriali dell'antico regime non è una vita regolata giorno dopo giorno secondo i dettami del lavoro. C'era molto più tempo, e questo in tutti gli strati sociali, da dedicare ai passatempi; il lavoro occupava intensamente dei mesi, ad esempio durante le guerre o le raccolte, ma poi si fermava per lunghi periodi. Solo con l'organizzazione moderna del lavoro il tempo del divertimento assume l'aspetto di pausa momentanea rispetto alla continuità della prestazione del lavoro.

Per quanto riguarda la società aristocratica del Rinascimento italiano abbiamo diverse testimonianze che indicano come questa società avesse grande interesse per il gioco e che forme ludiche fossero alla base di molti comportamenti. Si sviluppano in questo periodo una famiglia di giochi in cui il confine tra finzione e realtà si fa molto sottile. Ci sono infatti giochi che hanno delle caratteristiche molto simili ad eventi che si esperiscono nella realtà: si prendano ad esempio il gioco delle bambine con bambole e case in miniatura, o ad un polo opposto il pugilato che è rispecchiamento di una lotta tra due contendenti. Questi tipi di giochi si possono avvicinare a quelli definiti da Caillois come giochi mimetici, appartenenti alla sfera del simulacro o secondo il termine usato dall'autore della mimicry. Questa è la sfera della finzione in cui il soggetto gioca a credere, a farsi credere o a far credere agli altri di essere un altro. Egli nega, altera, abbandona temporaneamente la propria personalità per fingerne un'altra [p. 36]. Proprio perché finzione della realtà, questi tipi di giochi dicono molto della società stessa. E di questo tipo sono i giochi giocati dalle classi sociali alte del Rinascimento.

Rispetto agli altri giochi che Caillois ha classificato, questi della mimicry prevalgono nella società rinascimentale, anzi essa ha cercato di occultare od eliminare le altre forme di gioco a vantaggio di quelli della finzione. Vediamo schematicamente quali sono questi gruppi di giochi secondo la terminologia di Caillois:

a) Alea : giochi in cui prevale la fortuna, ad esempio i dadi, ed in cui l'intervento del giocatore è nullo;

b) Agon : tutti i giochi di competizione, in cui l'intervento dei giocatori è di grande importanza, e l'evento casuale di scarsa preponderanza;

c) Ilinx : giochi in cui il giocatore spinge se stesso, nel corpo e nella mente, fino alla perdita della coscienza, verso la vertigine, come ad esempio nei giochi rischiosi del luna-park o nelle danze e divertimenti del carnevale.

In questi giochi il soggetto implicato corre gravi pericoli: il pericolo di essere annullato dalla forza del caso, dalla forza dell'avversario, o da forze interiori o esteriori incontrollabili. Per quanto riguarda i giochi dell'alea la cultura rinascimentale bandirà e considererà come giochi delle classi inferiori i giochi di dadi e di carte. Il tema della fortuna, e di come non lasciarsi vincere da essa, è, come si sa, un tema molto dibattuto tra gli autori del Rinascimento. Da un punto di vista sociologico, e partendo da un suggerimento del Caillois, la lotta contro la fortuna rappresenta un aspetto di apertura verso la modernità da parte del mondo rinascimentale, dato che questa lotta significa una maggiore tendenza della società verso lo spirito competitivo.(6) Ma anche questo spirito competitivo (l'agon ) nella società rinascimentale viene ad essere smussato, attraverso una forte regolamentazione delle mosse del gioco. Si pensi ai tanti manuali di codificazione del duello e si pensi alla fortuna che ebbe nell'immaginario di questo periodo il gioco degli scacchi, dai tanti trattati dedicati ad esso alle ottave di glorificazione del Marino.(7) Se si deve praticare un gioco agonistico lo si deve fare con la maggior grazia possibile, col rispetto assoluto delle regole, e addirittura con lo spirito di non offendere il giocatore perdente, dato che non si può disonorare chi appartiene al proprio gruppo. Questo controllo di sé, che allontana l'uomo animale razionale dalla bestia, è tutto contrario ai giochi della vertigine, che come ha sottolineato Caillois, sono giochi praticati da uno spirito primitivo e quindi giochi che si vanno perdendo con il processo di civilizzazione. In generale quindi lo spirito rinascimentale rifiuta di partecipare a giochi in cui predomini il caso, la lotta o la totale perdita di sé. Al contrario esso punta tutto sul controllo delle proprie passioni, sulla pacificazione, sulla valutazione delle proprie azioni. Sono queste delle generalizzazioni che cercheremo di specificare meglio con lo studiare dei casi particolari.

Nell'introduzione al "Decameron" di Boccaccio ritroviamo il prototipo di una situazione sociale che vedremo ripetuta nella letteratura sul gioco nel rinascimento italiano.

Si tratta di una situazione in cui un insieme di soggetti sociali delle classi alte si riuniscono in uno spazio separato dallo spazio delle attività quotidiane per praticare un insieme di giochi, con lo scopo di passare il tempo. Nel caso del capolavoro del Boccaccio la fuga dalla realtà quotidiana è una fuga forzata e il far passare il tempo è vitale: bisognava lasciar far passare la peste. Nonostante la situazione luttuosa, i giovani fuggitivi si ritrovano in uno spazio separato ed idillico in cui inevitabilmente s'innesca il gioco. L'ambiente stesso, il palagio e il praticello, è un ambiente favorevole all'ozio e allo svago, pronto quindi a propiziare vari giochi. Tocca a Pampinea convogliare i partecipanti al gioco del narrare:

Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all'animo gli è più di piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giuocando, nel quale l'animo dell'una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell'altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo.

Boccaccio contrappone quindi i giochi da tavolo, in particolare gli scacchi, al gioco del narrare, assegnando a quest'ultimo come fine innanzitutto il diletto della compagnia stressata dalla situazione della peste, e secondariamente il raffinamento dell'animo. I giochi di competizione, l'agon, portano tanti squilibri e contrasti nella sfera psicologica e in quella della micro-sociologia, e sono quindi da tenere da parte. Il narrare diventa allora un gioco in cui a turno partecipano tutti i soggetti della brigata senza che si metta in palio nulla. Il risultato del gioco del narrare deve essere un diletto generalizzato che faccia dimenticare la tragedia della realtà.

Il gioco del narrare ha lo scopo di produrre narrazioni accettabili all'interno della situazione data: la sfida competitiva ai partecipanti viene da questa regola non detta di produrre un racconto soddisfacente. Ma l'aspetto agonistico in Boccaccio viene completamente cancellato: non si tratta infatti di un concorso letterario, ma della libera creatività dei vari partecipanti che si presentano allo stesso livello nella loro abilità di narratori, anche se caratterizzabili nelle loro preferenze di tematiche o di stili narrativi. Nel momento della narrazione, in genere, si sospende il tempo del lavoro e della vita quotidiana, per trasportarsi, per via di finzione, in un mondo altro e distante. Questo modello boccacciano ebbe nel corso dei secoli diverse varianti, ma il richiamo al gioco e l'inserimento del narrare in una cornice ludica permane in tante altre occorrenze.

Se ci spostiamo in un ambito diverso, nelle stanze della corte di Urbino, riscontriamo lo stesso richiamo al gioco come organizzatore del tempo dello svago. Ne Il Cortegiano infatti la vita aristocratica della corte viene pensata come regolata da tanti momenti ludici: erano adunque tutte l'ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi così del corpo come dell'animo.(8) Anzi nella lettera di dedica al terzo libro il Castiglione esalta la corte d'Urbino, rispetto alle altre corti italiane, per la pratica continua dei giochi:

Voi adunque, messer Alfonso mio.... potete chiaramente conoscer quanto la corte d'Urbino fosse a tutte l'altre della Italia superiore, considerando quanto i giochi, li quali sono ritrovati per recrear gli animi affaticati dalle faccende più ardue, fossero a quelli che s'usano nell'altre corti della Italia superiori. [p. 239, 3-I]

L'autore aggiunge comunque che se i giochi erano superiori, superiori dovevano essere l'altre operazion virtuose. Tuttavia è il gioco, l'organizzazione del passatempo, che è arrivato a grande perfezione tra i cortigiani d'Urbino, perfezione non raggiunta nelle altre corti italiane, e che quindi distingue questa corte dalle altre corti. Alle quali poi non rimaneva che giocare nella situazione storica dell'Italia di primo Cinquecento in cui ormai non resta nazione che di noi non abbia fatto preda, tanto che poco più resta che predar e pur ancora di predar non si resta [p. 158, 2-XXVI]. Alla società cortigiana non rimane che passare il tempo, ora che sempre più si trova fuori del tempo della storia. Castiglione, cosciente della gravità della crisi italiana, non riesce però a trovare una soluzione che coinvolga maggiormente alle sorti della storia il suo cortigiano, se non quella di spingerlo a diventare il consigliere del principe e quindi il moderno politico.

Si prendano ad esempio gli esercizi fisici che Castiglione consiglia al suo cortigiano. Pur definendolo un uomo di guerra, e quindi propenso più all'esercizio delle armi che alle lettere, Castiglione nelle pagine del suo libro propone una figura di cortigiano che invece di esercitarsi per la battaglia si prepara alla finzione di una battaglia, e cioè al duello. Per Castiglione la guerra del cortigiano deve avere come fine non la conquista di un territorio o la disfatta del nemico, ma la salvaguardia del proprio onore. La guerra in questo modo si trasforma nel gioco del duello:

ritrovandosi il cortegiano nella scaramuzza o fatto d'arme o battaglia di terra o in altre cose tali, dee discretamente procurar di appartarsi dalla moltitudine e quelle cose segnalate ed ardite che ha da fare, farle con minor compagnia che po ed al conspetto de tutti i più nobili ed estimati omini che siano nell'esercito, e massimamente alla presenzia e, se possibil è, inanzi agli occhi proprii del suo re o di quel signore a cui serve..... Ed io ricordomi aver già conosciuti di quelli, che, avvenga che fossero valenti, pur in questa parte erano grossieri; e così metteano la vita a pericolo per andar a pigliar una mandra di pecore, come per esser i primi che montassero le mura d'una terra combattuta; il che non farà il nostro cortegiano, se terrà a memoria la causa che lo conduce alla guerra che dee esser solamente l'onore. [p. 129-130, 2-VIII]

Nel gioco del duello, nelle giostre e nei tornei, il cortigiano deve presentarsi con tutti gli ornamenti della grazia, sia nel vestirsi, sia nel comportarsi. Anche questo è un gioco delle apparenze e della finzione in cui le regole debbono essere rispettate, prima fra tutte che i contendenti siano di pari dignità sociale. Si deve infatti gareggiare con soggetti sociali di classi inferiori solo attenendosi a certe regole di prudenza:

Ma chi vol pur lottar, correr e saltar coi villani, dee, al parer mio, farlo in modo di provarsi e, come si suol dir, per gentilezza, non per contender con loro; e dee l'omo esser quasi sicuro di vincere, altramente non vi si metta; perché sta troppo male e troppo è brutta cosa e fuor della dignità vedere un gentilomo vinto da un villano, e massimamente alla lotta; però credo io che sia ben astenersene, almeno in presenzia di molti, perché il guadagno nel vincere è pochissimo e la perdita nell'esser vinto è grandissima. [p. 133, 2-X]

In casi come questi una competizione ludica può trasformarsi in una competizione sociale in cui si mette a rischio l'immagine del proprio status. Il dominio di una classe su un'altra deve anche essere reale nello spazio del gioco e delle apparenze. Le barriere sociali non devono essere attraversate neanche nello spazio finto del gioco, in cui si deve evitare di mescolare le classi. Per tali ragioni il Castiglione invita i suoi cortigiani a non partecipare a giochi fisici plebei, come lanciare la sbarra, lottare, correre e saltare, ed anche al gioco della palla:

Voglio adunque che questo [il gioco della palla] e tutti gli altri, dall'armeggiare in fora, faccia il nostro cortegiano come cosa che sua professione non sia e che mostri non cercar o aspettar laude alcuna, né si conosca che molto studio o tempo vi metta, avvenga che eccellentemente lo faccia. [ibidem]

I duelli con le armi sono accettabili per due ragioni: sia perché la vera professione del cortegiano è quella delle armi, sia anche perché, essendo l'acquisto e il possesso di armi possibile solo a membri della classe dominante, bisognava pur mostrare in pubblico il loro valore simbolico di potere e nello stesso tempo tenere in buona efficienza questi strumenti.

Oltre ai giochi inerenti l'atletica, il Castiglione dà dei consigli al suo cortigiano sul praticare altri giochi. Ammette ad esempio che si possa giocare ai dadi e alle carte, sempre nella conversazione tra pari, ma si deve mostrare, con sprezzatura, quasi di non partecipare allo spirito agonistico che appartiene ad essi. Il cortigiano deve badare però che questo tipo di giochi nol facesse troppo assiduamente e per quello lasciasse l'altre cose di maggior importanzia, o veramente non per altro che per vincer denari, ed ingannasse il compagno e perdendo mostrasse dolore e dispiacere tanto grande, che fosse argomento d'avarizia [p. 166, 2, XXXII]. Si sfumano quindi in questi due giochi, che appartengono alla sfera dell'alea e dell'agon, i loro aspetti caratterizzanti, cioè la scommessa in denaro e la competitività tra i giocatori. Curiosamente il Castiglione ridimensiona anche il gioco degli scacchi, perché esso richiede, nell'apprenderlo bene, troppa applicazione mentale e tanto spreco di tempo da parte del cortigiano, che dovrebbe invece dedicarsi ad altre attività più importanti come la diplomazia e la politica. Castiglione si stupisce del suo stesso consiglio poiché afferma che negli scacchi intervenga una cosa rarissima, cioè che la mediocrità sia più laudevole che la eccellenzia [ibidem].

Il gioco a cui invece va tutto l'interesse dell'autore, che poi è il gioco fondante del libro stesso, è il gioco di società, che abbiamo visto ha matrice di origine boccacciana. Alla corte di Urbino si presentano delle condizioni ottimali per ricreare questo tipo di giochi: siamo in un tempo di relativa pace, e alla corte di Urbino si ritrovano i migliori cortigiani provenienti da diversi corti. Il momento cruciale della giornata a corte è quello in cui dopo cena, e quindi quando le cure quotidiane - cioè discussioni politiche ed intrighi diplomatici - sono messe da parte, tutta la compagnia si riunisce attorno alla Duchessa, la quale irradiava piacevolezza e giocondità.

Il Castiglione si sofferma a descrivere l'organizzazione della serata a corte per ben tre volte nei capitoli IV, V, e VI del primo libro con una gradazione molto interessante, dall'evento generale a quello particolare, che dobbiamo analizzare con ampie citazioni. Nel capitolo IV si mette in evidenza il carattere giocoso della compagnia che si radunava intorno alla Duchessa:

Quivi adunque i soavi ragionamenti e l'oneste facezie s'udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria; né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo. [p. 21-22]

Il Castiglione ricorda in questo passo quello che tutte le sere succedeva dopo cena nella stanza della Duchessa: è questo un suo ricordo personale dato che aveva vissuto tante volte questa esperienza. Egli sottolinea il piacere e la giocondità che derivava dallo stare assieme, e come in queste serate si generasse tanto riso, segno precipuo che siamo in uno spazio ludico. Perno della compagnia era la Duchessa che regolava la conversazione, la quale poteva degenerare a causa della presenza alle riunioni di due soggetti sociali potenzialmente competitivi: uomini e donne. Il commerzio tra i due sessi era liberissimo ed onestissimo per il rispetto che si portava alla Duchessa, che è indicata dal Castiglione come modello che tutti si sforzavano di imitare.

Nel capitolo seguente il Castiglione specifica che cosa produceva questa piacevolezza:

tra l'altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, talor si proponeano belle questioni, talor si faceano alcuni giochi ingeniosi ad arbitrio or d'uno or d'un altro, ne' quali sotto varii velami spesso scoprivano i circonstanti allegoricamente i pensier sui a chi più loro piaceva. Qualche volta nasceano altre disputazioni di diverse materie, o vero si mordea con pronti detti; spesso si faceano imprese, come oggidì chiamiamo; dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissimi ingegni. [p. 23-24]

e l'autore prosegue nominando i partecipanti a queste serate.

Da questa descrizione si evince che la musica e la danza, spesso praticate dagli stessi nobilissimi ingegni, facevano da cornice alle attività ludiche vere e proprie, come l'avevano fatto al narrare del Boccaccio. Queste attività ludiche erano accompagnate da ragionamenti di diverse specie: le serate comunque dovevano essere generate da una collettiva giocondità e generare piacevolezza.

Nel capitolo VI il Castiglione andando sempre più verso i particolari, si sofferma a descrivere quello che accadde durante alcuni giorni dei primi di marzo del 1507 alla corte d'Urbino:

essendo all'ora usata ridutta la compagnia al solito loco, dopo molti piacevoli ragionamenti la signora Duchessa volse pur che la signora Emilia cominciasse i giochi; ed essa, dopo l'aver alquanto rifiutato tal impresa, così disse: "Signora mia, poiché pur a voi piace ch'io sia quella che dia principio ai giochi di questa sera, non possendo ragionevolmente mancar d'obedirvi, delibero proporre un gioco, del qual penso dover aver poco biasmo e men fatica; e questo sarà ch'ognun proponga secondo il parer suo un gioco non più fatto; da poi si eleggerà quello che parerà esser più degno di celebrarsi in questa compagnia". [p. 25-26]

In questo passo il Castiglione sembra differenziare il momento dei ragionamenti, liberi da ogni obbligo e, ipotizziamo, decentrati e molteplici, dal momento dei giochi, che poi non sono altro che in forma di ragionamenti come si puntualizza spesso nel libro. Emilia risponde all'ingiunzione della Duchessa con una trovata ingegnosa ma anche manierista: propone il gioco di proporre un gioco. Essa viene fuori da una possibile difficoltà, quella di trovare un passatempo valido per tutta la compagnia, rimettendo in circolo ed aprendo, con l'aiuto della finzione di un gioco, a tutta la compagnia. Emilia, avendo assunto il ruolo di reggente, avrà anche il potere di scelta e decisione: dopo la proposta di cinque giochi di non suo gradimento, il gioco di Federico Fregoso viene accolto da Emilia con entusiasmo:

"Questo," disse, "se alla signora Duchessa piace, sarà il gioco nostro per ora." Rispose la signora Duchessa: "Piacemi." Allor quasi tutti i circunstanti, e verso la signora Duchessa e tra sé, cominciarono a dir che questo era il più bel gioco che far si potesse; e senza aspettar l'uno la risposta dell'altro, facevano instanzia alla signora Emilia che ordinasse chi gli avesse a dar principio. [p. 36, 1-XII]

Ma quali sono i giochi esclusi e perché vengono esclusi? Diamo una breve descrizione facendola precedere dal nome di chi ha proposto il gioco.

Gaspar Pallavicino: dire di che virtù deve essere ornata la persona che si ama e di quale vizio;

Cesare Gonzaga: in ognuno di noi c'è un pizzico di pazzia. Il gioco consiste nel dichiarare qual'è la forma di pazzia alla quale più il dichiarante tende, e quale pazzia vede in fieri negli altri partecipanti;

Unico Aretino: si spieghi cosa significa la lettera a forma di S che si trova sul diadema della Duchessa;

Ottaviano Fregoso: i partecipanti devono dichiarare quale causa essi vorrebbero che fosse alla base dello sdegno della persona amata;

Pietro Bembo: disputare se sia meglio che lo sdegno nasca dall'amante o da se stessi.

Come si può vedere da questa descrizione i giochi in questione hanno due caratteristiche: coinvolgono troppo direttamente i partecipanti, riguardano i rapporti amorosi tra i sessi. Giochi cioè troppo circostanziati, e quindi non necessariamente degni di essere ricordati in un opera di scrittura letteraria, e giochi non nuovi, in quanto appartengono ad una casistica ormai sperimentata da diversi secoli, cioè alle cosiddette questioni d'amore, in cui l'eros viene discettato attraverso il suo aspetto ludico-verbale ed in cui i sentimenti potevano essere sotto varii velami dichiarati. Ma oltre a ciò, questi giochi non vengono scelti perché, come ha giustamente sottolineato Thomas Greene,

they all deal with the socially aberrant, with private passions and imbalances and blindnesses which could threaten the harmony of the group, that magic chain which, we have been told, binds all members together in bonds of love. The games suggest the presence of the potentially dangerous (of self-deception, cruelty, folly, and hostility).(9)

Il rischio che i partecipanti corrono è di scatenare una serie di competizioni tra di loro, cosa che in questa piccola società si vuole evitare. Pur tuttavia questi sono giochi che sicuramente sono stati fatti, in questa o in altra corte, o si faranno nelle giornate seguenti. Meno competitivo appare il gioco del cortigiano che è così motivato dalle parole del suo proponitore, Federico Fregoso:

ben poria senza suspetto d'adulazion dir che in tutta la Italia forse con fatica si ritrovariano altrettanti cavalieri così singulari, ed oltre alla principal profession della cavalleria così eccellenti in diverse cose, come or qui si ritrovano; però, se in loco alcuno son omini che meritino esser chiamati bon cortegiani e che sappiano giudicar quello che alla perfezion della cortegiania s'appartiene, ragionevolmente si ha da creder che qui siano. Per reprimere adunque molti sciocchi, i quali per esser prosuntuosi ed inetti si credono acquistar nome di bon cortegiano, vorrei che 'l gioco di questa sera fusse tale, che si elegesse uno della compagnia ed a questo si desse carico di formar con parole un perfetto cortegiano, esplicando tutte le condicioni e particular qualità, che si riechieggono a chi merita questo nome; ed in quelle cose che non pareranno convenienti sia licito a ciascun contradire, come nelle scole de' filosofi a chi tien conclusioni. [p. 35-36, 1-XII]

Per questa occasione eccezionale si deve trovare un gioco unico e nuovo.

Questo gioco del cortigiano comunque non si distanzia tanto dai precedenti in quanto appartiene alla stessa rubrica dei ragionamenti.

Si disputerà sulle qualità da assegnare al perfetto cortigiano per mezzo di parole.

Il gioco del ragionamento si trasforma spesso in un monologo ed in un trattatello prescrittivo.

Ma resta pur tuttavia lo spirito del gioco e della piacevolezza anche in momenti di grande tensione riflessiva, come ad esempio nell'ultimo libro quando leggermente ironico appare il gesto di Emilia che tira il vestito al Bembo tutto preso dalla sua esaltazione dell'amore.

Ma che significa che un gruppo di cortigiani giocano a costruire con ragionamenti la figura ideale del cortigiano?

La struttura del gioco è abbastanza semplice.

La regina della serata, Emilia, eletta dalla regnante reale, la Duchessa, assegna il compito di svolgere il tema allo stesso Federico Fregoso poiché i suoi argomenti, essendo egli uno spirito contraddittorio, possono riscaldare la discussione.

La quale si anima spesso e prosegue da una giornata all'altra seguendo il filo dei ragionamenti.

Non c'è infatti ne Il Cortegiano una struttura della discussione rigida come ad esempio nella struttura della narrazione del Decameron.

L'ultimo capitolo anzi chiude con la promessa che la sera seguente la compagnia sarà di nuovo riunita per continuare i ragionamenti su un argomento importante.

Se le donne sono così capaci dell'amor divino come gli omini, o no.

Il ragionamento, al contrario del gioco in senso stretto, può infatti espandersi nel tempo indefinitivamente e deve essere una decisione del gruppo a fermarlo come nelle sfide di certi giochi d'azzardo.

Nel corso dei ragionamenti alla corte d'Urbino occorrono piccole sfide tra i cortigiani in cui si mettono sul tavolo le proprie opinioni.

La forma di dialogo scelta da Castiglione, più vicina alla forma ciceroniana che non a quella platonica, permette all'autore di portare sulla scena le varie opinioni senza farle scontrare violentemente.

I cortigiani stessi alla fine si trasformano in maschere, in tipi con un carattere particolare.

Lo spazio dove i cortigiani giocano è però lo stesso spazio in cui esercitano la loro professione, anche se in stanze diverse.

Il tempo del gioco è diverso dal tempo in cui sono impegnati nel loro lavoro, ma è pur sempre tempo della corte, cioè tempo regolato perfettamente dalla vita in corte.

Il gioco cioè, come le cerimonie e le rappresentazioni teatrali, fa parte della vita reale della corte, la quale si definisce proprio come spazio della festa e del gioco.

Inoltre i cortigiani, nel momento in cui fanno il gioco del cortigiano, giocano a definire se stessi.

Se ritorniamo alla definizione della mimicry data dal Caillois, possiamo dire che questo gioco del cortigiano non è altro che una mimicry rovesciata.

Invece di costituire un'altra realtà il cortigiano si sforza in questo gioco di costituire la sua realtà. Più che farsi credere un altro, imitare qualcun altro, egli sta cercando di rendere credibile la sua figura, di proporsi come modello da imitare.

Il gioco invece di opporsi alla realtà, essere quindi finzione, come il teatro, vuole stabilire la realtà, costruire una figura sociale che in quei tempi di profondi contrasti e cambiamenti stava correndo il rischio di essere considerata una finzione.

Durante il Cinquecento si sono scritti diversi dialoghi sul gioco e su giochi particolari.

Nel 1572 veniva pubblicato il Dialogo de' Giuochi di Girolamo Bargagli che rappresenta un importante momento riflessivo sul gioco come divertimento di società.(10).

In questo dialogo il Bargagli ricorda un periodo felice della vita sociale di Siena, quando i senesi si riunivano in vegghie per divertirsi. Il suo è un vero e proprio memoriale, dato che i tempi non sono gli stessi e il Bargagli stesso è costretto a dedicarsi soltanto alla professione legale. Il dialogo, che si finge ebbe luogo all'interno dell'accademia degli Intronati, coinvolge Marcantonio Piccolomini, fondatore di essa, e pochi altri accademici. Le vegghie vedevano protagonisti gli stessi membri dell'accademia, che, dopo aver faticato nello studio o negli affari quotidiani, andavano a trovare le lodatissime donne senesi per ricrearsi l'animo e per divertire le signore: i giochi sono infatti considerati utili strumenti per rendersi grate le donne. Che giochi si praticavano in questi primi salotti del bel mondo? Gli accademici

né volevan dare tutto il giorno o tutta la notte al danzare, come in alcuni luoghi si costuma, parendo forse loro che ciò fosse intertenimento troppo commune, e dilettandosi di vedere anzi la destrezza dell'ingegno, che la leggiadria della persona; né anche piacendo loro il giuocare a carte, come cosa che tenga sospeso e conturbato l'animo più tosto che lo rallegri e lo ricrei, di qui è, che oltre a' ragionamenti e oltre alle rime, sempre a gli Intronati conveniva pensare a qualche nuovo e dilettevol modo d'intertenerle. [p. 58]

Anche dai passatempi senesi allora si escludono i giochi di carte, con la stessa giustificazione data dal Castiglione, ed il Bargagli concentra tutta la sua attenzione sui giochi di società. Il gioco non è più praticato nelle stanze della corte, ma nel libero spazio dei salotti di privati cittadini: il luogo privilegiato della conversazione civile. In questo spazio oltre alla recita di rime e a discorsi vari, predomina il gioco e lo scherzo perché lo scopo della serata è divertire le donne. Dice il Bargagli che fra tutti i diporti che si possano a ricreazione de gli animi nostri ritrovare, quello della conversazione di nobili e virtuose donne par che sia il più bello e il più degno [p. 57]. All'interno di questo spazio, il Bargagli, dopo aver dichiarato che alle veglie senesi si deve l'invenzione o la ripresa creativa dei giochi di società, non ammette che si pratichino tanti altri giochi:

Né quando io dico giuochi, penso che de' giuochi publici intendiate, quali erano già li scenici, né di quelli che dal farsi ogni cento anni secolari si chiamavano, i quali per rallegrare e per dilettare il popolo si facevano. Né meno di quelli, ne' quali si soleva essercitare la gioventù di Roma e di Grecia lottando, correndo e lanciando. Né anco di quelli altri, che o colle tavole, o colle carte, o co gli scacchi si fanno, perciò che questi, non pur da' ragionamenti, ma da' nostri pensieri hanno da esser lontani, se non quanto la necessità della compagnia ce ne sforza, o la creanza della conversazione ce lo comanda. Giuoco ancora, quando significa burla o scherzo, non è quello di che parliamo, se non in quanto che ne' nostri giuochi, ancor giuoco cioè piacevolezza desideriamo. Là onde il giuoco del qual ragioniamo, è quello che per diletto si propone e si essequisce, come poco appresso diremo, in nobil compagnia. [p. 68-69]

Vengono quindi esclusi dalla pratica dell'alta società non solo i soliti giochi di carte e di tavoliere ma anche gli esercizi fisici, che erano ancora consigliati dal Castiglione al suo cortigiano-cavaliere. Proprio contro il Castiglione, il Bargagli, un poco più avanti nel suo dialogo, solleva dei dubbi. Esclude infatti che il gioco proposto dal Bembo possa dirsi tale, in quanto questo gioco non permetteva variazioni e risultava quindi noioso. E attacca anche il gioco principale del libro del Castiglione: né anche conveniva giuoco chiamare, il formarsi da uno come dovrebbe esser fatto un perfetto cortigiano e le condizioni e le qualità che gli converrebbono, perché ciò, più tosto discorso o ammaestramento, che giuoco, doveva chiamarsi [p. 70-71]. Neanche il gioco del narrare del Boccaccio riceve parere favorevole dal Bargagli, perché in generale raccontare non significa giocare. Tuttavia il Boccaccio viene salvato perché il narrare della brigata è regolato in modo tale che i partecipanti possono variare su uno stesso tema. Il concetto di variazione è infatti centrale nella definizione di gioco data dal Bargagli:

una festevole azzione d'una lieta e amorosa brigata, dove sopra una piacevole od ingegnosa proposta fatta da uno, come autore e guida di tale azzione, tutti gli altri facciano o dicano alcuna cosa l'un dall'altro diversamente, e questo a fin di diletto e d'intertenimento. [p. 69]

La definizione del Bargagli è estremamente generica, ed anche se nelle pagine seguenti l'autore si sofferma a classificare i giochi in giochi d'ingegno e giochi di scherzo, e varie altre sottocategorie, dal suo argomentare non viene fuori un'idea precisa di gioco. Proprio perché lo spazio dato alla creatività dell'individuo è ampio e perché si tratta di giochi in cui più che cambiare nella struttura - quasi sempre nella forma di domande e risposte - si variano i temi, che riguardano in modo particolare la sfera dell'amore civilizzato. Sono giochi che richiedono una prontezza nel saper trovare risposte intorno al tema o alla situazione proposta: insomma giochi della conversazione, nel senso di competenza linguistica - adoperare acutamente gli strumenti della comunicazione - e competenza sociale - conoscere le regole di convivenza civile. A volte il gioco richiede anche dei gesti e dei movimenti, come su una scena o su un tavoliere.

Il gioco in questa società cittadina ed accademica è ancora una volta della dimensione della mimicry in quanto non fa che perpetuare le strutture sociali che accolgono l'intrattenimento. Dalle trovate ingegnose negli studi dell'accademia si passa alle trovate ingegnose dei giochi delle vegghie, dalla ricercata urbanità della vita sociale delle classi alte si passa alle urbanità delle serate senesi, dai giochi d'amore della realtà ai giochi d'amore del passatempo. Il gioco mima la realtà e la realtà viene vissuta come gioco: i confini ancora una volta sono sempre più labili. Escludendo i giochi veri e propri, fortemente strutturati attorno a delle regole e nettamente opposti alla realtà circostante che viene sospesa, questi giochi della conversazione invece rendono fluido il passaggio dal tempo reale al tempo ludico. Il gioco della conversazione coinvolge tutta la realtà attorno ad esso: quando due giocatori si appressano alla scacchiera, solo loro sono i protagonisti. Nei giochi della conversazione vengono invece coinvolti tutti i soggetti che si trovano in quello spazio, il praticello la stanza il salotto, dagli ospiti nobili, ai servi di casa. Anche per questo aspetto i giochi della conversazione si distanziano di meno dalla realtà sociale che li produce. La società aristocratica appassionata di questi intrattenimenti, vedeva in essi un momento di autocelebrazione e di autodefinizione. La vincita che si otteneva da questi giochi non consisteva in nulla di materiale, ma in qualcosa di molto importante: si trattava di impadronirsi della sociabilità, la capacità di stare e ben figurare in società.

Di tutt'altro tono e contenuto è il dialogo Il Gonzaga secondo, overo del Giuoco scritto dal Tasso nel 1582.

In questo dialogo Tasso non menziona affatto i giochi della conversazione e la sua attenzione è rivolta più che altro ai giochi fortemente regolati.

La situazione in cui si svolge il dialogo è molto singolare. Si tratta infatti di un dialogo a tre tra Giulio Cesare Gonzaga, Annibale Pocaterra e Margherita Bentivoglia, il cui marito, il conte Alfonso Turchi, insieme ad altri cavalieri, stava giocando a primiera: in questa micro-società si discute sul gioco e nello stesso tempo si gioca a carte. Tasso incomincia col richiamare i giochi atletici dell'antichità che si facevano durante esequie, ed i giochi pubblici e privati dei romani. La breve definizione di gioco data dal Pocaterra, una contesa di fortuna e di ingegno fra due e fra più, abbraccia i giochi dell'alea e dell'agon che sono quelli che più interessano Tasso. Subito dopo questa definizione, Tasso applica il concetto di gioco ad una vasta serie di azioni umane:

G.C.G.: Ma crediam noi, o signor Annibale, che ne la corte di fortuna e d'ingegno si contenda fra' cortegiani?

A.P.: Credo veramente.

G.C.G.: E ne le scuole fra i filosofanti?

A.P.: E ne le scuole fra' filosofanti.

G.C.G.: E ne la guerra fra' soldati?

A.P.: E ne la guerra ancora.

G.C.G.: E così in tutte l'arti e in tutte l'azioni di fortuna e d'ingegno si
contende?

A.P.: In tutte.

G.C.G.: Dunque la vita è un giuoco, o signor Annibale: onde ben io dissi che mirabile era la diffinizione ne la quale la vita avevate diffinita. E se ciò è vero, più non mi pare che si possa dubitare se lodevole sia il giuoco di quel che si dubiti se 'l viver sia degno di lode. [p. 226]

Il gioco assomiglia così perfettamente alla vita poiché entrambi sono una lotta tra fortuna ed ingegno, i quali rappresentano il tema filosofico della discussione riportata nel dialogo.

Già nella lettera di dedica ad Alessandro Pocaterra si evidenza il contrasto tra questi due motivi.

Questo picciolo dialogo nel quale si discorre del giuoco, operazione che tanto più artificiosamente si fa quanto meno a l'arbitrio de la fortuna soggiace, io dono assai volentieri a voi, signor Alessandro, acciò che con la vostra prudenza mi consigliate in modo ch'io niuna azione di questa vita, ch'è quasi un giuoco, a la fortuna sottoponga. [p. 217]

Un altro aspetto che Tasso considera preminente nel gioco è quello dell'imitazione: egli ha così identificato le stesse caratteristiche ritrovate dal Caillois nel gioco.

Tasso riscontra una tendenza mimetica nei tornei, nelle corse e nelle lotte, nei giochi di carte e negli scacchi, sino a definire come gioco la poesia, arte imitativa per eccellenza, soprattutto quella portatrice di diletto.

I giochi che più interessano il Tasso sono gli scacchi, di cui dà una breve descrizione e storia, e i giochi di carte, in primo luogo il gioco della primiera. Questi due tipi di gioco rappresentano i due poli della fortuna e dell'ingegno: la vittoria che si ottiene nei giochi di fortuna come le carte è meno grata di quella che si ottiene nei giochi in cui è coinvolta l'intelligenza del giocatore. Tutta la parte finale del dialogo è dedicata al ruolo che ha il denaro, alla psicologia del giocatore quando nel gioco si scommettono dei soldi, alla fortuna e al caso. Si può quindi concludere che il dialogo del Tasso, che poi è una specie di zibaldone di idee provenienti da tanta letteratura sul gioco - ed uno studio delle fonti tassiani sarebbe auspicabile - ignorando i giochi di società e concentrandosi esclusivamente sul gioco regolato e tradizionale, sia un testimone del vasto interesse che si ebbe per i giochi regolati in questa epoca. Si potrebbero avanzare delle ipotesi sul perché Tasso abbia tralasciato i giochi della conversazione, per concentrarsi su quelli fortemente regolati. Bisognerebbe, prima di formulare tali ipotesi, fare un'indagine vasta all'interno della sua opera, alla ricerca delle sue idee sul gioco.

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L'interesse per la conversazione in connessione col gioco, che abbiamo visto attraversa tutto il periodo, trova il suo punto culminante ne "La civil conversazione" di Guazzo.

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The interest for conversation, in connection with the 'joke' (literally, 'gioco'), which pervades the whole period of the Italian renaissance -- finds its apex in Guazzo's "Civil conversazione".

Nei primi tre libri

in cui si dialoga

- tra

Annibale Magnocavalli e
Guglielmo Guazzo, fratello dell'autore -

sulla conversazione in generale

e su quelle che si inscenano fuori e dentro casa,
si accenna diverse volte alla funzione del gioco.

---- Ditto for Grice who has:

'conversational game'
'rules in the conversational game'
'conversational rule in the conversational game'
'conversational move in the conversational game, according to the conversational rules' -- and so on.

--- cfr. Speranza, "Conversation game".

Il gioco, che viene presentato come ozio e quindi opposto alla vita dedicata al lavoro, è tuttavia moralizzato e limitato.

Per Guazzo esistono due tipi di ozi, quello vizioso, che nasce da una svalutazione totale del lavoro, e quello onesto.

"Tutti i negotij apportano seco fatica, et
stanchezza, onde bisogna usar a luogo, et tempo per medicina il riposo, e 'l piacere, i quali sono tanto necessarij alla vita nostra, che senza essi non potrebbe lungamente durare. Et perciò è cosa giusta, et sopra modo necessaria il darsi alcuna volta riposo, et richiamar l'anima da i gravi, et continovi pensieri.... Con tutto che sia honesto, utile, et necessario questo otio, non è però, che non vi si ricerchi un certo termine, oltre al quale non è lecito passare; percioche non siamo generati dalla natura in maniera, che habbiamo a parere nati al giuoco, et al piacere, ma più tosto alla severità, et allo studio delle cose gravi"

----

Già da questa limitazione del gioco nel tempo e nello spazio si può vedere come sia cambiata la prospettiva sia rispetto al Castiglione sia anche rispetto al Bargagli.

Il pensiero del Guazzo si può ridurre a questo motto:

Si giuochi per vivere, ma non si viva per giuocare.

L'autore, in queste stesse pagine, rivaluta il ruolo della ginnastica e della musica che, praticate insieme, temprano e rinforzano lo spirito dell'uomo, contro il troppo frequentare le donne - fattore principale di civilizzazione nel Bargagli - che rende invece lo spirito ozioso e debole.

Aggiungendo però che anche in queste compagnie ci si può ristorare esercitando l'ingegno nei ragionamenti.

Infine non c'è vero ozio che non comporti un minimo di fatica e di partecipazione fisica o intellettuale.

Guazzo loda i conviti familiari - nel quarto libro ne sarà ricordato uno a casa di nobili cittadini di Casale - contro i conviti solenni ed ufficiali in cui spesso si fa troppo rumore.

Spesso Guazzo paragona la civile conversazione ad un gioco.

Si è corretti parlatori quando si è capaci di cedere la parola.

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'l voler dir ogni cosa, et non ascoltar niente,
è una spetie di tirannia,
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a tale, che ne i ragionamenti vi

ha da intervenire tra chi dice, et

chi ascolta una corrispondenza, come

nel giuoco di palla

--------------------- [p. 183]. (excellent quote, I find).


Nel gioco della conversazione si mette in palio, ed è Guazzo a dirlo per la prima volta esplicitamente, la sociabilità:

:Io propongo la conversazione, non perche habbiamo a valercene principalmente ne i mercati, et nelle comedie, et nell'altre cose esterne sottoposte alla fortuna."

"Ma perche nel conversare s'apprendano i buoni costumi,
e le virtù, per mezo delle quali si dispensino, et
si conservino drittamente i beni della fortuna, et si
venga ad acquistar il favore, la benevolenza et
la grazia altrui"

[p. 139-140] ---- note Grice

on

conversational benevolence
and self-interest.

Il guadagno che si ottiene dalla civile conversazione è quindi principalmente sociale e conseguentemente economico.

In questa società prospettata dal Guazzo, cittadina e democratica in senso lato, i soggetti sociali debbono sottostare alle regole della convivenza sociale.

E queste regole si riducono per il Guazzo sopratutto al rispetto dei confini tra le classi.

Nel conversare si

vuol cedere al maggiore,

persuadere con modestia il minore,

et consentire all'eguale, et che con questa via non si verrà mai ad alcuna contesa [p. 197].

Le contese sono contro la civile conversazione, e tutto il discorso guazziano è diretto a stabilire delle regole per evitare gli scontri sociali.

In questo progetto sociale del Guazzo si applica quindi la stessa avversione che la società cortigiana aveva per la contesa e l'agonismo.

Ma mentre in quell'ambito di finzioni valevano regole di etichetta accettate da una classe particolare, per cui le contese tutt'al più creavano turbamenti d'animo, nell'universo guazziano si tratta di regolare la società civile in cui più classi vengono a contatto, e le contese potrebbero portare al caos sociale.

Lo stare insieme deve produrre non solo piacevolezza e diletto, ma anche conoscenza e scambi d'opinione.

----- that is an excellent Griceian word: 'scambi d'opinione'.

Il modello da seguire è infatti l'accademia.

Nella civil conversazione ad economia accademica il gioco, nella sua variante agonistica come contesa intellettuale, fa da struttura portante.

Nel processo di acquisizione del sapere la conversazione soppianta il ruolo del libro.

Gli orecchi prevalgono sugli occhi.

Sono le dispute intellettuali che si trasformano in giochi agonistici collo scopo di arrivare al sapere.

Sopra tutte l'altre cose hanno forza di risvegliar gl'intelletti quelle virtuose contese, che nascono fra letterati, i quali disputando imparano, et quel che in tal modo imparano, lo sanno meglio, et meglio l'espongono, e più tenacemente lo fermano nella memoria, e mentre cercano a pruova l'un l'altro di prevaler con ragioni, si viene al perfetto conoscimento delle cose.

E perciò si suol dire, che la disputa è il cribro della verità, et perche la verità si cava dalle intelligenze communi, non si possono apprendere queste intelligenze se non co 'l pratticare."

In Guazzo quindi si nota in generale una tendenza a rivalutare il gioco agonistico, ma per fini pedagogici più che di intrattenimento.

Anche in lui troviamo accennata una condanna dei giochi di carte e di dadi che sono praticati dai servi, i vizi dei quali sono il vino, il giuoco, e 'l mal dire.

Si vedevano ai tempi del Guazzo, specialmente nelle terre del Piemonte e del Monferrato, attraversati continuamente da eserciti stranieri, nobili e cavalieri giocare a carte nelle pubbliche piazze, ma Guazzo li vuole scusare perché i costumi sono cambiati, l'uso è gran tiranno, e perché questi cavalieri fanno ciò per trastullo.

Ma in generale Guazzo afferma che le piazze deono servire alla plebe per li mercanti [sic: mercati?], et a nobili per le giostre, per li tornei, et per quei lodevoli spettacoli, et trattenimenti, ch'appartengono più alla cavalleria, et all'arte militare, che i dadi, et le carte.

Nel quarto libro si fa la cronaca di un convito familiare a casa della signora Caterina Sacca Dal Ponte, a cui partecipano alcuni cavalieri e dame di Casale ed in cui si tengono dei discorsi e si fanno dei giochi.

All'inizio del convito si decide di nominare democraticamente, e cioè a caso, chi deve reggere la serata.

Si fa per questo un gioco che ha come strumento niente poco di meno che il Canzoniere del Petrarca, il quale aperto a caso dovrà dare il responso.

I partecipanti scelgono un numero, indicante il verso a cui vogliono essere associati.

Esce il sonetto CCLXVII e la signora Giovanna Bobba, la quale aveva scelto il settimo verso, che in questo sonetto fa Alma real dignissima d'impero, viene eletta regina della serata.

Si noti che alla serata partecipa anche il Principe Vespasiano Gonzaga, a cui non viene dato nessun potere di organizzare il gioco.

Egli stesso si schernisce invitando i membri del gruppo a considerarlo semplicemente huomo privato, anche se la regina gli assegna il titolo di giudice, insieme al Cavalier Bottazzo.

Alla corte la gerarchia era attentamente rispettata e la gerarchia del gioco era leggitimata da quella reale, nella casa privata di un cittadino nobile la gerarchia non esiste più e quella del gioco si costituisce per caso.

In questo convito, che si articola in prima, durante e dopo cena, c'è un'alternanza tra discorsi e giochi.

Come abbiamo visto, per Guazzo non si può passare tutto il tempo dilettandosi, bisogna trovare anche degli argomenti di discussione.

Più leggeri di quelli trattati nelle accademie tardo-cinquecentesche, ma pur sempre a carattere serio.

In quel convito si discusse infatti se ci sono più morti che vivi, sul bere e sul mangiare eccessivamente, sul vino, sulla malinconia, sull'allegria e sul comunicare con la persona amata attraverso gli occhi o le orecchie, tema che con vari altri argomenti amorosi conclude la serata.

Anche ne Il Cortegiano si trovano dei ragionamenti, ma inseriti nel macro-gioco del formare la figura ideale.

Nelle serate dell'alta società senese del Bargagli si facevano anche delle discussioni ma il momento più importante era rappresentato dai giochi.

Diverso è il caso del Guazzo.

Infatti gli unici due giochi che vengono effettuati in questa serata si svolgono subito prima e poco dopo la cena ed hanno come argomento proprio il tema centrale del libro del Guazzo: la solitudine e la conversazione.

Nel gioco della solitudine i partecipanti devono indicare un luogo in cui essi vorrebbero trovarsi da soli, dire il perché e fare seguire il tutto da un proverbio.

Dopo il primo turno i giudici danno la palma della vittoria alla padrona di casa che aveva scelto il monastero, con il proverbio quanto piace al mondo è breve sogno, luogo solitario per eccellenza, come aveva affermato Guazzo nel primo libro.

La vincitrice, prigioniera di questo luogo solitario, viene liberata e quindi reinserita nella vita collettiva: la vincita del gioco della solitudine è di essere accolti nella conversazione da cui ci si era allontanati.

Agli altri, i giudici impongono la soluzione di indovinelli supplementari prima di poterli liberare dalla loro prigione.

Il gioco della conversazione è un po' più complicato e le donne che partecipano alla serata hanno un primo momento di sgomento e invitano gli uomini a precederle nel gioco.

Quasi per punizione la regina sceglie Ercole Visconte, amante della solitudine, a condurre questo gioco e a darne le regole, che sono le seguenti:

havremo ciascuno di noi ad imaginarci qualche cosa, la quale sia causata da due altre insieme congiunte, come per essempio un pesce si pigliasse con due cose congiunte, che sono l'esca, et l'hamo, onde io potrò dire, Io vi presento un pesce, che hanno preso conversando insieme l'hamo, et l'esca.

Come si può vedere in questo strano gioco il termine "conversazione" assume un significato più ampio di quello moderno.

Qui significa semplicemente, andando alla radice del termine ed al suo concetto astratto, unione, legame, connessione.

I partecipanti trovano delle soluzioni argute e presentano i loro oggetti ad un membro della comitiva di sesso opposto.

Ercole presenta alla regina una piaga che gli è nata dalla conversazione della bellezza con l'onestà della regina stessa, la quale, ignorando l'adulazione di Ercole, gli presenta una pianta di fiori, nata dalla conversazione della terra e del sole.

Dopo che tutti hanno presentato i loro oggetti frutto di accoppiamenti, i giudici decidono di far vincere la regina e il Gonzaga che escono dal gioco.

Gli altri continuano con una seconda parte del gioco.

Che ciascuno presentasse [al compagno/a] una cosa che fusse composta di molti.

Le soluzioni sono ad esempio: una ghirlanda composta di molti fiori, la vecchiaia fatta di molti anni, il miele fatto da molte api, ecc.

Altri due partecipanti vengono scelti come vincitori ed escono dal gioco.

Ercole propone la terza parte: che si nominassero due cose, le quali conversino bene insieme.

Si risponde con: la nobiltà e la ricchezza, lo storpiato e il cieco, ecc.

Restano alla fine la signora Francesca, moglie di Guazzo, ed Ercole stesso che propone come gioco finale di dire due cose, che male s'accordino insieme.

La risposta della signora Francesca, due rivali in una servitù, viene considerata vincente ed Ercole Visconte, che ha perso tutte le gare, è molto felice perché nel gioco della conversazione è riuscito alla fine a restare solo, lui che ama la solitudine.

Per punizione i membri del gruppo vogliono bandirlo per tutto l'inverno dalla compagnia.

Ma Ercole, che non vede come può vivere senza frequentare la compagnia, li prega di non applicare questa severissima pena.

La regina decide che Ercole, per riscattarsi, dovrà rispondere argutamente a dei quesiti posti da tutti i partecipanti.

Le domande sono di questo tipo: a chi si devono rivelare i segreti (ad un bugiardo, risponde acutamente Ercole, perché nessuno gli crederà).

A che cosa somiglia la morte (alla donna); a che cosa somiglia la donna (alla bilancia); le cose più dannose al mondo (il fuoco, il mare e la donna); ecc.

Piacciono queste risposte, anche se un po' troppo misogine ma in sintonia con il personaggio, ed Ercole viene reintegrato nella conversazione.

Ci siamo soffermati nel descrivere questo gioco per far vedere come esso rientri perfettamente nell'ambito dei giochi di società che hanno come strumento la comunicazione, la parola arguta, la risposta salace.

Ma al contrario dell'abbondanza di giochi di questo tipo che riscontriamo nel dialogo del Bargagli e che ritroviamo anche nei Cento giuochi liberali del Ringhieri, che non è altro che un catalogo di giochi di società, qui i soli due giochi ricordati dal Guazzo sono quelli che rimandano direttamente alla tematica trattata nella parte teorica del libro.

I giochi della solitudine e della conversazione non fanno che ribadire la necessità di vivere insieme. Inoltre questi due giochi sono attorniati da ragionamenti su argomenti seri o pertinenti la vita di tutti i giorni. La funzione dei giochi viene quindi ridimensionata: non sono più infatti tempi, quelli del Guazzo, di tanta allegria e spensieratezza.

D'altra parte fornendo le regole della civile conversazione, Guazzo trasforma la vita sociale in un grande gioco.

Il tavoliere in cui si gioca questo gioco viene diviso da lui in dentro casa e fuori casa, vita domestica e vita sociale, e lo scontro avviene tra queste pedine: fuori casa

giovani/vecchi,

nobili/ignobili,

privati/principi,

dotti/indotti,

cittadini/forestieri,

secolari/religiosi,

uomini/donne;

in casa

marito/moglie,

padre/figlio,

fratello/fratello,

padrone/servitore.

Queste sono le pedine del gioco della civil conversazione, i soggetti che si scontrano nella società prospettata dal Guazzo.

Nell'epoca moderna i giochi della conversazione e di salotto, come si sa, sono spariti completamente, anche se recentemente sembra esserci un loro ritorno, riproposti in diverse forme dall'industria dei giochi.

Contro la conversazione c'è stato un attacco frontale proprio all'inizio dell'epoca moderna e in particolare con il Romanticismo, in cui si è esaltato invece lo spirito solitario.

Nei salotti e nelle accademie dei lumi poi sono stati banditi completamente i giochi e le parole, a favore delle discussioni filosofiche e dei fatti.

Il gioco di società è perdurato e perdura ancora, ma è diventato gioco per bambini.

Utilizzato anche per stimolare l'apprendimento linguistico ed intellettuale del bambino.

Caillois non è d'accordo sul fatto che molti giochi col passare del tempo si deteriorano, e che il passaggio da una società ad un'altra, o da un epoca ad un'altra comporti il degrado di un gioco. Ma crediamo che questo esempio dei giochi di società possa ribaltare l'opinione dell'autore francese, il quale si preoccupava di tenere separate la sfera socio-antropologica da quella storica.

La società che si rispecchia nella conversazione, e nei giochi in essa giocati, viene, dal secondo Settecento in poi, cioè in epoca moderna, criticata per la sua frivolezza. Un solo esempio, estremo e per tale motivo buon testimone di questo cambiamento, potrà qui bastare. Restiamo nella sfera del gioco e apriamo un libro anonimo intitolato Trattato de' giochi e de' divertimenti permessi, o proibiti ai Cristiani, pubblicato a Roma nel 1768 da Michelangelo Barbiellini. Nella prefazione si dà la giustificazione, tutta da un punto di vista religioso, del gioco: dopo il peccato originale il lavoro, che prima era considerato una gioconda occupazione, diventa pesante fatica quotidiana. Per rimettersi in forze gli uomini hanno ora bisogno di un breve periodo di riposo. Il tempo permesso al riposo non deve comunque essere considerato come allettante alternativa alla fatica: è il lavoro, e la preghiera, che riscatta l'uomo dal peccato originale. L'anonimo autore ha intenzione di svalutare il gioco e di limitarne la presenza nella vita sociale. Dopo aver diviso i giochi in giochi di parole e giochi di azioni, in brevi capitoletti si passano in rassegna i giochi accettabili sia per i laici sia per gli ecclesiastici, ai quali ultimi vengono vietati quasi tutti i giochi. L'autore si scaglia contro le commedie e contro i giochi in cui prevale la fortuna e ammette come leciti solo i giochi d'industria o d'esercizio, cioè i giochi intelligenti degli scacchi, della dama, del biliardo ecc. e i giochi sportivi come la pesca e la caccia (ma i religiosi non devono usare armi).

Il capitolo che ci interessa maggiormente è il XX:

"Della conversazione".

Sembra ancora naturale inserire in un libro sui giochi, scritto nel XVIII secolo, un capitolo sulla conversazione che, come abbiamo visto, costituiva il tempo del divertimento due secoli prima.

L'anonimo autore si giustifica nella definizione.

La conversazione è il più comune, e ordinario sollievo degli uomini.

Ella è conveniente ad ogni sorta di persone, e a tutti reca piacere, attesa la naturale inclinazione, che abbiamo per la società.

La conversazione è ancora vista come lo strumento principale per riposare l'animo dopo le fatiche del lavoro, al contrario dei giochi regolati che pur sempre richiedono concentrazione.

Subito dopo questa definizione l'anonimo autore afferma come sia difficilissimo trovare persone oneste con cui conversare e passare il tempo.

Solo in una compagnia di persone virtuose c'è uno scambio di insegnamenti morali dove non s'impiega nè la forza, nè la violenza e la conversazione è utilissima per la correzione de' costumi.

Ma i buoni preferiscono vivere ritiratamente e non ci resta che conversare con i malvagi dai quali si apprendono tutti i vizi.

Quindi per vivere in questo mondo, nella conversazione con uomini bisogna essere estremamente prudenti.

Le conversazioni con le donne, praticate nei tanti salotti dell'epoca,
sono per il nostro autore da evitare assolutamente.

Ma quali avvertimenti si potranno dare a coloro, che frequentano le moderne conversazioni di sesso diverso, inventate per servire d'inciampo, e di ruina alle anime cristiane?

Bisogna pur confessare che una gran parte de' vizj e disordini, che in oggi tanto disonorano la santità del cristianesimo si debbono attribuire a questa sorta di conversazioni, come quelle che a ben considerarle altro non sono, che una scuola d'impudicizia, di fasto, di lusso, di vanità, ruina delle famiglie, scandalo della gioventù, perdita di tempo, e fomento delle umane passioni.

Le conversazioni, che sono state il culmine della vita associata delle classi aristocratiche del Cinquecento, sono ancora centri di raccolta, nei salotti delle signore del bel mondo, di giovin signori e della classe aristocratica di questa epoca.

In queste conversazioni sempre più si vede la corruzione e la fine di una classe incapace di riscattarsi socialmente.

La condanna del nostro autore anonimo, ma anche dei moralisti alla Parini, è totale:

Quelli che frequentano le moderne conversazioni, sono gli amatori del mondo, coloro cioè, che cercano di fare una bella comparsa in questo secolo, che amano il piacere, e il divertimento, e che tutta la loro occupazione mettono nel sodisfare alle proprie passioni.

Questi, che del cristiano non hanno altro che il nome, e l'apparenza, si radunano insieme con persone di diverso sesso vestite con tutta la gala, ed immodestia possibile, che hanno le medesime massime, ed inclinazioni, per passare molte ore in discorsi inetti e vani, e forse ancora equivoci, e lascivi.

Ognuno ha la sua Dea, alla quale rende i suoi ossequj, e adorazioni.

Ed è stimato sciocco o infelice colui, che non si sà acquistare l'amore di qualcuna.

Se deesi giocare, lo che è necessario per impiegare tante ore della notte, si uniscono a un tavolino quelle persone, che sono tra di loro più geniali.

Ma bisogna avvertire, che tra queste non ve ne sia alcuna che possa dar qualche soggezione, perchè ciò sarebbe un disturbare la compagnia, e una inciviltà.

Ivi gli sguardi, i sorrisi, gli equivoci sono i condimenti più graditi del gioco.

Si lascia libero il corso ai sensi, ed alle passioni, ed in somma altro non si cerca che il diletto, e il piacere.

Per la prima volta si guarda ai divertimenti delle classi aristocratiche dal di fuori, e da questa prospettiva s'innesca la critica.

I giochi del bel mondo sono visti dall'autore come un semplice ingannare il tempo, e non una necessità interna alla classe aristocratica per definirsi e perpetuarsi.

Si condanna insomma la vita associata dell'antico regime e i passatempi dei ricchi e dei nobili.

In coloro che essendo stati proveduti da Dio di sufficienti facoltà, non hanno bisogno d'attendere a qualche impiego per procacciarsi il necessario sostentamento. Sono costoro talmente trasportati per i divertimenti, che tutta la loro vita è una continua catena di spassi e piaceri, e ad altro non pensano, a che trovare nuove maniere e occasioni di divertirsi [p. 385]. Attraverso la voce anonima, in questo discorso moralizzante, parla una nuova classe che considera inutili e futili sia le conversazioni sia i giochi ad essa associati.

Il gioco della conversazione escludeva tutto un insieme di soggetti sociali che nel mondo moderno premono per essere riconosciuti come soggetti partecipanti al gioco della società.

Un passo di Huizinga può servire da conclusione a queste nostre riflessioni preliminari:

Non è stato difficile indicare, nello sviluppo di tutte le forme importanti della vita sociale, un fattore ludico particolarmente attivo e fertile. La rivalità sotto forma di gioco, come fautore di vita sociale più antica di qualsiasi cultura stessa, dominò il vivere umano sia dai primordi e maturò come un fermento le forme della cultura arcaica. Il culto sorse e crebbe in gioco sacro. La poesia nacque in gioco e continuò a vivere di forme ludiche. Musica e danza erano gioco puro. Saggezza e sapere si manifestarono in gare sacre. Il diritto dovette svincolarsi dal gioco sociale. Il regolamento della lotta con le armi, le convenzioni della vita nobile erano basati su forme di gioco. Si ricavò la logica conclusione che la cultura, nelle sue fasi originarie, viene giocata. La cultura non nasce dal gioco come frutto vivo che si svincoli dal corpo materno, ma si sviluppa nel gioco e come gioco.

Non è un caso che, per fare un esempio, nella Enciclopedia Einaudi sono registrate due voci:

«Giochi» (in cui Gilles-Gaton Granger discute della teoria matematico-economica dei giochi e dei giochi linguistici di Wittgenstein) e «Gioco» (in cui Valerio Valeri si occupa invece dell?aspetto psicologico-antropologico). Si vedano le due voci nel vol. 6 alle p. 798-812 e 813-823.

Johan Huizinga, Homo Ludens (Torino: Einaudi, 1973).

La prima edizione in tedesco uscì nel 1939 e la prima traduzione italiana dieci anni dopo. L?edizione del 1973 ha una prefazione di Umberto Eco. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine. (Milano: Bompiani, 1982). L?edizione francese è del 1967, questa traduzione italiana ha un?introduzione di Giampaolo Dossena.

Una prima ricostruzione, anche se veloce e sommaria, si può trovare negli ultimi due capitoli del libro dello Huizinga. Tuttavia non si è ancora pensato di fare storia «a partire» dai giochi.

Sugli sport si veda in particolare Carlo Bascetta (a cura di), Sport e giuochi. Trattati e scritti dal XV al XVIII secolo (Milano: Il Polifilo, 1978).

Sulle carte in particolare si veda Catherine Perry Hargrave, A history of playing cards and a bibliography of cards and gaming (Boston: Houghton Mifflin Co., 1930).
Sugli scacchi la bibliografia è troppo vasta per poter scegliere dei testi significativi.

Si veda Francesco Erspamer, La biblioteca di Don Ferrante. Duello e onore nella cultura del Cinquecento (Roma: Bulzoni, 1982).

Si veda questo passo dall?opera citata a p. 131: «Da un certo punto di vista, l?infinita diversità dei regimi politici dipende dalla preferenza che essi attribuiscono a uno o all?altro di due ordini di superiorità che agiscono in senso opposto. Devono scegliere fra l?eredità, che è caso, lotteria, e il merito, che è competizione. Alcuni si sforzano di perpetuare il più possibile le ineguaglianze di partenza mediante un sistema di caste o di classi chiuse, di mansioni riservate, di cariche ereditarie. Altri s?impegnano invece ad accelerare il ricambio delle élites, vale a dire a ridurre la portata dell?alea originale per aumentare in proporzione lo spazio riservato a un sistema di rivalità sempre più rigidamente codificato».

Nel Canto XV dell?Adone Venere propone ad Adone di giocare «perché ?l gioco i rei pensier discaccia / e d?ogni anima trista il duol acqueta, / per desviar dal?altre cure il core / vo? che?nsieme giocando inganniam l?ore» (XV, 113). E dopo aver elencato alcuni giochi di carte in cui «hanno il caso e la fraude assai potere» (117) gliene propone uno «in cui non abbia alcuna / possanza inganno o signoria fortuna» (ibidem), e cioè il gioco degli scacchi. Le ottave 119-138 sono una descrizione puntuale, sulla scorta di Girolamo Vida (Scacchia ludus: fonte riscontrata da Giovanni Pozzi nel suo magistrale commento), della scacchiera, dei pezzi e delle regole. Fino all?ottava 172 Marino riporta poi la partita tra Venere ed Adone.

Le nostre citazioni da Il Cortegiano provengono dall?edizione a cura di Amedeo Quondam (Milano: Garzanti, 1981). Il passo citato si trova a p. 21 [1, IV].

Thomas M. Greene, «Il Cortegiano and the Choice of a Game», in Castiglione. The Ideal and the Real in Renaissance Culture, a cura di Robert W. Hanning e David Rosand (New Haven: Yale University Press, 1983, p. 1-15). La citazione si trova a p. 3.

Ci serviamo di una recente edizione: Girolamo Bargagli, Dialogo de? giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare, a cura di Patrizia D?Incalci Ermini. Introduzione di Riccardo Bruscagli (Siena: Accademia Senese degli Intronati, 1982). Su questa importante opera si vedano dello stesso Bruscagli, «Les Intronati ?a veglia?: l?académie en jeu», in Les jeux à la Renaissance, a cura di Philippe Ariès e Jean-Claude Margolin (Paris: Vrin, 1982, pp. 201-212). Nello stesso volume sul nostro tema si vedano anche i saggi di Valerio Marchetti sempre su Bargagli, di François Lecercle su Innocenzo Ringhieri e di Carlo Bascetta sui trattati di sport. Importanti i saggi introduttivo e conclusivo dei due curatori.

Citiamo da Torquato Tasso, Prose, a cura di Ettore Mazzali (Milano-Napoli: Ricciardi, 1959)

Ci serviamo dell?edizione veneziana del 1575 pubblicata da Bartolomeo Robino. Si veda ora il volume collettaneo Stefano Guazzo e la civil conversazione, a cura di Giorgio Patrizi (Roma: Bulzoni, 1990). Per un'analisi generale del testo, che qui trascuro, rimando al mio saggio «Il discorso del gentiluomo» incluso in questo volume a p. 25-45.

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