Augusto fu totus politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendicava egli stesso nelle sue memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini politici. Si trattava di un «miracolo» ed egli capì subito che andava capitalizzato. Durante i giochi da lui organizzati in memoria di Cesare, nel luglio 44 - momento di massima incertezza politica, tra 'liberatori' perplessi e cesariani frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben sette giorni. Il fenomeno fece molta impressione. «Il volgo - scrisse Augusto nelle sue memorie - credette (vulgus credidit) che quella stella significasse che l'anima di Cesare era stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto (quo nomine)
feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di Cesare che feci consacrare nel foro».
Il brano è citato da Plinio nella Naturalis Historia, il quale commenta: «Queste furono le sue parole, destinate al pubblico, ma una gioia intima gli suggeriva che quella stella era nata per lui, e che lui nasceva in essa» (II, 93). L'episodio ha avuto una eco imponente nella letteratura poetica e storiografica, coeva e successiva. La formale decisione del Senato romano - che stabili essere Giulio Cesare un dio - ebbe luogo il primo gennaio del 42:
Divus lulins. In tal modo Ottaviano diventava ope legis «figlio di Dio», Divi filius. C'è chi pensa che già nell'agosto 43, in concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, Ottaviano abbia ottenuto tale prezioso riconoscimento'. Ma di fatto le premesse Ottaviano le aveva poste con l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una vasta tradizione superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio.
Ma al benefico «astrum Caesariso fa già riferimento Virgilio giovane, e ormai rinfrancato, nell'Ecloga IX, v. 47.
La carriera di Augusto era incominciata già l'anno prima, quando, neanche allora in ottima salute, aveva raggiunto Cesare in Ispagna per esser presente all'ultima durissima lotta contro i pompeiani, culminata nella battaglia, fino all'ultimo incerta, di Munda. Difficile stabilire se Cesare lo avesse già allora notato, se Azia - madre di Ottaviano - abbia attratto l'attenzione di Cesare su di lui, se Ottaviano abbia forzato la situazione superando le esitazioni materne.
Quanto ci sia di riscrittura post eventum e quanto invece di
autenticamente vero in questo passaggio, che i biografi cortigiani di Augusto esaltarono come premonitore, forse non si potrà mai accertare.
In ogni caso spicca la capacità dimostrata da Cesare di scegliere un 'successore', In politica non accade quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre che l'idea della propria indispensabilità, anche la certezza della propria superiorità. Di qui la loro sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel quale pur debbono 'pescare' chi verrà dopo di loro.
A sua volta Augusto ha cercato per anni, e resta tra gli arcana delle sue ultime ore di vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta (Svetonio, Vita di Tiberio, 21). E ben si comprende: Cesare sceglieva un figlio adottivo ed erede che poteva, se si fosse confermato capace, diventare un capoparte; Augusto, invece, pur avendo «restaurato la repubblica» cercava un successore. Anche dal modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali viene fuori il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la certezza della propria insostituibilità' (che rende, tra l'altro, ancor più disperante la ricerca di un successore) si sposa con la tenacia nel perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione, dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una riproposizione aggiornata del 'principato di Pompeo'.
Gli anni della lunga pace non erano stati facili. Non erano mancati, in quei lunghi anni di governo solitario, congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si riaprissero. Da qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non irrilevanti. E se Seneca ne era informato vuol dire che ne trovava la traccia nelle inedite Historiae ab initio bellorum civilium che suo padre aveva continuato a scrivere e ad aggiornare ma non se l'era sentita di pubblicare. E anche questa prudenza di uno storico accorto, che da giovane aveva fatto a tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per Augusto, alla fine, l'unica scelta possibile era quella della «storia sacra». Perciò, quando la lunga 'pace civile' del suo interminabile governo non ebbe più bisogno di una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica, egli inventò un altro strumento che affermasse in modiessenziali e monumentali, sperabilmente 'per sempre', la sua verità: il solenne e sacralizzante riepilogo dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi, non soltanto ad una cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nacque in lui l'idea delle Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero e perciò salvatesi: covate e limate nel corso degli anni, e alla fine pronte, oltre che per l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato intimidito e allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca dell'erede designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui Druso. Per Roma era una radicale novità. Era la via epigrafica alla «storia sacra», sul modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico (Dario a Bisutun) e del mondo egizio, faraonico e poi
Il ruolo delle Res gestae era quello non solo di dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare anapoditticamente ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare accettare questa 'verità' come l'unica vera nel momento stesso in cui la successio dinastica ne rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro grandezza e, insieme, la loro fragilità.
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