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Saturday, July 2, 2011

Storia della lingua italiana

Luigi Speranza

"Non si può trovare una lingua
che parli ogni cosa per sé
senza aver accattato da altri".
-------------- Niccolò Machiavelli

Durante i secoli della dominazione romana il latino si era imposto sulle lingue indigene in Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Romania, mentre nella parte orientale dell'impero si era conservata la lingua greca.

Quando l'impero crollò, le lingue occidentali parlate prima d'essere influenzate dall'egemonia latina, presero il sopravvento e mescolandosi col latino parlato (assai diverso da quello scritto di Virgilio, Orazio o Cicerone) determinarono le nuove lingue romanze o neolatine.

Le invasioni germaniche dispersero la debole influenza romana nell'Europa centrale, settentrionale e orientale.

E così si formarono: in Francia, a nord, il gallo-romanzo, antenato del francese, a sud il provenzale.

In Spagna, al centro, lo spagnolo o castigliano, sulle coste atlantiche il gallego, antenato del portoghese, a est il catalano (simile al provenzale).

In Romania i contadini conservano la loro lingua di origine latina, che diventa ufficiale nel XVI sec..

*************

In Italia riemergono i vari substrati pre-latini, che però restano per molto tempo senza scrittura, in quanto alle necessità dello scrivere - testi scientifici, filosofici, teologici, giuridici- continuano a provvedere col latino gli ecclesiastici.

Tali substrati si mescolano con popolazioni straniere che, stanziatesi in territori diversi della penisola, parlano linguaggi completamente diversi:

Longobardi
Greco-Bizantini
Franchi
Arabi,

per citare solo i più importanti.

In una situazione del genere, il latino parlato evolve inevitabilmente per suo conto, mentre per la conservazione di quello scritto si preoccupa la chiesa.

E così il bilinguismo tra parlato e scritto riproduce, in un certo senso, il distacco fra le élites dotte e le masse degli analfabeti.

Non a caso nella funzione della messa l'aspetto liturgico vero e proprio viene recitato in latino, mentre l'omelia è sempre pronunciata in volgare (o comunque esiste l'obbligo, a partire dagli inizi del IX sec., di tradurla in volgare).

Ciò significa che è impossibile ricostruire la nascita dei vari dialetti italiani.

Delle trasformazioni del latino parlato si hanno pochissimi documenti ed essi non riproducono la lingua parlata del popolo nella sua genuina spontaneità, ma una lingua che il popolo potesse capire, elaborata quindi da intellettuali.

A tutt'oggi, le lingue diverse dall'italiano (parlate alloglotte di circa 600.000 persone) presenti nella nostra penisola sono le seguenti: franco-provenzale nelle Alpi piemontesi, in Val d'Aosta e in due Comuni della Puglia; provenzale nelle Alpi piemontesi e in un Comune della Calabria.

Tedesco nell'Alto Adige e in altre zone alpine e prealpine.

Sloveno in alcune zone del Friuli e nelle Alpi Giulie.

Serbo-croato in alcuni Comuni del Molise.

Greco in alcune zone del Salento e della Calabria.

Albanese in alcuni Comuni del Molise, della Campania, del Gargano, della Lucania, della Calabria e della Sicilia; catalano nel Comune di Alghero e in Sardegna. Quelle riconosciute come lingue ufficiali sono il francese in Val d'Aosta, il tedesco in Alto Adige e lo sloveno in alcune zone del Friuli.


--- DIALETTI ITALIANI -- LIGURE.

Se poi prendiamo la situazione dei dialetti italiani la situazione si complica incredibilmente.

Infatti all'interno di tre grandi gruppi di dialetti:

settentrionali,
toscani e
centro-meridionali (cui bisogna aggiungere i dialetti sardi e ladini), vi sono un'infinità di sottogruppi.

Per quanto oggi relegati a un uso quasi esclusivamente locale e familiare, continuano a sussistere, costituendo un bacino di risorse espressive per la stessa lingua italiana.

Non a caso è notevolmente aumentato il loro studio da parte degli specialisti.

* * *

In Italia le prime parole in volgare si trovano in una serie di iscrizioni latine (392, 404…).

Di regola i documenti che ci sono pervenuti sono stati compilati da persone che conoscevano perfettamente il latino e si sforzavano di comunicare in volgare, per fissare regole comuni, rapporti giuridici, contratti ecc.

Il famoso indovinello veronese, vergato da un amanuense che descrive con ironia la propria arte, risalente all'inizio del IX sec.:

Se pareba boves…,

manifesta una lingua certamente non più latina.

Il

Glossario di Monza

del X sec. ha 63 parole dell'Italia padana tradotte in greco.

Con la

Carta capuana

del 960 siamo addirittura in presenza, per la prima volta, di una frase in volgare indicante un giuramento formulato da un giudice ai testimoni.

Nel

1084

vengono trovate nella basilica di S. Clemente di Roma delle frasi ingiuriose in un affresco di pittore ignoto.

Il modello umbro, già presente nell'XI sec., raggiunge le sue più alte espressioni nelle Laude di Jacopone da Todi e nella poesia religiosa.

Particolare importanza hanno taluni documenti scritti in dialetto piemontese, come i 22 Sermoni subalpini del sec. XII, che presentano caratteristiche tipiche di tutta la famiglia dei dialetti settentrionali.

Il primo tentativo sistematico di elaborare una vera e propria lingua letteraria volgare, nella quale possano essere espressi contenuti di carattere profano e amoroso, è rappresentato dal cosiddetto linguaggio franco-veneto, che si afferma nella Padania, regione aperta agli influssi francesi e provenzali.

Esempi tipici di questa lingua sono le opere di Bonvesin da La Riva (1240-1313) e di Giacomino da Verona (seconda metà del XIII sec.).

C'è poi il modello bolognese, di cui sono esempi le glosse di Irnerio (1055-1125) al Corpus Juris Civilis di Giustiniano.

La cosiddetta "Glossa ordinaria" di Francesco d'Accursio (1182-1258).

Le opere del maestro di retorica Guido Fava (c.1190-c.1243).

E così fino a quando la prevalenza del volgare assumerà un suo punto di forza nel toscano e, particolarmente, nel fiorentino che, per la sua omogeneità espressiva e affinità strutturale è il volgare più vicino al latino: cosa resa possibile dal fatto che la Toscana fu relativamente la regione meno influenzata dalle invasioni barbariche.

* * *

La letteratura italiana
nasce e si sviluppa nel corso del XIII sec.


Essa nasce dotta e in un periodo in cui nuovi strati di intellettuali emergono dalla rivoluzione socioeconomica legata all'affermarsi dei Comuni (specie nell'Italia centrosettentrionale), che si verifica nel corso dell'XI sec. e soprattutto del XII sec.

I Comuni cioè tendono a trasformarsi in città-stato, in grado d'imporsi ai feudatari della campagna circostante e capaci di difendere la loro autonomia dalle interferenze dell'imperatore (il quale infatti con la pace di Costanza del 1183 sarà costretto a riconoscerla).

I Comuni possono eleggere i propri dirigenti politici, amministrare la giustizia, battere la moneta, armarsi.

Gli strati sociali più importanti sono quelli mercantili (commercianti, artigiani...), oltre a quelli professionali (giuristi, medici, maestri...), tutti legati a Corporazioni o Arti per tutelare i loro interessi.

Questi nuovi strati cittadini ebbero subito bisogno di intellettuali non più collegati alla Chiesa né di provenienza nobiliare.

Gli intellettuali però si muovono ancora in un clima culturale dominato dalla teologia medievale, anche se alcune correnti teologiche si vanno progressivamente laicizzando (ad es. lo Stato non è più visto come "braccio secolare" della Chiesa ma come una naturale forma associativa degli uomini).

Ciò significa che i primi intellettuali dei ceti mercantili e borghesi non potevano essere originali sul piano dei contenuti, però lo erano sicuramente sul piano della forma espressiva.

Infatti, la più importante caratteristica del nuovo ceto intellettuale è l'uso del volgare (cioè della lingua del popolo, in contrapposizione alla lingua dei dotti, della cultura: il latino).

Naturalmente l'affermazione iniziale del volgare avviene con molte difficoltà.

I problemi maggiori però non erano tanto quelli posti dai cultori laici ed ecclesiastici del latino, quanto quelli posti dall'esigenza di farsi capire sia dalle persone colte che dal popolo.

Da un lato infatti s'imponeva l'uso della lingua di tutti i giorni, dall'altro -essendo questa lingua divisa in tanti dialetti e scarsamente definita- c'era il rischio di creare una letteratura sempre subalterna al latino, il quale, nonostante non fosse più parlato dalle masse, restava la lingua scritta universale.

Di qui l'esigenza di trovare un compromesso.

E fu così che nacque una sorta di volgare "nobilitato" e illustre, adatto sia ai colti che al popolo, un volgare elevato alla dignità espressiva del latino.


"Le lingue non possono esser semplici,
ma conviene che sieno miste con l'altre lingue".
---- Niccolò Machiavelli

Il sec. XIII segna in Italia, con ben due secoli di ritardo rispetto alla Francia, l'inizio dell'affermazione del volgare scritto.

Il ritardo era dovuto al fatto che in Italia persisteva una tradizione letteraria classico-latina, sostenuta dal ceto ecclesiastico e anche dagli intellettuali laici che frequentavano le corti signorili, tenendosi ben lontani dalle esigenze popolari.

Sulla nostra letteratura in volgare cominciano ad esercitare una certa influenza due letterature neolatine sorte in Francia già nell'XI sec.

Quella d'OC o provenzale od occitanica (Francia meridionale), attraverso i poeti provenzali stanziati in Italia, e, in misura minore, quella d'OIL od oitanica (Francia settentrionale).

La lingua d'OC era ritenuta particolarmente adatta alle rime.

Quella d'OIL era ritenuta particolarmente adatta alla prosa.

In particolare, la poesia provenzale influenzò tutta la nostra lirica amorosa, per la tematica e per il rigore stilistico-espressivo.

Dalle corti feudali francesi si diffusero valori come lealtà, liberalità, discrezione, eroismo, l'amore inteso come passione irresistibile e dedizione assoluta.

Il poeta, come un vassallo, rende omaggio all'amata (una castellana), aspetta da lei un beneficio per la sua dedizione (che può anche essere un sorriso), soffre per la lontananza.

La letteratura in lingua d'OIL, costituita dalle canzoni di gesta eroiche, epiche e dai romanzi dei cicli carolingio e bretone (ad es. la Chanson de Roland, che narra le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i saraceni dilagati in Spagna.

Oppure Le gesta di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda, Lancillotto, Leggende di Tristano e Isotta ecc.), si mescola con la lingua veneta, producendo una letteratura non molto diffusa.

La prima espressione poetica italiana, attuata da una omogenea cerchia di intellettuali e rimatori, che seppero fondere influssi arabi, elementi indigeni, tradizioni franco-normanne coi motivi della poesia lirico-provenzale, si svolge alla corte palermitana di Federico II di Svevia, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero.

L'Italia meridionale, con questo felice esordio, entra a pieno titolo, seppure per breve tempo, nell'ecumene della lirica cortese, accanto a Catalogna, Francia del Nord, Germania renano-danubiana, Portogallo, Galizia e ovviamente Provenza.

Ciò che ha sempre stupito i critici è stata l'improvvisa apparizione di tale scuola proprio nella Magna Curia palermitana, visto e considerato che Federico II, una volta divenuto imperatore, non mostrò alcun particolare interesse nei confronti dei poeti-musici tedeschi, autori e cantanti del Minnesang (canzoni d'amor cortese). È probabile che l'impulso dato da Federico alla "traduzione" e all'adattamento in un volgare italiano del modello trobadorico, fosse dettato sia da ragioni politiche: suo obiettivo era quello di realizzare uno Stato italiano forte e accentrato e la diffusione del volgare (il cui nemico principale era il latino ecclesiastico) serviva certamente allo scopo; che da ragioni culturali: gli ambienti della corte sveva dovevano essere già permeati di cultura cortese; intellettuali e funzionari non siciliani come Pier della Vigna, Rinaldo d'Aquino, Jacopo da Lentini (cui è attribuita l'invenzione del sonetto) e altri ancora non potevano ignorare la presenza di diversi trovatori nelle corti dell'Italia settentrionale, o non essere a conoscenza di precedenti traduzioni della lirica d'OC in altre lingue (almeno in francese e in tedesco).

I poeti siciliani (Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, Cielo d'Alcamo, Giacomino Pugliese…), quasi tutti funzionari di stato (a differenza dei trovatori del Mezzogiorno francese, provenienti dalle classi più disparate), pur richiamandosi alla tradizione lirica provenzale, di questa rifiutano i temi dell'esaltazione delle imprese militari, gli insegnamenti morali, la polemica politica, la satira dei costumi, e accettano solo l'amore cortese, intendendo la poesia solo come evasione intellettuale. La tendenza amorosa comprende la passionalità che rende "schiavi d'amore", il dolore per il distacco dall'amata, l'esitazione a manifestare il proprio amore, le lodi della donna, il biasimo per i maldicenti-indiscreti-invidiosi. La donna spesso è immaginata bionda e raffinata.

La prima canzone scritta in siciliano è Madonna, dir vo voglio, del Lentini, che è un fedele rifacimento di una canzone di Folchetto di Marsiglia.

Ben più importante di questi contenuti è lo stile delle poesie. I poeti siciliani usarono come strumento linguistico di partenza il volgare dell'isola e non una varietà letteraria sovraregionale, come nella lingua dei trovatori. Il volgare siciliano viene perfezionato nel lessico e nella sintassi, modellandolo sull'esempio del latino usato dagli intellettuali e arricchendolo di molte parole provenzali tradotte.

Con la morte di Federico II (1250), cui seguì il rapido declino del dominio imperiale nel Mezzogiorno, conteso da Angioini e Aragonesi, la scuola ebbe termine. Quasi nessun manoscritto meridionale ci è giunto dei Siciliani, e i modesti poeti insulari del XIV sec. sembrano ignorare completamente i loro illustri predecessori.

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L'eredità dei poeti federiciani fu raccolta nell'Italia centrale dai cosiddetti poeti siculo-toscani (solo grazie ai canzonieri toscani oggi possiamo leggere, seppure in forma non originale, la poesia dei Siciliani), e in un ambiente culturale più avanzato: Firenze, dopo la battaglia di Campaldino (1289) era diventata una capitale economica europea, in fase di espansione per tutta la Toscana.

Il maggior poeta fu Guittone d'Arezzo (1235-94).

La tradizione siciliana viene dunque proseguita in Toscana perché molti intellettuali di questa regione erano vissuti per vario tempo alla corte di Federico II.

Qui i componimenti ispirati al tema dell'amore non si discostano dai motivi cari ai siciliani e ai provenzali, però la preoccupazione -essendo le condizioni politico-sociali delle città toscane molto sviluppate- è quella di fare una lirica dotta, erudita, in uno stile complesso-difficile-ricercato.

Inoltre non mancano i temi politici, soprattutto quelli dedicati a Firenze.

A Firenze si sviluppa la scuola più significativa di questo periodo. Rappresentanti principali sono Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti (quest'ultimo influenzerà notevolmente Dante). Qui il tema dell'amore viene purificato da ogni sensualità e diventa strumento di perfezione morale (che porta anche a Dio), per cui esso è patrimonio di pochi virtuosi.

La donna è angelicata, oggetto di contemplazione. Lo stile diventa molto raffinato-limpido-musicale. C'è molta più attenzione per l'interiorità psicologica, per i sentimenti profondi.

Lo stesso concetto di "nobiltà" ora si riferisce solo allo stato d'animo, agli intenti o all'ingegno.

Si sviluppa sempre in Toscana e si contrappone allo stilnovismo.

È l'espressione della piccola-borghesia comunale e degli strati popolari più attivi. Essa esalta ciò che la vita offre come piacere: vita gioiosa, spensierata, amore sensuale, piaceri materiali e immediati. La donna a volte è criticata perché considerata incapace di sentimenti disinteressati. Altri motivi sono la polemica e la satira politica contro i nemici personali, la caricatura scherzosa degli amici, l'anticlericalismo. Lo stile è mediocre perché molto vicino al parlato, adatto per una comunicazione immediata. Esponente più significativo: Cecco Angiolieri.

È quella di Francesco d'Assisi, che rifiuta i valori medievali fondati sulle rigide gerarchie e sulla guerra, i valori materialistici della nascente civiltà borghese-mercantile, i valori della religiosità ufficiale, che a livello teologico risultano incomprensibili alle masse e che a livello pratico risultano poco credibili. Poema principale: Cantico di Frate Sole (detto anche delle creature) del 1224. Si tratta di una lode degli elementi naturali (aria, acqua, fuoco, terra, sole) che rispecchiano -secondo l'autore- la bontà di Dio e che guidano l'uomo all'amore, al perdono dei nemici, alla serena accettazione della morte. È scritto in volgare umbro, semplice e comprensibile al popolo, benché sia ripulito dai termini dialettali e modellato sul latino.

Poi vi sono le laudi di Jacopone da Todi (francescano). Le migliori sono quelle a sfondo politico, ove egli attacca gli abusi del papato e i teologi che credono di poter trovare una giustificazione razionale della fede.

Anche i Fioretti di s. Francesco vennero scritti in un volgare di carattere popolare. Viceversa, la Leggenda di S. Francesco, di Bonaventura di Bagnoregio (1221-1274), che pure tratta della vita di un santo caro alle masse popolari, per ragioni di decoro venne redatta secondo i soliti canoni linguistici.

Rispetto alla produzione in versi poetici, la prosa volgare si afferma più lentamente, a motivo del fatto che in questo campo il latino deteneva un'assoluta egemonia, mentre il genere poetico (visto sopra) non aveva riscontri nella tradizione culturale latina del Medioevo. La prosa in volgare si afferma perché le nuove classi dirigenti borghesi hanno bisogno di esprimere culturalmente i loro interessi e la loro sensibilità in una lingua alla loro portata. La prosa d'arte in volgare risponde generalmente ad esigenze pratiche ed è costituita da cronache, resoconti di viaggio (si pensi al Milione di Marco Polo), raccolte di novelle, riduzioni enciclopediche, traduzioni in volgare di opere francesi e latine.

"Non ci stupisce pertanto se i
giudizi degli uomini,
che son presso che bestie,
stimano che una stessa città
abbia sempre parlato un medesimo linguaggio".
----- Dante Alighieri

**********************************

Il primo scrittore che pone il problema di una lingua nazionale e che elabora un tentativo per risolverlo, è Dante Alighieri.

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Il testo in cui ne parla è De Vulgari Eloquentia --

"Sulla retorica in volgare" --

-- scritto in esilio verso il 1304, in latino, perché rivolto ai chierici, cioè ai letterati di professione: è quindi un'opera specialistica.

Si interrompe al cap. XIV del II° libro.

Scrivendolo, Dante si rifà a quell'esigenza di unità linguistica, culturale e nazionale che molti intellettuali, anche prima di lui, sentivano in varie parti d'Italia.

Lo scopo del trattato è quello di definire un idioma volgare che possa conseguire un'alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all'egemonia del latino.

Dante era convinto che i tempi fossero maturi per trattare temi di alta cultura e di alta poesia anche in lingua volgare (dal latino "vulgus" = popolo).

Dante sostiene che in Europa si sono stabilite delle stirpi dotate di un triplice idioma:

germanico
greco
romanzo

-- quest'ultimo viene suddiviso in lingua d'OIL o francese, lingua d'OC o provenzale e lingua del Sì o italiana.

Il latino non è per Dante una lingua-madre o capostipite, ma la grammatica inalterabile per mezzo della quale i popoli riescono a intendersi al di sopra degli idiomi particolari, cioè è il prodotto di un'alta elaborazione logica, in quanto possiede una struttura grammaticale rigidamente definita e serve alla comunicazione dei concetti più complessi e difficili del sapere.

In tal senso il periodo migliore per gli italiani è stato, secondo Dante, quello romano-imperiale.

Dante individua, nell'ambito della lingua del Sì,

14 dialetti

distinguendoli in due gruppi secondo i due versanti tirrenico e adriatico dell'Appennino.

Egli ritiene che nessuno di essi possa aspirare a diventare il linguaggio eletto, comune a tutti i letterati italiani.

Lo stesso toscano non era che turpiloquium, e "infroniti" (dissennati) coloro che, solo perché parlanti, lo ritenevano il dialetto migliore.

La lingua nazionale si sarebbe potuta facilmente avere in Italia -secondo Dante- se ci fosse stata l'unificazione nazionale.

In questo caso, alla corte del sovrano si sarebbero riuniti gli ingegni migliori di tutta la nazione, e dal loro contatto quotidiano sarebbe nata una lingua che, senza identificarsi con un dialetto particolare, avrebbe ritenuto il meglio di tutti.

Non essendo politicamente possibile l'unità, il volgare illustre non poteva essere il prodotto di fattori storici e naturali, ma solo una costruzione artificiale di scrittori, poeti, ecc.

Una lingua scritta, non parlata o parlata solo in ambienti molto ristretti, da persone di rango elevate.

Si badi, Dante avrebbe voluto un volgare illustre non come sintesi suprema delle espressioni e delle parole più raffinate dei vari dialetti, ma come risultato di una progressiva liberazione dai limiti municipali delle varie parlate, dalle necessità pratiche e contingenti che rendono i vari volgari di scarsa dignità letteraria.

Il volgare illustre doveva diventare il prodotto di un processo di depurazione delle forme rozze dialettali che ciascun poeta e scrittore doveva compiere nei confronti del proprio dialetto, al punto da determinare, nelle varie regioni, risultati abbastanza simili.

Dante vedeva "in Italia -dice nel De Vulgari- un volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, quello che è di ogni città italiana e non appare essere di nessuna, col quale i volgari tutti degli italiani sono misurati, pesati, ragguagliati".

Egli diceva d'inseguire una "pantera" che s'aggira "per monti boschivi e pascoli d'Italia" (come fosse esiliata?), mandando ovunque il suo profumo, senza apparire in alcun luogo.

Quanto, in tutto ciò, Dante avesse consapevolezza della superiorità del proprio volgare, è facile intuirlo.

È lui stesso a dirlo.

L'unico volgare illustre ch'egli intende veramente salvare, per la poesia, è quello degli stilnovisti (in particolare Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e lui stesso) che ne hanno uno "egregio, limpido, perfetto, urbano".

Questa nuova lingua sprovincializzata doveva avere per Dante quattro caratteristiche:

illustre -- che dia onore e gloria a chi lo usa.

cardinale -- come un "cardine" attorno al quale devono ruotare le minori parlate locali.

aulico -- da "aula", cioè degno d'essere ascoltato in una corte regale.

curiale -- adatto all'uso di un'assemblea legislativa o senato.

Un'unica corte regale e un unico senato ancora l'Italia non li aveva, però le forze intellettuali, secondo Dante, costituivano potenzialmente la curia imperialculturale d'Italia.

Dante poi distingue, nell'uso del volgare,

lo stile elevato tragico (proprio della canzone) che può trattare gli argomenti più significativi.

Prodezza delle armi, amore e rettitudine, dallo stile medio o comico (che si addice alla ballata e al sonetto) e da quello umile o allegorico.

Nella "Divina Commedia" Dante diede il primo esempio di come fosse possibile usare il volgare (in questo caso il fiorentino) ottenendo effetti poetici di grande valore e affrontando astratti problemi filosofici, politici, culturali.

Petrarca e Boccaccio proseguono sulla strada da lui indicata.

Qui tuttavia va precisato che la lingua della Commedia è il fiorentino parlato medio e non tanto il volgare illustre di Firenze.

Si può anzi dire che l'opera sia plurilinguistica, a causa dei suoi molti gallicismi, latinismi, lombardismi, idiotismi vari e neologismi.

Dopo la morte di Petrarca (1374) e di Boccaccio (1375), per un secolo circa, i letterati italiani più colti interrompono l'iniziativa intrapresa nei primi decenni del Duecento di scrivere in volgare e ritornano al latino, non a quello medievale ma addirittura a quello classico della Roma antica.

Di qui il disprezzo per quelle opere di Dante, Petrarca, Boccaccio, ecc. scritte in volgare (benché Petrarca e Boccaccio, ad es., per il loro tormentato distacco dalla scala di valori umani e spirituali del Medioevo anticipassero in un certo senso i temi dell'Umanesimo).

L'uso del volgare, tuttavia, non scompare nel Quattrocento.

Coloro però che continuano a scrivere in questa lingua compongono opere che hanno un carattere più pratico che letterario e che si rivolgono a un pubblico poco o per nulla colto.

Gli stessi autori spesso erano di cultura inferiore.

I generi preferiti erano le prediche pubbliche rivolte agli umili, le laudi che continuavano quelle trecentesche, i cantàri, cioè poemetti epico-avventurosi, recitati sulle piazze; lettere, ricordi familiari, vite dei santi, trattati ascetici e soprattutto sacre rappresentazioni, che erano drammi sacri recitati in piazza da attori dilettanti.

L'attività letteraria in volgare ora non solo è subalterna a quella in latino, ma appare anche estranea ai valori, agli ideali e ai temi culturali proposti dall'Umanesimo e si presenta piuttosto come una prosecuzione di generi letterari e contenuti tipici della civiltà trecentesca, per quanto tale letteratura non affronti più i sottili e astrusi argomenti teologici della Scolastica, ma i problemi più concreti e quotidiani della spiritualità cristiano-borghese.

Paradossalmente, i contenuti più avanzati dell'Umanesimo (di carattere laico, razionalistico, naturalistico, ecc.) venivano espressi in una lingua sconosciuta al vasto pubblico, mentre la grande diffusione del volgare non implicava affatto una trasmissione di nuovi contenuti di vita.

Perché questo dualismo?

Perché gli intellettuali italiani, strettamente legati alle loro Signorie, non avevano più una preoccupazione di carattere nazionale e, nell'ambito delle loro corti, disprezzavano il popolo incolto e soprattutto erano convinti che la grande occasione del XIV sec., di creare un'Italia unita sotto un monarca la cui sovranità derivasse direttamente dal popolo, fosse definitivamente fallita.

Ecco perché, invece di proseguire sulla strada del volgare, diffondendo le loro idee laiche e progressiste, gli umanisti preferiscono rivalutare le lingue classiche, latino e greco.

Invece di concentrare gli sforzi verso un obiettivo comune: la democratizzazione della vita sociale, che portasse anche all'unificazione nazionale e la formazione di un unico mercato interno, i maggiori Comuni avevano preferito utilizzare le loro risorse culturali, politiche, economiche e militari per trasformarsi in Principati sempre più potenti e rivali tra loro.

La cosa più curiosa di questo trattato è che Dante, per fare l'apologia del volgare illustre, sceglie l'antivolgare per eccellenza: il latino. La motivazione è ch'egli intende rivolgersi ai "letterati".

Dunque, il volgare parlato da operai, artigiani, contadini, commercianti… può trovare per Dante una legittimazione all'esistenza letteraria solo se viene sanzionato da quel ceto di intellettuali che quando scrive usa il latino proprio per tenersi lontano dal popolo!

E non si può neppure dire che Dante sia stato il primo a comprendere l'importanza di mettere per iscritto gli idiomi popolari…

Prima di lui altri intellettuali si erano cimentati nell'impresa.

Si pensi a Francesco d'Assisi, Jacopone da Todi, la scuola siciliana, Guittone d'Arezzo, gli stessi stilnovisti cui lui apparteneva.

Alcuni critici hanno giustificato la scelta del latino dicendo che Dante, in realtà, era incerto su quale tipo di volgare chiedere agli intellettuali di usare per poter scrivere di alta poesia.

Egli cioè non si pose il problema dell'unificazione linguistica degli italiani.

Ma questa interpretazione è alquanto riduttiva.

Dante infatti non era solo un letterato, ma anche un politico e se, come politico, aspirava all'unificazione territoriale sotto l'egida imperiale (l'unica che secondo lui permettesse di superare gli antagonismi fra le Signorie), era davvero impossibile che non avvertisse, come letterato, il problema dell'unificazione linguistica (che il latino da tempo non era più in grado di garantire, se non appunto a livello di ceti intellettuali molto ristretti).

Un'altra cosa curiosa del trattato è che da un lato Dante vuol far l'apologia del volgare illustre (con cui sostituire il latino), dall'altro sottopone a critica serrata tutti i volgare della penisola, senza salvarne alcuno in particolare.

Cioè invece di mostrare agli intellettuali i meriti, i pregi di questo e quel volgare, li squalifica en bloc, mettendo una seria ipoteca sull'utilità del trattato stesso.

Persino il toscano (cioè la sua stessa lingua, quella che aveva usato per cantare le lodi di Beatrice) viene definita col termine di turpiloquium. Dunque perché atteggiamenti così contraddittori?

Qui si ha l'impressione che Dante misurasse il valore di tutti i volgari italiani col metro del proprio volgare.

Egli infatti riteneva sì il toscano un turpiloquium, ma da esso ovviamente escludeva la produzione letteraria degli stilnovisti e, in particolare, la propria (anche se poi si cela dietro la falsa modestia di non citarsi mai per nome).

Probabilmente il trattato non era rivolto, in astratto, al ceto degli intellettuali, ma, in concreto, a qualche corte principesca che, politicamente forte, sapesse poi far valere su un territorio abbastanza grande, il più grande possibile, la superiorità del volgare letterario di Dante.

"La bilancia capace di soppesare [le azioni da compiere] -egli afferma- si trova d'abitudine [???] solo nelle curie più eccelse".

A suo giudizio, infatti, occorreva scegliere un volgare piuttosto che un altro rispettando le condizioni "politiche" della "curialità" e "aulicità".

Dante mescolava di continuo i piani "letterario" e "politico", oppure li distingueva tenendoli però sempre ben presenti nell'economia delle sue trattazioni.

Qui abbiamo a che fare con un genio letterario di altissimo livello (cosciente di esserlo), politicamente su posizioni tardo-feudali, cioè lontano dalla sensibilità borghese emergente.

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L'animo di Dante è terribilmente aristocratico.
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A causa delle esigenze democratiche del suo tempo egli non poteva sostenere che il suo volgare letterario era il migliore di tutti (a causa dei risentimenti personali dovuti all'esilio egli non volle neppure sostenere che il fiorentino era il migliore di tutti.

Qui Machiavelli ha perfettamente ragione.

Tuttavia, egli, in nome del suo idealismo aristocratico, pretende che l'unificazione linguistica avvenga con mezzi politici (cosa che poi in effetti avverrà più di mezzo millennio dopo).

In sostanza, Dante, in quest'opera, non sembra voler discutere con gli intellettuali su quale volgare meriti l'onore di sedersi sul trono delle letterarietà; si chiede soltanto in che modo sia possibile che il volgare illustre usato dagli stilnovisti e, in particolare, da lui, possa sedere su questo trono, visto e considerato che sul piano politico non esiste alcuna condizione per poterlo permettere.

Mancando tali condizioni, un'opera come il De Vulgari non poteva che essere interrotta.

Il trattato quindi si presta a varie interpretazioni, avendo come background l'ambiguità fondamentale di un autore che è politicamente anacronistico rispetto al suo tempo, ma letterariamente di molto più avanti.

In Dante, in un certo senso, vengono riflesse le contraddizioni anche di quegli intellettuali che pur essendo politicamente più moderni di lui, non seppero mai cercare con le masse un rapporto organico.

Molti critici ritengono che Dante cercasse un volgare italiano come principio ideale, senza riscontri storici.

Cioè la sua intenzione non era propriamente quella di vedere nel fiorentino la lingua che la futura nazione avrebbe dovuto usare.

Il volgare illustre da lui cercato viene trovato solo in parte in molti dialetti e integralmente in nessuno, proprio perché la sua lingua ideale, "quintessenza del volgare in sé", non esisteva che nella sua mente.

Qui ci si può chiedere.

Può il pensiero di una persona essere interpretato sulla base di quello che la stessa persona vuol far credere?

E se si sostenesse la tesi opposta, cioè che Dante sottopose a critica tutti i volgari perché in realtà voleva perorare sola la causa del proprio, chi potrebbe negarla con prove indiscutibili?

Se il tentativo di Arrigo VII avesse avuto successo, Dante, che si accinse addirittura a scrivere il De Monarchia, non l'avrebbe forse interpellato, come politico e letterato, chiedendogli di diffondere per tutta la nazione il volgare fiorentino?

Non fece forse la stessa cosa il Manzoni coi Savoia, lui che non era neppure toscano?

Ma supponendo anche che Dante cercasse una "lingua pura", che andasse al di là delle parlate locali stricto sensu, per lui tutte difettose in questa o quella parte, non lo si dovrebbe forse criticare sempre di astratto idealismo?

Può forse trovare una qualche legittimazione l'estrapolare arbitrariamente il volgare illustre dalle tante parlate locali, quando proprio i "difetti" di una qualunque lingua sono le condizioni fondamentali che ne sanciscono la storicità?

Quando Dante esordisce nel trattato dicendo che "cercheremo [tra il vulgare italico] quale sia la più colta e illustre loquela in Italia", non è forse già partito col piede sbagliato?

Un volgare avrebbe potuto diventare "nazionale" solo perché considerato "illustre" dagli intellettuali, non perché ritenuto unanimemente più "popolare"?

Avrebbe dovuto dunque essere il popolo a prendere atto di una decisione presa a tavolino da una ristretta cerchia di persone?

vedi anche De Vulgari Eloquentia

"Conviene che le lingue abbino una comune intelligenza"
---- Niccolò Machiavelli

Il problema della ricerca di una lingua letteraria era naturale in un paese come l'Italia che, divisa politicamente e stratificata in classi sociali assai differenziate, adoperava, parlando, dialetti molto diversi tra loro.

Il latino veniva ancora usato nella trattatistica filosofica e scientifica, nei congressi dei dotti, nei tribunali (giudici ed avvocati parlavano in latino, gli imputati in volgare), nella medicina, nell'insegnamento universitario di tutta Europa. Tuttavia, nelle più comuni attività pratiche, nella corrispondenza epistolare dei dotti, nei rapporti diplomatici, nella storiografia l'uso del volgare tendeva a prevalere.

Nel '500 fu sentita vivamente l'esigenza di una lingua che fosse, nel contempo, nazionale (una per tutti gli scrittori) e letteraria (da potersi usare in opere di temi elevati e di forme eleganti).

Vi erano due fondamentali correnti che si fronteggiavano per risolvere il problema di quale lingua darsi a livello nazionale: una tendenzialmente democratica, l'altra chiaramente autoritaria.

Il più importante fu il vicentino Giangiorgio Trissino (1478-1550), allora il più popolare di tutti.

Nelle sue due opere

"Dubbi grammaticali"

e

"Il Castellano" (1529) egli, in polemica col Bembo e col Machiavelli, sostiene che la lingua italiana dovrebbe essere detta "italiana" per genere, mentre come specie si dovrebbe chiamare lingua toscana, siciliana ecc. (al pari delle lingue straniere: francese/provenzale; spagnolo/castigliano).

Trissino aveva posto per primo il principio della italianità della lingua.

Egli riconosceva il primato stilistico alla lingua toscana, ma negava che i vocaboli usati da Dante e da Petrarca fossero tutti fiorentini o toscani, essendo invece specifici di altre regioni o comuni a tutte le regioni.

Per cui rifiutava l'idea di dover imporre il fiorentino a livello nazionale.

Traducendo e divulgando il

"De vulgari eloquentia", egli cercò di convincere gli intellettuali del tempo che anche Dante, non avendo privilegiato alcun volgare particolare, fosse favorevole a un'idioma "italiano".

La lingua italiana doveva in sostanza essere il frutto delle parti migliori di tutti i volgari.

La lingua cortigiana, cioè delle varie corti d'Italia.

Il più importante fu il conte mantovano Baldassar Castiglione (1478-1529), che nell'opera Cortegiano (1528) e nella Lettera dedicatoria a Don Michel de Silva (1527) si mostra contrario all'esclusivismo del toscanesimo linguistico, parlato e scritto, e rivendica i diritti della lingua italiana comune, senza pregiudiziale esclusione di latinismi o arcaismi latineggianti (quando sanzionati dall'uso colto), lombardismi (ch'egli tendeva a preferire), forestierismi, neologismi…

Ognuno ha il diritto di scrivere nella propria lingua materna, diceva.

Regola d'oro per la scelta delle parole è il loro uso effettivo, a condizione che il parlato non sia sciatto.

Di qui l'uso spregiudicato, eclettico, meramente funzionale della sua lingua…

Secondo lui gli intellettuali che frequentavano le corti principesche erano garanzia sicura di un buon volgare.

Benedetto Varchi (1503-65), nella sua importante opera, Ercolano (1570), sostenne che la lingua parlata (che per lui era il fiorentino) andava considerata più importante di quella scritta, nel senso che un idioma può essere definito "lingua" anche se non produce opere letterarie, che sono sempre patrimonio di ceti intellettuali (viceversa il Bembo negava sostanza a una lingua che non avesse scrittori).

Norma fondamentale dell'idioma doveva essere l'uso popolare (parlato, vivo, attuale), a condizione che non fosse né triviale né sciatto.

Il fiorentino parlato -diceva Varchi- può anche essere di aiuto al volgare scritto, ma non è indispensabile all'uso scritto del parlare corretto.

Il miglior scrittore sarà sempre quello che mette per iscritto la propria lingua materna.

Il fiorentino, volendo, può anche diventare la lingua nazionale, ma senza imposizioni.

Il più importante autoritario era il veneziano Pietro Bembo (1470-1547) che nelle sue Prose della volgar lingua (edite nel 1525) mostra chiaramente d'aver capito, in quanto intellettuale borghese, il maggior valore pratico del volgare rispetto a quello del latino e, in particolare, quello del fiorentino su ogni altro volgare, ma, essendo di mentalità aristocratica, disprezzava la parlata del popolo minuto, per cui tendeva a rifiutare il volgare che usa locuzioni improprie, spurie, come p.es. in molti passi della Commedia dantesca.

Da notare inoltre che nelle tesi del Bembo sostanziale era la letterarietà della lingua italiana, non la sua fiorentinità, ch'egli invece considerava accidentale: Dante e soprattutto Petrarca e Boccaccio diventarono grandi non perché parlavano fiorentino, ma il fiorentino divenne grande grazie al loro genio. Tesi, questa, antitetica a quella del Machiavelli.

In sostanza l'unico criterio per accettare una lingua piuttosto che un'altra doveva essere estetico-stilistico, formale. In tal senso il volgare scritto del suo tempo, appariva al Bembo come di molto inferiore a quello trecentesco. Le sue idee comunque verranno poste a fondamento della compilazione del Vocabolario della Crusca (1612), destinato a diventare, grazie a soprattutto a Leonardo Salviati (1540-89), che fondò l'Accademia della Crusca (1583), un codice primario e perfino dispotico della lingua italiana per almeno un secolo e mezzo.

Il più importante fu Niccolò Machiavelli (1469-1527), che nell'opera Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (1524 ca.), edita solo nel 1730, mostra chiaramente l'esigenza di valorizzare la lingua pre-letteraria e autonoma, "tutta natura", del popolo fiorentino, su cui si fonda il linguaggio letterario-artistico dei dotti. A suo parere la lingua parlata e scritta del popolo italiano dovrebbe essere il fiorentino, a motivo della sua superiorità strutturale e stilistica, già riconosciutagli dalle corti di Milano e Napoli e da tante altre regioni italiane. Grazie al volgare fiorentino -dice Machiavelli- sono potuti nascere dei geni letterari come Dante, Petrarca e Boccaccio, i quali, a loro volta, hanno per così dire sanzionato la superiorità della loro lingua rispetto a qualunque altra. Lo scritto dunque deve basarsi sulla parlata viva dei fiorentini. Naturalmente Machiavelli era consapevole del fatto che, essendo in perenne movimento, anche il fiorentino, come ogni lingua, era soggetto a influenze esterne. Di questo tuttavia egli non si preoccupava, poiché riteneva che la lingua avesse valore solo come mezzo (di unificazione), e non come fine. Proprio per questa ragione nel suo Discorso egli critica duramente Dante che aveva definito il toscano come turpiloquium non perché fosse veramente convinto della necessità di una lingua sovraregionale (come voleva intendere il Trissino), ma semplicemente per motivi di risentimento politico nei confronti di Firenze (la mancanza di patriottismo per un politico come Machiavelli era il peggiore dei mali). In sostanza quindi Machiavelli considerava il primato del fiorentino come uno strumento politico-culturale per realizzare l'unità linguistica nazionale e, insieme, quella geo-politica sotto il dominio del principato fiorentino.

Il senese Claudio Tolomei (1492-1556) sosteneva che prima del fiorentino, il primato toscano era dei dialetti pisani e lucchese, per cui se una lingua andava imposta all'Italia questa doveva essere la toscanità attuale e parlata. Sue opere: Polito, Cesano e Lettere.

Vincenzo Colli, detto il Calmeta, sosteneva che il fiorentino di Petrarca e Boccaccio andasse mediato dalla lingua cortigiana dei papi (Leone X e Clemente VII), che per sua natura poteva fare da tramite comune a uomini di diverse nazionalità.

Le tesi del Bembo ebbero la meglio.

Sulla base di esse l'emiliano Ludovico Ariosto, che scrisse l'Orlando Furioso nel 1516, infarcendolo di padovano letterario e di latinismi, si sentirà indotto a rivederlo profondamente in senso toscano nel 1532. La conseguenza maggiore fu che nei primi decenni del '500 si costituì una lingua letteraria, sostanzialmente fiorentina, ma arcaica e aristocratica, in quanto non attingeva dal fiorentino vivo del '500, bensì da quello trecentesco di Petrarca e Boccaccio. Questa lingua fu adottata da tutti gli italiani che trattavano certi generi come la tragedia, il poema, la lirica, il trattato, la novella. Essa costituì la base della lingua letteraria nei secoli seguenti e la base della lingua nazionale, a detrimento delle realtà linguistiche regionali.

Naturalmente l'adozione di una lingua del genere, che non poteva essere appresa se non attraverso lo studio, accentuò le differenze di cultura e di gusto fra i diversi strati sociali italiani. La letteratura rifiutò sempre più di accogliere parole moderne o straniere (ivi incluse le idee che quelle parole esprimevano). Per i ceti subalterni gli impedimenti a un'ascesa culturale si faranno insormontabili. La loro lingua parlata retrocederà definitivamente a dialetto. Le tesi della Crusca, d'altra parte, erano tassative: gli "esterni" devono imparare dal popolo fiorentino la lingua viva; il popolo fiorentino dagli scrittori la lingua corretta, e gli scrittori dai maestri del Trecento. Per di più col Concilio di Trento (1545-63) la Chiesa fisserà norme precise che vieteranno tassativamente l'uso del volgare nella liturgia e nella traduzione della Bibbia; nel 1557 il Santo Uffizio emanerà il primo Indice dei libri proibiti.

Nella seconda metà del '500 nascono varie Accademie di studi che permettono ai fiorentini di prendere il sopravvento sui settentrionali e sugli stessi toscani. Il granduca Cosimo de' Medici chiede all'Accademia fiorentina di stabilire le regole della lingua toscana (1572); nel 1589 viene istituita la prima cattedra di lingua toscana a Siena. I primi vocabolari nascono nella seconda metà del '500. Non sono semplici elenchi alfabetici, come sarà quello della Crusca, ma impianti strutturati e suddivisi per temi. La Fabbrica del Mondo, di Alunno di Ferrara (1548) prevede, come sezioni: Dio, Cielo, Mondo, Elementi, Anima, Corpo, Uomo, Qualità, Quantità e Inferno. Lo scopo è quello di poter costruire il mondo e dominare la natura attraverso il linguaggio.

Quando Manzoni inizia a scrivere, nel 1812, Fermo e Lucia, la situazione della lingua italiana era penosa.

Da un lato si difendevano ancora, per l'uso scritto, le esigenze bembiane del classico purismo, in totale dispregio dei dialetti e in ossequio alla supremazia del fiorentino.

Dall'altro il letterato e la sua produzione letteraria erano lontanissimi dalle esigenze più popolari. Gli intellettuali scrivevano in una lingua che il popolo non poteva capire, anche a causa del proprio analfabetismo.

Basilio Puoti, Antonio Cesari e soprattutto Vincenzo Monti erano i fautori di un italiano dotto che escludesse rigorosamente il parlato.

Manzoni è uno dei primi, nell'800, a porsi il problema di come conciliare le due lingue ed è sicuramente il primo a porsi il problema di come risolvere la questione della lingua su un terreno sociale e politico.

Inizialmente, col Fermo e Lucia, egli tenta di risolvere il problema a livello regionale (Lombardia); poi con l'edizione definitiva del 1840-42, l'ambizione è quella di porsi su un piano nazionale.

Egli in sostanza scelse dei personaggi popolari della Lombardia, ambientò la storia in quei luoghi e dopo aver "sciacquato i panni in Arno", decise di farli parlare come dei fiorentini.

A suo giudizio le radici della lingua italiana andavano cercate solo in Firenze, cioè in quella città la cui lingua fa tutt'uno col dialetto, non è molto diversa dallo scritto ed è sostanzialmente parlata da tutti i cittadini.

Non avrebbe avuto senso fare un collage delle parlate migliori, poiché la lingua è un unicum inscindibile: o la si prende così com'è o niente. Le parole sono specchio della realtà e devono veicolare contenuti uguali per tutti. Parlato e scritto possono essere sovrapponibili. Il linguaggio deve essere il più possibile standardizzato, altrimenti l'unificazione linguistica è impossibile.

In secondo luogo dissero, a ragione, i manzoniani, occorreva assolutamente rinunciare alle tesi dei puristi secondo cui il fiorentino da imitare doveva restare quello trecentesco.

Dello stesso avviso erano, a conti fatti, sia E. De Amicis (L'idioma gentile, 1906) che C. Collodi (benché quest'ultimo fosse assai meno fiducioso che l'unità politica della nazione avrebbe portato sicuro progresso a tutti).

Va detto tuttavia che già ai tempi del Manzoni, sia il Foscolo che il Leopardi la pensavano in maniera diversa. Il primo (Origin and vicissitudes of the italian language) stimava sì il fiorentino del '300 come il volgare illustre per eccellenza, ma era altresì convinto che il trionfo delle tesi bembiane avesse nel complesso impoverito l'uso di tale volgare e arbitrariamente impedito l'uso letterario di tutti gli altri volgari. Costringere la lingua entro gli angusti spazi di un vocabolario, che sanziona il lecito e l'illecito, è come ucciderla, diceva il Foscolo. Infatti l'italiano per lui, come per C. Gozzi, era "una lingua morta".

Per Leopardi (che pur circoscriveva la questione della lingua a un mero problema di "stile") non avrebbe avuto senso adottare il fiorentino rinunciando a quei termini divenuti già nazionali o perché importati dalle lingue straniere o perché già impostisi a livello nazionale per unanime consenso degli intellettuali. Inoltre egli riteneva che nel suo presente si dovessero valorizzare gli apporti che poteva offrire il linguaggio popolare che, in taluni casi, poteva sicuramente rinnovare la lingua letteraria. In ogni caso anche per lui il primato andava concesso agli scrittori contemporanei più illustri, i quali, anche se inferiori a quelli del '300, erano comunque gli unici che potevano dare un carattere di "modernità" alla lingua e alla letteratura italiana.

Come si può notare, non era quindi così scontata la strada della codificazione definitiva dell'egemonia del fiorentino sul territorio nazionale.

Il primo a polemizzare contro tale dittatura culturale, che si voleva sancire con l'unificazione appena avvenuta, è stato il glottologo lombardo G. I. Ascoli (

-- "Lettere glottologiche", 1887 -- che riprese alcune tesi di G. Baretti, sviluppandole in maniera originale. Egli infatti da un lato è disposto a riconoscere l'importanza del fiorentino per gli esordi della lingua italiana, ma dall'altro è convinto che i tempi siano sufficientemente maturi perché gli intellettuali comincino a valorizzare anche le altre parlate, altrimenti essi finiranno col compiere un mero lavoro imitativo di un linguaggio estraneo (come poi è avvenuto nei Promessi sposi). Tanto più che Firenze non è più, come un tempo, l'unico centro culturale della nazione, né è possibile sostenere che il dialetto fiorentino dell'800 sia ancora quello dei grandi scrittori del '300. Paragonare Firenze a Parigi -come fa il Manzoni- non ha senso, dice l'Ascoli.

Dunque ogni lingua, specie se essa viene messa per iscritto, doveva esser degna di studio. La soluzione al problema dell'unità linguistica doveva esser cercata -dice l'Ascoli- nella maggior diffusione degli scambi e dei contatti tra i parlanti della nazione (unità nella molteplicità).

In Germania -dice l'Ascoli- la Riforma protestante, diffondendo largamente l'istruzione elementare e la lettura (in tedesco) dei testi sacri, aveva creato una vasta circolazione di idee ed esperienze che avevano saputo sopperire, ai fini d'un alto grado di omogeneità linguistica, all'assenza di unità politica. In Italia questo non era avvenuto. Anzi da noi la frammentazione etnico-linguistica aveva raggiunto livelli tali da paragonarci alla sola India, che però ha una superficie 14 volte maggiore. Imporre un dialetto su tutti gli altri sarebbe stato impossibile senza un forte governo centrale.

Il filologo abruzzese F. D'Ovidio non era lontano da queste posizioni.

Tra la corrente antimanzoniana, vanno segnalati:

C. Cattaneo (Principio istorico delle lingue europee, 1841), che evidenzia l'influsso delle parlate pre-latine sui dialetti italiani;

Il milanese C. Porta, per il quale la poesia non può avere codici prefissati; il vernacolo da lui usato s'avvale di presupposti colti modulati dalla satira e dall'ironia popolaresca;

Il romano G.G. Belli, il cui sonetto dialettale spiega bene l'affinità fonologica del dialetto romanesco col fiorentino; affinità dovuta al fatto che a partire dall'epoca dei Medici, vicini alla corte pontificia, questa, per ragioni politico-amministrative, si convinse ad adottare il fiorentino parlato (prima di allora il romanesco era più simile ai dialetti meridionali).

Forse la corrente più antimanzoniana di tutte fu la Scapigliatura:

Il piemontese G. Faldella usava parodiare la lingua colta mixandola con dialettismi piemontesi integrali, latinismi, grecismi, onomatopee, neo-coniazioni ecc.

Il milanese V. Imbriani era un ironico avversario del purismo, del monolinguismo e di chi disprezzava i dialetti e i neologismi; amava le avventure sperimentali sulla lingua (in questo anticipa Gadda e D'Arrigo). Voleva fondere lingua letteraria e popolare, letteratura e vita, lingua nazionale e dialetti. Il dialetto lo considerava come la radice fondamentale di tutti gli idiomi parlati dal popolo italiano, come la fonte irrinunciabile dell'espressività parlata e scritta di ogni persona;

C. Dossi mescolava milanese e toscano popolare.

Un altro acceso antimanzoniano è il verista siciliano G. Verga, che rifiuta nei suoi romanzi di usare un lingua e una sintassi già fatte e collaudate (come appunto nei Promessi sposi), preferendo invece escogitare (oltre a un'epica sconosciuta alla prosa italiana) una sintassi che s'adatti al parlato dei protagonisti (popolari), i quali anche se non usano il dialetto siciliano, parlano come se fossero loro stessi a raccontare le cose ("scrivere parlato"), cioè come se fossero autonomi dalla soggettività dello scrittore. La lingua quindi, non essendo dell'autore, deve necessariamente adattarsi alla sintassi dei protagonisti.

Su questa particolare attenzione da rivolgere al parlato era d'accordo anche G. Giusti.

Tuttavia, nonostante la corrente antimanzoniana fosse di gran lunga più cospicua di quella manzoniana, fu quest'ultima che il governo sabaudo decise di far prevalere.

Manzoni fu posto a capo di una commissione del Ministero della Pubblica Istruzione.

Il primo risultato dei lavori fu la stesura di un Dizionario della lingua italiana, basato sulla parlata fiorentina colta. Nelle scuole si adottarono manuali antidialettali e per un certo tempo fu seguita la pratica del trasferire i maestri dalla propria regione d'origine in altra di dialetto diverso, al fine d'impedire che usassero il proprio dialetto.

Questo, senza considerare che nel 1861 l'80% della popolazione risultava analfabeta, conoscendo soltanto il proprio dialetto (10 anni dopo il 60% delle persone in età scolare rifuggiva ancora dall'obbligo scolastico).

Al tempo dell'unità, se si escludono i toscani, i romani e gli alfabetizzati, l'italiano era parlato da non più di 700.000 persone (su un totale di 25 milioni di persone). Persino il re Vittorio Emanuele II sapeva parlare solo in francese e in dialetto piemontese.

Naturalmente con la scolarizzazione, l'emigrazione forzata verso le zone industriali e col trasferimento dei giovani di leva in tutto il territorio nazionale, l'uso della lingua italiana tendeva a imporsi sui dialetti. Nel primo decennio del '900 la percentuale degli analfabeti era ridotta al 38%.

Il disprezzo che le autorità governative nutrivano nei confronti dei dialetti porterà ad adottare, col fascismo, provvedimenti antistorici, dettati solo dalla demagogia: si vietò qualunque uso dialettale nelle scuole (fino a quel momento nelle Elementari i maestri erano stati praticamente bilingui), si proibì l'uso di forestierismi, si ripristinarono parole della classicità romana, si abolì l'uso del "lei" a favore del "voi", s'impose l'italofonia in Alto Adige, si manipolarono i dizionari…

E pensare che G. Gentile, autore della Riforma scolastica che porta il suo nome, ridimensionava alquanto l'uso della grammatica e affermava il ruolo positivo dei dialetti.

Persino Croce, favorevole alla libertà creativa della parola, negava qualunque potere normativo alla lingua, specialmente in campo poetico e letterario. Qualunque programma di lingue illustre imposto ai parlanti gli pareva una violazione della libertà di espressione e comunicazione.

Discorso a parte andrebbe fatto per il Manifesto futurista (1909) di F.T. Marinetti, il quale se da un lato inneggiava alle parole in piena libertà, portando all'eccesso l'eversione anarchica predicata dagli scrittori del "Caffè", dall'altro, proprio per questo suo forzato individualismo (lontano dalle contraddizioni sociali), apriva le porte, inevitabilmente, a soluzioni di tipo autoritario.

Gli antimanzoniani dell'800 chiedevano di elevare i dialetti al rango di lingue, non di contrastare l'egemonia del fiorentino favorendo l'assoluta arbitrarietà delle parole.

Il fatto è che l'affermarsi dell'idea di nazione implicava un nesso inscindibile con l'unficazione linguistica. Altre nazioni europee avevano già percorso questa strada. La lingua -dice Gramsci- inevitabilmente veniva considerata dalle classi dominanti più come uno strumento di politica culturale per la conservazione del potere che non come una risorsa da valorizzare. La corrente manzoniana, convinta della natura progressiva dell'unità nazionale sotto il vessillo di Casa Savoia, fu quella che si lasciò strumentalizzare più facilmente.

"L'italiana è lingua letteraria: scritta sempre e non mai parlata" -- Ugo Foscolo

La storia linguistica dell'Italia ha dimostrato che una lingua imposta a tutta la nazione (e nella fattispecie il fiorentino), foss'anche il volgare più illustre, non è destinata a durare.

Prima o poi tornano in auge le forze centrifughe delle parlate locali, e se queste, col tempo, son andate affievolendosi, può accadere che la lingua nazionale, essendo un prodotto artificiale, perda facilmente il confronto con altre lingue nazionali straniere, che per vari motivi tendono a imporsi: gli strati popolari, infatti, non si sentono in dovere di difenderla.

Le parlate, i dialetti, gli idiomi locali, regionali sono sempre stati visti dagli intellettuali e dal potere politico come un limite alla costruzione di una lingua nazionale e non come una risorsa tipica del nostro Paese.

Per mettere gli italiani in grado di parlarsi e d'intendersi, occorreva favorire i processi di scambio, economici, sociali, culturali…, lasciando che l'esigenza e il modo di costruire un linguaggio comune evolvessero in maniera spontanea.

Una qualunque valorizzazione "centralistica" del policentrismo linguistico porta inevitabilmente a privilegiare alcuni aspetti a danno di tanti altri.

Per valorizzarsi, i dialetti locali non avevano bisogno del centralismo politico, ma solo di condizioni sociali più democratiche, che permettessero gli scambi con facilità.

L'adozione di una lingua comune non avrebbe mai dovuto comportare la fine del dialetto locale. La lingua comune avrebbe dovuto essere usata come seconda lingua, conservando e anzi perfezionando gli strumenti della prima lingua, quella strettamente legata al territorio in cui viene usata.

Nel momento in cui un dialetto (nella fattispecie il fiorentino) s'è imposto sugli altri diventanto lingua nazionale, tutto ciò che è avvenuto dopo è diventato inesprimibile per gli altri dialetti.

In Italia è stata tolta la possibilità agli intellettuali di mettere per iscritto la loro lingua materna.

I dialetti non sono mai stati delle lingue povere.

Essi anzi potevano esprimere i complessi contenuti dell'agricoltura e dell'allevamento.

Certo non quelli tecnico-scientifici dell'epoca moderna.

La questione della lingua, per come è stata impostata da Dante, Bembo, Machiavelli, Manzoni…, non potrà mai essere rimessa criticamente in discussione se non si rivedono, storicamente, i criteri politici con cui è stata fatta l'unificazione nazionale.

Forse abbiamo ancora la possibilità di salvaguardare alcune zone territoriali ove si parla il dialetto.

Tuttavia, i guasti culturali sono stati così gravi che qualunque opera di mera conservazione dell'italiano pre-letterario rischia di diventare una battaglia contro i mulini a vento. L'unica possibilità realistica è quella permettere agli italiani di usare il proprio dialetto o il proprio regionalismo senza vergogna, senza dover sottostare a giudizi di liceità o meno.

La questione più incredibile non è stata tanto il fatto che l'unificazione (a causa dell'immaturità democratica dei politici e degli intellettuali di allora) sia avvenuta tramite annessioni senza condizioni (anche dal punto di vista linguistico), quanto piuttosto il fatto che dopo aver sperimentato per più di un secolo i tradimenti della classe borghese (agli ideali risorgimentali), ancora oggi nessuno storico si pone la domanda se le cose sarebbero potute andare diversamente o se, pur essendo andate in una determinata direzione, esista ancora oggi la possibilità di una radicale inversione di marcia.

L'affermazione dell'Umanesimo è avvenuta per le irrisolte contraddizioni dell'epoca feudale: clericalismo e servaggio, ma oggi dovremmo chiederci se i vantaggi ottenuti siano stati effettivamente superiori ai mali che la borghesia diceva di voler superare.

Può una classe essere democratica quando i suoi interessi, oggettivamente, non possono coincidere con quelli di tutto il popolo?

Oggi abbiamo un Umanesimo del tutto formale, meramente teorico, senza una reale conferma dei suoi principi nei fatti concreti: al servaggio è stato sostituito il lavoro salariato; al clericalismo il consumismo. La civiltà borghese non ha forse fatto il suo tempo, come già quella feudale e prima ancora quella schiavistica?

Attualmente la situazione linguistica italiana è caratterizzata da questa situazione:

Italiano colto e scritto

Italiano regionale parlato

Dialetto italianizzante (dialetto regionale, koinè dialettale)

Dialetto locale, arcaico (quest'ultimo sta scomparendo)

Gergo giovanile (che è un mix di b) e c), nonché di molte influenze straniere).

La lingua di ogni giorno parlata o è un italiano regionale o un dialetto regionale.

Il legame linguistico interregionale o è l'italiano scritto aulico, cioè un insieme artificiale, oppure è una lingua parlata dipendente dai mass-media.

Il fondo del lessico italiano è diventato pluriregionale.

La pronuncia della RAI è accettata su larga scala in tutto il Paese, benché questo idioma sia unanimemente considerato come

asettico
freddo
impersonale.

L'italiano scritto scolastico è l'antiparlato per definizione, in quanto i suoi termini sono molto lontani dalla realtà.

Quasi tutte le grammatiche scolastiche insegnano la varietà d'italiano colto e scritto, benché pretendano d'insegnare la lingua parlata comune.

La lingua colta che s'impara a scuola in realtà non è che una selezione povera presa dalla ricchezza della varietà della lingua colta (letteraria).

La cosa assurda di questo insegnamento è che se qualcuno utilizzasse tutta la ricchezza della lingua scritta non troverebbe poi nessuno in grado d'intenderlo.

Persino l'insegnamento della lingua materna (orale) s'incentra su quella scritta (purificata, logica, neutra, stilizzata).

Facciamo un esempio.

(a) Non credo che sia in grado di arrivare fin qui.
(b) Secondo me non arriva fin qui.
(c) Non ce la fa ad arrivare fin qui, secondo me.

La grammatica sceglierà sicuramente la prima espressione.

Quello che in sostanza non s'insegna è la varietà parlata comune di una lingua (che, per sua natura, è meno ricca ma più chiara e potrebbe essere imparata facilmente).

Le grammatiche usano la varietà d'italiano colto e scritto anche perché la varietà colta di una lingua si traduce facilmente nella varietà colta di un'altra.

In realtà l'impressione che si ha di passare facilmente da una lingua all'altra, è falsa.

Facciamo un esempio:

(a) Dubito che dica la verità.
(b) Je doute qu'il (ne) dise la vérité.
(c) I doubt that he tells the truth.

Nessuno in realtà parla così, né in italiano, né in francese, né in inglese.

Ed è altresì assurdo far imparare agli stranieri un modello fiorentino di pronuncia che di fatto è usato solo dai fiorentini, per i quali, tra l'altro, quella pronuncia costituisce la versione locale dell'italiano.

Paradossalmente la pronuncia settentrionale è diventata più standardizzata e più nazionale della stesso fiorentino, che appare municipale.

Occorrerebbe dunque, come vogliono alcuni linguisti, rinunciare alla distinzione tra "e" e "o" aperte e chiuse", tra "s" e "z" sorde e sonore, ecc., anche perché in italiano non c'è corrispondenza tra scritture e pronuncia su questi punti.

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