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Saturday, July 2, 2011

Storia della lingua italiana

Luigi Speranza

L'italiano è una lingua neolatina cioè derivata dal latino.

L'italiano moderno ha come base il fiorentino letterario usato nel Trecento da Dante, Petrarca e Boccaccio, a sua volta influenzato dalla lingua siciliana letteraria elaborata dalla Scuola siciliana di Jacopo da Lentini (1230-1250) e dal modello latino.

Il fiorentino trecentesco, come i moderni dialetti italiani, trae a sua volta origine dal latino volgare, cioè quello usato comunemente dalla gente (vulgus) fin dall'età classica (e non direttamente dal latino illustre, che fu la lingua usata dai letterati dell'epoca).

Mentre la lingua latina letteraria rimase cristallizzata, nel corso dei secoli la lingua parlata dalla plebe si trasformò, divenendo sempre più simile ai vari idiomi italiani attuali (e alle altre lingue romanze nel mondo romano fuori della penisola) e differenziandosi a seconda delle aree geografiche.

Tra gli effetti comuni di questa mutazione si possono indicare per esempio la scomparsa dei casi e la nascita degli articoli.

Per quanto riguarda gli articoli, il numerale latino unus, per esempio, che significava anche qualcuno, un tale divenne articolo indeterminativo ("unus" indeterminativo è usato anche da Ovidio nelle Metamorfosi); alcuni pronomi dimostrativi divennero articoli determinativi e nuovi dimostrativi vennero formati fondendo i vecchi "ille" e "iste" con "eccu(m)".

Caddero inoltre le consonanti finali delle parole (es.: "amat diventò ama").

Gli storici della lingua etichettano le parlate che si svilupparono in questo modo in Italia durante il Medioevo come volgari italiani, al plurale, e non ancora lingua italiana.

Le testimonianze disponibili mostrano infatti marcate differenze tra le parlate delle diverse zone mentre manca un comune modello volgare di riferimento.

Il primo documento di uso di un volgare italiano è invece un placito notarile, conservato nell'abbazia di Montecassino, proveniente dal principato longobardo di Capua e risalente al 960

E il Placito cassinese detto anche Placito di Capua, che in sostanza è una testimonianza giurata di un abitante circa una lite sui confini di proprietà tra il monastero benedettino di Capua afferente al Benedettini dell'abbazia di Montecassino e un piccolo feudo vicino, il quale aveva ingiustamente occupato una parte del territorio dell'abbazia:

sao ko kelle terre
per kelle fini que ki
contene trenta anni le
possette parte Sancti
Benedicti.

È una frase soltanto, che tuttavia per svariati motivi può essere considerata ormai volgare e non più latina.

I casi (salvo il genitivo "Sancti Benedicti", che riprende la dizione del latino ecclesiastico) sono scomparsi, sono presenti la congiunzione

"ko"

(="che") e il dimostrativo

"kelle"

(="quelle"), morfologicamente il verbo

"sao"

(dal lat. "sapio") è prossimo alla forma italiana, ecc.

Questo documento è seguito a brevissima distanza da altri placiti provenienti dalla stessa area geografico-linguistica, il Placito di Sessa Aurunca e il Placito di Teano.

Uno dei primi casi di diffusione sovraregionale della lingua è la poesia della scuola siciliana, scritta verosimilmente in volgare siciliano da numerosi poeti (non tutti siciliani) attivi prima della metà del Duecento nell'ambiente della corte imperiale.

Alcuni tratti linguistici con questa origine vennero adottati anche dagli scrittori toscani delle generazioni successive e si sono mantenuti per secoli nella lingua poetica italiana.

Dalle forme monottongate come core e loco ai condizionali in "-ia" ("saria" per "sarebbe").

L'assetto attuale della lingua è in sostanza quello del fiorentino trecentesco, ripulito dei tratti più marcatamente locali.

Tra i numerosi tratti che l'italiano riprende dal fiorentino trecentesco, e che erano invece estranei a quasi tutti gli altri volgari italiani, si possono citare per esempio, a livello fonetico, cinque elementi individuati da Arrigo Castellani:

i "dittonghi spontanei" ie e uo (piede e nuovo invece di pede e novo)

l'anafonesi (tinca invece di tenca)

la chiusura di e protonica (di invece di de)

l'evoluzione del nesso latino -RI- in i invece che in r (febbraio invece di febbraro)

il passaggio di ar atono a er (gambero invece di gambaro)

Già dalla fine del Trecento la lingua parlata a Firenze si distacca però da questo modello, che successivamente viene codificato da letterati non fiorentini (a cominciare da Pietro Bembo) e usato come lingua comune per la scrittura in tutta Italia a partire dalla seconda metà del Cinquecento.

Secondo una celebre definizione di Bruno Migliorini,

«Se leggiamo una pagina di prosa, anche d'arte, degli ultimi anni del Quattrocento o dei primi del Cinquecento, ci è di solito abbastanza facile dire da quale regione proviene, mentre per un testo della fine del Cinquecento la cosa è assai malagevole»[3].

A partire da questo periodo gli storici della lingua parlano quindi ormai di lingua italiana in senso moderno, e non più di volgare fiorentino.

Di fatto, però, l'italiano rimase lingua di uso quotidiano per fasce molto ridotte della popolazione italiana, almeno fino alla seconda metà dell'Ottocento.

A questo punto si deve a un altro pioniere della lingua italiana, Alessandro Manzoni, l'aver adottato il fiorentino come lingua ufficiale dell'Italia, che proprio allora stava nascendo come nazione.

La sua decisione di donare una lingua comune alla nuova patria, da lui riassunta nel celebre proposito di «sciacquare i panni in Arno», fu il principale contributo di Manzoni alla causa del Risorgimento.

In seguito, grandi fattori storici come l'unificazione politica o la Prima guerra mondiale hanno contribuito a rendere l'uso della lingua molto più comune.

Nella seconda metà del Novecento la diffusione è stata particolarmente rapida anche grazie al fondamentale contributo della televisione.

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